Evagrio Pontico, Sentenze.
gli otto spiriti della malvagità, Città Nuova, Pagine 110.
Euro 10,00 Evagrio Pontico, monaco del IV secolo, è una figura tra le più luminose in quel mosaico scintillante di fede e di vita cristiana che sono i padri del deserto.
E possiede anche una particolarità quasi unica.
Se infatti conosciamo gli altri padri quasi esclusivamente per i «detti» loro attribuiti o – come nel caso della famosissima Vita di Antonio scritta da Atanasio di Alessandria – attraverso opere di autori successivi, Evagrio ci è noto soprattutto per gli abbondanti scritti che lui stesso ci ha lasciato e che fin da subito hanno conosciuto un’enorme diffusione e influenza sia nell’area mediorientale che nel mondo latino.
Ora la benemerita collana divulgativa di «Testi patristici» edita da Città Nuova ci propone una raccolta di brevi scritti evagriani, curata da Lucio Coco: nell’agile volume, sono accostati una serie di «sentenze» e il trattato su «gli otto spiriti della malvagità», uno dei primissimi testi ad aver analizzato finemente quelli che in occidente diventeranno noti come i vizi capitali.
Se le sentenze – redatte nel genere letterario dei «proverbi» biblici – sono dirette innanzitutto ai monaci e alle vergini, le riflessioni sugli spiriti malvagi rivelano la grande universalità degli interrogativi e delle tentazioni che affliggono non solo chi conduce vita monastica, ma ogni uomo e ogni donna, di ogni epoca, cultura e latitudine.
Per il lettore che monaco non è, può essere allora molto utile tornare alle «sentenze» più specificatamente monastiche dopo aver analizzato sotto la guida di Evagrio il proprio rapporto con quelle pulsioni che abitano il corpo e la mente e che vanno sotto i nomi divenuti classici di gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria e superbia.
Chi può in verità dire di non averle sperimentate come forze che condizionano il proprio agire e il proprio pensare? Chi non riconosce come assillanti compagni di cammino questi pensieri viziati da un malvagio ripiegamento su di sé? Davvero sono tentazioni universali, proprio perché nascono dall’unica fondamentale paura che domina e aliena ogni essere umano: la paura della morte.
Paura che è alla radice di tutte le altre, nonostante nel contesto culturale attuale, specie in occidente, si faccia di tutto per rimuovere la realtà della morte, con il risultato che è proprio lei ad abitare le nostre vite come un’angoscia di cui non sappiamo decifrare il volto.
Mossi dalla paura della morte, vogliamo preservare con qualsiasi mezzo la nostra vita, vogliamo possedere per noi stessi i beni della terra, vogliamo dominare sugli altri.
Pensiamo di assicurarci in tal modo una vita abbondante, illudendoci di poter combattere la morte con l’autoaffermazione, e giungiamo a considerare ragionevole e giusto ogni comportamento finalizzato a questo scopo, anche a costo di nuocere agli altri e persino a noi stessi.
E così finiamo inevitabilmente per imboccare sentieri di morte… Di fronte a questa possibile deriva dell’animo umano, chi vive nel silenzio del deserto non conosce esenzioni, non è preservato, non può vantare privilegi o certezze.
Solamente può avere a disposizione il tempo e lo spazio per discernere i moti dello spirito e sforzarsi – giorno dopo giorno, nella concretezza di un quotidiano che non rimuove ma affronta la paura della morte – di crescere nell’amore, «più forte della morte».
Altrimenti, il suo splendido isolamento non solo è inutile ma diviene dannoso perché, come osserva Evagrio, è «meglio stare in mezzo a mille uomini che da solo con odio in segrete spelonche».
in “Avvenire” del 23 ottobre 2010
Categoria: In libreria
I vangeli apocrifi. vol I
Armand Puig i Tàrrech, «I vangeli apocrifi.
I», a cura di Claudio Gianotto, San Paolo, Cinisello Balsamo, pagg.
412, C 32,00.
Da Agra, l’indimenticabile capitale moghul, la città che è nel ricordo di tutti i turisti per il suo prodigioso Taj Mahal («una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo», come lo definiva Tagore), si scende versod sud-ovest per una quarantina di chilometri ed ecco pararsi innanzi la città fantasma di Fatehpur Sikri, edificata in pochi anni nel ‘500 dall’imperatore Akbar come una sorta di utopico crocevia interreligioso, a partire dalla base islamica.
La sua din-i-llahi, la “religione di Dio”, era un arcobaleno sincretistico di fedi diverse.
È anche per questo che sulla moschea della città era stata apposta questa iscrizione: «Gesù – che la pace sia con lui – disse: Il mondo è un ponte.
Attraversalo, ma non fermarti qui».
Siamo partiti così da lontano per parlare di una realtà letteraria e religiosa che ha sempre affascinato, quella degli “apocrifi” cristiani, cioè di quegli scritti – talora simili solo a briciole – che raccoglievano detti o vicende di Gesù (e poi dei suoi apostoli) ignoti ai quattro Vangeli canonici.
Il termine di matrice greca “apocrifo”, ossia “nascosto, celato, segreto”, in realtà aggiungeva un’ulteriore connotazione di esoterismo quasi misterico che a volte veniva favorita dagli stessi autori di tali opere.
Ad esempio, l’importante Vangelo di Tommaso, che offre un campionario molto suggestivo di114 lóghia o ‘detti” di Cristo, inizia così: «Queste sono le parole segrete che Gesù, il Vivente, ha detto.
Didimo Giuda Tommaso le ha scritte e ha detto: Colui che troverà l’interpretazione di queste parole non gusterà la morte».
Tale accezione iniziatica del termine “apocrifo” si trasformerà negativamente in quella di ‘falso”, certo, per la contrapposizione a ciò che era “canonico”, cioè la Scrittura ufficialmente accolta dalla Chiesa, ma anche per la tutt’altro che rara tentazione, rivelata da questi scritti, di aggiungere ai dati, talora storicamente autentici, la spezie della fantasia (i cosiddetti “Vangeli dell’infanzia di Gesù” ne sono la prova irrefutabile) o l’avallo delle proprie teorie teologiche.
Che siano, comunque, preziosi per ricostruire il fondale storico-culturale-spirituale della cristianità delle origini è fuori di dubbio, come lo sono anche per poter spiegare e giustificare tradizioni sopravvissute sino ai nostri giorni e per decifrare molti soggetti dell’iconografia cristiana.
Tanto per fare un esempio, se una nostra lettrice di nome Anna volesse identificare il passo esatto dove entra in scena la sua celebre omonima madre di Maria, vanamente sfoglierebbe i quattro Vangeli della sua Bibbia.
È, infatti, il Protovangelo di Giacomo, composto tra il 150 e il 200, a custodire queste e molte altre memorie sulla vita di Maria, la madre di Gesù.
Ma ritorniamo all’iscrizione indiana da cui siamo partiti.
Se prendete tra le mani il primo volume finora apparso de I vangeli apocrifi, curato dall’esegeta catalano Armand Puig i Tàrrech, troverete questa frase come la ventiseiesima di una serie classificata sotto il termine greco di ágrapha, cioè di “(parole) non scritte”, assegnate a Gesù ma ignote ai Vangeli canonici.
Il primo di questa sequenza di detti è nientemeno che nel Nuovo Testamento ed è in bocca a san Paolo: negli Atti degli Apostoli (20,35) si legge infatti che l’Apostolo invitava i capi della chiesa di Efeso a «ricordare la parola del Signore Gesù che disse: C’è più felicità a dare che a ricevere».
È, questo, un settore piuttosto significativo del pianeta letterario-teologico degli apocrifi e.
per ragioni di completezza, nel libro vengono registrati anche quegli ágrapha che sono incastonati come pagliuzze cristiane nel tessuto delle tradizioni musulmane (lo scorso anno, a cura di Sabino Chialà, la Fondazione Valla ha dedicato, nella sua collana edita da Mondadori, un testo specifico sui Detti islamici di Gesù).
È noto, infatti, non solo il rilievo del “profeta” Gesù nel Corano, ma anche i molteplici contatti che l’islam ebbe col cristianesimo, non di rado eterodosso, fin dal suo primo germogliare con Maometto.
L’epigrafe di Fatehpur Sikri potrebbe offrire un detto generato da altri detti evangelici di Gesù, come quelli sul vero tesoro, che non è nella passeggera ricchezza terrena, e sul non affannarsi nell’accumulo di beni transitori (si vedano Matteo 6,19-34 e Luca 12,16-31).
Curiosamente anche nel citato Vangelo di Tommaso abbiamo questa frase di Gesù: «Siate gente di passaggio».
Ci siamo soffermati su questo genere particolare di apocrifi, ma l’orizzonte è ben più vasto e comprende vere e proprie narrazioni “evangeliche” elaborate in almeno tre secoli e dalle iridescenze variegate e molteplici.
Dopo tutto, già lo stesso Luca nel prologo al suo Vangelo ricordava che «molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno tramandati i testimoni oculari» (1,1-2).
E, sia pure con evidente enfasi retorica, la seconda fmale del Vangelo di Giovanni ammoniva che «vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (21,25).
La raccolta di Puig i Tàrrech dispiega una mensa ricca, comprendente i Vangeli di matrice giudeo-cristiana, quelli pittoreschi dell’infanzia di Gesù (a cui sopra accennavamo), i racconti della sua passione, morte e risurrezione (da considerare in particolare il Vangelo di Pietro, scoperto nell’inverno 1886-87 all’interno di una tomba di un monaco cristiano nell’Alto Egitto) e, infine, il testo del Transito di Maria, vale a dire il racconto della sua morte e assunzione, uno dei più rilevanti apocrifi che trattano questo tema.
Sarà come compiere un viaggio in un mondo di meraviglie narrative e spirituali ove verità e fantasia s’incrociano e ove non manca forse neanche qualche “patacca” (o sospetta tale).
È il caso di quel misterioso Vangelo segreto di Marco che lo studioso americano Morton Smith affermò di aver scoperto nel 1958 nel monastero di Mar Saba nel deserto di Giudea, citato nella copia di una lettera sconosciuta di Clemente Ale ssandrino.
Delle tre pagine di quella lettera egli fece una fotografia, ma l’originale non fu mai ritrovato e lo stesso Smith si decise a rendere pubblica la sua “scoperta” e la relativa e ormai sbiadita testimonianza solo nel 1973…
Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 17 ottobre 2010
La vocazione di San Matteo del Caravaggio
Nella poetica di Michelangelo Merisi, il Caravaggio, la ricerca degli effetti di luce e di ombre, ben più che virtuosismo pittorico, è mezzo per far passare messaggi simbolici.
Nella “Vocazione di san Matteo” della cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma il pittore traduce in immagini un tema dell’evangelista Giovanni: Cristo, il Verbo incarnato, luce del mondo, si espone all’accettazione o al rifiuto degli uomini, l’accettazione di chi nella fede gli si consegna, il rifiuto di chi preferisce le tenebre alla luce.
Dice il prologo del quarto Vangelo: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio” (1, 9-12).
Nel quadro, la contrapposizione risulta dall’atteggiamento dei personaggi ritratti sotto il raggio che taglia di netto l’oscurità dell’ambiente.
L’oscura bottega del pubblicano Matteo è il luogo consacrato al culto del “Mammona di iniquità”.
Questo nome, evocativo del dio della ricchezza nel pantheon degli antichi fenici, designa nel Vangelo l’idolatria del denaro.
Gesù ne fa uso quando ammonisce: “Non potete servire due padroni, Dio e Mammona” (Matteo 6, 24).
Il bancone funge da altare di un culto che raccoglie una piccola assemblea di “devoti” impegnati nel conteggio delle monete.
Al centro è Matteo che sembra officiare la peculiare liturgia di cui si è fatto ministro.
L’irruzione di Gesù accompagnato da Pietro provoca reazioni diverse.
Le due figure a sinistra sono talmente assorbite nelle operazioni di conteggio da non fare il minimo caso all’intervento e, meno che mai all’invito di Cristo a Matteo.
Al contrario, la luce improvvisa non fa che acuire l’attenzione alle monete scrutate perfino con l’ausilio di un paio di occhiali.
Sul medesimo tavolo, davanti all'”officiante” Matteo è in bella evidenza il libro delle scritture dove la penna del pubblicano annota con diligenza i movimenti d’andare e venire di quel “signore” fino a quel momento padrone della sua vita e dei suoi pensieri e progetti.
Ben altre saranno in un tempo a venire – ma che già si annuncia col visitatore che si affaccia alla porta – le scritture che Levi Matteo consegnerà col suo Vangelo alla memoria del popolo di Dio e a quella di ogni uomo di fede.
Accanto al libro la borsa delle monete richiama per contrasto la prescrizione di Cristo: “Non procuratevi oro né argento né rame nelle vostre cinture…” (Matteo 10, 9).
Non è estranea alla “liturgia” in corso la presenza di armigeri; anche la spada di quello seduto di spalle parrebbe un attrezzo che ha parte nel rituale.
Non per nulla Francesco d’Assisi farà a suo tempo notare al vescovo Guido: “Se possedessimo beni dovremmo provvederci di armi per poterli difendere!”.
Diversamente dai primi due personaggi, Matteo e i giovani armigeri si lasciano scuotere dall’irruzione dei due nuovi venuti; lo dice il movimento degli occhi, dei volti e la torsione dei corpi.
Le mani del pubblicano segnalano un evidente contrasto.
La destra è irrigidita sul banco e sulle monete, mentre la sinistra si porta vivacemente sul petto.
La faccia interroga il volto di Cristo come per chiedere: “Per me sei venuto? Proprio qui dove non si fa che negoziare e trattare denaro?” La mano tesa di Cristo e quella di Pietro non lasciano adito a dubbi: “I tuoi affari e il tuo denaro sono per te una prigione, viene a te il Regno di Dio, si fa presente con me alla porta della tua vita e ti richiede”.
Il resto, che riguarda lo stile di vita legato alla nuova avventura, lo dice l’abbigliamento dimesso ed essenziale dei due nuovi venuti, in contrasto evidente coi ricchi abiti dei presenti, ricercati nella foggia secondo gusti contemporanei al pittore.
Il tratto anacronistico rimanda alla perenne attualità di un dilemma, che non muta coi tempi o con un cambio d’abito, tra il culto di Dio e l’idolatria del denaro.
Osservando la scena con maggiore attenzione si nota un particolare che va ulteriormente indagato: la mano di Gesù, nel gesto e nella posizione delle dita ricalca con sorprendente esattezza il gesto fissato sulla volta affrescata della Sistina, dove un altro Michelangelo aveva ritratto la creazione dell’uomo.
La mano dell’Adamo della Sistina che per il tocco del dito di Dio si desta alla vita, la ritroviamo nel quadro di San Luigi dei Francesi, ed è quella di Gesù che, secondo la teologia di san Paolo, è il nuovo Adamo venuto a infondere nell’uomo la vita divina secondo lo Spirito.
Quella mano tesa verso il peccatore Matteo da parte del Figlio dell’Uomo in cui ha sede in pienezza la grazia divina, viene a colmare la distanza tra Dio e l’uomo, l’abisso scavato dal peccato del nostro comune progenitore, a danno proprio e della sua discendenza.
Sarà attraverso la mano del Figlio, nuovo Adamo, che il Padre potrà generare a sé altri figli secondo lo Spirito, affrancati dal potere invincibile che li assoggetta alla schiavitù della morte.
Con lui e per lui potrà avere inizio di un nuovo esodo di liberazione verso la vita.
È proprio in vista di quel nuovo esodo che al pubblicano Matteo è chiesto di lasciar tutto per aver parte tra i dodici che più da vicino seguiranno il Signore.
Il particolare della mano pone tra l’altro una domanda relativa all’affresco della Sistina: perché mai Michelangelo nell’interpretare il racconto della Genesi si è discostato dall’immagine biblica (Genesi 2, 7): “Dio soffiò nelle narici [dell’uomo] e divenne l’uomo un’anima vivente”? È solo per una scelta formale che il pittore ha evitato di ritrarre il Creatore nell’atto esteticamente meno gradevole di soffiare sul volto di Adamo e ha preferito la movenza armoniosa delle due mani protese? La risposta si trova nell’inno notissimo della liturgia romana, il “Veni Creator” che designa lo Spirito Santo col titolo di “digitus paternae dexterae”, dito della destra del Padre.
Nei versetti seguenti troviamo poi invocazioni del tutto in carattere col tema della vita divina infusa nell’uomo: “Accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus”, accendi di luce i sensi, infondi l’amore nei cuori.
La folgorazione di luce e le risonanze interiori opera dello Spirito, sono ancora più chiaramente figurate dal raggio che irrompe nel luogo, simultaneamente all’ingresso di Gesù e di Pietro, e che dà vita al contrasto di colori, di ombre e di espressioni, nelle figure e nei volti della piccola corte adunata.
È proprio all’ingresso di Cristo che la buia stanza si illumina.
Infatti, dalla finestra nessun barlume traluce a vincere l’ombra incombente.
Invece, nel vano di quella finestra oscurata, sopra la mano di Gesù protesa in avanti, è profilata una croce spoglia di ogni apparenza gloriosa, ma collocata in posizione eminente rispetto alla scena, con più che probabile significato simbolico.
Un’ultima osservazione concerne un fatto fuori norma rispetto all’iconografia classica: la figura di Cristo è collocata in secondo piano mentre in primo piano, ritratta di spalle, sta la figura di Pietro.
Se il primo degli apostoli – che con la mano replica a suo modo, quasi con timidezza, il gesto di Cristo – è nell’intenzione figura simbolica della Chiesa, il pittore ci sta mettendo di fronte a una indicazione precisa: l’invito a seguire Cristo passa per una Chiesa che unisce grandezze e miserie, slanci di fede e rinnegamenti.
L’obbedienza da parte di una fede matura comporta spesso l’accettazione del limite storico che sempre condiziona la Chiesa in cammino e che bisogna poter trascendere.
È proprio passando e soffrendo per le molte contraddizioni avvertite che spesso alla gente di fede è chiesto di cercare l’incontro con Cristo, fino a ritrovare la nobiltà del volto di lui e l’autorevolezza del gesto con cui ci chiama a seguirlo.
di Giorgio Alessandrini Il giornale della Santa Sede da cui è ripreso l’articolo: > L’Osservatore Romano
Questioni di fede.
RAVASI GIANFRANCO, Questioni di fede 150 risposte ai perche’ di chi crede e di chi non crede, Mondadori, Milano 2010, EAN : 9788804604707, Prezzo € 19,00 Perché Dio permette il male e la sofferenza? Che cosa ci attende dopo la morte? Come conciliare la fede cristiana con la teoria evoluzionistica? Sono alcune delle tante domande, scomode e affascinanti al tempo stesso, che vengono spesso rivolte a monsignor Gianfranco Ravasi.
Il celebre biblista ne ha raccolte centocinquanta, offrendo a ciascuno di questi interrogativi, che accompagnano il cammino di credenti e non credenti, una risposta chiara e argomentata.
Affrontare con le corrette coordinate metodologiche i testi della tradizione giudaico-cristiana è la condizione imprescindibile per rispondere non solo alle domande più spinose e cruciali, ma anche a interrogativi insoliti e curiosi: Gesù ha mai riso? Sapeva leggere e scrivere? Quali lingue parlava? Monsignor Ravasi guida il lettore nel mistero della vita e della fede, e tra le innumerevoli sfumature di quel capolavoro irripetibile che è la Bibbia.
Denaro e paradiso
E.
GOTTI TEDESCHI, R.
CAMMILLERI, Denaro e paradiso.
I cattolici e l’economia globale, Lindau, Torino, 2010, pp.
160, euro 15,00.
«Questo libro offre ulteriori motivi per riflettere sul senso da dare alla propria vita e alle proprie azioni, su cosa significhi fare economia in senso autentico perché, in realtà, l’economia ispirata ai criteri morali cristiani non manca di produrre veri e propri vantaggi competitivi.
Non si tratta di un’irrealistica, velleitaria utopia ma della concreta possibilità, oggi più che mai attuale, di un’economia capace di far convivere esigenze produttive, benessere materiale e pienezza umana.» Card.
Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di S.S.
Benedetto XVI Denaro e paradiso è il dialogo lucido e appassionato tra un intellettuale curioso e un economista non accademico sulle possibilità di applicazione in economia della morale cattolica.
Questa, lungi dall’essere contro il capitalismo o le leggi di mercato, rappresenta un potenziale vantaggio competitivo, da esaltare piuttosto che da reprimere, perché permette all’uomo di realizzare integralmente se stesso secondo la propria libertà.
Attraverso una riflessione che spazia dai grandi principî alle forme concrete assunte dai rapporti economici nel corso della storia umana, i due autori tentano una riconciliazione, in un periodo di globalizzazione e di crisi mondiale, tra morale e mercato, mostrando i benefici che ne possono derivare: la morale può rendere più efficace il mercato, senza che l’economia e la ricchezza ostacolino una vita pienamente cristiana.
GLI AUTORI Ettore Gotti Tedeschi è stato nominato dal card.
Tarcisio Bertone, nel settembre 2009, Presidente dello IOR.
È anche consigliere economico del ministro del Tesoro, consigliere della Cassa Depositi e Prestiti, presidente del Fondo italiano per le infrastrutture F2i, presidente di Santander Consumer Bank e docente all’Università Cattolica.
È inoltre editorialista dell’«Osservatore Romano» e del «Sole 24 Ore».
Rino Cammilleri è autore, presso i maggiori editori nazionali, di una trentina di libri, alcuni dei quali tradotti in più lingue.
La sua produzione spazia dalla narrativa alla saggistica.
In quest’ultimo ambito ricordiamo Gli occhi di Maria, scritto con Vittorio Messori, e, editi da Lindau, Dio è cattolico? e Antidoti.
Tiene rubriche su «Il Giornale» e sul mensile «Il Timone».
Il suo sito Internet è: www.rinocammilleri.com.
DAL LIBRO Che cosa è questa globalizzazione di cui si parla tanto? Globalizzazione vuol dire innanzitutto liberalizzazione.
Questa può riguardare i mercati, riferendosi perciò alla libera circolazione delle merci, dei capitali e degli uomini, implicando in tal modo la caduta di ogni barriera.
In quanto tale è figlia del capitalismo.
Ma la liberalizzazione potrebbe anche riguardare la cultura e i costumi, e ciò provocherebbe un’omogeneizzazione fra i popoli, la nascita di una vera «società aperta».
In quanto tale essa influenzerà il capitalismo stesso.
Caduta di ogni barriera e «società aperta» sono i due sintomi del mondo globale.
Dopo la scoperta del Nuovo Mondo e la rivoluzione industriale, la globalizzazione è la più grande trasformazione economica e sociale mai avvenuta, le cui implicazioni ancora sfuggono, sono contraddittorie e non sufficientemente comprese.
Da un punto di vista più politico essa è stata una conseguenza della fine della guerra fredda; da un punto di vista economico essa è stata accelerata dai grandi investimenti tecnologici che si sono trasferiti dalla difesa al mercato.
In sintesi, la fine della contrapposizione USA-URSS ha reso inutili i muri-barriere reali e virtuali e ha reso disponibili le risorse finanziarie e tecnologiche per una pacifica guerra di mercato.
E le sue radici culturali? Per alcuni dette radici stanno nei principi di fratellanza universale, uguaglianza e libertà (di spirito illuministico); per altri stanno invece nello spirito di progresso insito nell’uomo, che è orientato all’universalizzazione.
Io credo che le radici stiano nella capacità dell’uomo di agire quando è libero di farlo.
Quali sono i meccanismi della globalizzazione? I meccanismi sono politico-economici.
La caduta del muro di Berlino (o, meglio, la fine del comunismo) sancisce il trionfo di un modello economico e sociale che, senza più ostacoli, confini e barriere, cerca di imporre un modello liberista che promette benessere e quindi pace a tutto il mondo, Paesi poveri per primi, grazie alle capacità tecnologico-produttive disponibili (che sono frutto, anche, delle ricerche per la difesa, in particolare il cosiddetto «scudo stellare»).
Per realizzarlo si chiede l’apertura dei mercati, la fine delle regolamentazioni, dei protezionismi, degli Stati imprenditori.
Garanzia implicita che si fa sul serio è la logica dell’economia di massa che vuole tutti provvisti di potere d’acquisto omogeneo: in pratica, lo sfruttamento è finito, la tecnologia permette di farne a meno; apriamo le porte alla globalizzazione e tutti staranno meglio.
In Europa questo processo è stato avviato (curiosamente, proprio da governi di centro-sinistra) ridimensionando il ruolo degli Stati in economia (privatizzazioni, fine dello Stato sociale…) e sottraendo loro molte funzioni, poi accentrate in organismi europei dopo aver varato la moneta unica.
I Paesi poveri per ora ottengono, mancando le risorse finanziare nei Paesi ricchi, molte promesse.
Ma devono accontentarsi di molte visite di delegazioni e di sapere che staranno meglio solo se ridurranno la loro natalità.
In compenso i Paesi ricchi cominciano ad assorbire la loro manodopera onde equilibrare gli scompensi di popolazione prodottisi negli ultimi trent’anni.
L’auspicato processo di globalizzazione ha subito una battuta d’arresto con l’attentato alle Torri gemelle di New York nel settembre 2001, un evento che ha peggiorato la crisi economica già in atto e ha creato lo spettro del terrorismo globale.
A seguito di questo attentato gli USA hanno fatto la guerra all’Iraq, guerra che li ha divisi da gran parte dell’Europa, rischiando di creare problemi allo stesso processo di unione europea.
Gli USA sembrano voler decidere (come sempre è accaduto dopo crisi con gli europei) nuove alleanze con Russia e Cina per accelerare il processo di globalizzazione in queste aree.
Nel vertice di Cancún del settembre 2003, USA ed Europa si sono ritrovate unanimi, questa volta contro i Paesi poveri che vorrebbero poter esportare i loro prodotti agricoli dove ci sono i soldi per comprarli, cioè da noi, mentre noi, per proteggere i nostri agricoltori, imponiamo dazi.
Sempre nel settembre 2003 noi europei ci siamo ritrovati d’accordo con i cugini americani nel lamentarci della competizione cinese che mette in difficoltà le imprese occidentali, dimenticando che molti prodotti importati dalla Cina sono fatti da imprese occidentali là operanti.
Ma il principio della globalizzazione non doveva essere l’apertura dei mercati, la fine di barriere e protezioni? Il beneficio della globalizzazione non doveva risiedere nel vantaggio di più bassi costi grazie alle importazioni di beni da chi può vendere a minor prezzo? Bene, da questo paradosso si comprende che i principi sono una cosa e le attuazioni un’altra.
INDICE Prefazione, card.
Tarcisio Bertone Premessa Introduzione Denaro e paradiso 1.
L’economia 2.
Il capitalismo 3.
La globalizzazione 4.
Economia ed etica 5.
Conclusione 6.
La crisi dell’uomo, la crisi economica e l’Enciclica «Caritas in Veritate»
Attacco a Ratzinger
PAOLO RODARI, ANDREA TORNIELLI, Attacco a Ratzinger, Piemme, Milano, pagg.
322, € 18,00.
Londra la fredda e l’indifferente si sta riscaldando alla vigilia della visita di stato di Benedetto XVI.
La regina Elisabetta che ha invitato il Pontefice – una prima in assoluto, Wojtyla ci andò nel 1982 ma in visita pastorale – ha predisposto un gesto mai verificatosi con altri capi di stato, quello di inviare il principe Filippo all’aeroporto a ricevere il papa.
Così tutta la classe politica, dal neocattolico Tony Blair al presbiteriano GordonBrown e al premier anglicano praticante David Cameron, freme per gli incontri ufficiali.
E fuori dai palazzi la temperatura sale: c’è chi chiede le dimissioni di Ratzinger per lo scandalo pedofilia, domani su Channel 4 ci sarà un documentario di Peter Tatchell, attivista gay, di sicura contestazione.
E lo scienziato Stephen Hawking con The Grand Design, appena pubblicato, ha corretto le sue tesi sulla compatibilità tra scienza e fede: la nascita del mondo non ha bisogno di Dio.
Ma Londra, culla della religione di stato, farà comunque gli onori all’anziano papa che, appena eletto, aveva chiesto: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura davanti ai lupi».
Certo il suo pontificato avrebbe dovuto essere breve, «due o tre anni, durerà solo due tre anni…» confidava un cardinale e oggi i vaticanisti Paolo Rodari e Andrea Tornielli lo ricordano nel loro saggio sulle tempeste che regolarmente si abbattono su Benedetto XVI cui «l’unica vera cosa che non gli si perdona è quella di essere stato eletto papa».
Ricordiamo alcuni episodi: la citazione «politicamente scorretta» sull’islam pronunciata a Ratisbona; il vescovo negazionista Williamson; il dialogoriavvicinamento con i lefèvriani; il Motu proprio sulla messa in latino; la crisi diplomatica sul condom e l’Aids durante il viaggio in Africa.
E poi la madre di tutte le tensioni: la pedofilia del clero che partita dagli Stati Uniti si è allargata a macchia d’olio in Europa e sulla quale Ratzinger è intervenuto con determinazione.
Realismo nell’allontanamento dei colpevoli, invito alla vigilanza e alla severità nella selezione dei sacerdoti, richiesta di perdono e offerta di aiuto alle vittime.
E per tutta la Chiesa un richiamo: purificazione.
D’altra parte era stato lui, da cardinale nel marzo 2005, a dire «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui».
Una determinazione e una lucidità, quelle del Pontefice, che il libro Attacco a Ratzinger di Rodari- Tornielli mette in luce percorrendo tutte le accuse, gli scandali, le profezie e i complotti contro il papa.
Certo non brilla molto la gestione vaticana delle crisi con una comunicazione presa spesso in contropiede.
Ma parlare di attacco non è esagerato.
Se spostiamo l’attenzione al campo editoriale troviamo il 2010 disseminato da Tutto quello che il Vaticano non vuole farvi sapere (Paul Jeffers, Castelvecchi), La crociata di Benedetto (ovvero il Vaticano in guerra contro la modernità di Alan Posener, Garzanti), I segreti del Vaticano (un Corrado Augias sul “potere millenario”, Mondadori), Propaganda Fide R.E.
Un intrigo clerical vip (Andrea Gagliarducci, il Saggiatore).
Fermiamoci qui.
Benedetto XVI, da intellettuale e teologo, non tace.
Editorialmente risponde con il primo di sedici volumi della sua Opera omnia dedicato alla liturgia che aiuta a capire la domanda «Perché crediamo?» (Libreria vaticana), annuncia la pubblicazione il marzo prossimo del secondo volume su Gesù di Nazaret e conferma che entro l’anno arriverà un libro-intervista con il giornalista tedesco Peter Seewald, già autore del colloquio Il sale della terra.
Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo (Edizioni San Paolo).
Un contrattacco di idee e di diritti.
D’autore.
in “Il Sole 24 Ore” del 12 settembre 2010
Dizionario di teologie femministe
Edith Piaf la cantava con la sua voce appassionata e calda nel 1942, proprio quando io nascevo.
Ma, cresciuto, l’avevo forse sentita risuonare anche nell’eco screziata e frusciante della radio o del vinile e persino nel canticchiare di mia madre durante il lavoro domestico: La vie en rose è, certo, l’emblema di un’epoca, di un modello esistenziale, di un’atmosfera.
Tuttavia, vedere l’intera vita con lenti rosa alla fine stanca e fin sconcerta.
Questa sensazione mi accompagnava mentre percorrevo qua e là le pagine del Dizionario di teologie femministe, curato da due teologhe americane del Connecticut ed edito in italiano dall’alacre Claudiana di Torino con la consulenza di una teologa e di un teologo del nostro paese (in questa materia incandescente è necessario usare sempre il linguaggio “inclusivo”).
Intendiamoci, il volume è molto utile e quasi indispensabile per conoscere di prima mano la teologia femminista, sulla quale per altro siamo intervenuti più di una volta su queste pagine, consapevoli che la questione femminile ha registrato una presenza importante nella trama della storia recente del pensiero teologico (e non soltanto nell’orizzonte sociale, psicologico o filosofico).
Non è il caso, infatti, di documentare quanto una concezione maschilistica o patriarcale abbia pesantemente rivestito e condizionato il pensiero religioso del passato, a partire dalle stesse Scritture Sacre, immerse in un contesto “sessista”.
Tanto per esemplificare, Qohelet non esita a proclamare la donna «amara più della morte, tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia; chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta catturato…» (7,26).
E il suo collega Siracide va anche più avanti, certo com’è che «è meglio la cattiveria di un uomo che la bontà di una donna» (42,14).
È, quindi, ovvio che una grande e faticosa operazione di rilettura ermeneutica di quelli e di altri testi religiosi, così come una revisione delle prospettive e degli stili pastorali siano necessarie.
In questo senso il monito continuo presente nelle voci di questo Dizionario non è da sbeffeggiare o da smitizzare in modo radicale, ma da considerare un po’ come una spina nel fianco delle stesse Chiese.
Molto cammino al riguardo è stato compiuto, sia pure nella differente calibratura dottrinale e pastorale delle diverse confessioni cristiane, ma un altro è ancora aperto, anche perché non è con un semplice decreto o con un pronunciamento pur autoritativo che si cancellano concrezioni secolari fatte di ideologia, di prassi e di costumi.
Che c’entra, allora, La vie en rose? C’entra nell’esasperata e parallela unilateralità di certe teologie femministe che colorano tutto di rosa (forse rigettando persino l’assegnazione di questo colore come “esclusivo”), nell’ansia di trasformare una deprecata his-story in una her-story.
Così, se prendiamo la prima voce, «Abbà/Padre», è ovvio che bisogna subito “salvare” Gesù, che usava indubbiamente questo appellativo: ma egli lo faceva in un «contesto antipatriarcale», «affermando un significato non-patriarcale» e «rovesciando l’idea stessa per porla al servizio della critica femminista del patriarcato e delle sue divinità».
La «Nascita verginale» di Gesù, tanto per proseguire negli esempi, «nelle teologie femministe o è rifiutata in quanto mito cristiano androcentrico che sostiene il patriarcato e denigra le donne» o, al contrario, è «l’inizio della fine dell’ordine patriarcale».
Persino l’apparentemente asettica «Archeologia» non svilupperà la sua vera identità «finché non saranno superati i suoi preconcetti tradizionali ed elitari» che puntano a «esaminare strutture e manufatti pubblici e monumentali, in cui predomina l’impronta maschile…
dirigendo la maggior parte delle sue energie verso i prodotti dell’atti vità maschile» e non ai contesti domestici (che, però, si riconosce essere ora fmalmente oggetto di analisi), tuttavia inesorabilmente scoprendo in essi la subordinazione al primato androcentrico.
È scontato che ben più incandescente sia la voce sui «Ministeri ecclesiastici e il culto», molto articolata ma con una netta opzione di principio: «Le femministe stanno mettendo in discussione tutte le forme gerarchiche, i ruoli tradizionali di leadership, la distinzione tra clero e laici, le forme, il linguaggio, le immagini di culto e spiritualità che non siano inclusive.
Sono oggetto di critica anche le definizioni della vita familiare e dei ruoli sessuali che stanno alla base dell’educazione religiosa».
E qui bisognerebbe invitare il lettore a seguire alcuni temi scottanti connessi – tutti destinatari di un lemma proprio – come famiglia, educazione religiosa, sacramenti, cura pastorale, ministero, liturgia e soprattutto le varie voci dedicate al “genere” (gender), sul quale però si deve registrare una notevole polimorfia di approcci, meno automatici rispetto all’impostazione del celebre asserto «On ne naît pas femme, on le devient» della de Beauvoir, che considerava il sesso come una mera costruzione socio-culturale e non biologico-naturale.
La notevole questione del «Linguaggio inclusivo» a cui sopra accennavamo, pur nell’indiscussa istanza che propone, tende a trascendere verso estremismi che scardinano i concetti e le verità teologiche sottese (è noto che il mezzo linguistico non è mai neutro e inoffensivo rispetto al contenuto).
Queste esasperazioni giungono al punto di avanzare perplessità anche nel chiamare Dio «Madre» oltre che «Padre»: «Ci si chiede, infatti, se Madre è sufficiente come unico nome femminile di Dio, dal momento che tale uso implica che le donne sono come Dio solo quando partoriscono e allevano figli».
Ripetiamo: «Numerosi sono i contributi positivi provenienti dall’esegesi, dalla teologia e dall’ermeneutica femminista» (e questa frase è desunta da un documento cattolico ufficiale, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa della Pontificia Commissione Biblica).
Soprattutto Giovanni Paolo II ha ribadito la necessità di una conversione della comunità ecclesiale nei confronti della donna e del suo “carisma” (in senso teologico).
Ripetiamo pure che questo Dizionario, nella sua qualità fenomenologica, è un sussidio significativo per conoscere il variegato orizzonte delle teologie femministe.
Detto questo, rimane l’impressione di essere di fronte a una sorta di sessuologia teologica che corre il rischio di procedere in modo parallelo all’approccio adottato dal detestato patriarcalismo fallocratico, scivolando in eccessi unilaterali, in parzialità smodate, in visioni che calzano appunto solo occhiali a lenti rosa, cadendo talora in quelle trappole che si denunciano.
Ha ragione la pastora battista Lidia Maggi quando scrive, nel suo Evangelo delle donne, un volumetto che esce in contemporanea al Dizionario e che è dedicato a una quarantina di figure femminili neotestamentarie: «La riscoperta della presenza femminile non venga appiattita quale strumento per rivendicare quote rosa all’interno delle Chiese: percorso legittimo, che dà voce all’altra metà del cielo, troppo spesso messa a tacere.
Ma la posta in gioco è ben più alta, di tipo teologico: custodire e difendere la rivelazione evangelica nella sua integralità…
C’è un’eccedenza dell’evangelo rispetto al nostro desiderio di essere valorizzate da Gesù.
Eccedenza non vuol dire che l’evangelo rema contro, ma che va oltre: anche oltre il riconoscimento del ruolo delle donne».
Letty M.
Russell e J.
Shannon Clarkson (a cura di), «Dizionario di teologie femministe», edizione italiana a cura di Gabriella Lettini e Gianluigi Gugliermetto, Claudiana, Torino, pagg.
546, € 47,00; Lidia Maggi, «L’Evangelo delle donne», Claudiana, Torino, pagg.
136, € 12,00.
in “Il Sole 24 Ore” del 12 settembre 2010
America religiosa, Europa laica?
P.
BERGER, G.
DAVIE, E.
FOKAS, America religiosa, Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, Il Mulino 2010, pp.215.
Nel mese di agosto il dibattito sui rapporti tra politica e religione in America ha visto due elementi nuovi: il sondaggio secondo il quale il 20 per cento degli americani crede che Obama sia musulmano, e il raduno guidato a Washington dal Beppe Grillo dei populisti del Tea Party, il tribuno di Fox News Glenn Beck, in nome di una rinascita religiosa degli Stati Uniti, che sarebbero oppressi da un leader comunista e antireligioso come Obama.
Entrambi gli elementi si aggiungono alla lista, già lunga, dei motivi di reciproca incomprensione tra i due universi politico-culturali più importanti d’Occidente, Europa e Stati Uniti: ma il ruolo della religione nella sfera pubblica è di gran lunga il più evidente degli elementi di differenza, specialmente nella storia della cultura politica americana da Carter e Reagan in poi.
Per decifrare le differenze nel ruolo pubblico della religione tra Europa e America arriva la traduzione di un libro pubblicato in lingua originale nel 2008: P.
Berger, G.
Davie, E.
Fokas, America religiosa, Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione (Il Mulino 2010, 215 pp.).
Gli autori sono tra i massimi sociologi della religione, e il fatto che Grace Davie e Effie Fokas operino sul campo del ruolo della religione sul suolo inglese fa di questo libro anche un’utile guida alla decifrazione della visita di Benedetto XVI nel Regno Unito.
Il punto di partenza del libro è una messa in discussione della “tesi della secolarizzazione” che, a partire dagli anni Cinquanta e fino agli anni Novanta, aveva asserito un legame tra processo di modernizzazione e secolarizzazione come indebolimento del ruolo della religione.
Già prima dell’11 settembre 2001 il sociologo americano Casanova aveva messo in discussione questa tesi, che ora vede i suoi avvocati sulla difensiva, oppure scomparsi e sostituiti dagli adepti del neoateismo militante dei Dawkins e Hitchens.
È infatti diventato chiaro ormai che il fattore religioso gioca un ruolo in ogni scenario politico-pubblico, e che il cammino verso la modernità è fatto di “modernità multiple”: se in Inghilterra la secolarizzazione ha portato con sé il fenomeno della “religione vicaria” (quella in cui la grande maggioranza dei non praticanti spera che continui ad esistere un nucleo di praticanti), in altri paesi europei lo scenario muta significativamente: a seconda della storia dei rapporti tra Stato e Chiesa; del modello di immigrazione; della complessità del paesaggio religioso; della storia politica recente (specialmente nell’Europa orientale ex comunista).
Ma è sul confronto tra il mondo religioso europeo e quello americano che il caso inglese diventa interessante, perché assume i tratti di un incrocio tra «due grandi nazioni divise da una lingua comune» (come recita un famoso detto) – anche dal punto di vista religioso.
Le differenze tra Europa e Stati Uniti, quanto a storia dei rapporti tra chiese, società e Stato, sono numerose, e non era interesse degli autori del libro riassumerle.
Piuttosto, gli autori hanno inteso riflettere sulle differenze sociologicamente percepibili e riconducibili più direttamente alle diverse storie religiose.
Uno degli elementi di differenza tra esperienze di religione e laicità sulle due sponde dell’Atlantico è la dimensione “verticale” della religione in America (con le diverse denominazioni religiose disposte verticalmente su una scala di prestigio sociale) rispetto alla dimensione “orizzontale” della religione in Europa (in cui appartenere o meno ad una chiesa o ad un’altra non si presta ad una interpretazione circa l’appartenenza ad un ceto sociale o a un altro).
Un secondo elemento è quello del legame tra religiosità e reddito, che in America vede una relazione inversamente proporzionale, per cui più alto è il reddito, minore è la probabilità che il percettore sia religioso.
Un terzo elemento è la mancanza degli effetti politico-sociali di movimenti socialisti e anticlericali in America, in cui non esiste un sistema di sicurezze sociali garantite dallo Stato (e alla parola welfare si associano significati negativi e diametralmente opposti rispetto a quelli prodotti dal modello sociale europeo).
Il quarto elemento è l’impatto dell’immigrazione sull’evoluzione del paesaggio religioso di Europa e America, con la prima soggetta ad una serie di flussi migratori da paesi arabi e musulmani, e la seconda fecondata dai latinos della zona sud del continente americano.
Il libro è di indubbio interesse, anche per un lettore non specialista, anche grazie ad alcuni aneddoti illuminanti: come quello del ricercatore che, diventato professore universitario, decide di passare dalla proletaria chiesa battista alla più borghese chiesa metodista – ma non alla chiesa episcopaliana, appannaggio delle classi più abbienti.
Su alcuni punti l’analisi risente di un approccio esclusivamente sociologico, carente di approfondimento storico e di aggiornamento politico: come per la tesi di Berger sulla divisione degli americani tra una ristretta élite dominante di “svedesi” (laici) e una poco visibile maggioranza di “indiani” (religiosi).
In realtà gli ultimi due decenni hanno visto una riscossa degli “indiani” a tutti i livelli: basti guardare la composizione della Corte Suprema di fine 2010, in cui gli “svedesi” laici sono ben cauti nell’esprimersi su questioni religiose o morali, attorniati come sono da “indiani” che, nella Corte guidata da John Roberts, sono la maggioranza (per la prima volta nella sua storia la Corte suprema non ha nessun giudice protestante, e ha sei giudici cattolici).
Ma anche al di là del caso della Corte Suprema è chiaro il legame, agli occhi dell’americano medio, tra la chiesa di appartenenza e la posizione sulla scala sociale.
Questo spiega la posizione particolare in America di una chiesa interclassista come la chiesa cattolica.
Ma spiega anche la difficoltà per Obama di fare la pubblica scelta di una “chiesa di famiglia”, dopo la sua separazione dalla chiesa della teologia nera della liberazione del reverendo Wright nel South Side di Chicago: è un sintomo della difficoltà di ricollocarsi non solo teologicamente, ma anche socialmente, come afroamericano che ha scalato la scala sociale in fretta – troppo in fretta per i gusti del leghismo americano del Tea Party.
Il recente sondaggio sul presunto islamismo di Obama non dice che gli americani non conoscono il loro presidente: dice che lo conoscono benissimo.
in “Europa” del 14 settembre 2010
Paroladidio
La Bibbia in rap.
Non tutta la Bibbia.
Ma solo alcuni tra i più famosi brani dell’Antico e del Nuovo Testamento che – su iniziativa del settimanale dei Paolini, Famiglia Cristiana – si potranno sentire nelle radio e via internet in una singolarissima versione rap dal titolo Paroladidio per il lancio della Bibbia Pocket, l’edizione tascabile del Libro dei Libri, che da giovedì prossimo, al prezzo di 7,90 euro, si potrà acquistare col settimanale in edicola.
Ma la mini Bibbia (570 grammi appena) si troverà anche nelle librerie (sia laiche che religiose), nei supermercati, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, negli autogrill, grazie ad una mega distribuzione che punterà a diffondere entro Natale oltre un milione di Bibbie.
Una grande operazione editorial-commerciale ideata per celebrare i 50 anni di una analoga iniziativa fatta nel 1960 dal fondatore della Congregazione dei Paolini, il beato Giacomo Alberione, il quale per la prima volta promosse la diffusione del testo sacro con “La Bibbia a 1000 lire” allegata al settimanale.
Dopo mezzo secolo l’operazione si ripete, spiega don Vito Fracchiolla, amministratore delegato del Gruppo editoriale San Paolo, ma con mezzi e modi assai diversi, a partire dall’uso di Internet, dagli spot radiofonici e dal “provocatorio” rap composto ed eseguito da anonimi professionisti in ossequio agli altrettanto anonimi autori delle Sacre Scritture.
La Bibbia, dunque, torna a proporsi al grande pubblico ad appena 2 anni dal successo centrato dalla “Lettura della Bibbia giorno e notte”, ideata dallo storico vaticanista del Tg1 Giuseppe De Carli, recentemente scomparso, e trasmessa in diretta dalla Rai con l’intervento di Benedetto XVI lettore del primo libro della Genesi.
Con la Bibbia rap non si prevedono benedizioni papali, ma – assicurano in Vaticano – l’operazione viene vista con «interesse e simpatia» con la speranza che l’iniziativa, oltre a coinvolgere le famiglie italiane, serva ad avvicinare in particolare i giovani, magari tramite proprio quel pezzo rappeggiante che, a prima vista, potrebbe far storcere la bocca a tradizionalisti e benpensanti.
Eppure – assicura don Fracchiolla – «tutta l’operazione è stata fatta con scrupolo e serietà col preciso scopo di contribuire a diffondere un testo tanto importante, non solo per i credenti, come è la Bibbia».
Scrupolo e serietà con cui – giurano alla San Paolo – è stato fatto anche il pezzo rap che in apertura presenta il famoso incipit del Libro dell’Esodo “Io sono colui che sono/Questo è il mio nome per sempre/e questo è il mio ricordo…”.
Seguito da uno dei versi più poetici della Bibbia, il Salmo 64: “Hanno bocca e non parlano/hanno occhi e non vedono…”.
Non potevano mancare citazioni notissime e comunemente considerate in sintonia proprio con i ritmi rappeggianti come “Chi mi offende distrugge se stesso/tutti coloro che mi amano, amano la morte!” (Libro dei Proverbi), “O vanità immensa, o vanità immensa/tutto è vanità./ Una generazione va e una generazione viene….(Ecclesiaste).
Per passare dal Prologo del Vangelo di Giovanni “La vita era la luce degli uomini, e le tenebre non la compresero”.
Testi biblici, in passato, ampiamente usati anche da grandi esponenti della musica pop come Bob Dylan, Bruce Springsteen, Bono degli U2, più volte ricordati dal ministro della Cultura del Vaticano, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, nell’incontro di papa Ratzinger con gli artisti del 2009.
in “la Repubblica” del 14 settembre 2010
Il cattolicesimo verde (Le catholicisme vert.)
OLIVIER LANDRON, Le catholicisme vert.
Histoire des relations entre l’Église et la nature au xx siècle, Paris, Cerf, 2008, pagine 527, euro 48 Lo studio di Olivier Landron, Le catholicisme vert.
Histoire des relations entre l’Église et la nature au xx siècle, (Paris, Cerf, 2008, pagine 527, euro 48), è interessante fin dal titolo.
L’autore insegna storia del cristianesimo contemporaneo nella facoltà di teologia dell’università di Angers in Francia ed è già noto, non solo in Francia, per la sua tesi di dottorato in storia sulle nuove comunità francesi, sintetizzata nel libro Les nouvelles communautés (Paris, Cerf, 2004).
Basato su una notevole informazione e su una vasta bibliografia, Le catholicism vert è strutturato in quattro parti, la prima delle quali (“Nature et réflexion”) è dedicata a un esame dei numerosi pensatori (teologi e filosofi in particolare) che nel corso del ventesimo secolo hanno riflettuto sui rapporti tra natura e religione.
In questo quadro un posto particolare occupano sia il concilio Vaticano i che il concilio Vaticano ii, il pensiero dei Pontefici (in particolare Paolo VI, che già nel 1972 alla Conferenza di Stoccolma aveva ricordato lo stretto legame tra uomo e ambiente, e Giovanni Paolo II, il cui messaggio per la pace del primo gennaio 1990 costituisce, secondo Landron, una specie di manifesto della Chiesa sul tema della protezione dell’ambiente) il gesuita Teilhard de Chardin, la teologia della liberazione, la teologia femminista e, in una ricostruzione storica che Landron ovviamente desidera completa, anche i movimenti ecologici anticristiani, tra i quali la New Age.
Nella seconda parte, “Nature et contemplation”, Landron si sofferma su alcuni movimenti religiosi e artistici (pittura, musica, cinema, letteratura) nei quali il rapporto con la natura acquista un ruolo notevole.
Nota come l’eremitismo, in ripresa in Francia dopo il 1960, è certamente diverso dalle nuove comunità neo-rurali, ma alla base di entrambi c’è il “deserto”: un luogo di rifugio, di riparo per un avvicinamento a se stessi, di contemplazione, di stretto rapporto tra uomo e Dio.
E questo tema (deserto, Eden, salmi, e così via) trova espressione anche nelle arti: pittura, cinema, letteratura, qui con Léon Bloy, Charles Péguy e Paul Claudel.
La riscoperta di Ildegarda di Bingen, con i suoi lavori di teologia ma anche di medicina e sulla natura, nonché di san Francesco d’Assisi – designato da Papa Giovanni Paolo II nel 1979 “patrono degli ecologisti” – con il suo Cantico delle creature, senza ovviamente dimenticare la sua attrattiva per l’eremitismo, documentata dalla sua regola per i frati che vogliono vivere nei romitori, costituiscono un ulteriore capitolo di questa seconda parte del lavoro.
La terza parte, “Nature et animation” prende in considerazione i tanti movimenti e iniziative che hanno voluto porre la natura al centro delle loro riflessioni.
In questo ambito l’interesse della Chiesa per la natura si è manifestato anche attraverso la fondazione di movimenti e di istituzioni a favore dell’infanzia e della gioventù: in primo luogo le colonie di vacanze, lo scoutismo, i campi estivi, i pellegrinaggi, la pastorale del turismo, la difesa della terra.
Uno spazio particolare è assegnato, in questa rassegna, ai Compagni di san Francesco, fondati in Francia nel 1927, la cui posizione è significativa per la rivalorizzazione del pellegrinaggio e la critica al mondo industriale.
E in questa terza parte non poteva mancare un esame dei rapporti tra politica e religione, sempre sul tema natura (che però Landron aveva in qualche modo già anticipato, ricordando nel primo capitolo una religiosa americana, suor Dorothy Mae Stand, che si era prodigata in difesa dei contadini senza terra e dell’Amazzonia e che nel 2005 era stata assassinata) nonché un capitolo sugli animali e sul loro ruolo terapeutico.
La quarta parte, “Nature et protection”, prende in esame la posizione della Chiesa, qui intesa come istituzione, nei confronti della natura, e quindi: i vari movimenti a protezione della natura, il movimento Pax Christi, il commercio equo e solidale (secondo cui la miglior difesa a favore del commercio equo è quella di “consumare di meno”) lo sviluppo durevole, la salvaguardia dell’acqua, degli oceani, l’agricoltura biologica, la protezione degli animali, e la questione della corrida in Spagna.
Il quadro che risulta da questa ricostruzione storica è ricco di luci e ombre.
A ritardare la presa di coscienza del valore dell’ambiente da parte della Chiesa starebbe il fatto, secondo Landron, che il cristianesimo ha anzitutto poggiato sul rapporto uomo-Dio, considerando, sulla base di Genesi, 1, 26, che l’uomo avrebbe avuto a sua disposizione tutto il creato.
D’altro canto c’è il fatto, testimoniato dallo stesso Landron, che la prima esperienza di valorizzazione delle colonie di vacanze venne avviata da don Bosco nel 1848, quando ancora nulla esisteva in ambito civile e quando non v’era alcuna teorizzazione circa la salvaguardia dell’ambiente.
Inoltre, alcune discussioni di principio (per esempio, se gli animali abbiano o no un’anima, se il creato possa essere considerato una reale espressione di Dio, in una visione panteistica) hanno certamente contribuito in alcuni ambienti a frenare l’entusiasmo e la stima per il creato, così come aveva suscitato discussioni il portare gli animali in chiesa per la messa e una loro benedizione.
C’è dell’ambiguità, di fatto, o, se si vuole, qualche cosa di discutibile in questo ritorno alla natura e Landron non manca di annotarlo: nei “verdi” che misconoscono qualsiasi legame con la trascendenza; il rischio di panteismo nel modo di considerare il creato; l’amore esagerato degli animali in bambini (e anche in adulti) che sembrarimandare al bisogno di spiegazioni psicologiche sulla mancanza di amore.
In tutte queste esperienze un ruolo notevole giocano i religiosi, sia nella elaborazione teorica di una difesa dell’ambiente, e quindi dell’ecologia; sia nelle numerosissime iniziative che consapevolmente i religiosi hanno sviluppato, legandosi in vario modo alla natura.
Nell’elaborazione teorica trovano posto, e forse in primo piano, i gesuiti (Paul Beauchamp) e i francescani, accusati di essere rimasti a una visione un po’ romantica del Poverello, hanno ripreso lo studio del loro fondatore vedendolo come “protettore della natura”, in contrasto con la società industriale che tende invece a dominarla e a sfruttarla.
Per quanto riguarda le iniziative pratiche, esse spaziano dalle colonie di vacanze al microcredito elargito da tante congregazioni religiose nelle missioni per facilitare lo sviluppo locale; dalla difesa della terra (in Francia e all’estero) all’agricoltura biologica (in questo contesto interessante risulta quanto fatto dai monaci dell’abbazia de La Pierre-qui-Vire, una delle prime abbazie francesi ad adottare l’agricoltura biologica) dalla promozione dello scoutismo (il gesuita padre Jacques Sevin vi occupa un posto di rilievo) alla difesa degli animali (il padre Carré, domenicano, diventa membro del Comitato consultivo della Lega francese dei diritti dell’animale).
Le esperienze presentate nel volume di Landron sono fondamentalmente francesi, anche se non mancano indicazioni per altre di carattere internazionale (come per esempio, quanto viene detto circa la cosiddetta “ecologia francescana”) o sovranazionale, come il pellegrinaggio a Santiago di Compostella, e sarebbe facile indicare altre esperienze analoghe in tante nazioni, arricchendo l’informazione: i pellegrinaggi ad Assisi e a Loreto, per l’Italia; i tanti eremiti ed eremite negli Usa; le nuove comunità che hanno fatto del legame con la natura la base del loro nuovo monachesimo.
Se poi si volesse andare indietro nel tempo, ricordando, nel monachesimo i giardini, la medicina (e i tantissimi orti presenti in quasi tutti i monasteri per la coltivazione delle erbe medicinali) l’astronomia, la botanica nella congregazione di Vallombrosa o addirittura la viticultura (il monaco Pierre Pérignon che nel 1698 avviava la produzione dello Champagne) si otterrebbe certamente un quadro di stretta vicinanza tra religiosi e mondo della natura molto più ricco di quanto le riflessioni teoriche in difesa della natura, necessariamente più tardive, possono lasciar supporre.
di Giancarlo Rocca (©L’Osservatore Romano – 5 settembre 2010)