Dal 10 al 12 dicembre si svolge a Roma la tre giorni di studi “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto” organizzata dal Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana.
Alcuni interventi della prima giornata La grande prostrazione della modernità di Andrea Riccardi Non si tratta di una manifestazione religiosa, ma di un convegno che vuol essere culturale prima di tutto.
Per tre giorni si discuterà del Dio della fede e della filosofia, del Dio della cultura e della bellezza, del Dio delle religioni e di quello delle scienze.
In connessione, però, con i temi dell’anima, della vita, della violenza, della musica, del libro su Dio.
Quasi un festival su Dio, un evento culturale di dialogo e di pensiero.
Trent’anni fa non sarebbe stato possibile un evento simile.
Non perché allora qualcuno lo impedisse, ma per la struttura stessa della cultura pubblica.
Allora, a molti, sembrava che i credenti fossero una razza in estinzione: la secolarizzazione, intrecciata con l’avanzata irresistibile della modernità, avrebbe ridotto le religioni a retaggio del passato o al massimo a fatto interiore e privato di taluni.
La storia correva verso l’irrilevanza di Dio.
Freud lo spiega bene in Avvenire di un’illusione del 1927: “Dobbiamo credere perché i nostri antenati remoti hanno creduto.
Ma questi nostri avi erano di gran lunga più ignoranti di noi, hanno creduto cose che oggi ci sarebbe impossibile accettare”.
La fine della fede era la vittoria sull’ignoranza.
Così, se le religioni si presentavano in un dibattito pubblico e culturale, erano protese a dimostrare la loro utilità sociale, politica, più che a parlare di Dio.
Si poteva accettare di parlare del fatto che i cristiani fossero utili, ma Dio era un affare strettamente privato.
Oggi invece si tiene un grande evento culturale per discutere di Dio e l’interesse del pubblico sembra forte.
Il mondo non è divenuto “devoto”, ma si sono aperte crepe profonde nella sicurezza che la storia scorre verso il futuro che gli è promesso.
Sono scomparse le mappe ideologiche della storia, che davano il senso di dove si era e che indicavano o promettevano il futuro.
L’uomo si sente – come dice Todorov – spaesato in un mondo dalle frontiere infinite come quelle della globalizzazione.
L’uomo spaesato, abbagliato dalla vastità degli orizzonti del nostro mondo, non più protetto dal suo angolo di visuale o da un’ideologia, soffre l’irrilevanza.
Si sono corrose le certezze dell’ateismo, che si presentavano come profezia di una umanità emancipata.
L’uomo spaesato soffre: “L’uomo – diceva il poeta Wojtyla – soffre per mancanza di visione”.
Il problema e la presenza di Dio ritornano nella storia.
Certo talvolta il problema di Dio è ridotto a una o più spiritualità, considerate necessarie per trovare equilibrio in un’esistenza difficile e senza riferimenti.
Ma si manifesta sempre più la diffusa convinzione che sia necessario interrogarsi se questo nostro mondo non abbia bisogno di Dio.
E, d’altra parte, in modo complesso, vivo e chiaro ma anche impalpabile, si sente scorrere una storia di Dio, attraverso la testimonianza di una comunità credente.
Il problema di Dio ritorna perché i credenti lo pongono, ma anche perché se lo pongono, più o meno esplicitamente, uomini e donne che soffrono per mancanza di visione.
E forse perché obbiettivamente il problema c’è ed è stato rimosso.
Con molto acume Olivier Clément si interrogava su “come assumere e capovolgere…
il nichilismo, il cinismo, più semplicemente la grande prostrazione che determina oggi il nostro mondo e che pervade noi che siamo prigionieri del nulla”.
La grande prostrazione è quella del nostro Occidente, che ha molte risorse materiali, ma che sembra aver perso energie e voglia di vivere, spaesato in una storia divenuta troppo grande.
È la fine della storia, come scriveva Fukuyama, oppure il disperdersi della storia in mille insensati rivoli di storie? Il non senso della storia interroga sulla connessione tra la storia di Dio e la storia dell’uomo e dei popoli.
E, parlando di Dio, si torna al Dio della nostra storia, della rivelazione biblica, che connette la storia dei popoli, degli uomini con quella di Dio, fino a Gesù.
Per Clément, Dio è la risposta alla grande prostrazione di un mondo che ha rinunciato a cambiare, di un uomo che ha rinunciato a orientare la storia.
“Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto”: il dibattito di questi tre giorni è percorso dalla convinzione che parlare di Dio e credere in Dio cambia in profondità l’esistenza umana e la storia.
Sul filo di questa convinzione, interverranno molti che, in prospettive e con conclusioni diverse, si sono posti il problema di Dio.
I risultati del convegno saranno importanti, ma fin da ora è già notevole convergere su questo tema.
Anche perché non si tratta solo di un convegno di addetti ai lavori, ma di un evento a molte dimensioni, che ha già registrato l’interesse di tanti.
È il segno di una ricerca e di un movimento profondo nel nostro tempo.
Pasternak fa dire a un personaggio del Dottor Zivago.
“Qualcosa si è messo in movimento nel mondo…
la persona, la predicazione della libertà…
La vita umana personale è diventata la storia di Dio”.
Che sia possibile dire qualcosa di simile anche per questo nostro tempo? Anima e destino il ritorno di due parole tabù di Michele Lenoci Finalmente si torna a parlare dell’anima, anche in ambito filosofico e teologico, dopo che questo termine, a vari livelli e per diversi motivi, sembrava destinato a essere dimenticato o bandito: i motivi parevano tanti e certamente non privi di una qualche plausibilità.
Da un lato, il confronto con la ricerca scientifica, e in particolare con i metodi e i risultati delle neuroscienze, ha indotto a parlare della mente, la cui ammissione risultava, peraltro, già assai problematica di fronte alla pretesa di molte impostazioni fisicaliste, secondo cui la stessa mente sarebbe superflua, giacché la struttura del cervello sarebbe sufficiente a spiegare le cosiddette attività superiori degli esseri umani, come la conoscenza, i sentimenti, gli atti di volontà.
D’altro lato, sul versante più propriamente teologico, le critiche da molte parti avanzate contro il processo di ellenizzazione del cristianesimo hanno spinto a tornare a una lettura fedele al testo biblico, mirante a salvaguardarne la peculiarità linguistica e culturale, che sarebbe stata insidiata o cancellata dalla concettualizzazione greca, in particolare di ispirazione platonica: ne sarebbe risultato un dualismo nella concezione antropologica, una visione dell’anima come sostanza autonoma e separata dal corpo e una sua destinazione intrinseca all’immortalità, contro una prospettiva unitaria, più autenticamente scritturistica, in cui la dominante dinamica soteriologica ed escatologica sarebbe determinata dall’azione di Dio e l’esito finale consisterebbe nella risurrezione del corpo.
Infine, ad accrescere la diffidenza verso l’anima, anche da parte filosofica, in epoca contemporanea, si muoveva il rilievo che un tale concetto sarebbe proprio della teologia, implicherebbe un contesto di fede rivelata e sarebbe, in qualche modo, estraneo a una considerazione prettamente razionale; per caratterizzare la peculiarità dell’uomo si preferiva ricorrere alle nozioni di coscienza, sia pure incarnata, di io, di spirito o anche di persona.
Inoltre, la dimensione trascendentale talora veniva interpretata secondo una curvatura universalistica, in cui la peculiarità del singolo individuo, conoscente, agente e volente, rischiava di andare smarrita.
Di recente sono apparsi numerosi testi, di diversa impostazione e differente prospettiva, che pongono al centro l’anima, per indagarne criticamente il “destino”, cioè sia per capire se un tale concetto può resistere alle sfide lanciate dalle neuroscienze, sia per interrogarsi su ciò che attende l’uomo dopo la morte e in che senso si possa parlare di una vita futura.
Quest’ultima domanda, al di là di tante infatuazioni di marca orientaleggiante che alludono a forme possibili di reincarnazione, nella prospettiva cristiana, intende approfondire, in termini attuali e concettualmente adeguati, il tema dei novissimi, che talora appare un po’ trascurato nella riflessione teologica e nelle proposte pastorali.
Si tratta certamente di testi che hanno peso e valore assai diversi, ma sono comunque significativi, poiché rimettono al centro dell’indagine filosofica e teologica un concetto, che non solo ha avuto una storia complessa, ricca e feconda nella cultura occidentale, ma tuttora sembra rivestire un’importanza e un ruolo particolari.
Solo per alludere a un esempio, molte questioni di natura bioetica relative all’inizio e alla fine della vita, che tanto angustiano le discussioni di questi anni, possono essere meglio affrontate partendo proprio da un’adeguata concezione dell’anima e certe soluzioni o certi vincoli possono essere proposti e giustificati in modo plausibile solo facendo riferimento a una dimensione dell’uomo, la quale può rinvenire nell’anima una collocazione teoricamente soddisfacente.
Certamente alcune precisazioni sono necessarie: spesso il richiamo all’anima è servito, sia nella riflessione filosofica, sia, soprattutto, nelle mediazioni del senso comune, a veicolare una prospettiva antropologica dualistica, quasi che anima e corpo siano due sostanze separate, capaci di coesistere nell’essere umano, ma eterogenee e legate da una relazione solo esterna ed estrinseca.
In tal modo, diventa assai arduo individuare le modalità del legame tra esse e spiegare i fenomeni che attestano un’influenza reciproca; inoltre, indulgendo a una concezione cartesiana, si riserva all’anima l’intera componente spirituale dell’uomo, mentre il corpo, inteso nella sua autonomia quasi fosse una macchina, si esaurisce nell’esclusiva dimensione materiale, cosicché potrebbe legittimamente essere sottoposto a tutte le trasformazioni rese possibili dalla moderna tecnologia.
Un’interpretazione ispirata alla prospettiva di Aristotele e Tommaso, che salvaguardi anche la peculiarità e l’originalità del secondo rispetto al primo, va, invece, in un’altra direzione, che oggi trova numerosi riscontri in diverse impostazioni olistiche e sistemiche della ricerca.
Qui l’uomo è concepito come un ente strutturalmente unitario, in cui l’anima è l’unica forma, vale a dire è principio dell’essere e dell’attività complessiva, stratificata a diversi livelli gerarchicamente ordinati e connessi; e il corpo non va inteso come la materia della moderna fisica, privo di determinazioni qualitative, ma, proprio in quanto animato, come Leib, è tale solo grazie alla sua conformazione ottenuta tramite l’anima.
E tale forma, che, da un lato, è totalmente intrinseca alla corporeità, dall’altro, sporge rispetto a essa e la trascende, avendo una sua autonomia ontologica, attestata da certe particolari attività (come la conoscenza astratta e la libertà) e possedendo, poi, un destino ulteriore a quello della vita fisica.
Alcune acute riflessioni teologiche recenti vedono in una tale concezione dell’anima anche un presupposto teorico valido a rendere comprensibile la risurrezione, proprio perché garantisce l’originalità dell’uomo rispetto alla creazione e la sua disponibilità a cogliere e accogliere l’invito di Dio.
Occhio alla metafisica travestita da scienza di Giorgio Israel È perfettamente comprensibile che i passati tumultuosi rapporti tra scienza e fede – in buona sostanza il “caso Galileo” – inducano alla prudenza e al desiderio di non aprire nuovi conflitti e anzi di stabilire un terreno di concordia.
Ma spesso si dimentica che quei conflitti furono tali soprattutto per motivi d’intolleranza nei confronti del libero pensiero, mentre, nella sostanza, le posizioni di fondo che si confrontavano erano perfettamente legittime.
Il timore che nascano nuove accuse d’intolleranza – nel contesto dell’ostilità diffusa in occidente nei confronti del “proprio” pensiero religioso – non può però indurre ad accettare come “verità scientifiche” indiscutibili, da prendere per buone come tali e da “conciliare” con la fede, quelle che sono soltanto credenze metafisiche contrabbandate come fatti oggettivi sperimentalmente accertati.
Le neuroscienze contemporanee hanno aperto terreni nuovi di ricerca e permettono di approfondire tanti aspetti del funzionamento del cervello prima inaccessibili e di descrivere, in prima approssimazione, ciò che accade nel cervello quando si pensa.
Ma è assolutamente arbitrario sostenere che le neuroscienze stiano chiarendo – o addirittura abbiano chiarito – la formazione del pensiero e abbiano dissolto il concetto “metafisico-teologico” di anima in quello oggettivo-naturalistico di mente-cervello.
Al contrario, la transizione senza soluzione di continuità dalle neuroscienze alle neurofilosofie, facendo credere che le seconde siano la logica conseguenza delle prime, è indebita e rappresenta un modo inelegante di far passare per verità oggettive basate sul metodo sperimentale una vecchia metafisica materialistica che ha le sue origini nella rilettura unilaterale del cartesianesimo da parte di Lamettrie, d’Holbach, Cabanis, Hélvetius e altri.
Non a caso, anche i riduzionisti più radicali ma attenti a un approccio serio, come Jean-Pierre Changeux, si guardano dal ricorrere a terminologie del tipo “il cervello pensa”, ammettendo con Paul Ricoeur trattarsi di un vero e proprio ossimoro.
Sono ancor oggi perfettamente appropriate le parole scritte quasi un secolo fa da Henri Bergson: “È comprensibile che degli scienziati che filosofeggiano oggi sulla relazione tra fisico e psichico si schierino con l’ipotesi parallelista: i metafisici non hanno fornito loro nient’altro.
Ammetto pure che preferiscano la dottrina parallelista a tutte quelle che si potrebbero ottenere con lo stesso metodo di costruzione a priori: trovano in questa filosofia un incoraggiamento ad andare avanti.
Ma se qualcuno di loro ci verrà a dire che questa è scienza, che è l’esperienza che ci rivela un parallelismo rigoroso e completo tra vita cerebrale e mentale, ah no!, lo fermeremo e gli risponderemo: potete senz’altro, voi scienziati, sostenere questa tesi, come la sostiene il metafisico, ma non è più lo scienziato che parla in voi, è il metafisico.
Ci restituite semplicemente quel che vi abbiamo prestato.
La dottrina che ci offrite la conosciamo: esce dalle nostre botteghe, siamo noi filosofi ad averla fabbricata; ed è merce vecchia, molto vecchia.
Non per questo vale di meno, ma neppure per questo è migliore.
Datela per quel che è, e non fatela passare per un risultato della scienza, per una teoria modellata sui fatti e capace di rimodellarsi su di essi: una dottrina che ha potuto assumere, prima che si sviluppasse la nostra fisiologia e la nostra psicologia, la forma perfetta e definitiva in cui si riconosce una “costruzione metafisica”.
Una lettura intellettualmente libera delle ricerche e dei risultati delle neuroscienze contemporanee deve saper discernere criticamente i risultati oggettivi dalle indebite estrapolazioni metafisiche.
Tanto per fare un solo esempio, la dimostrazione di Changeux che, mentre una persona acquisisce l’idea che due forme geometriche diversamente poste sono congruenti mediante una rotazione, lo stesso fenomeno geometrico accade in ambito neuronale, è di grande interesse ma non costituisce – come si pretende – una dimostrazione dell’ipotesi parallelista mediante la descrizione di come si producano nel cervello le rappresentazioni.
Difatti, la rappresentazione scelta è del tutto particolare e la “dimostrazione” non contraddice, anzi è coerente con l’idea bergsoniana che gli stati cerebrali descrivano soltanto gli aspetti locomotori dell’attività mentale.
Si conferma la difficoltà di descrivere la formazione di pensieri non riconducibili a fenomeni spazio-temporali rappresentabili nei termini della spazio-temporalità matematica.
Né alcuno sa indicare come superarla se non attraverso la semplice affermazione apodittica della riducibilità di ogni aspetto della realtà a relazioni quantitative.
Ma questa è una mera ipotesi metafisica.
Il punto è che non appena si accetta l’ideologia naturalistica, non vi è più “dialogo”: la conciliazione tra scienza e fede avviene per sparizione del secondo “dialogante”.
Nessun pensiero religioso vivo può convivere con il naturalismo, che ne costituisce la negazione radicale.
Il naturalismo ha come progetto la riduzione del pensiero e dell’anima a mere manifestazioni di processi fisico-chimici.
Entro questa riduzione i temi della libertà, della finalità, della morale si dissolvono.
Ma – ripeto – opporsi risolutamente al naturalismo non significa opporsi alla scienza.
Al contrario.
Significa opporsi a qualcos’altro: alla pretesa ontologica, ovvero di costruire una scienza oggettiva dell’essere.
Questa filosofia si è impantanata nella diatriba tra dualismo e monismo che non poteva non condurre al prevalere di quest’ultimo in versione materialistica: ne fa testo la facilità con cui il cartesianesimo è stato riletto in chiave materialistica e, come tale, è stato sussunto a filosofia fondativa della scienza.
Chi ha a cuore i temi che sono al centro dell’esperienza e del pensiero religiosi non dovrebbe dialogare con le neurofilosofie, bensì, da un lato guardare alla scienza (alla neuroscienza) nei precisi confini in cui essa ha un valore indiscutibile e, dall’altro, dialogare (e far dialogare la teologia) con le filosofie che hanno tentato nel corso del Novecento di superare le aporie dei grandi sistemi ontologici.
Penso in particolare a filosofi come Bergson e Husserl che hanno affrontato questo obbiettivo, in modi assai diversi ma con una preoccupazione comune, come ha ben messo in luce Emmanuel Lévinas.
(©L’Osservatore Romano – 9-10 dicembre 2009
Categoria: Eventi
“Il futuro dei bambini è nel presente”
“Il Futuro dei Bambini è nel Presente” Napoli 18-19-20 novembre 2009 Con questo slogan si inaugura il 18 novembre, a Napoli, la Conferenza Nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, organizzata dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali insieme alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed in collaborazione con la Commissione Parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza.
La Conferenza rappresenta un’occasione per trarre un bilancio dei risultati raggiunti negli ultimi anni nonché proporre nuovi obiettivi, non solo alle istituzioni, ma a tutto il mondo impegnato nella promozione dei diritti dell’infanzia.
Lo svolgimento dei lavori è previsto secondo il seguente calendario: mercoledì 18 novembre -apertura della conferenza e tavola rotonda per un confronto sul bilancio dell’attuazione della Convenzione sui diritti del fanciullo giovedì 19 novembre – giornata delle sessioni e dei gruppi di lavoro venerdì 20 novembre – restituzione dei lavori di gruppo, tavola rotonda e conclusioni.
Questa iniziativa rappresenta un grande momento istituzionale di ascolto, elaborazione e partecipazione su temi che interessano non soltanto gli “addetti ai lavori”, ma anche bambini, ragazzi e famiglie.
Si tratta di un’occasione importante di incontro tra saperi e poteri, conoscenze professionali e responsabilita’ politico-istituzionali, esperienze associative e rappresentanze sociali, aperta alla partecipazione di tutti.
Saranno tre giorni di intenso lavoro, di approfondimenti culturali, di momenti per conoscersi e confrontare esperienze e progetti.
E’ una sfida organizzativa molto impegnativa che, attraverso l’impegno, la creativita’ e la disponibilita’ di tutti, contribuirà ad indicare il cammino per costruire un sistema di welfare che riconosca e che promuova realmente i diritti dell’infanzia, dell’adolescenza e del suo principale contesto di crescita e sviluppo: la famiglia.
Vita e cosmo a rapporto
Inizia il 6 novembre presso la Casina Pio iv la settimana di studi “Astrobiology” promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze.
Pubblichiamo l’introduzione al programma dei lavori del presidente del comitato scientifico organizzativo e del direttore della Specola Vaticana.
L’astrobiologia è lo studio del rapporto della vita con il resto del cosmo: i suoi temi principali includono l’origine della vita e la materia che l’ha preceduta, l’evoluzione della vita sulla Terra, le sue prospettive future sulla Terra e al di fuori di essa e l’eventualità che ci sia vita altrove.
Dietro a ognuno di questi temi vi è un insieme multidisciplinare di questioni che coinvolgono la fisica, la chimica, la biologia, la geologia, l’astronomia, la planetologia e altre discipline, ognuna delle quali si collega più o meno strettamente alle questioni centrali dell’astrobiologia.
Spinta da nuove possibilità di esplorazione scientifica sulla Terra e al di fuori di essa, l’astrobiologia sembra assurgere a disciplina scientifica a sé stante.
Lo studio dell’astrobiologia è piuttosto appropriato per la Pontificia Accademia delle Scienze che si basa su una collaborazione pluridisciplinare.
La settimana di studio promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze ha un programma ambizioso: riunire scienziati illustri nei diversi campi, condividere i risultati più recenti delle loro ricerche e offrire una prospettiva più ampia del modo in cui questi risultati incidono su altre aree dell’astrobiologia.
Raggiungere questi obiettivi non sarà facile perché il linguaggio di ognuna delle discipline rappresentate dai relatori non è completamente comprensibile.
Come spiegare a un astronomo la complessità dei marker chimici dell’attività biologica in antichi sedimenti della Terra? Oppure, come illustrare con l’accuratezza necessaria a un biologo molecolare le più recenti tecniche astronomiche per l’individuazione dei pianeti? Il paradosso dell’astrobiologia sta nel fatto che, sebbene la si possa considerare una disciplina circoscritta e specializzata, non si può sperare di comprendere adeguatamente la vastità delle discipline tradizionali che ne costituiscono la spina dorsale.
La settimana di studio, dunque, è veramente un corso interdisciplinare per esperti di una determinata materia per acquisire conoscenza e comprensione in altre materie più distanti, ma sempre sotto la giusta e ragionevole denominazione di astrobiologia.
In effetti non si tratta di nulla di nuovo: sono 13 anni che l’astrobiologia è riconosciuta come una nascente disciplina autonoma.
Gli scienziati sono stati educati a comprendere gli uni le materie degli altri.
Tuttavia, a volte, ciò avviene nell’ambiente della frenetica “conferenza annuale”, quel fenomeno del sapere moderno in cui il massimo numero di interventi viene compresso nel tempo di pochi giorni e si crea una specie di bazar intellettuale dove gli scienziati acquistano frammenti preziosi di informazioni – generalmente, per facilità, nella propria disciplina – cercando di assicurarsi che i concorrenti non stiano vendendo proprio la merce che vogliono vendere loro, o dove (raramente) si avventurano in sessioni estranee alla propria competenza per scervellarsi su quanto viene detto.
Ovviamente si svolgono anche seminari di astrobiologia e di altre scienze, più concentrati, ma spesso riguardano una sottodisciplina.
In un qualsiasi mese dell’anno, geologi possono incontrarsi a Vancouver per approfondire i risultati più recenti sulla studio della comparsa più antica dei fossili sulla Terra, mentre a Rio de Janeiro astronomi presentano nuovi dati sull’abbondanza di elementi che formano la vita in vicine regioni in cui si formano stelle, a Potsdam intanto studiosi dei pianeti discutono dell’ultima prova dell’esistenza della vita sotto la superficie ossidante di Marte.
Questa settimana di studio non è un evento unico, ma è relativamente raro.
Una settimana intensiva in cui astrobiologi in relativo isolamento confrontano i propri campi di ricerca e cercano di comprenderli è un’impresa difficile, ma entusiasmante.
Per fare tutto ciò in un lasso di tempo determinato, abbiamo selezionato accuratamente i relatori che possono rendere i loro specifici campi di ricerca comprensibili a astrobiologi di altri campi, a laici intelligenti e a chi può collegare quelle ricerche ai più ampi problemi dell’astrofisica.
Il programma è suddiviso in otto sessioni.
La prima, “L’origine della vita”, riguarda il difficile quesito sui meccanismi che hanno permesso alle molecole di organizzarsi in modo da consentire l’inizio della vita.
La vita, come la conosciamo sulla Terra, è basata su una struttura di proteine e di polimeri acidi nucleici che trasportano le informazioni per costruire proteine dai loro aminoacidi costitutivi.
Seppur complessa, la vita è una chimica organica molto specifica e selettiva.
Infatti, dell’ampia gamma di possibili acidi organici che i sistemi abiotici possono produrre, la vita ne utilizza solo un manipolo.
Parimenti, utilizza ampiamente solo aminoacidi “di sinistra” e zuccheri “di destra”.
Nella biochimica della vita c’è molto di più, ma questo è un esempio della sfida che chimici e biochimici affrontano nel cercare di comprendere in che modo la cacofonia della chimica organica abiotica si è evoluta nella sinfonia strutturata della vita.
Nello stesso modo ricavare dallo scarso materiale geologico delle prime fasi della Terra qualche indicazione sulle condizioni ambientali nelle quali si è formata la vita è un compito estremamente difficile, perché l’attività geologica, ossia le forze della tettonica, l’erosione, gli impatti del materiale asteroidale, ha cancellato del tutto le prove dell’ambiente terrestre nel mezzo miliardo di anni successivo alla sua formazione.
La seconda sessione, “Abitabilità nel tempo”, riguarda il problema di come la Terra sia riuscita a sostenere la vita per tutta la sua lunga storia geologica.
Qui il materiale geologico è maggiore di quello risalente al periodo in cui si presume la vita abbia avuto inizio (e dovrebbe essere chiarito che non abbiamo un’idea precisa di quando questo sia accaduto).
Tuttavia, ora i processi sono molto complessi: una varietà di gradazioni spaziali, temporali ed energetiche entrano in gioco.
Il Sole stesso, che spesso è tacitamente considerato come il sostenitore stabile dell’acqua allo stato liquido, che è essenziale per la vita come la conosciamo, era circa il 30 per cento meno luminoso di oggi all’inizio della storia della Terra.
Tuttavia la prova geologica dell’esistenza di acqua allo stato liquido sulla superficie della Terra quando il Sole era così pallido suggerisce che la nostra atmosfera deve aver causato un effetto serra molto più forte di quello odierno e anche piuttosto diverso.
Episodi di seria glaciazione nelle testimonianze geologiche suggeriscono che, di quando in quando, il “termostato” atmosferico non ha funzionato.
In che modo la vita, perfino a livello molecolare, e l’ambiente abbiano interagito nel corso del tempo geologico è il tema della terza sessione, “Ambiente e genomi”.
I tracciati molecolari delle reazioni biochimiche che sostengono la vita restano nella testimonianza geologica, suggerendoci i cambiamenti avvenuti nel corso di lunghi periodi di tempo.
Lezioni da forme di vita che vivono in ambienti estremi, come i venti sottomarini e i deserti più aridi della Terra, contribuiscono all’interpretazione di queste testimonianze.
La comparsa relativamente improvvisa di vita animale, tarda nella storia della Terra, resta un mistero la cui soluzione si potrebbe trovare sia nell’ambiente sia nei meccanismi del genoma.
La Terra sembra essere unica nel nostro sistema solare in quanto ad abbondanza di vita e, ciononostante, non possiamo essere sicuri che non ci sia vita su Marte o altrove nel sistema solare.
La quarta sessione, “Individuare la vita altrove”, si occupa delle prospettive e delle tecniche per individuare la vita in una varietà di ambienti altrove nel sistema solare, al di là di Marte fino agli asteroidi e ai satelliti di Giove e di Saturno.
Indipendentemente dall’esistenza di vita altrove nel nostro sistema solare, la vasta galassia della Via Lattea di cui siamo parte contiene più di cento miliardi di stelle.
Se i pianeti sono una caratteristica comune di tali stelle, non potrebbe esserlo anche la vita? Le tre sessioni successive studiano in modo sistematico l’individuazione, la formazione e le proprietà dei pianeti intorno ad altre stelle: “pianeti extrasolari”.
La quinta sessione, “Strategie di ricerca di pianeti extrasolari”, spiega le varie tecniche utilizzate per individuare pianeti intorno ad altre stelle e determinare le loro proprietà.
Conosciamo già 380 pianeti extrasolari e gli studi suggeriscono che il 10 per cento di stelle con proprietà simili a quelle del nostro Sole ha almeno un pianeta.
La sesta sessione, “Formazione di pianeti extrasolari”, descrive dettagliatamente in che modo si formano i pianeti come parte del processo di formazione delle stelle.
Occorre domandarsi cosa determina il momento in cui un pianeta roccioso come la Terra si forma in opposizione a un gigante gassoso come Giove e se il processo di formazione del pianeta è materialmente differente intorno a stelle molto più piccole del nostro Sole.
La settima sessione, “Proprietà dei pianeti extrasolari”, riguarda modelli computerizzati, dati astronomici e alcune ipotesi sulla questione delle proprietà dei pianeti extrasolari come funzione delle proprietà delle stelle originarie e delle distanze da esse.
Molto del fascino dell’astrobiologia deriva dal chiedersi se forme di vita senziente esistono in altri mondi e se forme di vita diverse dalla nostra di fatto coesistono con noi, oggi, nel nostro mondo.
L’ottava sessione, “Intelligenza altrove e vita ombra”, studia entrambe le questioni.
La ricerca di vita intelligente altrove è condotta ascoltando il cosmo con radiotelescopi nello sforzo di cogliere un segnale di origine indiscutibilmente artificiale.
La ricerca sul nostro pianeta di una vita con una biochimica diversa da quella nota, la cosiddetta “vita ombra”, è una possibilità affascinante, ma piena di difficoltà.
L’astrobiologia si sforza di utilizzare una vasta gamma di tecniche scientifiche, focalizzate su obiettivi che vanno dalle molecole nelle cellule al vasto mondo intorno a noi, affinché il posto dell’umanità nel cosmo possa essere maggiormente apprezzato.
È il riconoscimento della notevole complessità di tutto ciò che è in e intorno a noi ed è il modo in cui il XXI secolo realizza l’esortazione del salmista di ricercare (Salmi, 111, 2).
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2009)
Il mandarino di Cicerone
La mostra dedicata al gesuita Matteo Ricci che apre il 29 ottobre al Braccio di Carlomagno si gioca su una idea geniale dell’allestitore scenografo Pierluigi Pizzi.
Dal momento che il percorso espositivo si disloca in due parti, una dedicata a Roma, alla Compagnia di Gesù e all’Europa fra XVI e XVII secolo, l’altra che ha per argomento la Cina abitata, penetrata, capita e acculturata da Matteo Ricci, ecco allora che i colori dominanti sono due.
Un azzurro algido e luminoso (“azzurro Sassoferrato”, lo chiama Pizzi, con riferimento al noto pittore della Riforma cattolica) per la pars occidentis, il rosso imperiale per la zona che ospita le opere e i documenti della Cina.
Del resto la mostra voluta con determinazione ammirevole da monsignor Claudio Giuliodori, vescovo di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia, ha un titolo che prefigura e replica l’idea dei due colori.
Il gesuita di Macerata, fra Roma e Pechino, si colloca oggettivamente “ai crinali della storia”.
Perché negli anni che stanno fra il 1580 e il 1610 – gli anni della missione cinese di padre Matteo – sembrò possibile vedere, come dal vertice di una alta montagna, il possibile dialogo, la fruttuosa contaminazione fra due mondi l’uno all’altro incogniti, apparentemente incomunicabili, sigillati dalla loro stessa diversità.
Una mostra che, come questa, intende mettere in figura un tempo grandiosamente cruciale della storia, deve saper usare con didattica efficace il sistema dei simboli.
Pierluigi Pizzi ci riesce magnificamente.
Due infatti sono i fuochi che catturano l’attenzione del visitatore e intorno ai quali si organizza e si irradia il percorso espositivo.
Uno è l’altare di Confucio, prestito della Sezione missionaria etnologica dei Musei Vaticani.
Fiammeggiante di lacca e di oro, di dimensioni imponenti, fronteggiato da un Budda pensoso e compassionevole, rappresenta perfettamente la raffinata filosofica religiosità cinese.
A fare da contraltare, nel senso letterale oltre che simbolico del termine, c’è la gloria barocca di Pier Paolo Rubens.
Dalla chiesa genovese del Gesù viene la grande tela che racconta l’apoteosi di sant’Ignazio di Loyola e dei suoi seguaci.
Rubens è emozione ed è passione, la sua pittura sontuosa smagliante che rielabora Raffaello e Caravaggio, che non teme lo splendore del Vero e trasfigura il tutto nella visione ottimistica e trionfalistica di una Chiesa alla conquista del mondo, è l’altra faccia della medaglia.
È il punto di partenza, religioso e culturale, dal quale Matteo Ricci partiva quando lasciò il Collegio romano per l’impero di mezzo.
Intorno ci sono i quadri del fiammingo Seghers (anch’essi prestiti dei Musei Vaticani) con i protagonisti della evangelizzazione, Francesco Saverio e Ignazio di Loyola.
C’è un intenso ritratto di quest’ultimo rappresentato al tavolo di lavoro, raro e pressoché incognito dipinto proveniente dal Gesù di Roma, forse attribuibile al Ribera.
Ci sono i ritratti dei Papi capaci di reggere la Chiesa nei tempi di ferro che videro, in Europa, le guerre di religione e il confronto armato con l’islam.
La battaglia di Lepanto di Paolo Veronese, prestata dal veneziano Museo dell’Accademia, è davvero l’emblema di un’epoca.
Era il 1571 quando l’armata navale guidata da Giovanni d’Austria spezzava l’assalto del turco alla fortezza Europa.
Nello stesso anno il giovane Matteo Ricci entrava nell’ordine gesuita.
Si preparava a diventare il Li Madou che i cinesi ancora oggi onorano come uno dei padri identitari della loro grande storia.
Non è senza significato se nel Millennium Center di Pechino, immenso edificio politico cerimoniale che celebra i fasti della nazione e del partito, il gigantesco rilievo in marmi policromi dedicato alla storia della Cina, dal primo imperatore ai protagonisti del Novecento, porti due sole immagini di stranieri, entrambi italiani.
Uno è Marco Polo alla corte di Kubilai Kan, l’altro è Matteo Ricci che, dalla terrazza della Città proibita, in veste di mandarino confuciano, scruta il cielo.
Li Madou portò in Cina la geometria di Euclide, l’astronomia, la meccanica, la cartografia.
Portò il De amicitia di Cicerone trasformato in un delizioso libretto mandarino dedicato a un alto dignitario un po’ confuciano, un po’ animista, un po’ (forse) cristianizzante.
Portò dunque la cultura d’Occidente, significata in mostra da astrolabi, planetari, rappresentazioni della città e dell’impero.
Portò anche, naturalmente, la dottrina cristiana ma lo fece usando come apripista la scienza e la tecnica, patrimonio condiviso per l’Occidente come per l’Oriente, e muovendosi in ogni caso con mano leggera, con straordinaria capacità mimetica, con rispetto assoluto e squisito per la cultura e per le tradizioni del Paese che aveva deciso di fare suo.
Si fece cinese fra i cinesi, assunse anche negli abiti l’iconografia del funzionario imperiale, fu cerimonioso e obliquo, iperbolico e burocratico, poetico e pragmatico come costume ed etichetta richiedevano.
Se non si fosse comportato in questo modo non avrebbe avuto gli onori che la Cina moderna gli riconosce e che permette a noi di collocarlo, davvero, ai crinali della storia.
Una storia troppo presto interrotta ma che oggi, in tempi di integrazione fondata sul dialogo e quindi sul rispetto e sulla conoscenza, appare più che mai attuale.
(©L’Osservatore Romano – 29 ottobre 2009)
Le virtù di don Rua e il modello di don Bosco
Dal 28 ottobre al 1 novembre si tiene a Torino-Valdocco il convegno internazionale di studi dedicato a “Don Michele Rua, primo successore di don Bosco”, alla vigilia del centenario della morte del beato, avvenuta il 6 aprile 1910, e dell’anno speciale che il Rettor maggiore salesiano ha indetto nella sua memoria (31 gennaio 2010 – 31 gennaio 2011).
Al convegno, organizzato dall’Associazione cultori di storia salesiana e dall’Istituto storico salesiano, partecipano un centinaio di studiosi provenienti da trentatré nazioni.
Pubblichiamo la sintesi della prima relazione, tenuta dal postulatore generale delle Cause dei santi della famiglia salesiana.
”Don Michele Rua, fedele discepolo di don Bosco” è espressione che ricorre come un leitmotiv nelle biografie del beato.
Di fronte a simili stereotipi, il dovere dello storico è quello di un’indagine rigorosa, che illustri la verità e le approssimazioni del caso.
È ciò che mi propongo di fare, avviando un confronto tra la Positio sulle virtù di don Bosco e quella di don Rua.
In effetti, ritengo che sia questa la via più sicura – perché la più ricca di documentazione, generalmente affidabile – per affrontare la questione.
La causa di canonizzazione di don Bosco Il 1° aprile 1934 – domenica di Pasqua e solenne chiusura del Giubileo straordinario della redenzione – il Papa Pio XI proclamava santo il sacerdote torinese Giovanni Bosco (1815-1888).
Giungeva così al termine la sua causa di beatificazione e di canonizzazione, iniziata a Torino il 4 giugno 1890.
La prima fase – cioè il “processo ordinario”, così chiamato perché condotto sotto la responsabilità del vescovo ordinario del luogo – venne chiusa il 1° giugno 1897.
Dieci anni dopo, il 24 luglio 1907, iniziò a Roma il “processo apostolico” sotto la responsabilità diretta della Santa Sede – precisamente della Sacra Congregazione dei Riti.
Questa seconda fase durò vent’anni, fino all’8 febbraio 1927, e conobbe esiti alterni.
Basti dire che al termine di una sessione preparatoria – precisamente quella del 20 luglio 1926 – sembrò ad alcuni che la causa non potesse più procedere.
Ma l’interessamento autorevole di Pio XI – che da giovane prete aveva conosciuto personalmente don Bosco (“Noi siamo con profonda compiacenza tra i più antichi amici personali del venerabile don Bosco”: così aveva detto il neoeletto Pontefice nell’allocuzione rivolta ai giovani collegiali salesiani l’8 giugno 1922) e ne aveva conservato un ricordo altissimo – fece ripetere la medesima sessione pochi mesi più tardi, il 14 dicembre 1926.
L’esito positivo di questa nuova sessione spianò la strada agli adempimenti ulteriori, in primo luogo alla cosiddetta congregazione generale coram sanctissimo – cioè davanti al Papa – l’8 febbraio 1927, e finalmente alla promulgazione del decreto sull’eroicità della vita e delle virtù del venerabile Giovanni Bosco (20 febbraio 1927).
Così, dopo il riconoscimento dei quattro miracoli allora prescritti – due per la beatificazione e due per la canonizzazione – il Papa Pio XI poté procedere il 2 giugno 1929 alla beatificazione di don Bosco, e poi alla sua canonizzazione, precisamente il 1° aprile 1934.
Soprattutto il “processo apostolico” – i cui atti confluiscono nella Positio super virtutibus – intende illustrare al meglio, pur con i limiti delle ricerche umane, il peculiare modello di santità incarnato da quella persona, di cui si discute.
Così il confronto tra le rispettive Positiones – di don Bosco e di don Rua – consente di verificare le tangenze e le distanze dei due modelli.
Secondo la procedura allora vigente – sostanzialmente modificata dai successivi interventi pontifici, fino alla costituzione Divinus perfectionis Magister di Giovanni Paolo II (1983) – il processo apostolico era condotto con il metodo delle “obiezioni” – le cosiddette animadversiones proposte dall’ufficio del Promotore della Fede, cioè dal “pubblico ministero” della Sacra Congregazione, volgarmente chiamato “avvocato del diavolo”) e delle “risposte” (le responsiones preparate dall’avvocato [difensore] designato dalla Postulazione).
Le obiezioni alla santità di don Bosco, che emergono dalla lettura della Positio, sono abbastanza note.
Si tratta soprattutto della sua “astuzia”, orientata, secondo l'”avvocato del diavolo”, a un’ardente passione di successo personale e di guadagno economico.
Vi entra anche, per gli stessi motivi, l’accusa di un certo “plagio” nei confronti dei ragazzi, con rilievi pesanti riguardo al mancato esercizio della prudenza, specialmente nei racconti di sogni e di premonizioni terrificanti; di “non trasparenza” – per usare il vocabolario di oggi – nella ricerca e nella gestione d’elemosine e d’eredità; di scarsa sobrietà nella mensa; e, finalmente, di disubbidienza pressoché sistematica all’arcivescovo di Torino, Lorenzo Gastaldi.
La causa di canonizzazione di don Michele Rua La prima fase della causa di beatificazione e di canonizzazione del servo di Dio Michele Rua, cioè il cosiddetto “processo ordinario”, si svolse a Torino dal 2 maggio 1922 al 20 novembre 1928.
In duecentoventisei sessioni furono ascoltati ventidue testimoni, tra cui due testi ex officio – così detti perché convocati direttamente dal tribunale, al di là della lista dei testimoni presentata all’inizio del processo.
Otto anni dopo, il 10 novembre 1936 – quando la canonizzazione di don Bosco era ormai avvenuta da più di due anni – iniziò la seconda fase della causa, cioè il “processo apostolico”.
Ma il periodo bellico rallentò sensibilmente l’andamento della causa: così il decreto sull’eroicità delle virtù fu promulgato soltanto il 21 aprile 1953.
Trascorsero ancora diciassette anni per il riconoscimento dei due miracoli prescritti per la beatificazione – il relativo Decreto è del 19 novembre 1970 – e finalmente il 29 ottobre 1972 il venerabile Michele Rua fu solennemente beatificato a Roma, nella basilica di San Pietro, dal Papa Paolo VI.
La procedura introdotta da Giovanni Paolo II nel 1983 – tuttora vigente – richiede un altro miracolo, e non due, per la canonizzazione.
Tuttavia, benché la Postulazione abbia raccolto un lungo elenco di “grazie” attribuite all’intercessione di don Rua, al momento presente nessuna d’esse si configura in maniera tale da consentire l’apertura di un processo sul miracolo.
Quando questo processo sarà celebrato – a tale scopo è necessario promuovere nel popolo di Dio la conoscenza del beato, diffonderne il culto e raccomandarne l’intercessione – e se il giudizio degli organismi giudicanti sarà positivo, il Papa potrà procedere alla canonizzazione di don Michele Rua.
Lo studio del “processo apostolico” e l’esame della Positio super virtutibus di don Rua sono decisivi per il confronto – che qui ci interessa – tra il modello di santità rappresentato da don Bosco e quello incarnato da don Rua.
In verità, questo studio e questo esame sono già stati compiuti da storici e biografi del calibro di Agostino Auffray, Eugenio Ceria e Joseph Aubry, e sono stati ricondotti in sintesi efficace da Francis Desramaut nelle pagine conclusive della sua recentissima Vita di don Michele Rua primo successore di don Bosco, pubblicata in francese, di prossima edizione in lingua italiana.
Volendo riferirci a quest’ultima sintesi, appare evidente che la prudenza, la temperanza e la povertà sono le virtù che caratterizzano maggiormente il profilo spirituale di don Rua tracciato nella Positio.
Ovviamente nessuna delle tre virtù rimane fine a se stessa.
Tutte e tre concorrono a delineare la carità eroica di don Rua – sia la carità verso Dio, sia la carità verso il prossimo, con particolare riferimento ai giovani poveri e abbandonati.
Resta il fatto che l’itinerario di santità percorso da Michele Rua trascorre attraverso queste tre virtù in maniera del tutto privilegiata.
Così noi le prenderemo ordinatamente in esame, riferendoci sempre al testo della Positio e alla sintesi proposta da Desramaut.
Anzitutto – scrive il padre Desramaut – don Rua era souverainement prudent, tanto che la prudenza è sottolineata con un’enfasi speciale anche nel decreto sull’eroicità delle virtù.
Di fatto, nella Positio si legge che don Rua praticò puntualmente la prudenza, e così, con l’aiuto di Dio, egli fece crescere dovunque la società salesiana; promosse nei confratelli la pietà e lo zelo per le anime; moltiplicò le spedizioni missionarie; approvò e sostenne i salesiani che desideravano dedicarsi all’apostolato dei lebbrosi; fece in modo che nei collegi si coltivassero la pietà, lo studio e la disciplina; e con grande energia – mai disgiunta dall’amorevolezza – non trascurò nulla, secondo gli insegnamenti del fondatore, che potesse contribuire alla maggior gloria di Dio.
Come si vede, la prudenza appare la sigla distintiva dell’immensa opera di governo e di animazione pastorale svolta dal beato Michele Rua.
Quanto alla temperanza, egli riempì di contenuti pratici – con una ricchezza straordinaria – il programma consegnato da don Bosco ai suoi figli: “Lavoro e temperanza”.
In particolare, la temperanza si traduceva per lui nel “culto della regola”.
Si dice che don Bosco ripetesse: “Don Rua è la regola vivente”.
Sorvegliava attentamente se stesso per concedere al corpo solo ciò che era strettamente necessario.
Mai si concesse la siesta pomeridiana.
Ogni giorno, dopo il pranzo, partecipava alla ricreazione con i confratelli, secondo le indicazioni della regola, mentre alla sera, dopo le preghiere, manteneva il religioso silenzio.
Così pure osservava e faceva osservare tutte le prescrizioni, anche le più piccole, della sacra liturgia.
Era temperante pure nel cibo.
Non lo si vide mai assumere alcun alimento fuori dai pasti, e alla sua mensa di rettor maggiore non tollerava alcun privilegio.
Per il sonno, al termine della sua estenuante giornata, si stendeva per cinque o sei ore su un divano trasformato in letto.
Insomma, aveva imparato fin da ragazzo a “non ascoltarsi mai”, non certo per il gusto della mortificazione in se stessa, ma per rendere il corpo più docile al servizio della carità.
Riguardo infine alla povertà, don Rua ne fece la sua compagna prediletta.
Non aveva che due talari, una per l’estate e una per l’inverno, tutt’e due usate fino a logorarne la stoffa, ma sempre perfettamente ordinate.
Per ventidue anni abitò la camera che era stata di don Bosco, e non permise mai che qualche cosa ne fosse cambiata.
Forse la sua lettera circolare più ispirata è quella del 31 gennaio 1907, dedicata appunto al tema della povertà, da lui definita “il primo dei consigli evangelici”.
“La povertà, in se stessa, non è una virtù”, si legge nella medesima lettera.
“La povertà diventa virtù solo quando è volontariamente abbracciata per amor di Dio, come fanno coloro che si danno alla vita religiosa.
Tuttavia anche allora la povertà non cessa di essere amara; anche ai religiosi la pratica della povertà impone dei gravi sacrifici, come noi stessi ne abbiamo fatto mille volte l’esperienza.
Non è perciò da stupire se la povertà sia sempre il punto più delicato della vita religiosa, se ella sia come la pietra di paragone per distinguere una comunità fiorente da una rilassata, un religioso zelante da uno negligente…
Di qui la necessità per parte dei superiori di parlarne sovente e per parte di tutti i membri della famiglia salesiana di mantenerne vivo l’amore e intiera la pratica”.
Più avanti, illustrando la motivazione carismatica della povertà salesiana, don Rua aggiunge: “Chiunque non vivesse secondo il voto di povertà, chi nel vitto, nel vestito, nell’alloggio, nei viaggi, nelle agiatezze della vita valicasse i limiti che c’impone il nostro stato, dovrebbe sentir rimorso d’aver sottratto alla congregazione quel denaro che era stato destinato a dar pane agli orfani, favorire qualche vocazione, estendere il regno di Gesù Cristo.
Pensi che ne dovrà rendere conto al tribunale di Dio”.
Confronto tra due profili spirituali Può destare qualche sorpresa e perplessità la conclusione più evidente a cui approda il confronto tra le due Positiones, cioè il fatto che le stesse virtù maggiormente invocate per delineare la santità di don Rua sono quelle costantemente impugnate per contestare la santità di don Bosco.
È vero infatti che proprio la prudenza, la temperanza e la povertà sono i “cavalli di battaglia” delle animadversiones raccolte nella Positio del fondatore.
Si può vedere, al riguardo, come abbiano resistito tenacemente – fino alla Novissima positio super virtutibus, stampata per la congregazione generale coram sanctissimo dell’8 febbraio 1927 – le obiezioni alla prudenza di don Bosco – oltre che alla sua obbedienza – specialmente a causa della vicenda con monsignor Gastaldi; e le obiezioni alla sua povertà, soprattutto a causa di una certa transazione di beni dei Servi di Maria.
La risposta a queste e alle altre obiezioni giunse finalmente – oltre che dagli avvocati difensori – dall’autorità suprema del Papa.
Al termine della medesima congregazione generale dell’8 febbraio 1927, che chiuse il processo apostolico, Pio XI ebbe a dire: “Il venerabile don Bosco appartiene alla magnifica categoria di uomini scelti in tutta l’umanità, a questi colossi di grandezza benefica, e la sua figura facilmente si ricompone, se all’analisi minuta, rigorosa delle sue virtù, quale venne fatta nelle precedenti discussioni lunghe e reiterate, succede la sintesi che, riunendone le sparse linee, la restituisce bella e grande: una magnifica figura, che l’immensa, insondabile umiltà, non riusciva a nascondere”.
E qualche anno dopo, nell’omelia della canonizzazione, il Santo Padre avrebbe solennemente definito quella “magnifica figura” come l'”apostolo della gioventù, interamente dedito alla gloria di Dio e alla salute delle anime”, distintosi per arditezza di concetti e modernità di mezzi in ordine all’educazione completa dell’uomo.
Educazione che – secondo il pensiero del Papa, in polemica non troppo velata con la cultura fascista del tempo – non doveva limitarsi soltanto a corroborare il corpo, ma doveva mirare a tutto il suo essere, e a promuovere la formazione delle scienze, senza però trascurare mai le verità divine e soprannaturali.
Il riconoscimento delle virtù di don Bosco non poteva essere più pieno né più autorevole.
D’altra parte, la pratica delle medesime virtù aveva in lui quel tanto d’inedito e di “ardimentoso” – per riecheggiare il linguaggio di Pio XI – che può spiegare, almeno in parte, le animadversiones citate.
Ebbene, la ricezione assai differente della santità di don Rua rispetto a quella del fondatore – come attesta con sufficiente chiarezza il confronto tra le due Positiones – dimostra che egli non fu la “copia” di don Bosco.
Se lo stereotipo del “fedele discepolo” dovesse significare questo, sarebbe certamente da rigettare.
In ogni caso, è da preferire l’espressione adottata dal Rettor maggiore nella sua lettera del 24 giugno 2009, con la quale egli indice un anno dedicato alla memoria del beato Michele Rua nel primo centenario della sua scomparsa: qui infatti don Chávez parla di don Rua come di un “discepolo fedele di Gesù sui passi di don Bosco”.
In realtà, assai più che una semplice “copia” del fondatore, il primo successore di don Bosco appare – anche nella vita spirituale e nell’itinerario della santità salesiana – come colui che “ha fatto della sorgente, una corrente, un fiume”.
Conservando intatta la propria irripetibile personalità – che era ben diversa da quella di don Bosco – egli ha approfondito e sistematizzato in un progetto di vita personale e comunitaria il cammino di perfezione di san Giovanni Bosco, percorrendo una via propria, originale.
In questo senso va interpretata l’affermazione di Angelo Amadei – che cita a sua volta don Paolo Albera – là dove si legge che don Rua “riuscì a riprodurre in se stesso nel modo più perfetto il modello” del fondatore.
Per questo motivo, infine, il beato Michele Rua rappresenta la “chiave di lettura” migliore – e quasi obbligatoria – per comprendere a fondo il modello di santità realizzato da san Giovanni Bosco.
(©L’Osservatore Romano – 28 ottobre 2009)
La mostra «Astrum 2009»
Nella mattinata di martedì 13 ottobre, nella Sala Stampa della Santa Sede, è stata presentata la mostra “Astrum 2009: astronomia e strumenti.
Il patrimonio storico italiano quattrocento anni dopo Galileo” che sarà aperta presso i Musei Vaticani dal 16 ottobre al 16 gennaio.
Oltre al direttore della Specola Vaticana, il gesuita José Gabriel Funes, al presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Tommaso Maccacaro, e alla curatrice della mostra, Ileana Chinnici, alla conferenza stampa sono intervenuti il direttore dei Musei Vaticani e il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura che, nell’occasione, hanno scritto per il nostro giornale.
Come ci ricorda in apertura di catalogo padre José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana, gli indiani del Keat Peak nella riserva dell’Arizona dove sono installati i telescopi più potenti del mondo, chiamano the people with long eyes (“la gente dagli occhi lunghi”) gli scienziati e i tecnici che di notte si ritirano nei loro misteriosi avamposti ipertecnologici a scrutare i limpidi cieli stellati del deserto di altura.
Ci vogliono occhi lunghi per guardare le stelle, per penetrare la profondità dei cieli.
Però, non bastano gli occhi che Dio ci ha dato.
Ci vogliono strumenti assai più efficaci, ausili conoscitivi e tecnici molto più elaborati e affidabili perché lo sguardo diventi davvero lungo.
Gli indiani del Keat Peak lo hanno capito, gli uomini di ogni epoca e di ogni cultura lo hanno sempre saputo.
La mostra che i nostri Musei ospitano nella sala polifunzionale – dal 16 ottobre al 16 gennaio – voluta e promossa dall’Inaf (Istituto nazionale di astrofisica) e dalla Specola Vaticana, intende offrire alla ammirazione e alla riflessione del pubblico una vasta selezione dell’imponente patrimonio di strumentazione astronomica di interesse storico posseduta dagli istituti italiani.
Nell’Anno internazionale dell’astronomia, celebrativo di Galileo e del suo Sidereus nuncius, a quattro secoli dalla scoperta e prima applicazione del telescopio, la mostra curata da Ileana Chinnici con la cooperazione dei Musei Vaticani e, in particolare, di Andrea Carignani, ci racconta la straordinaria avventura.
Come, seguendo quali percorsi conoscitivi e servendosi di quali strumenti – dall’astrolabio arabo di Ibn Sahid el Ibrahim del 1096 al telescopio di ultimissima generazione che la Specola Vaticana utilizza e che è situato a 3200 metri di altezza sul monte Graham in Arizona – la comunità scientifica internazionale, prima e soprattutto dopo Galileo, ha saputo allungare lo sguardo verso cieli sempre più remoti e sempre più incogniti.
Fino ad arrivare un giorno – l’augurio è di Tommaso Maccacaro, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica – a risolvere il mistero della nostra apparente solitudine cosmica.
Questo è l’argomento della mostra che, nell’anno di Galileo, i Musei Vaticani ospitano.
Non c’è chi non veda la straordinaria rilevanza culturale e anche “politica” dell’evento.
Si spiegano così l’alto patronato concesso dal segretario di Stato vaticano e dal presidente della Repubblica italiana, le prestigiose presentazioni in catalogo (Città del Vaticano – Livorno, Musei Vaticani – Sillabe) del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, e del cardinale Giovanni Lajolo, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, e l’indirizzo di saluto del ministro italiano dell’Istruzione, Università e Ricerca, Mariastella Gelmini.
Due cose hanno mosso gli uomini a scrutare i cieli: la curiosità e lo stupore.
Non si può vivere sulla Terra senza cercare di capire l’infinito incognito che ci circonda e ci sovrasta.
Come spiegare le fasi della Luna e i movimenti degli astri? Perché il Sole sale e discende, stagione dopo stagione, i gradini del cielo? Perché la caduta dei meteoriti che incendiano le notti d’estate e perché l’apparizione delle comete portatrici di prodigi e di presagi? Quanto è grande il firmamento, quanto distano dalla Terra le stelle a noi più vicine? Quali leggi governano – forse immutabili ed eterne, forse in continua evoluzione – l’universo di cui facciamo parte? Sono domande che gli uomini si sono posti da sempre.
Ne abbiamo una rappresentazione splendida nel mosaico del Museo nazionale di Napoli proveniente da Pompei e databile al I secolo prima dell’era cristiana, che ci presenta una pensosa raccolta di filosofi e di scienziati intenti a riflettere e a disputare di fronte a un globo celeste.
Sono domande che per trovare parziali e provvisorie risposte hanno avuto bisogno degli strumenti rari e sofisticati che la mostra ci offre.
Eppure la curiosità o per meglio dire l’ansia di conoscenza è sempre preceduta dalla emozione e l’emozione produce “stupore” che è sentimento profondamente umano, di segno evocativo e fantastico.
Il cuore poetico di una mostra gremita di strumenti che hanno permesso agli uomini di scrutare la infinitudine dei cieli è rappresentato, per me storico dell’arte, dalle otto tele di Donato Creti, gioiello della Pinacoteca Vaticana.
Osservazioni astronomiche si intitola la celebre serie, perché ogni tela raffigura fenomeni celesti: il Sole, le mutazioni della Luna, la cometa, i pianeti Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno.
La cosa per me straordinaria è che protagonista di ogni dipinto è il corpo celeste oggetto di astronomica osservazione ma è anche la persona (o le persone) che lo guardano.
Donato Creti, l’artista che dipinse le otto tele nel 1711 su commissione del conte bolognese Luigi Marsili, il quale volle farne dono a Papa Clemente xi, viene dalla tradizione stilistica di Guido Reni.
Governano la sua pittura gli ideali classici della venustà, della amabilità e della grazia.
Questa volta, di fronte a un soggetto iconografico così inusuale, è lo stupore a guidare il suo pennello.
Noi entriamo con Donato Creti nel blu profondo, nel nero luminoso di una grande notte italiana, entriamo nei tramonti infuocati dell’estate, nella luce grigio-azzurra di un’alba serena e proviamo gioia e stupore di fronte ai prodigi che il cielo ci regala.
Dietro gli strumenti astronomici allineati dalla mostra – cannocchiali e telescopi, sfere armillari e globi celesti – in molti casi veri e propri capolavori di saperi scientifici e di talenti tecnologici, ci sono la curiosità e lo stupore.
Sono i sentimenti che Donato Creti ha messo in figura nelle sue tele.
Grazie a lui possiamo meglio capire le ragioni profonde che sempre hanno guidato l’uomo sulle strade impervie e tuttavia affascinanti e in ogni caso non contrastabili, della conoscenza.
di Antonio Paolucci (©L’Osservatore Romano – 14 ottobre 2009)
“Don Luigi Sturzo uomo dello Spirito”
“Don Luigi Sturzo uomo dello Spirito” è il tema del convegno internazionale che si tiene dal 2 al 4 ottobre a Catania e a Caltagirone per i cinquant’anni dalla morte del sacerdote calatino fondatore del Partito popolare italiano.
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento del vescovo Mariano Crociata segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Sono stato colpito dall’opportunità che ci viene data di riflettere sulla figura di don Luigi Sturzo, sulla sua vita, il suo pensiero, le sue opere, mentre è in pieno svolgimento l’Anno sacerdotale voluto dal Santo Padre Benedetto XVI, a 150 anni dalla morte di san Giovanni Maria Vianney.
A uno sguardo non superficiale, infatti, appare un numero imprevisto di analogie tra il cammino del prete di Caltagirone e quello del curato d’Ars.
Davvero una sorpresa: l’amore indefesso per il sacerdozio, la completa dedizione all’eucarestia come sacramento vivificante, l’obbedienza alla Chiesa e ai superiori, la fortezza umana sposata a una infinita umiltà, una salute che faceva penare, il coraggio d’intraprendere cose nuove, il non fermare il proprio ministero sul sagrato dell’edificio di culto…
Ma forse stiamo parlando della verità più profonda del ministero ordinato, la stessa verità che troveremmo in ogni prete vero, che dovremmo poter trovare in ogni prete.
Una verità, quella del servizio presbiterale, che don Sturzo ha illustrato e che in parte non piccola ha contribuito con la sua vita a scoprire, o almeno a rivelare a una porzione significativa di popolo di Dio.
Ci accorgiamo di ciò facilmente se proviamo a guardare al prete con l’aiuto dei documenti del Concilio.
Fin dall’inizio della Presbyterorum Ordinis il prete è definito per il suo dedicarsi al servizio della celebrazione, all’annuncio della parola di Dio, al servizio per l’edificazione del popolo santo.
Tutto quello che sappiamo della vita di don Luigi Sturzo si snoda come una trama dal principio alla fine unificata dal costante primato accordato alla celebrazione della messa.
Egli la visse con una intensità resa possibile da un costante lavoro di distinzione del valore di questa azione sacramentale dal resto delle pratiche di devozione, che non disprezzò ma che seppe dimensionare orientando la propria vita di credente e di prete su ciò che noi oggi, grazie al Concilio, professiamo con rinnovata certezza quale fonte e culmine della vita cristiana.
Quando fu posto di fronte all’alternativa tra servizio ministeriale e altri pur meritevoli e preziosi impegni, don Luigi Sturzo fece ciò che richiedeva il restare ciò che era divenuto: un prete.
Ci insegnò una strada per far crescere la Chiesa e la fede attraverso il provvidenziale crogiolo della modernità e ci insegnò un sentiero di testimonianza della fede nella polis fino ad allora ignorato, se non ritenuto impossibile o addirittura sbagliato.
Se la nostra fede e la nostra Chiesa respirano, se sanno respirare a pieni polmoni della libertà che questi tempi ci consentono e a cui quasi ci obbligano, se la fede non è impaurita dalla coscienza, questo è ancora merito suo.
Come Rosmini, come Manzoni, come Montini, don Luigi ci ha aiutato a sondare nuove dimensioni di quella misura alta di umanità che è la santità, come spesso ci ha ricordato Giovanni Paolo II.
Ed in più, don Luigi ci ha insegnato quanto sia vero che nella Chiesa si può edificare senza primeggiare, si può fare molto con poco potere.
Di quale magistero e di quale edificante testimonianza è stato capace permanendo nel servizio, quello vero e pesante, quello spesso incompreso, non quello che si menziona solo come fosse un soprannome dato a cariche, prestigio, o visibilità! Possiamo chiederci se don Sturzo è stato un modello di prete.
È difficile dirlo.
Certo non credo sia immaginabile né tanto meno auspicabile nelle odierne circostanze un prete segretario di partito.
Ma forse questa domanda non è di particolare utilità.
Posto che fu testimone credibile, e che è ancora, e forse più di allora, testimone credibile, che importa se possa essere o meno anche un modello? Non abbiamo, forse oggi più che mai, bisogno di credenti, e di preti, che sappiano vivere la fedeltà nell’immaginazione, nella scelta, piuttosto che nella mera ripetizione? E se ci poniamo in questa prospettiva, ecco che la memoria di don Luigi si rivela feconda per la vita; ecco che l’istanza di fedeltà al vangelo e alla Chiesa, che sta di fronte a ogni battezzato e a ogni prete, si fa più bella.
Quella di don Luigi è una testimonianza feconda e di grande ammaestramento non per il grado di ripetibilità della sua esperienza, ma per l’intensità che essa raggiunse in alcune dimensioni, e che raggiunse sempre cercando nella vita soprannaturale la verità e la radice di ogni trama e di ogni istante della nostra vita terrena.
Don Luigi ci dà misure d’intensità che ci spronano e ci confortano insieme.
Pensiamo alla intensità della sua vita interiore.
Soprattutto i giovani dovrebbero essere informati sul regime, sul realismo e sulla qualità evangelica della sua vita di preghiera, per la maggior parte nascosta, non spettacolarizzata.
A noi può a volte persino spaventare la durata e la profondità dell’immergersi di don Luigi nel mistero di Dio a partire dalla parola di Dio.
Ma non solo a partire dalle Scritture.
Come potremmo infatti comprendere don Sturzo se separassimo la sua passione militante per lo studio dalla sua vita di preghiera? Forse proprio questa è una delle grandi sfide che ci troviamo dinanzi nell’atto d’accingerci ad affrontare l’emergenza educativa.
Giova alla preghiera cristiana una contrapposizione allo studio? Giova forse allo studio dei credenti una sua contrapposizione alla preghiera? Come per san Tommaso, anche per don Luigi questa contrapposizione non aveva alcuna legittimità, mentre noi, tante volte, ci ostiniamo a costruire tanto devozionalismo e anti-intellettualismo su questa nefasta e fuorviante opposizione! Pensiamo all’intensità con cui don Luigi ha saputo vivere l’obbedienza.
Quante carriere, quanta mondanità d’ogni genere don Sturzo ha saputo evitare o lasciare anche per obbedienza! Un’obbedienza non cieca, un’obbedienza non passiva, un’obbedienza forte, un’obbedienza senza adulazione o abiure.
Quanto conflitto gli ha generato dentro quella obbedienza.
Con la sua vita di libertà mai rinnegata, don Sturzo ci offre una misura d’obbedienza che ci aiuta rendendoci innanzitutto molto, molto umili.
Pensiamo ancora alla intensità con cui don Luigi ha vissuto la lotta, l’agonia del sano agonismo.
Una lotta interiore e pubblica.
Quanta poca ricerca di pace e di consenso a ogni costo nella sua vita spirituale, quale altissima e non infantile idea della comunione ecclesiale, comunione tra persone diverse e libere.
Pensiamo – ed è l’ultimo cenno, che però non posso non fare – alla intensità con cui don Luigi ha sempre cercato la via del rinnovamento, personale, ecclesiale, civile.
Pensiamo a come è riuscito a farsi aprire la mente e il cuore dagli studi romani, a come è riuscito a farsi mutare dall’esperienza pastorale e socio-politica dei primi anni dopo il ritorno in Sicilia, infine a come ha saputo farsi cambiare dall’esperienza durissima dell’esilio – come non attenerci ancora oggi saldamente alla sua dura denuncia delle tre “male bestie”: statalismo assistenzialista, cultura della spesa pubblica, partitocrazia? Forse don Luigi non sarà un modello ripetibile, ma di certo è testimone e sprone a una misura elevatissima d’intensità nella vita interiore, d’intensità nell’obbedienza ecclesiale, di intensità nel coraggio dell’agonismo, e d’intensità nel coraggio del rinnovamento.
(©L’Osservatore Romano – 4 ottobre 2009)
“In-finitum”
Recita la cartella stampa: “Un’opera d’arte può restare incompiuta per cause di ordine pratico, o intellettuali o filosofiche: si possono avere opere “inconsapevolmente incompiute” come accade, ad esempio, anche nei grandi del Rinascimento italiano, Michelangelo, Leonardo e Tiziano”.
Il sottotesto più plausibile di questa mostra veneziana a palazzo Fortuny, intitolata “In-finitum” (e aperta fino al 15 novembre)allude sia alle opere incompiute di artisti del passato o tutt’ora viventi, sia al rapporto con l’infinito che molti pittori e scultori hanno o hanno avuto.
Quando si dice una mostra sofisticata, snob fino al parossismo.
Per visitarla, rigorosamente in fila indiana e a piccoli gruppi, pare sia consigliabile non aver superato i cinquanta ed essere in ottime condizioni psicofisiche.
Ovvero bisogna vederci bene, non soffrire di claustrofobia, essere super aggiornati sulle novità dell’arte contemporanea.
Solo con tali accorgimenti si potranno evitare quei moti di spaesamento e di irritazione che hanno colpito molti visitatori, chiamati a confrontarsi con un eccesso di penombra e la totale assenza di didascalie.
Ma estrapoliamo ancora una citazione dalla cartella stampa.
“Molti sono gli artisti che si sono misurati con il tema dell’infinito, interpretandolo secondo concetti e rappresentazioni proprie della cultura di appartenenza”.
In effetti l’elenco di duecentoquattordici nomi non è solo nutrito, ma apparentemente senza logica.
Perché c’è il neoclassico Canova accanto al metafisico De Chirico? Non solo, ma Malevic con la Nevelson, Duchamp con Dubuffet.
E che dire di un Giulio Paolini con Piranesi e Rothko con Schifano? Più comprensibile Lucio Fontana con Mariano Fortuny, entrambi maghi dello spazio.
Questi, alcuni degli esempi più significativi dell'”improbabile-impossibile” tema svolto dalla rassegna.
Dunque una mostra complessa per non dire laboriosa.
Ma non certo da bocciare, ottima l’idea, eccellenti i nomi.
Inoltre, al termine del percorso, si ha il regalo aggiuntivo di godere di un attico recentemente recuperato ed aperto al pubblico per l’occasione.
Ogni singolo visitatore se lo conquista salendo lentamente le ripidissime ed impervie scale; inesprimibile l’emozione di chi, dopo tanta oscurità e percorsi accidentati, si ritrova all’improvviso al centro di un ambiente circondato di finestre affacciate, a trecentosessanta gradi, sui tetti, sulle altane, sui canali e su quell’indescrivibile riverbero di luce e mare che fanno del panorama di Venezia qualcosa di unico al mondo.
All’interno dell’open-space, Tatsuro Miki e Axel Vervoordt hanno realizzato un Santuario del Silenzio, installazione che recupera uno spazio realizzato con oggetti trovati, dipinti col fango della laguna.
L’ambizione degli artisti è quella di scoprire la bellezza in luoghi e cose apparentemente insignificanti e rispettare la natura così com’è.
In questa stanza, comunque, ci sono altre installazioni difficili da decodificare, come quella dei quattromila aquiloni in miniatura, in seta e bambù, dell’artista Hashimoto.
Forte, allusiva, spirituale, la presenza dei giapponesi, tanto da banalizzare quasi altri nomi altisonanti come Rothko, Picasso, Fontana, Mirò e Kounellis.
Comunque è proprio l’impatto altamente scenografico di questa “camera con vista” che ci spinge a porci un interrogativo.
Perché non ricordare al grande pubblico i meriti del poliedrico talento di Mariano Fortuny? Mariano, infatti, non ha solo dato il proprio nome all’antico palazzo gotico appartenuto alla famiglia Pesaro, ma è stato un grande innovatore nel campo della scenografia e della scenotecnica, della fotografia e della pittura, nonché della creazione di tessuti stampati ispirati all’antica arte veneziana.
Il palazzo doveva servire per poter lavorare a tutte queste discipline che, per la sperimentazione, avevano bisogno di molto spazio per contenere telai, presse e tamponi lignei, alambicchi, colori e solventi, nonché un’infinita varietà di antichi galloni, passamanerie, stoffe, pezze, vesti, provenienti da ogni angolo della terra.
Mariano Fortuny y Madrazo, nato a Granada nel 1871 era figlio d’arte.
A diciott’anni si stabilì a Venezia ove perfezionò i propri studi artistici tra circoli e accademie e dove frequentò amicizie illustri come Gabriele D’Annunzio, la marchesa Casati, Hugo von Hofmannsthal.
Si inserì molto presto anche nel gran mondo parigino, dove ebbe modo di lavorare ad alcune scenografie teatrali per le quali cominciò a studiare soluzioni innovative.
È sua l’idea della Cupola, un particolare sistema di illuminazione della scena che riesce a servirsi della luce indiretta e diffusa.
Anche se il mondo parigino gli presta ammirata attenzione – è l’epoca di Sarah Bernardt – è soltanto con l’entrata nella sua vita di una mecenate, la contessa di Bearn, che la rivoluzione scenotecnica firmata Fortuny trova la sua completa applicazione.
Tra il 1903 e il 1906, il teatro privato della contessa si avvale non solo di luce indiretta, ma di proiezioni di cieli colorati e nuvole.
La fama esplode subito e il sistema di Fortuny viene adottato dai maggiori teatri europei.
Mariano però non si sente ancora appagato e si dedica alla creazione di stoffe, tessuti stampati e non solo.
Infatti negli anni Trenta inventò la carta da stampa fotografica e gli speciali colori a tempera Fortuny.
Una via di mezzo tra un artista, un mago ed un alchimista, come amavano definirlo gli amici Proust e D’Annunzio, alla sua morte, nel 1949, venne sepolto nel cimitero romano del Verano accanto al padre Mariano Fortuny y Marsal (1838-1874).
Negli anni Cinquanta il fascinoso palazzo veneziano fu donato dalla vedova Henriette alla città di Venezia con un ricco fondo di opere che illustrano la ricerca dell’artista tra Otto e Novecento.
Oltre che per le periodiche mostre, Palazzo Fortuny resta un luogo da esplorare quale specchio del fare inesauribile del suo ispiratore.
Basti pensare all’affascinante salone del piano nobile, con la raccolta dei dipinti, dei tessuti preziosi che rivestono le pareti, delle celebri lampade, che diventa anche uno spazio in cui il vuoto riesce a parlare.
Attraverso i muri e le finestre, le luci e i volumi percepiamo sia la storia del palazzo, che quella dell’operosa attività del suo atelier.
L’itinerario all’interno di questo palazzo-opera d’arte si può concludere nella biblioteca ancora pressoché intatta, dove, volendo fermarsi, ci sarebbero nuovi percorsi da meditare.
All'”In-finito”, ovviamente…
(©L’Osservatore Romano – 26 settembre 2009)
l’Agorà dei giovani del Mediterraneo
Anche quest’anno si svolgerà presso il Centro Giovanni Paolo II di Loreto (AN) l’Agorà dei giovani del Mediterraneo, organizzata anche dal Servizio Nazionale di Pastorale Giovanile e dal Movimento Giovanile Missionario.
“Beati quelli che sono perseguitati per aver fatto la volontà di Dio, perché Dio darà loro il suo regno” è il tema di quest’anno, particolarmente attuale nel contesto sociale e globalizzato nel quale viviamo.
Il martirio, segno vivo del sì dell’uomo alla chiamata di Dio e testimonianza ai fratelli, è la luce che illumina il cammino di ciascun cristiano dal giorno del Battesimo e in particolare i giovani sono chiamati ad essere testimoni autentici dell’incontro con Cristo che trasforma radicalmente l’esistenza riempiendola di senso.
L’iniziativa, giunta ormai all’ottava edizione, non rappresenta soltanto un momento di confronto, scambio e conoscenza tra giovani; ciascun partecipante rappresenta, infatti, la Chiesa locale che lo invia e, soprattutto, lo attende al termine dell’Agorà per valorizzare insieme i frutti dell’esperienza vissuta.
In particolare la comunità diocesana è chiamata ad allargare gli orizzonti dell’azione pastorale attraverso gesti concreti di conoscenza, testimonianza, solidarietà e scambio tra nazioni.
Sono molte le chiese locali italiane che hanno progetti di cooperazione in Europa, in Medio Oriente e nel bacino del Mediterraneo, i quali non di rado prevedono il coinvolgimento di giovani volontari e gruppi giovanili: l’Agorà del Mediterraneo è un’opportunità per stimolare i giovani e le comunità italiane a far nascere iniziative di cooperazione anche lì dove ancora non esistono.
Il carattere internazionale dell’evento, l’apertura al Mediterraneo e all’Europa e alle problematiche che attraversiamo, rende l’iniziativa particolarmente adatta a giovani che abbiano fatto un anno di studio all’estero (adolescenti del quarto anno delle Superiori), abbiano fatto o stiano per fare l’Erasmus o il progetto Leonardo, abbiano vissuto una o più esperienze in terra di missione (in gruppo o singolarmente), abbiano maturato una o più esperienze lavorative all’estero.
È importante che l’invito sia pensato, inserito in un progetto pastorale diocesano sempre più capace di aprirsi alle altre culture e al mondo, un progetto che sappia inviare i giovani all’Agorà e coinvolgerli al loro rientro con iniziative che li vedano operatori di pace verso i loro coetanei.
Sarebbe bello se ogni diocesi italiana riuscisse ad inviare due giovani all’Agorà dei giovani del Mediterraneo per continuare un percorso di pastorale giovanile diocesana sempre più aperto all’accoglienza dello straniero e alla comunione tra giovani cristiani.
L’invito può essere esteso anche a giovani stranieri che risiedano stabilmente in Italia (per lavoro o studio) e siano in qualche modo inseriti nella vita della comunità cristiana.
Vitto e alloggio al Centro Giovanni Paolo II di Loreto sono gratuiti; il viaggio è a carico dei partecipanti.
AGORÀ DEI GIOVANI DEL MEDITERRANEO VIII EDIZIONE 1-8 settembre 2009 Centro Giovanni Paolo II 8 – 12 settembre accoglienza in alcune diocesi italiane « Beati quelli che sono perseguitati per aver fatto la volontà di Dio: perché Dio darà loro il suo regno » Anche quest’anno, presso il Centro Giovanni Paolo II, si svolgerà l’Agorà dei giovani del Mediterraneo.
Il tema: Beati quelli che sono perseguitati per aver fatto la volontà di Dio: perché Dio darà loro il suo regno, è particolarmente attuale nel contesto sociale e globalizzato nel quale viviamo. Il martirio, segno vivo del si dell’uomo alla chiamata di Dio e testimonianza ai fratelli, è la luce che illumina il cammino di ciascun cristiano dal giorno delBattesimo, in particolare i giovani sono chiamati ad essere testimoni autentici dell’incontro con Cristo che trasforma radicalmente l’esistenza riempiendola di senso.
L’iniziativa, giunta ormai all’ottava edizione, non rappresenta soltanto un momento di confronto, scambio e conoscenza tra giovani; ciascun partecipante rappresenta, infatti, la Chiesa locale che lo invia e, soprattutto, lo attende al termine dell’Agorà per valorizzare insieme i frutti dell’esperienza vissuta.
In particolare la Comunità Diocesana è chiamata ad allargare gli orizzonti dell’azione pastorale attraverso gesti concreti di conoscenza, testimonianza, solidarietà e scambio tra nazioni.
Sono molte le chiese locali italiane che hanno progetti di cooperazione in Europa, in Medio Oriente e nel bacino del Mediterraneo, i quali non di rado prevedono il coinvolgimento di giovani volontari e gruppi giovanili, l’Agorà del Mediterraneo è un’opportunità per stimolare i giovani e le comunità italiane a far nascere iniziative di cooperazione anche lì dove ancora non esistono.
Il carattere internazionale dell’evento, l’apertura al mediterraneo e all’Europa e alle problematiche che attraversiamo, rende l’iniziativa particolarmente adatta a giovani che: abbiano fatto un anno di studio all’estero (adolescenti del quarto anno delle Superiori); abbiano fatto o hanno in mente l’Erasmus o il progetto Leonardo; abbiano vissuto una o più esperienze in terra di missione (in gruppo o singolarmente); abbiano maturato una o più esperienze lavorative all’estero.
È importante che l’invito sia pensato, inserito in un progetto pastorale diocesano sempre più capace di aprirsi alle altre culture e al mondo, un progetto che sappia inviare i giovani all’Agorà e coinvolgerli al loro rientro con iniziative che li vedano operatori di pace verso i loro coetanei.
Sarebbe bello se ogni Diocesi italiana riuscisse ad inviare due giovani all’Agorà dei giovani del Mediterraneo per continuare un percorso di pastorale giovanile diocesana sempre più aperto all’accoglienza dello straniero e alla comunione tra giovani cristiani.
Se presenti, ti proponiamo di invitare anche giovani stranieri che risiedono stabilmente in Italia (per lavoro o studio) e sono in qualche modo inseriti nella vita della comunità cristiana.
Vitto alloggio al Centro Giovanni Paolo II di Loreto sono è GRATUITI; il viaggio è a carico dei partecipanti.
Programma dell’iniziativa Scheda di Iscrizione