Preghiera e solidarietà: 16 maggio, in piazza con il Papa

Sarà il card.
Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ad aprire domenica mattina il grande raduno in Piazza San Pietro per esprimere solidarietà al Papa, nel quale si pregherà anche per le vittime dei preti pedofili.
«La grande presenza è un segno efficace di affetto», ha sottolineato il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, ricordando l’attualità della richiesta di penitenza contenuta nel Messaggio di Fatima.
Per padre Lombardi, «il Papa ha certamente gradito» nei giorni scorsi la partecipazione massiccia dei cattolici portoghesi ai diversi appuntamenti del viaggio che si è appena concluso.
Riferendosi allo scandalo degli abusi che il Pontefice ha letto nei giorni scorsi alla luce del messaggio di Fatima, Lombardi ha sottolineato ancora una volta che per Benedetto XVI «le sofferenze e le difficoltà della Chiesa vengono anche, in particolare, dal nostro interno, cioè dal nostro essere peccatori, e per questo il messaggio di conversione e di penitenza ha una particolare attualità e importanza».
Con questo spirito «pregheremo sicuramente per tutte le vittime», assicura Paola Dal Toso, segretaria delal Consulta Nazionale delle Aggregazioni Laiclai, che ha promosso l’iniziativa.
«È subito emerso questo bisogno – rivela ai microfoni della Radio Vaticana – nel momento in cui abbiamo cominciato a pensare anche a questo tipo d’iniziativa.
Così come vogliamo anche ricordare il tanto bene che non fa rumore, che viene compiuto da tanti sacerdoti, dove si trovano, nell’anonimato, il tanto bene che realizzano e che non fa certamente pubblicità».
La nostra, ricorda, «è un’iniziativa che parte proprio dalla base, cioè proprio dalle associazioni, dalle aggregazioni, alle quali poi si sono unite alcune che non fanno parte della Consulta Nazionale delle Aggregazioni Laicali.
Ma di sicuro ci saranno anche moltissime parrocchie, scuole cattoliche, le famiglie e tutta quella realtà di laici, che anche spontaneamente, sicuramente, saranno presenti, perché sensibili e perchè vogliono condividere».
La vigilia.
Dare voce ai sentimenti, molto diffusi a livello popolare di fedeltà, gratitudine e sostegno filiale a Benedetto XVI.
È l’aria che si respira alla vigilia dell’arrivo a Roma di decine di migliaia di fedeli da tutta Italia che hanno raccolto l’invito della Consulta nazionale delle aggregazioni laicali a ritrovarsi in piazza domani.
La parola d’ordine è arrivare per tempo ben prima della preghiera del Regina Coeli.
Alle 11, infatti, il colonnato del Bernini accoglierà gli aderenti ad associazioni e movimenti ecclesiali che parteciperanno a una celebrazione della Parola presieduta dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei.
«Come pastori siamo accanto al laicato cattolico, raccogliendo l’invito delle realtà che aderiscono alla Consulta nazionale delle aggregazioni laicali.
La solidarietà al Papa in questo tempo di prova – sottolinea il vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Cei dal sito http://www.cnal.it/ – e l’adesione convinta al suo magistero sono un segno concreto di comunione ecclesiale».
Un gesto di unità che si è venuto costruendo in questi giorni come Avvenire ha puntualmente documentato ospitando le adesioni di numerosi movimenti e associazioni e le testimonianze di chi si prepara a partire.
«Testimoniare l’affetto e la vicinanza a Benedetto XVI è dovere morale per ogni cristiano, e lo è anche per ogni vincenziano», nota Claudia Nodari, presidente nazionale della Federazione della Società di San Vincenzo De Paoli.
«Siamo vicini al Papa – prosegue – anche contro il tentativo di cancellare tutto il bene che la Chiesa ed i suoi ministri hanno fatto e continuano a fare per il bene spirituale e materiale delle persone in ogni parte del mondo».
«Sentiamo il dovere di ringraziare il Pontefice per l’esempio che ci offre e per il suo costante insegnamento a fronteggiare il male non con il male, ma con il bene», sottolinea il presidente nazionale dell’Unione giuristi cattolici italiani, Francesco D’Agostino.
Anche i giuristi cattolici, aggiunge il presidente, saranno in San Pietro domani «per pregare e per dare un segno della comunione che unisce tutti coloro che sono in ascolto della Parola di Dio».
Anche il consiglio esecutivo dell’Assemblea dei dipendenti laici vaticani in un comunicato ha segnalato ai propri associati l’appuntamento di domenica.
«Condividiamo l’iniziativa nel desiderio di far sentire a Benedetto XVI tutto il nostro affetto e supporto in questo momento, come fedeli e come suoi collaboratori» si legge.
E sono decine i comunicati e le segnalazioni di adesione all’iniziativa – pervenuti anche dalle diocesi italiane, molte delle quali hanno anche promosso iniziative specifiche – che stanno giungendo in queste ore alla segreteria della Cnal, disponibili nel sito www.cnal.it.
Il sito della Consulta a partire dalle 10,55 di domani fino alle 12,20 trasmetterà in diretta audio-video il momento di preghiera e di incontro.
Attesi treni speciali e centinaia di autobus da tutta la Penisola provenienti anche da diocesi, parrocchie, scuole e università.
L’incontro sarà seguito in diretta da Tv2000 a partire dalle 10,55 e da «A Sua immagine» (Raiuno) dalle 10,30.
Il blog www.asuaimmagine.blog.rai.it, che ha lanciato l’iniziativa «Il tuo sms al Papa», è stato raggiunto da 15mila contatti al numero 335.1863091.
A conclusione della giornata domani alle 15, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, Bagnasco presiederà una Messa.
Avvenire 15 05 2010

Strategie per gestire i comportamenti di disturbo

Riprendo il contributo di questo lavoro, partendo dalla conclusione dell’articolo precedente, dove ho evidenziato alcuni comportamenti di disturbo.
Dicevo che il clima comunicativo del gruppo comprende anche i momenti di noia e di disturbo: sono tutti stimoli che se adeguatamente rilevati possono consentire al gruppo di evolvere verso il compito: fare del disturbo un motivo di apprendimento, utilizzare il segnale della noia per riorientare i lavori.
  Per la gestione dei gruppi si possono utilizzare due strumenti fondamentali:   a)      lo strumento della parola, pensando agli stili di comunicazione efficace b)      lo strumento ancora più efficace: l’intervento sul e con il “non verbale”, molte volte infatti i disturbi si gestiscono con movimenti del corpo, avvicinamento alla persona che parla e inoltre con giochi/esercizi centrati sul non verbale.
  Nella comunicazione efficace è presente in maniera sinergica il mondo verbale e non verbale delle persone.
La distinzione qui riportata è solo per motivi didattici.
  Il contenuto che segue è un tentativo di riflettere su quello che spesso osservo e faccio durante la conduzione di gruppi di lavoro.
Questo è il resoconto di una mia riflessione sulla pratica di conduzione dei gruppi.
Questa esperienza non ha un intento di tipo teorico, ma semplicemente narrativo.
Tale dimensione narrativa però, nel prossimo articolo, sarà inserita all’interno di un modello teorico di riferimento.
Infatti, nel prossimo articolo affronteremo il tema del team building secondo l’approccio del costruttivismo.
    IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI CON IL PRIMATO DELLA VOCE     La nostra voce è uno strumento di espressione molto differenziato, che orchestra e interpreta il nostro discorso: il timbro della voce, l’altezza del suono, il volume, il modo di usare il respiro, il ritmo dell’articolazione, la risonanza, la velocità e la lentezza nel parlare: tutto questo dice parecchio di chi parla, a volte più che non il contenuto del messaggio.
Si possono comprendere anche aspetti della personalità di chi parla, se si fa attenzione alla sua voce.
  – Come gestire chi parla troppo   Quando nel gruppo ci troviamo di fronte ad una persona che parla tanto e velocemente, un modo per aiutarla a contenersi e modellizzare un nuovo comportamento è quello di rispondere con un timbro molto basso e lentamente.
Certo, il limite di questa considerazione, che qui facciamo, sta nel fatto che non possiamo vedere quello che realmente succede.
Se provate però ad avvicinarvi alla persona che parla troppo veloce e provate a rispondere in maniera lenta, vedrete gli effetti.
A bassa voce potreste dire: “Mi chiedo qual è l’obiettivo di questa tua considerazione.
Ti chiedo di fermarti, perché faccio fatica a seguirti e voglio dare spazio anche agli altri”.
  –          Come gestire il tacere   Talvolta capita che all’inizio di un incontro, la persona più timida per evitare di esplorare lo spazio della stanza si siede sulla prima sedia che trova libera e cioè quella più vicina alla porta.
Questa persona osserva, ascolta, ma in silenzio.
Un primo modo per aiutarla ad entrare nella relazione con il gruppo è quello di avvicinarsi e, mentre si parla, mettere la mano sulla spalla in modo tale che sul piano non verbale lo si include nel processo comunicativo.
Sul piano della comunicazione verbale si può chiedere un parere su quello che si dice, mostrandogli così stima e considerazione.
Naturalmente tutto questo dovrà essere fatto con autenticità: se facciamo finta di includere una persona taciturna, l’effetto di questa azione sarà il rinforzo delle sue resistenze.
Il silenzio dell’intero gruppo può indicare che le idee di base di una discussione non sono chiare.
In questo caso il facilitatore può essere di aiuto collegando le idee dei singoli partecipanti e facendo, per esempio, uno schema di sintesi.
Inoltre il silenzio può provenire dalla paura di impegnarsi e di esporsi, se c’è poca fiducia negli altri membri del gruppo.
Il silenzio può inoltre esprimere noia se i partecipanti pensano che si pretende troppo poco nel gruppo o se le loro aspettative non corrispondono all’azione del momento del gruppo.
Il facilitatore per tentare di risolvere la situazione di silenzio nel gruppo può chiedere cosa si pensa del silenzio e che cosa si è pensato e sentito durante tale periodo.
Il silenzio del singolo partecipante inoltre può essere un’azione consapevole del soggetto per “punire” il facilitatore o altri partecipanti.
Il silenzio inoltre può essere una fuga per contattare, per via immaginativa, altre scene primarie della storia personale.
Il silenzio può dunque esprimere aspetti molti diversi della situazione del gruppo.
Non c’è uno schema prestabilito secondo il quale il facilitatore potrebbe agire, ma rispetto al silenzio il facilitatore dovrà essere lucido, prendersi del tempo e porsi alcune domande:   –          se e in quale misura il facilitatore è preoccupato per tale silenzio e quale sia la sua reazione emozionale; –          se e in quale misura il gruppo sia preoccupato del silenzio stesso; –          se un certo partecipante con il silenzio esprima una ritirata improduttiva; –          quale sia il messaggio specifico del silenzio; –          e in ultimo, il fattore più importante, quali segnali non verbali del gruppo “commentano” il silenzio…   Ecco alcune vie verbali per entrare in contatto: il facilitatore potrebbe dire: “Al momento ho poco contatto con te e vorrei sapere che cosa ci comunichi con il tuo silenzio”.
Se tace tutto il gruppo invece, il facilitatore potrebbe dire: “Non sono sicuro di che cosa voglia dire il vostro silenzio.
Che cosa volete esprimere con questo silenzio?”   –          Come gestire il generalizzare   Di solito una comunicazione efficace con le persone che generalizzano si esprime con una domanda: “Ti chiedo, per favore, di fare un esempio concreto.
Prova ad immaginare di parlare ad un bimbo di sei anni”.
In tal modo, chi di solito generalizza apprende gradualmente l’importanza di essere concreto e circostanziato.
Non sono gli altri che devono capire o gli altri che non ascoltano.
Il punto è quanto io ascolto, quanto capisco gli altri, quanto mi assumo la responsabilità di farmi capire.
Chi generalizza non parla di persone, parla di oggetti (loro, quelli, sempre…).
  –          Come gestire chi fa domande in continuazione   Il punto è individuare che tipo di domanda fa il componente del gruppo e perché la fa.
Dalla mia esperienza le domande evidenziano spesso un attacco verso il leader, sono un tentativo di far capire che si conosce bene l’argomento, quasi a intendere che il leader è un sapiente onnisciente che ha ricevuto il “Verbo”.
Con queste persone, se il leader evidenzia che a quella domanda non sa rispondere e dice di prendersi del tempo per studiare la risposta, si modellizza in questo modo l’idea che il leader non è la persona che sa tutto ma al contrario quella che è disposta ad imparare.
  –          Come gestire il frequente interpretare   Ci sono persone che nel gruppo di solito sono influenzate da modelli, teorie, punti di vista, esperienze che talvolta vengono assolutizzati e attraverso i quali si leggono le situazioni, i fatti, le persone, quello che si dice ecc.
Questi modelli vengono applicati senza criterio ad ogni situazione comunicativa e quindi ci si può sentir dire: “Siccome non mi hai guardato negli occhi, tu non mi ascolti” e magari questa comunicazione arriva da uno che sta in fondo alla sala, mentre si lavora in gruppo! Il punto di fondo del frequente interpretare sta nel fatto che molte volte non siamo consapevoli di proiettare il nostro vissuto emotivo e cognitivo sulla vita degli altri.
  –          Come gestire i colloqui “fuori la porta”   Molti partecipanti, durante il lavoro di gruppo, tendono a bisbigliare con il loro vicino mentre sta parlando un’altra persona.
Se il facilitatore non interviene, la coesione del gruppo ne soffrirà notevolmente, perché questi colloqui possono provocare diffidenza e irritazione.
Il facilitatore in questo caso domanderà a coloro che fanno il colloquio a parte se siano disposti a comunicare il contenuto del colloquio a tutto il gruppo.
  –          Come gestire ritardi e assenze   Spesso succede che i singoli partecipanti tardano o non vengono ai gruppi di lavoro, esprimendo così la loro opposizione all’attività di gruppo o nei confronti del facilitatore.
In alcuni casi l’assenza evidenzia il fatto che c’è un’attività che procura paura.
In altri casi alcune esigenze personali sembrano non rispettate.
Cosa deve fare il facilitatore? Una prima ipotesi potrebbe essere la seguente: “Che cosa vuol dire per voi il fatto che questa persona non c’è”.
Il facilitatore dovrà anche parlare del fatto che ognuno ha il diritto di ritirarsi in ogni momento dell’interazione di gruppo, ma è importante che avverta di volersi ritirare.
E’ una indicazione di adultità l’assumersi la responsabilità di non voler lavorare con questo gruppo perché non risponde né ai bisogni personali e nemmeno a quelli professionali.
    PER CONCLUDERE     Gestire i disturbi: non ci sono ricette o procedure standard, è necessario fare esperienze, riflettere e provare nuove strategie.
L’esperienza, l’ascolto e soprattutto la supervisione ci consentono di imparare nuove modalità di aiutare il gruppo a sviluppare le risorse personali e quelle professionali.
Nel prossimo articolo svilupperemo la dimensione teorica di questo approccio al lavoro di gruppo.
Parleremo di costruttivismo.

L’Irc laboratorio di cultura e di umanità

Si terrà dal 12 al 14 aprile a Torino, presso il Novotel (corso Giulio Cesare, 338), il Convegno nazionale per direttori e responsabili diocesani dell’Insegnamento della religione cattolica (Irc), organizzato dal Servizio nazionale per l’Irc della CEI sul tema “L’Irc laboratorio di cultura e di umanità: il contributo degli Uffici Diocesani”.
Si aprirà con un un momento di preghiera alle 8.45 presieduto da S.
Em.za Card.
Severino Poletto, Arcivescovo di Torino.
Seguirà il saluto introduttivo di Don Vincenzo Annicchiarico, Responsabile del Servizio Nazionale per l’Irc.
Alle 9.15 il Card.
Poletto porgerà un saluto ai partecipanti.
Poi faranno seguito quelli del Dott.
Francesco De Sanctis, Direttore Scolastico Regionale del Piemonte e di Don Bruno Porta, Responsabile Regionale Irc.
Alle 10.00 la relazione di S.
E.
Mons.
Ignazio Sanna, Arcivescovo di Oristano sul tema “La questione antropologica ed il contributo dell’Irc all’educazione”, cui seguiranno un breve dibattito e, per tutto il pomeriggio, una serie di laboratori seminariali.
Il programma di martedì sarà aperto alle 7.30 dalla S.
Messa presieduta da S.
E.
Mons.
Guido Fiandino, Vescovo ausiliare di Torino.
In mattinata sono previste due relazioni: alle 9.15 quella su “La riforma del 2° Ciclo”, a cura del Dott.
Giuseppe Cosentino, Capo Dipartimento per l’Istruzione delMIUR.
Alle 10.00 sarà invece la volta di Don Filippo Morlacchi, Responsabile Regionale Irc del Lazio (“L’Irc nel riordino del 2° Ciclo”).
A fine mattinata la conclusione dei laboratori seminariali del giorno precedente mentre il pomeriggio e la serata del 13 aprile saranno dedicati alla Venerazione della Sacra Sindone.
Mercoledì 14 aprile alle ore 9.15Don Cesare Bissoli, Docente emerito di Bibbia e Catechesi presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, interverrà su “Lettura biblico-teologica dei traguardi per lo sviluppo delle conoscenze (tsc) e degli obiettivi di apprendimento (oa) dell’Irc dell’Infanzia e del 1° Ciclo” mentre alle 11.15 è prevista l’ultima relazione del convegno, “Rilevare i dati nazionali sugli avvalentesi dell’Irc: criteri scientifici di riferimento e ricaduta sull’operato delle singole diocesi”, a cura del Dott.
Alessandro Castegnaro, Docente di Politica sociale all’Università degli Studi di Padova e Presidente dell’OSReT (Osservatorio socio-religioso del Triveneto).
«Il convegno», spiega Don Vincenzo Annicchiarico, «sarà un’occasione di confronto sulle novità che investono il mondo della scuola e quindi l’Irc ma anche un momento di riflessione sulla questione educativa e sul contributo che l’Irc può dare alla crescita e alla formazione delle nuove generazioni».

La Sindone

TRA FEDE E DEVOZIONE «Davanti alla Sindone con la nostalgia di Dio» 10 aprile 2010 Marina Corradi STORIA E MEMORIA Icona del Figlio, devozione antica 09 aprile 2010 Gian Maria Zaccone, direttore scientifico del Museo della Sindone di Torino e vicedirettoredel Centro internazionale di sindonologia IL PERCORSO L’ultimo chilometro dei viandanti 09 aprile 2010 Federica Bello Con le nostre ferite davanti all’«immagine del silenzio» I torinesi e ogni altro allo specchio che non mente 09 aprile 2010 Riccardo Maccioni FEDE E RAGIONE Sindone, sfida alla scienza 09 aprile 2010 Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di sindonologia IL TESSUTO Su quel lino lo «specchio» del Vangelo 09 aprile 2010 Federica Bello Il momento tanto atteso dell’ostensione della Sindone è arrivato.
Dal 10 aprile e fino al 23 maggio, per la decima volta dal 1578 e la quarta dal 1978, la celebre reliquia sarà esposta al pubblico in una sala allestita all’interno del Duomo di Torino .
Il capoluogo piemontese ospiterà i due milioni di pellegrini e non desiderosi di ammirare il lenzuolo utilizzato – secondo tradizione – per avvolgere il corpo di Gesù nel sepolcro.
L’ultima ostensione risale al 2010.
E la Sindone nel frattempo si è «rifatta il trucco»: l’ostensione di quest’anno, che sarà suggellata il 2 maggio dalla visita di Ratzinger, è infatti la prima da quando il telo di lino è stato sottoposto, nel 2002, ad un intervento di conservazione che lo ha riportato al suo antico splendore.
 DUE MILIONI – Più di un milione e 400 mila persone si sono prenotate per poter osservare il lenzuolo utilizzato – secondo tradizione – per avvolgere il corpo di Gesù nel sepolcro.
Ma all’interno del Duomo di Torino, nelle sei settimane dell’ostensione, ne sono attese almeno un milione e 800 mila.
Da parte sua, il presidente della Commissione diocesana della Sindone, monsignor Giuseppe Ghiberti, ha affermato che «sono attesi 2 milioni di fedeli».
Per questo, «ogni pellegrino potrà fermarsi a guardare la Sindone dai 3 ai 5 minuti, a seconda del flusso di persone».
La visita potrà essere prenotata, oltre che sul sito internet www.sindone.org, direttamente a Torino, negli appositi spazi allestiti all’inizio del percorso dell’Ostensione.
Si potrà entrare nel Duomo anche senza, ma in questo caso la Sindone sarà visibile solo da lontano.
IL TEMA PASTORALE – Un «grande evento», insomma, che però «non è un fatto di turismo religioso, ma un’iniziativa spirituale e pastorale».
Così l’ha definito il custode pontificio della Sindone, l’arcivescovo di Torino, cardinale Severino Poletto.
Il tema scelto per questa ostensione è «Passio Christi passio hominis», per sottolineare «il forte collegamento tra l’immagine sindonica, testimonianza della Passione del Signore, e le molteplici sofferenze degli uomini e delle donne di oggi».
«Davanti alla Sindone si va per pregare e questo vale per tutti», ha sottolineato il cardinale a margine della conferenza stampa di presentazione dell’ostensione.
Poletto ha poi ribadito che l’evento è «essenzialmente spirituale e religioso e non commerciale o turistico».
E ha rivolto un appello ai pellegrini: «Il vostro – ha detto rivolgendosi direttamente a loro – è un percorso di fede e di preghiera.
Vi invito quindi alla concentrazione e ad evitare, se possibile, di scattare foto o realizzare filmati».
LA VISITA DEL PONTEFICE – Papa Benedetto XVI sarà a Torino domenica 2 maggio.
Alle 10 celebrerà la Messa in piazza San Carlo e guiderà poi la recita del Regina Caeli.
Nel pomeriggio, dopo un incontro con i giovani della Diocesi, si recherà in Duomo per la sosta di venerazione davanti alla Sindone e una riflessione sui temi dell’ostensione.
«Un tesoro prezioso da custodire a lungo nel tempo – come l’ha definita il cardinale Poletto – un dono preziosissimo perchè Papa Benedetto sa presentare le grandi verità della fede».
LA SICUREZZA – La sorveglianza dell’evento è affidata alle forze dell’ordine, coordinate dal prefetto di Torino Paolo Padoin.
Per l’occasione stanno arrivando da tutta Italia circa 200 rinforzi, tra polizia e carabinieri.
Un grosso aiuto lo darà anche la tecnologia: sulla Sindone vigileranno infatti telecamere di ultima generazione, con tanto di sensori anti-terrorismo in grado di segnalare eventuali movimenti sospetti.

I colori di Giotto

In occasione dell’ottavo centenario dell’approvazione della Regola di san Francesco, l’11 aprile s’inaugura, presso la basilica di San Francesco ad Assisi e al Palazzo del Monte Frumentario, la mostra “I colori di Giotto.
La basilica di Assisi tra restauro e restituzione virtuale” curata da Giuseppe Basile.
Nell’occasione – e fino al 5 settembre – si apre ai visitatori il cantiere di restauro dei dipinti murali di Giotto nella Cappella di San Nicola della Basilica inferiore.
Pubblichiamo un testo del direttore dei Musei Vaticani, che è anche il presidente del Comitato scientifico della manifestazione.
Questo anno 2010 segna l’ottavo centenario dalla approvazione della Regola Francescana.
Da Assisi è nato il grande incendio che ha investito l’intera cristianità dalla Scozia alla Sicilia, dal Portogallo ai Balcani e alla Terra Santa.
Non basterebbe una intera biblioteca per contenere tutto quello che è stato scritto, in otto secoli, su san Francesco, sui suoi discepoli, sulla diffusione dell’ordine in tutte le sue varianti (i conventuali, gli osservanti, i cappuccini), sulla infinita gemmazione di sapienza e di bellezza che l’insegnamento del maestro ha prodotto ai quattro angoli del mondo in ottocento anni.
Nella teologia, nella filosofia, nella poesia, nella musica, nell’architettura, nelle arti figurative.
Tutto è nato ad Assisi.
Da Assisi l’imago Francisci si è diffusa nel mondo cristiano, lo ha abitato e lo ha fecondato.
Alla base della fortuna planetaria che ha accompagnato fino a oggi le opere e i giorni del santo, ci sono gli affreschi nella Chiesa Superiore di Assisi.
Da lì bisogna partire per intendere quel fenomeno grandiosamente epico che è stato il francescanesimo.
Ed ecco la mostra che, voluta dal sindaco Claudio Ricci e dal custode del Sacro Convento, Giuseppe Piemontese, curata da Giuseppe Basile è stata inaugurata in Assisi il 10 aprile per rimanere aperta fino al 5 settembre.
Le sedi espositive sono la basilica stessa e il Palazzo del Monte Frumentario.
Il titolo “I colori di Giotto tra restauro e restituzione virtuale” fa intendere bene l’obiettivo dell’iniziativa; una iniziativa che sta in bilico fra una filologia storico artistica squisitamente raffinata e il dispiego delle più sofisticate tecnologie digitali ad alta definizione.
Da ciò le ragioni del suo fascino.
Chi, nei prossimi giorni, si recherà ad Assisi potrà vedere da vicino e dal vero i colori di Giotto salendo sui ponteggi della Cappella di San Nicola, nella Basilica Inferiore.
Attualmente è in corso il restauro guidato da Sergio Fusetti e sarà questa l’occasione per capire fino a che punto è lecito sostenere (come io credo) l’autografia del maestro toscano in questo settore del san Francesco.
 Nel trecentesco Palazzo detto del “Monte Frumentario”, di recente restaurato, le storie della Basilica Superiore vengono virtualmente riproposte come “dovevano essere”.
Grazie all’impiego di tecniche fotomeccaniche, digitali e di intervento pittorico manuale, sotto la direzione di Giuseppe Basile coordinatore di una equipe dell’Istituto centrale del restauro, e di Fabio Fernetti, gli affreschi – in scala comprensibilmente ridotta rispetto agli originali – saranno resi visibili nel loro aspetto “originario”.
Al netto quindi delle mutazioni materiche e degli interventi di restauro che li hanno fatalmente coinvolti nei più di sette secoli della loro esistenza.
La restituzione virtuale è di eccellente livello e ci invita a riflettere su quella che è stata definita la “questione omerica” dei nostri studi.
La presenza cioè di Giotto nel cantiere di Assisi.
L’ormai antico dilemma:  “Giotto non Giotto?” non ha avuto fino a ora una risposta certa, risolutiva e da tutti condivisa.
Ci sono studiosi, prevalentemente di oltre Oceano, che non credono che l’autore delle Storie francescane sia il Giotto di cui parla Dante nell’undecimo del Purgatorio:  “Credette Cimabue nella pintura / tenere lo campo ed ora ha Giotto il grido / si che la fama di colui è oscura”.
Gli storici italiani, con la sola cospicua eccezione di Federico Zeri, pensano invece (io fra gli altri) che l’autore delle Storie Francescane sia lo stesso, che, una manciata di anni più tardi, affrescherà per Enrico degli Scrovegni la Cappella dell’Arena a Padova.
Il problema non è tanto il vuoto documentario e l’ambiguità delle fonti più antiche (Vasari) sul ciclo di Assisi a fronte delle certezze antiche e inoppugnabili che possediamo sugli affreschi di Padova.
Il problema è un altro.
Il problema è la grande differenza, non di stile ma di evoluzione e maturità dello stile, che siamo costretti a riscontrare fra l’una e l’altra impresa.
Passare dalle Storie Francescane della Basilica Superiore – scatole prospettiche dove tutto è secco ed essenziale – alla maniera dolce e fusa di Padova, alle scene veterotestamentarie ed evangeliche che sembrano già un anticipo sul Beato Angelico e su Piero della Francesca, è oggettivamente arduo.
Assomiglia a una scalata acrobatica di sesto grado superiore.
Eppure per chi, come me, crede nella autografia di Giotto nella Basilica Superiore di Assisi, l’impasse si supera solo se si tiene conto dei tempi del genio che conoscono accelerazioni vertiginose.
Il Giotto di Padova è già presente in Assisi nel dominio dello spazio, nella scoperta della verità di natura, nella efficacia drammatica e potentemente didascalica delle sceneggiature.
Subito dopo arriva la Cappella degli Scrovegni, cioè l’incipit del Rinascimento.
Per cui, come diceva Berenson, Masaccio altro non è che Giotto “rinato” (born again).
A ben guardare non diversa è stata la traiettoria velocissima di Dante Alighieri dalle prime composizioni “dolcestilnoviste” alla Cavalcanti e alla Guinicelli, al canto dei lussuriosi nell’Inferno.
Per cui quel verso messo in bocca a Francesca (“la bocca mi baciò tutto tremante”) è già Baudelaire, è già la poesia moderna.
di Antonio Paolucci (©L’Osservatore Romano – 11 aprile 2010)

Pastorale giovanile interculturale

Nell’ambito del progetto di ricerca interdisciplinare sulla pastorale giovanile interculturale, portato avanti dall’Istituto di Teologia Pastorale, lunedì 22 marzo 2010, dalle 15.00 alle 18.00,) avrà luogo presso l’Aula VI dell’UPS il seminario su “Pastorale giovanile interculturale: le risorse africane”.
Il prof.
Martin Nkafu Nkemnkia (dell’Università Gregoriana) esaminerà le risorse africane per l’interculturalità dalla prospettiva antropologica e filosofica, mentre, il prof.
Aimable Musoni (dell’UPS), presenterà le risorse africane per l’interculturalità dalla prospettiva ecclesiologica e teologica.
Un panel di professori costituito da Damasio Medeiros, Krzysztof Owczarek e Francis-Vincent Anthony, reagiranno alle relazioni dalla prospettiva del contesto rispettivamente latinoamericano, europeo e asiatico per stimolare il dibattito in assemblea.
Al seminario e al dibattito sono invitati a partecipare docenti, dottorandi, studenti, pastoralisti e catecheti.
Il seminario si colloca in continuità con quello realizzato il 23 novembre dello scorso 2009 che aveva tracciato un quadro teorico-pratico sulla “Pastorale giovanile interculturale” dalla prospettiva educativo-culturale e pedagogico-sociale.
Nei prossimi anni si spera di continuare sulla medesima linea, analizzando le risorse per la pastorale giovanile interculturale nel contesto asiatico, latinoamericano, est-europeo, ecc.
In questo modo si cerca di mettere in relazione le questioni di pastorale giovanile con le acquisizioni dei sinodi e delle conferenze episcopali continentali nella prospettiva interecclesiale e interculturale.
Si tratta di un progetto di ricerca che vuole prendere in considerazione anche gli orientamenti del Capitolo Generale XXVI dei Salesiani di Don Bosco, in modo particolare quello della prospettiva interculturale e interreligiosa della pastorale giovanile.

Immagini dell’uomo immagini di Dio

Continuando a pensare con Giuseppe Barbaglio e dopo i convegni sui mille volti di Gesù e sull’attualità dell’apostolo Paolo, vorremmo ora guardare i volti dell’uomo di oggi e al loro confronto tornare a scrutare le immagini di Dio.
Carla Busato Barbaglio, Rossana Rossanda, Alfio Filippi, Yann Redalié, Severino Dianich e Raniero La Valle. Immagini dell’uomo immagini di Dio   Convegno 2010   Roma 20 e 21 Marzo 2010 Aula Magna della facoltà Valdese Via Pietro Cossa, 42   Clicca per il programma

Cardinale vicario Agostino Vallini: Serve una Chiesa più coraggiosa

Ai politici, agli amministratori, raccomanda “una speciale attenzione ai poveri” e di “non dimenticare di prendersi cura della loro anima e del loro rapporto con Dio”; alla Chiesa chiede invece di essere “più coraggiosa e testimoniante”, con un’adesione più profonda agli orientamenti del concilio Vaticano ii.
Anche perché i giovani “non ci seguono più, sono culturalmente e sensibilmente lontani dai valori cristiani”.
Il cardinale vicario Agostino Vallini traccia un primo bilancio della sua esperienza pastorale alla guida della diocesi di Roma, a distanza di poco meno di due anni dalla nomina, avvenuta il 27 giugno 2008.
La capitale, i suoi cittadini, i suoi fedeli, costituiscono una realtà particolare, una comunità nella quale scorre ancora una “linfa di autentica civiltà”, che fa sì che “gli episodi di intolleranza verso gli immigrati siano rari e apertamente condannati dalla gente”.
Insomma, Roma è ancora a pieno titolo una città profondamente cristiana, nonostante le profonde trasformazioni che ha subìto in particolare negli ultimi decenni.
Tuttavia, c’è molto da fare.
Il cardinale – in questa intervista a “L’Osservatore Romano” – illustra le linee della pastorale diocesana, dalla quaestio fidei alla preparazione dei sacerdoti, dalla formazione cristiana degli adulti alle indicazioni che Benedetto XVI fornisce, costantemente, al suo vicario.
  L’intervista  Eminenza, pochi giorni fa, il 14 febbraio, la visita di Benedetto XVI alla Caritas presso la stazione Termini.
È noto che fra i più poveri, i più bisognosi, figurano gli immigrati.
Lei crede che in futuro possano verificarsi anche a Roma episodi di forte tensione fra cittadini e comunità straniere, come è accaduto altrove? La visita del Papa all’ostello della Caritas alla stazione Termini, nell’anno dedicato dal Parlamento e dalla Commissione europea alla lotta alla povertà e all’esclusione sociale, è stata una intensa esperienza di pastorale sollecitudine del Papa verso i poveri, ricambiata dai presenti, molti dei quali immigrati, con grande emozione e sincera gratitudine.
Un’esperienza di alto valore umano e spirituale che ha trasmesso alla città – ne ho avuta vasta eco nei giorni successivi – un forte messaggio per una cultura che consideri la presenza degli immigrati non come fonte di problemi, ma come persone meno provvedute e come noi titolari di diritti.
Una cultura che la Caritas e le altre istituzioni ecclesiali di carità e di solidarietà presenti a Roma diffondono silenziosamente da anni, dimostrando concretamente che l’emarginazione può essere contrastata e vinta dall’amore e dalla giustizia, in nome della carità di Cristo e della dignità da riconoscere e garantire a ogni persona umana.
Le numerose opere di carità a favore degli immigrati parlano alla città con la volontà anche di riparare in tanti casi alla giustizia negata.
Non dimentichiamo peraltro l’apporto positivo di lavoro e di contribuzione all’economia del Paese dato dagli stessi immigrati, inseriti nella vita sociale.
Questa linfa di autentica civiltà fa sì che a Roma gli episodi di intolleranza verso gli immigrati siano rari e apertamente condannati dalla gente.
In futuro si potranno avere problemi di rapporto e confronto con le comunità religiose diverse da quelle cristiane? Tendo a escluderlo.
Non dobbiamo dimenticare che siamo a Roma e che, per quanto i processi storico-culturali che sembrano dominanti influiscano sul modo di pensare e sui comportamenti delle persone, il tessuto sociale è impregnato di valori cristiani, che sono il rispetto della persona umana e delle idee di ciascuno, il riconoscimento del diritto alla libertà religiosa, lo spirito ecumenico.
La presenza del Papa e della Santa Sede, che costantemente richiamano i valori non solo religiosi ma umani e civili, fa sì che i primi destinatari di questi messaggi siano i romani.
Come è cambiata la città? L’immigrazione, le nuove periferie, le ricadute sociali della crisi economica mondiale ne hanno mutato realmente le caratteristiche? Sì, in modo evidente.
Negli ultimi quarant’anni Roma è progressivamente cambiata.
A quel tempo c’era il centro città con la sua identità di metropoli e le borgate che crescevano.
Una città “a doppia spinta” – dicono i sociologi – dove chi stava bene stava sempre meglio e chi era povero diventava sempre più marginale.
Oggi non è più così:  non c’è più un centro, gli emarginati sono aumentati, non si evidenziano ragioni di coagulo.
“Il vero vizio – è stato detto – è la mancanza di spirito comunitario e di socializzazione”.
A Roma “la gente non si incontra più, non sa dove farlo” e “ciò vale per il centro storico come per la periferia”.
Roma dunque, come ha spiegato Giuseppe De Rita [segretario generale del Censis], sta perdendo la propria identità diventando “un agglomerato di quartieri diversi, che le periodiche ondate migratorie hanno trasformato in maniera strutturale”.
Negli ultimi 60 anni la città è cresciuta di un milione di abitanti, di cui l’8 per cento sono stranieri.
Tutto ciò è aggravato dalla crisi economica, che ha colpito tante famiglie.
Nel complesso si può dire che Roma sia ancora una città profondamente cristiana o, a livello culturale, la città ha ormai assunto i caratteri tipici, più secolari, delle grandi metropoli europee? È cambiato di conseguenza anche il modo di essere pastore di una realtà come quella romana? Non sono ancora in grado di valutare lo spessore cristiano del popolo romano.
Nelle visite alle parrocchie incontro comunità vive e operose, laici impegnati e generosi, presenza attiva degli istituti di vita consacrata e dei movimenti, ma non crederei che Roma sia indenne dal ciclone perdurante della secolarizzazione.
La realtà è sotto gli occhi di tutti.
Si pensi solo all’invadenza nella vita familiare di un certo tipo di televisione e di internet, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani.
Nondimeno rispetto ad altre metropoli europee i segni distintivi della presenza cristiana nella vita della maggioranza della popolazione sono chiari e influenti, seppure non possiamo più fidarci solo della tradizione.
Il mondo è soggetto a continuo cambiamento e la comunità ecclesiale è chiamata ad adeguare la sua azione pastorale alle esigenze dei tempi.
I grandi orientamenti del concilio Vaticano ii devono penetrare di più nel corpo ecclesiale e far maturare una coscienza di Chiesa più coraggiosa e testimoniante.
Così pure, contro la frammentazione, è da promuovere il convergere delle varie forze apostoliche a una maggiore unità nella Chiesa locale.
Di conseguenza cambia anche il modo di esercitare il servizio pastorale.
Cosa prevede il programma pastorale diocesano per il prossimo futuro? Dopo il Grande giubileo del 2000, a cui la diocesi si preparò con grande impegno, vivendo un momento di forte identità e visibilità con la missione cittadina in tutti gli ambienti, in questo primo decennio l’attenzione pastorale è stata concentrata su ambiti importanti, quali la famiglia, i giovani e l’educazione.
Con l’incoraggiamento del Papa, è parso opportuno fare una verifica pastorale, partendo da una domanda:  “Come i nostri fedeli hanno coscienza di essere chiesa e sentono la responsabilità di annunciare il Vangelo?” Cinque sono gli ambiti della pastorale ordinaria presi in esame:  l’Eucaristia domenicale, la testimonianza della carità, l’iniziazione cristiana, la pastorale giovanile e la pastorale familiare.
I primi due vengono affrontati questo anno, gli altri nei prossimi anni.
Sono convinto che, non potendo presupporre la fede in tanti battezzati, dobbiamo dare a tutta la pastorale una forte impronta missionaria.
Sui principi siamo tutti d’accordo, ma la traduzione concreta richiede impegno soprattutto sul piano della formazione degli operatori pastorali, a cominciare dai sacerdoti e dai seminaristi.
A un anno dalla sua lettera agli educatori scolastici “Educare con speranza”, si può fare un bilancio della mobilitazione che ha coinvolto anche la Chiesa di Roma in risposta alla cosiddetta emergenza educativa?   La “Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione”, che Benedetto XVI ci ha indirizzato il 21 gennaio 2008, come è noto, ha avuto una grande risonanza e una vasta accoglienza.
L’autorevole appello del Papa a rendere la nostra città “un ambiente più favorevole all’educazione” è stato sostenuto molto dalla diocesi e tradotto in iniziative capaci di coinvolgere in un lavoro d’insieme i diversi educatori interessati, a cominciare dalla famiglia, spronando tutti a non dimenticare mai che educare è soprattutto un impegno d’amore e, come ogni vero impegno, costa.
Nella mia lettera – seguendo le indicazioni di Benedetto XVI – ho ribadito la necessità di partire, nella difficile arte di educare, dalla testimonianza umana e cristiana che deve accompagnarsi alla competenza professionale e alla dedizione al bene dei ragazzi e dei giovani.
Mi pare che l’emergenza educativa oggi sia molto avvertita.
Per dare seguito a tutto ciò il prossimo 6 marzo celebreremo presso la Pontificia Università Lateranense un convegno sul tema “Progettare la vita.
La Chiesa di Roma incontra la città per un  rinnovato  impegno  educativo”.
Rimanendo sempre nel tema educativo, si sottolinea la necessità di fornire ai giovani “modelli credibili”.
Questi modelli mancano o si ha difficoltà a portarli a conoscenza delle nuove generazioni? È vero, la prima via educativa è la testimonianza credibile degli educatori, che – grazie a Dio – non mancano, anche se non bastano mai.
Lo affermava già Paolo vi nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, nel 1975.
Ma aggiungerei che, accanto alla testimonianza dei singoli, è necessaria quella della comunità ecclesiale.
Dobbiamo aiutare i fedeli a prendere sempre più coscienza che non si è cristiani solo per se stessi, ma anche per annunciare agli altri la fede, testimoniandola là dove si vive.
Inoltre, va ripensata la proposta formativa.
È necessario offrire una formazione umano-cristiana più robusta così da formare cristiani adulti, uomini e donne, che a loro volta siano punto di riferimento per le nuove generazioni.
La pastorale ordinaria è chiamata ad aggiornare metodologie e contenuti, a cominciare dai linguaggi con cui annunciamo il Vangelo.
Tanti ragazzi e giovani non ci capiscono più, sono culturalmente e sensibilmente lontani dai valori cristiani, bombardati quotidianamente da mille altri messaggi e inviti, nonostante abbiano ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana.
Vanno aiutati a scoprire la risposta cristiana alle grandi domande di senso della vita, la bellezza della preghiera con la Parola di Dio, a vivere l’esperienza liberante della confessione e della direzione spirituale e uno stile di vita aperto al servizio di carità.
In tal senso ci sono a Roma esperienze molto promettenti, ma dobbiamo fare di più.
Essere sacerdote a Roma:  quali sono le difficoltà, i problemi, i disagi che i parroci le segnalano? È un grande onore essere sacerdote a Roma, ma, per certi aspetti, è anche più impegnativo.
Considerata la fisionomia della nostra diocesi, a cominciare dalla grandezza della maggioranza delle parrocchie e delle altre realtà pastorali, il sacerdote romano ha bisogno di una forte tempra psicologica e di una levatura spirituale alta, capaci di fronteggiare molti problemi, tipici del contesto metropolitano attuale.
Siamo certamente aiutati dal fatto che i sacerdoti, salvo eccezioni, vivono insieme nelle canoniche e ciò permette lo scambio e il sostegno reciproco.
Anche le prefetture (i vicariati foranei previsti dal codice canonico), dove il piano pastorale diocesano trova concreta applicazione locale, svolgono una funzione preziosa per i sacerdoti e di coordinamento del lavoro pastorale.
Lei è stato docente di diritto canonico e di diritto pubblico ecclesiastico, ausiliare di Napoli, poi vescovo di Albano e infine prefetto del Tribunale della Segnatura Apostolica.
Quali di queste esperienze si sta rivelando più preziosa nel suo attuale impegno pastorale? Direi che tutti i ministeri che mi sono stati affidati sono di aiuto nello svolgimento del compito di cooperare con Benedetto XVI nel governo pastorale della diocesi di Roma.
Le varie esperienze sono preziose in una realtà complessa e delicata qual è quella di Roma.
Come cittadino, quali richieste ritiene sarebbe legittimo e comprensibile rivolgere agli amministratori? Mi piacerebbe molto che quanti esercitano il gravoso compito della cosa pubblica abbiano sempre come stella polare del loro mandato il bene comune dei cittadini, con una speciale attenzione ai poveri e a chi soffre.
Mi rendo conto che il loro servizio è difficile, per questo quando li incontro raccomando di non dimenticare di prendersi cura anche della loro anima e del rapporto con Dio, di cui sono rappresentanti; ma anche io, come pastore, non manco di pregare per loro.
Si confronta spesso con il Papa sulla vita della diocesi? Benedetto XVI segue la vita della diocesi.
Ci è molto vicino.
Ho il privilegio di poterlo incontrare spesso, lo informo delle questioni più importanti, delle linee pastorali che intendiamo seguire e ne ricevo indicazioni.
Ogni anno visita il seminario e alcune parrocchie, incontra i sacerdoti all’inizio della Quaresima e apre il convegno diocesano annuale con un discorso che orienta il cammino pastorale.
Senza dimenticare i momenti liturgici più significativi, nel quale il Papa ci è maestro della fede.
Qual è il suo rapporto con la città di Roma? Le mie origini sono di questa terra, a Roma ho trascorso molti anni e adesso, come vescovo, sono a più diretto contatto con la gente, visitando le parrocchie e le altre realtà anche civili.
Roma è una città che, pur nella sua complessità, affascina.
Svolgere il ministero episcopale per i suoi abitanti mi onora e mi impegna molto per ciò che Roma è e significa nel mondo.
E quale invece il rapporto dei cittadini di Roma con il loro pastore vicario? La gente è accogliente e cordiale, dovunque trovo disponibilità, anzi desiderio di rendere le comunità ecclesiali centri di autentica vita cristiana.
Mi sembra che si sia stabilito un buon rapporto con tutti.
Qual è l’evento che le torna alla mente con più frequenza di questo primo periodo trascorso come vicario di Roma? Tra i tanti momenti belli di questi quasi due anni, l’esperienza che più mi ha dato gioia e speranza è stata l’ordinazione presbiterale conferita da Benedetto XVI l’anno scorso a 19 nostri giovani sacerdoti.
Il motivo è facilmente comprensibile.
In conclusione, quale questione pastorale la preoccupa maggiormente? Senza dubbio è quella che chiamerei quaestio fidei, vale a dire come “aggiornare” – nel senso dato a questo termine dal concilio Vaticano ii – l’azione pastorale diocesana e parrocchiale affinché la gente possa aprire il cuore a Cristo e vivere con gioia nella Chiesa.
(©L’Osservatore Romano – 4 marzo 2010)

“In tutto mi accomodai a loro”

Nessuna strategia predeterminata da seguire, ma una costante attenzione agli spiragli di apertura, curiosità reciproca e fiducia che di volta in volta si venivano ad aprire lungo il cammino, unita a una grande capacità di ascoltare i bisogni dell’altro e muoversi di conseguenza; è probabilmente questo il segreto del successo sorprendente di Matteo Ricci nel dialogo con gli intellettuali del Grande Regno del Dragone, nella seconda metà del Cinquecento fino al 1610, l’anno della morte.  In fondo, a ben vedere, una delle modalità in cui si declina la caritas cristiana in chi da essa si lascia investire, visto che l’amore, come scriveva Nicolás Gómez Dávila, è l’organo con cui percepiamo l’inconfondibile individualità degli esseri.
“In tutto mi accomodai a loro” scrive Matteo Ricci di se stesso, con una frase che sintetizza in una battuta lunghi anni di difficoltà, fatiche e pericoli, ma anche di gioie inaspettate e di fecondo lavoro intellettuale; acquistare prestigio e credibilità nelle “cose mechaniche” crea un clima di interesse e simpatia umana da cui può nascere un confronto interessante per entrambe le parti in causa.
“In tutto mi accomodai a loro” è anche il titolo del convegno che si è aperto il 2 marzo alla Pontificia Università Gregoriana e proseguirà fino a giovedì nell’ateneo di Macerata; un’occasione per rileggere i suoi libri più famosi e il suo epistolario.
Analizzare nel dettaglio le opere composte da Ricci e dare uno sguardo alla sua “officina letteraria” permette di capire meglio il suo metodo.
Il Xiguo jifa, la mnemotecnica occidentale da lui tradotta in cinese, per esempio, è un tentativo di adattare il proprio messaggio alle esigenze culturali della civiltà che aveva di fronte.
Gli intellettuali cinesi che aspiravano a qualche carica burocratica nell’impero avevano bisogno di sapere a memoria i classici confuciani, per questo Ricci mise al loro servizio tutte le conoscenze che aveva in merito, rielaborandole in modo per loro comprensibile; sperava così che, riconoscendo l’eccezionalità del metodo di memorizzazione, fossero portati in seguito ad approfondire anche le verità della fede cristiana.
Per la composizione di questo trattato, come di molte altre opere gesuitiche in cinese, furono inventati termini ad hoc per indicare la terminologia specifica e tecnica legata alla filosofia e alla religione occidentali.
Questo lessico è modellato, però, identificando termini che possano avvicinarsi a quelli legati alla filosofia e al divino della cultura cinese e richiese un lavoro notevole di acquisizione ed elaborazione della cultura ospitante.
È in particolare per la rielaborazione delle immagini che Ricci attinge a piene mani alla tradizione linguistico-etimologica cinese; vengono usati i caratteri cinesi, viene utilizzata la loro suddivisione classica in famiglie e i criteri di suddivisione attraverso metodi semantico-associativi e fonetici.
La struttura stessa del testo rispecchia quella della lingua locale.
Il Xiguo jifa, come e forse più del trattato sull’amicizia (quello che oggi potremmo chiamare un instant-book agile e “di servizio”), è un esempio significativo di come padre Matteo accolse e si lasciò modellare dalla cultura che lo accoglieva, accettando di dedicare tutte le sue energie a quest’opera e di “mobilitare” tutte le sue competenze, dalla passione per la musica – un esempio tra i tanti:  compose ed eseguì otto canzoni per gli alti dignitari dell’imperatore – alle conoscenze di “cose mechaniche”.
L’intuizione di Matteo Ricci è stata quella di applicare anche in Cina l’esperienza dei Padri della Chiesa, l’innesto rigoglioso e fecondo del cristianesimo nella cultura antica, soprattutto ellenistica e romana; poté così confrontarsi positivamente con il confucianesimo – ma è bene precisare che si tratta del confucianesimo “antico”, non influenzato dal buddismo – mentre altri avevano fallito perché intendevano sovrascrivere il messaggio cristiano senza tener conto del retroterra culturale locale, rischiando di spazzare via i “germogli appena spuntati” del dialogo in atto.
La stima verso il popolo del Grande Regno del Dragone in padre Matteo era sincera, non frutto di una strategia e neanche di una “dissimulazione onesta”.
La grande cultura cinese lo aveva impressionato positivamente; per il gesuita Nanchino e Pechino non avevano niente da invidiare alla Firenze dell’epoca.
Forse è proprio per questo rispetto autentico e non simulato che il missionario marchigiano è tuttora molto amato e conosciuto in Cina – insieme a Marco Polo è l’unico straniero presente nel monumento del millennio a Pechino – e nel nostro tempo di dialogo tra religioni e culture profondamente diverse resta un simbolo attuale a cui richiamarsi.
di Silvia Guidi (©L’Osservatore Romano – 4 marzo 2010)

Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso

Dire Dio in contesto multiculturale e plurireligioso   Convegno di studio sull’IRC: 13-14 marzo 2010   Sabato 13 marzo   ore 9.00          Lodi      ore 9.15         Dire Dio in una scuola secolarizzata                                          Prof.
Michele Marchetto   ore 10.
45       Intervallo   ore 11.15         Dire Dio secondo l’approccio psicologico                          e psicanalitico         Prof.
Massimo Diana   ore 13.00         Pranzo   ore 15.00        Il volto di Dio nella Canzone                                         Prof.
Fabio Pasqualetti   ore 17.00        Intervallo   ore 17.30        Il volto di Dio nella Bibbia                                          Prof.
Cesare Bissoli                          Il volto di Dio nelle Grandi Religioni                                         Prof.  Cyril De Souza                                         Domenica 14 marzo              ore 9.00       Dire Dio in una cultura ermeneutica                                         Prof.
Zelindo Trenti               ore 10.30       Intervallo   ore 11.00        Costruire il volto di Dio a Scuola                                         Prof.
Roberto Romio                           Una esemplificazione didattica                                         Prof.
Lucillo Maurizio.
  ore 12.30       Conclusione                         Pranzo       Obiettivo del Corso   Il Linguaggio tradizionale su Dio rischia l’insignificanza.
La diversità delle appartenenze etniche, la molteplicità delle culture, la diversità delle religioni impongono una rivisitazione puntuale del linguaggio circa il cardine stesso dell’esperienza religiosa.
Il Convegno si propone come spazio privilegiato per la riflessione personale e per l’intervento educativo del docente di religione cattolica.
  Iscrizioni e informazioni   Segreteria Istituto di Catechetica.
    Università Pontificia Salesiana Piazza Ateneo Salesiano, 1 00139 ROMA   Tel 06 87290.651; Fax 06 87290.354  martedì e venerdì ore 9,00-12,00