
video realizzato in occasione del Convegno nazionale direttori di IRC
video realizzato in occasione del Convegno nazionale direttori di IRC
II 30 aprile notte bianca di preghiera a Roma
30 aprile
ore 20: Veglia al Circo Massimo
Ore 23: Notte bianca di preghiera
S. Agnese in Agone p.za Navona
1 maggio
Ore 10 P.za San Pietro
Una grande opportunità offerta dalla Pastorale Giovanile della Diocesi di Roma
In occasione della beatificazione di Giovanni Paolo II il Vicariato di Roma ha organizzato una veglia di preghiera che si terrà al Circo Massimo sabato 30 aprile dalle ore 20.
A seguire, a partire dalle ore 22,30, ci sarà la Notte Bianca di Preghiera animata dai gruppi giovanili di varie realtà ecclesiali della Diocesi di Roma. Otto chiese del centro storico, situate nel percorso tra il Circo Massimo e Piazza San Pietro, rimarranno aperte per permettere a tutti i pellegrini presenti di attendere la beatificazione in un clima di preghiera e di amicizia. Delle otto chiese, nelle quali ci sarà l’adorazione eucaristica con la possibilità di confessarsi, quella affidata ai giovani del Rinnovamento del Lazio, chiamati per l’occasione dal Vicariato per animare il momento, è la Chiesa di Sant’Agnese in Agone a Piazza Navona.
CARI FRATELLI È LA CHIESA CHE CHIAMA: “DÀMOSE DA FA’ SEMO ROMANI !” (GPII).
Torneremo a far sentire la nostra voce, ricordando le parole di Giovanni Paolo II nel 2000 a Tor Vergata: “Vedo in voi le sentinelle del mattino, questo chiasso ha sentito Roma e non lo dimenticherà mai”. Uniamoci nella preghiera notturna con canti di lode e di adorazione per un Papa che ci ha amato in modo speciale e che ha lasciato ai giovani il suo grazie: “Vi ho cercato, siete venuti, vi ringrazio!”.
Info
Valeria Greco
email: valeria.greco@alice.it
Cell: 3490513374
Laura Gigliarelli
Email: lauragigliarelli@yahoo.it
Cell: 347.9333478
BEATIFICAZIONE GPII 30 aprile 1 maggio.pdf 465K Visualizza Scarica |
Aperta a Riva del Garda la «Duegiorni» di Rete Italia: “la Chiesa cattolica chiede alla politica due cose: garantire la libertà per tutti e lavorare per il bene comune”.
Dirà più avanti, esemplificando ed entrando nel dibattito di stretta attualità: «La coscienza dei credenti deve essere illuminata e formata non solo dalla loro ragione ma anche dalla fede e dall’insegnamento della Chiesa. È teologicamente infondata, pertanto quella posizione – rivendicata a volte con enfasi da alcuni politici cattolici – per la quale il richiamo alla propria libertà di coscienza viene fatto valere per discostarsi dagli insegnamenti della Chiesa. Sul piano politico e giuridico essi hanno certamente il diritto di agire così, ma non possono pretendere che questi comportamenti e queste scelte siano anche teologicamente ed ecclesialmente legittimi». Per Ruinini non ci sono dubbi: all’interno del mondo cattolico, «la controversia sui “principi non negoziabili” ha qui il suo vero nocciolo». Coglie nel segno il cardinale, trovando pressocché unanime consenso nel popolo di “Rete Italia”.
Puntualizza, infatti, uno dei leader, Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia: «Se uno vuole dirsi cristiano non può dire: io faccio quello che voglio, perché essere cristiano significa avere una fede, che ha dei punti fermi. E anche dal punto di vista concreto ha dei doveri irrinunciabili».
Insomma, «la Chiesa cattolica chiede alla politica due cose: garantire la libertà per tutti e lavorare per il bene comune». “Rete Italia” non rappresenta una “corrente” all’interno del Pdl, ma un circuito – nato per iniziativa di Roberto Formigoni, Maurizio Lupi e Mario Mauro – che cerca, con le sue iniziative, di dare un’anima al centrodestra.
Per i cattolici che operano in politica – insiste Ruini – «una cosa mi sembra
decisiva: essere convinti e consapevoli che il loro impegno sarà tanto più efficace e fecondo quanto più cercheranno di essere veramente, e vorrei dire semplicemente, cattolici, anche e specificamente nel loro agire politico». Ecco perché «è giusto rispondere in modo unitario». Magari affrontando le vere priorità che stanno alla base del bene comune: anzitutto la famiglia («troppo trascurata nell’azione di governo, dalla fine della seconda guerra mondiale fino ad oggi»), e immediatamente dopo, l’educazione delle nuove generazioni e la crisi demografica.
«La questione che più mi preoccupa per il futuro del cattolicesimo in Italia – ha ammesso, concludendo, Ruini – è comunque quella degli orientamenti culturali e delle scelte e stili di vita dei giovani». A margine c’è il tempo anche per una battuta sul fine vita: «Questa legge offre una buona salvaguardia e non mette in discussione il diritto alla vita. Il bisogno di legiferare su questa materia? È venuto da alcune sentenze della magistratura».
“Ritroviamo il coraggio di parlare con gli atei”
intervista a Gianfranco Ravasi
Cattolici e atei, credenti e agnostici: faccia a faccia nella Parigi dei Lumi per un vertice inedito promosso dal cardinale Gianfranco Ravasi, ministro della Cultura vaticano. Partner del dialogo, che si svolgerà tra il 24 e il 25 marzo, sono l’Unesco, la Sorbona, l’Institut de France, il “parlamento dei sapienti” che riunisce le cinque grandi accademie francesi. È una pagina nuova nella storia della Chiesa, il tentativo di affrontare il Terzo millennio smettendola di considerare atei ed agnostici come nemici o handicappati spirituali.“Anticlericalismo e Clericalismo” vanno superati, è l’opinione del porporato. Perché “chiudersi nel proprio recinto è una malattia sia per le religioni che per il mondo laico e per una scienza che pretenda di dare le risposte a tutte le domande”. L’iniziativa è sorta per impulso di Benedetto XVI, che nel 2009 affermò a Praga che andava stimolato il confronto con i non-credenti e indicò nel Cortile dei Gentili dell’antico Tempio di Gerusalemme lo spazio, dove gli aderenti ad altre religioni potevano accostarsi al Dio Sconosciuto.
Sul sagrato di Notre Dame, dove si terrà uno spettacolo per i giovani, arriverà un videomessaggio del Papa.
Cardinale Ravasi, partite dalla Francia, l’Anticristo dell’Illuminismo.
Sì, ho voluto scegliere Parigi proprio perché è un vessillo di laicità, ma devo dire subito che ho trovato un mondo laico interessato a un confronto vero sui grandi temi.
Voglia di convertire?
Non è questo lo scopo. Non parliamo di evangelizzazione. L’obiettivo è il dia-logo. Il confronto fra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte dell’esistenza. Quando mi trovo di fronte a un ateo come Nietzsche o al discorso marxista o scientista, io ascolto, rispetto, valuto. Le religioni e i sistemi ideologici sono letture del reale e del cosmo ed è bene che si confrontino.
Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anitra zoppa?
Il credente e l’ateo sono ciascuno portatori di un messaggio, che è ‘performativo’ poiché coinvolge l’esistenza. Sono contento di avere come interlocutori a Parigi personalità come Julia Kristeva, semiologa e psicanalista agnostica o il genetista Axel Kahn.
Su cosa ragionare?
All’Unesco si discuterà tra credenti e laici sul ruolo della cultura ma anche delle donne nella società moderna, sull’impegno per la pace e la ricerca di senso in un mondo che è contemporaneamente secolarizzato e religioso. Alla Sorbona il tema è emblematico: Lumi, religioni, ragione comune.
All’Institut de France il dibattito sarà su economia, diritto, arte.
Sperando di trovare punti di incontro?
Non interessano incontri o scontri generici né di accordarsi su una vaga spiritualità. E non si tratta nemmeno di un asettico convegno di matematica. Ciò che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative, ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali.
Lei ha detto recentemente che la Chiesa deve imparare ad abbattere i propri muri.
Spesso abbiamo un linguaggio eccessivamente connotato ed escludente. Dobbiamo riconoscere che esistono visioni diverse della realtà e che dal mondo laico ci vengono rivolte domande profonde rispetto alle quali non possiamo essere evasivi.
Quali questioni considera capitali?
Le domande sul senso dell’esistenza, sull’oltre-vita, sulla morte. E ancora, la domanda sulla categoria di verità.
C’è già nel processo a Gesù: cos’è la verità?
È qualcosa che ci precede, che è ‘in sé’? Oppure, come affermano i moderni, è l’elaborazione del soggetto secondo i differenti contesti?
Immagina Parigi come tappa di una ricerca sull’etica universale, quel Weltethos che il teologo Hans Kueng espose a Benedetto XVI a Castegandolfo dopo la sua elezione?
Penso piuttosto che si possa aprire il discorso, senza sincretismi, su ciò che significa Natura e legge naturale.
Vale la pena di indagare sulle radici ultime, che precedono le ragioni delle religioni e delle ideologie. Porre a confronto le differenti concezioni di essere ed esistere significa mettersi autenticamente a ricercare, senza pretendere di sapere a priori.
Troppe volte si è diffusa la sensazione che con l’arrivo del pensiero scientifico moderno sia stato segnato un anno zero, che annulli le elaborazioni della cultura precedente, specie quella greca e cristiana.
Invece?
Trovo tanti scienziati aperti a riflettere sulle categorie filosofiche dell’esistenza.
C’è un tema su cui si dovrebbe riflettere di più nella civiltà contemporanea?
La potenza del male. Bisogna esserne consapevoli. Gli atteggiamenti susseguenti possono essere diversi. Per Albert Camus, nell’assenza di Dio, la risposta finale è il suicidio. Per George Bernanos, al di là di tutte le difficoltà e fragilità, la presenza divina non abbandona mai l’umano.
La Chiesa è pronta a fare i conti con la decristianizzazione in atto nel continente europeo?
Le categorie statistiche sono insufficienti per misurare il reale. Serve un metodo qualitativo per misurare dall’interno i comportamenti sociali e personali. Harvey Cox, che aveva scritto la ‘Città secolare’, ora sostiene di essersi sbagliato. Assistiamo ad un ritorno del Sacro e a una nostalgia del Religioso, che però non trova una risposta nel istituzioni religiose. Così si manifesta in varie espressioni: movimenti, New Age, devozionalismo, spiritualismo.
Qual via d’uscita propone?
Il cristianesimo deve tornare alle sue grandi risposte. Riuscendo a guarire il palato della società, deformato da una secolarizzazione che cerca spiritualità a basso profilo.
Non pensa che vi sia nella Chiesa ancora troppa paura della modernità?
Io nutro rispetto per la modernità, ma rivendico la legittimità di criticare una modernità superficiale, inodore, incolore, nemmeno immorale bensì a-morale. Come dice Goethe nel Faust: abbiamo dimenticato il Grande Maligno, sono rimasti i Piccoli Mascalzoni.
in “il Fatto Quotidiano” del 20 marzo 2011
Parlare con gli atei
di Paolo Flores d’Arcais
Stimato cardinal Ravasi, ho letto con crescente interesse l’intervista – impegnata e soprattutto impegnativa – che ha concesso a Marco Politi per questo giornale. Le sue parole mi hanno colpito, tra l’altro, per un tono appassionato di autenticità che non sempre si avverte in altri uomini di Chiesa del suo altissimo livello gerarchico. Lei enuncia come obiettivo delle sue iniziative “il dialogo” con gli atei, dunque un parlarsi-fra che non aggiri la controversia, anzi, visto che lo intende come “il confronto tra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte
dell’esistenza”. E perché non ci siano dubbi che tali “Logoi” debbano essere anche quelli più radicalmente conflittuali con la fede cattolica, esemplifica con gli ateismi di stampo nicciano, marxista, scientista: insomma tutto il “vade retro” del moderno relativismo (condannato dagli ultimi due Pontefici come incubatore di nichilismo). Ateismi radicali che, aggiunge, “io ascolto, rispetto, valuto”.
DI PIÙ
Marco Politi molto opportunamente insiste: “Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anatra zoppa?”. Bella metafora, in effetti, per stigmatizzare l’atteggiamento paternalistico che spinge ancora troppo spesso la Chiesa a scegliere come interlocutori solo quei “gentili” (“Cortile dei gentili” si intitola la sua iniziativa) che sembrano soffrire la condizione della mancanza di fede come un’amputazione ontologica o esistenziale. “Atei” sì, ma “alla ricerca di Dio”. Sembra proprio che invece lei questa volta voglia promuovere il confronto con l’intera costellazione dell’ateismo hard: “non interessano incontri o scontri generici, né di accordarsi su una vaga spiritualità” perché “quel che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative” smettendola di “essere evasivi” rispetto alle “profonde domande che ci vengono rivolte dal mondo laico”. Apprezzo “toto corde”. Del resto dirigo da un quarto di secolo una rivista di adamantina laicità (tanto che viene spesso tacciata di “laicismo” proprio perché non è laicità “rispettosa”, da anatre zoppe) che del confronto senza diplomatismi con uomini di fede, anche della Chiesa gerarchica, si è fatta un punto d’onore. Praticandolo.
Spero perciò sinceramente che alle sue parole seguano i fatti. Non solo a Parigi, anche in Italia.
Negli ultimi anni l’atteggiamento è stato però di segno opposto. Il dia-logo con l’ateismo è stato sistematicamente rifiutato dalla Chiesa gerarchica e anche da lei personalmente. Si tratta di una verità inoppugnabile, di cui purtroppo posso dare testimonianza diretta. Quando nell’anno del giubileo MicroMega pubblicò un almanacco di filosofia dedicato a Dio, con saggi in maggioranza di ispirazione atea, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinal Ratzinger, non solo accettò di collaborare con un suo testo, ma anche di presentare il numero in una controversia pubblica con me al teatro Quirino di Roma, gremito all’inverosimile e con duemila persone che seguirono il dibattito sulla strada attraverso altoparlanti di fortuna. Se guardo ai due o tre anni successivi, posso constatare che accettarono pubbliche controversie i cardinali Schönborn, Tettamanzi, Piovanelli, Caffarra, Herranz e infine nel 2007, presso la Scuola normale superiore di Pisa, il patriarca di Venezia Angelo Scola.
Da allora l’atteggiamento della Chiesa gerarchica si è rovesciato. MicroMega ha proseguito nella volontà di un confronto franco, “ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali”, secondo quanto lei dice di auspicare. Ma ci siamo trovati di fronte al muro di un sistematico rifiuto. Sia chiaro, un Principe della Chiesa ha tutto il diritto di rifiutare il confronto se non ritiene l’interlocutore all’altezza, senza con ciò smentire la sua volontà di dia-logo. Pretende solo atei più autorevoli. Ma visti i precedenti fin troppo lusinghieri in fatto di porporati che hanno accettato la discussione con Micro-Mega e con me, non è certo questo il motivo del rifiuto.
SUL QUALE
non provo neppure ad avanzare ipotesi. Mi interessa il futuro. Vorrei prenderla in parola, nella sua volontà di “dia-logo”, e organizzare con lei occasioni di confronto proprio con il metodo e sui temi che lei illustra nell’intervista. Discutere tra atei-atei e Chiesa gerarchica per “ricercare senza pretendere di sapere a priori”, su questioni che spaziano dal “senso dell’esistenza” alla “oltrevita, la morte, la categoria della verità” o “su ciò che significa Natura e legge naturale”, visto che da qui nascono le questioni eticamente sensibili che sempre più affollano l’agenda politica non solo italiana.
Si tratta, del resto, di temi previsti nel confronto con il cardinal Ratzinger, che non fu possibile affrontare per mancanza di tempo (vi era anche quello del Gesù storico, che certamente a lei, biblista di fama, interesserà). La invito dunque alle “Giornate della laicità” che si svolgeranno a Reggio Emilia dal 15 al 17 aprile, a cui hanno rifiutato di partecipare i quindici cardinali che abbiamo invitato, e nelle quali potrà discutere con atei non “anatre zoppe” come Savater, Hack, Odifreddi, Giorello, Pievani, Luzzatto, e buon ultimo il sottoscritto. Se poi la sua agenda non le
consentisse di accogliere questo invito, le propongo di organizzare insieme, lei ed io, una serie di confronti nei tempi e luoghi che riterrà opportuni. Devo però dirle, in tutta franchezza, che non riesco a liberarmi dalla sensazione – negli ultimi anni empiricamente suffragata – che il “dia-logo” che lei teorizza voglia invece eludere il confronto proprio con l’ateismo italiano più conseguente.
Con la speranza che i fatti mi smentiscano e che lei possa accettare la mia proposta, le invio intanto i miei più sinceri auguri di buon lavoro.
in “il Fatto Quotidiano” del 22 marzo 2011
La Chiesa in dialogo
di Jacques Noyer
La Chiesa cattolica vuole entrare in dialogo tanto nel cammino ecumenico quanto negli incontri interreligiosi. Vuole perfino aprire il dialogo con gli atei. Non si può che essere contenti di queste iniziative, totalmente in armonia con quel Dio di dialogo di cui Gesù ci ha rivelato il volto. La Trinità è dialogo. La Rivelazione è dialogo. L’evangelizzazione è dialogo.
Ma il dialogo presuppone che gli interlocutori accettino tra loro una certa uguaglianza e riconoscano in sé una certa fragilità. Ci si ritrova sotto lo sguardo di una ragione, di uno spirito di cui si accetta l’arbitraggio e si rinuncia così a conoscere in anticipo l’ultima parola verso cui ci si mette in cammino. Ma non si capisce bene come le istituzioni possano dialogare. Nazioni, partiti, organizzazioni diverse possono avere negoziati di pace, trattative d’alleanza, complicità d’azione.
Ma non possono dialogare. Se un rappresentante fosse colpito dalle argomentazioni dell’altro, non potrebbe più rappresentare la sua organizzazione. Si è condannati ad avere solo dei dialoghi tra sordi. Questo non significa che questi dibattiti non possano condurre, in seguito, nelle istituzioni, ad un’evoluzione del loro punto di vista, ma per niente al mondo accetteranno di dire che il cambiamento è avvenuto ascoltando l’altro: sarebbe ammissione di debolezza!
Le Chiese e le religioni possono dialogare ancor meno di altre istituzioni poiché le loro convinzioni sono presentate come sacre e quindi intangibili. Bloccate nelle loro certezze, possono al massimo cercare insieme delle formule sottili che nascondano le differenze. La stagnazione dell’ecumenismo, il blocco del dialogo teologico interreligioso ne sono la prova. Ugualmente, è proprio l’impossibilità del dialogo tra l’islam e l’ebraismo a rendere impossibile la pace in Israele. Le religioni sono più atte a fare la guerra, o almeno ad incoraggiarla, che a vivere il dialogo della comunità fraterna.
Se le religioni non possono dialogare, invece lo possono fare gli uomini, credenti o non credenti.
Ed è proprio quello che accade in tutti i quartieri in cui vivono credenti di diverse religioni o semplicemente in tutti gli incontri amichevoli che accompagnano la vita sociale quotidiana. Sono molteplici le testimonianze sull’esistenza e sulla fecondità di questi luoghi informali di parola.
Quando vediamo le folle dei paesi arabi sollevarsi in nome dei diritti umani per esigere un po’ più di democrazia, come non ammirare la forza del dialogo condiviso nell’ambito della mondializzazione o della laicità? Dio mi guardi dal vedervi il risultato di una certa evangelizzazione! Sarebbe un recupero odioso. Ma nessuno può negare di potervi vedere il lavoro dello Spirito, e il Dio in cui credo certo ne è felice!
Sì, la Chiesa, questo popolo in cui vive lo Spirito, perché è fatta di uomini e di donne immersi nel mondo, può dialogare col mondo. E lo fa da venti secoli. Lo fa oggi come ieri. Ma se la Chiesa è quell’istituzione gerarchica dalla dottrina intangibile e dalla Verità Posseduta, allora non può farlo.
Se l’istituzione organizzasse il dialogo invece di averne paura, se essa stessa fosse dialogo tra i suoi membri, se la Chiesa si assumesse il rischio di desacralizzare il suo discorso di ieri e i suoi orpelli storici per cercare, oggi, adesso, la Verità con tutte le nazioni, essa potrebbe essere, come la sua Vocazione le chiede, il dialogo in cui lo Spirito fa nuove tutte le cose.
in “Témoignage chrétien” n° 3436 del 17 marzo 2011 (traduzione: finesettimana.org)
RASSEGNA STAMPA
Accade ai grandi vecchi dell’arte, una volta che hanno dimostrato nel corso della loro esistenza virtuosismi tecnici di pennello o scalpello capaci di rendere ai più alti livelli la bellezza delle forme, di lasciarsi andare alla ricerca sulla materia pura e di regalare alcuni dei massimi capolavori del genio umano. Il vecchio Michelangelo, abbandonando le polite levigatezze del David o della giovanile Pietà vaticana del 1499, cerca, attraverso la tecnica del non finito, di liberare lo spirito umano dal carcere della materia in piena sintonia con le teorie del Neoplatonismo cinquecentesco. E
una delle opere in cui più evidente è lo sforzo di liberare dal marmo il sussulto del divino è la Pietà Rondanini, alla quale Michelangelo lavorò dagli anni ’50 del Cinquecento fino alla morte avvenuta nel 1564. Proprio attorno a questo capolavoro mai finito, così importante per Milano, che sembra testimoniare un modernissimo conflitto spirituale, ruota la mostra «L’Ultimo Michelangelo» , curata da Alessandro Rovetta e visitabile nelle sale 13-15 del Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco dal 18 marzo. Fino all’otto maggio, con lo stesso biglietto è possibile conoscere un altro volto dell’eclettica produzione del genio di Caprese visitando l’attigua mostra «Michelangelo architetto nei disegni della Casa Buonarroti» a cura di Pietro Ruschi. Anche qui, paradossalmente, la poetica del non finito ha un suo spazio, perché non sempre l’attività architettonica di Michelangelo si è incarnata in quella materia da lui tanto amata, il marmo delle Apuane, dove già scorgeva nei blocchi informi colonne, mensole e capitelli. Più spesso, a causa delle tempestose vicende politiche e dei rovesci dei governi che coinvolgevano gli Stati della Penisola in quegli anni, di quest’arte monumentale sono rimasti solo segni a matita. su fogli di carta scoloriti a indicare la genialità e l’infinitezza di vedute dell’artista di Caprese. Il rapporto carta-marmo è, perciò, essenziale nelle due mostre. Perché ogni realizzazione ha alle spalle bozzetti, disegni, prove a matita. Come afferma Alessandro Rovetta: «Questa è un’occasione unica e irripetibile di ammirare i disegni dell’ultimo Michelangelo posti di fianco alla Pietà Rondanini. Si tratta di disegni di soggetto religioso che hanno un trattamento stilistico non dissimile da quello utilizzato per la sua ultima scultura». Ma le carte esposte non recheranno su di sé solo disegni, bensì anche le ultime Rime dell’artista di Caprese provenienti dalla Biblioteca Vaticana. Afferma ancora Rovetta: «Obiettivo della mostra è illustrare gli ultimi quindici anni di vita di Michelangelo. Oltre all’unico disegno preparatorio per la Pietà Rondanini, anticipato da una serie di studi che fin dagli anni Trenta evidenziano le preferenze compositive e tematiche culminate nella scultura oggi al Castello Sforzesco, sono presenti altri fogli sui quali Michelangelo affronta diversi soggetti sempre legati alla Passione e al legame tra Maria e Cristo. Spiccano in particolare sei drammatiche e commoventi Crocifissioni, considerate le sue ultime opere grafiche realizzate in una forma uasi trasfigurata, modernissima, molto simile al modo di lavorare il marmo della Rondanini».
Michelangelo Cercando l’assoluto
di Giorgio Rozza
in “Corriere della Sera” del 9 marzo 2011
Pubblichiamo alcuni stralci dal primo capitolo del libro Interrogare la fede.
Le domande di chi crede oggi (Torino, Lindau, 2011 pagine 99, euro 12).
Il poeta Ungaretti è un uomo ferito (cfr.
Pietà in: Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo.
Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1972, p.
168) che chiede a Dio di chinarsi sulla sua e nostra debolezza e di mostrarci una traccia: “Dio, guarda la nostra debolezza.
/ / Vorremmo una certezza”.
Ma può registrare solo il vuoto, “il gran vuoto della sua anima, la sua consapevolezza d’essere stato abbandonato a sé, la tremenda sua solitudine” (Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo.
Saggi e interventi, Mondadori, Milano, 1974, p.
200), e riconoscere in questa vertigine del sentimento dell’assenza il terrore del vuoto e “l’orrore di un mondo privo di Dio”.
Egli sente, ed è un sentire che è anche testimonianza, che Dio è divenuta una parola impronunciabile oggi: “Dio, coloro che t’implorano / Non ti conoscono più che di nome” (Pietà, p.
168).
La sua immagine si è frammentata sotto la furia iconoclasta del secolo e si è ritirata in una zona grigia e oscura che confina con il sogno: “E tu non saresti che un sogno, Dio?” (Pietà, p.
170).
È profondo il solco lasciato da queste domande irrisolte: “Ma Dio cos’è? / / E la creatura / atterrita / sbarra gli occhi” (Risvegli, in: Vita di un uomo.
Tutte le poesie, p.
36), che consegnano l’uomo a una percezione abissale e confusa di sé: “In questo oscuro / (…) // Mi vedo abbandonato nell’infinito” (Un’altra notte, in: Vita di un uomo.
Tutte le poesie, p.
72), e affidano il mondo a una dimensione enigmatica e obliqua.
Sotto la lente di un osservatore “sbigottito di non sapere” si consuma il dramma non solo conoscitivo ma anche teologico ed esistenziale dell’uomo moderno perché “dove la distruzione di Dio è compiuta, dove non è più dibattuto il problema divino, con che cosa [la mente] colmerà il vuoto lasciato in essa e che la potenza dei secoli e degli istinti mantiene spalancato?” (Vita di un uomo.
Saggi e interventi, p.
230).
Ma forse è anche necessario che sia così, perché possiamo imparare a conoscere e a chiamare Dio con altri nomi, che pure sono i suoi nomi, e a trovarlo con altri modi e in altre circostanze, per certi versi inusuali, come l’interrogazione, il dubbio, la domanda che non trova risposta: “La speranza d’un mucchio d’ombra / E null’altro la nostra sorte?” (Pietà, p.
170).
Il Dio di questo secolo è qui, su questo discrimine di senso e non-senso, che vuole essere cercato e trovato.
Diversamente si correrebbe il rischio di coltivare una vana spiritualità che non può soddisfare le menti problematiche oppure incerte della modernità.
Trovare Dio dove la scena è ormai distrutta e muta: questo è il compito che Dio dà al poeta e a noi.
Come una cifra segreta risalta nel paesaggio sconsacrato la nudità dell’anima del poeta: “Ma ben sola e nuda / senza miraggio / porto la mia anima” (Peso, in: Vita di un uomo.
Tutte le poesie, p.
34) e il suo essere solo (cfr.
Pietà, p.
168).
Dio ora vuole essere interrogato dalla solitudine dell’uomo, dal suo lamento che non trova senso.
Troppe cose ricordano all’uomo la sua precarietà, il suo destino che non riuscirà mai a ricomporre la sua vita in un disegno chiaro.
Egli vuole che si arrivi a Lui attraverso questo passaggio dell’anima stretta che dubita e medita.
Dio resta “l’eterno tormento degli uomini, sia che s’ingegnino a crearlo sia a distruggerlo” (Vita d’un uomo.
Saggi e interventi, p.
230) perciò la sua dimostrazione deve essere cercata pur nell’impossibilità che ha l’uomo di dimostrarne l’esistenza.
È vero.
C’è troppo dolore intorno, troppo caos, troppo sangue innocente perché si possa dire “Credo”: “Nel cuore dell’uomo non c’è, come sempre, che notte, non ci sono, come sempre, che crolli” (Vita d’un uomo.
Saggi e interventi, p.
782).
E anche Cristo si unisce a questo silenzio.
Anch’egli partecipa di questo distacco, di questa separazione, della diastasi della divinità dal mondo.
Lo scenario devastato della seconda guerra lo rivela in maniera evidente e mette ancor di più in luce la solitudine dell’uomo.
Come la domanda su Dio anche la domanda su Cristo sembra non trovare risposta.
E se al colmo della crisi solo nel negativo della bestemmia, che viene letta come una preghiera rovesciata, è possibile farsi un’idea di Dio: “E per pensarti, Eterno, / Non ha che le bestemmie”.
(Pietà, p.
171), analogamente al poeta giunge a risultare “blasfemo” – “Ora che osano dire / le mie blasfeme labbra” – anche il quesito che chiede al Figlio di Dio il perché di tanto scempio al mondo: “Cristo pensoso palpito, / Perché la Tua bontà / S’è tanto allontanata?” (Mio fiume anche tu, p.
228).
Ma per quanto fragile possa essere l’uomo, “per quanto impotente nel fondo della sua notte elementare” (Vita d’un uomo.
Saggi e interventi, p.
525), il semplice dubbio che “la sua vita non è pura sordità, che qualche cosa c’è da fare su questa terra” assume quasi il significato di una prova di Dio.
L’uomo si è trasformato in una domanda; l’uomo della modernità non può più dare risposte.
Eppure tutto ancora deve compiersi nell’orizzonte di un qualcosa (“un punto, una formula”) che “esiste e dà alla vita il suo senso, il suo oriente” (Vita d’un uomo.
Saggi e interventi, p.
525).
La difficoltà ad affermare Dio e la facilità a negarlo sono ancora sua regione e suo territorio, provincia di Dio nella quale abitano gli uomini di oggi.
Il suo volto odierno è così, un volto incerto, che non dà certezze.
Eppure anche la sua non risposta alla domanda che è l’uomo, ne connota l’essenza e introduce l’uomo nella dimensione della fede, quella più ineffabile e sfumata, quella dove il sì e il no quasi non si distinguono.
È così infatti la fede dell’uomo: una domanda continua, ininterrotta che confina sempre con il silenzio, che strappa al silenzio qualcosa, ma poi si richiude in se stessa.
L’esperienza religiosa di Ungaretti è strettamente legata a questa intuizione: “Chiuso fra cose mortali / / (Anche il cielo stellato finirà) / / perché bramo Dio?” (Dannazione, in: Vita d’un uomo.
Tutte le poesie, p.
35).
La domanda dell’uomo può bastare perché possa recuperare il senso della trascendenza e farsi un’immagine .dell’Assoluto, se mai ne sia possibile una in questo secolo e se non sia stato sempre così e sempre la stessa è la distanza tra l’uomo e l’Infinito.
“L’essere umano, lo voglia o no, è nella sua responsabilità legato al segreto universale dell’essere, a Dio”.
(©L’Osservatore Romano – 21-22 febbraio 2011)
1.
Premessa Lo scopo di questo contributo è di mostrare che, se il mondo degli adulti, anziché offrire ai giovani adeguati contenimenti e possibilità di elaborazione delle loro problematiche, resta impigliato esso stesso in modi di essere e pensare di tipo adolescenziale, finisce per produrre esiti patologici, a livello individuale, scolastico e sociale.
La tesi che sostengo è che il malessere degli adolescenti, se in una certa misura è fisiologico, ovvero pertiene alle dinamiche psichiche di questo periodo e alla loro difficile e complessa elaborazione, tuttavia può essere limitato o addirittura trasformato in occasione di benessere psichico, laddove trovi un mondo di adulti che sia in grado di essere in contatto con le problematiche adolescenziali e aiuti i ragazzi a elaborarle, anziché essere incapace di gestirle colludendo con esse.
Per tali motivi, la sofferenza e il benessere degli adolescenti dipendono in larga misura dalla possibilità di trovare uno o più interlocutori — nel mondo adulto e a partire, oltre che dai genitori, proprio dagli educatori e dagli insegnanti — che li aiutino ad attraversare questo periodo e a elaborare la confusione che lo caratterizza.
L’ipotesi da cui parto è che l’adolescenza, prima di essere un periodo reale, è uno stato mentale.
Questo concetto si riferisce a una condizione psichica che può anche cambiare, perciò parlare di «stato mentale» significa parlare di qualcosa che non è fisso, ma fluttuante.(1) Assumere come ipotesi di lavoro che l’adolescenza sia uno stato della mente implica affermare che le problematiche psicologiche ed emotive proprie di questo periodo possono appartenere a qualsiasi persona, in qualunque periodo della vita, così come uno stato mentale infantile può caratterizzare un adulto in una determinata situazione o in uno specifico periodo della sua vita e delle sue relazioni e uno stato mentale adulto può appartenere a un giovane in crescita.
Vale a dire che si può anche dare il caso di giovani adolescenti che, malgrado il travaglio tipico e normale della loro età, mostrano segni di presenza, in loro, di stati mentali adulti, superiori a quelli dei loro interlocutori «adulti», cioè possiamo osservare adolescenti adulti a fronte di adulti adolescenti.
Tuttavia, se stati mentali adolescenziali appartengono agli adulti o, peggio, a coloro che hanno responsabilità educative, ne possono derivare seri danni per lo sviluppo emotivo dei giovani adolescenti.
Accade così che il moderno mondo occidentale dei «grandi», ovvero di quelle che dovrebbero essere le figure di riferimento degli adolescenti, (2) tenda non solo a non svolgere adeguatamente la propria funzione educativa e ad abdicarvi, ma addirittura si ponga spesso come fonte di incremento della confusione addirittura idealizzata come cosa buona e perseguibile.
Così, se i giovani adolescenti trovano un mondo di adulti o di educatori che permangono in questo stato mentale, difficilmente avranno la possibilità di sviluppare maturità e benessere emotivo, ma più spesso svilupperanno disagi sfocianti in varie manifestazioni patologiche, individuali e sociali.
Per condurre l’analisi e sostenere questa tesi, la struttura del mio contributo si articola in tre parti: in primo luogo, descriverò le principali dinamiche psicologiche dell’adolescenza alla luce dei punti di vista della psicoanalisi.
Tra queste approfondirò il cruciale problema della confusione (anche identitaria) che caratterizza la mente adolescenziale.
Tali dinamiche costituiscono lo stato mentale proprio dell’adolescenza.
(3) In secondo luogo, cercherò di mostrare come, e dove, gran parte del mondo adulto moderno presenti ampi spazi di adolescenzialità, venendo perciò a costituirsi come fonte di ulteriori disagi e malessere nei giovani, mentre,laddove questi ultimi trovino strutture, figure e ruoli (una società, in senso lato) capaci di assumersi le loro responsabilità educative e di porre limiti alle pulsioni distruttive o promiscue, hanno la possibilità di raggiungere un migliore sviluppo emotivo.
Ed esemplificherò dove e come, nel mondo degli adulti, si può osservare il venir meno di questa funzione maturativa di chiarimento e i danni che la sua mancanza può provocare nel mondo adolescenziale.
In terzo luogo, indicherò quale potrebbe/dovrebbe essere il compito primario di chi svolge funzioni educative, ovvero la capacità di assumersi la responsabilità emotiva della propria mente, non senza precisare, in conclusione, che tale capacità si può acquisire e sviluppare prevalentemente — per non dire solamente — attraverso un adeguato, approfondito, organico e prolungato processo di formazione, perché l’educatore possa porsi come interlocutore autorevole, che faccia crescere mentalmente l’interlocutore adolescente, piuttosto che come dispensatore di nor- me astratte o, peggio, come figura assente o portatrice di valori e comportamenti ambigui, confusi e confusivi.
Vale a dire come una figura che aiuti a differenziare, chiarire, ovvero che aiuti a pensare e far pensare.
4.
Esemplificazioni 4.1.
A livello sociale e culturale A questo livello, la confusione e la sua idealizzazione significano sostanzialmente: non differenziare, indurre regressione e, unendo le due operazioni, regredire financo intenzionalmente verso l’indifferenziato; perseguire fantasie totalizzanti e fusionali (peraltro il problema è contenuto etimologicamente nel termine stesso di con-fusione); non accettare le diversità.
Significa mancanza di identità collettiva e di coesione sociale, la promozione di agiti, anziché di pensiero (la cosiddetta «politica del fare»); l’assenza di criteri morali, un egocentrismo diffuso.
In senso generale, possiamo dire che la confusione (e l’ambiguità) fa sì che, come osserva Argentieri, «oggi più nessuno si fa carico di porre limiti all’aggressività e alla sessualità» (2008, p.
81).
Ad esempio, frequentemente si sentono proclamare elogi e progetti di trasgressione quando, a dire il vero, sembra che nel mondo d’oggi, almeno in Italia, più che di trasgressione avremmo bisogno di rispetto delle regole e, dunque, la vera trasgressione consisterebbe oggi nel fare, onestamente e con costanza, il proprio dovere.
A tal proposito, un ulteriore e ancor più drammatico aspetto riguarda l’atteggiamento che la nostra società tiene (per bocca dei suoi rappresentanti più significativi e di maggior peso politico e culturale) verso la delinquenzialità, ovvero quello che davvero la nostra società fa o non fa per contenere e ridurre la violenza.
E qui va detto subito che non sembra che le nostre istituzioni siano sempre all’altezza della situazione nel contenere o nel reprimere adeguatamente — quando è il caso — i fenomeni di violenza che anzi spesso, colpevolmente e manipolatoriamente, vengono strumentalizzati a fini di parte o politici.
Ma è proprio in rapporto al problema della violenza che la nostra società (e in particolare quella italiana) corre il rischio di incrementare, quando non promuovere, la confusione, ovvero il modo più sicuro per favorire l’antisocialità giovanile o la sua deriva delinquenziale.
Winnicott scrisse che l’adulto, sia esso genitore o insegnante, deve vigilare affinché gli adolescenti, così come i bambini, «non si trovino di fronte a un’autorità tanto debole da permettere loro di imperversare e fare il diavolo a quattro oppure da costringerli, per paura, ad assumere essi stessi il ruolo di autorità» (1962, p.
193 trad.
it.).
E aggiungeva che «quando un individuo assume un ruolo autoritario per reagire alla propria ansia diventa un dittatore» (ibidem).
La confusione si osserva anche quando, anziché scoraggiare i giovani dall’idea che l’aggressività possa essere, in qualche modo, remunerativa o giustificabile (poiché questo indebolisce le inibizioni o rende addirittura moralmente giustificabile l’aggressività stessa), la si presenta come il modo più diretto ed efficace di risolvere i problemi, senza che né le famiglie, né le comunità, né le autorità preposte facciano nulla per sconfiggere questa tragica idea.
In Italia, purtroppo, siamo particolarmente esposti a questo problema perché abbiamo un terzo del territorio nazionale in mano alla delinquenza che fa della violenza e della distruttività l’unico argomento di persuasione.
Non dobbiamo poi scandalizzarci se vediamo sui giornali giovani di vent’anni, o anche meno, che ammazzano e rapinano: l’esempio viene dall’alto e il modello di relazione è che le controversie o le difficoltà si risolvono con la violenza.
La confusione tra diritto e sopruso, tra distruttività e civiltà, è totale e apparentemente irreversibile! 4.2.
Nella sfera politica In politica la confusione e l’ambiguità (e il loro perseguimento in genere manipolatorio e in malafede) godono, nella lingua italiana, di un termine e di un verbo particolarmente felici per definirli: «sollevare un polverone».
La confusione (il polverone) la si osserva in molteplici situazioni e in tante occasioni: quando si fa confusione tra democrazia e autoritarismo; quando non si fanno più differenze tra vittime e persecutori, oppressi e oppressori, tiranni e liberatori, democratici e autoritari.
Clamoroso, poi, è il caso dell’equiparazione che, in Italia, negli ultimi anni, è stata fatta tra la lotta partigiana di liberazione — che aveva visto, tra l’altro, un’unione di tutte le forze democratiche dell’arco costituzionale — con il fascismo (o, addirittura, con i repubblichini di Salò) di cui si dimentica il carattere persecutorio e la follia di aver portato una nazione in guerra con centinaia di migliaia di morti, per non parlare dell’orrore delle leggi razziali.
Confusivo (oltre che un falso storico) è poi il tentativo di riabilitare politici ladri facendoli passare per statisti o di far passare per leader democratici quelli che sono stati leader manipolatori e autoritari.
La confusione in politica ha a che fare con la propaganda, che è la bugia trasposta sul piano collettivo, quel veleno sociale che fa ammalare, moralmente e relazionalmente, uno Stato.
Infatti, la menzogna, fondata sull’intorbidamento delle acque o sull’insabbiamento dei misfatti, distrugge le società e in ultima istanza fa perdere la cosa più importante: il senso di responsabilità.
4.3.
A livello dei leader In rapporto a questo ruolo, si può rilevare la confusione quando si idealizzano perversamente leader narcisistici e tirannici spacciando, come diceva Bobbio (1974), come forza ciò che, invece, è mera violenza e scambiando per capacità decisionale l’arroganza senza ascolto e senza attenzione alle persone.
L’adolescenzialità di tali comportamenti — che peraltro fanno intravedere alla base anche altri e ben più patologici problemi — consiste nel delegare proiettivamente le proprie pretese infantili onnipotenti su figure ritenute capaci (onnipotentemente appunto) di soddisfarle.
4.4.
A livello ideologico Possiamo parlare di un’ambiguità particolarmente ripugnante quando si osservano difensori della famiglia con due moglie e molteplici amanti; rappresentanti della legalità che vivono di truffe; presunti protettori della comunità che rubano allegramente; personaggi pubblici con responsabilità amministrative primarie che evadono le tasse; persone con ruoli di responsabilità pubblica che erogano favoritismi.
Persone insomma che, sulla carta, dichiarano esattamente l’opposto di quello che fanno, in pratica, senza nessuna preoccupazione di coerenza e con una sfacciataggine considerate apprezzabili in quanto segni di saper stare al mondo.
4.5.
A livello religioso Anche a questo livello non sono poche le situazioni confusive.
Si possono vedere in quei difensori della fede che professano l’intolleranza trasformando la religiosità, da fatto attinente al proprio foro interiore, a fatto secolare tutto esteriore.
A questo livello la confusione sta nell’interpretare e vivere la religione come un fatto di appartenenza di gruppo piuttosto che come vicenda individuale.
Qui lo stato mentale adolescenziale lo si vede in quei gruppi di «credenti» che mettono in atto manifestazioni esteriori più simili a quelle dei tifosi che a quelle dei religiosi.
In questo senso si può essere «baciapile» e non avere un’autentica religiosità, così come si può essere laici o agnostici, financo atei e avere un atteggiamento profondamente religioso verso la vita e gli oggetti animati e inanimati, poiché l’atteggiamento religioso è indipendente dalla fede (con la quale può, o non può, essere collegato), essendo invece la conseguenza di uno stato mentale etico di cui l’appartenenza religiosa è la versione esterna.
Non sono dunque le ideologie, i moralismi o le fedi che fanno acquisire un comportamento etico, ma avviene esattamente il contrario, poiché è la presenza di uno stato mentale etico che porta ad assumere un atteggiamento religioso autentico.
Ciò significa che io mi comporto «bene» non perché devo seguire regole religiose (qualsiasi esse siano) dettate da Mosè, ma assumo un atteggiamento religioso (indipendentemente dal fatto che lo faccia seguire dalla fede in qualche dio a mia scelta) perché prima ho una struttura etica nel mio mondo interiore.
Non siamo molto lontani all’imperativo categorico kantiano che indica di perseguire il bene per il bene non in senso strumentale.
Questa posizione, di ispirazione psicoanalitica kleiniana, secondo la quale non è l’etica che discende dalla religione ma la religione che discende dall’etica, concorda con quella del filosofo franco-lituano Lévinas, che di questi argomenti si è occupato.
Anzi, ne fornisce una fondazione psicologica.
4.6.
Nei mass media Nei media è perfin troppo facile osservare come la confusione imperi.
Quando gli ignoranti, i volgari vengono trattati come star; quando osserviamo personaggi dal passato discutibile e dal presente censurabile che manipolano le persone e si configurano, in virtù della loro presenza continua e asfissiante, come maître à penser, mentre non fanno altro che contribuire all’addormentamento delle coscienze, questo sì — come sostenevano le vecchie teorie critiche dei media, oggi abbandonate ma da recuperare — è al servizio del potere.
O quando personaggi maleducati e prepotenti occupano spazi mediatici importanti, presentando un modello di relazione e di «dialogo» in cui conta chi urla più forte, chi interrompe l’altro, chi insulta e accreditando tutto questo come esempio di preparazione culturale o «visione» politica, mentre non si tratta che di mera maleducazione.
Una confusione, questa mediatica, davvero drammatica perché trasmette un modello di relazione e di comunicazione di gruppo del tutto distruttivo, privo di qualunque rispetto e attenzione per l’altro.
Assenza totaledi ascolto, insomma.
Per quanto riguarda la televisione, nello specifico, la rinuncia a qualunque intento pedagogico non significa che non svolga egualmente una funzione pedagogica: la svolge ed è quella di mostrare che tutto è uguale a tutto, dai programmi più beceri di intrattenimento in prima serata, a quelle — poche — trasmissioni serie in cui si cerca di promuovere informazione critica e capacità di pensiero.
Purtroppo molti di questi pessimi personaggi mediatici, promotori di confusione e ambiguità, sono delle figure di riferimento per i giovani adolescenti; anzi, oggi, si assiste a un fenomeno inverso, ovvero al fatto che molti adolescenti assurgono, o vengono fatti assurgere, essi stessi a figure di riferimento, portando nel loro essere tutta l’incompletezza culturale ed esperienziale della loro età ed esibendola come una qualità auspicabile.
Nella nostra società, dunque, i media hanno spesso una funzione patologizzante mentre potrebbero averne una terapeutica.
Creano malessere quando seminano ansie o assuefazioni anestetizzanti, cioè incapacità di sentire e pensare mentre potrebbero (dovrebbero) contribuire a creare benessere dando informazioni adeguate e critiche, aiutando a pensare, a distinguere, a differenziare e diventando spazioluogo per elaborare i fenomeni sociali della vita quotidiana.
Come dire che anche i giornali, la TV e la radio (oltre alla scuola) potrebbero essere degli psicoterapeuti se aiutassero a uscire dalla confusione invece di incrementarla.
4.7.
Nelle organizzazioni sociali Nelle organizzazioni produttive e sociali, private e pubbliche, si nota la confusione quando, mentre si dichiara di voler premiare l’autonomia, la creatività e la collaborazione, di fatto si premia esattamente l’opposto, ovvero la dipendenza, il conformismo e il pensiero convergente; quando si premiano gli esecutori piuttosto che gli innovatori, i doppio-giochisti piuttosto che le persone corrette.
Nelle organizzazioni, insomma, l’ambiguità e la confusione si osservano quando si presta più attenzione ai rapporti di potere all’interno delle organizzazioni stesse che al servizio rivolto all’utente.
L’adolescenzialità di tali comportamenti consiste nel preoccuparsi di sé piuttosto che dell’altro, come se non si riuscisse a transitare da una posizione egocentrica a una decentrata.
4.8.
A livello familiare La confusività è particolarmente grave a livello familiare perché impedisce la differenziazione e la separazione istituendo schemi relazionali invischianti fino al limite della psicotizzazione, come bene hanno messo in luce le ricerche della Scuola Sistemica.
Ancora una volta, non si può non concordare con Simona Argentieri quando scrive che oggi «separarsi, differenziarsi non solo è faticoso, ma non è più un valore» (2008, p.
46).
La confusività si rileva anche in quei genitori che, anziché svolgere il loro ruolo genitoriale, vogliono fare gli «amici» dei figli assumendo imbarazzanti atteggiamenti giovanilisti, segnale dell’incapacità di accettare il passare del tempo o di un’invidia non elaborata verso i giovani.
Vecchi che non accettano di essere tali e adulti che adottano comportamenti fuori tempo: adulti bambini.
E ancora la confusività si manifesta quando non c’è più differenziazione tra madri e padri, ruolo paterno e materno, laddove ci sono madri tutte centrate sulla carriera, e quindi molto «maschili», e padri che fanno i «mammi», rinunciando all’esercizio della funzione normativa paterna, psicologicamente necessaria al processo di crescita del figlio.
4.9.
A livello di identità di genere La confusione appare quando non si fanno più differenze di identità tra uomini e donne, maschile e femminile.
Ad esempio, io penso che l’irruzione sulla scena pubblica dei transessuali, a questo proposito, sia emblematica: queste figure che sono uomo e donna contemporaneamente ben incarnano la fantasia onnipotente di un essere umano senza limiti, che sia tutto.
Non mi riferisco — sia ben chiaro! — ai singoli individui, con i loro spesso drammatici problemi e con le loro sofferenze; faccio invece riferimento a un certo uso sociale di queste figure per trasmettere un modello di non accettazione dei limiti poiché, laddove si ha un’identità da maschio, non si potrà mai averne una da donna e viceversa.
L’accettazione di questo limite costitutivo degli esseri umani, ossia il riconoscimento della propria non onnipotenza, è l’essenza più vera del cosiddetto complesso d’Edipo e infatti la sua acquisizione va sotto il nome di competenza edipica.
Nell’idealizzazione della confusione che spesso il mondo adulto presenta all’adolescente c’è, invece, esattamente il contrario e questo è davvero molto patologizzante a livello individuale e sociale, nel senso che non si trasmettono implicitamente più delle regole e delle limitazioni ma tutto appare onnipotentemente possibile.
Anche la giusta condanna dell’omofobia e la sacrosanta attenzione ai diritti degli omosessuali rischiano di capovolgersi in un’esaltazione acritica, sbrigativamente solidale, dei comportamenti sessuali non tradizionali (per così dire) di cui l’esempio più eclatante sono i Gay Pride, quasi che la scelta o l’orientamento o l’identità omosessuale (come la definiscono le più recenti ricerche statunitensi) non fosse un fatto privato, ma una fonte di orgoglio.
Mi sono sempre chiesto — e neppure tanto scherzosamente — se allora, su questa logica confusionale e capobozza volta, non si dovrebbe fare anche un «etero-pride» o un «impotence pride» o un «non-mi-interessa-per-nulla-il-problema pride».
4.10.
A livello di psicopatologia individuale A questo livello la confusione si manifesta quando non si fa nessuna differenza tra sani o matti.
Questo problema fu già proprio della deriva antipsichiatrica quando, condannando giustamente l’obbrobrioso stigma che colpiva i malati mentali con la concomitante istituzionalizzazione, si finiva, come dicono gli inglesi, con il buttare il bambino con l’acqua del bagno, ovvero con il negare la malattia mentale stessa: nessuna differenza tra persone (relativamente) sane e persone palesemente matte le quali, alla fin fine, sono persone che soffrono e, se si nega la loro malattia, di fatto si nega la loro sofferenza, finendo in tal modo per riproporre proprio quell’esclusione che si voleva combattere.
4.11.
A livello psicologico Anche a livello psicologico la confusione dilaga: nei mass media, come nell’opinione pubblica corrente, la psicologia viene trattata e considerata per lo più in modo confuso, generico e illegittimamente semplificatorio (cfr.
Blandino, 2000) e non viene adeguatamente differenziata e diversificata, non solo nei suoi vari orientamenti, talvolta del tutto opposti, ma nemmeno nei suoi molteplici campi applicativi: cosi questa disciplina si trasforma, da scienza, in un qualcosa di magmatico e indefinito, confuso appunto, dove le affermazioni generiche e superficiali, le confusioni tra psicologia e scienze contigue, le sovrapposizioni di ruoli o le imprecise attribuzioni di competenze si manifestano a vari livelli e in vari modi.
4.12.
Nella sfera scolastica Infine, la confusione è presente nel mondo della scuola che è il settore che, in questa sede, più ci interessa.
La confusione si può osservare quando vediamo docenti che abdicano al proprio ruolo annullando le differenze (ad esempio dandosi un reciproco «tu» automatico con gli allievi, senza alcuna previa elaborazione) in nome di una maggiore vicinanza emotiva allo studente, che è tale solo all’interno del rispetto della diversità dei ruoli e delle regole.
O quando non ci sono più differenze tra i compiti/doveri dei genitori e delle famiglie e i compiti/doveri e diritti degli insegnanti.
Dunque, per i suddetti motivi, qui rapidamente elencati, l’adolescente, per lo stato mentale che gli è proprio, si trova a essere, tra i vari soggetti sociali, quello che è maggiormente danneggiato dalle componenti confusive della nostra cultura contemporanea.
Infatti gli adolescenti che, come dice Di Chiara, «sono spinti da una movimentazione di affetti di base, amore, curiosità, entusiasmo, sdegno, e lottano per trovare l’espressione migliore al loro senso di individuazione», a fronte di un siffatto mondo adulto vengono coinvolti in quelle che lui chiama sindromi psicosociali, situazioni psicopatologiche che hanno funzioni difensive e di cui la confusività e l’ambiguità sono un esempio assai problematico (1999, p.
16).
Per dirla altrimenti, gli adolescenti si aspettano di trovare adulti che abbiano risolto i problemi della confusione e che li aiutino a risolverli, non adulti che incrementino ulteriormente questa confusione.
Si aspettano di trovare una società che cerchi di riconoscere e soddisfare i bisogni autentici degli individui, mentre, attraverso la confusione e l’ambiguità, non si fa che offrire una sorta di appoggio sociale alle difese nevrotiche individuali.
Così accade che troppo spesso agli adolescenti non vengano offerti esempi di funzionamento mentale adeguato, ma vengano presentati esempi di funzionamento superficiale o difensivo, evacuatorio di tutto ciò che può creare pensiero.
Non escludo che molti comportamenti adolescenziali aggressivi o antisociali dipendano proprio da questa diffusa confusività e assenza di regole, perseguita dal mondo degli adulti o inconsapevolmente e quindi irresponsabilmente, o intenzionalmente e quindi psicopatologicamente.
Le condotte aggressive adolescenziali, in questo caso, possono anche essere lette come un modo per manifestare all’esterno un’angoscia che non si riesce a contenere e a elaborare, un comportamento impulsivo che serve a espellere dalla propria mente contenuti troppo dolorosi per poter essere tollerati e pensati.
Ma il risultato è concretamente tragico.
3.
Adolescenza come processo di elaborazione della confusione In una situazione psicologica di questo genere, l’adolescente, allorché cadono le certezze infantili, sperimenta uno stato di grande confusione e insicurezza (in cui tutto può essere normale e tutto può essere patologico), alla cui elaborazione possono essere ricondotti i comportamenti, le attività di scuola e tempo libero, i tipi di relazione, i sentimenti e i pensieri degli adolescenti intesi come un modo per cercare di risolvere questo stato.
La confusione, dunque, è una delle caratteristiche (normali) dello stato mentale adolescenziale e dei giovani.
È per questo motivo che Meltzer parla, in maniera suggestiva, dell’adolescenza come di un processo di elaborazione della confusione (1978).
Pertanto, se il processo di crescita è adeguato, il soggetto evolve da uno stato di confusione emotiva interna verso uno stato di chiarezza e consapevolezza del ruolo adulto e dell’abbandono degli stati mentali infantili.
Ma quando questa operazione, del tutto fisiologica anche se non priva di autentica sofferenza (la cosiddetta «crisi adolescenziale»), non va a buon fine, o trova intralci emotivi troppo forti, il rischio è che vi sia un capovolgimento della situazione e ciò che è problematico diventi auspicabile: in altri termini il rischio è che vi sia un’idealizzazione della confusione considerata, anziché come qualcosa di problematico e patologico, come qualcosa di apprezzabile e di valore.
Accade così che sovente gli adolescenti scivolino in questo tipo di idealizzazione che è pericolosissima per tutte le complicazioni a cui dà origine.
Ad esempio, in questo periodo (dico in «questo» periodo perché questi gruppi cambiano di frequente) si è formato un gruppo di giovani adolescenti che vanno sotto il nome di Emo (diminutivo di «emozionale» e termini correlati).
(5 ) Nelle dichiarazioni e nei comportamenti di questo gruppo si può notare chiaramente l’idealizzazione della confusione, perseguita come un valore: parlano di confusione sessuale, emotiva, ideologica, perfino verbale, accompagnata da abbigliamenti, capigliature, piercing, stili di comunicazione, ecc., tutti tesi a sottolineare quest’ambiguità di base.
Ora, a parte i risvolti psico-patologici (di tipo borderline) di alcuni comportamenti messi in atto dai membri di questi gruppi; a parte taluni aspetti francamente comici e grotteschi che li caratterizzano; a parte, infine, la concomitante assenza di una cultura di base — vale a dire questi membri sono degli emeriti ignoranti! (perché va pur detto che conoscere e studiare è un dovere per un adolescente, al di là di tutta la possibile comprensione che si può nutrire nei loro confronti per le loro difficoltà) —, l’osservazione di questi gruppi esemplifica, come meglio non si potrebbe, a quali livelli di patologia individuale e collettiva fa approdare la confusione quando viene idealizzata come un valore.
L’idealizzazione della confusione si ha quando non si fanno più differenze, quando cioè, per dirla hegelianamente, siamo in una notte nera in cui tutte le vacche sono nere.
Ciò è ben testimoniato da una docente di psichiatria in una scuola per infermieri professionali che, a fronte delle difficoltà degli studenti a orientarsi nel campo e a comprendere le varie teorie e tecniche, sosteneva che il suo scopo non era di farli uscire dalla confusione ma di creargliene ancora di più: «Devono essere confusi», diceva compiaciuta, credendo in tal modo di addestrarli al pensiero critico senza accorgersi che finiva per fare esattamente il contrario.
Ma va detto che la docente stessa era la prima a essere confusa e, sapendo che esercitava la professione psichiatrica, lascio immaginare al lettore quanto bene potesse svolgere il suo lavoro con i suoi pazienti, partendo da questi presupposti.
L’idealizzazione della confusione è testimoniata anche da quell’educatore (con una mentalità davvero adolescenziale, nel senso peggiore del termine) che con i suoi utenti non distingueva tra i vari modelli, metodi e strumenti di intervento e di lavoro (psicologici, sociologici, pedagogici) usandoli ecletticamente, ma di fatto in modo «pasticciato», senza averne chiare le diversità di base, con nefasti risultati.
I danni di una confusione non elaborata sono ben raccontati anche da quello studente di un mio corso di psicologia dinamica che alcuni anni fa mi chiese: «Ma noi poveri studenti, passando da una teoria all’altra, da un opposto all’altro, come possiamo farci un’idea della psicologia senza diventare pazzi?».
Affermazione che, nella sua ingenuità esemplare, ci dice del bisogno dei giovani di fare un’integrazione delle esperienze conoscitive, esigenza che non trova né risposta, né aiuto da parte della struttura accademica.(6) Quando tale idealizzazione della confusione è ratificata esplicitamente o implicitamente dagli adulti: genitori, insegnanti, opinion makers, leader vari o figure di riferimento o, infine, mass-media, ne conseguono effetti a dir poco disastrosi dove, nella migliore delle ipotesi, c’è una collusione, da parte degli adulti, con l’adolescente, a dimostrazione di come gran parte del mondo adulto sia in effetti ancora adolescenziale.
Molti problemi sociali odierni nascono proprio da questa confusività che, in questa luce, appare espressione di una società adolescenziale o di modalità adolescenziali di gestire il potere o di vivere nel sociale.
E qui veniamo al punto che ci interessa.
La confusione propugnata come fattopositivo, o non combattuta, costituisce, a mio modo di vedere e per i motivi che ho cercato di illustrare, una delle principali cause del malessere sociale e giovanile in particolare.
Malessere, si badi, spesso esperito e vissuto dagli adolescenti senza consapevolezza e coscienza, ma solo come una forma di disagio esistenziale, estrinsecato magari attraverso disagi fisico-somatici (anoressia, bulimia), comportamenti tossicomanici, antisociali o autodistruttivi.
Un illuminante approfondimento psicoanalitico dei danni della confusività e della non differenziazione lo si trova nel saggio di Simona Argentieri L’ambiguità (2008), nel quale si mostra quanto la confusione si manifesti nella forma dell’ambiguità (spesso supportata dalla malafede) e quanto la nostra società sia confusiva.
Nel saggio si illustrano gli ambigui e molteplici comportamenti pubblici delle figure che dovrebbero avere un ruolo, se non di guida, almeno di esempio e si spiega come tutto questo sia rovinoso per la salute mentale dei singoli individui, per i rapporti lavorativi nelle organizzazioni, per i rapporti sociali nella comunità e, in ultima istanza, per la convivenza civile.
Come a dire che confusione e ambiguità sono causa ed effetto, al contempo, di comportamenti delinquenziali e omertosimafiosi, (7) poiché è nella confusione, nell’ambiguità, nella mancanza di chiarezza, nella vischiosità delle relazioni che prosperano l’intrigo, il delitto, la manipolazione, ovvero tutto ciò che è, per definizione, antidemocratico e naturalmente, per restare al nostro ambito, antieducativo.
In termini psicoanalitici possiamo dire che la confusione e l’ambiguità sono funzioni psichiche proiettive, ovvero quelle per cui si espelle dalla propria mente e dal proprio sentire tutto ciò che è problematico, attribuendolo o scaricandolo sugli altri, colpevolizzandoli, senza mai prendersi la responsabilità di ciò che si fa, si pensa, si sente.
La confusione e l’ambiguità, dunque, sono il frutto del rifiuto di assumersi le proprie responsabilità e quindi di fare l’esperienza della conflittualità.
E in definitiva l’indifferenziato e il confusivo hanno una funzione di rifugio regressivo contro le angosce della vita e il doversi confrontare con i suoi limiti e le sue limitazioni.
Ma va anche precisato che una certa confusione e un certo disorientamento sono, per così dire, normali nella misura in cui l’incontro con il nuovo, se è davvero incisivo e non relega l’esperienza conoscitiva a mero fatto intellettualistico, e quindi difensivo, è sempre fonte di incertezza.
Infatti, quello che si sperimenta nell’esistenza umana, ad esempio quando si incontra un’altra persona o ci si confronta con una nuova esperienza, comporta sempre una certa dose di angoscia confusionale, come qualcosa che è intrinseco nel processo di conoscenza, la paura di perdere le proprie possibilità di pensare.
Una conoscenza significativa dunque è — per definizione — sempre disorientante poiché scardina il modo di vedere precedente e obbliga a confrontarsi con difficoltà, irritazioni, rifiuti.
Di una certa confusività quindi bisogna fare tesoro e non spaventarsi, ma piuttosto riflettere sul perché si provano delle confusioni e in che misura ci sono delle difficoltà a mettere insieme dei punti di vista che talvolta sono realmente diversi.
A questo punto del mio discorso devo tuttavia fare una precisazione: ciò che intendo stigmatizzare non è la confusione in sé che, come si è detto, fa parte del normale sviluppo psichico dell’adolescente, ma la sua idealizzazione da parte degli adulti — questa sì patologica — che va a colludere con l’idealizzazione degli adolescenti e sconfina, consciamente o inconsciamente, nell’ambiguità.
Un po’ come se, per riprendere l’esempio precedente degli Emo, un genitore che si accorgesse che il proprio figlio partecipa a gruppi di tal fatta, anziché aiutarlo a uscirne e a elaborarne le problematiche sottostanti, lo incoraggiasse e lo approvasse.
O come se — e purtroppo sovente capita — non se ne accorgesse nemmeno e se ne disinteressasse.
O, addirittura, se ciò lo divertisse.
Dunque, della confusione e dell’ambiguità ciò che va stigmatizzato è il suo «andare al servizio della contraddizione e della malafede» (Argentieri, 2008, p.
103).
Perciò, se in qualche misura è inevitabile e perfino fonte di creatività («è dal caos che è nato il mondo» come si dice!), va tuttavia risolta, altrimenti, anziché essere fonte di soluzioni innovative, creative appunto, diventa fonte di stagnazione, regressione, sofferenza.
Nello specifico, se in adolescenza la confusione è — relativamente — fisiologica e si configura come uno stato della mente in evoluzione, nel mondo adulto il prezzo che si paga è altissimo poiché si configura come una vera e propria patologia sociale, indicatrice di permanenza di stati mentali adolescenziali non elaborati e dunque forieri di varie problematiche che causano quel malessere, non solo più adolescenziale, di cui i giovani, per la loro fragilità emotiva intrinseca, sono drammaticamente tra i più colpiti e vittime.
Il mantenimento (o addirittura la promozione) di stati confusionali, se è consapevole e intenzionale, si configura come una vera e propria manipolazione delle coscienze, non solo eticamente condannabile, ma strutturalmente dittatoriale.
Se invece è inconsapevole, si configura come sintomo di grave patologia psichica (e sociale).
Evitare la confusione dovrebbe dunque essere, se non un imperativo categorico, almeno un costante e sorvegliato impegno morale (a maggior ragione per chi svolge funzioni educative o politiche) perché, come scriveva il filosofo Gianni Vattimo,8 «la confusione mentale non è un gioco innocente, un puro problema privato di letture mal digerite e di entusiasmi mal riposti», bensì «una minaccia che ci tocca tutti, magari senza mettere a repentaglio la nostra fisicità, ma con il rischio di ridurre alcune libertà, borghesi e banali, di cui godiamo» (1998, p.
24).
Tutto ciò comporta che coloro i quali ricoprono ruoli di responsabilità educativa o politica e che, in quanto tali, dovrebbero svolgere una funzione protettrice ed evolutiva, non dovrebbero mai essere o farsi complici degli aspetti più regressivi e distruttivi.
Nel sociale si osserva a vari livelli la presenza di confusioni o la loro idealizzazione — propria di stati mentali adolescenziali non risolti —, che sconfina immediatamente nell’ambiguità e nel suo elogio.
Ne indicherò alcuni per esemplificare concretamente quanto sto affermando.
i Barbera 5.
Quale aiuto da parte degli adulti? In questa prospettiva è evidente che chi svolge funzioni educativo-formative con una popolazione adolescente dovrebbe non solo essere consapevole di queste problematiche, complesse e delicate, ma anche evitare, per conto suo, di intralciare il processo di crescita di soggetti che sono impegnati in una battaglia psicologica così vitale, opponendo competenza a confusione, chiarezza di relazioni a vischiosità, ascolto a imposizioni, presenza a disinteresse, tolleranza ad autoritarismo, riflessioni in comune a direttive calate dall’alto da supposti esperti.
Compito degli adulti — genitori e educatori vari — dovrebbe perciò essere quello di aiutare gli adolescenti a elaborare questa confusione o almeno di creare delle condizioni in cui i giovani e gli adolescenti possano pensare e crescere.
Infatti, senza questo aiuto gli adolescenti si sentono privi di punti di riferimento, con i quali magari anche contrapporsi, ma tali da poter offrire loro un contenimento.
Allo stesso tempo e allo stesso modo, compito di una società «sana» dovrebbe essere quello di creare, nelle sue varie componenti, le condizioni in cui i giovani possano essere aiutati a evolvere emotivamente, oltre che a discernere intellettualmente, sviluppando un pensiero critico e non un’omologazione addormentata su modelli consumistici o superficiali veicolati da ipnosi collettive o mass-mediatiche.
Invece, muoversi nella direzione opposta, con messaggi contraddittori o ambigui o con vere e proprie mistificazioni della realtà attuale e storica, è il modo più sicuro non solo per non fermare il disagio e la violenza giovanile, ma anche per incrementarli cinicamente.
Il modo «giusto» di porsi verso l’adolescente consiste dunque nel cooperare con lui, nell’ascoltarlo più che nel dargli veri e propri consigli, anche se è vero che l’adolescente va un po’ guidato.
L’apparente contraddizione si risolve laddove si pensi che si può essere guida per l’adolescente non necessariamente impartendo ordini e distribuendo direttive, ma piuttosto accettando che i consigli dati vengano discussi dal giovane, magari criticati e contestati.
Anche la disciplina, seppure mal tollerata, è necessaria perché è un mezzo per proteggere l’adolescente dalle sue forze distruttive interne.
Ma le proibizioni e le norme disciplinari all’interno della scuola, come nella vita quotidiana, hanno senso solo se vengono spiegate, se l’adulto fa sentire al giovane che sono dettate da una reale preoccupazione per lui e per il suo sviluppo, non da una mera attenzione per un astratto rispetto delle norme o, peggio, come intrusiva forma di controllo.
Infatti, se percepisce tutto questo come delle mansioni riduttive, infantilizzanti, che gli tolgono autonomia e identità, anziché come qualcosa proposto in funzione della sua crescita, per fargli acquisire nuove potenzialità, l’adolescente è riluttante ad accettare norme e direttive disciplinari.
Inoltre, poiché l’adolescente non esaurisce le sue informazioni e le sue possibilità di incontro nell’ambito scolastico, può capitare che viva i carichi di studio e di proibizioni come un ostacolo che lo intralcia nella possibilità di fare nuove esperienze di vita.
Perciò va «maneggiato» con cura e, nel suo processo evolutivo, va assistito da un adulto che sappia condurlo fuori dalla confusione facendosi gradualmente da parte.
In concreto l’adulto potrà, ad esempio, parlare all’adolescente delle sue paure, talvolta perfino delle sue disperazioni.
Non certo formulando spiegazioni razionalizzanti o tirando in ballo l’inconscio; tanto meno incasellandolo in quadri diagnostici che emotivamente denotano solo il bisogno di distanziarsi dall’adolescente; non tanto dandogli esortazioni o peggio norme moralistiche («non fare così, fai questo, reagisci, ecc.»), ma parlandogli invece della sua angoscia, dei suoi timori e delle sue speranze.
E accettando anche che il giovane possa non voler parlare o interagire con l’adulto (genitori, insegnanti o educatori vari) ma voglia tenersi i suoi problemi per sé, come a difesa della propria privacy, ossia dei propri spazi mentali interni.
In ogni caso, il primo atto che dovremmo compiere dovrebbe essere quello di resistere alla tendenza di etichettare il comportamento e avere pazienza per capire meglio che cosa sta succedendo non solo all’altro ma in primo luogo a noi stessi, nel momento in cui siamo in relazione con quel particolare soggetto (che, ad esempio, ci irrita o ci offende).
Le indicazioni che ci giungono dalla prospettiva psicodinamica per quanto riguarda le operazioni mentali e relazionali che promuovono il benessere dei giovani sono dunque molto precise: aiutare a contenere l’angoscia e a modularla, piuttosto che a difendersene o addirittura a evacuarla dalla propria mente.
In parole povere, aiutarli a entrare in contatto con i propri sentimenti e le proprie emozioni o, per dirla con uno slogan, aiutarli a dare conoscenza ai sentimenti e sentimenti alla conoscenza.
Se è vero, per citare la ben nota affermazione di Pascal, per cui il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce, altrettanto potremmo dire della crescita ovvero che la crescita, intesa come fatto mentale, vuol dire imparare a conoscere le ragioni del cuore, ma anche dare cuore alla ragione.
Dunque, i fattori che favoriscono il benessere psichico e la salute mentale dei giovani (ma non solo) possono essere considerati come equivalenti alla capacità di riconoscere, tollerare ed elaborare la sofferenza psichica, cioè come equivalenti alla capacità di contenerla o alla possibilità di essere aiutati a contenerla.
Viceversa, i fattori che la ostacolano o inibiscono sono identificabili nelle forze distruttive della mente la cui mancata elaborazione e integrazione dà luogo, come ricordano Meltzer e Harris (1983, p.
3), alla perdita di attitudini e capacità intellettuali, di abilità linguistiche e, in generale, a un impoverimento della vita sessuale e delle relazioni amorose che favorisce l’instaurarsi di una sessualità perversa, lo sviluppo di tendenze antisociali o di forme di tossicomania e, in ultima istanza, di malattie mentali.
E, aggiungerei, allo sviluppo di anticonoscenza.
6.
Nuove competenze per gli educatori In primo luogo tutto ciò comporta una scuola che non si riduca a uno strumento di sola preparazione tecnica, perché in tal caso sarebbe (è) una scuola inadeguata.
Ma in secondo luogo comporta anche un insegnante/educatore che sia in grado di svolgere, oltre alle funzioni strettamente cognitive, anche le ineludibili funzioni affettive, poiché, così com’è necessaria una madre che abbia capacità di contenere per poter aiutare la strutturazione del Sé del bambino (Winnicott chiama questa funzione holding), altrettanto potremmo dire: nei processi educativi, è necessario che l’educatore sappia svolgere questa funzione per permettere all’adolescente lo sviluppo di un adeguato senso del Sé.
Di quest’ultima funzione gli insegnanti e la scuola sono ampiamente carenti, limitandosi per lo più a fornire informazioni senza che vi sia la possibilità di discutere, approfondire, confrontarsi ed essere supervisionati sui vari casi che si presentano nella quotidianità.
Occorre dunque un insegnante che sappia riconoscere e gestire le dimensioni emozionali, relazionali, soggettive — in una parola psicologiche — che attraversano il processo di apprendimento e insegnamento e la mente del giovane.
Un contributo in questa direzione viene dall’insegnante o dall’educatore che possiede quelle che possiamo chiamare capacità o competenze relazionali, capacità di contatto o di contenimento, capacità di identificazione o empatiche.
Espressioni diverse per indicare la stessa cosa ovvero quella che ho chiamato, sulla scorta di Bion, la funzione psicologica della mente (Blandino, 2009).
Questa funzione (queste competenze, queste capacità) non è data «per natura», ma va attivata, acquisita e sviluppata tramite opportuni, coerenti e costanti processi formativi.
E dunque, al termine della mia disamina, devo dire che la condicio sine qua non per la promozione di condizioni di benessere mentale giovanile passa, in primo luogo, attraverso la presenza di operatori adeguatamente formati, emotivamente maturi e in grado di assumersi quella che mi piace chiamare la responbozza sabilità emotiva, ovvero la consapevolezza di come l’educatore si pone e di cosa accade nella sua mente quando interagisce con i suoi giovani interlocutori.
Perciò mi piace concludere citando il pensiero di Vittorio Foa — uomo della Resistenza, intellettuale e politico ebreo, perseguitato dal fascismo, uno dei padri dell’Italia liberata, esponente di spicco del movimento di liberazione Giustizia e Libertà — che, poco prima di morire, rispondendo a un’intervista giornalistica sui problemi della scuola, dell’ educazione e della formazione dei giovani e sulle necessità che comportano, osservò che abbiamo dimenticato qual è il ruolo dell’esempio: «un insegnante» disse «prima di tutto deve dare l’esempio!».
NOTE 1 Questa proposta di definire l’adolescenza non solo come un periodo della vita e dello sviluppo umano ma, prima ancora, come uno stato della mente si collega ai concetti di stato mentale adulto e stato mentale infantile di Meltzer e Harris (1983).
Con tali espressioni non si designano momenti temporali, né si implicano giudizi di valore morale.
Lo stato adulto della mente è conseguente all’acquisizione della posizione depressiva (di kleiniana memoria, 1937; 1959) e quindi è sempre caratterizzato da intenzionalità.
Secondo Meltzer e Harris, l’individuo mentalmente adulto tende a porsi delle finalità ed è privo di qualsiasi idea di obbedienza a precetti morali che prescrivano o vietino determinati comportamenti, poiché questo comporterebbe un indebolimento del senso di responsabilità individuale che si fonda su scelte raggiunte attraverso conflitti di natura esclusivamente interiore (1983, p.
75).
Gli stati mentali infantili rappresentano, invece, l’opposto della posizione adulta e quindi in qualche modo l’opposto della salute mentale e delle capacità relazionali.
La persona che opera da una posizione mentale di questo genere al massimo potrà possedere delle abilità tecniche, ma certamente non delle capacità autentiche di operare, ascoltando e comprendendo.
Sono persone anche di successo pubblico e sociale ma emotivamente così immature da creare danni agli altri e ai gruppi nei quali operano, cui fanno pagare i loro successi esterni, a fronte della povertà emotiva interiore.
La struttura adulta della mente si forma molto presto e se ne possono individuare tracce anche in bambini molto piccoli, così come stati infantili sono ben presenti nella vita adulta.
2 È la cosiddetta «élite senza potere», di cui parlava Alberoni nel 1973, costituita da sportivi, attori, personaggi dello spettacolo, personaggi massmediatici, ecc.
3 L’etimologia della parola «adolescente» ci dice molto delle vicissitudini emotive e psichiche di questo periodo della vita.
Infatti il termine deriva dall’omonimo latino adolescens e significa «in via di crescita», essendo composto dalla preposizione «ad» e dal verbo «alere» (da cui anche «alunno »), cioè alimentare e nutrire.
L’adolescente dunque, come ci mostra la storia della parola, è un essere in via di crescita che ha bisogno di essere nutrito e alimentato.
Non solo fisiologicamente, ma anche mentalmente.
4 Questo paragrafo riprende parti della trattazione sulle problematiche adolescenziali che ho svolto nel cap.
5 del testo La disponibilità ad apprendere (2002a) e nel cap.
12 del testo Le risorse emotive nella scuola (2002b).
Entrambe le opere sono state scritte in collaborazione con B.
Granieri.
5 Chi volesse averne una riprova pratica e visiva, e non volesse andare a cercarli in qualche piazza delle nostre città — Roma in primis —, ne può trovare ampie esemplificazioni dal vivo digitando su you tube il termine «emo».
Oppure può vederne una simpatica caricatura nel recente film di Verdone Io, loro e Lara.
6 Anche se il lettore mi permetterà di rivendicare, senza ombra di presunzione, la mia personale e costante attenzione a muovermi, didatticamente, con i miei studenti, nella direzione di aiutarli a chiarire ciò che imparano durante il loro percorso universitario.
Atteggiamento che tengo propro in conseguenza di ciò che sto enunciando e stigmatizzando.
7 Anche la mafia, prima di essere una tragica realtà criminale reale, è uno stato della mente, fondato sulla menzogna, l’occultamento, la falsità.
Lo stato mafioso della mente è quello in cui le istanze psicopatologiche personali la fanno da padrona, impedendo la conoscenza e l’autoconoscenza, evitando omertosamente di far parlare tra loro parti di sé, in un quadro persecutorio, onnipotente e delinquenziale che appartiene a una logica di funzionamento primitivo di tipo schizoparanoide.
Infatti, sappiamo che, se ragioniamo dal punto di vista psicoanalitico, il mentire è il segno più grande della perversione, mentre la salute mentale si fonda sulla ricerca della verità, come già sosteneva Freud e ribadì Ferenczi.
Per parte sua Bion ricordò che la verità è il nutrimento della mente mentre la bugia ne è il veleno (cfr.
anche Blandino, 2009, cap.
21).
A conforto di quanto vado dicendo, voglio citare un’intervista di qualche anno fa, dell’allora procuratore antimafia Vigna, il quale disse: «il mafioso, per definizione, mente.
Mente sempre».
Possiamo perciò ritenere che ogni gruppo sociale, ampio o piccolo che sia, se si fonda sulla menzogna è strutturalmente mafioso, indipendentemente dal fatto che poi abbia anche delle vere e proprie declinazioni criminali.
8 A proposito di un film censurato e di un articolo confuso che difendeva la censura in nome di presunti valori cristiani.
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In questa prospettiva l’autore sostiene che l’adolescenza, prima di essere un periodo reale, è uno stato mentale che può caratterizzare qualunque persona, in qualunque periodo della vita; e che, se i giovani adolescenti trovano un mondo adulto che permane in questo stato mentale, difficilmente avranno la possibilità di sviluppare benessere emotivo, ma più spesso svilupperanno disagi sfocianti in varie manifestazioni patologiche individuali e sociali.
Il compito primario di un educatore è dunque quello di assumersi la responsabilità emotiva della propria mente, attraverso un adeguato, approfondito, organico e prolungato processo di formazione.
2.
Dinamiche psicologiche dell’adolescenza (4) Mentre il mondo infantile è un mondo relativamente stabile, da un punto di vista emotivo, l’adolescenza, come ricorda Anna Freud (1969), si configura come un periodo di grandi mutamenti corporei, intellettuali, affettivi e sociali, che hanno un rilevante contraccolpo sul mondo interno del giovane e sul suo modo di vivere ed elaborare le esperienze con cui viene in contatto.
Anche da un punto di vista prettamente cognitivo, si osservano cambiamenti nella sfera intellettiva che spingono l’adolescente a porsi molte domande su di sé, a ragionare e a riflettere sui grandi temi della vita (Piaget, 1969).
A causa di tutti questi mutamenti, nell’adolescenza si inizia ad abbandonare gli schemi di adattamento che erano tipici dell’infanzia (cfr.
Josselyn, 1971) e a sperimentare nuovi modi di comportamento per risolvere i propri problemi.
I quali, però, per quanto siano molteplici, complessi e diversificati, hanno una finalità comune: la conquista della propria identità (Erikson, 1968).
L’adolescenza, dunque, è un processo di sviluppo nel quale l’individuo è orientato alla conquista di uno stabile senso del Sé (Spiegel, 1964), per raggiungere il quale compie un drammatico e spesso tormentato lavoro interiore passando attraverso conflitti e confusioni, prove ed errori, confronti e scontri, paure ed emozioni, in una situazione di incertezza e di dolore che costituisce il risvolto emotivamente più impegnativo.
Il soggetto di età adolescenziale si trova dunque a vivere un’alternanza tra essere grande, adulto e fare quindi cose da grande — talvolta anche realmente pericolose — e al contempo essere piccolo, bambino e avere bisogni da bambino.
Perciò, mentre conserva ancora bisogni di protezione, di tipo materno, manifesta contemporaneamente una necessità di indipendenza e quindi una scarsa sopportazione della protezione.
Così, nella battaglia per crescere, gli adolescenti attraversano un conflitto, tipico di questa età, tra uno stato di dipendenza e la lotta per affrancarsene.
È per tale motivo che Meltzer afferma che gli adolescenti sono «costituzionalmente» ribelli (1978).
Un adolescente che non fosse in una certa misura ribelle sarebbe problematico.
Per questi motivi, un certo atteggiamento contestativo fa parte del processo di crescita dell’adolescente: dunque vediamo che l’adolescente, da una parte, ha bisogno di figure significative dal punto di vista educativo ma, dall’altra, ne ha bisogno per contrapporsi in modo da avere un termine di paragone, di confronto, a partire dal quale esplorare la sua capacità di autonomia mentale e a partire dal quale potersi successivamente separare.
Perciò apprezza quell’adulto che è così forte e autorevole da accettare le sue critiche e da tenergli testa.
Questo atteggiamento è un modo per esplorare il mondo e se stessi, in vista della propria crescita, ed è da intendersi non soltanto come una provocatoria ribellione contro gli adulti o come espressione di distruttività, ma anche come espressione di un momento di riorientamento in funzione dell’acquisizione di una propria autonoma identità.
Pertanto, anche una certa impudenza nel linguaggio e nel comportamento, la resistenza ad accettare le norme sociali proprie del comune vivere tra adulti, o comportamenti quali l’irrequietezza, l’incostanza, la scherzosità pesante sono da considerarsi come fenomeni propri dell’adolescenza e vanno quindi concepiti come rientranti nella normalità (cfr.
Redl, 1969).
In questa alternanza di stati mentali e stati d’animo, l’adolescente spesso non sa davvero che cosa sia realmente.
In rapporto a questo conflitto tra bisogno di autonomia e bisogno di dipendenza, Meltzer (1978) osserva che la comunità degli adolescenti si pone a metà strada tra la comunità del bambino, nell’ambito familiare, e la comunità del mondo adulto; ogni singolo adolescente «si sposta avanti e indietro in queste tre comunità»: cerca di entrare nel mondo adulto, mentre tenta di lasciare il mondo dei bambini.
Va verso il mondo adulto agendo nel mondo esterno per mezzo di rapporti sessuali, successi scolastici, affermazioni sociali.
Viceversa, si muove verso il mondo infantile con i sogni, gli ideali, le speranze, gli interessi autentici per gli altri, ma vive questi stati d’animo come una minaccia, come un rischio di restare o ritornare bambino.
Paradossalmente ciò che lo fa crescere e lo rende adulto (emotivamente adulto) è la capacità di provare sentimenti, di interessarsi agli altri, di operare nel sociale, ma tutte queste qualità vengono da lui vissute come un qualcosa che lo infantilizza, mentre ciò che ritiene lo faccia avanzare nel mondo dei grandi — l’invidia, l’avidità, la crudeltà, l’ipocrisia — lo fa in realtà regredire.
La sua sensazione, come evidenzia Meltzer, è che per crescere debba essere spietato e avere successo, ritenendo questi i valori positivi, mentre il provare sentimenti e il sentirsi fragile sono ritenuti fattori negativi che lo riportano indietro facendolo rimanere bambino.
Invece, nella realtà psichica, è esattamente l’opposto: il cinismo e la spietatezza sono ciò che gli impediscono di diventare adulto e responsabile, mentre sono proprio i sentimenti e la consapevolezza dei propri limiti che lo fanno crescere emotivamente (cfr.
Meltzer, 1978, p.
22).
L’adolescente cerca dunque di superare la confusione separando, dentro di lui, il Sé adulto dal Sé bambino.
Per questi motivi l’adolescente può apparire cinico e, in una certa misura, lo è realmente, come reazione a tutta una serie di disillusioni e di confusioni per ciò che accade dentro di sé, nel proprio mondo interno, nella propria mente.
E qui va detto che, contrariamente a quanto si pensa, l’adolescente non è preoccupato tanto di raggiungere soddisfazioni o successi sessuali, quanto di conoscere e capire.
Il suo problema è la conoscenza e il suo dramma sta nella difficoltà a comprendere e a comprendersi.
Le disillusioni riguardano soprattutto i genitori o gli adulti rappresentanti le figure genitoriali, in quanto sono stati idealizzati come onniscienti dall’adolescente, quand’era bambino, ma ora subentra la sensazione, insieme alla delusione, che il mondo adulto sia fatto di ipocriti.
L’adolescente vive allora gli adulti (e tra questi, in particolare, i genitori e gli insegnanti) come coloro che hanno il potere e il controllo delle cose e lo difendono da ogni intrusione.
È quindi portato a ritenere che la comunità degli adulti sia un mondo falso e ipocrita, mentre, parallelamente, disprezza i bambini considerandoli degli schiavi e degli illusi.
E qui entra in gioco il ruolo fondamentale, dal punto di vista psicologico, che ha il gruppo per gli adolescenti.
Infatti, «preso in mezzo» tra questi due gruppi — interni e mentali prima ancora che sociali — in cui non si riconosce più (il gruppo infantile) o in cui non si riconosce ancora (il gruppo adulto), l’adolescente sente che nessuno può aiutarlo nella sua — reale — sofferenza interiore e che gli unici con cui condividere i propri problemi sono i compagni, con i quali l’adolescente realizza una coesione e una collusione in contrasto con gli altri due gruppi.
Così, pur avendo ancora bisogno degli adulti, è prevalentemente con i propri coetanei che l’adolescente condivide e cerca di elaborare ansie, dubbi, paure, desideri e confusioni, cioè tutta quella serie di problemi che attraversano l’età adolescenziale e che abbiamo detto essere connessi all’elaborazione della propria identità.
Insieme, tra loro, gli adolescenti si sentono isolati e in una posizione di incomunicabilità sia con i bambini che con gli adulti.
Quindi, solo il gruppo dei coetanei è sentito come quello che può compartecipare e comprendere i conflitti, l’unico con il quale condividere questa sensazione di solitudine nell’affrontare i propri conflitti interni, dei quali non sempre il giovane è consapevole.
La possibilità di trovare aiuto e dialogo viene pensata possibile solo con i pari che, peraltro, soffrono di queste stesse difficoltà.
Il gruppo di coetanei per l’adolescente è dunque di fondamentale importanza: un mezzo per elaborare e aiutare a sopportare i propri conflitti interni e per mettersi in contatto con il sociale (Palmonari, 1985); un luogo di elaborazione ideologico-culturale; il criterio di riferimento nella soluzione dei problemi.
A questo proposito Josselyn diceva: «un adolescente, che non si conformasse ad alcuno del suo gruppo, dovrebbe esser tenuto attentamente sotto osservazione, poiché un contegno così atipico sarebbe certo foriero di gravi turbe emotive o mentali» (1971, pp.
51-52).
Così osserviamo che i giovani adolescenti sono tanto anticonformisti nei confronti del mondo degli adulti, quanto conformisti nei confronti dei coetanei e rigidamente osservanti delle norme e regole, abitudini del gruppo, formali e informali, esplicite e implicite.
Il che produce tutta quella serie di fenomeni che si configurano come conformismo, fino alle forme più gravi e decisamente antisociali o delinquenziali quali l’appartenenza a bande.
E osserviamo anche quei classici comportamenti adolescenziali quali il muoversi in branco, il seguire certi «modi» o l’usare determinati e comuni atteggiamenti, linguaggi o gerghi, l’occupare il tempo non scolastico con rituali apparentemente stereotipati, il vestirsi tutti nella stessa maniera come modo per affermare tanto un atteggiamento, quanto un’appartenenza di gruppo, vale a dire una «divisa».
Anzi spesso è proprio grazie all’abito (talvolta, purtroppo, «solo» grazie all’abito), a ciò che significa e allo status che è in grado di comunicare, che gli adolescenti trovano una qualche identità, esteriore certo, ma tale proprio perché manca quella interiore.
Tutti questi comportamenti pertanto si possono comprendere meglio se li interpretiamo
Sabato 12 febbraio a Bologna si tiene la presentazione del Cortile dei Gentili – dal nome dello spazio specifico dell’antico Tempio di Gerusalemme al quale tutti, e non solo gli israeliti, potevano liberamente accedere – la nuova struttura creata dal Pontificio Consiglio della Cultura per favorire l’incontro e il dialogo tra credenti e con credenti.
Pubblichiamo sull’argomento un articolo del cardinale presidente del dicastero.
“Mi manca la fede e, quindi, non potrò mai essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa (…) Non ho ereditato il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto caro al razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo.
Non oso, allora, gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui dubito”.
Aveva soltanto 31 anni ed era già al culmine del successo; eppure il 4 novembre 1954 si era tolto la vita, e forse la chiave di questa resa fallimentare era da cercare proprio nelle righe che abbiamo citato dalla sua opera Il nostro bisogno di consolazione.
Stiamo parlando di uno scrittore svedese di “culto”, Stig Dagerman, che illumina in modo esplicito il senso di un dialogo tra atei e credenti.
Interrogarsi sul significato ultimo dell’esistere non coinvolge, certo, lo scettico sardonico e sarcastico che ambisce solo a ridicolizzare asserti religiosi.
Tra l’altro, uno che di ateismo s’intendeva come il filosofo Nietzsche non esitava a scrivere nel Crepuscolo degli dei (1888) che “solo se un uomo ha una fede robusta, può indulgere al lusso dello scetticismo”.
Neppure il razionalista, avvolto nel manto glorioso della sua autosufficienza conoscitiva, vuole correre il rischio di inoltrarsi sui sentieri d’altura della sapienza mistica, secondo una grammatica nuova che partecipa del linguaggio dell’amore, che è ben diverso dalla spada di ghiaccio della pur importante ragione pura.
Né è interessato a questo dialogo l’ateo confessante che, sulla scia dello zelo ardente del marchese de Sade della Nouvelle Justine (1797), presenta il suo petto solo al duello: “Quando l’ateismo vorrà dei martiri, lo dica: il mio sangue è pronto!”.
L’incontro tra credenti e non credenti avviene quando si lasciano alle spalle apologetiche feroci e dissacrazioni devastanti e si toglie via la coltre grigia della superficialità e dell’indifferenza, che seppellisce l’anelito profondo alla ricerca, e si rivelano, invece, le ragioni profonde della speranza del credente e dell’attesa dell’agnostico.
Ecco perché si è voluto pensare a un “Cortile dei Gentili” che si inaugurerà a Bologna, nella sua antica università e a Parigi alla Sorbona, all’Unesco e all’Académie Française.
Lasciamo da parte la denominazione storica che ha solo una funzione simbolica, evocando l’atrio che nel tempio di Gerusalemme era riservato ai “gentili”, i non ebrei in visita alla città santa e al suo santuario.
Fermiamoci, invece, sul suo aspetto tematico, così come lo fa balenare Dagerman.
Uno degli intellettuali ebrei più aperti del primo secolo, Filone di Alessandria d’Egitto, artefice di un dialogo tra ebraismo ed ellenismo – quindi secondo i canoni di allora, tra fedeli jahvisti e pagani idolatrici – definiva il sapiente con l’aggettivo methòrios, ossia colui che sta sulla frontiera.
Egli ha i piedi piantati nella sua regione, ma il suo sguardo si protende oltre il confine e il suo orecchio ascolta le ragioni dell’altro.
Per attuare questo incontro ci si deve armare non di spade dialettiche, come nel duello tra il gesuita e il giansenista del film La via Lattea (1968) di Buñuel, ma di coerenza e rispetto: coerenza con la propria visione dell’essere e dell’esistere, senza slabbramenti sincretistici o sconfinamenti fondamentalistici o approssimazioni propagandistiche; rispetto per la visione altrui alla quale si riservano attenzione e verifica.
Si è, invece, incapaci di ritrovarsi su quel confine tra i due cortili simbolici del tempio di Sion, l’atrio dei gentili e quello degli israeliti, quando ci si arrocca solo in difesa dei propri idoli.
Nell’Adolescente (1875) Dostoevskij, sia pure con la passione del credente, li identificava con chiarezza.
Da un lato, infatti, affermava che “l’uomo non può esistere senza inchinarsi (…) Si inchinerà, allora, a un idolo di legno o d’oro, o del pensiero…
o di dèi senza Dio”.
D’altro lato, però, riconosceva che vi sono “alcuni che sono davvero senza Dio, solamente fanno più paura degli altri, perché vengono col nome di Dio sulle labbra”.
Ecco la tipologia comune a coloro che non si fermeranno a dialogare su quella frontiera: chi è convinto di aver già in sé tutte le risposte e di doverle solo imporre.
Questo, però, non significa che ci si presenta soltanto come mendicanti, privi di qualsiasi verità o concezione della vita.
Ponendomi per congruenza sul territorio del credere a cui appartengo, vorrei solo evocare la ricchezza che questa regione rivela nei suoi vari panorami ideali.
Pensiamo al raffinato statuto epistemologico della teologia come disciplina dotata di una sua coerenza, alla visione antropologica cristiana elaborata nei secoli, all’investigazione sui temi ultimi della vita, della morte e dell’oltrevita, della trascendenza e della storia, della morale e della verità, del male e del dolore, della persona, dell’amore e della libertà; pensiamo anche al contributo decisivo offerto dalla fede alle arti, alla cultura e allo stesso ethos dell’Occidente.
Questo enorme bagaglio di sapere e di storia, di fede e di vita, di speranza e di esperienza, di bellezza e di cultura è posto sul tavolo di fronte al “gentile” che potrà, a sua volta, imbandire la mensa della sua ricerca e dei suoi risultati per un confronto.
Da un simile incontro non si esce mai indenni, ma reciprocamente arricchiti e stimolati.
Sarà un po’ paradossale, ma potrebbe essere vero quello che Gesualdo Bufalino scriveva nel suo Malpensante (1987): “Solo negli atei sopravvive oggigiorno la passione per il divino”.
Una lezione, quindi, e un monito per lo stesso fedele abitudinario, affidato a formule dogmatiche, senza lo scavo del comprendere intelligente e vitale.
Sull’altro versante si potrebbe immaginare l’epigrafe di una delle tombe dell’Antologia di Spoon River (1915): “Io che qui giaccio ero l’ateo del villaggio, loquace, litigioso, versato negli argomenti dei miscredenti.
Ma in una lunga malattia lessi le Upanishad e il Vangelo di Gesù.
Ed essi accesero una fiaccola di speranza e di intuizione e di desiderio che l’Ombra, guidandomi tra le caverne del buio, non poté estinguere.
Ascoltatemi, voi che vivete nei sensi e pensate solo attraverso i sensi: l’immortalità non è un dono ma un compimento.
E solo coloro che si sforzano molto potranno ottenerla”.
Si deve, allora, affermare – sempre in questa linea e sulla scia della metafora della frontiera – che il confine, quando si dialoga, non è una cortina di ferro invalicabile.
Non solo perché esiste una realtà che è quella della “conversione” e qui assumiamo il termine nel suo significato etimologico generale e non nell’accezione religiosa tradizionale.
Ma anche per un altro motivo.
Credenti e non credenti si trovano spesso sull’altro terreno rispetto a quello proprio di partenza: ci sono, infatti, come si suol dire, credenti che credono di credere, ma in realtà sono increduli e, viceversa, non credenti che credono di non credere, ma il loro è un percorso che si svolge in quel momento sotto il cielo di Dio.
A questo proposito vorremmo solo suggerire un paio di esempi paralleli, anche se distribuiti sui due campi.
Partiamo dal credente e dalla componente di oscurità che la fede comporta, soprattutto quando si allarga il sudario del silenzio di Dio.
Facile è pensare ad Abramo e ai tre giorni di marcia sull’erta del monte Moria, stringendo la mano del figlio Isacco e custodendo nel cuore lo sconcertante imperativo divino del sacrificio (Genesi, 22); oppure possiamo ricorrere alla lacerante e fluviale interrogazione di Giobbe; o ancora al grido dello stesso Cristo in croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
O tanto per scegliere un emblema moderno, tra i tanti possibili, alla “notte oscura” di un mistico altissimo come san Giovanni della Croce e, per venire a noi, al dramma del pastore Ericsson in crisi di fede, nel film Luci d’inverno (1962) di Ingmar Bergman.
Scriveva giustamente un teologo francese, Claude Geffré: “Su un piano oggettivo è evidentemente impossibile parlare di una non credenza nella fede.
Ma sul piano esistenziale si può arrivare a discernere una simultaneità di fede e di non credenza.
Ciò non fa che sottolineare la natura stessa della fede come dono gratuito di Dio e come esperienza comunitaria: il vero soggetto della fede è una comunità e non un individuo isolato”.
Spostiamoci ora sull’altro versante, quello dell’ateo e delle sue oscillazioni.
Il suo stesso anelito, testimoniato per esempio dal citato Dagerman, è già un percorso che s’inoltra nel mistero, a tal punto da configurarsi in preghiera, come è testimoniato da questa invocazione di Aleksandr Zinov’ev, l’autore di Cime abissali (1976): “Ti supplico, mio Dio, cerca di esistere, almeno un poco, apri i tuoi occhi, ti supplico! Non avrai da fare altro che questo, seguire ciò che succede: è ben poco! Ma, o Signore, sforzati di vedere, te ne prego! Vivere senza testimoni, quale inferno! Per questo, forzando la mia voce io grido, io urlo: Padre mio, ti supplico e piango: Esisti!”.
È la stessa supplica di uno dei nostri poeti contemporanei più originali, Giorgio Caproni (1912-1990): “Dio di volontà, Dio onnipotente, cerca, / (Sforzati!), a furia di insistere, / – almeno – di esistere”.
È significativo che il concilio Vaticano II abbia riconosciuto che, obbedendo alle ingiunzioni della sua coscienza, anche il non credente può partecipare della risurrezione in Cristo che “vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore invisibilmente lavora la grazia.
Cristo, infatti, è morto per tutti (…) Perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (Gaudium et spes, 22).
In ultima analisi l’ostacolo che si leva per questo dialogo-incontro è forse uno solo, quello della superficialità che stinge la fede in una vaga spiritualità e riduce l’ateismo a una negazione banale o sarcastica.
Per molti, ai nostri giorni, il “Padre nostro” si trasforma nella caricatura che ne ha fatto Jacques Prévert: “Padre nostro che sei nei cieli, restaci!”.
O ancora nella ripresa beffarda che il poeta francese ha escogitato della Genesi: “Dio, sorprendendo Adamo ed Eva, / disse: Continuate, ve ne prego, / non disturbatevi di me, / fate come se io non esistessi!”.
Far come se Dio non esistesse, etsi Deus non daretur, è un po’ il motto della società del nostro tempo: chiuso come egli è nel cielo dorato della sua trascendenza, Dio – o la sua idea – non deve disturbare le nostre coscienze, non deve interferire nei nostri affari, non deve rovinare piaceri e successi.
È questo il grande rischio che mette in difficoltà una ricerca reciproca, lasciando il credente avvolto in una lieve aura di religiosità, di devozione, di ritualismo tradizionale, e il non credente immerso nel realismo pesante delle cose, dell’immediato, dell’interesse.
Come annunciava già il profeta Isaia, ci si ritrova in uno stato di atonia: “Guardai, ma non c’era nessuno; tra costoro nessuno era capace di consigliare, nessuno c’era da interrogare per avere una risposta” (41, 28).
Il dialogo è proprio per far crescere lo stelo delle domande, ma anche per far sbocciare la corolla delle risposte.
Almeno di alcune risposte autentiche e profonde.
(©L’Osservatore Romano – 12 febbraio 2011)
Un messaggio semplice per dire no alla fame nel mondo e proporre la fraternità e la condivisione come nuovo stile di vita.
È il filo conduttore della campagna di comunicazione “Condividiamo il pane quotidiano”, lanciata dal Sermig di Torino.
Lunedì 31 gennaio, la presentazione in Parlamento a partire dalle ore 16, nella Sala della Lupa di Montecitorio.
Interverranno il presidente della Camera Gianfranco Fini e il fondatore del Sermig Ernesto Olivero.
Ogni giorno, – spiega Olivero – la fame uccide direttamente o indirettamente 100mila persone.
È un fatto terribile e inaccettabile! Il mondo però si può cambiare! Non è utopia, non è buonismo.
Io ci credo veramente.
Ho visto con i miei occhi che basta un pugno di giovani con un ideale per cambiare il corso della storia di una città, di un quartiere, di una famiglia, di un gruppo di amici”.
La campagna di comunicazione è stata realizzata gratuitamente dallo Studio Armando Testa: un’immagine su sfondo giallo raffigura un panino tagliato in due.
Al posto del companatico, la frase “Il pane sia con te, come il pane è con me”: una speranza, un impegno di vita.
Il Sermig – Servizio Missionario Giovani – nasce a Torino nel 1964 da un’intuizione di Ernesto Olivero e dall’impegno di un gruppo di giovani decisi a sconfiggere la fame con opere di giustizia, a promuovere sviluppo, a vivere la solidarietà verso i più poveri.
Si trasforma in Fraternità della Speranza, composta da giovani, coppie di sposi e famiglie, monaci e monache che si dedicano a tempo pieno al servizio dei poveri, alla formazione dei giovani, con il desiderio di vivere il Vangelo e di essere segno di speranza.
Attorno alla Fraternità della Speranza, centinaia di volontari e il movimento internazionale dei Giovani della Pace si ispirano alla spiritualità e al metodo del Sermig.
A oggi sono stati sostenuti 2800 progetti di sviluppo in 89 Paesi del mondo.
Dal 1983 la sede del Sermig è l’ex arsenale militare di Torino ora Arsenale della Pace, una superficie di quarantamila metri quadrati che migliaia di giovani, di donne e uomini di buona volontà, con il loro lavoro gratuito e i con contributi volontari, hanno trasformato in un monastero metropolitano, aperto 24 ore su 24.
Il mondo è attraversato da conflitti legati alle religioni o interni a esse, che a volte si manifestano solo con parole dure o ingiuriose, ma spesso esplodono in atti di violenza e di sconvolgente estremismo.
Queste tensioni fanno emergere una questione essenziale: i credenti sono pronti a rispettare, e anche ad amare, i seguaci di un’altra fede o li considerano nemici solo perché appartengono a un credo o a una religione diversa dalla loro? Sono «aperti» o «chiusi» verso gli altri? Sono disposti a vivere in armonia con chi non è come loro? In tutte le principali religioni si vanno diffondendo conflitti e, data la enorme importanza della religione nel mondo moderno, ne discendono conseguenze immense per tutti noi, per chi appartiene a una delle grandi fedi come per chi non ne segue nessuna.
C’è naturalmente chi sostiene che la risposta vada cercata nell’ambito della politica, che di certo deve giocare un ruolo fondamentale.
Ma dato che l’estensione di questi scontri è inevitabilmente legata a questioni di natura religiosa, i credenti devono impegnarsi in modo diretto e responsabile.
Inoltre, poiché chi vive la fede con passione non vuole agire in contrasto con essa, le iniziative a favore di un atteggiamento aperto devono avere una dimensione più ampia e profonda, non possono limitarsi a chiedere di comportarsi bene verso gli altri.
Devono richiamarsi ai presupposti spirituali, teologici e scritturali del rispetto per chi segue un diverso cammino religioso o spirituale.
Il 20 ottobre del 2010, anche se la cosa ha ricevuto scarsa attenzione, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità una risoluzione che proclama la prima settimana di febbraio di ogni anno World Interfaith Harmony Week.
La risoluzione era stata proposta un mese prima da re Abdullah II di Giordania e rappresenta un caso unico negli annali delle Nazioni Unite, perché nomina esplicitamente Dio (anche se in modo da non escludere i non religiosi) e perché promuove relazioni interreligiose armoniose mettendo in particolare evidenza le basi scritturali e teologiche su cui dovrebbero fondarsi: «L’Assemblea generale delle Nazioni Unite invita tutti gli Stati a diffondere su base volontaria, nel corso di quella settimana, un messaggio di armonia e di apertura tra le religioni nelle chiese, moschee, sinagoghe, templi e altri luoghi di culto del mondo; un messaggio basato sull’amore di Dio e del prossimo o sull’amore del bene e del prossimo, a seconda delle tradizioni o credi religiosi di ciascuno» .
Ovviamente le risoluzioni, per quanto mosse da buone intenzioni, non cambiano il mondo, ma questa incoraggia le persone che credono nell’armonia interreligiosa e nell’accettazione dell’altro a emergere, a sfidare chi fomenta la discordia e la divisione per istrettezza di vedute o ignoranza delle altre religioni.
Essa riconosce il fatto che il messaggio della religione sul comportamento sociale non può più essere affidato solo alle élite religiose o accademiche, dato che ha un ruolo centrale nel determinare il modo in cui si svilupperà il Ventunesimo secolo.
Parlare di «amore di Dio e del prossimo» è importante, perché altrimenti i cristiani, i musulmani e gli ebrei osservanti probabilmente non si sentirebbero coinvolti dalla risoluzione — e cristiani e musulmani da soli costituiscono circa il 55%della popolazione mondiale— perché «non di pane soltanto vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Luca 4, 4 e Matteo 4, 4, e anche Deuteronomio 8, 2-3).
«In verità il ricordo di Dio è quanto ci sia di più grande…» (dal Santo Corano, 29, 45).
È però altrettanto importante parlare di «amore del bene e del prossimo» perché, mentre per i credenti il bene è Dio, l’amore per il bene coinvolge tutti gli uomini di buona volontà.
In questo modo la risoluzione, anche se basata sui due principali comandamenti su cui «si fonda tutta la Legge e i Profeti» (Matteo 22, 40), coinvolge ogni uomo, di ogni religione, fede e credenza, compreso chi non segue alcuna religione.
La World Harmony Interfaith Week ha quindi la straordinaria possibilità di contrastare l’ondata di tensioni religiose nel mondo: (1) coordinando e unendo gli sforzi di tutti i gruppi interconfessionali perché si concentrino su un tema specifico in uno specifico periodo dell’anno, aumentando così lo slancio comune ed eliminando ispersioni; (2) indirizzando e utilizzando la forza collettiva della seconda più grande infrastruttura mondiale (quella dei luoghi di culto — la prima è quella dell’istruzione) allo scopo di promuovere la pace e l’armonia mondiale: inserendo, per così dire, il giusto software nell’hardware religioso del mondo; (3) incoraggiando in permanenza e con regolarità la maggioranza silenziosa dei predicatori a dichiararsi per la pace e l’armonia, fornendo un veicolo già pronto allo scopo e rendendo pubblici questi sforzi.
Cosa può fare ciascuno di noi? Se si è un esponente religioso, un predicatore o un insegnante, basta proporre il tema dell’armonia interreligiosa nel corso della prima settimana di febbraio di ogni anno in sermoni, prediche, scritti, lezioni.
Tutto qui.
Se si vuol rendere ufficialmente noto un evento perché altri possano conoscerlo, si può inserirlo nel sito www.
worldinterfaithharmonyweek.
com.
Sullo stesso sito si possono anche pubblicare sermoni o articoli che potrebbero rappresentare un’utile risorsa per altri.
Se si è «laici» di buona volontà, ci sono molte cose che si possono fare senza grande dispendio di tempo o di denaro; ad esempio organizzare un «pranzo per l’armonia» per i vicini di fedi diverse o semplicemente invitarli a prendere una tazza di tè o di caffè, a fare una chiacchierata, a guardare un film; si può organizzare un bazar multiculturale; fare insieme un lavoro per la comunità, organizzare una ripulita a un quartiere, dar da mangiare ai senzatetto, realizzare un orto collettivo, dipingere un murale interreligioso, leggere o pregare insieme, parlare alle proprie famiglie della necessità della tolleranza e dell’armonia o anche solo salutare una persona di fede diversa o sorridergli.
Eventi significativi sono già stati avviati.
L’amore per il prossimo inizia proprio dai vicini di casa e quindi dalle comunità locali.
Una buona azione per l’armonia interreligiosa, anche se il mondo va in direzione opposta, non è come il voto dato a un candidato che viene sconfitto: conserva il suo valore.
Anzitutto per l’anima che l’ha compiuta e non è poca cosa.
Poi perché creerà una diffusione a catena del bene la cui portata futura non è prevedibile, ma che darà luogo a una spirale positiva sempre più ampia.
Durante la prima settimana di febbraio ricordatevi quindi di Dio e del prossimo o del Bene e del prossimo.
E ricordate la World Harmony Interfaith Week.
di Tony Blair e Principe Gazhi di Giordania in “Corriere della Sera” del 13 gennaio 2011 (traduzione di Maria Sepa)