Pubblicazione: l’analogia familiare della Trinità – Alessio Meloni

L’Autore illustra validità e limiti dell’analogia trinitaria della famiglia, assai ricorrente nel panorama teologico. La verità trinitaria suggerisce criteri di comportamento importanti per il progresso spirituale della famiglia e rappresenta una sorgente d’ispirazione per la pastorale familiare. Il volume evidenzia poi che il mistero trinitario offre apprezzabili indicazioni per l’organizzazione e la prassi di organismi collettivi classificabili come “famiglie” in senso lato: la compagine sociale, il corpo ecclesiale, la comunità religiosa.

 

 

Presentazione dei volumi

Potenzialità e limiti nel “dire Dio” oggi in Italia e oltre… L’apporto delle scienze e le provocazioni per il sapere teologico

Cecilia Costa*

SOMMARIO
L’articolo presenta una riflessione articolata e documentata sulle provocazioni e sulle sollecitazioni che le scienze sociali possono offrire alle altre scienze, in particolare alle scienze teologiche e alla catechetica. L’osservazione attenta dei fenomeni sociali, senza estromettere quelli che riguardano la dimensione religiosa dell’uomo e “Dio” nella percezione che l’individuo e la società di fatto elaborano, risulta imprescindibile per cogliere il senso della realtà e della storia che viviamo. A sua volta, in un contesto pluralistico e complesso che spinge alla transdisciplinarità, le scienze sociali possono ricevere degli apporti dalle altre scienze, accogliendo l’invito a interessarsi di temi di confine come la lettura del “religioso” e il “dire Dio oggi”, senza preclusioni ideologiche, senza venir meno al doveroso tenore di onestà intellettuale.

 

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C&E 7(2) – 02. Costa

 

► PAROLE CHIAVE
Dio; Interdisciplinarità; Religiosità; Scienze sociali; Teologia.

 

 

Cecilia Costa è Ordinario di Sociologia dei processi culturali presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Roma Tre

 

 

 

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“Dire Dio” ai margini della vita e in un tempo di incertezze”

La Chiesa che conversa con gli uomini del suo tempo

«La Chiesa italiana attraversa diversi e non semplici problemi ma credo anche che vanti una prerogativa importante: è una Chiesa ricca di spiritualità e di carità per i poveri. E penso che è da qui che dobbiamo ripartire». In questo esordio di una lunga chiacchierata, che in un pomeriggio di fine estate ci ha concesso il neo presidente della Conferenza episcopale italiana, c’è non solo la sintesi estrema del suo programma di lavoro ma anche i tratti principali della personalità del cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi: una decisa positività che è figlia della sua curiosità intellettuale e della speranza cristiana.

Cominciamo dal Sinodo: si può dire che la partecipazione e i risultati della fase dell’ascolto diocesano siano stati inferiori alle aspettative? In un Sinodo chiamato a discutere di sinodalità, cioè dell’essere Chiesa, spesso è prevalso tra i laici un atteggiamento ancora delegante e tra i preti una qualche diffusa diffidenza.

Sì, è vero. Ma penso anche che proprio questa fatica del cammino sinodale sia paradossalmente segno della necessità e urgenza della prassi sinodale. Perché ci si mette in cammino quando se ne avverte l’esigenza, quella di Cristo che non aspetta, chiama e invia. Questo appuntamento avviene in un momento particolare nella vita della Chiesa e del mondo, cioè nello scorcio finale (si spera) di una pandemia che ha sconvolto le nostre vite, ha cambiato le nostre abitudini, anche religiose, ha svuotato le chiese, ha inciso profondamente sul nostro sentimento religioso, sul nostro essere comunità, e financo sul nostro modo di pregare. Non scordiamoci che nelle nostre intenzioni iniziali questo cammino prevedeva anche dei compagni di viaggio esterni al nostro mondo abituale; non il solito 5 per cento ma quel 95 per cento che ci guarda ma non cammina con noi, e il tempo recente che abbiamo vissuto non c’è stato certo d’aiuto nel progetto. Dobbiamo ripartire da due domande: perché camminare e perché camminare insieme ad altri compagni di viaggio. E questo richiede una grande passione. L’immagine biblica di riferimento è Matteo, 9, 35: «Gesù percorreva tutte le città e i villaggi insegnando nelle loro sinagoghe e predicando il Vangelo del Regno, […] e vedendo le folle ne ebbe compassione perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore», e manda due a due i suoi; e Dio sa quanta stanchezza e sfinitezza c’è ora nel mondo. Anche oggi Dio ci chiama e ci manda. Non giudica, non rimprovera: manda noi! E se aspettiamo, quella sofferenza non incontra la gioia e la luce del Vangelo! Perché “camminare insieme” non è un dibattere insieme, ma aderire alla chiamata, cioè alla vocazione missionaria della Chiesa. La missione però non è un evento dimostrativo per poi accontentarci di rintanarci nelle trincee di sempre. È costitutiva dell’essere discepoli di Gesù. Capire le domande che ci vengono incessantemente dal mondo ci aiuta a vivere la compassione di Gesù, che è partecipazione interiore, condivisione. La pandemia (e con la pandemia della guerra) ci ha investito di tanta sofferenza: la scoperta della vulnerabilità e finitudine umana, le domande sull’Oltre da noi hanno incontrato quella che viene chiamata la “depressione escatologica”, l’incapacità del mondo di pensare e di parlare del futuro. Dobbiamo sì camminare insieme, ma guardando con lo sguardo di Gesù alle stanchezze e fragilità. Saper guardare e interpretare le doglie della creazione, che sono non solo la pandemia, ma anche la guerra, la rovina dell’ambiente, il degradare delle relazioni interpersonali e sociali. Non per lamentarci ma per cogliere quanto c’è comunque di generativo nelle sofferenze dell’oggi.

La passività delegante dei laici è comunque figlia di un’educazione religiosa lacunosa da parte del clero in tema di sinodalità. E spesso i preti hanno interpretato la sinodalità come una cessione di loro prerogative. Viene da pensare che la crisi della Chiesa, più che da imputare alla “secolarizzazione montante” abbia un’origine endemica.

Sono molto d’accordo sulla necessità di non continuare ad agitare la secolarizzazione come causa di tutti i nostri mali. Non è un giorno che viviamo ormai in un ambiente secolarizzato; il tema è semmai quello di saper accogliere le domande che oggi ci pone l’uomo secolarizzato, l’uomo “psicologizzato”, l’uomo che ha subito profonde e rapide mutazioni antropologiche. Molti di noi continuano a coltivare qualche nostalgia della “cristianità”, anche perché sono cresciuti e formati – religiosamente e civilmente – nell’idea di cristianità. Così rischiamo sempre di tornare a una logica di controllo, di numeri, di presenze, di rapporti di forza. Benedetto XVI parlava profeticamente di una “minoranza creativa” e Papa Francesco sviluppa ulteriormente parlando con tutti, facendoci capire che tutti ci appartengono. Sicuramente parte della Chiesa fa fatica a seguire questa prospettiva, perché resiste un’autocoscienza ideologizzata ed esclusiva. Basti pensare all’autocoscienza di una comunità parrocchiale, che spesso appare confusa, fragilizzata, se non – per usare un termine oggi un po’ abusato – autoreferenziale. Per questo penso che il Sinodo sia una straordinaria opportunità affinché la Chiesa recuperi una forte passione, come Papa Francesco, a parlare a tutti. In realtà non si tratta di innovare radicalmente lo stile ecclesiale, ma semplicemente mettere in pratica e declinare le intuizioni che sessant’anni fa già propose il Concilio Vaticano II . Malgrado le turbolenze post conciliari da un lato e le chiusure preconcette di quegli anni, oggi possiamo trarre efficacemente dai testi dei padri conciliari il giusto percorso da camminare insieme.

Rimaniamo sul tema dell’ascolto che lei ha giustamente posto come questione centrale del camminare insieme. Le domande da ascoltare sono tuttavia molto diverse dal passato. Dai tempi del Concilio a oggi è intervenuto un cambiamento epocale, che non è solo culturale, non è solo la globalizzazione, la digitalizzazione o la psicologizzazione delle relazioni. Ma è il cambiamento antropologico. L’essere umano non si sottrae all’evoluzione. L’uomo e la donna di oggi sono molto diversi da quelli su cui abbiamo costruito buona parte del pensiero teologico. Ontologicamente, se si può dire, diversi.

Questa è una questione importantissima che dobbiamo urgentemente affrontare. Senza rimpianti per il passato e senza fughe in avanti. Dobbiamo allora con coraggio comprendere l’antropologia, i cambiamenti già intervenuti e quelli che una rapidità vanno prospettandosi. E poi, con altrettanto coraggio, porci la domanda sul perché la bellezza umana dell’essere cristiani non attrae e quella sul “che fare?”. Tanti si sentono giudicati e non amati, così non facciamo né l’uno né l’altro. L’interferenza di questi cambiamenti con la sfera della morale fin qui proposta è evidente. Si pensi per esempio a come le scoperte delle neuroscienze incidono sulla nostra tradizionale idea di volere, e di libero arbitrio. O pensate alle questioni riguardanti i generi e la loro fluidità. Temi sui quali fatichiamo perché ci troviamo innanzi non più un’alterità di pensiero, una contrapposizione, ma un comune sentire, e una conseguente pratica. È saltata completamente l’idea del limite, l’idea che non ti evolvi se non moltiplicando le esperienze, sperimentando tutto e cambiando a piacimento le interpretazioni del reale. Lo stesso vale per le modifiche antropologiche derivate all’uomo digitale. Ma non possiamo certo limitarci a una sfilza di “no”. Dobbiamo piuttosto impegnarci a costruire il profilo attuale del cristiano, cioè dell’uomo evangelico, che è quello di sempre ma che deve parlare all’uomo di oggi. E poi non dimentichiamo che Dio è sempre più intimo a noi stessi. E non solo ci conosce ma ci insegna a conoscerci. Meglio di così!

Il nostro sistema di pensiero, filosofico e teologico, difetta spesso di una certa “fissità” del concetto di uomo. E di donna. Che invece sono esseri sempre dinamici, in continua evoluzione.

Assolutamente sì. Non c’è dubbio. Pensate per esempio a quanta porzione delle nostre capacità intellettive – a cominciare dalla memoria – sono state già trasferite nei devices elettronici, che ormai sono delle protesi dell’umano. È certo che anche questo cambia, e cambierà profondamente l’essere umano per come lo conosciamo. Il tema, sicuramente non facile, è di chiederci cosa può ancora oggi suggerire l’antropologia cristiana al mutato e mutante uomo di oggi. Per esempio: prevale oggi un concetto di benessere che alla resa dei conti non sembra fornire una felicità duratura, piuttosto un effetto narcotizzante. E lo stesso può dirsi per la costante sospinta all’esaltazione dell’“io”, che è funzionale ai consumi e non alla buona vita. O alla medicalizzazione costante che è esorcizzazione della fragilità dell’umano. Il cristiano è un uomo felice. Papa Francesco ce lo ricorda con insistenza, proprio perché è il primo modo di parlare del Vangelo. Ed è un uomo comunitario, fa parte di una famiglia e non un’isola o una monade che sperimenta tutto e non resta con nessuno.

In effetti, come osservava il cardinale Martini, abbiamo medicalizzato i due momenti più importanti della vita, inizio e fine. Si nasce e si muore in ospedale.

Sicuramente c’è una rimozione della vulnerabilità. Questo potrebbe voler dire che per l’uomo di oggi la vita bella è così com’è, hic et nunc: è questa, punto e basta, a volte con amaro fatalismo, a volte con arroganza prometeica e un po’ incosciente. Il cristiano, differentemente, vede e si rende conto della sofferenza che agita tutta l’esperienza umana, dall’inizio alla fine, la sua e quella degli altri e la interpreta, la elabora in compassione e fraternità. Il cristiano è colui che, accogliendola, trasforma quella realtà, quella sofferenza, in una richiesta. Papa Benedetto aveva dato un nome alle conseguenze di questo compiacimento dell’esistente: desertificazione spirituale. Ai tempi del Concilio si era espressa una convinzione, che era anche una speranza, che l’uomo si fosse finalmente reso consapevole dei propri limiti, che rifiutava la sopraffazione, l’odio, la guerra, e quindi preparava a un futuro migliore. Pensate al discorso di Giovanni XXIII sui profeti di sventura dell’11 ottobre 1962 all’apertura del Concilio, in cui li tacciava di non comprendere l’anelito irrevocabile di pace che saliva dagli uomini. Oggi dopo sessant’anni ci ritroviamo di nuovo tutti molto sofferenti, circondati da dinamiche che Papa Francesco non esita a chiamare da “terza guerra mondiale”; stiamo sperimentando di nuovo i veleni della violenza, della sopraffazione, dell’odio. Anche tra fratelli. Anche nella Chiesa. Prevalgono disillusione e disincanto. Il mondo digitalizzato e individualizzato alimentano le polarizzazioni. Manca invece l’unica risposta possibile: la compassione, cioè una lettura esistenziale ed esperienziale che aiuti, ci aiuti a ritrovarci.

Il cambio al vertice della Cei è stato anche un’occasione di verifica dello stato di salute della Chiesa italiana.

Devo dirvi che sono contento che questo passaggio tra il cardinale Bassetti e me coincida con il cammino sinodale. In qualche modo la verifica che richiamate è il Sinodo. Perché è un guardarsi, un capirsi non come un circolo chiuso ma come popolo. Che vuol dire essere cristiano oggi? Cosa mi chiede la Chiesa di essere? Non sono domande a cui possiamo rispondere in privato, garantiti da un facile spiritualismo alla moda. Perché ha ragione Papa Francesco: i due pericoli sempre incombenti sono gnosticismo e pelagianesimo, che relegano la religione nella dimensione individuale. Il cammino insieme invece può creare molta autocoscienza delle difficoltà, degli errori, dei limiti, aiutarci a capire che sono delle opportunità, delle potenzialità per la comunicazione del Vangelo. Ecco, per questo dobbiamo individuare quali sono oggi le vere priorità della Chiesa italiana, per non correre dietro a falsi problemi o a temi che oscillano sul confine dell’autoreferenzialità. Il documento di sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo va preso come un punto di partenza, che richiede ancora molto lavoro nel senso della specificazione, di comporre la pluralità delle idee per superare quel disincanto che dicevamo prima. Non basta solo esortare alla conversione ma cambiare camminando.

Ancora sulla Chiesa italiana: alcuni dati statistici, circa i matrimoni civili o la frequenza sacramentaria, sembrerebbero dire che si allarga anche in campo ecclesiale una forbice tra Nord e Sud.

Mah, la forbice c’è sempre stata, e la forza della secolarizzazione della società italiana mi sembra pervasiva in ogni dove, anche se le forme in cui si manifesta sono poi abbastanza diverse nelle diverse regioni del Paese. Però, lasciatemi dire, se è vera l’immagine della desertificazione spirituale, ci deve essere anche l’acqua. Il deserto in quanto tale esprime la sete, il bisogno – e la ricerca – dell’acqua. Se c’è il deserto significa anche che c’è una nuova ricerca di acqua. Dobbiamo guardare alla sete, non lamentarci del deserto. Soddisfare questa sete significa spiegare, e ancor più mostrare, com’è vivere da cristiani oggi. Perché ne vale la pena, e dona più soddisfazioni del protagonismo digitalizzato imperante o dell’essere meri spettatori di un mondo nel quale è sempre più difficile relazionarsi. C’è un’agiografia francescana che racconta della prima predicazione di san Francesco nella mia diocesi, esattamente ottocento anni fa, e dice come san Francesco non sembrava che predicasse perché in realtà conversava in un dialogo aperto coi bolognesi. Questo è il modello della nostra presenza nel mondo; esserci, parlare al cuore, tessere relazioni e fare sentire la presenza di Cristo.

Eppure la Chiesa italiana, per dirla con Giuseppe De Rita, ha un problema di “postura”. Come anche voi scrivete nel documento di sintesi del percorso sinodale, di fronte ai tanti temi su cui è chiamata a dire la sua – povertà, cultura dello scarto, pace, giustizia sociale, lavoro, giovani ed educazione – appare come afona, balbettante. Come si fa allora a conversare?

Abbiamo fatto la nostra scelta di conversare e quindi innanzitutto abbiamo deciso di ascoltare. Abbiamo impegnato questi due anni all’ascolto. Gli esiti certamente sono controversi, probabilmente perché noi preti siamo più abituati a rispondere che a domandare, più propensi a definire, circoscrivere, dare certezze, spiegare chi siamo, a parlare sopra che ascoltare. Il tema invece è quello di saper raccogliere quanto la realtà intorno a noi ci propone, come dice Papa Francesco “farci schiaffeggiare dalla realtà”. Mi viene in mente, per fare un esempio tra i tanti, il giudizio che don Giussani dette di Pierpaolo Pasolini. Due mondi di provenienza che più lontani non si può immaginare. Eppure Giussani non ebbe esitazioni ad accogliere e ad appassionarsi del pensiero di Pasolini, fino ad attribuirgli il ruolo di maestro. Occorre avere sempre un atteggiamento accogliente e non giudicante, mentre veniamo spesso identificati come aprioristicamente giudicanti, anche quando magari non lo siamo. Ma perché veniamo considerati giudicanti? Intanto perché, diciamolo, troppo spesso abbiamo un’ossessione a giudicare, perché sentiamo che se non lo facessimo non adempiremmo al nostro ruolo. C’è dentro di noi uno zelo che ci porta a difendere la trincea della verità. Pensiamo che questo sia il nostro essenziale compito e che questo significhi seguire il Vangelo. Ma non è così. Perché certo il Vangelo è la verità ma è ben diverso dall’atteggiamento farisaico, il quale comunica la Legge, mentre a noi il Vangelo chiede di comunicare l’Amore. Dirti la legge è condannarti. Non possiamo usare il Vangelo come una clava. La misericordia, l’ascolto non giudicante, l’attenzione pastorale non sono cedevolezze. Poi certo sono consapevole che c’è anche il rischio di inseguire le filosofie del mondo. Ma con queste il discrimine è molto netto: loro esaltano l’Io, noi ragioniamo solo in termini di Noi. La Chiesa non corre dietro all’Io.

Il Noi si sostanzia innanzitutto nell’impegno politico. La Chiesa italiana nei primi quarant’anni della storia repubblicana ha fatto politica. Politica con la P maiuscola ovviamente, non la politique politicienne. E l’efficacia è stata notevole, soprattutto per la funzione di collante tra spinte diverse, di mediazione culturale. Poi con la fine della prima Repubblica e la scomparsa del partito dei cattolici si disse che il ruolo dei cattolici sarebbe stato quello, in entrambi i poli, di influenzare la politica sui valori cristiani. Oggi sembrerebbe essere accaduto il contrario: è la politica che influenza i cattolici. La divisione politica precede ogni altra distinzione tra cattolici.

Intanto c’è da dire che la polarizzazione è oggi la cifra di tutta la società. E i cristiani non sono estranei alla società. La polarizzazione regna sovrana su tutti i temi, grandi e piccoli. Credo che questa sia la risposta istintiva e semplificante alla complessità del mondo in cui viviamo. Aderisci, ma non pensi. Schierandoti non hai bisogno di farti molte domande. Noi dobbiamo invece affrontare la complessità senza timore, porci domande, soprattutto quelle che riguardano il “chi” , cioè ponendo al centro la persona. Questa è la via della semplicità e non della semplificazione. L’altra cosa, che giustamente rilevate, è guai ad avvelenare con la logica politica le relazioni ecclesiali! Non è un fenomeno solo italiano; penso per esempio alla forte polarizzazione politica rappresentata nella Chiesa americana. Ma laddove la politica ha usato categorie pseudo-teologiche o spirituali per inquinare la vita ecclesiale alla fine hanno perso tutti. Dobbiamo fare molta attenzione su questo aspetto. E non solo per le strumentalizzazioni esterne quanto per le divisioni interne. Guai a cadere nelle trappole a esempio delle finte contrapposizioni tra sociale e spirituale, o alle divisioni, spesso artificiose, sui temi etici. Sui temi etici non possiamo limitarci a ripetere le lezioncine del passato, ma dobbiamo trovare nuove parole per nuove domande. Con molta franchezza: se sui temi etici il mondo va da un’altra parte vuol dire certo che non dobbiamo omologarci o dire quello che il mondo vuole sentirsi dire ma sapere dire le verità di sempre nella cultura o nelle categorie di oggi. Questa è la sfida ed è tutt’altro che cedevolezza ma responsabilità, altrimenti ripetiamo una verità diventata dura da accettare. Pensiamo al discorso sulla famiglia: non abbiamo ancora saputo fare qualcosa di meglio di quanto proposto dalla secolarizzazione. Paolo VI e Mazzolari lo dicevano già ai loro tempi: tanti sono lontani e il problema non sono loro, siamo noi! C’è in loro una domanda, implicita, di una Chiesa più evangelica, più madre e per questo esigente e coinvolgente, che non fa la matrigna e dice: «Te lo avevo detto io».

Su questo aspetto il debito di ascolto maggiore è forse nei confronti delle donne. Le donne che sono sempre state il pilastro fondante della Chiesa. E oggi invece registriamo che la categoria sociale che più tende ad allontanarsi sono le giovani donne. Anzi, registriamo frequentemente che le giovani donne sono proprio “arrabbiate” con la Chiesa.

Sì, lo confermo. E posso aggiungere che questo nasce essenzialmente dal non sentirsi ascoltate. E qui il tema da approfondire è come si ascolta. Noi preti, troppo spesso, coltivando tanti rapporti, ascoltiamo solo con le orecchie. Ricordo, quando ero parroco a Santa Maria in Trastevere, una volta una giovane donna trasteverina mi apostrofò: “A’ don Matte’, ma me stai a senti’?”. “Ma io te sento!”. “No, tu stai a pensa’ a li fatti tua”. Ascoltare non significa fare rilevazioni sociologiche a campione, ma esercitare l’empatia che è generata dalla vera passione per l’altro.

Rilevava di recente il sociologo Mauro Magatti che, a dispetto di chi celebra ogni giorno la fine della religione, le religioni sono quanto mai al centro delle vicende del mondo, soprattutto in senso negativo, nelle contrapposizioni. Il fondamentalismo islamico continua a ispirare violenza in molti paesi, risorge in Europa un sentimento antisemita, in America, come dicevamo, la religione è tra i principali strumenti di scontro politico, o perché strumentalizzata o perché ostracizzata, e anche qui da noi il sovranismo agita impropriamente simboli e temi religiosi. La religione dunque sembra avere un suo spazio ma solo come strumento di divisione.

Beh, è quello che dicevamo anche prima. La polarizzazione come risposta (falsa) alla complessità. E sicuramente la polarizzazione usa le religioni perché ancora oggi possono smuovere grandi passioni. Ma la risposta ce la dà ancora una volta Papa Francesco con Fratelli tutti che non è solo una profonda e innovatrice esplicitazione teologica della fratellanza evangelica, ma è anche il manifesto di un nuovo umanesimo civile. Direi anche l’unico nell’attuale contesto mondiale. Dobbiamo essere capaci di diffondere una parola di “fratellanza necessaria” all’uomo di oggi, una parola che si dimostri migliore e più attraente dell’individualismo consumistico. Una parola che non teme di proporre la porta stretta anziché la porta larga. Perché la porta stretta? Perché quella larga conduce a una felicità effimera e ingannevole. Non dà soddisfazione definitiva, e infatti l’infelicità è oggi quanto mai diffusa. La porta stretta è quella del “noi”, è quella della consapevolezza -per citare ancora Papa Francesco – che, credenti o meno, “non ci si salva da soli”. Dobbiamo far crescere ovunque la comunione. Comunione significa lo stare insieme, l’amicizia. Dobbiamo dire con più forza che la Chiesa è una famiglia. Quelli accanto a noi a messa non sono dei soci, sono dei fratelli, parenti di una stessa famiglia. E non basta dirlo, bisogna viverlo. Il senso dei ministeri a cui siamo chiamati, laici e preti, lo trovi solo nella comunione. I nuovi ministeri istituiti, aperti anche alle donne, saranno un passaggio decisivo nella costruzione di un’architettura di comunione. Ma attenzione che siano risposte “sostenibili”, cioè dalla valenza spirituale e non solo strutturale, funzionale. Pensando all’interesse suscitato da queste nuove ministerialità, vorrei tornare su quanto dicevo all’inizio: la Chiesa italiana è viva, e ha voglia di vivere. Perché è dotata di spiritualità. E perché è immersa nel sociale.

In questa nostra chiacchierata ha citato spesso il termine conversazione spirituale. Cosa intende precisamente?

Direi semplicemente che è un parlare cominciando da se stessi (non dall’altro) presentandosi non in chiave materiale, funzionale, ma appunto spirituale. Cioè di come la mia vita è improntata da un senso. E questo vale tanto per i laici che per i preti. Conversare non è un mestiere, è un mettersi in gioco.

Un’ultima domanda su una questione che ci sta a cuore, perché viene da un’esperienza che anni fa abbiamo fatto insieme: siamo stati insegnanti di religione nei licei, tutti e tre.

Ah già, e ho un ricordo molto bello del tempo in cui ho insegnato religione. Era ancora obbligatorio ed era una sfida ogni volta, ma appassionante.

Malgrado le chiese sempre più vuote, e le pratiche sacramentali in disarmo, l’ora di religione continua a essere scelta da una grande maggioranza di studenti. Per un solo giovane che frequenta una parrocchia ci sono cinquanta giovani che fanno religione a scuola. È la vera “Chiesa in uscita”. Eppure, le diciamo con franchezza, abbiamo la percezione che la sensibilità dei vescovi italiani su questo fronte sia un po’ bassa.

Sì, è un tema che merita una riflessione seria e approfondita. Perché l’ora di religione può essere molto importante per il futuro della Chiesa in Italia. C’è bisogno dell’insegnamento della religione per capire il mondo dove siamo, le nostre radici. Ci serve un’alleanza con i laici – anche atei – che ben comprendono l’importanza della conoscenza religiosa in un sistema culturale, come quello italiano, profondamente permeato dal fatto religioso. Farlo penso sia la migliore difesa dagli estremismi. Continuo spesso a dire: come si può capire veramente Manzoni, o Dante, o la storia dell’arte, o buona parte della filosofia, senza avere una formazione culturale (non catechetica) religiosa di base? In questo discorso aggiungerei un ulteriore argomento: a scuola si fanno due ore a settimana di educazione fisica, ma non c’è neanche un’ora di educazione spirituale. Una contraddizione della più elementare antropologia. Sarebbe bello se i giovani potessero imparare a conoscere se stessi come soggetti spirituali.

 

di ANDREA MONDA
e ROBERTO CETERA

03 settembre 2022 – L’Osservatore romano

“Scegli la vita”. Accompagnare la vocazione tra vizi e virtù

“Sussidio in uscita ad ottobre”. Scegli la vita. È la scoperta della propria vocazione. «La tua vocazione – infatti – ti orienta a tirare fuori il meglio di te» (FRANCESCO, Christus vivit, 257). Scegliete, allora! «Datevi al meglio della vita!» (ChV 143).

N.B. Il sussidio sarà disponibile da ottobre, puoi intanto ordinarlo inviando una mail a: vocazioni@chiesacattolica.it

Scegli la vita. Forse il titolo del Sussidio di quest’anno può sembrare ad effetto, a qualcuno potrà sembrare scontato o ancora uno slogan che vuole accattivare il potenziale lettore. Niente di tutto questo, la questione è seria e molto concreta.

Scegliere la vita è una cosa che facciamo o non facciamo molto più spesso di quanto possiamo immaginare. Non si tratta infatti di scegliere ciò che ci piace, o ciò che ci richiama il gusto della vita, ma di scegliere le cose che ci fanno bene, che sostengono e alimentano la vita che è in noi, evitando ciò che ci danneggia, che intristisce o svilisce il nostro cuore. Fin qui possiamo ancora essere tutti d’accordo. La questione si complica quando riflettiamo su cosa significhi “vita”, su quale criterio usare per riconoscere ciò che ci fa bene e ciò che ci fa male. Ponendo la questione in altri termini: come discernere? Forse abbiamo dentro ancora un’altra domanda inespressa: Perché discernere? Magari siamo già soddisfatti della vita che viviamo, potremmo anche essere impegnati attivamente in iniziative belle e positive, che dicono la nostra disponibilità ad aiutare il prossimo, che esprimono e attuano valori e ideali.

Il punto però è un altro, anche noi infatti siamo figli di questa epoca e ne siamo segnati, nel bene e nel male. Nel nostro tempo ad esempio, una questione che viene messa in ombra perché magari ritenuta obsoleta, è proprio quella del discernimento, della lotta spirituale: contrastare i nostri vizi, dominare le passioni, rafforzare virtù quali l’umiltà o la castità, comprendere la cosa giusta da fare e avere il coraggio di farla… o di non farla se ciò è sbagliato. Diciamocelo francamente, molte di queste cose suscitano perplessità anche in molti cristiani che pure vivono una fede solida e genuina. Il percorso che proponiamo in questo sussidio vuole riscoprire non solo il valore e l’importanza di queste realtà, ma ribadirne l’attualità!

Si, chi vuole seguirci scoprirà che basta ridefinire il linguaggio, ritrovare il significato di un termine, riflettere su tante piccole o grandi cose che facciamo quotidianamente, per renderci conto che ci siamo dentro, chi siamo dipende anche da come scegliamo di affrontare quel nostro limite che ci porta ad essere deboli in quella situazione, a non saperci gestire in un’altra, a mancare il bersaglio in un’altra ancora. Viceversa scopriremo la bellezza e il gusto di rafforzare le nostre virtù, impareremo che il bene fa bene e da gioia, sapremo dire con parole nuove cose che appartengono ad una saggezza antica, ma solida e collaudata.

Soprattutto però, faremo questo nell’ottica di un cammino che porta il passo della nostra vocazione. Le nostre virtù e i nostri vizi infatti, ci dicono molto di noi, ci aiutano a conoscerci nella concretezza, ci danno le coordinate per definire dove possiamo andare, dove vogliamo andare, dove ci sentiamo chiamati ad andare!

Non temiamo allora di attraversare la foresta che può essere il nostro cuore, imparando a conoscere di quali piante possiamo nutrirci e quali sono velenose. Sulla nostra pelle abbiamo già avuto il piacere o il dispiacere di incontrarne alcune. Se abbiamo provato invidia, ci saremo accorti da soli di quanto ci faccia male, ma forse non abbiamo considerato l’antidoto della carità. Forse abbiamo fatto esperienza che la mitezza ci ha permesso di risolvere felicemente una questione che sarebbe invece diventata ingestibile se ci fossimo lasciati prendere dall’ira. Forse considerando queste cose alla luce della preghiera, nell’ascolto della Parola, nel confronto con i nostri fratelli e le nostre sorelle, ci apparirà più chiaro il disegno di Dio per noi, sentiremo più vicino il suo amore, impareremo a camminare con gioia ed umiltà. Accettare che nel nostro cuore convivono vizi e virtù, e che è necessario lottare per imparare a scegliere queste ultime, per essere chi siamo veramente, per poter sentire che in noi abita la vita, è il primo passo per la vittoria.

Chiesa e Islam in Italia. Incontro e dialogo

È uscito il libro edito dal Centro editoriale dehoniano, tanto atteso dalla Chiesa italiana, sinora priva di indicazioni chiare su come rapportarsi con l’Islam per incontrarsi e, soprattutto, per dialogare con serenità, nella concretezza e senza sincretismi.
Il testo è stato curato da Antonio Angelucci (ecclesiasticista e comparatista delle religioni), Maria Bombardieri (sociologa), Antonio Cuciniello e Davide Tacchini (islamologi e arabisti). È frutto del lavoro di anni dell’Ufficio Ecumenismo e Dialogo interreligioso (UNEDI) della Conferenza Episcopale Italiana che, attraverso il “Gruppo di interesse sull’Islam”,– composto da teologi, giuristi, sociologi, islamologi e arabisti delle maggiori università pontificie e italiane – parte effettiva di tale Ufficio, ha, dapprima, elaborato alcune schede on line ad uso pastorale e, in un secondo momento, rielaborandole, arricchendole ed aggiornandole, ha definito “su carta” alcune linee che trovano una certa ufficialità grazie anche alla prefazione del Presidente della CEI, S.E.R. Card. Gualtiero Bassetti e alla postfazione del Presidente dell’UNEDI, Mons. Ambrogio Spreafico e del suo Direttore (fino a dicembre 2018), Don Cristiano Bettega.
Nel libro si affrontano temi caldi e si danno spunti che saranno utili a diocesi e parrocchie, associazioni di volontariato, ecc. La prima parte fornisce i parametri di base necessari per la comprensione dell’Islam in Italia (contributi di: Antonio Angelucci, sulle organizzazioni musulmane italiane; Davide Tacchini, sulla figura dell’imam; Alessandro Ferrari e Vittorio Ianari, sulla visita alle moschee). La seconda dà alcune indicazioni per convivere in fraternità tra cristiani e musulmani (contributi di Antonio Cuciniello, su scuola e musulmani; Augusto Negri, sui musulmani in oratorio; Ignazio De Francesco, sui musulmani in carcere e in ospedale). La terza parte aiuta ad interpretare l’Islam nel quotidiano (contributi di Antonio Cuciniello e Massimo Rizzi, sulle regole alimentari e le feste islamiche; Maria Bombardieri, sulla questione delle immagini nell’Islam; Stefano Paternoster, sull’elemosina e sull’attenzione ai poveri nell’Islam). La quarta e ultima parte, infine, non dimentica il tema oggi attualissimo e scottante dell’accoglienza e della solidarietà (contributo di Massimo Ambrosini).
Il lavoro viene, ora, rilanciato dal nuovo Direttore dell’UNEDI, Don Giuliano Savina che, forte dell’esperienza di dialogo interreligioso promosso al Refettorio Ambrosiano di Milano, da lui fondato, ripropone col “Gruppo di interesse sull’Islam” il percorso profetico di incontro e dialogo interreligioso fortemente chiesto da Papa Francesco e dai suoi predecessori.
L’obiettivo è continuare a mettere in dialogo Chiesa e Islam in Italia.

Seminario Internazionale: “Conflitti. Religioni e (non)violenza”

La Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’UPS partecipa ormai da quattro anni al Religion Today Filmfestival, il primo festival itinerante del cinema delle religioni giunto alla XV edizione. Scopo dell’iniziativa, fin dalla sua nascita nel 1997, è la promozione di una cultura del dialogo e della pace.

Il tema Conflitti. Religioni e (non)violenza si mostra oggi con tutta la sua dirompente attualità, ed interpella ad una riflessione profonda sulle vie praticabili per costruire il presente e il futuro delle nostre società.

Il Seminario internazionale “Conflitti. Religioni e (non)violenza” si svolgerà a Roma lunedì 22 ottobre 2012 presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’università Pontificia Salesiana.

Programma

8.45 – Accoglienza

9.00 – Saluti e introduzione

Carlo Nanni: [Rettore Magnifico dell’Università Pontificia Salesiana].

Katia Malatesta: [Direttrice del Religion Today Film Festival].

9.30 – 11.00 – Panel: Conflitti. Religioni e (non) violenza

Modera Katia Malatesta

Intervengono (prima parte)

Farzam Amin Salehi, Iran

The Relation between World cinema and Religion after World-War 2

[Poeta, scrittore, traduttore, giornalista, critico d’arte, sceneggiatore e docente. Nato in una piccola città del Nord dell’Iran, da più di 25 anni insegna varie discipline – tra cui Sceneggiatura e Filosofia e Storia del Cinema – agli studenti universitari e attivisti iraniani. Ha pubblicato molti saggi e articoli su cinema, storia, politica. Il suo intervento farà riferimento a film sia europei che iraniani]

Kjartan Leer Salvesen, Norvegia

Religion, conflict and film. The promise and problems of film in interreligious dialogue.

[Vicario e critico cinematografico. Professore al Volda University College in Norvegia, è responsabile di uno studio chiamato “Film, cultura popolare e visioni dal mondo” e ha pubblicato un libro sulle figure cristologiche nel cinema. È stato direttore del Filmfestival interreligioso “La faccia dell’altro” di Oslo (Norvegia) dal 2009 al 2011]

11 – 11.30 – Intervallo

11.30 – 13.00

Intervengono (seconda parte)

Gilli Mendel, Israele

Israeli Cinema : Short reflections on conflict, religion and violence.

[Direttrice del dipartimento Film e Media Education al Jerusalem Film Center, sede della Jerusalem Cinematheque e dell’Archivio cinematografico d’Israele. Tiene conferenze e sviluppa seminari e programmi usando il cinema per esplorare temi sociali, politici, culturali e storici. È stata consulente artistica dell’Israel Film Fund ed è membro della European Film Academy]

Carlo Tagliabue, Italia

Alla ricerca di una pace possibile: il cinema contemporaneo tra rappresentazione dei conflitti del reale e profezia.

[Regista in  Rai, docente universitario, giornalista e critico cinematografico. Autore di numerosi saggi e volumi.
Direttore Responsabile delle riviste “Ragazzo selvaggio” e “Scrivere di cinema”. Dal 1993 è Presidente del
Centro Studi Cinematografici]

13.00 – Pranzo

Pomeriggio

15.00 – Tavola rotonda

Modera Peter Gonsalves [Docente di Storia della Comunicazione Sociale – FSC]

Intervengono:

Augustine Loorthusamy, Malesia

[Presidente Generale di SIGNIS – World Catholic Association for Communication]

Dialogue as a way towards the solution of conflicts and an education to peaceful relations among religions

e Farzam Amin Salehi, Kjartan Leer Salvesen, Gilli Mendel, Carlo Tagliabue.

16.45 – relazione

Norman Peña [Dottorando FSC]

In the name of God – narratives of violence and values of the 9/11 tragedy

Dialogo con i relatori del Convegno

ore 17.45 – 19.00 – Proiezione di cortometraggi

Introduce: prof. Enrico Cassanelli [Docente di Televisione – FSC]. 

ADMISSIONS, di Harry Kakatsakis, USA, 2011, 21′ (ebraismo/islam, conflitto e riconciliazione con riferimento alla questione israelo-palestinese)

THE PILLARS, di Moustafa Zakaria, EAU, 2012, 16′ (islam)                                  

 JAGJEET, di Kavanjit Singh, India, 2011, 14′ (sikhismo)

THE GIFT, di Evgenij Isachenko, Bielorussia, 2011, 12′ (cristianesimo ortodosso)

 ore 19.15 – Conclusione e ringraziamenti

Prof. Mauro Mantovani [Decano FSC].

La nuova evangelizzazione parte del Vaticano II

Monsignor Fisichella illustra lo spirito dell’Anno della Fede e il suo legame con il 50° anniversario dell’evento conciliare

di Luca Marcolivio

 

Mancano due giorni alla solenne celebrazione eucaristica che aprirà l’Anno della Fede. Si tratta, come ha sottolineato il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, di una “celebrazione non ordinaria” che, niente affatto causalmente, cade nel giorno del 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II.

“La scadenza conciliare è un’opportunità per ritornare all’evento del concilio che ha segnato in modo determinante la vita della Chiesa del XX secolo e per verificare l’incidenza dei suoi insegnamenti nel corso di questi decenni e dei prossimi anni che segneranno l’impegno della Chiesa per la nuova evangelizzazione”, ha commentato monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, nel corso del briefing riservato ai giornalisti accreditati alla Sala Stampa della Santa Sede.

Difatti lo stesso Vaticano II, fu un “momento privilegiato di nuova evangelizzazione”, ha aggiunto il presule. L’intero svolgimento del Concilio, del resto – dal discorso inaugurale del beato Giovanni XXIII, ai 16 documenti, fino al magistero di Paolo VI – esprimeva l’esigenza “di parlare di nuovo all’uomo di oggi di Dio e dell’importanza della fede per la sua vita”.

L’importanza dell’eredità dei documenti conciliari è stata ribadita anche da papa Benedetto XVI nel motu proprio Porta Fidei, che, istituendo l’Anno della Fede, ricorda la necessità che tali testi “vengano letti in maniera appropriata, che vengano conosciuti e assimilati come testi qualificati e normativi del Magistero, all’interno della Tradizione della Chiesa”.

L’Anno della Fede, dunque, rappresenta una “occasione propizia” sia per celebrare l’anniversario del Concilio, sia per “per ravvivare la fede dei credenti e animarli di uno spirito di evangelizzazione sempre più convinto”, ha sottolineato monsignor Fisichella.

Si tratterà anche di “un Anno dedicato allo studio e all’approfondimento dell’insegnamento conciliare perché abbia ad essere di sostegno nella formazione dei credenti – in particolare con la catechesi – nella vita sacramentale della comunità cristiana e nella testimonianza di vita”, ha aggiunto il presule.

La testimonianza è fondamentale affinché “la credibilità della fede non sia offuscata da nulla, ma ritrovi la sua freschezza e la sua forza evangelizzatrice con un linguaggio sempre più coerente ed efficace”.

Al briefing è intervenuto anche il segretario del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, monsignor José Octavio Ruiz Arenas, che ha ricordato che l’Anno della Fede sarà accolto da celebrazioni speciali in tutte le diocesi e parrocchie del mondo e che finora la risposta dei vescovi è stata molto positiva.

A margine del briefing, monsignor Fisichella ha poi risposto ad alcune domande poste da Zenit, in merito alla Nuova Evangelizzazione, all’Anno della Fede e al 50° anniversario del Concilio.

Come sarà possibile armonizzare la realtà della Nuova Evangelizzazione, fatta di nuovi movimenti e carismi, con le strutture “tradizionali” dell’evangelizzazione?

Mons. Fisichella: Io credo che abbiamo bisogno di vivere in maniera straordinaria, quella che è la vita ordinaria della Chiesa. L’evangelizzazione è la missione della Chiesa, che è stata voluta da Gesù per portare il suo Vangelo. In questa prospettiva, la Nuova Evangelizzazione non è qualcosa di diverso rispetto all’evangelizzazione del passato. Certamente ci sono talora delle sovrastrutture che possono soffocare l’azione evangelizzatrice della Chiesa. Come ho sottolineato durante i lavori sinodali, ritengo che abbiamo burocratizzato troppo la vita ecclesiale e spesso anche la vita sacramentale. Sotto questo punto di vista, abbiamo bisogno di tornare ad essere delle comunità che annunciano l’incontro vivo con il Signore, capaci di estendere la gioia di questo incontro. Se rimaniamo chiusi in noi stessi, autosufficienti rispetto a ciò che siamo, la Nuova Evangelizzazione non può partire, rischia di soffocare.

Lo “tsunami della secolarizzazione” di cui si è parlato al Sinodo, è un fatto conseguente o antecedente al Concilio?

Mons. Fisichella: Cronologicamente viene prima del Concilio. Di secolarizzazione si inizia a parlare dopo la Prima Guerra Mondiale. Non possiamo dimenticare l’ambigua interpretazione di alcune espressioni che vengono fatte proprie dal movimento post-conciliare. Penso, ad esempio, a quanto diceva Dietrich Boenhoffer nelle sue lettere dal carcere, quando affermava che “bisogna vivere come se Dio non esistesse”. C’è stato un accavallamento di interpretazioni che non hanno favorito l’esatta comprensione positiva del fenomeno della secolarizzazione.

La secolarizzazione doveva essere un momento di purificazione di tanti elementi estranei all’essenza della fede. La Gaudium et Spes, a tal proposito, riconosce l’autonomia delle realtà terrene: questo è uno dei punti maggiormente positivi della secolarizzazione, fermo restando che tutto ciò deve essere riletto alla luce del Vangelo, con occhi nuovi. I Padri conciliari avevano fatto passi in avanti di grande apertura. Sociologicamente e culturalmente il ’68 segna una tappa decisiva e la Chiesa riprende consapevolezza di questa situazione al Sinodo del 1973. È stato il progetto pastorale che non è stato più condiviso, quindi ci si è divisi in tante espressioni ecclesiali differenti. Adesso però siamo in grado di comprendere ulteriormente il percorso che la Chiesa deve fare.

Potrà l’Anno della Fede rappresentare un momento di riconciliazione all’interno della Chiesa? Penso alle divisioni tra i vari carismi, ai contrasti a livello di dottrina e di potere…

Mons. Fisichella: L’Anno della Fede è un anno che il Papa non ha indetto per una categoria particolare di fedeli. Esso è indirizzato all’intera Chiesa, partendo dai vescovi per arrivare all’ultimo dei battezzati. È un anno attraverso il quale tutti quanti siamo impegnati più del solito a riflettere sull’importanza della fede, su come poterla ravvivare nella nostra testimonianza nel mondo di oggi ma siamo chiamati anche a superare tutte le difficoltà presenti. Non ho una visione così pessimista come quella che lei ha esposto: nella mia esperienza in questi due anni da presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, nei diversi incontri che abbiamo avuto con i tanti movimenti antichi, storici e anche nuovi, ho riscontrato una grande disponibilità alla collaborazione e un grande desiderio non solo di ascoltarsi ma anche di lavorare insieme.

Maria Santissima è stata la prima ad avere fede nella natura divina e salvifica di suo Figlio, Gesù Cristo. Che ruolo avrà il culto mariano durante l’Anno della Fede?

Mons. Fisichella: Maria è icona della Fede e di come deve essere il credente, ovvero colui che si abbandona fiducioso alla volontà di Dio. Come preludio all’Anno della Fede, il Santo Padre ha ricordato, durante l’Angelus di domenica scorsa, l’esigenza di recitare quotidianamente e abitualmente il rosario. Oltre a questi momenti che sono parte della nostra vita quotidiana, ci sarà un evento esplicitamente dedicato alla pietà mariana: il 13 ottobre, anniversario della conclusione delle apparizioni della Madonna a Fatima, da tutto il mondo giungeranno rappresentanti ed esperienze di pietà mariana che confermeranno ancora una volta, l’importanza della presenza di Maria nella Chiesa, come esempio e come icona della fede.

Come insegnare la religione con l’arte

Tra le tante proposte per una nuova evangelizzazione e per un insegnamento della religione che sia strettamente connesso ad un progetto culturale, ha destato grande interesse la pratica di alcuni insegnanti di utilizzare le arti visive.

Una vera e propria catechesi della bellezza che mentre fa conoscere e spiega e svela il mistero di capolavori artistici, pittorici, architettonici, scultorei, allarga gli orizzonti verso il sacro e il divino.

A questo proposito le suore Maria Luisa Mazzarello e Maria Franca Tricarico, docenti alla Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, hanno curato e pubblicato un cofanetto di cinque volumi edito da Il Capitello ed Ellenici, con il titolo “Insegnare la religione con l’arte”.

Secondo suor Mazzarello: “Comunicare la fede percorrendo la via della bellezza è certamente avvalersi più di una opportunità per incontrare e penetrare il mistero”.

L’arte – ha aggiunto – è parola silenziosa ed eloquente per incontrare Dio. L’arte, infatti, è luogo teologico, espressione della fede attraverso le formule iconografiche. L’arte è la via del concreto che apre alla comprensione del trascendente”.

Per approfondire un tema di così grande attualità e interesse ZENIT ha intervistato suor Maria Franca Tricarico.

Come è possibile insegnare religione seguendo percorsi artistici?

Nel supertecnologico XXI secolo la Chiesa non manca di richiamare l’attenzione sulla rilevanza del linguaggio dell’arte cristiana il cui scopo, oggi come nel passato, è quello di ‘demonstrare invisibilia per visibilia’  cioè ‘spiegare le cose invisibili attraverso quelle visibili’.

Dall’esperienza in aula e dialogando con gli insegnanti, risulta che il ricorso all’arte è una strada percorribile. L’arte – come aveva scritto Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti – è per sua natura una sorta di appello al Mistero. L’arte, dunque, è un linguaggio che attraverso le forme simboliche svela agli alunni, non solo a quelli della scuola superiore, ma anche a quelli della scuola dell’infanzia, le “cose di Dio”. I nostri ragazzi oggi, sono un po’ come quegli “illetterati” di cui parlava Gregorio Magno i quali vedendo comprendevano. Lo stesso vale a scuola. L’esperienza ci dice che per i ragazzi un’immagine è più eloquente del solo discorso che va comunque ricuperato, forse proprio a partire da un’opera d’arte.

In definitiva, il percorso artistico nell’insegnamento della religione significa riappropriarsi della tradizione antica, significa ri-attualizzarla; significa considerare l’arte quale “testo” che ri-dice la parola di Dio e, nel caso dell’arte contemporanea, quale “testo” che lascia intravedere il religioso e la dimensione spirituale anche attraverso la precarietà esistenziale dell’uomo.

In concreto, in aula le opere d’arte vanno proposte come testo-documento, come esegesi pratica, come esegesi figurativa della Scrittura. Operativamente, per l’analisi delle opere, si può prevedere

▪ la presentazione e l’osservazione dell’opera d’arte: si sollecitano i ragazzi a guardare con attenzione tutti gli elementi presenti nell’opera proposta e ad elencarli (descrizione preiconografica);

▪ il passaggio dalla descrizione dell’opera all’interpretazione simbolica: si sollecitano i ragazzi a scoprire che tutti gli elementi presenti nelle opere di diverse epoche hanno un preciso intento comunicativo, e a tentarne un’interpretazione; si provocano interrogativi che consentono di formulare ipotesi di significato da convalidare alla luce di varie fonti, in particolare il testo biblico come fonte privilegiata. Tutto questo per scoprire gli elementi di significato di cui il testo-arte è portatore (analisi iconografica e interpretazione iconologica).

Inoltre, si può pure prevedere la riespressione dei contenuti trasmessi dall’opera d’arte mediante la produzione dei ragazzi: è il momento di verifica delle competenze acquisite in ordine alla lettura e alla comprensione dell’opera d’arte la quale nasce sempre da un’idea biblico-teologica che si materializza in personaggi, forme, colori, volumi, disposizioni spaziali, ecc. I ragazzi sono invitati ad assumere i seguenti atteggiamenti: silenzio immaginativo, esternazione delle proprie idee, dialogo, produzione individuale e/o di gruppo. In questo modo la classe si costituisce quale “bottega d’arte” dove viene potenziata l’immaginazione e la creatività attraverso processi di reinterpretazione e di rielaborazione.

Un’importante attenzione didattica va rivolta alla scelta delle opere. Si escluderanno opere in cui prevalgono dettagli inutili e l’effetto scenografico; come pure quelle che “infantilizzano” il Mistero. Si sceglieranno invece opere che si propongono per la loro semplicità ed essenzialità, come pure opere che penetrano la Sacra Scrittura, la ri-dicono, la interpretano e l’attualizzano.

Una tale scelta deriva dalla consapevolezza che l’arte è un testo complesso non nel senso di difficile, ma nel senso che racchiude una molteplicità di elementi riconducibili a vari aspetti del dato cristiano. L’attenzione pedagogica e didattica che si richiede è allora quella di proporre agli alunni espressioni artistiche a seconda della loro età e delle loro capacità cognitive ben sapendo che ogni traccia, ogni espressione dell’arte cristiana è un testo che può essere letto, compreso e interpretato a vari livelli.

In definitiva, la via dell’arte cristiana nell’azione didattica è percorribile anche se richiede da parte dell’insegnante una particolare “attrezzatura” cognitiva e la passione per l’arte. Tutto ciò si acquista con una continua formazione e contemplazione.

Per questo, nel corso degli anni, con una mia collega, ho curato la pubblicazione dei sette testi della Collana “Insegnare Religione con l’Arte” (Elledici) il cui scopo è appunto quello di aiutare gli insegnanti nella loro formazione. Questi testi sono indirizzati anche agli studenti degli Istituti Superiori di Scienze Religiose e ai Catechisti.

zenit del 5/09/12