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La Chiesa che conversa con gli uomini del suo tempo

«La Chiesa italiana attraversa diversi e non semplici problemi ma credo anche che vanti una prerogativa importante: è una Chiesa ricca di spiritualità e di carità per i poveri. E penso che è da qui che dobbiamo ripartire». In questo esordio di una lunga chiacchierata, che in un pomeriggio di fine estate ci ha concesso il neo presidente della Conferenza episcopale italiana, c’è non solo la sintesi estrema del suo programma di lavoro ma anche i tratti principali della personalità del cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi: una decisa positività che è figlia della sua curiosità intellettuale e della speranza cristiana.

Cominciamo dal Sinodo: si può dire che la partecipazione e i risultati della fase dell’ascolto diocesano siano stati inferiori alle aspettative? In un Sinodo chiamato a discutere di sinodalità, cioè dell’essere Chiesa, spesso è prevalso tra i laici un atteggiamento ancora delegante e tra i preti una qualche diffusa diffidenza.

Sì, è vero. Ma penso anche che proprio questa fatica del cammino sinodale sia paradossalmente segno della necessità e urgenza della prassi sinodale. Perché ci si mette in cammino quando se ne avverte l’esigenza, quella di Cristo che non aspetta, chiama e invia. Questo appuntamento avviene in un momento particolare nella vita della Chiesa e del mondo, cioè nello scorcio finale (si spera) di una pandemia che ha sconvolto le nostre vite, ha cambiato le nostre abitudini, anche religiose, ha svuotato le chiese, ha inciso profondamente sul nostro sentimento religioso, sul nostro essere comunità, e financo sul nostro modo di pregare. Non scordiamoci che nelle nostre intenzioni iniziali questo cammino prevedeva anche dei compagni di viaggio esterni al nostro mondo abituale; non il solito 5 per cento ma quel 95 per cento che ci guarda ma non cammina con noi, e il tempo recente che abbiamo vissuto non c’è stato certo d’aiuto nel progetto. Dobbiamo ripartire da due domande: perché camminare e perché camminare insieme ad altri compagni di viaggio. E questo richiede una grande passione. L’immagine biblica di riferimento è Matteo, 9, 35: «Gesù percorreva tutte le città e i villaggi insegnando nelle loro sinagoghe e predicando il Vangelo del Regno, […] e vedendo le folle ne ebbe compassione perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore», e manda due a due i suoi; e Dio sa quanta stanchezza e sfinitezza c’è ora nel mondo. Anche oggi Dio ci chiama e ci manda. Non giudica, non rimprovera: manda noi! E se aspettiamo, quella sofferenza non incontra la gioia e la luce del Vangelo! Perché “camminare insieme” non è un dibattere insieme, ma aderire alla chiamata, cioè alla vocazione missionaria della Chiesa. La missione però non è un evento dimostrativo per poi accontentarci di rintanarci nelle trincee di sempre. È costitutiva dell’essere discepoli di Gesù. Capire le domande che ci vengono incessantemente dal mondo ci aiuta a vivere la compassione di Gesù, che è partecipazione interiore, condivisione. La pandemia (e con la pandemia della guerra) ci ha investito di tanta sofferenza: la scoperta della vulnerabilità e finitudine umana, le domande sull’Oltre da noi hanno incontrato quella che viene chiamata la “depressione escatologica”, l’incapacità del mondo di pensare e di parlare del futuro. Dobbiamo sì camminare insieme, ma guardando con lo sguardo di Gesù alle stanchezze e fragilità. Saper guardare e interpretare le doglie della creazione, che sono non solo la pandemia, ma anche la guerra, la rovina dell’ambiente, il degradare delle relazioni interpersonali e sociali. Non per lamentarci ma per cogliere quanto c’è comunque di generativo nelle sofferenze dell’oggi.

La passività delegante dei laici è comunque figlia di un’educazione religiosa lacunosa da parte del clero in tema di sinodalità. E spesso i preti hanno interpretato la sinodalità come una cessione di loro prerogative. Viene da pensare che la crisi della Chiesa, più che da imputare alla “secolarizzazione montante” abbia un’origine endemica.

Sono molto d’accordo sulla necessità di non continuare ad agitare la secolarizzazione come causa di tutti i nostri mali. Non è un giorno che viviamo ormai in un ambiente secolarizzato; il tema è semmai quello di saper accogliere le domande che oggi ci pone l’uomo secolarizzato, l’uomo “psicologizzato”, l’uomo che ha subito profonde e rapide mutazioni antropologiche. Molti di noi continuano a coltivare qualche nostalgia della “cristianità”, anche perché sono cresciuti e formati – religiosamente e civilmente – nell’idea di cristianità. Così rischiamo sempre di tornare a una logica di controllo, di numeri, di presenze, di rapporti di forza. Benedetto XVI parlava profeticamente di una “minoranza creativa” e Papa Francesco sviluppa ulteriormente parlando con tutti, facendoci capire che tutti ci appartengono. Sicuramente parte della Chiesa fa fatica a seguire questa prospettiva, perché resiste un’autocoscienza ideologizzata ed esclusiva. Basti pensare all’autocoscienza di una comunità parrocchiale, che spesso appare confusa, fragilizzata, se non – per usare un termine oggi un po’ abusato – autoreferenziale. Per questo penso che il Sinodo sia una straordinaria opportunità affinché la Chiesa recuperi una forte passione, come Papa Francesco, a parlare a tutti. In realtà non si tratta di innovare radicalmente lo stile ecclesiale, ma semplicemente mettere in pratica e declinare le intuizioni che sessant’anni fa già propose il Concilio Vaticano II . Malgrado le turbolenze post conciliari da un lato e le chiusure preconcette di quegli anni, oggi possiamo trarre efficacemente dai testi dei padri conciliari il giusto percorso da camminare insieme.

Rimaniamo sul tema dell’ascolto che lei ha giustamente posto come questione centrale del camminare insieme. Le domande da ascoltare sono tuttavia molto diverse dal passato. Dai tempi del Concilio a oggi è intervenuto un cambiamento epocale, che non è solo culturale, non è solo la globalizzazione, la digitalizzazione o la psicologizzazione delle relazioni. Ma è il cambiamento antropologico. L’essere umano non si sottrae all’evoluzione. L’uomo e la donna di oggi sono molto diversi da quelli su cui abbiamo costruito buona parte del pensiero teologico. Ontologicamente, se si può dire, diversi.

Questa è una questione importantissima che dobbiamo urgentemente affrontare. Senza rimpianti per il passato e senza fughe in avanti. Dobbiamo allora con coraggio comprendere l’antropologia, i cambiamenti già intervenuti e quelli che una rapidità vanno prospettandosi. E poi, con altrettanto coraggio, porci la domanda sul perché la bellezza umana dell’essere cristiani non attrae e quella sul “che fare?”. Tanti si sentono giudicati e non amati, così non facciamo né l’uno né l’altro. L’interferenza di questi cambiamenti con la sfera della morale fin qui proposta è evidente. Si pensi per esempio a come le scoperte delle neuroscienze incidono sulla nostra tradizionale idea di volere, e di libero arbitrio. O pensate alle questioni riguardanti i generi e la loro fluidità. Temi sui quali fatichiamo perché ci troviamo innanzi non più un’alterità di pensiero, una contrapposizione, ma un comune sentire, e una conseguente pratica. È saltata completamente l’idea del limite, l’idea che non ti evolvi se non moltiplicando le esperienze, sperimentando tutto e cambiando a piacimento le interpretazioni del reale. Lo stesso vale per le modifiche antropologiche derivate all’uomo digitale. Ma non possiamo certo limitarci a una sfilza di “no”. Dobbiamo piuttosto impegnarci a costruire il profilo attuale del cristiano, cioè dell’uomo evangelico, che è quello di sempre ma che deve parlare all’uomo di oggi. E poi non dimentichiamo che Dio è sempre più intimo a noi stessi. E non solo ci conosce ma ci insegna a conoscerci. Meglio di così!

Il nostro sistema di pensiero, filosofico e teologico, difetta spesso di una certa “fissità” del concetto di uomo. E di donna. Che invece sono esseri sempre dinamici, in continua evoluzione.

Assolutamente sì. Non c’è dubbio. Pensate per esempio a quanta porzione delle nostre capacità intellettive – a cominciare dalla memoria – sono state già trasferite nei devices elettronici, che ormai sono delle protesi dell’umano. È certo che anche questo cambia, e cambierà profondamente l’essere umano per come lo conosciamo. Il tema, sicuramente non facile, è di chiederci cosa può ancora oggi suggerire l’antropologia cristiana al mutato e mutante uomo di oggi. Per esempio: prevale oggi un concetto di benessere che alla resa dei conti non sembra fornire una felicità duratura, piuttosto un effetto narcotizzante. E lo stesso può dirsi per la costante sospinta all’esaltazione dell’“io”, che è funzionale ai consumi e non alla buona vita. O alla medicalizzazione costante che è esorcizzazione della fragilità dell’umano. Il cristiano è un uomo felice. Papa Francesco ce lo ricorda con insistenza, proprio perché è il primo modo di parlare del Vangelo. Ed è un uomo comunitario, fa parte di una famiglia e non un’isola o una monade che sperimenta tutto e non resta con nessuno.

In effetti, come osservava il cardinale Martini, abbiamo medicalizzato i due momenti più importanti della vita, inizio e fine. Si nasce e si muore in ospedale.

Sicuramente c’è una rimozione della vulnerabilità. Questo potrebbe voler dire che per l’uomo di oggi la vita bella è così com’è, hic et nunc: è questa, punto e basta, a volte con amaro fatalismo, a volte con arroganza prometeica e un po’ incosciente. Il cristiano, differentemente, vede e si rende conto della sofferenza che agita tutta l’esperienza umana, dall’inizio alla fine, la sua e quella degli altri e la interpreta, la elabora in compassione e fraternità. Il cristiano è colui che, accogliendola, trasforma quella realtà, quella sofferenza, in una richiesta. Papa Benedetto aveva dato un nome alle conseguenze di questo compiacimento dell’esistente: desertificazione spirituale. Ai tempi del Concilio si era espressa una convinzione, che era anche una speranza, che l’uomo si fosse finalmente reso consapevole dei propri limiti, che rifiutava la sopraffazione, l’odio, la guerra, e quindi preparava a un futuro migliore. Pensate al discorso di Giovanni XXIII sui profeti di sventura dell’11 ottobre 1962 all’apertura del Concilio, in cui li tacciava di non comprendere l’anelito irrevocabile di pace che saliva dagli uomini. Oggi dopo sessant’anni ci ritroviamo di nuovo tutti molto sofferenti, circondati da dinamiche che Papa Francesco non esita a chiamare da “terza guerra mondiale”; stiamo sperimentando di nuovo i veleni della violenza, della sopraffazione, dell’odio. Anche tra fratelli. Anche nella Chiesa. Prevalgono disillusione e disincanto. Il mondo digitalizzato e individualizzato alimentano le polarizzazioni. Manca invece l’unica risposta possibile: la compassione, cioè una lettura esistenziale ed esperienziale che aiuti, ci aiuti a ritrovarci.

Il cambio al vertice della Cei è stato anche un’occasione di verifica dello stato di salute della Chiesa italiana.

Devo dirvi che sono contento che questo passaggio tra il cardinale Bassetti e me coincida con il cammino sinodale. In qualche modo la verifica che richiamate è il Sinodo. Perché è un guardarsi, un capirsi non come un circolo chiuso ma come popolo. Che vuol dire essere cristiano oggi? Cosa mi chiede la Chiesa di essere? Non sono domande a cui possiamo rispondere in privato, garantiti da un facile spiritualismo alla moda. Perché ha ragione Papa Francesco: i due pericoli sempre incombenti sono gnosticismo e pelagianesimo, che relegano la religione nella dimensione individuale. Il cammino insieme invece può creare molta autocoscienza delle difficoltà, degli errori, dei limiti, aiutarci a capire che sono delle opportunità, delle potenzialità per la comunicazione del Vangelo. Ecco, per questo dobbiamo individuare quali sono oggi le vere priorità della Chiesa italiana, per non correre dietro a falsi problemi o a temi che oscillano sul confine dell’autoreferenzialità. Il documento di sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo va preso come un punto di partenza, che richiede ancora molto lavoro nel senso della specificazione, di comporre la pluralità delle idee per superare quel disincanto che dicevamo prima. Non basta solo esortare alla conversione ma cambiare camminando.

Ancora sulla Chiesa italiana: alcuni dati statistici, circa i matrimoni civili o la frequenza sacramentaria, sembrerebbero dire che si allarga anche in campo ecclesiale una forbice tra Nord e Sud.

Mah, la forbice c’è sempre stata, e la forza della secolarizzazione della società italiana mi sembra pervasiva in ogni dove, anche se le forme in cui si manifesta sono poi abbastanza diverse nelle diverse regioni del Paese. Però, lasciatemi dire, se è vera l’immagine della desertificazione spirituale, ci deve essere anche l’acqua. Il deserto in quanto tale esprime la sete, il bisogno – e la ricerca – dell’acqua. Se c’è il deserto significa anche che c’è una nuova ricerca di acqua. Dobbiamo guardare alla sete, non lamentarci del deserto. Soddisfare questa sete significa spiegare, e ancor più mostrare, com’è vivere da cristiani oggi. Perché ne vale la pena, e dona più soddisfazioni del protagonismo digitalizzato imperante o dell’essere meri spettatori di un mondo nel quale è sempre più difficile relazionarsi. C’è un’agiografia francescana che racconta della prima predicazione di san Francesco nella mia diocesi, esattamente ottocento anni fa, e dice come san Francesco non sembrava che predicasse perché in realtà conversava in un dialogo aperto coi bolognesi. Questo è il modello della nostra presenza nel mondo; esserci, parlare al cuore, tessere relazioni e fare sentire la presenza di Cristo.

Eppure la Chiesa italiana, per dirla con Giuseppe De Rita, ha un problema di “postura”. Come anche voi scrivete nel documento di sintesi del percorso sinodale, di fronte ai tanti temi su cui è chiamata a dire la sua – povertà, cultura dello scarto, pace, giustizia sociale, lavoro, giovani ed educazione – appare come afona, balbettante. Come si fa allora a conversare?

Abbiamo fatto la nostra scelta di conversare e quindi innanzitutto abbiamo deciso di ascoltare. Abbiamo impegnato questi due anni all’ascolto. Gli esiti certamente sono controversi, probabilmente perché noi preti siamo più abituati a rispondere che a domandare, più propensi a definire, circoscrivere, dare certezze, spiegare chi siamo, a parlare sopra che ascoltare. Il tema invece è quello di saper raccogliere quanto la realtà intorno a noi ci propone, come dice Papa Francesco “farci schiaffeggiare dalla realtà”. Mi viene in mente, per fare un esempio tra i tanti, il giudizio che don Giussani dette di Pierpaolo Pasolini. Due mondi di provenienza che più lontani non si può immaginare. Eppure Giussani non ebbe esitazioni ad accogliere e ad appassionarsi del pensiero di Pasolini, fino ad attribuirgli il ruolo di maestro. Occorre avere sempre un atteggiamento accogliente e non giudicante, mentre veniamo spesso identificati come aprioristicamente giudicanti, anche quando magari non lo siamo. Ma perché veniamo considerati giudicanti? Intanto perché, diciamolo, troppo spesso abbiamo un’ossessione a giudicare, perché sentiamo che se non lo facessimo non adempiremmo al nostro ruolo. C’è dentro di noi uno zelo che ci porta a difendere la trincea della verità. Pensiamo che questo sia il nostro essenziale compito e che questo significhi seguire il Vangelo. Ma non è così. Perché certo il Vangelo è la verità ma è ben diverso dall’atteggiamento farisaico, il quale comunica la Legge, mentre a noi il Vangelo chiede di comunicare l’Amore. Dirti la legge è condannarti. Non possiamo usare il Vangelo come una clava. La misericordia, l’ascolto non giudicante, l’attenzione pastorale non sono cedevolezze. Poi certo sono consapevole che c’è anche il rischio di inseguire le filosofie del mondo. Ma con queste il discrimine è molto netto: loro esaltano l’Io, noi ragioniamo solo in termini di Noi. La Chiesa non corre dietro all’Io.

Il Noi si sostanzia innanzitutto nell’impegno politico. La Chiesa italiana nei primi quarant’anni della storia repubblicana ha fatto politica. Politica con la P maiuscola ovviamente, non la politique politicienne. E l’efficacia è stata notevole, soprattutto per la funzione di collante tra spinte diverse, di mediazione culturale. Poi con la fine della prima Repubblica e la scomparsa del partito dei cattolici si disse che il ruolo dei cattolici sarebbe stato quello, in entrambi i poli, di influenzare la politica sui valori cristiani. Oggi sembrerebbe essere accaduto il contrario: è la politica che influenza i cattolici. La divisione politica precede ogni altra distinzione tra cattolici.

Intanto c’è da dire che la polarizzazione è oggi la cifra di tutta la società. E i cristiani non sono estranei alla società. La polarizzazione regna sovrana su tutti i temi, grandi e piccoli. Credo che questa sia la risposta istintiva e semplificante alla complessità del mondo in cui viviamo. Aderisci, ma non pensi. Schierandoti non hai bisogno di farti molte domande. Noi dobbiamo invece affrontare la complessità senza timore, porci domande, soprattutto quelle che riguardano il “chi” , cioè ponendo al centro la persona. Questa è la via della semplicità e non della semplificazione. L’altra cosa, che giustamente rilevate, è guai ad avvelenare con la logica politica le relazioni ecclesiali! Non è un fenomeno solo italiano; penso per esempio alla forte polarizzazione politica rappresentata nella Chiesa americana. Ma laddove la politica ha usato categorie pseudo-teologiche o spirituali per inquinare la vita ecclesiale alla fine hanno perso tutti. Dobbiamo fare molta attenzione su questo aspetto. E non solo per le strumentalizzazioni esterne quanto per le divisioni interne. Guai a cadere nelle trappole a esempio delle finte contrapposizioni tra sociale e spirituale, o alle divisioni, spesso artificiose, sui temi etici. Sui temi etici non possiamo limitarci a ripetere le lezioncine del passato, ma dobbiamo trovare nuove parole per nuove domande. Con molta franchezza: se sui temi etici il mondo va da un’altra parte vuol dire certo che non dobbiamo omologarci o dire quello che il mondo vuole sentirsi dire ma sapere dire le verità di sempre nella cultura o nelle categorie di oggi. Questa è la sfida ed è tutt’altro che cedevolezza ma responsabilità, altrimenti ripetiamo una verità diventata dura da accettare. Pensiamo al discorso sulla famiglia: non abbiamo ancora saputo fare qualcosa di meglio di quanto proposto dalla secolarizzazione. Paolo VI e Mazzolari lo dicevano già ai loro tempi: tanti sono lontani e il problema non sono loro, siamo noi! C’è in loro una domanda, implicita, di una Chiesa più evangelica, più madre e per questo esigente e coinvolgente, che non fa la matrigna e dice: «Te lo avevo detto io».

Su questo aspetto il debito di ascolto maggiore è forse nei confronti delle donne. Le donne che sono sempre state il pilastro fondante della Chiesa. E oggi invece registriamo che la categoria sociale che più tende ad allontanarsi sono le giovani donne. Anzi, registriamo frequentemente che le giovani donne sono proprio “arrabbiate” con la Chiesa.

Sì, lo confermo. E posso aggiungere che questo nasce essenzialmente dal non sentirsi ascoltate. E qui il tema da approfondire è come si ascolta. Noi preti, troppo spesso, coltivando tanti rapporti, ascoltiamo solo con le orecchie. Ricordo, quando ero parroco a Santa Maria in Trastevere, una volta una giovane donna trasteverina mi apostrofò: “A’ don Matte’, ma me stai a senti’?”. “Ma io te sento!”. “No, tu stai a pensa’ a li fatti tua”. Ascoltare non significa fare rilevazioni sociologiche a campione, ma esercitare l’empatia che è generata dalla vera passione per l’altro.

Rilevava di recente il sociologo Mauro Magatti che, a dispetto di chi celebra ogni giorno la fine della religione, le religioni sono quanto mai al centro delle vicende del mondo, soprattutto in senso negativo, nelle contrapposizioni. Il fondamentalismo islamico continua a ispirare violenza in molti paesi, risorge in Europa un sentimento antisemita, in America, come dicevamo, la religione è tra i principali strumenti di scontro politico, o perché strumentalizzata o perché ostracizzata, e anche qui da noi il sovranismo agita impropriamente simboli e temi religiosi. La religione dunque sembra avere un suo spazio ma solo come strumento di divisione.

Beh, è quello che dicevamo anche prima. La polarizzazione come risposta (falsa) alla complessità. E sicuramente la polarizzazione usa le religioni perché ancora oggi possono smuovere grandi passioni. Ma la risposta ce la dà ancora una volta Papa Francesco con Fratelli tutti che non è solo una profonda e innovatrice esplicitazione teologica della fratellanza evangelica, ma è anche il manifesto di un nuovo umanesimo civile. Direi anche l’unico nell’attuale contesto mondiale. Dobbiamo essere capaci di diffondere una parola di “fratellanza necessaria” all’uomo di oggi, una parola che si dimostri migliore e più attraente dell’individualismo consumistico. Una parola che non teme di proporre la porta stretta anziché la porta larga. Perché la porta stretta? Perché quella larga conduce a una felicità effimera e ingannevole. Non dà soddisfazione definitiva, e infatti l’infelicità è oggi quanto mai diffusa. La porta stretta è quella del “noi”, è quella della consapevolezza -per citare ancora Papa Francesco – che, credenti o meno, “non ci si salva da soli”. Dobbiamo far crescere ovunque la comunione. Comunione significa lo stare insieme, l’amicizia. Dobbiamo dire con più forza che la Chiesa è una famiglia. Quelli accanto a noi a messa non sono dei soci, sono dei fratelli, parenti di una stessa famiglia. E non basta dirlo, bisogna viverlo. Il senso dei ministeri a cui siamo chiamati, laici e preti, lo trovi solo nella comunione. I nuovi ministeri istituiti, aperti anche alle donne, saranno un passaggio decisivo nella costruzione di un’architettura di comunione. Ma attenzione che siano risposte “sostenibili”, cioè dalla valenza spirituale e non solo strutturale, funzionale. Pensando all’interesse suscitato da queste nuove ministerialità, vorrei tornare su quanto dicevo all’inizio: la Chiesa italiana è viva, e ha voglia di vivere. Perché è dotata di spiritualità. E perché è immersa nel sociale.

In questa nostra chiacchierata ha citato spesso il termine conversazione spirituale. Cosa intende precisamente?

Direi semplicemente che è un parlare cominciando da se stessi (non dall’altro) presentandosi non in chiave materiale, funzionale, ma appunto spirituale. Cioè di come la mia vita è improntata da un senso. E questo vale tanto per i laici che per i preti. Conversare non è un mestiere, è un mettersi in gioco.

Un’ultima domanda su una questione che ci sta a cuore, perché viene da un’esperienza che anni fa abbiamo fatto insieme: siamo stati insegnanti di religione nei licei, tutti e tre.

Ah già, e ho un ricordo molto bello del tempo in cui ho insegnato religione. Era ancora obbligatorio ed era una sfida ogni volta, ma appassionante.

Malgrado le chiese sempre più vuote, e le pratiche sacramentali in disarmo, l’ora di religione continua a essere scelta da una grande maggioranza di studenti. Per un solo giovane che frequenta una parrocchia ci sono cinquanta giovani che fanno religione a scuola. È la vera “Chiesa in uscita”. Eppure, le diciamo con franchezza, abbiamo la percezione che la sensibilità dei vescovi italiani su questo fronte sia un po’ bassa.

Sì, è un tema che merita una riflessione seria e approfondita. Perché l’ora di religione può essere molto importante per il futuro della Chiesa in Italia. C’è bisogno dell’insegnamento della religione per capire il mondo dove siamo, le nostre radici. Ci serve un’alleanza con i laici – anche atei – che ben comprendono l’importanza della conoscenza religiosa in un sistema culturale, come quello italiano, profondamente permeato dal fatto religioso. Farlo penso sia la migliore difesa dagli estremismi. Continuo spesso a dire: come si può capire veramente Manzoni, o Dante, o la storia dell’arte, o buona parte della filosofia, senza avere una formazione culturale (non catechetica) religiosa di base? In questo discorso aggiungerei un ulteriore argomento: a scuola si fanno due ore a settimana di educazione fisica, ma non c’è neanche un’ora di educazione spirituale. Una contraddizione della più elementare antropologia. Sarebbe bello se i giovani potessero imparare a conoscere se stessi come soggetti spirituali.

 

di ANDREA MONDA
e ROBERTO CETERA

03 settembre 2022 – L’Osservatore romano

Rito sull’Istituzione dei Catechisti

La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina del Sacramento di Dio ha Promulgato il rito con cui s’istituisce il ministero del catechista.

Adesso si accompagna una lettera rivolta AI PRESIDENTI DELLE CONFERENZE DEI VESCOVI che vuole offrire un contributo alla riflessione delle Conferenze Episcopali, proponendo alcune note sul ministero di Catechista, sui requisiti necessari, sulla celebrazione del rito di istituzione.

 

 

 

Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti

Da un decreto del Santo Concilio Cumenico del Vaticano II

 

Il testo. Ecco il nuovo rito per l’istituzione dei catechisti, ministero dei laici

Avvenire 13 dicembre 2021

Webinar n.2 “La catechesi nel processo di evangelizzazione a partire dal Direttorio”

Webinar sul Direttorio per la catechesi: secondo incontro

Il secondo appuntamento, guidato da Don Giuseppe Ruta, ha avuto luogo il 25 febbraio con le relazioni del catecheta maltese Don Carl Mario Sultana sul tema Il rapporto tra il primo annuncio e la catechesi di tipo kerigmatico e della teologa della liturgia Sr. Elena Massimi, Fma, sulla Ispirazione catecumenale e mistagogica del nuovo Direttorio.

Qui sotto la video-registrazione dell’incontro.

Webinar: Il processo di evangelizzazione a partire dal “Direttorio per la catechesi”

L’Istituto di Catechetica propone una serie di Webinar di approfondimento sul Direttorio per la catechesi (2020).

Gli incontri online avranno una durata di 120 minuti, con due interventi proposti da due facilitatori (20 minuti ciascuno) e il resto del tempo per il dialogo tra esperti.

Per favorire l’internazionalità degli incontri, si opta per l’inizio del Webinar alle ore 15:00 italiane.

Il tema generale su cui si vuole concentrare la riflessione è: «Il processo di evangelizzazione a partire dal “Direttorio per la catechesi”».

Il primo incontro (27 gennaio 2021) prevede l’approfondimento dei seguenti argomenti:

 

  1. Evoluzione del concetto di “evangelizzazione” nei documenti catechistici e pastorali post-conciliari.

Relatore: Gianni Colzani

Si tenta di dare risposta ad alcuni interrogativi.

Il DC è punto di arrivo di un’ampia riflessione che, prendendo le mosse da «Ad Gentes» e passando per «Evangelii nuntiandi», «Redemptoris Missio» ed «Evangelii gaudium», influenza in maniera diversa i tre Direttori catechistici. Quali i punti fermi, quali le principali discontinuità nel comprendere il concetto di “processo evangelizzatore”? Le indicazioni di DC offrono maggiore chiarezza o producono confusione? Com’è sviluppato, in parallelo, il concetto di “missione”? Quali rapporti privilegia con la “cultura”? Quali linguaggi suggerisce per la comunicazione?

 

  1. Rapporto tra il Direttorio e il pensiero pastorale di Papa Francesco.

Relatore: Miguel López Varela

Si tenta di dare risposta ad alcuni interrogativi.

Il DC afferma a chiare lettere di avere la «Evangelii gaudium» come orizzonte e fonte ispiratrice. Ma fino a che punto il pensiero dell’attuale Pontefice è presente nel direttorio, in senso qualitativo e non semplicemente quantitativo? Quali tratti del pensiero bergogliano risultano acquisiti e quali, pur rilevanti, non compaiono nel DC?

Direttorio per la catechesi: l’antico e il nuovo

L’Istituto di Teologia Pastorale e l’Istituto di Catechetica dell’Università Pontificia Salesiana

organizzano un Seminario di studio dal titolo: Direttorio per la catechesi: l’antico e il nuovo.

Approfondimenti a partire dal numero monografico di Salesianum

IL 14 DICEMBRE ORE: 15,00-18,00

 

Durante l’incontro si approfondiranno due aspetti rilevanti: il significato che il Direttorio assume

per la riflessione catechetica e la pratica pastorale e il rapporto tra il documento e il recente

Sinodo sui giovani. Sullo sfondo si colloca l’ultimo numero monografico della rivista Salesianum

dedicato all’approfondimento da diversi punti di vista delle principali indicazioni presenti nel Direttorio.

 

Intervengono:

Ubaldo Montisci, introduzione al Seminario

Giuseppe Ruta: Il “Direttorio per la catechesi” nel contesto del cammino catechistico post-conciliare

link dell’intervento: Webinar Direttorio 14 dicembre 2020 1 Ruta

 

Salvatore Currò: Pastorale e catechesi dei giovani tra Sinodo e “Direttorio”

link dell’intervento: Webinar Direttorio 14 dicembre 2020 2 Currò

 

Marcello Scarpa, conclusioni

 

Per partecipare: https://us02web.zoom.us/j/86829323012?pwd=YjhGZ1pBU3RaZy9RWFF2dlpndkJ1QT09

Meeting ID: 868 2932 3012

Passcode: 930920

 

SCARICA:

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Salvatore Currò (Direttore dell’ITP)

Ubaldo Montisci (Direttore dell’ICA)

Linee orientative per la ripresa della catechesi

In sintonia con i protocolli sanitari della scuola, sono offerte linee orientative per la ripresa dei percorsi educativi in ambito parrocchiale.

 

In allegato anche

 

Dopo la pandemia quale catechesi

La pandemia ha avuto un impatto devastante sulle nostre società su scala mondiale. È ancora è troppo presto per valutare tutte le implicazioni che avrà nei diversi settori della vita pubblica.

Il recente volume (giugno 2020) curato da Javier Díaz Tejo, in edizione digitale e messo a disposizione gratuitamente ai lettori, vuole rispondere sostanzialmente a una domanda: come leggere e interpretare correttamente in prospettiva catechetica le trasformazioni che la pandemia sta causando nel mondo?

Il testo si avvale dei contributi di noti esperti di catechesi latinoamericani, diversi dei quali ex allievi dei percorsi formativi del nostro Istituto. I diversi agili articoli mettono in mostra con chiarezza che, accanto alle minacce, è possibile intravedere delle preziose opportunità per l’educazione alla fede.

 

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Después de la pandemia, qué catequesis

“Scegli la vita”. Accompagnare la vocazione tra vizi e virtù

“Sussidio in uscita ad ottobre”. Scegli la vita. È la scoperta della propria vocazione. «La tua vocazione – infatti – ti orienta a tirare fuori il meglio di te» (FRANCESCO, Christus vivit, 257). Scegliete, allora! «Datevi al meglio della vita!» (ChV 143).

N.B. Il sussidio sarà disponibile da ottobre, puoi intanto ordinarlo inviando una mail a: vocazioni@chiesacattolica.it

Scegli la vita. Forse il titolo del Sussidio di quest’anno può sembrare ad effetto, a qualcuno potrà sembrare scontato o ancora uno slogan che vuole accattivare il potenziale lettore. Niente di tutto questo, la questione è seria e molto concreta.

Scegliere la vita è una cosa che facciamo o non facciamo molto più spesso di quanto possiamo immaginare. Non si tratta infatti di scegliere ciò che ci piace, o ciò che ci richiama il gusto della vita, ma di scegliere le cose che ci fanno bene, che sostengono e alimentano la vita che è in noi, evitando ciò che ci danneggia, che intristisce o svilisce il nostro cuore. Fin qui possiamo ancora essere tutti d’accordo. La questione si complica quando riflettiamo su cosa significhi “vita”, su quale criterio usare per riconoscere ciò che ci fa bene e ciò che ci fa male. Ponendo la questione in altri termini: come discernere? Forse abbiamo dentro ancora un’altra domanda inespressa: Perché discernere? Magari siamo già soddisfatti della vita che viviamo, potremmo anche essere impegnati attivamente in iniziative belle e positive, che dicono la nostra disponibilità ad aiutare il prossimo, che esprimono e attuano valori e ideali.

Il punto però è un altro, anche noi infatti siamo figli di questa epoca e ne siamo segnati, nel bene e nel male. Nel nostro tempo ad esempio, una questione che viene messa in ombra perché magari ritenuta obsoleta, è proprio quella del discernimento, della lotta spirituale: contrastare i nostri vizi, dominare le passioni, rafforzare virtù quali l’umiltà o la castità, comprendere la cosa giusta da fare e avere il coraggio di farla… o di non farla se ciò è sbagliato. Diciamocelo francamente, molte di queste cose suscitano perplessità anche in molti cristiani che pure vivono una fede solida e genuina. Il percorso che proponiamo in questo sussidio vuole riscoprire non solo il valore e l’importanza di queste realtà, ma ribadirne l’attualità!

Si, chi vuole seguirci scoprirà che basta ridefinire il linguaggio, ritrovare il significato di un termine, riflettere su tante piccole o grandi cose che facciamo quotidianamente, per renderci conto che ci siamo dentro, chi siamo dipende anche da come scegliamo di affrontare quel nostro limite che ci porta ad essere deboli in quella situazione, a non saperci gestire in un’altra, a mancare il bersaglio in un’altra ancora. Viceversa scopriremo la bellezza e il gusto di rafforzare le nostre virtù, impareremo che il bene fa bene e da gioia, sapremo dire con parole nuove cose che appartengono ad una saggezza antica, ma solida e collaudata.

Soprattutto però, faremo questo nell’ottica di un cammino che porta il passo della nostra vocazione. Le nostre virtù e i nostri vizi infatti, ci dicono molto di noi, ci aiutano a conoscerci nella concretezza, ci danno le coordinate per definire dove possiamo andare, dove vogliamo andare, dove ci sentiamo chiamati ad andare!

Non temiamo allora di attraversare la foresta che può essere il nostro cuore, imparando a conoscere di quali piante possiamo nutrirci e quali sono velenose. Sulla nostra pelle abbiamo già avuto il piacere o il dispiacere di incontrarne alcune. Se abbiamo provato invidia, ci saremo accorti da soli di quanto ci faccia male, ma forse non abbiamo considerato l’antidoto della carità. Forse abbiamo fatto esperienza che la mitezza ci ha permesso di risolvere felicemente una questione che sarebbe invece diventata ingestibile se ci fossimo lasciati prendere dall’ira. Forse considerando queste cose alla luce della preghiera, nell’ascolto della Parola, nel confronto con i nostri fratelli e le nostre sorelle, ci apparirà più chiaro il disegno di Dio per noi, sentiremo più vicino il suo amore, impareremo a camminare con gioia ed umiltà. Accettare che nel nostro cuore convivono vizi e virtù, e che è necessario lottare per imparare a scegliere queste ultime, per essere chi siamo veramente, per poter sentire che in noi abita la vita, è il primo passo per la vittoria.

In ricordo di Joseph Gevaert, Catecheta Salesiano

Si è spento a Oud-Heverlee (Belgio) il 29 agosto u.s. il catecheta Joseph Gevaert (1930-2019). Ha trascorso gran parte della sua vita (1966-2005) all’Università Pontificia Salesiana (UPS), quasi tutti come membro del nostro Istituto di Catechetica, contribuendo in larga misura a dargli quel prestigio che ancora gode a livello internazionale.

Le robuste basi filosofiche (aveva conseguito il Dottorato in Filosofia a Lovanio) hanno costituito le fondamenta per i suoi studi catechetici che hanno riguardato in modo privilegiato i riferimenti antropologici e culturali dell’educazione alla fede. Di quell’impegno testimoniano opere come Antropologia e catechesi (Torino, Elledici, 1978), La dimensione esperienziale della catechesi (Torino, Leumann, 1984), Catechesi e cultura contemporanea (Torino, Elledici, 1993), Il dialogo difficile: problemi dell’uomo e catechesi (Torino, Elledici, 2005).
Nel corso degli anni, i suoi interessi si sono ampliati, portandolo ad approfondire numerosi aspetti nel settore catechetico: al livello epistemologico, il suo testo Studiare catechetica (Roma, LAS, 2009) rimane un punto di riferimento significativo per chi voglia approfondire la natura e i compiti della giovane scienza; il Dizionario di Catechetica (Torino, Elledici, 1986), da lui curato, è sì datato ma in qualche modo insuperato nella realtà italiana e ha avuto traduzioni in diverse lingue.

In alcuni ambiti si è dimostrato un pioniere: è suo, ad esempio, il primo corso di catechesi che prendeva in considerazione le persone con disabilità (era l’anno accademico 1977/78, con a fianco F. Devestel) e sue alcune pubblicazioni che costituiscono delle pietre miliari per quanto riguarda la riflessione sul primo annuncio e l’iniziazione cristiana. Tra queste meritano di essere ricordate almeno Prima evangelizzazione. Aspetti catechetici (Torino, Elledici, 1990), La proposta del Vangelo a chi non conosce il Cristo. Finalità, destinatari, modalità di presenza (Torino, Elledici, 2001).
Egli si è interessato pure della didattica in ambito scolastico. I contatti con il mondo tedesco, all’avanguardia soprattutto per quanto riguarda la pedagogia religiosa, gli hanno consentito di offrire abitualmente i dati più avanzati della ricerca in questo rilevante ambito pastorale. Tra le sue produzioni si ricorda, ad esempio, Didattica dell’insegnamento della religione. Aspetti generali (Torino, Elledici, 1988, assieme a R. Giannatelli).
Docente rigoroso ed esigente, lavoratore appassionato e instancabile, era molto apprezzato dagli allievi per la chiarezza del pensiero, l’accessibilità del linguaggio e la disponibilità nell’accompagnamento: la sua era una “presenza” tangibile. Ricercatore meticoloso, aveva grande cura dell’aggiornamento a favore di colleghi e studenti: la raccolta bibliografica “Rassegna delle riviste”, diventata poi “Annale di Catechetica”, da lui coordinata fino a quando è rimasto all’UPS, testimonia di questa sua passione per offrire la più ampia gamma di risorse a chi volesse riflettere sui temi catechetici.

Favorito dall’essere nato e aver vissuto nel cuore dell’Europa e dall’aver acquisito nel tempo diverse competenze linguistiche, ha svolto un ruolo autorevole di mediazione culturale nel mondo mitteleuropeo. Egli ha contribuito a dare quel “respiro internazionale” che continua a caratterizzare la ricerca dell’Istituto.

Nel 2005, avendo raggiunto i limiti accademici d’età, ha fatto ritorno nella sua nazione, il Belgio, dove ha continuato il proprio lavoro di studioso finché le condizioni di salute gliel’hanno consentito. Affabile, nonostante l’apparenza burbera, «Jeff» – così era chiamato tra i colleghi e gli amici – ha mantenuto sempre con interesse i contatti con il nostro Istituto, di cui aveva curato anche la memoria storica con il testo Istituto di Catechetica. 50 anni di ricerca e di servizio. Un dossier per conservare la memoria.

Per quanto fatto per la Catechetica, e non solo, anche noi facciamo memoria e lo ringraziamo riconoscenti.