X DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: Genesi 3,9-15

Dopo che Adamo ebbe mangiato dell’albero, il Signore Dio lo chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». 
Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».

Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, 
tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».

 

 

  • Secondo la tradizione ebraica antica, la storia dell’umanità fin dagli inizi è stata un campo di battaglia tra due forze contrapposte, il seme della donna e il seme del serpente. Adamo, il primo uomo, ma anche tutti gli uomini lungo la storia, sono stati messi di fronte a una scelta fondamentale: fare la volontà di Dio, e quindi rimanere in una stabile armonia con lui, con la prima donna, e con il mondo (Gen 2), oppure seguire la propria volontà e decidere personalmente quello che nella vita è bene e quello che è male (Gen 3).

         La situazione dell’uomo che decide la sua vita indipendentemente da Dio è tragica. La sua prima esperienza è quella della nudità. La tradizione esegetica ebraica antica spiegava che Adamo prima del peccato aveva una veste di gloria. Il dialogo con Dio lo riempiva del suo amore e di vita. Dopo il peccato è nudo di amore, di essere. Sperimenta la morte essenziale. La seconda conseguenza è la paura della morte (v. 10): non si sente più in grado di perdere la sua vita per gli altri, per la sua donna. La terza conseguenza è quindi la nascita dell’egoismo: accusa la propria moglie pur di salvare se stesso (v. 12).

         Ma il Signore dona una speranza all’umanità. È la prima Buona Notizia: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (v. 15). La tradizione biblica vedrà nel seme della donna il Messia. Is 11,8 parla di un Bambino, che «metterà la mano nel covo dei serpenti velenosi»: la vittoria del seme della donna sul seme del serpente sarà facile come un gioco di bambini. Seguendo il Messia sarà possibile il ritorno all’armonia con Dio, con i fratelli e con il mondo, perché la paura della morte è stata vinta.

 

Seconda lettura:2 Corinzi 4,13-5,1

Fratelli, animati da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: “Ho creduto, perciò ho parlato”, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. 
Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’inno di lode alla gloria di Dio. 

Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. 

Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne. Sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli.

 

 

  • La chiamata all’apostolato è stata per Paolo una chiamata alla sofferenza, alle fatiche di ogni genere. Se guardiamo la sua esperienza con gli occhi del profano, Paolo sta velocemente invecchiando, consumato dall’apostolato. Sta perdendo la vita. L’apostolo invece osserva la propria vita con gli occhi di Dio, con quelli della fede: «Noi crediamo e perciò parliamo» (v. 13). È vero che fisicamente egli va progressivamente consumandosi, non così invece l’uomo interiore, che diventa sempre più giovane. C’è una realtà invisibile che a lui è dato di percepire e che lo riempie di immensa gioia. La vita in intimità con il suo Signore Gesù, che ora sta sperimentando in mezzo alle tribolazioni, un giorno si manifesterà nella gloria dell’eternità (v. 18). L’amore di Cristo che lo sta spingendo a consumarsi nell’apostolato, è anche l’unica realtà che rimane, e che può superare le barriere della morte. E se la tenda del suo corpo si sta sfasciando, il Signore gli sta preparando una dimora eterna nel mondo di Dio, un corpo non esposto alla corruzione (5,1).

      

Vangelo: Marco 3,20-35

 

In quel tempo, Gesù venne con i suoi discepoli in una casa e si radunò di nuovo attorno a lui molta folla, al punto che non potevano neppure prendere cibo. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: «È fuori di sé». 
Gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebul e scaccia i demòni per mezzo del principe dei demòni». Ma egli, chiamatili, diceva loro in parabole: «Come può satana scacciare satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi. Alla stessa maniera, se satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può resistere, ma sta per finire. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato l’uomo forte; allora ne saccheggerà la casa. 
In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito immondo». 

Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre». 

   

 

Esegesi

      L’episodio narrato dal Vangelo odierno si svolge probabilmente nella casa di Pietro a Cafarnao. È interessante notare l’atteggiamento delle persone che lo attorniano. Esse formano un triplice cerchio ideale. Fuori si fermano i parenti. Più vicini, chiamati da Gesù stanno gli scribi discesi da Gerusalemme; seduta vicino a lui la folla con gli apostoli che lo stavano ad ascoltare.

Prima scena: i parenti di Gesù (vv. 20-21 ): Sono i suoi parenti carnali che sono preoccupati della sua salute, ma anche dell’onore della famiglia, perché lo ritengono «fuori di sè», un esaltato. Meglio portarselo a casa. «Siccome non riuscivano a comprendere l’altissima sapienza che ascoltavano, credevano che egli parlasse come uno fuori di sè» (Beda, il Venerabile).

Seconda scena: gli scribi (vv. 22-30): Dalla diceria si passa ora alla terribile calunnia sparsa tra il popolo dagli scribi, gli studiosi della Scrittura, venuti da Gerusalemme: «Costui è posseduto da Beelzebul e scaccia i demoni per mezzo del principe dei demoni» (v. 22). Di fronte alla calunnia Gesù non perde la calma, ma continua a dialogare, chiamati gli avversari vicini a sé, li fa ragionare. Egli usa parabole, esempi concreti, che potevano capire. Si richiama alla realtà dello stato e della famiglia: quando in uno stato e in una famiglia incomincia la discordia, lo stato va in rovina e la famiglia non esiste più. Ora, se Satana per mezzo di Gesù sta cacciando Satana, mettendo la discordia tra i demoni, si deve dedurre che sta tentando un suicidio, che il suo dominio è ormai alla fine e che è giunta la salvezza. L’unica spiegazione possibile è invece che nel mondo è entrato uno più forte di Satana, che lo ha legato, dando agli uomini la libertà dal male.

Gli unici che non possono partecipare a questa liberazione sono coloro che avranno «bestemmiato contro lo Spirito Santo» (v. 29), quelli che negavano che Gesù, scacciando i demoni, agiva per mezzo dello Spirito. Significa rifiutare ostinatamente di percepire nei segni dello Spirito Santo l’agire di Dio nella storia.

Terza scena: i veri parenti di Gesù (vv. 31-35): C’è un gruppo che sa discernere invece i segni che Gesù sta compiendo, perché si sono messi in una posizione in cui possono ascoltare la sua parola: sono seduti attorno a lui con l’orecchio aperto. È proprio la parola stessa di Gesù che viene a smontare tutte le dicerie che circolavano su di lui: «È un esaltato», o «È un indemoniato». Marco intravvede la nuova comunità cristiana in cui, pur rispettando il rapporto gerarchico con gli apostoli, tutti sono fratelli e sorelle che ascoltano Gesù Cristo e fanno la volontà di Dio.

Se continuiamo a leggere il vangelo, vedremo che molti di coloro che ora stanno ascoltando Gesù, si allontaneranno da lui. E nella tradizione evangelica e negli Atti degli Apostoli vedremo che la Madre di Gesù, che in questa scena appare impotente di fronte ai parenti che stanno fuori, compie un cammino di fede che la porterà a stare silenziosa davanti al Figlio sulla Croce. Anche lei discepola della parola sarà madre di Gesù in modo nuovo.

 

Meditazione

 

Nella I Lettura liturgica di questa Domenica troviamo enunciato e già articolato il tema della riflessione biblica di questa X Domenica del tempo ordinario dell’Anno liturgico: la lotta tra il bene e il male, l’esito di questa lotta, la possibile redenzione dal male con la definitiva vittoria del bene. Questi sono i problemi più importanti e fondamentali accennati nella rivelazione biblica del libro della Genesi. Fin dalle sue prime pagine – ove si tratta dell’origine del mondo e dell’universo – intravvediamo la soluzione di tutti questi problemi, con l’anticipazione rapida e sfocata di Cristo, quale Redenzione del mondo e dell’universo umano in particolare.

Questo problema del bene e del male è presente anche nelle altre tradizioni non-bibliche, alle quali il libro della Genesi si allaccia. Vi si allaccia per demitizzarle dagli aspetti arbitrari e fantastici e portarle alla luce della Parola di Dio. 

Questi massimi problemi, che costituiscono il dramma dell’esistenza umana, hanno sempre attanagliato la mente e il cuore dell’uomo. Da questo punto di vista, notiamo che la rivelazione biblica non è avulsa dal contesto umano e storico delle altre tradizioni. La Genesi si immerge in esse e le traina, per così dire, nella sua scia luminosa per irradiarle e inverarle con la Parola di Dio. Perciò le parole della Genesi sono illuminanti, anche se si trovano immerse nel magma confuso e lacunoso delle tradizioni pagane, le quali fanno intravvedere talvolta soltanto la situazione drammatica e l’evento spaventoso, ma senza scampo.

Quello che troviamo nelle tradizioni non-bibliche sui fatti sconvolgenti degli inizi della storia umana, non sono in grado di introdurci e informarci in maniera veritiera. Sono solo immagini mitiche e simboliche della realtà sconvolgente che affonda nella comune esperienza dei popoli. Tutto ciò risulta anche da quello che troviamo raccontato nella Genesi: dolore, sofferenza, morte, perversione del cuore umano, imbarbarimento del mondo, ribellione contro l’Alto, confusione, disperazione, caos dell’esistenza umana.

La rivelazione biblica fa la sua comparsa con l’idea chiarificatrice che sta all’inizio dell’evento nefasto. Questo fatto concerne il gesto di ribellione contro Dio e quindi la universale perversione degli uomini tra loro, che introduce nella loro esistenza dolore, sofferenza e morte (Caino e il flagello del diluvio). Tuttavia, con la rivelazione biblica, si affaccia anche la possibilità di una conversione e di una redenzione, la quale avanza nella coscienza degli uomini e pone nel loro cuore la convinzione che Dio è in grado di superare le continue cadute e di condurre l’uomo verso una storia di salvezza.

Nel Testo sacro l’idea del peccato originale viene sempre più a configurarsi come una ribellione dell’uomo a Dio, a partire da una provocazione di un essere misterioso, intelligente, astuto e malvagio.

Ma nel piano biblico è necessario che intervenga Dio stesso perché l’uomo prenda coscienza chiara e si renda conto della ribellione e del disordine. Nella I Lett. il testo sacro racconta: «Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei? Gli rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino, ho avuto paura perché sono nudo». La paura di Dio e la vergogna di sè sono le proprie sensazioni provate dopo il disordine introdotto dal peccato, perché l’uomo ha mangiato il frutto dell’albero proibito.

Egli cerca di difendersi, addossando la responsabilità sulla compagna: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato. Essi cercano di discolparsi a vicenda. Dio rivolge la sua parola alla donna: «Che hai fatto?». Anche essa si scusa: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Si arriva, così, all’origine del male. Dio, in fine, rovescia sul serpente la sentenza definitiva che lo colpisce radicalmente. Tutta la Liturgia della Domenica mette l’accento sulla colpa di colui che aveva provocato l’entrata del peccato nel mondo. Perciò la lotta tra il bene e il male è ingaggiata tra Dio e il serpente. L’uomo e la donna sono puniti per la disobbedienza, ma l’istigatore originario «è maledetto», ed è condannato ad una esistenza di umiliazione inarrestabile, destinato alla sconfitta totale. Di fatto si instaura una lotta tra il serpente, la donna e le loro discendenze. La donna lo colpirà alla testa, mentre lui potrà insidiargli solo il calcagno.

L’autore del racconto resta fedele al genere letterario immaginifico e simbolico, il solo adatto a manifestare la ragione profonda che sta all’origine del peccato. Essa si configura come una lotta tra due stirpi. Il serpente sarà sconfitto con lo schiacciamento del capo da parte di un discendente della stirpe della donna.

Noi cristiani conosciamo tutto intero il racconto della Salvezza e sappiamo che l’entrata del peccato nel mondo ci pone già nella prospettiva della Salvezza. Il problema del male, della sofferenza e della morte riceve una prima illuminazione dalla luce che viene dalle sue origini. Appartenevano a Dio, irradiati dalla sua grazia e dalla sua santità. Il mondo di Dio doveva rimanere la sua stabile dimora. Il peccato di origine ce ne ha separati e ci ha fatto precipitare nell’esilio terreno, dove impera l’assenza di Dio e il regno della morte. Ma Dio si è impegnato a ricuperarci al suo amore. Perciò il cielo è rimasto il punto terminale e conclusivo del nostro itinerario umano.

Dio realizza ciò attraverso il Vittorioso nato dalla stirpe della Donna. Egli non ha abbandonato l’uomo peccatore al suo destino di morte, ma lo ha soccorso per mezzo di Cristo, che è stato inviato come Salvatore, con il compito di ricondurci a Dio. Gesù è Via, Verità e Vita che ci consente di ritornare alle origini. La fede cristiana ci assicura che Egli ci riconduce al Padre. È il Figlio di Dio fatto uomo, che per primo e per tutti ha tracciato l’itinerario salvifico. Ma sappiamo che la strada è segnata dalla croce. Perché e per quale motivo ineludibile e sconcertante? Ciò è stato lo scandalo dei Giudei e l’enigma insuperabile dei pagani!

Il dolore, la sofferenza e la morte si erano introdotti nella esistenza umana come conseguenza e punizione del peccato. Dio li ha utilizzati e se ne è servito come mezzi di redenzione e di salvezza. Egli non ha creato una nuova umanità, ma ha utilizzato i residui del mondo sconvolto e disastrato e se ne è servito come mezzi di redenzione e di salvezza per restaurare l’uomo peccatore e renderlo degno di sé nella conquista di una nuova santità.

Tutto ciò ha potuto operare per mezzo di Cristo. In questa prospettiva nuova e definitiva Gesù resta il punto di vista essenziale e indispensabile di tutto l’universo rinnovato. Il peccato era stato il gesto di ribellione, che aveva creato il caos e il sovvertimento di tutta la creazione. L’obbedienza e la sottomissione amorosa a Dio dovevano ricomporre a unità e armonia l’universo sconvolto e restaurare la pace con Dio e tra gli uomini. Questa opera di ricapitolazione radicale e innovatrice poteva essere realizzata solo dall’Uomo-Dio, il solo capace di offrire a Dio un omaggio degno della sua Santità a titolo di dedizione e di gloria motivata da un amore gradito e incondizionato. Questa è l’opera di Salvezza compiuta dal Signore Salvatore.

Ma Gesù non fu compreso dal mondo e fu ostacolato fino in fondo da Satana, il cui errore (tragico per lui) fu quello di non essere stato in grado di capire le vie di Dio. Egli continuò a disseminare l’odio e l’avversione contro Cristo, sollevando una opposizione inconciliabile, secondo la logica mortale del peccato di cui è padre! Si illuse che poteva prevalere coinvolgendolo nella morte e quindi annullando così la sua opera salvifica. Gesù, invece, salvò il mondo con la sua morte redentrice, arrivando così al traguardo della gloriosa Risurrezione.

Satana è un personaggio reale e vero, anzi la personificazione del male. È l’antitesi di Dio e non poteva sospettare le vie misteriose attraverso le quali Dio avrebbe ricomposto il suo Regno, restaurando l’amore e la felicità dei cuori degli uomini. Satana, come dice la Bibbia, è il bugiardo per antonomasia. Egli è stato travolto dall’ambiguità e dall’equivoco del suo potere maligno. Infine fu travolto e annientato insieme alla sua potenza disgregatrice.

Egli continuò a confondere e deviare. Lo fece nei confronti di Cristo, sottoponendolo continuamente a tentazioni e cercando di fuorviare i suoi poteri divini verso scopi ambiziosi e di comodo per il suo prestigio e la sua affermazione, in opposizione alla Volontà del Padre. Il Vangelo è pieno di questi tentativi nefasti e assurdi. Ma Gesù mette in chiaro e denuncia questi giuochi ingenui e orrendi di Satana.

Ne abbiamo degli esempi nel Vangelo di questa Domenica. Trascinati dalle sue suggestioni, gli scribi di Gerusalemme gridano: «Costui è posseduto da Beelzebul e caccia i demoni per mezzo del principe dei demoni» (Mc 22). Gesù risponde, respingendo l’insinuazione orrenda: «Come può satana scacciare satana?… Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi… Se satana si ribella contro satana, non può resistere, ma stà per finire…» (Mc 23-27).

In effetti, la presenza di Cristo coincide con la catastrofe di satana e l’annientamento dei suoi poteri! Gesù denuncia il tentativo di coloro che cercano di identificarlo con Satana, come l’inganno radicale di satana stesso e come la bestemmia contro lo Spirito Santo, che non potrà avere perdono in eterno, e chi avrà l’audacia di compierla «sarà reo di colpa eterna» (Mc 29).

Gesù ha percorso per primo la via di ritorno al Padre e ha coinvolto tutti nello sforzo di riconquista del cielo. Ha dato anche a noi la possibilità di lottare per distruggere il potere di Satana, riconquistare la Santità di Dio e la felicità umana comunicata dall’amore.

Siamo chiamati a seguire Gesù e a dare compimento al disegno di Dio per realizzare finalmente il suo Regno, dove impera finalmente la sua gloria e la felicità di tutti. In ciò risiede il senso e il valore dell’esistenza cristiana. Siamo tutti impegnati a ricostruire il nostro futuro di gloria. La parola d’ordine, che indica il senso dell’esistenza, è questo: SEGUIRE CRISTO!

Per tenere il passo di Gesù è necessario coraggio, decisione, fedeltà, disponibilità, donazione totale, amore puro, sacrificio. L’amore del bene e la santità della vita si offrono a tutti come impegno concreto che riscattano l’esistenza dal male, orientandola a Dio come nostro Sommo Bene. Questo impegno salvifico lo ha percorso il Figlio di Dio, riconducendo l’uomo verso l’Alto nel possesso del fine beatificante.

Il mistero pasquale di Cristo risolve questo problema in maniera definitiva. Il male può essere vinto attraverso un itinerario, in cui il Bene è concretamente riaffermato, superando le vie perverse di cui è disseminata la vita. Dolore, sofferenza e morte possono essere aggrediti e spazzati via con l’impegno di esistenza in cui la volontà del Bene è fatta valere attraverso il sacrificio di tutto ciò che sollecita al male e si contrappone a Dio.

Questa è la via per fare prevalere il bene in tutte le nostre scelte. È poco? Lo sembra in quanto ci pone solo nella possibilità di fronte al bene reale! Ma è molto ed è tutto, quando riflettiamo sulle condizioni di esistenza disastrata in cui nel caso contrario saremmo abbandonati, restando risucchiati inesorabilmente nel vortice del peccato.

Eleviamo il cuore alla speranza e ringraziamo Dio per il dono della salvezza riconquistata. Il mistero pasquale di Cristo ha ricondotto la nostra vita nella prospettiva della verità e dell’amore autentico. Noi che crediamo in Cristo siamo di nuovo sollecitati e attratti dalla luce della Salvezza. Certo, è necessario il coraggio e il deciderci per la Croce di Cristo. Perciò siamo, insieme, ottimisti e realisti! Aprendo il nostro cuore alle sollecitazioni amorose del Cuore di Cristo, avremo anche la forza e il coraggio di rimanere figli fedeli del Padre.

 

L’immagine della domenica 

 

Il confine tra il bene e il male passa all’interno

del nostro cuore.

(San Francesco Di Sales)

 


Preghiere e racconti

 

COMBATTIMENTO, VIGILANZA E DISCERNIMENTO

«158. La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo. Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita.

Il combattimento e la vigilanza

159. Non si tratta solamente di un combattimento contro il mondo e la mentalità mondana, che ci inganna, ci intontisce e ci rende mediocri, senza impegno e senza gioia. Nemmeno si riduce a una lotta contro la propria fragilità e le proprie inclinazioni (ognuno ha la sua: la pigrizia, la lussuria, l’invidia, le gelosie, e così via). È anche una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male. Gesù stesso festeggia le nostre vittorie. Si rallegrava quando i suoi discepoli riuscivano a progredire nell’annuncio del Vangelo, superando l’opposizione del Maligno, ed esultava: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» (Lc 10,18).

Qualcosa di più di un mito

160. Non ammetteremo l’esistenza del diavolo se ci ostiniamo a guardare la vita solo con criteri empirici e senza una prospettiva soprannaturale. Proprio la convinzione che questo potere maligno è in mezzo a noi, è ciò che ci permette di capire perché a volte il male ha tanta forza distruttiva. È vero che gli autori biblici avevano un bagaglio concettuale limitato per esprimere alcune realtà e che ai tempi di Gesù si poteva confondere, ad esempio, un’epilessia con la possessione demoniaca. Tuttavia, questo non deve portarci a semplificare troppo la realtà affermando che tutti i casi narrati nei vangeli erano malattie psichiche e che in definitiva il demonio non esiste o non agisce. La sua presenza si trova nella prima pagina delle Scritture, che terminano con la vittoria di Dio sul demonio. Di fatto, quando Gesù ci ha lasciato il “Padre Nostro” ha voluto che terminiamo chiedendo al Padre che ci liberi dal Maligno. L’espressione che lì si utilizza non si riferisce al male in astratto e la sua traduzione più precisa è «il Maligno». Indica un essere personale che ci tormenta. Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno questa liberazione perché il suo potere non ci domini.

161. Non pensiamo dunque che sia un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea. Tale inganno ci porta ad abbassare la guardia, a trascurarci e a rimanere più esposti. Lui non ha bisogno di possederci. Ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi. E così, mentre riduciamo le difese, lui ne approfitta per distruggere la nostra vita, le nostre famiglie e le nostre comunità, perché «come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1 Pt 5,8).

Svegli e fiduciosi

162. La Parola di Dio ci invita esplicitamente a «resistere alle insidie del diavolo» (Ef 6,11) e a fermare «tutte le frecce infuocate del maligno» (Ef 6,16). Non sono parole poetiche, perché anche il nostro cammino verso la santità è una lotta costante. Chi non voglia riconoscerlo si vedrà esposto al fallimento o alla mediocrità. Per il combattimento abbiamo le potenti armi che il Signore ci dà: la fede che si esprime nella preghiera, la meditazione della Parola di Dio, la celebrazione della Messa, l’adorazione eucaristica, la Riconciliazione sacramentale, le opere di carità, la vita comunitaria, l’impegno missionario. Se ci trascuriamo ci sedurranno facilmente le false promesse del male, perché, come diceva il santo sacerdote Brochero: «Che importa che Lucifero prometta di liberarvi e anzi vi getti in mezzo a tutti i suoi beni, se sono beni ingannevoli, se sono beni avvelenati?».

163. In questo cammino, lo sviluppo del bene, la maturazione spirituale e la crescita dell’amore sono il miglior contrappeso nei confronti del male. Nessuno resiste se sceglie di indugiare in un punto morto, se si accontenta di poco, se smette di sognare di offrire al Signore una dedizione più bella. Peggio ancora se cade in un senso di sconfitta, perché «chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. […] Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male».

La corruzione spirituale

164. Il cammino della santità è una fonte di pace e di gioia che lo Spirito ci dona, ma nello stesso tempo richiede che stiamo con “le lampade accese” (cfr Lc 12,35) e rimaniamo attenti: «Astenetevi da ogni specie di male» (1 Ts 5,22); «vegliate» (cfr Mc 13,35; Mt 24,42); non addormentiamoci (cfr 1 Ts 5,6). Perché coloro che non si accorgono di commettere gravi mancanze contro la Legge di Dio possono lasciarsi andare ad una specie di stordimento o torpore. Dato che non trovano niente di grave da rimproverarsi, non avvertono quella tiepidezza che a poco a poco si va impossessando della loro vita spirituale e finiscono per logorarsi e corrompersi.

165. La corruzione spirituale è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché «anche Satana si maschera da angelo della luce» (2 Cor 11,14). Così terminò i suoi giorni Salomone, mentre il gran peccatore Davide seppe superare la sua miseria. In un passo Gesù ci ha avvertito circa questa tentazione insidiosa che ci fa scivolare verso la corruzione: parla di una persona liberata dal demonio che, pensando che la sua vita fosse ormai pulita, finì posseduta da altri sette spiriti maligni (cfr Lc 11,24-26). Un altro testo biblico usa un’immagine forte: «Il cane è tornato al suo vomito» (2 Pt 2,22; cfr Pro 26,11).

(FRANCESCO, Esortazione apostolica «Gaudete et exsultate» del Santo Padre Francesco sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2018).  

 

È fuori di sé!

E di nuovo si radunò tanta gente che non potevano neppure prender cibo . Come è feconda l’opera del Salvatore; come accorre con gioia la folla, mossa dal desiderio di ascoltare la parola di Dio e dall’ansia di essere da lui salvata! Ai discepoli che erano con lui non resta neppure un momento libero per sedersi a mensa, occupati come sono nell’ufficio di consolare la vita di quei miseri.

Signore Gesù, distribuisci anche ai nostri tempi tanta grazia ai tuoi fedeli, da indurli, col loro desiderio di apprendere, a costringere i loro maestri a tenersi lontano non soltanto dall’attaccamento ai piaceri del senso, ma anche, qualche volta, dallo stesso cibo quotidiano! Ma vediamo come giudichino il maestro, attorniato da questa folla straniera, coloro che stavano più vicino a lui. Continua:

E avendo udito, i suoi uscirono per impadronirsi di lui. Infatti dicevano: — È fuori di sé. Anche Gesù dice altrove: «Un profeta non è disprezzato che in patria e a casa sua» [Mt 13,57]. Per il fatto che una folla estranea corre per vederlo e desidera ascoltarlo quale creatore della vita e sapienza stessa di Dio, i suoi discepoli giudicano che egli, quasi non più padrone dei suoi atti, debba essere impedito nei suoi movimenti. Non riuscivano a comprendere l’altissima sapienza che ascoltavano e credevano che egli parlasse come uno che è fuori di sé. Seguivano il comportamento di quei tali che, non riuscendo ad accettare il mistero della sua carne che doveva essere mangiata e del suo sangue che doveva essere bevuto, dicevano: «Duro è questo linguaggio; chi lo può ascoltare?… E per questo se ne andarono via e più non lo seguivano» [Gv 6,60.66].

Ma, secondo l’allegoria, nel fatto che la folla numerosa accorra a lui, mentre è considerato pazzo dai suoi, è raffigurata la salvezza dei credenti che vengono dal paganesimo, e si sottolinea l’invidiosa perfidia dei giudei, dei quali Giovanni dice: «È venuto nella sua casa, e i suoi non l’hanno accolto» [Gv 1,11]. C’è certamente molta differenza tra coloro che non comprendono la parola di Dio per la lentezza della loro mente, e coloro che a bella posta si sforzano di bestemmiare e perseguitare ciò di cui pure comprendono il significato. Per i primi c’è infatti ancora speranza di salvezza, se riusciranno a comprendere; ma per gli altri che rifiutano di capire per evitare di comportarsi bene e «tramano il male persino nel loro letto» [Sal 36,5], quale speranza di salvezza può esserci ancora, dato che si sforzano di respingere, detestandole e perseguitandole col loro odio, anche queste verità che hanno compreso essere indispensabili alla salvezza della loro anima?

— E se Satana è insorto contro se stesso e si è diviso, non può sussistere, ma ha fine. Così dicendo voleva far intendere, secondo la loro stessa confessione, che non credendo in lui avrebbero scelto il regno del diavolo, il quale certamente non può sussistere diviso contro se stesso. Scelgano perciò i farisei ciò che vogliono. Se Satana non può scacciare Satana, non possono trovare niente da dire contro il Signore; se invece può farlo, stiano ancora di più attenti a sé stessi ed escano dal regno di colui che non può sopravvivere diviso contro se medesimo.

(BEDA IL VENERABILE (673-735), Commento al vangelo di Marco 1, 3, 20-21; 26, in Corpus Christianorum Latinorum, vol. 120, 473-476).

 

Il male

La tragedia infinita del male non sta, per lo più, nel fatto che noi, per natura, vorremmo realmente il male che facciamo a noi stessi ed agli altri; la vera e propria fatalità della nostra cattiveria deriva quasi sempre dal fatto che, per pura angoscia, non riusciamo a mantenere ferma la nostra intenzione originaria e, alla fine, come ipnotizzati, diventiamo infedeli al meglio che è in noi.

(E. DREWERMANN, Il Vangelo di Marco. Parte seconda, 632).

 

Le preghiere della vita

Tu che vuoi che vinciamo il male con il bene e che preghiamo per chi ci perseguita abbi pietà dei miei nemici, Signore, e di me; e conducili con me nel tuo regno celeste. Tu che gradisci le preghiere dei tuoi servi, gli uni per gli altri, ricorda la tua grande benevolenza: abbi pietà di coloro che si ricordano di me nelle loro preghiere e che io ricordo nelle mie. Tu che guardi alla buona volontà e alle opere buone, ricordati, Signore, come se ti pregassero, di quelli che per giusta ragione, per piccola che sia, non dedicano un tempo alla preghiera.

Ricorda Signore, i bambini, gli adulti e i giovani, i maturi e i vegliardi, gli affamati, gli assetati e gli ignudi, i malati, i prigionieri e gli stranieri, i senza amici e i senza sepoltura, i vecchi e i malati, i posseduti dal demonio, i tentati di suicidio, i torturati dallo spirito immondo, i disperati e i dubbiosi nell’anima e nel corpo, i deboli, i sofferenti in prigionie e tormenti, i condannati a morte; gli orfani, le vedove, i viandanti, le partorienti e i lattanti, chi si trascina nella schiavitù, nelle miniere e nei ceppi, o nella solitudine.

(Lancelot Andrewes, in Le preghiere dell’umanità, Broscia 1993).

 

 * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

 

SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO

 Prima lettura:Esodo 24,3-8

In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!». Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».

 

 

v Il capitolo 24 del libro dell’Esodo narra la conclusione dell’alleanza stipulata tra il Signore Dio e Israele con la mediazione di Mosè. Questi, infatti, era stato più volte convocato da Dio sul monte per ricevere le “parole”, riferirle poi al popolo e ritornare da Dio per portare la risposta affermativa del popolo. Anche questa volta troviamo Mosè che «andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!» (24,3).

     Ricevuto l’assenso da parte del popolo, Mosè diede inizio a un rito: prima costruì un altare con dodici stele, una per ogni tribù d’Israele (cf. 24,4), poi fece offrire da alcuni giovani olocausti e sacrifici di comunione in onore del Signore (cf. 24,5). Infine, completò il rito così: «Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!» (24,6-8).

     Attraverso questo rito Mosè vuole quindi esprimere una profonda realtà: egli è situato tra i due contraenti: il primo è Dio, che viene rappresentato dall’altare; il secondo è il popolo, al quale viene di nuovo letto l’intero libro dell’alleanza affinché, in modo consapevole, possa pronunciare il suo sì.

     Che cosa può unire i due contraenti, per suggellare solennemente il patto? Mosè sceglie allora il segno del sangue, il quale, versato per metà sull’altare e per l’altra metà sul popolo, stabilisce tra i due una ”comunione”. Non è difficile, nelle parole del versetto 8, riconoscere l’analogia con il sangue di un’altra vittima, ben più importante di quegli animali sacrificati. Infatti, Gesù Cristo, sull’altare della croce, versa il proprio sangue con cui viene aspersa l’umanità per ritrovare, finalmente la pace e la riconciliazione con il Padre (cf. Col 1,19-20). Il sangue, tra l’altro indica anche un rapporto di “parentela”, che ci viene guadagnato da Gesù Cristo. In virtù di questo sangue, allora, non siamo «più stranieri né ospiti, ma siamo concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19), addirittura figli di adozione di un Padre eccezionale, che per farci entrare nella sua famiglia non ha esitato di mandare sulla croce il suo Figlio Unigenito.

 

Seconda lettura: Ebrei 9,11-15

Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.  Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente? Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.

 

 

v Su questa linea si trova anche lo stupendo brano della Lettera agli Ebrei. L’autore, in poche battute, evidenzia i due grandi mezzi con i quali Cristo entra nel santuario. Egli, venuto in mezzo all’umanità in qualità di sommo sacerdote dei beni futuri per il fatto che ci ha ottenuto la redenzione eterna, entrò nel santuario «attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue» (9,11-12).

     Ma occorre chiarire bene a che cosa si riferisca l’autore con i termini ‘tenda” e “santuario”. Infatti, la tenda, più grande e perfetta, non può essere paragonata con la tenda che Mosè eresse nel deserto per custodire l’arca dell’alleanza, perché designa un’altra realtà, che era ben nota ai primi cristiani. Inoltre essa va intesa in rapporto all’altro mezzo ossia al sangue, e alle ulteriori qualificazioni, su cui bisogna fare delle precisazioni: quando si dice che la tenda è «non costruita da mano di uomo» ci si collega con Mc 14,58, dove i falsi testimoni, durante il processo, accusarono Gesù dicendo: «Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo». Benché tale affermazione si trovi in una deposizione di falsi testimoni, il suo tenore orienta chiaramente a capire che non è questo che l’evangelista considera falso, poiché un confronto con Gv 2,19 conferma che Gesù ha realmente affermato tale “profezia”. La tenda è, quindi, il corpo glorioso di Cristo, nuova creazione realizzata in tre giorni per mezzo dell’effusione del suo sangue.

     La tenda, che è il corpo glorioso di Cristo, consente all’umanità aspersa dal sangue di lui, di entrare in contatto, o meglio in comunione, con il santuario, ossia con la santità e la trascendenza di Dio Padre. Cristo ha, in altre parole, portato a compimento ciò che nell’Antico Testamento era desiderato ma impossibile da realizzare. D’altronde, se Dio si accontentava di considerare efficaci i sacrifici animali, come non doveva reputare “definitivo” quello di suo Figlio? «Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?» (9,13-14).

     In forza di tutto questo, Cristo può ben essere considerato «mediatore di una nuova alleanza, perché, essendo ormai intervenuta la sua morte per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa» (9,15).

 

Vangelo: Marco 14,12-16.22-26

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

 

 

Esegesi 

     Il brano evangelico proposto in quest’anno liturgico ci riconduce immediatamente al contesto insieme semplice e solenne della Pasqua. Così infatti inizia Marco: «Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?» (14,12). La Pasqua rappresentava la festa più importante dell’anno liturgico ebraico: con essa il popolo d’Israele si ricollega ancora oggi all’evento salvifico vissuto con Mosè e ricorda la liberazione dalla schiavitù in Egitto, emblema di liberazione da ogni qualsivoglia forma di schiavitù e dipendenza, sia materiale che spirituale. Fondamentale risulta il patto che viene stipulato: Dio consegna la Legge e s’impegna a essere il Dio d’Israele, svolgendo anche la funzione di padre, di soccorritore, di giudice e medico, di ispiratore e difensore. Da parte sua, Israele promette fedeltà, cioè di eseguire tutto ciò che il Signore comanda. Tale alleanza viene suggellata attraverso il sangue di animali quali vittime offerte in sacrificio, come poi vedremo nella prima lettura.

     Alla festa di Pasqua ne fu associata un’altra, pur importante, tanto da divenire un tutt’uno, ossia la festa degli Azzimi. Quest’ultima era connessa all’usanza primaverile agricola di iniziare l’anno nuovo con il primo raccolto dell’orzo. Perciò tale inizio veniva espresso con l’eliminazione del vecchio lievito (durante la settimana degli azzimi gli alimenti fatti con il lievito vecchio devono sparire, perché si mangia pane non lievitato in attesa del lievito nuovo alla fine della festa). Il tutto confluisce nella cena pasquale, quando si mangia il pane azzimo, unitamente all’agnello, maschio, senza difetto e nato nell’anno (cf. Es 12,5), secondo l’usanza dei pastori per la loro festa di primavera. Con questi cibi, che indicano il rinnovarsi della vita nella tradizione pastorale e in quella agricola, Israele rammenta che la propria origine è legata all’azione salvifica e liberatrice di Dio.

     Il momento in cui i discepoli pongono a Gesù la domanda circa la preparazione della cena pasquale è quello dell’inizio della settimana degli Azzimi, il giorno in cui i sacerdoti, nel tempio, di pomeriggio, immolavano gli agnelli che sarebbero poi stati consumati a Pasqua. Marco, però, mostra che Gesù aveva già pensato al luogo della cena e, addirittura, indica ai discepoli pure a chi devono rivolgersi appena entrati in città: «Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua» (14,13-16). La pericope letta non comprende i versetti che ci presentano lo smascheramento di Giuda (vv. 17-21), per cui si passa subito al racconto dell’istituzione.

     Non è certo facile commentare in poco spazio il racconto dell’istituzione dell’eucaristia, perciò è preferibile soffermarsi sul senso del sangue in rapporto all’alleanza, argomento poi da completare con la trattazione delle altre letture bibliche.

     Che cosa sia il sangue per l’uomo biblico viene chiarito da Lv 17,11.14: «Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita […]; perché la vita di ogni essere vivente è il suo sangue, in quanto sua vita; perciò ho ordinato agli Israeliti: Non mangerete sangue di alcuna specie di essere vivente, perché il sangue è la vita d’ogni carne; chiunque ne mangerà sarà eliminato». Esso è dunque un elemento vitale, necessario all’uomo per la sua vita biologica della quale, in qualche modo, segna anche il limite, la peribilità. Difatti, quando tra i giudei si voleva alludere alla fragilità della condizione umana, si usava spesso la formula basàr wadàm (carne e sangue), come Gesù stesso fece in Mt 16,17. Ma il sangue è anche elemento di trasmissione di vita da un essere a un altro. Se il sangue è legato inscindibilmente alla vita e alla sua trasmissione, l’espressione “versare il sangue”, invece, ha il significato di “uccidere”.

     Tenendo presente tutto ciò, noi ci orientiamo alla contemplazione di Gesù crocifisso, che non ha rifiutato di “versare il sangue”, ossia di venire ucciso per noi, perché egli sapeva bene che dal suo sangue sparso scaturisce l’espiazione e la vita per chi confida in Lui: «E disse loro: Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti » (14,24). Egli, dunque, è libero e sovrano nel suo donarsi a nostro favore, non solo attraverso una morte violenta, che manifesta tutto il livore dei suoi avversari, bensì anche con l’atto di imbandire una mensa con il pane-corpo e il vino-sangue, a sostegno della nostra cronica debolezza. È il banchetto eucaristico, il quale, mentre ci fa ricordare la tragica morte del Giusto per eccellenza, ci restituisce la gioia di “proclamare” la sua risurrezione, per cui egli è presente e vivo in mezzo a noi, sostenendo con fedeltà, il peso dell’alleanza. 

  

L’immagine della domenica

 

 

IL PANE QUOTIDIANO

 

Non cercare di afferrare le stelle, ma svolgi le semplici cose della vita come vengono, sicuro che le funzioni quotidiane e il pane quotidiano sono le cose più dolci della vita.
(Robert Louis Stevenson)

 

Meditazione 

     Sullo sfondo dell’ultima cena di Gesù si stende idealmente la grande scena dell’alleanza al Sinai. Nella cornice aspra e solitaria di quel monte del dialogo tra Dio e Israele si compie un rito, solennemente descritto dal capitolo 24 dell’Esodo. Il sangue è il simbolo della vita, l’altare è il segno della presenza di Dio, il popolo è tutto attorno all’altare come un’unica comunità spirituale. Il sangue sacrificale è versato da Mosè sull’altare e sul popolo, quindi su Dio e sull’uomo. Un patto di sangue lega ormai il Signore e Israele in una relazione di intimità e di amore. È proprio a quelle parole che Gesù rimanda nell’ultima sera della sua vita terrena, quando nella «grande sala con i tappeti» del Cenacolo celebra la cena pasquale coi suoi discepoli.

Il rito pasquale giudaico entrava nel vivo con la benedizione del pane nuovo azzimo, cioè senza lievito (Esodo 12-13). «Sii lodato tu, Signore, Dio nostro, re del mondo, che hai fatto nascere pane dalla terra»; così si esprimeva l’antica benedizione del pane. A quel punto il capofamiglia spezzava la focaccia azzima e la offriva ai commensali in segno di comunione e di benedizione. Gesù, pur seguendo il rituale, ne offre all’improvviso un significato sorprendente e inedito. Decisive, infatti, sono le parole della sua “benedizione del pane”: «Prendete, questo è il mio corpo», che nel linguaggio semitico significano semplicemente e paradossalmente: «Questo sono io stesso». Spezzando quel pane e offrendolo ai commensali Cristo stabiliva con loro un legame di comunione profonda, facendo sì che essi entrassero nella sua stessa vita, nella sua morte e nella sua gloria.

Nel rito giudaico, alla consumazione del pane azzimo e dell’agnello pasquale seguiva la benedizione solenne del calice, che spesso veniva anche inghirlandato. Anche a questo punto Gesù imprime al rituale una svolta con le parole del suo “ringraziamento” (in greco il termine è “eucaristia”): «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti». È qui che riecheggiano le parole di Mosè al Sinai: il vino della Pasqua è ora il sangue di Cristo e il sangue di Cristo crea l’alleanza piena e perfetta tra Dio e l’uomo. È un «sangue versato per molti», espressione orientale per indicare che è il sangue di una persona sacrificata per salvare tutti gli uomini.

Gesù indirizza infine ai suoi discepoli un ultimo messaggio che si affaccia sul suo futuro: egli annunzia che, dopo la cena eucaristica e la pausa buia della morte, berrà il calice del vino nuovo nel regno di Dio. È il banchetto della perfezione celeste cantato da Isaia, durante il quale si «eliminerà la morte per sempre e il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto» (25,8; vedi Apocalisse 21,4). La cena eucaristica che noi oggi celebriamo nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore è, quindi, una pregustazione di un’intimità senza incrinature e senza frontiere con Dio. È per questo che l’eucaristia domenicale è celebrata sempre «nell’attesa della venuta» gloriosa del Cristo. L’eucaristia è espressione della presente vicinanza di Dio al suo popolo, che pellegrina in mezzo alle oscurità della storia, ma è anche squarcio di luce verso la speranza che il dolore e la morte saranno espulsi dalla storia. Quando celebriamo l’eucaristia dovremmo scoprire un bagliore del senso ultimo della vita nostra e dell’umanità, anche se attorno – come in quella sera – calano le tenebre della morte, si consuma il tradimento.

 

Preghiere e racconti

«Amen»

Celebrando l’eucaristia, la comunità ecclesiale partecipa al gesto di autoconsegna e di compassione di Gesù, lo rivive in sé e accetta di lasciarsi plasmare da esso, impegnandosi a trasformare i rapporti tra gli uomini in rapporti di consegna e di compassione.

L’eucaristia porta in sé la forza di cambiare in ciò che essa è coloro che la celebrano e mangiano di quell’unico pane e bevono di quel calice. Una prospettiva che trova il suo fondamento nell’atto stesso di istituzione dell’eucaristia ed appare tipica della patristica e della grande tradizione teologica. Basta ricordare, per tutti, uno straordinario testo di Agostino rivolto ai battezzati che, per la prima volta, si accostavano alla mensa eucaristica:                                                        alla mensa eucaristica:

«Se voi siete il corpo e le membra di Cristo, il vostro mistero è deposto sulla tavola del Signore: voi ricevete il vostro proprio mistero!

Voi rispondete “Amen” a ciò che voi siete, e con la vostra risposta sottoscrivete. Sentite dire: “Corpus Christi, il Corpo di Cristo” e rispondete: “Amen”! Siate dunque membra del corpo di Cristo, affinché il vostro “Amen” sia vero».

(S. AGOSTINO, Sermo 272, in PL 38, 1247).

 

«Tutti furono colmati di Spirito Santo» (At 2,4).

Queste parole di Mosè fanno riferimento alla storia d’Israele, che Dio ha fatto uscire dall’Egitto, dalla condizione di schiavitù, e per quarant’anni ha guidato nel deserto verso la terra promessa. Una volta stabilito nella terra, il popolo eletto raggiunge una certa autonomia, un certo benessere, e corre il rischio di dimenticare le tristi vicende del passato, superate grazie all’intervento di Dio e alla sua infinita bontà.

Allora le Scritture esortano a ricordare, a fare memoria di tutto il cammino fatto nel deserto, nel tempo della carestia e dello sconforto. L’invito di Mosè è quello di ritornare all’essenziale, all’esperienza della totale dipendenza da Dio, quando la sopravvivenza era affidata alla sua mano, perché l’uomo comprendesse che «non vive soltanto di pane, ma … di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3).

Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame, una fame che non può essere saziata con il cibo ordinario. E’ fame di vita, fame di amore, fame di eternità. E il segno della manna – come tutta l’esperienza dell’esodo – conteneva in sé anche questa dimensione: era figura di un cibo che soddisfa questa fame profonda che c’è nell’uomo.

Gesù ci dona questo cibo, anzi, è Lui stesso il pane vivo che dà la vita al mondo (cfr Gv 6,51). Il suo Corpo è il vero cibo sotto la specie del pane; il suo Sangue è la vera bevanda sotto la specie del vino. Non è un semplice alimento con cui saziare i nostri corpi, come la manna; il Corpo di Cristo è il pane degli ultimi tempi, capace di dare vita, e vita eterna, perché la sostanza di questo pane è Amore.

Nell’Eucaristia si comunica l’amore del Signore per noi: un amore così grande che ci nutre con Sé stesso; un amore gratuito, sempre a disposizione di ogni persona affamata e bisognosa di rigenerare le proprie forze. Vivere l’esperienza della fede significa lasciarsi nutrire dal Signore e costruire la propria esistenza non sui beni materiali, ma sulla realtà che non perisce: i doni di Dio, la sua Parola e il suo Corpo.

Se ci guardiamo attorno, ci accorgiamo che ci sono tante offerte di cibo che non vengono dal Signore e che apparentemente soddisfano di più. Alcuni si nutrono con il denaro, altri con il successo e la vanità, altri con il potere e l’orgoglio. Ma il cibo che ci nutre veramente e che ci sazia è soltanto quello che ci dà il Signore! Il cibo che ci offre il Signore è diverso dagli altri, e forse non ci sembra così gustoso come certe vivande che ci offre il mondo.

Allora sogniamo altri pasti, come gli ebrei nel deserto, i quali rimpiangevano la carne e le cipolle che mangiavano in Egitto, ma dimenticavano che quei pasti li mangiavano alla tavola della schiavitù. Essi, in quei momenti di tentazione, avevano memoria, ma una memoria malata, una memoria selettiva.

Ognuno di noi, oggi, può domandarsi: e io? Dove voglio mangiare? A quale tavola voglio nutrirmi? Alla tavola del Signore? O sogno di mangiare cibi gustosi, ma nella schiavitù? Qual è la mia memoria? Quella del Signore che mi salva, o quella dell’aglio e delle cipolle della schiavitù? Con quale memoria io sazio la mia anima?

Il Padre ci dice: «Ti ho nutrito di manna che tu non conoscevi». Recuperiamo la memoria e impariamo a riconoscere il pane falso che illude e corrompe, perché frutto dell’egoismo, dell’autosufficienza e del peccato. Tra poco, nella processione, noi seguiremo Gesù realmente presente nell’Eucaristia. L’Ostia è la nostra manna, mediante la quale il Signore ci dona se stesso.

A Lui ci rivolgiamo con fiducia: Gesù, difendici dalle tentazioni del cibo mondano che ci rende schiavi; purifica la nostra memoria, affinché non resti prigioniera nella selettività egoista e mondana, ma sia memoria viva della tua presenza lungo la storia del tuo popolo, memoria che si fa “memoriale” del tuo gesto di amore redentivo. Amen.

(Dall’Omelia di Papa Francesco per la messa celebrata sul sagrato di San Giovanni in Laterano per il Corpus Domini, 19 giugno 2014).

 

Il nascondimento di Dio nell’eucaristia

Anche in questa lettera voglio tornare per un istante sul tema dell’eucaristia, perché l’eucaristia può definirsi a buon diritto il sacramento in cui Dio si nasconde. Che c’è di più comune di un po’ di pane e di un bicchiere di vino? Che c’è di più semplice delle parole: «Prendete e mangiate, prendete e bevete: questo è il mio corpo e sangue. Fate questo in memoria di me»?.

Mi sono trovato spesso con degli amici intorno a una piccola tavola, ho preso del pane e del vino e ho ripetuto le parole dette da Gesù quando si congedò dai suoi discepoli. Niente di speciale o di spettacolare, nessuna grande folla, nessun canto straordinario, nessuna formalità. Solo alcune persone che mangiano un pezzo di pane che non basta a sfamarli e bevono un sorso di vino che non basta a dissetarli. Eppure… in questo nascondimento è presente Gesù risorto e si rivela l’amore di Dio. Come Dio si fece uomo per noi nel nascondimento, così pure nel nascondimento egli si fa per noi cibo e bevanda. Tanta gente passa vicino all’eucaristia senza curarsene, eppure l’eucaristia è il più grande avvenimento che possa accadere tra noi uomini.

Durante il mio soggiorno all’‘Arca’, in Francia, ho scoperto la stretta relazione tra il nascondimento di Dio nell’eucaristia e il suo nascondimento nel popolo di Dio. Mi ricordo che una volta madre Teresa mi disse che non si può vedere Dio nei poveri, se non lo si vede nell’eucaristia. Quelle parole mi sembrarono allora un po’ esagerate; ma ora che ho passato un anno intero con gli handicappati comincio a capirne meglio il significato. Non è realmente possibile vedere Dio negli esseri umani, se non lo si vede nella realtà nascosta del pane che scende dal cielo. Fra gli esseri umani puoi vedere tipi di ogni specie: angeli e demoni, santi e bruti, anime caritatevoli e malevoli maniaci del potere. Tuttavia, è solo quando hai imparato per esperienza personale quanto Gesù si curi di te e quanto egli desideri essere il tuo cibo quotidiano, è solo allora che impari anche a vedere ogni cuore come dimora di Gesù. Quando il tuo cuore è toccato dalla presenza di Gesù nell’eucaristia, ricevi occhi nuovi, capaci di conoscere la stessa presenza nel cuore degli altri. I cuori si parlano fra loro. Il Gesù che è nel nostro cuore parla al Gesù che è nel cuore dei nostri fratelli e delle sorelle. È questo il mistero eucaristico di cui noi facciamo parte. Noi vogliamo vedere dei risultati e  se possibile – vogliamo vederli subito. Ma Dio opera in segreto e con pazienza divina. Partecipando all’eucaristia riuscirai un po’ alla volta a comprendere questa verità. E allora il tuo cuore potrà cominciare ad aprirsi al Dio che soffre in chi ti sta intorno.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 78).

 

Parola ed eucaristia

L’eucaristia, con tutta la realtà sacramentale che da essa promana, è memoria della Pasqua di Gesù, non nel senso psicologico del ricordo, sulla misura e secondo le leggi della memoria umana, bensì nella luce della potenza dell’amore divino manifestato nella Pasqua. In Gesù morto e risorto Dio proclama e attua la sua amorosa volontà di vicinanza all’uomo, di presenza nella storia, di perdono del peccato, di vittoria sulla morte, di inizio di una vita nuova. L’eucaristia è la concreta modalità storica con cui l’amore onnipotente di Dio, culminante nella Pasqua di Gesù, raggiunge il suo intento di rendersi realmente presente e operante in ogni momento della storia umana.

L’eucaristia è presenza viva e reale di Gesù, del suo mistero, del suo sacrificio, della sua Pasqua. Tutta la vicenda di Gesù, dall’incarnazione del Figlio preesistente alla dolorosa umiliazione del Crocifisso, alla glorificazione del Cristo risuscitato e datore dello Spirito, si ripropone a noi nell’eucaristia, in forza dell’interiore efficacia del sacrificio pasquale.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2009, 142-143).

 

Diventare segni di Cristo amore

Lo Spirito di Cristo che ha parlato per mezzo dei profeti, e che nel Cristo morto e risorto ha ridato al mondo la speranza dell’amore, è presente e operante nella Chiesa, che non cessa di ripresentare all’uomo d’oggi l’istanza suprema della verità e della carità [ … ].

La Chiesa, infatti, ha la missione, umile e ardente, povera e fiduciosa insieme, di riconciliare con l’amore la società e di restituire l’unità al mondo.

Noi Chiesa, come comunione d’amore, come luogo della perfetta amicizia, siamo chiamati, partendo dalla nostra povertà, fragilità, dal nostro peccato, a essere principio da cui procede la vita autentica del singolo; siamo chiamati come Chiesa – perché Gesù ci ama – a essere il noi del mondo riconciliato che ha come legge suprema, e in un certo senso unica, la carità, cioè l’amore gratuito e autentico.

Questa Chiesa, di cui siamo grati di essere membra e servitori, ci presenta Gesù, esempio e fonte di carità perfetta principalmente nell’eucaristia. È Gesù nell’atto di dare la vita per te che ti viene proposto nel mistero della Cena.

O Gesù, Cristo amore,

manifesta la tua presenza in mezzo a noi!

Fa’ che ci accostiamo alla tua cena

non come Giuda, che pensa ai suoi trenta denari:

ma come Pietro che ti dice: Signore, purificami interamente!

Lavami piedi, testa e tutte le membra,

purifica ogni mio amore sbagliato,

rendimi capace di amore vero.

Fammi, o Signore, segno di unità

nella tua Chiesa;

fammi strumento della tua pace nel mondo!

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2009, 156-157).

 

Il mistero del corpo e del sangue

Concluse le antiche feste della Pasqua che si celebravano per ricordare l’antica liberazione dalla schiavitù d’Egitto del popolo di Dio, Cristo è passato alla nuova Pasqua e ha voluto che la chiesa la celebrasse in memoria della sua redenzione. Al posto della carne e del sangue dell’agnello sostituì il mistero del suo corpo e del suo sangue. […] Egli stesso spezza il pane che porge ai discepoli per dimostrare che il suo corpo sarà in futuro spezzato non contro la sua volontà, ma, come dice altrove, egli ha il potere di offrire la sua vita da se stesso e di riprenderla di nuovo (cfr. Gv 10,18). E prima di spezzare il pane, lo benedice con la grazia sicura del sacramento perché insieme con il Padre e lo Spirito santo ricolma di grazia divina la natura umana che ha assunto per sottostare alla passione. Benedisse dunque il pane e lo spezzò perché volle sottomettersi alla morte in modo da dimostrare che in lui era veramente la potenza della divina immortalità e insegnare così che il suo corpo ben presto sarebbe risorto dalla morte. «E preso un calice, rese grazie, lo diede loro e tutti ne bevvero» (Mc 14,23). Nell’imminenza della passione rese grazie dopo aver preso il pane. […] E lui che non meritò affatto di soffrire, umilmente nella sofferenza benedisse per mostrare come deve comportarsi chiunque non soffre per propria colpa. Infatti, nel momento stesso in cui per compiere ogni giustizia si addossa il peso della nostra colpa, rende ugualmente grazie al Padre proprio per mostrare in che modo dobbiamo sottometterci alla correzione. «E disse loro: Questo è il mio sangue della nuova alleanza, versato per molti» (Mc 14,24). Poiché il pane rinvigorisce il corpo, mentre il vino agisce sul sangue, misticamente il primo si riferisce al corpo di Cristo e il secondo al suo sangue. Ma poiché è necessario che noi restiamo in Cristo e Cristo in noi, il vino del Signore si mischia nei calici con l’acqua, dato che Giovanni testimonia: «Le acque sono i popoli» (Ap 17,15). A nessuno è consentito di fare offerta di sola acqua o solo vino, come neppure di grano che non sia stato impastato con l’acqua per fame pane. E questo perché non si pensi che il corpo debba essere separato dalle membra, o che Cristo abbia sopportato la passione non per amore della nostra redenzione, o che noi possiamo essere salvati e offerti al Padre senza la passione di Cristo.

(BEDA IL VENERABILE, Commento al vangelo di Marco 4, COL 120, pp. 611-612).

 

La singolarità dell’eucaristia

«Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro» (Gv 21, 18). Questa comunione di mensa tra Gesù e i suoi, anche se non è un’eucaristia propriamente detta, riprende il vocabolario eucaristico del Nuovo Testamento e ci invita a riflettere sulla cena e sull’eucaristia.

L’eucaristia, così come è accolta nella fede della Chiesa, presenta un aspetto sorprendente, che sconvolge l’intelligenza e commuove il cuore. Siamo di fronte a uno di quei gesti abissali dell’amore di Dio, davanti ai quali l’unico atteggiamento possibile all’uomo è una resa adorante piena di sconfinata gratitudine.

L’eucaristia non è solo la modalità voluta da Gesù per rendere perennemente presente l’efficacia salvifica della Pasqua.

In essa non è presente soltanto la volontà di Gesù che istituisce un gesto di salvezza; in essa è presente semplicemente (ma quali misteri in questa semplicità!) Gesù stesso.

Nell’eucaristia Gesù dona a noi se stesso. Solo lui può lasciare in dono a noi se stesso, perché solo lui è una cosa sola con l’amore infinito di Dio, che può fare ogni cosa.

Certo, occorre badare anche agli strumenti umani, di cui Gesù si serve. Poiché la Pasqua rivela e insieme celebra l’amore di Dio che attrae l’uomo a sé, troviamo plausibile che Gesù nell’ultima cena abbia valorizzato la tensione alla comunione con Dio espressa nel gesto del mangiare insieme e soprattutto abbia fatto riferimento al valore commemorativo dell’alleanza, che era proprio della liturgia pasquale veterotestamentaria. È quindi normale e doveroso che la Chiesa, nel configurare concretamente la liturgia eucaristica, abbia assunto nel passato e debba assumere e aggiornare continuamente le espressioni celebrative provenienti dalla nativa spiritualità umana e dalla liturgia veterotestamentaria.

Ma tutto questo è percorso e oltrepassato da una novità assoluta: è tale la forza di camminare manifestata e attuata nel sacrificio della croce, che essa rende presente nell’eucaristia il Cristo stesso nell’atto di donarsi al Padre e agli uomini per restare sempre con loro.

Gesù, che già in molti modi attrae a sé la Chiesa con la forza del suo Spirito e della sua Parola, suscita nella Chiesa la volontà di obbedire al suo comando: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19).

E quando la Chiesa, nell’umiltà e nella semplicità della sua fede, obbedisce a questo comando, Gesù, con la potenza del suo Spirito e della sua Parola, porta l’attrazione della Chiesa a sé al livello di una comunione così intensa, da diventare vera e reale presenza di lui stesso alla Chiesa: il pane e il vino diventano realmente, per quella misteriosa trasformazione che è chiamata transustanziazione, il corpo dato e il sangue versato sulla croce; nei segni conviviali del mangiare, bere, festeggiare si attua la reale comunione dei credenti col Signore; le funzioni sacerdotali si svolgono non per designazione o delega umana, ma per una reale assunzione dei ministri umani nel sacerdozio di Cristo, secondo le modalità stabilite da Cristo stesso.

L’eucaristia si presenta così come la maniera sacramentale con cui il sacrificio pasquale di Gesù si rende perennemente presente nella storia, dischiudendo a ogni uomo l’accesso alla viva e reale presenza del Signore.

Si tratta di prodigi che fioriscono su quel prodigio di inesauribile amore, che è il mistero pasquale. D’altra parte si potrebbe dire che si tratta della cosa più semplice: Dio, nell’eucaristia di Gesù, prende sul serio la propria volontà di alleanza, cioè la decisione di stare realmente con gli uomini, di accoglierli come figli, di attrarli nell’intimità della sua vita.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol. II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94).

 

Non di solo pane vive l’uomo

Che cosa voleva dire Gesù affermando che l’uomo non vivrà di solo pane? Perché usa questa espressio­ne al futuro invece che al presente? Il Maestro ci vuo­le far comprendere che la vita vera, quella che atten­de l’uomo, non la puoi conseguire con i beni mate­riali. Essi tutt’ al più permettono alla carne e al sangue di sopravvivere nel frammento di tempo presente, ma senza le prospettive che si aprono sull’ eternità. Se vuoi vivere in pienezza, oltre i limiti dello spazio e la corrosione del tempo, devi nutrirti di un altro pane, il pane della vita, che viene dal cielo e non dalla ter­ra: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51). Caro amico, la realtà del nostro tempo è sotto i tuoi occhi. Guardati intorno ed esamina la tua situazione esistenziale. Quante sono le persone che hanno fame del pane vivo che dà la vita eterna? Quanti sono quelli che sentono il bisogno di cercare Gesù e di scoprirlo nella loro vita? I beni materiali so­no divenuti una droga, di cui hanno continuamente bisogno, ma che li irretiscono nella tela che il ragno infernale tende instancabilmente. Non attendere che la clessidra del tempo si sia svuotata del tutto per ren­derti conto dell’inganno mortale.

(Padre Livio FANZAGA, Fa’ posto a Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 9).

 

Nel tuo tabernacolo

Signore Gesù,

c’è grande silenzio nel tuo tabernacolo.

Dov’è la tua luce? Chi sente la tua voce?

Chi ode i tuoi passi?

Nel tuo tabernacolo, o Signore,

tutto è immobile, tutto è silenzio, tutto è mistero.

Eppure, ogni giorno la tua parola invita alla lode.

Eppure, ogni giorno, tu imbandisci una mensa

per coloro che ti amano.

Davanti al tuo santo altare

quanti hanno ritrovato la fede,

quanti hanno riacquistato la grazia,

quanti si sono votati alla tua causa!

Tu solo conosci l’intima storia di innumerevoli anime

che qui, dinanzi a te,

hanno espresso la loro gioia,

hanno versato calde lacrime,

hanno ritrovato fiducia e speranza.

Nel tuo tabernacolo, o Signore, c’è pienezza di vita.

Tu parli, o Signore.

Tu ascolti, o Signore,

Tu ami, o Signore.

 

Preghiera

Signore Gesù,

con gioia ci prostriamo in adorazione presso il tuo santo altare.

Con te, o Gesù,

tutto è merito di vita eterna,

tutto è luce che rischiara la vita,

tutto aiuta a proseguire il cammino,

tutto è dolcezza… anche il dolore!

Tu sei fonte copiosa di purissima gioia.

Gioia che cominciamo a gustare qui,

nella valle del pianto,

e che sarà piena quando ci svelerai la tua gloria:

al gaudio della fede subentrerà quello della visione.

Signore Gesù,

tu, pane vivo disceso dal cielo, ci basti.

Non abbiamo bisogno di altri.

Tu sei la nostra vita.

Tu sei la nostra gioia.

Tu sei il nostro tutto.

Ci affidiamo a te:

nostro conforto,

nostro gaudio,

nostra pace.

(Paolo VI).

    

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO (B)

SANTISSIMA TRINITA’

Prima lettura:Deuteronomio 4,32-34.39-40

Mosè parlò al popolo dicendo:  «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi? Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».

 

 

v La pericope conclude il primo dei tre grandi discorsi di Mosè che costituiscono il libro del Deuteronomio, la «seconda Legge». Siamo nella pianura di Moab, alle porte della Terra promessa, e Mosè ricapitola per il popolo sempre riottoso la storia meravigliosa della liberazione dall’Egitto, con l’esortazione ripetuta a osservare la Legge, non per paura dei castighi o per sottomissione a un Dio tiranno, ma per risposta d’amore a un’elezione d’amore. In questi versetti, si ribadisce l’unicità di Dio e del popolo che Egli si è scelto, non per merito degli Israeliti ma per amore gratuito. Il motivo classico dell’elezione di Israele e della sua particolarità (vv. 32-38) è parallelo a quello dell’unicità del Dio di Israele (v. 39).

     vv. 32-34 – Una serie di domande retoriche, che si ricollegano a quelle con cui il discorso di Mosè si era aperto (4, 7-8), riassume le grandi opere di Dio, dalla creazione (v. 32) alla teofania di Sinai (v. 33) fino ai prodigi e ai miracoli dell’Esodo (v. 34). Nel confronto con gli altri popoli, che seguono altri dèi, è affermata la grandezza del Dio d’Israele; e insieme la familiarità di Dio con il suo popolo, che può ascoltarne la voce e restare in vita (cf. Es 24,11).

     L’espressione «con mano potente e braccio teso» (v. 34), che rappresenta Dio alla guida del popolo nell’attraversamento del mare e del deserto, riprende la tipologia regale egiziana; ve ne è traccia anche nelle lettere di El-Amarna.

     vv. 39-40 – Sono espressioni caratteristiche del Deuteronomio. La proclamazione del monoteismo (v. 39) corrisponde allo Shemà Israel (Deut 6,4: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno»); l’incentivo materiale per incoraggiare l’osservanza della Legge (v. 40 «perché sii felice…») riecheggia i motivi della letteratura sapienziale.

 

Seconda lettura: Romani 8,14-17

Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

 

 

v Il brano prosegue nella spiegazione dei frutti dello Spirito, iniziata con Rm 8,1-11: lo Spirito non solo dà la vita nuova, ma rende figli adottivi e eredi di Dio. Appare qui per la prima volta nella lettera il tema dell’adozione.

     «Spirito che rende figli adottivi» (pneuma yiothesì as) è un termine sconosciuto alla traduzione dei LXX, e non proviene quindi a Paolo dall’Antico Testamento, ma piuttosto dal linguaggio giuridico del mondo greco-romano. In Israele infatti l’istituto dell’adozione non era pratica abituale tranne rari casi riguardanti schiavi o mèmbri della famiglia. Il concetto di figliolanza divina è tuttavia uno sviluppo dell’idea veterotestamentaria dell’elezione di Israele (cf. Deut 4,34), che viene chiamato più volte «il mio primogenito» (cf. Es 4,22; Is 1,2; Ger 3.19-22; 31,9; Os 11,1) anche se sempre come entità collettiva di popolo e non come singolo individuo credente.

     Per Paolo, il dono dello Spirito inserisce nella famiglia di Dio, è quindi alla base dell’adozione, costituisce propriamente la figliolanza.

     v. 14 – «guidati dallo Spirito di Dio»: si tratta di ciò che i teologi chiameranno la «grazia preveniente», l’influenza attiva dello Spirito nella vita cristiana.

     vv. 15-16- Introdotti da gar (infatti), questi due versetti spiegano il v 14. I cristiani non hanno ricevuto uno spirito da schiavi, ma da figli: Paolo gioca sul senso della parola pneuma, che indica sia lo Spirito di Dio sia il nostro spirito. L’affermazione fondamentale di questo passo è siamo figli di Dio.                                                         

     Anche l’espressione aramaica Abbà, come modo di rivolgersi a Dio, è assente dall’Antico Testamento, dove la relazione filiale (cf. Deut 14 1) è sempre corporativa e non individuale, se si eccettua l’invocazione di Sl 89,27 (Sap 2,16 è in un contesto descrittivo). Qui viene subito tradotta (Abbà ho patèr), in quanto Paolo si rivolge a una comunità di cristiani provenienti dai Gentili.

     v. 17 – Vengono ora le conseguenze escatologiche di questa condizione, ovvero l’eredità che assimila al Cristo, partecipi della sua passione e della sua gloria. Ritornano qui i verbi caratteristici in Paolo composti con la particella syn (con).

 

Vangelo: Matteo 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva

loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

 

 

Esegesi

     I versetti conclusivi del Vangelo di Matteo rivolgono lo sguardo alla continuazione dell’opera nella comunità cristiana, rendendo esplicito il mandato missionario all’esterno di Israele, altrove solo accennato.

     v. 16 – L’apertura alle genti era già indicata nel v. 7: «vi precede in Galilea». Il ritorno dei discepoli in Gallica, determinato forse anche dalla necessità di allontanarsi da Gerusalemme per non essere arrestati subito dopo la Crocifissione, assume un significato teologico visto come obbedienza all’invito di Gesù, e un valore simbolico in rapporto alla missione. La Galilea infatti, abitata in prevalenza da pagani, rappresenta «i popoli» del v. 19. Già vi si era ritirato Gesù dopo l’arresto di Giovanni, e da lì aveva cominciato la sua predicazione (Mt 4, 12-17; cf. anche Is 8, 23: «la Galilea delle Nazioni», Gelil haggoîm).

     Gli Undici si recano dunque all’appuntamento, su un monte che è difficile identificare: il monte delle Beatitudini? il Tabor? Anche qui prevale il valore simbolico del «monte», collegato spesso nell’Antico come nel Nuovo Testamento a teofanie o rivelazioni.

     v. 17 – La prostrazione (prosekynesan, latino adoraverunt) manifesta il riconoscimento della divinità di Gesù, una fede post-pasquale matura, che presuppone una comunità già consapevole e strutturata, e probabilmente un’epoca posteriore. L’affermazione infatti è subito mitigata dalla seguente: «alcuni però dubitavano», che ci riporta all’esperienza immediata delle apparizioni del Risorto: cfr. Mc 16, 8.11.13; Lc 24,37; Giov  21,12).

     vv. 18-19 – Gesù si identifica con il «Figlio dell’Uomo» del libro di Daniele (Dan 7, 13-14), cui viene attribuito un potere eterno e universale: «tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano». Da questo potere universale discende la missione universale degli Apostoli: limitata a Israele nei giorni del suo ministero terreno (cf. 15, 24), ora la predicazione della parola di Gesù è estesa a tutti i popoli.

     Segue il comando specifico di «battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», presente solo qui in forma così definita e completa. Il battesimo indica l’atto di iniziazione nella comunità cristiana, e presuppone significati presenti anche altrove nel Nuovo Testamento: la purificazione con l’acqua e il pentimento (cf. il battesimo di Giovanni Battista), ma anche il perdono e la professione di fede in Gesù come Messia e Signore. Più che una formula liturgica (che si precisa più tardi) si tratta qui di una descrizione di ciò che il battesimo opera nel neofita: l’espressione «nel nome…» descrive l’entrata in comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito. Il concetto di Dio Trinità è antico quanto la comunità cristiana, quale la conosciamo dagli scritti del Nuovo Testamento: cf. 1Cor 12, 4-6; 2Cor 13,13; 1Pt 1,2; 1Giov 3,23-24. Questo naturalmente lascia impregiudicata la delicata questione di quanto si possa retroproiettare alla comunità immediatamente post-pasquale una consapevolezza trinitaria formulata secondo la mentalità post-nicena.

     v. 20 – Il comando dato già ai discepoli di proclamare l’avvento del Regno (10,7) e guarire gli infermi (10,1.8) è completato, ora che Gesù non svolge più il suo ministero in mezzo a noi, da quello di «insegnare». Il passo appartiene agli stadi più recenti della tradizione, quando il ritardo della parusia richiedeva anche un’assicurazione e un conforto per i discepoli rimasti in attesa: «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (cf. 18,20). La fine tante volte annunciata (cf. 13,39.49; 24,3) non è evidentemente più sentita così vicina.

 

L’immagine della domenica

 
 

 

Non un Dio pensato

 

L’uomo non si deve accontentare di un Dio pensato, perché così,

quando il pensiero ci abbandona,

ci abbandona anche Dio.

(Meister Eckhart)

 

Meditazione

La Bibbia, pur affermando che Dio è sempre Altro e Oltre il nostro pensiero, si presenta come “rivelazione”, cioè come uno squarcio nel velo di silenzio che nasconde il mistero divino.

La rivelazione cristiana apre ulteriori orizzonti in questa luce invalicabile, che «l’uomo non può vedere continuando a restare in vita», come si ripete spesso nell’Antico Testamento. Appare, così accanto al Padre, il Figlio inviato nel mondo e lo Spirito vivificatore, e nel nome della Trinità noi apriamo questa e ogni altra liturgia, concludiamo ogni preghiera ed è benedetta ogni persona e cosa. Due sono i testi dell’odierna liturgia che esaltano questa rivelazione nuova del mistero divino. Il primo è tratto dal capitolo ottavo della lettera ai Romani, il vertice del pensiero paolino ove con un suggestivo contrappunto l’apostolo presenta due “spiriti”.

C’è innanzitutto lo spirito dell’uomo, cioè il principio del suo esistere, del suo operare, del suo amare e del suo peccare, della sua libertà e della sua schiavitù. Ma c’è anche uno Spirito di Dio, principio del suo amore e della sua comunicazione all’uomo. Ebbene, questo Spirito divino penetra nello spirito dell’uomo, lo invade come un vento che tutto avvolge e permea. La creatura che accoglie e si lascia conquistare da questo Spirito viene trasformata da figlio dell’uomo in figlio di Dio, diventa membro della sua famiglia, è ufficialmente dichiarato coerede del primogenito di Dio, il Cristo.

Paolo, quindi, proclama una vera e propria ammissione dell’uomo all’interno della vita divina. Questo ingresso avviene attraverso il battesimo, visto come radice dell’intera vicenda cristiana, e attraverso l’ascolto obbediente della Parola.

È ciò che è lapidariamente formulato nella scena finale del Vangelo di Matteo che oggi domina la nostra liturgia. In Gallica non si danno solo appuntamento il Cristo risorto e gli Undici, ma il mistero di Dio e quello della Chiesa.

Da un lato, infatti, il Cristo glorioso appare nello splendore più puro della sua divinità; egli è per eccellenza “superiore” e trascendente rispetto a tutta la realtà creata: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra». Davanti a lui l’uomo si prostra in adorazione. La sua presenza non è come quella di una persona terrena. È una presenza che dev’essere scoperta attraverso la via della fede, ed è per questo che conosce anche l’esitazione, l’oscurità, il dubbio.

D’altra parte, però, Cristo è vicino, è «con noi tutti i giorni» e in tutte le epoche storiche. Soprattutto è operante all’interno della Chiesa a cui comunica la sua Parola e la sua grazia salvifica. Infatti alla Chiesa egli affida il compito di annunziare all’umanità «tutto ciò che egli ha comandato», coinvolgendo ogni uomo nella salvezza: l’«ammaestrate» della versione del Vangelo, che oggi leggiamo, nell’originale suona meglio come un «fare discepoli» i popoli.

Per la Bibbia, quindi, il mistero infinito di Dio non respinge ma accoglie in sé i nostri piccoli misteri, immergendoli nella sua luce infinita. Non dobbiamo, perciò, considerare Dio solo come oggetto di discussione filosofica e teologica, non dobbiamo solo parlare in modo distaccato e freddo di Dio e della Trinità. Dobbiamo anche parlare a Dio in un dialogo di intimità e di vita che lui stesso ha inaugurato.

 

Preghiere e racconti

 

L’amore per Dio (e per Gesù)

Nella vita di un essere umano l’amore per Dio si manifesta inizialmente come attaccamento alla propria religione con i suoi simboli, le sue dottrine, le sue liturgie, i suoi rappresentanti. Così uno dice di amare Dio e ama la messa, la Bibbia, il papa, le dottrine del catechismo. Quando più però si procede nella maturità spirituale, tanto più ci si rende conto di come la divinità si trovi ben di là degli insegnamenti e dei riti veicolati dalla propria religione e da ogni altra religione istituita. Si entra allora in una condizione che i mistici descrivono come “tenebre, nube oscura, notte, nulla, vuoto, nube della non conoscenza”, a indicare quel superamento dell’intelletto e di ogni altra facoltà umana che è l’esito a cui approda la vita spirituale autentica, intensa non come adesione a dottrine ma come ricerca della verità e del bene. Gregorio di Nissa, vescovo e teologo del IV secolo, individua il prototipo del credente in Mosè che sale in solitudine il Monte Sinai e che afferma che Mosè venuto a contatto con l’invisibile divenne egli stesso invisibile, insegnandoci così a “credere che là è la divinità, dove non giunge la comprensione”. Gregorio sostiene che Dio si sperimenta là dove non giunge la comprensione ovvero che fino a quando vi è comprensione non vi può essere adeguata esperienza di Dio. Agostino, un secolo dopo, dirà la stessa cosa: “Se hai capito, non è Dio”. Se infatti Dio venisse compreso dalla nostra ragione, essa lo com-prenderebbe, lo prenderebbe con sé, oppure sotto di sé come evoca il verbo inglese understand, facendo così venir meno ciò a cui il termine Dio rimanda, cioè l’assolutezza del Principio che governa tutte le cose, nostra ragione compresa. In ogni atto di comprensione è insito sempre un senso di dominio, ed è quindi evidente che non si può capire Dio, siamo piuttosto noi a essere “capiti” dalla sua realtà, nel senso fisico di compresi e di contenuti cui rimanda il participio presente “capiente”. Una delle più significative espressioni al riguardo è attribuita all’apostolo Paolo nel discorso all’Areopago di Atene: “In lui viviamo, ci moviamo ed esistiamo” (Atti 17,28). Solo a patto di entrare in questa concezione del divino ci si riferisce sensatamente alla realtà ontologica che intende esprimere dicendo “Dio”.         

(Vito MANCUSO, Io amo – Piccola filosofia dell’amore, Milano, 2014, 71-72).

  

Trinità

La tradizione cristiana ha interpretato la visita dei tre messaggeri ad Abramo e Sara presso la quercia di Mamre (Gn 18, 1-15) come una rivelazione del Mistero trinitario.

In questa icona, vediamo la premurosa ospitalità di Abramo che imbandisce un banchetto e che offre il vino dell’esultanza ai tre gloriosi pellegrini. Sara, mentre prepara il pane, spia i Tre dall’interno della tenda. Il banchetto di Abramo diventa la tavola eucaristica. La sterilità e la mortalità di Abramo e di Sara, attraverso l’amore dell’ospite accolto, si trasformano nella fecondità e nella vitalità di una generazione che non avrà fine.

Le tre figure angeliche rappresentano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: sono assorti in una santa conversazione che non li rende inaccessibili e lontani, ma che coinvolge Abramo e noi. Dietro le spalle della figura centrale, identificata con il Figlio, sta la quercia di Mamre: è l’albero della vita, l’albero della croce. Dietro le spalle di Abramo sta il monte Moria: è il monte del sacrificio di Isacco, del sacrificio di Cristo.

Tu,

o Padre,

sei circondato dal silenzio.

La bellezza del tuo volto

nascosto

il Figlio e lo Spirito                                                               

lo rivelano al mondo…

C’è un posto vuoto alla vostra mensa,

un posto su cui sostare,

contemplare.

Abramo e Sara,

voi li avete visti,

ma noi li possiamo ospitare.

Come Maria,

noi possiamo contenere l’Incontenibile.

O dolce Trinità,

comunione perfetta di amore,

accoglimi nel tuo grembo

e rendimi degno di sedere

alla tua tavola

per sempre.

 

La famiglia, icona della Trinità

Il Signore benedica tutti i vostri progetti, miei cari fratelli. Il Signore vi dia la gioia di vivere anche l’esperienza parrocchiale in termini di famiglia. Prendiamo come modello la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito che si amano, in cui la luce gira dall’uno all’altro, l’amore, la vita, il sangue è sempre lo stesso rigeneratore dal Padre al Figlio allo Spirito, e si vogliono bene.

Il Padre il Figlio e lo Spirito hanno spezzato questo circuito un giorno e hanno voluto inserire pure noi, fratelli di Gesù. Tutti quanti noi.

Quindi invece che tre lampade, ci siamo tutti quanti noi in questo circuito per cui e la parrocchia e le vostre famiglie prendano a modello la Santissima Trinità.

Difatti la vostra famiglia dovrebbe essere l’icona della Trinità. La parrocchia, la chiesa dovrebbe essere l’icona della Trinità.

Signore, fammi finire di parlare, ma soprattutto configgi nella mente di tutti questi miei fratelli il bisogno di vivere questa esperienza grande, unica che adesso stiamo sperimentando in modo frammentario, diviso, doloroso, quello della comunione, perché la comunione reca dolore anche, tant’è che quando si spezza, tu ne soffri.

Quando si rompe un’amicizia, si piange. Quando si rompe una famiglia, ci sono i segni della distruzione.

La comunione adesso è dolorosa, è costosa, è faticosa anche quella più bella, anche quella fra madre e figlio; è contaminata dalla sofferenza. Un giorno, Signore, questa comunione la vivremo in pienezza. Saremo tutt’uno con te.

Ti preghiamo, Signore, su questa terra così arida, fa’ che tutti noi possiamo già spargere la semente di quella comunione irreversibile, che un giorno vivremo con te.

(Don Tonino Bello)

 

Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito

La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.

Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui. Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose. Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito. Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6]. Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio. A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6). Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.

(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp. 88-90).

 

S. Agostino e il mistero della Santissima Trinità

Si racconta che un giorno S. Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa, era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità. Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia, vide un bambino che faceva una cosa molto strana: aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino, andava al mare, prendeva l’acqua e la versava nel fosso. E così di seguito. E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede: «Che cos’è che stai facendo?» E il ragazzo: «Voglio mettere tutta l’acqua del mare in questo fosso». S. Agostino sentendo ciò rispose: «Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare. Ma come puoi pensare di riuscirci? Il mare è immenso, e il fosso è piccolo. E poi, con questo cucchiaino non basta la tua vita». E il ragazzo, che era un angelo mandato da Dio, gli rispose: «E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l’infinito mistero di Dio?». Agostino capì che Dio è un grande mistero. E capì che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore, che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.

 

La mia vita

Sul suo stemma vengono conservati le teste di due mori incoronati, che da circa mille anni, figurano di regola nello stemma dei vescovi di Frisinga. Non è ben chiaro il loro significato, ma per lui sono (Cf. E. BIANCO, Benedetto XVI lavoratore nella vigna, 57.) “l’espressione dell’universalità della Chiesa, che non conosce nessuna distinzione di razza e di classe” (J. RATZINGER, La mia vita, 120-121). La conchiglia è per Ratzinger anzitutto il segno dell’identità dei pellegrini in cammino. Ma essa ricorda a Ratzinger anche la leggenda secondo cui Agostino, che si lambiccava il cervello attorno al ministero della Trinità, avrebbe visto sulla spiaggia un bambino mentre giocava con una conchiglia, con cui attingeva l’acqua del mare per travasarla in una piccola buca. Gli sarebbe stato detto che questa buca poteva contenere l’acqua del mare, quanto la sua ragione poteva afferrare il mistero di Dio (Cf. J. RATZINGER, La mia vita, 121). “Per questo la conchiglia rappresenta per me un richiamo al mio grande maestro, Agostino, un richiamo al mio lavoro teologico e, insieme, alla grandezza del mistero, che è sempre molto più grande di tutta la nostra scienza”.

(J. RATZINGER, La mia vita, 121).

 

La Trinità, rivelazione della nuova creazione

     Sebbene la santa Trinità abbia donato la salvezza al genere umano mediante un solo e unico amore degli uomini, la fede ci dice che ciascuna delle persone divine vi porta il suo contributo particolare. Il Padre si riconcilia con noi, il Figlio opera la riconciliazione e lo Spirito santo fu il dono accordato a quelli che erano divenuti amici di Dio. Il Padre ci ha liberati, il Figlio fu il prezzo del nostro riscatto; quanto allo Spirito è la libertà. Infatti, «dove è lo Spirito del Signore, là è la libertà» (2Cor 3,l7), dice Paolo. Il Padre ci ha creati, il Figlio ci ha riplasmati, e lo Spirito ci fa vivere (cfr. Gv 6,63). Nella creazione iniziale la Trinità era adombrata come in figura: il Padre plasmava, il Figlio era la mano del plasmatore, lo Spirito il soffio che ispirava la vita. Ma perché dico questo? Soltanto nella nuova creazione ci sono rivelate le distinzioni esistenti in Dio. In effetti, in ogni tempo Dio ha riversato i suoi doni sulla creazione, ma non se ne trova nessuno che si riferisca solo al Padre, solo al Figlio o solo allo Spirito, ma tutti sono comuni alla Trinità, poiché con una sola potenza, una sola provvidenza e una sola attività creatrice essa realizza ogni cosa.

     Nel disegno di salvezza con il quale ha restaurato il nostro genere umano rinnovandolo, è la Trinità intera che ha voluto la mia salvezza e che provvede alla sua realizzazione, ma non è la Trinità intera che l’ha realizzata. Suo artefice non è né il Padre né lo Spirito santo, ma solo il Figlio. È lui che ha assunto la carne e il sangue, è lui che è stato percosso, ha patito è morto ed è risorto. Per questi misteri la natura umana ha ripreso vita ed è stato istituito il battesimo, nuova nascita e nuova creazione. Ecco perché nel battesimo bisogna invocare Dio distinguendo le persone – il Padre, il Figlio, lo Spirito santo – che solo questa nuova creazione ci ha rivelato.

(NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo 2, PG 150.532C-533A).

 

Ancora e sempre sul monte di luce 

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                 

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D.M. Turoldo).

 

Oggi è la Domenica della Santissima Trinità

La luce del tempo pasquale e della Pentecoste rinnova ogni anno in noi la gioia e lo stupore della fede: riconosciamo che Dio non è qualcosa di vago, il nostro Dio non è un Dio “spray”, è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: «Dio è amore». Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi. Gesù cammina con noi nella strada della vita.

La Santissima Trinità non è il prodotto di ragionamenti umani; è il volto con cui Dio stesso si è rivelato, non dall’alto di una cattedra, ma camminando con l’umanità. E’ proprio Gesù che ci ha rivelato il Padre e che ci ha promesso lo Spirito Santo. Dio ha camminato con il suo popolo nella storia del popolo d’Israele e Gesù ha camminato sempre con noi e ci ha promesso lo Spirito Santo che è fuoco, che ci insegna tutto quello che noi non sappiamo, che dentro di noi ci guida, ci dà delle buone idee e delle buone ispirazioni.

Oggi lodiamo Dio non per un particolare mistero, ma per Lui stesso, «per la sua gloria immensa», come dice l’inno liturgico. Lo lodiamo e lo ringraziamo perché è Amore, e perché ci chiama ad entrare nell’abbraccio della sua comunione, che è la vita eterna.

(PAPA FRANCESCO, ANGELUS, Piazza San Pietro Solennità della Santissima Trinità Domenica, 26 maggio 2013).

 

Preghiera

O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente, per stabilirmi in te, immobile e tranquilla come se l’anima mia già fosse nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace né farmi uscire da te, o mio Immutabile; ma ogni istante mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero! Pacifica l’anima mia; fanne il tuo cielo, la tua dimora prediletta e luogo del tuo riposo. Che, qui, io non ti lasci mai solo; ma tutta io vi sia,  ben desta nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice.          

O amato mio Cristo, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne! […]. Ma sento tutta la mia impotenza; e ti prego di rivestirmi di te, di immedesimare la mia anima a tutti i movimenti dell’anima tua, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che una irradiazione della tua Vita vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima a ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e starmene sotto il tuo grande splendore. O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione.

O Fuoco consumatore, Spirito d’amore, discendi in me, perché faccia dell’anima mia quasi una incarnazione del Verbo! Che io gli sia prolungamento di umanità in cui egli possa rinnovare tutto il suo mistero. E tu, o Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura, coprila della tua ombra, non vedere in essa che il Diletto nel quale hai posto le tue compiacenze.

O miei ‘Tre’, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra Luce l’abisso delle vostre grandezze.

(ELISABETTA DELLA TRINITÀ, Scritti spirituali di Elisabetta della Trinità, Brescia 1961, 73s.).

    

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Bertorello.

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

SANTISSIMA TRINITÀ

 

DOMENICA DI PENTECOSTE

 Prima lettura: Atti 2,1-11

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio». 

 

v In questo brano degli Atti degli Apostoli sono presentati i due propulsori dello sviluppo della chiesa: lo Spirito e la Parola. La parola dell’apostolo arriva, provoca la fede e converte, perché è stata preceduta dallo Spirito, che solo apre l’orecchio all’ascolto.

     Al tempo di Gesù la Pentecoste, o festa delle settimane — antica festa agricola (offerta delle messi), celebrata sette settimane dopo la pasqua (cf. Lv 23,15-21) — aveva assunto anche il senso di commemorazione dell’alleanza del Signore e di celebrazione della legge mosaica. Poiché il giorno inizia la sera del giorno prima, l’espressione «stava compiendosi il giorno di Pentecoste» indica la mattinata inoltrata che conclude il periodo della festività. Ma essa indica anche una realtà più profonda: il «giorno» atteso dai profeti sta per finire; la storia è al suo giro di boa, perché il vero Israele incomincia a separarsi dal giudaismo incredulo.

     La scena descritta nel testo ricalca la teofania del Sinai (Es 19,16-22): l’antica alleanza è sostituita dalla nuova alleanza. Tuoni, lampi, rumore di tromba, fumo indicano la presenza del Signore nel Sinai e la «discesa» dello Spirito sugli apostoli.

     L’antica legge diventa «nuova» per la presenza dello Spirito, che non solo istruisce ma anche dà la forza di compiere quello che la legge richiede.

     Il «fuoco» che purifica e illumina (cf. Is 6,6), indica una trasformazione interiore nei discepoli di Gesù, i quali, da poveri e incolti pescatori, diventano annunciatori del vangelo: il messaggio più sconvolgente che gli uomini possano sentire (At 1,8).

     La presenza di tutte le nazioni a Gerusalemme ha un significato più profetico che storico: la Chiesa oltrepassa i confini del giudaismo; ad essa tutti possono accedere per sperimentare i frutti della Nuova Alleanza promessa non solo per Israele, ma per tutti.

     Il miracolo delle lingue può essere una semplice glossolalia (gesti simbolici tradotti da un interprete in un linguaggio comprensibile) o un apprendimento (o una traduzione simultanea) di nuove lingue (così si potrebbe comprendere come i presenti sentano parlare le loro lingue). Ma Luca potrebbe essere stato influenzato dalla tradizione giudaica secondo la quale nel Sinai la voce di Dio si era divisa in 70 lingue, perché la capissero tutte le 70 nazioni della terra: con il dono dello Spirito la Chiesa si apre all’evangelizzazione di tutte le nazioni del mondo.

 

Seconda lettura: Galati 5,16-25

Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.

 

 

v La figliolanza abramitica, o divina, non è possibile senza lo Spirito. È solo lo Spirito che fa di un uomo della carne, un uomo dello Spirito. L’uomo della carne è l’uomo schiavo dei propri vizi: fornicazione, impurità, libertinaggio (disordini sessuali), idolatria, stregoneria (corruzione del culto), inimicizia, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidia (peccati contro la comunità), ubriachezza, orge (disordini dei sensi), e cose del genere (l’elenco è solo indicativo). L’uomo vorrebbe compiere la legge, che porta alla vita, ma non ha in se stesso la forza di compierla, e si trova a fare quello che non vuole (v. 17): gli è impedito l’esercizio della vera libertà, quella di amare rinnegando se stesso per perdersi nell’altro.

     In questa battaglia contro l’uomo della carne che vorrebbe tornare a prevalere nella vita del cristiano, s’inserisce lo Spirito Santo. La sua presenza è indicata dai frutti: il punto d’arrivo dell’attività vivente dello Spirito, che sollecita la nostra libera cooperazione. Essi sono: amore, gioia, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (V. 22). Sono gli atteggiamenti dell’uomo nuovo, liberato dalle sue paure e dal suo egoismo, in grado di amare gratuitamente.

     La comunità, in questa battaglia, può anche dire di no alla forza liberante dello Spirito, e ricadere nelle antiche opere della carne.

 

Vangelo: Giovanni 15,26-27; 16,12-15

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

 

Esegesi 

     I due brani del vangelo sono tratti dal secondo discorso d’addio di Gesù durante la cena pasquale. Gesù parla della testimonianza che i suoi discepoli daranno nel contesto della persecuzione. Essi non saranno mai soli, perché egli manderà il Consolatore, o meglio il Difensore, che procede dal Padre. La forza necessaria, infatti, per testimoniare la verità su Cristo durante il giudizio verrà dallo Spirito di verità, che in modo silenzioso continua l’opera di Gesù che è la Verità.

     Lo Spirito ricorderà loro quel che hanno visto e udito fin da principio. La testimonianza oculare non basta per comprendere Gesù. È solo lo Spirito che dona gli occhi della fede per capire chi veramente egli sia: «per il momento non siete capaci di portarne il peso» (16,12).

     Lo Spirito è una guida «a tutta la verità» (16.13): Gesù è la verità, ma è anche la «via», che conduce alla verità. Lo Spirito dopo la risurrezione sarà il maestro interiore che li accompagnerà alla comprensione sempre più profonda di Gesù. Anche i vangeli sono stati scritti sotto la guida di questo Spirito, e così pure la comprensione del loro significato nelle comunità del futuro avverrà sotto l’azione dello Spirito.

     Come Gesù ci ha detto tutto quello che ha udito dal Padre, così anche lo Spirito non dà del suo, ma di quello che riceve da Gesù (v. 13b). Egli rivela e glorifica Gesù, mettendo in evidenza la sua natura trascendente (v. 14): questa è anche l’opera d’ogni discepolo dopo la Pasqua.

 

Meditazione 

«Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2,1). Erano passati cinquanta giorni dalla Pasqua e centoventi seguaci di Gesù (i Dodici con il gruppo dei discepoli assieme a Maria e alle altre donne) stavano radunati, come ormai abitualmente facevano, nel cenacolo. Dalla Pasqua in poi, infatti, non avevano smesso di ritrovarsi assieme per pregare, ascoltare le Scritture e vivere in fraternità. Questa tradizione apostolica non si è mai più interrotta, da allora ad oggi. Non solo a Gerusalemme ma in tante altre città del mondo i cristiani continuano tutt’ora a radunarsi «tutti assieme nello stesso luogo» per ascoltare la Parola di Dio, per nutrirsi del pane della vita e per continuare a vivere assieme nella memoria del Signore.

Quel giorno di Pentecoste fu decisivo per i discepoli a motivo degli eventi che accaddero sia dentro il cenacolo che fuori. Narrano gli Atti degli Apostoli che «venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso» sulla casa dove si trovavano i discepoli; fu una sorta di terremoto che si udì in tutta Gerusalemme, tanto da richiamare molta gente davanti a quella porta per vedere cosa stesse accadendo. Apparve subito che non si trattava di un normale terremo­to. C’era stata una grande scossa, ma non era crollato nulla. Da fuori non si vedevano i «crolli» che stavano avvenendo dentro. All’interno del cenacolo, infatti, i discepoli sperimentarono un vero e proprio ter­remoto, che pur essendo fondamentalmente interiore, coinvolse visibil­mente tutti loro e lo stesso ambiente. Videro delle «lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue». L’immagine del terremoto accompagna spesso nella Bibbia l’avvento di Dio, il suo irrompere improvviso nella storia. In Es 19 ad esempio la teofania di Dio si accompagna al fuoco e al tremare del monte, da cui Dio dona la legge al suo popolo (Es 19,16-19). Immagine che scuote, interrompendo lo scorrere abituale del tempo e delle azioni.

Quell’esperienza fu per tutti loro – dagli apostoli, ai discepoli, alle donne – un’esperienza che cambiò profondamente la loro vita. Forse ricordarono quello che Gesù aveva detto loro nel giorno dell’Ascensio­ne: «voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto» (Lc 24,49); e compresero le altre parole che Gesù aveva detto loro: «È bene per voi che io me ne vada; perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito» (Gv 16, 7). Quella comunità aveva bisogno della Pentecoste, ossia di un evento che sconvolgesse profondamente il cuore di ciascu­no. In effetti, una forte energia li avvolse e una specie di fuoco li divo­rava nel profondo; la paura crollò e cedette il passo al coraggio, l’indif­ferenza lasciò il campo alla compassione, la chiusura fu sciolta dal calore, l’egoismo fu soppiantato dall’amore. Era la prima Pentecoste. La chiesa iniziava il suo cammino nella storia degli uomini.

Il terremoto interiore che aveva cambiato il cuore e la vita dei disce­poli non poteva non avere riflessi anche al di fuori del cenacolo. Quella porta tenuta sbarrata per cinquanta giorni «per paura dei giudei», finalmente viene spalancata e i discepoli, non più ripiegati su se stessi, non più concentrati sulla loro vita, iniziano a parlare alla numerosa folla sopraggiunta. La lunga e dettagliata elencazione di popoli fatta dall’autore degli Atti sta a significare la presenza del mondo intero davanti a quella porta: sono ebrei da Roma; assieme ci sono anche dei proseliti, ossia pagani avvicinatisi alla Legge di Mosè. Ebbene, mentre i discepoli di Gesù parlano, tutti costoro li intendono nella propria lin­gua: «Li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio», dicono stupiti. Si potrebbe dire che questo è il secondo miracolo della Pentecoste.

Da quel giorno lo Spirito del Signore ha iniziato a superare limiti che sembravano invalicabili; sono quei limiti che legano pesantemente ogni uomo e ogni donna al luogo, alla famiglia, al piccolo contesto in cui si è nati e vissuti. E soprattutto terminava il dominio incontrastato di Babele sulla vita degli uomini. Il racconto della Torre di Babele ci mostra gli uomini protesi a costruire un’unica città che con la sua torre dovrebbe giungere sino al cielo; è l’opera delle loro mani, è il vanto di tutti i costruttori. Ma l’orgoglio proprio mentre li univa, subito li travol­se; non si compresero più l’uno accanto all’altro e si dispersero su tutta la terra (Gn 11,1-9). La dispersione della Torre di Babele è un racconto antico; ma in esso si descrive la vita ordinaria dei popoli sulla terra, spesso divisi tra loro e in lotta, tesi a sottolineare quel che divide piut­tosto che quello che li unisce. Ciascuno è rivolto solo ai propri interes­si, senza badare al bene comune.

La Pentecoste pone termine a questa Babele di uomini in lotta solo per se stessi. Lo Spirito Santo effuso nel cuore dei discepoli dà inizio ad un tempo nuovo, il tempo della comunione e della fraternità. È un tempo che non nasce dagli uomini, sebbene li coinvolga; e neppure sgorga dai loro sforzi, pur richiedendoli. È il tempo che viene dall’alto, da Dio. Dal cielo – narrano gli Atti – scese una pioggia come di lingue di fuoco le quali si posarono sul capo di ciascuno dei presenti: era la fiamma dell’amore che brucia ogni asperità e lontananza; era la lingua del Vangelo che varca i confini stabiliti dagli uomini e tocca i loro cuori perché si commuovano. Il miracolo della comunione inizia proprio a Pentecoste, dentro il cenacolo e davanti alla sua porta. È qui – tra il cenacolo e la piazza del mondo – che inizia la Chiesa: i discepoli, pieni di Spirito Santo, vincono la loro paura e iniziano a predicare. Gesù aveva detto loro: «Quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà a tutta la verità» (Gv 16,13). Lo Spirito è venuto, e da quel giorno continua a guidare i discepoli per le vie del mondo.

La solitudine e la guerra, la confusione e l’incomprensione, l’odio e la lotta fratricida, non sono più ineluttabili nella vita degli uomini, perché lo Spirito è venuto a «rinnovare la faccia della terra» (Sal 103,30). L’apostolo Paolo, nella Lettera ai Galati, esorta i credenti a camminare «secondo lo Spirito per non essere portati a soddisfare il desiderio della carne… sono ben note le opere della carne: fornicazio­ne, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere» (Gal 5, 19-21). E aggiunge: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22). Di questi frutti ha bisogno il mondo intero. La Pentecoste è l’inizio della Chiesa, ma anche l’inizio di un nuovo mondo. Ebbene, anche in questo inizio del millennio il mondo sta in attesa di una nuova Pentecoste. Lo Spirito Santo, come quel giorno di Pentecoste, è effuso anche su di noi perché usciamo dalle nostre gret­tezze e dalle nostre chiusure e comunichiamo al mondo l’amore del Signore. Anche a noi è data in dono la «lingua» del Vangelo e il «fuoco» dello Spirito, perché mentre comunichiamo il Vangelo al mondo scal­diamo il cuore dei popoli perché si raccolgano attorno al Signore.

 

L’immagine della domenica

Mont Saint Michel (Normandia – Francia) – 2015


ALI DI LIBERTÀ 

Dammi occhi nuovi, dammi ali di libertà,

e attenderò con te, nella speranza,

il nuovo Giorno.

(Domenica GHIDOTTI)

 

Preghiere e racconti

La Pentecoste

La struttura dell’icona ricorda l’Ultima Cena: allora gli apostoli si stringevano intorno a Gesù per accogliere il suo testamento, ora si raccolgono intorno a Maria per perseverare nella preghiera, in attesa dello Spirito Paraclito. La scena si svolge nella stessa stanza che vide Cristo istituire l’Eucaristia, la «camera alta» di Sion. La comunione di quanti credono in Cristo è custodita dalla sollecita premura di Maria, beata perché per prima ha creduto all’adempimento della parola del Signore (cf Lc 1,45). La Madre di Dio e degli uomini, che ha conosciuto la potenza dello Spirito nell’Annunciazione, rassicura gli apostoli turbati per il forte vento che si abbatte gagliardo e che riempie tutta la casa dove si trovano. Le lingue di fuoco che appaiono, che si dividono e che si posano su ciascuno di loro non provocano nessun incendio, ma illuminano le loro menti e accendono nei loro cuori il fuoco dell’Amore.

In questa Chiesa nascente, lo Spirito Santo riveste di forza gli apostoli, ricorda loro tutte le parole di Cristo e li rende testimoni del Vangelo sino agli estremi confini della terra.

Maria, nuovamente visitata dalla fecondità dello Spirito Santo, diviene Madre della Chiesa, rifugio mirabile dei discepoli che invocano la sua materna protezione.

 

Aprirci al “di più”

Il dono che il Signore vuol farci e che da sempre ci ha fatto con il suo Spirito è di capire che l’uomo si realizza andando oltre se stesso, che si realizza donandosi.

Dio non esiste se non nella relazione di donazione del Padre al Figlio, e non è pensabile al di fuori dello Spirito che è effervescenza continua di amore. Egli è fuoco che brucia senza consumare, è al di là del mistero stesso del fuoco, pur essendo fuoco.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 54).

 

Sii un vero amico

Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno. L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale. Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio. L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte. In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte. Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami. È questo il centro del messaggio di Gesù.

Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata. Al contrario, è cresciuta.

È questo il significato dell’invio dello Spirito. Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’amicizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte. È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro. Sai dall’esperienza quanto questo sia reale. Coloro che hai amato profondamente e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze reali.

Osa amare ed essere un vero amico. L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condurrà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).

 

 Leggenda cristiana

Una suggestiva leggenda cristiana racconta che durante l’ascensione, Gesù gettò un’occhiata verso la terra che stava piombando nell’oscurità. Soltanto alcune piccole luci brillavano timidamente sulla città di Gerusalemme. L’arcangelo Gabriele, che era venuto ad accogliere Gesù, gli domandò: Signore, che cosa sono quelle piccole luci? Sono i miei discepoli in preghiera, radunati intorno a mia madre. È il mio piano, appena rientrato in cielo, e di inviare loro il mio spirito, perché quelle fiaccole tremolanti diventino un incendio sempre vivo che infiammi d’amore, a poco a poco, tutti i popoli della terra.

L’arcangelo Gabriele osò replicare: e che farai, Signore, se questo piano non riesce?

Dopo un istante di silenzio, il Signore gli rispose dolcemente: “ma io non ho un altro piano…”.

Il piano di Gesù continua. Proprio nella sua terra, alcuni di questi piccoli fuochi continuano ad ardere alimentati dal coraggio dalla passione di uomini che hanno dedicato la vita per questo.

 

“Noi abbiamo suonato il flauto e voi non avete danzato”

E’ il 14 luglio.

Tutti si apprestano a danzare.

Dappertutto il mondo, dopo anni dopo mesi, danza.

Ondate di guerra, ondate di ballo.

C’è proprio molto rumore.

La gente seria è a letto.

I religiosi dicono il mattutino di sant’Enrico, re.

Ed io, penso

all’altro re.

Al re David che danzava davanti all’Arca.

Perché se ci sono molti santi che non amano danzare,

ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare,

tanto erano felici di vivere:

Santa Teresa con le sue nacchere,

San Giovanni della Croce con un Bambino Gesù tra le braccia,

e san Francesco, davanti al papa.

Se noi fossimo contenti di te, Signore,

non potremmo resistere a questo bisogno di danzare

che irrompe nel mondo,

e indovineremmo facilmente

quale danza ti piace farci danzare

facendo i passi che la tua Provvidenza ha segnato.

Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza

della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da condottiero,

di conoscerti con aria da professore,

di raggiungerti con regole sportive,

di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato.

Un giorno in cui avevi un po’ voglia d’altro

hai inventato san Francesco,

e ne hai fatto il tuo giullare.

Lascia che noi inventiamo qualcosa

per essere gente allegra che danza la propria vita con te.

(…) Per essere un buon danzatore, con Te come con tutti,

non occorre sapere dove la danza conduce.

Basta seguire,

essere gioioso,

essere leggero,

e soprattutto non essere rigido.

Non occorre chiederti spiegazioni

sui passi che ti piace fare.

Bisogna essere come un prolungamento,

vivo ed agile, di te.

E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l’orchestra

scandisce.

(…)

Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito,

e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica;

dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza,

che la tua Santa Volontà

è di una inconcepibile fantasia,

e che non c’è monotonia e noia

se non per le anime vecchie,

che fanno tappezzeria

nel ballo gioioso del tuo amore.

Signore, vieni a invitarci.

(…)

Se certe arie sono spesso in minore, non ti diremo

che sono tristi;

se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo

che sono logoranti.

E se qualcuno ci urta, la prenderemo in ridere;

sapendo bene che questo capita sempre quando si danza.

Signore, insegnaci il posto

che tiene, nel romanzo eterno

avviato fra te e noi,

il ballo singolare della nostra obbedienza.

Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni;

in essa quel che tu permetti

da suoni strani

nella serenità di quel che tu vuoi.

Insegnaci a indossare ogni giorno

la nostra condizione umana

come un vestito da ballo che ci farà amare da te,

tutti i suoi dettagli

come indispensabili gioielli.

Facci vivere la nostra vita,

non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato,

non come un match dove tutto è difficile,

non come un teorema rompicapo,

ma come una festa senza fine

in cui l’incontro con te si rinnova,

come un ballo,

come una danza,

fra le braccia della tua grazia,

nella musica universale dell’amore.

Signore, vieni a invitarci.

(MADELEINE DELBRÊL, La danza dell’obbedienza, in Noi delle strade, Torino, Gribaudi, 1988, 86-89.

 

Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo

La solennità di questo giorno ci riempie di gioia non soltanto perché riconosciamo la sua importanza, ma anche perché assaporiamo la sua dolcezza. Ciò che essa fa risaltare è l’amore. Ora, non vi è nel linguaggio umano una parola più dolce a udirsi, un sentimento più delizioso da coltivare. Quest’amore non è altro che la bontà di Dio, la sua benevolenza,

il suo amore. O piuttosto, Dio in persona è la bontà, la benevolenza, l’amore. E questa bontà si identifica al suo Spirito, che è esso stesso Dio. […] E secondo il disegno di Dio, in principio, lo Spirito di Dio ha riempito l’universo, «dispiegando la sua forza da un confine all’altro del mondo e governando ogni cosa con dolcezza» (Sap 8,1). Ma per quanto riguarda la sua opera di santificazione, è a partire da questo giorno di Pentecoste che lo Spirito del Signore ha riempito l’universo. Poiché è oggi che questo dolce Spirito è stato inviato dal Padre e dal Figlio per santificare ogni creatura secondo un nuovo disegno, un modo nuovo, una manifestazione nuova della sua potenza e della sua forza. Certo, in precedenza «lo Spirito non era stato ancora dato, perché Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7,39). […] Ma oggi, discendendo dalla dimora celeste, lo Spirito si è dato ai mortali con tutta la sua ricchezza, la sua fecondità. Così questa rugiada divina si stende su tutta la terra, nella diversità dei suoi doni spirituali. Ed è giusto che la pienezza delle sue ricchezze sia discesa dall’alto dei cieli per noi, perché pochi giorni prima, grazie alla generosità della nostra terra, il cielo aveva ricevuto il Signore. La nostra terra non ha mai prodotto nulla di più dolce, di più piacevole, di più delizioso, di più santo. […] «Lo Spirito di Cristo riempie l’universo, lui che tiene insieme tutti gli esseri, sente tutte le voci» (Sap 1,7). Ovunque lo Spirito agisce, ovunque lo Spirito prende la parola. Certamente prima dell’Ascensione lo Spirito fu dato ai discepoli, quando il Signore disse loro: «Ricevete lo Spirito santo» ( Gv 20,23). Ma in nessun modo, prima di Pentecoste, non si udì la voce dello Spirito santo, non si vide risplendere la sua potenza. E i discepoli di Cristo non giunsero a conoscerlo; non erano stati ancora riconfermati, la paura li obbligava ancora a nascondersi in una stanza a porte chiuse. Ma a partire da quel giorno, «la voce del Signore domina le acque, il Dio della gloria scatena il tuono, la voce del Signore spezza i cedri e tutti gridano: Gloria!» (cfr. Sal 28 [29] , 3.5.9).

(AELREDO DI RIEVAULX, Omelia sulla settuplice voce dello Spirito 1, in Sermones inediti, a cura di di C.H. Talbot, Roma 1952 pp. 112-114).

 

Preghiera allo Spirito Santo

Spirito Santo,

eterno Amore,

che sei dolce Luce

che mi inondi

e rischiari la notte del mio cuore;

Tu ci guidi qual mano di una mamma;

ma se Tu ci lasci

non più d’un passo solo avanzeremo!

Tu sei lo spazio che l’essere mio circonda

e in cui si cela.

Se m’abbandoni

cado nell’abisso del nulla,

da dove all’esser mi chiamasti.

Tu a me vicino più di me stessa,

più intimo dell’intimo mio.

Eppur nessun Ti tocca

o Ti comprende

e d’ogni nome infrangi le catene.

Spirito Santo, eterno Amore.

(Edith Stein [S. Teresa Benedetta della Croce]).

 

 * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER APPROFONDIRE:

PASQUA PENTECOSTE (B)

ASCENSIONE DEL SIGNORE

 Prima lettura:Atti 1,1-11

 

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».       

 

 

v Se il Vangelo di Marco è molto rapido ed essenziale nel parlarci dell’ascensione di Gesù al cielo, il libro degli Atti tenta di «descrivercela» quasi visivamente nella seconda parte del brano oggi propostoci (At 1,6-11).

     Stando al racconto di Luca, sembra che si tratti dell’ultima «cristofania», concessa da Gesù agli Apostoli, i quali peraltro si dimostrano ancora impreparati alla comprensione del mistero di Cristo: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (v. 6). Pur dopo la risurrezione, essi pensano terrenisticamente! Gesù supera la loro incomprensione, rimandando alla discesa dello Spirito la piena illuminazione del suo mistero ed anche della loro missione in ordine a quel mistero: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (1,7-8).

     Come si vede, anche qui siamo davanti ad un mandato «missionario»,di tipo universalistico: si parte, com’era ovvio e doveroso, dalla patria stessa di Gesù, per arrivare «fino agli estremi confini della terra». Il libro degli Atti, conforme a questo comando di Gesù ci illustrerà successivamente le varie tappe di questa evangelizzazione, che Paolo porterà perfino a Roma, nel cuore cioè dell’immenso impero che dominava tutto il mondo allora conosciuto.

     Anche qui la «forza» per adempiere questo compito immane non viene garantita dalle deboli ed impari risorse umane dei discepoli, ma dalla irruzione e dalla continua assistenza dello Spirito. Nel capitolo 2 del libro degli Atti, infatti, Luca ci descriverà la impetuosa discesa dello Spirito e la sua potenza di «trasformazione» dell’anima e dei sentimenti degli Apostoli: da timidi ed impauriti com’erano, diventeranno intrepidi e inarrestabili annunciatori e testimoni del Risorto. È ancora Cristo che «opera insieme a loro»: non direttamente, ma mediante lo Spirito che egli invierà da parte del Padre (cf. At 2,32-33).

     Dopo aver dato loro il suo «mandato» missionario, Gesù «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (At 1,9). Abbiamo già detto della tristezza degli Apostoli nel vedersi «sottrarre» il Risorto. Quello che conta, però, non è la sua presenza fisica, ma la convinzione di fede che egli sarà sempre con i suoi, con la potenza dello Spirito, sino al momento del suo «ritorno» glorioso, come proclamano i due misteriosi personaggi «in vesti candide»: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

     In questo intervallo di tempo, che è già durato più da 2000 anni e non sappiamo per niente quanto durerà ancora, tocca ai suoi discepoli, cioè alla sua Chiesa, allargare gli «spazi» della sua signoria, rendergli testimonianza, facendolo conoscere ed amare da tutti gli uomini.

     È così che il suo «regno» si stabilisce anche lungo la storia, fra gli uomini, per mezzo di altri uomini.

     È a livello di queste considerazioni che possiamo comprendere la «indispensabilità» della Chiesa nel mondo, in attesa del «ritorno» glorioso di Cristo: anzi, proprio per «preparare» e predisporre tutti e tutto, anche il convivere sociale, a quell’incontro con il Signore dell’universo, essa è destinata!

 

Seconda lettura: Efesini 4,1-13

 

 Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose. Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.

           

 

v A proposito della Chiesa, perché compia la sua missione di testimonianza nel mondo, anzi di rappresentanza «vicaria» di Cristo, e in tal modo anticipare addirittura la venuta del «regno», dice delle cose stupende il brano della lettera agli Efesini, oggi proposta alla nostra considerazione.

     Due mi sembrano le idee di fondo che guidano il testo, troppo ricco per entrare nei suoi dettagli esegetici.

     La prima è quella della «unità» di quel «corpo» meraviglioso che è la Chiesa: in essa, proprio per questa esigenza fondamentale, ci deve essere circolazione di «amore», che si manifesta nell’umiltà e nella capacità di «sopportazione» reciproca, allo scopo di «conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3).

     Ci sono troppi motivi di «unione» che obbligano i cristiani a fare «comunione» fra di loro. Una Chiesa «divisa» non rende buona testimonianza né a Cristo, né allo Spirito, che è essenzialmente «Spirito di amore»! E perciò è destinata ad essere fatalmente inerte, se non controproducente. «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo...» (4,4-5).

     La seconda idea, che viene espressa in questo testo e non è per niente antitetica alla prima, è che nella Chiesa, pur nella più rigorosa «unità», c’è una «molteplicità» di «doni», di «carismi» o di «ministeri» che dir si voglia, che permettono, anzi esigono, che tutti diano il loro contributo per la crescita armonica di quell’unico «corpo», di cui tutti siamo «membra».

     E la cosa che più sorprende è che proprio il Cristo, «asceso al di sopra di tutti i cieli» (4,10), ha voluto concedere questi «doni» alla sua Chiesa: essi, pertanto, non sono tanto delle acquisizioni nostre, che nascono da «predisposizioni» di natura e perciò da rivendicare a tutti i costi, quanto «doni» che vengono dall’alto, da esercitare perciò con grande senso di «responsabilità» per il bene di tutti. «A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo» (4,7). Si noti l’espressione «a ciascuno di noi»: perciò ogni battezzato non può non avere uno spazio nella Chiesa!

     A modo di esemplificazione, vengono poi ricordati alcuni «ministeri» tra i più fondamentali nella Chiesa: «Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (4,11-13).

     Come si vede, i «ministeri» qui ricordati non sono dati per esercitare un «dominio» nella Chiesa, come talvolta, da qualcuno si è pensato o si potrebbe pensare, ma un «servizio» di crescita comune. Il traguardo per tutti, siano essi apostoli, o profeti, o pastori, o qualsiasi altra cosa, è quello di «crescere» e far «crescere» fino a raggiungere «la misura della pienezza di Cristo» (4,13). Il che è tremendamente impegnativo per tutti.

 

Vangelo: Marco 16,15-20

 

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

 

 

Esegesi

 

     Come è risaputo da tutti, questa parte «conclusiva» del Vangelo di Marco (16,9-20) è stata aggiunta successivamente da qualche autore che non conosciamo. Non è che Marco ignorasse questi eventi: è che egli ha voluto chiudere il suo Vangelo con lo «stupore» delle donne davanti al sepolcro vuoto e all’annuncio che Gesù è stato risuscitato da morte (Mc 16,6-8). Ed è proprio questo «stupore» che dovrà accompagnare sempre i credenti nel Signore risorto!

     Comunque, tutto questo non crea per noi alcun problema, perché siamo davanti ad un testo egualmente «ispirato» e come tale riconosciuto dalla Chiesa. Cerchiamo perciò di metterne in evidenza il ricco e molteplice contenuto.

     Si tratta dell’ultima «cristofania» del Risorto ai suoi Apostoli ai quali viene affidato un mandato «missionario» universale.

     Abbiamo detto sopra che l’ascensione al cielo non era l’abbondono di Gesù, ma solo un suo «momentaneo» allontanamento. Nel frattempo gli Apostoli avrebbero dovuto prolungarne l’opera di salvezza, annunciando il suo «Vangelo» ad ogni creatura. Perciò essi vengono rivestiti di un compito di rappresentanza «vicaria» del Cristo, da realizzare ed estendere per tutto l’arco della storia. È attraverso degli uomini che Cristo verrà ormai «annunciato» ad altri uomini! È questo il suo mandato «testamentario»: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (16,15-16).

     Due cose sono da sottolineare in questo «comando» del Signore. Prima di tutto la sua «universalità»: è «in tutto il mondo» che vengono inviati gli Apostoli; il Vangelo deve essere predicato «ad ogni creatura», senza escludere nessuna razza umana, in qualunque parte della terra essa abiti. In secondo luogo, si esige l’accoglienza, per «fede», del dono del «Vangelo», congiunto con il rito del «battesimo», che anche simbolicamente significa la rinascita a vita nuova, come un autentico «lavaggio» dalle sozzure della vita precedente. Dunque «fede» e «battesimo», intimamente congiunti e vissuti dai cristiani, sono le «vie» che portano alla salvezza.

     E se così sarà e i cristiani vivranno in tal modo, potranno compiere anche «gesti» straordinari, così come capiterà agli Apostoli che parlano «nuove lingue» il giorno di Pentecoste, proprio in ordine all’annuncio del Vangelo (At 2,4,11); oppure a Paolo che, morso da una vipera, la getta a terra senza riceverne alcun male (At 28,3-5), e altri fatti simili che si sono verificati, e continuano a verificarsi, lungo la storia. Ed effettivamente il Vangelo di Marco si chiude con l’affermazione che tutto questo è avvenuto: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (16,20).

     Ma si tratterà solo di «segni» che possono solo testimoniare che la «salvezza» procurata dal Vangelo è «totale», includente, oltre l’anima, anche il nostro corpo sofferente.

     Per l’autore però è importante affermare che tutto ciò avviene come frutto della «perdurante» azione di Cristo che, pur salendo al cielo, non ha abbandonato la sua Chiesa e gli annunciatori del suo Vangelo, ma «opera insieme a loro» proprio in virtù del «potere» che gli deriva dall’essersi assiso «alla destra» del Padre: «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio» (16,19).

 

Meditazione

 

La festa dell’Ascensione di Gesù ci rende più presente, quasi più attuale, la visione del «cielo». Una volta un monaco di un monastero copto nel deserto egiziano chiese: gli uomini di oggi pensano a suffi­cienza alla loro dimora permanente? E continuò dicendo che per la maggior parte dei cristiani la vita nel cielo non è altro che un’appen­dice, un supplemento alla vita terrena che è invece ritenuta la vera vita stabile e permanente. La vita del cielo è considerata una specie di post-scriptum, l’appendice di un libro di cui la vita terrena è, appun­to, il vero testo. La verità — concludeva il monaco — è esattamente il contrario. La vita sulla terra è solo la prefazione di quel libro il cui testo è la vita del cielo.

Questa riflessione del monaco è molto saggia. Tuttavia potrebbe suo­nare un po’ semplicistico dire che si pensa troppo a questa vita terrena e poco a quella celeste. Il problema è forse un altro e riguarda il modo in cui pensiamo alla vita sulla terra. E c’è da dire che purtroppo è un modo depauperato, depotenziato e perciò sbagliato. Tutti pensiamo che la vita terrena è una cosa e quella del cielo totalmente un’altra. In realtà, la Scrittura ci suggerisce una continuità della vita, sebbene ci sarà una cesura alla fine dei tempi. Ed è in questa prospettiva che nel Credo si parla di «vita eterna» e non semplicemente di vita futura o dell’aldilà. È come dire che questa vita già da ora deve essere impastata di eternità; e lo è sia nel bene che nel male. Il paradiso e l’inferno iniziamo a viverli da questa terra e su questa nostra terra e in questo nostro tempo. In tal senso, la nostra vita terrena sarebbe trasformata di molto se avessimo lo sguardo rivolto verso il futuro, verso l’alto, verso il cielo. L’Ascensione viene a mostrarci qual è il futuro che Dio ha riservato ai suoi figli. E il futuro è quello raggiunto da Gesù. Ecco perché abbiamo bisogno di «vedere» già questo cielo, sebbene «in speculum et in enigmate» come dice l’apostolo Paolo, per poter vivere bene già su questa terra.

Il mistero dell’Ascensione, appena accennato dal Vangelo di Marco, è narrato con maggiore ampiezza dagli Atti degli Apostoli.

Gesù, scrive Luca, al termine dei suoi giorni, dopo aver parlato ai discepoli, «mentre lo guardavano fu elevato in alto e una nube lo sot­trasse ai loro occhi». Fu un’esperienza straordinaria per quel piccolo gruppo di discepoli. Possiamo immaginare il misto di stupore e di tristezza per la separazione; tanto che rimasero a guardare il cielo. Mentre erano fissi in questa posizione, «ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù… verrà allo stesso modo in cui l’ave­te visto andare in cielo”». Normalmente si interpreta questo testo come una sorta di dolce ma fermo rimprovero ai discepoli perché non si fermino a guardare le nubi del cielo, ma ritornino con il loro sguardo e soprattutto con il loro impegno nell’orizzonte della vita di tutti i giorni. Del resto è stato Gesù stesso ad esortare gli apostoli, proprio un momento prima di lasciarli, dicendo: «andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15-20). Tutt’altro quindi che restare a guardare il cielo.

Ma c’è anche una verità nel tenere gli occhi fissi al cielo. Non che i cristiani debbano formare un gruppo di esoterici fermi a contemplare dottrine astratte, magari per evadere la complessa e talora durissima vita quotidiana. Tenere gli occhi fissi verso il cielo vuol dire tenere ben ferma la meta ove dobbiamo condurre noi stessi e il mondo, le nostre comunità e l’intera storia umana. Scriveva il profeta Isaia: «Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui» (Is 64,3). L’ignoranza del cielo che Dio ci ha rivelato rende senza senso e quindi amara e triste, violenta e crudele, la vita sulla terra. L’apostolo Paolo sembra insistere perché i credenti guardino oltre il presente: «La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fa 3,20). Del resto, chi non vede quanto sia necessario far salire più in alto, appunto verso quel cielo che Gesù ha riaperto, questo nostro mondo spesso sbattuto così tragicamente in basso? Siamo entrati nel nuovo secolo senza utopie, senza sogni, a testa bassa e con gli occhi ripiegati solo su noi stessi. E le guerre e le violenze continuano ad avere un predominio incontrastato. E per di più sembra affermarsi più facilmente la ragione della forza che quella del diritto, del dialogo e del confronto pacifico.

In tal senso, la festa della Ascensione è sommamente opportuna, è una grazia concessa agli uomini perché alzino gli occhi un po’ più in alto del loro orizzonte abituale. E vedranno, come attraverso uno spira­glio, il futuro della storia umana anzi dell’intera creazione; non un futuro generico, più o meno ideologico e astratto, ma concreto: fatto di «carne ed ossa come vedete che ho io», potremmo dire parafrasando una affermazione di Gesù. Egli per primo, infatti, inaugura il nuovo futuro di Dio entrandovi con tutto il suo corpo, con la sua carne e la sua vita, che sono carne e vita di questo nostro mondo. Da quel giorno, il cielo inizia a popolarsi della terra, o, con il linguaggio dell’Apocalisse, iniziano i nuovi cieli e la nuova terra. Il Signore li inaugura e li apre perché tutti possano prendervi parte. Già la sua madre, Maria, lo ha raggiunto, assunta anch’essa con il suo corpo. L’Ascensione è il mistero della Pasqua visto nel suo compimento, scorto dalla fine della storia. L’Ascensione non è solo l’ingresso di un giusto nel regno di Dio, ma la gloriosa intronizzazione del Figlio «seduto alla destra» del Padre. Questa raffigurazione, presa dal linguaggio biblico, esprime simbolica­mente il potere di governo e di giudizio sulla storia umana del Cristo risorto: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra», dice Gesù ai discepoli dopo la Pasqua (Mt 28,18).

Noi non siamo più immersi in una storia senza orientamento, vitti­me del caso o degli astri o di forze oscure e incontrollabili. E fanno tristezza coloro che scrutano i cieli (come quella folla di persone che ogni giorno scruta gli oroscopi…) in cerca di segni di protezione per fuggire la paura e l’insicurezza della vita. Il Signore asceso è lui stesso il nostro cielo e la nostra sicurezza. Egli ci attrae verso il futuro che Lui ha già raggiunto in pienezza. E ai discepoli di ogni tempo conferisce il potere di sviluppare la storia e il creato verso questa meta: essi possono scacciare i dèmoni e parlare la lingua nuova dell’amore; possono neu­tralizzare i serpenti tentatori e vincere le insidie velenose della vita; possono guarire i malati e confortare chiunque ha bisogno di consola­zione. Questa forza sostiene e guida i discepoli sino ai confini della terra e verso il futuro della storia. Il Vangelo di Marco conclude: «par­tirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro». Così sia per ciascuno di noi e per tutte le nostre comunità cristia­ne, ognuno secondo il dono e il ministero ricevuto, come dice Paolo nella Lettera agli Efesini, «finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a rag­giungere la misura della pienezza di Cristo».

 

L’immagine della domenica

 

IL CIELO

«Osservate più spesso le stelle.

Quando avrete un peso nell’animo,

guardate le stelle o l’azzurro del cielo.

Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, … intrattenetevi … col cielo.

Allora la vostra anima troverà la quiete»

(Pavel A. Florenskij)

 

Preghiere e racconti

Il cielo

Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione.

(Joseph Ratzinger/BENEDETTO XVI, Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).

 

L’ascensione di Gesù e la nostra ascensione

Quando nel rito liturgico dell’eucaristia siamo invitati a «innalzare i nostri cuori», rispondiamo: «Sono rivolti al Signore», a quel Signore che è asceso in alto, a colui che non è più qui, ma che è risorto, è apparso agli apostoli ed è scomparso dalla vista. Sempre, ma specialmente in questo giorno nel quale commemoriamo la sua risurrezione e la sua ascensione, noi siamo spinti ad ascendere in spirito come il Salvatore, che ha vinto la morte e ha aperto il regno del cielo a tutti i credenti.

Molti uomini però non ascoltano il richiamo della liturgia; essi sono impediti, anzi posseduti, assorbiti dal mondo, e non possono elevarsi perché non hanno ali. La preghiera e il digiuno sono stati definiti le ali dell’anima, e quelli che non pregano e non digiunano, non possono seguire il Cristo. Non possono innalzare a lui i cuori. Non hanno il tesoro in alto, ma il loro tesoro, il loro cuore e le loro facoltà sono sulla terra; la terra è la loro eredità e non il cielo. […] Al contrario le anime sante prendono una via diversa; esse sono risorte con Cristo e sono come persone salite su una montagna e ora si riposano sulla cima. Tutto è rumore e frastuono, nebbia e tenebra ai suoi piedi; ma sulla vetta tutto è così calmo, cosi tranquillo e sereno, così puro e chiaro, così luminoso e celeste che per loro è come se il tumulto della valle non risuonasse al di sotto, e le ombre e le tenebre non ci fossero.

(John Henry Newman).

 

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso  col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

 

Abbiamo creduto in lui e ne aspettiamo il ritorno

      Fratelli, noi crediamo in quel Gesù che non hanno creduto i nostri occhi. A noi Gesù lo hanno annunciato coloro che lo hanno veduto, l’hanno stretto con le loro mani, hanno udito le parole uscite dalla sua bocca. Essi, affinché tutti gli uomini accettassero le sue parole, furono inviati da lui; non osarono andare di loro iniziativa. Dove furono mandati? L’avete sentito dalla lettura del Vangelo: «Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura che è sotto il cielo» (Mc 16,15). I discepoli furono dunque inviati in ogni parte del mondo, con la testimonianza di prodigi e segni miracolosi perché gli uomini credessero che essi riferivano cose da loro stessi viste. Noi abbiamo creduto in colui che non abbiamo visto con i nostri occhi e ne aspettiamo il ritorno. Chiunque lo aspetta con fede, sarà ripieno di gioia, quando ritornerà. […] Restiamo dunque fedeli alla sua parola, perché non proviamo confusione quando ritornerà. Egli infatti nel vangelo a quelli che avevano creduto in lui dice: «Se rimarrete nelle mie parole, sarete veramente miei discepoli» (Gv8,31). E quasi gli chiedessero: Con quale vantaggio? «Voi conoscete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Attualmente la nostra salvezza è oggetto di speranza, perché ancora non è stata realizzata; ancora non possediamo ciò che è stato promesso e tuttavia ne speriamo la futura realizza-zione. Colui che ha fatto questa promessa è fedele; egli non ti inganna: tocca a te unicamente non mancargli di fiducia, ma attendere la realizzazione delle sue promesse. La verità non conosce inganni. Non voler esser tu il bugiardo, altra cosa professando e altra facendo; conserva la fede e lui manterrà fede alla sua promessa. Se non avrai conservato la fede, sarai stato tu a defraudarti, non certo chi ti ha fatto la promessa.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento all’epistola di san Giovanni 4,2, NBA XXIV, pp. 1708-1709).

Sii un vero amico

Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno. L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale. Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio. L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte. In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte. Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami. È questo il centro del messaggio di Gesù.

Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata. Al contrario, è cresciuta.

È questo il significato dell’invio dello Spirito. Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’amicizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte. È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro. Sai dall’esperienza quanto questo sia reale. Coloro che hai amato profondamente e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze reali.

Osa amare ed essere un vero amico. L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condurrà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).

 

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo» (At 1,11).

[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.

La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E, dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?

In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?». Leggiamo che quando gli apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).

 

Preghiera

Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…

Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.

 

     

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

ASCENSIONE DEL SIGNORE

 

VI DOMENICA DI PASQUA

 Prima lettura:Atti 10,25-27.34-35.44-48

Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anche io sono un uomo!». Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga». Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio.

Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.

 

 

v Il brano che leggiamo risulta da tre piccoli ritagli di quel grande affresco che è il cap. 10 degli Atti. Consigliamo di rileggere tutto il cap. 10 nella sua interezza. Siamo ad un momento decisivo del cammino missionario della Chiesa primitiva: la conversione di Cornelio assume dimensione emblematica dell’apertura della predicazione al mondo pagano.

— «Si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio» (v. 25). Di fronte ai prodigi e ad un essere superiore che si ritiene celeste, il mondo pagano reagisce con atteggiamento di adorazione. Così capita anche a Paolo e Barnaba, a seguito di un miracolo, a Listra (At 14,11-15).

— «Alzati…» (v. 26). La predicazione cristiana è sempre attenta ad evitare l’equivoco che si può creare sulla persona degli apostoli, chiarendo che non sono esseri celesti e superiori, ma uomini come gli altri. Coerente con tale chiarimento, Pietro conversa con il centurione con familiarità, allargando l’incontro con le molte persone che sono in quella casa (v. 27).

— «Dio non fa preferenze di persone» (vv. 34-35). È l’inizio del discorso di Pietro: non è soltanto citazione dell’AT (vedi Dt 10,17; Sp 6,7; Sir 35,5), ma ammirata constatazione che trova riscontro nei fatti che Pietro sta vivendo: il privilegio di ricevere la parola di Dio non appartiene più esclusivamente al popolo ebraico. È l’inizio del cammino universale della predicazione cristiana, dell’annuncio della salvezza.

— «Accoglie chi lo teme e pratica la giustizia» (v. 35). Allargata a tutti i popoli, la misericordia di Dio non esige che due disposizioni negli uomini ai quali si rivolge: a) timore e rispetto intimo di Dio riconosciuto come unico e onorato nella propria coscienza; b) pratica della giustizia, ossia di una profonda onestà nei doveri naturali.

— «Lo Spirito Santo discese sopra tutti…» (vv. 44-48). Il racconto che segue è indicato come la «pentecoste dei pagani». Lo stesso Pietro sottolinea che «questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo» (v. 47). Questi pagani, senza seguire le usanze giudaiche, e senza alcuna particolare preparazione, ricevono lo Spirito Santo: ciò dimostra — come rileva l’apostolo Pietro — che sono già pronti per ricevere il battesimo (v. 47). L’effetto carismatico, prodotto nei pagani dalla discesa dello Spirito Santo, è simile a quello ricevuto dagli apostoli nella prima pentecoste: consiste nel fatto di esprimersi in lingue nuove e nel lodare Dio in modo estatico (v. 46). In entrambi gli aspetti è da vedere l’unificazione della famiglia umana nel dono delle lingue e della preghiera, questa volta anche nel mondo pagano.

 

Seconda lettura: 1Giovanni 4,7-10

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.

 

 

v In uno sviluppo parenetico (cioè di carattere prevalentemente esortativo) pressoché parallelo a quello della II Lett. di domenica scorsa, la Prima Epistola di Giovanni insiste sulla necessità, per i cristiani, di avere una fede autentica ed un vero amore (4,7;5,4), con la

probabile intenzione di stigmatizzare l’insorgere di alcune eresie nella chiesa primitiva. Senza vero amore non c’è vera fede, e viceversa. Il brano di oggi si colloca esattamente all’inizio di tale sviluppo.

     Tre le affermazioni fondamentali contenute nella nostra lettura:

     — Prima: Dio non è conoscibile se non attraverso la via dell’amore (vv. 7-8). Perché? Dio è amore, in senso operativo, cioè ogni sua attività è mossa da amore. Ne derivano due conseguenze che si possono esprimere in termini positivi e negativi: solo chi ama è nato da Dio (v. 7), solo chi ama i fratelli «conosce», cioè mostra di avere un’esperienza vera e pro-fonda di Dio. Di fatto, l’assenza di amore rende impossibile ogni comunicazione e comunione con Dio (v. 8). Per S. Agostino la conoscenza dello stesso mistero trinitario non avviene se non attraverso un movimento di amore.

     — Seconda: non c’è prova più evidente che Dio è mosso da amore, che il fatto della venuta del Figlio Unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui (v. 9). «Unigenito»: questo titolo attribuito al Figlio ha due valenze: a) è sinonimo di amato, diletto, oggetto di amore unico, e in tal caso sottolinea la grandezza del dono di Dio, mandandolo nel mondo; b) sottolinea l’unicità del Figlio di Dio come rivelatore del Padre; egli è l’unico che veramente possa rivelarci il volto del Padre: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio…» (Mt 11,27).

     — Terza: caratteristica dell’amore divino è che previene l’amore dell’uomo; non aspetta di essere amato per amore. Non siamo stati noi ad amare Dio, (v. 10) anzi noi abbiamo tradito il suo amore col peccato. Ma egli ha preso per prima l’iniziativa e ha mandato il suo Figlio in funzione di espiare, cioè offrire il sacrificio, per i nostri peccati.

 

Vangelo: Giovanni 15,9-17

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

 

 

Esegesi 

     Il brano evangelico odierno costituisce l’immediato seguito del vangelo di domenica scorsa (vv. 1-8), ed in certo senso ne è l’illustrazione in termini parenetici. Il brano è costituito grosso modo da due sezioni che fanno capo a due parole-chiave: la parola «amore» e la parola «amici».

     Chiariamo il senso di queste due parole fondamentali su cui il nostro brano è costruito: «amore» e «amico»:

     — amore (in gr. agapō) a differenza di altri verbi che implicano reciprocità e scambio, se si applica a Dio, indica un movimento di amore assolutamente gratuito e illimitato (vedi II Lettura). La fonte è divina e eterna: come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi (v. 9), comunicandosi agli uomini nel tempo. Abbiamo così una serie di anelli che costituiscono tutti essenzialmente il senso dell’agape cristiano: Padre-Figlio-discepoli e discepoli tra loro. La comparazione: rimanete nel mio amore, come io rimango nell’amore del Padre (cf. v. 10) non indica solo un rapporto esemplare o di imitazione. Il come indica la natura e il fondamento stesso dell’amore cristiano, che sgorga ed è alimentato dall’amore trinitario. Perciò l’espressione «nel mio amore», pur potendosi intendere nel senso dell’amore dei discepoli per Gesù, è però più coerente intenderlo come amore di Gesù per i discepoli. Concepito così, tale amore va fino al sacrificio di sé, come lo è stato per quello di Gesù (v. 13);

     — amicizia, amico (in gr. philos). Nei rapporti umani, l’amicizia si stabilisce tra due persone che sono sullo stesso piano. Questo è vero per l’amicizia di Gesù per i discepoli, se si tiene però conto che è lui ad elevarci dal livello di schiavi (doulos) a quello di amici. La differenza, come spiega il Signore, va capita nella prospettiva della comunicazione: tra servo e padrone non c’è comunicazione, perché abitualmente il padrone non fa sapere, e quindi non comunica al servo quello che fa e perché lo fa (v. 15). Gesù invece comunica e rivela ai discepoli quello che ha «udito» dal Padre, cioè li rende partecipi della sua relazione intima e filiale col Padre (v. 15).

     Inoltre, sul piano dell’amicizia umana, ognuno è e si sente autore delle scelte che fa, e non stabilisce le finalità che l’altro deve raggiungere. Nell’amicizia con Gesù non è così: non i discepoli hanno scelto lui, ma lui ha scelto loro — elevandoli al suo livello — con iniziativa gratuita e sovrana (v. 16), e li ha scelti con un preciso scopo: assegnare loro una missione (portare frutto) stabile e duratura (v. 16).

 

Meditazione

«Amiamoci gli uni gli altri». È l’imperativo che l’apostolo Giovanni non si stanca di rivolgere alla sua comunità. Egli sa bene quanto l’amore sia centrale nella vita dei discepoli. Lo ha appreso direttamente da Gesù. Ma più che da una lezione teorica o da un’esortazione morale, Giovanni ne ha fatto l’esperienza concreta. Ne ha potuto gustare la dolcezza e la tenerezza, ne ha visto la radicalità e l’ampiezza che giungeva sino all’amore per i nemici, anzi sino al dono della stessa vita. Di questo amore Giovanni è stato un testimone privilegiato, un custode attento e un predicatore sollecito. Nella sua prima lettera vuole svelarne la natu­ra e indicarne la fonte: «Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio; chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio» (1Gv 4,7). L’apostolo parla qui di un amore diverso da quello che normalmente noi intendiamo con questo termine. L’amore per noi è quel complesso di sentimenti che nasce spontaneo dal cuore, fatto di attrazione fisica, simpatia, desiderio, passione, compiacimento e soddisfazione di sé. Nel linguaggio del Nuovo Testamento per indicare tale amore si usa il ter­mine greco «eros». L’apostolo usa, invece, la parola «agape» per con­notare l’amore che nasce da Dio e che deve presiedere i rapporti tra i discepoli.

Per comprendere l’amore di Dio (l’agape) non bisogna perciò par­tire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri senti­menti o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio. Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprendere tale amore; esse infat­ti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell’amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina, nelle Sante Scritture scorgia­mo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell’uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che sant’Agostino applicava all’uomo: «Inquietum est cor nostrum…». Un sacerdote poeta, Davide Maria Turoldo, ha parlato del «cuore inquieto di Dio»: Egli è venuto sulla terra per cercare e salvare ciò che era per­duto, per dare la vita a ciò che non aveva più vita. È un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. In verità, mentre Egli stende la mano per chiedere amore lo dà agli uomini. Egli è la luce che penetra nelle tenebre, per dare vita, per spiritualizzare, per elevare e salvare. Questo è l’amore cristiano: Dio che scende, gratuitamente, nel più basso per raggiungere l’amato.

Sì, Dio è inquieto finché non trova l’uomo. E lo è a tal punto «da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). L’amore di Dio, potremmo dire, «è in discesa», si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, «sino a dare la vita per i propri amici, come Gesù stesso dice. Si legge ancora nella prima lettera di Giovanni: «In questo sta l’amore (cristiano): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4, 10). È Dio che ama per primo, e ama perfino gli esseri immeritevoli del suo amore. È, in effetti, un amore totalmente gratuito; anzi immotivato. Dio, infatti, non ama i giusti ma i peccatori, i quali non sono degni di essere amati. Paolo dice che Dio ha scelto le cose che non contano perché contassero; ha scelto le cose che sono abominevoli di fronte agli uomini, per farne oggetto della sua grazia (1Cor 1, 28). Questo è il Dio dei Vangeli: un Dio che è mosso da un amore che non si fa indietro neppure davanti alla mancanza di vita, alla negazione dell’amore. Dio si fa piccolo pur di raggiungere il più disgraziato degli uomini e arricchirlo della sua amicizia. La storia stessa di Gesù è racchiusa in tale amore. Dio, infatti, non è l’Essere in sé, alla maniera del pensiero aristotelico, ma è l’Essere per noi, è apertura infinita, è amore appassionato per noi.

Se l’intera Scrittura è la storia dell’amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò, se vogliamo balbettare qualcosa dell’amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l’amore è Gesù. L’amore è tutto ciò che Gesù ha detto, vissuto, fatto, amato, patito… L’amore è cercare i malati, è avere per amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. Infatti «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». L’amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito… Questo è l’amore di Dio. Davvero altra cosa dall’eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori… Per questo per la Bibbia e per Gesù l’amore, l’agape, non è un sentimento in balia delle circostanze o dei sentimenti, ma un «comandamento», qualcosa a cui rispondere e che si deve costruire: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi». Forse è proprio quel «come» la novità dell’amore cristiano. Siamo chiamati ad amare nella stessa misura di Gesù.

Il vuoto d’amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili. L’egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti. Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il nostro personale benessere. I legami di affetto tra gli uomi­ni basati sull’attrazione «naturale» sono labili, basta poco per rovesciar­li e distruggerli. È diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire i rapporti definitivi e fedeli. L’eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d’essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l’agape è come la roccia salda che ci risparmia dalla distruzione, perché prima dell’io c’è l’altro. Gesù ce ne ha dato l’esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9).

Il rapporto esistente tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell’amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore; possiamo però riceverlo da Dio; se accolto, ha una forza dirom­pente: fa crollare i muri, cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l’amore di Dio si incrocia, quasi sino all’identificazione, con l’amore vicendevole. L’uno infatti è causa dell’altro. Un noto teologo russo amava dire: «Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!». Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L’amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera dì razza, di cultura, di nazio­ne, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Cornelio. L’agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l’amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11). 

  

L’immagine della domenica

  

 

«Il nostro vero problema

è che siamo immersi

in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto»

                                             (G. Vannucci)

 


Preghiere e racconti

 

     Abitare nella casa dell’amore

 

Questa è una singolare metafora dell’amore. L’amore non è soltanto un sentimento passeggero. È uno spazio in cui si può rimanere. Gesù, tuttavia, indica anche la condizione per rimanere nell’amore: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,10). Non possiamo godere da soli dell’amore di Dio. Dobbiamo continuare a farlo scorrere verso gli altri. Altrimenti ristagna. E allora lo spazio d’amore, in cui si può abitare tanto bene, crolla.

L’amore di Gesù non prende, come fa spesso il nostro, ma dà. È puro dono. A un amore del genere, che lascia liberi e si dona, che muore per noi e scorre senza confini per noi, aneliamo nel profondo del nostro cuore.

Di fronte al Cristo crocifisso percepiamo che siamo incapaci di vero amore. Il nostro amore si mescola spesso al desiderio di avere l’altro tutto per noi, di riuscire a possederlo. Vogliamo tenerlo stretto, in modo che non ci lasci mai più. E non ci accorgiamo di come gli togliamo la possibilità di evolversi, di diventare interamente se stesso. Spesso vogliamo essere noi a plasmare la persona amata e comprimerla nella forma che ci sembra amabile. Il gesto della croce esprime il contrario: ci lascia liberi, ci invita a farci abbracciare, ma ci lascia anche andare, affinché possiamo percorrere in libertà il nostro cammino.

(Anselm Grün, Apri il tuo cuore all’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 19-20).

 

La differenza cristiana: amarsi come ama il Signore

 

 Una poesia dolcissima e profonda, ritmata sul lessico degli amanti: amare, amore, gioia, pienezza, frutti… È il canto della nostra fede. Come il Padre ha amato me, io ho amato voi. Di amore parliamo come di un nostro compito. Ma noi non possiamo far sgorgare amore se non ci viene donato. Siamo letti di fiume che Dio trasforma in sorgenti.

Rimanete nel mio amore. Nell’amore si entra e si dimora. Rimanete, non andatevene, non fuggite dall’amore. Spesso all’amore resistiamo, ci difendiamo. Abbiamo il ricordo di tante ferite e delusioni, ci aspettiamo tradimenti. Ma Gesù ti dice: “arrenditi all’amore”. Se non lo fai, vivrai sempre affamato. Gesù: il guaritore del tuo disamore. Il mondo sembra spesso la casa dell’odio, eppure l’amore c’è, reale come un luogo. È la casa in cui già siamo, come un bimbo nel grembo della madre: non la può vedere, ma ha mille segni della sua presenza: «Il nostro vero problema è che siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). L’amore è, esiste, circola, ed è cosa da Dio: amore unilaterale, a prescindere, asimmetrico, incondizionato. Questo vi ho detto perché la vostra gioia sia piena. L’amore è da prendere sul serio, il Vangelo è da ascoltare con attenzione, ne va della nostra felicità, che sta in cima ai pensieri di Dio. Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato. Non semplicemente: amate. Ma fatelo in un rapporto di comunione, un faccia a faccia, una reciprocità. E aggiunge la parola che fa la differenza cristiana: amatevi come io vi ho amato. Amare come Cristo, che lava i piedi ai suoi; che non giudica nessuno; che mentre lo ferisci, ti guarda e ti ama; in cerca degli ultimi. Chiunque ami così, qualsiasi sia il suo credo, è entrato nel flusso dell’amore di Cristo, dimora in lui che si è fatto canale dell’amore del Padre. Come lui ognuno può farsi vena non ostruita, canale non intasato, perché l’amore scenda e circoli nel corpo del mondo. Se ti chiudi, in te e attorno a te qualcosa muore, come quando si chiude una vena nel corpo.

Voi siete miei amici. Non più servi. Amico: parola dolce, musica per il cuore dell’uomo. Un Dio che da signore e re si fa amico, e teneramente appoggia la sua guancia a quella dell’amato. Nell’amicizia non c’è un superiore e un inferiore, ma l’incontro di due libertà che si liberano a vicenda. Perché portiate frutto e il vostro frutto rimanga. Quali frutti dà un tralcio innestato su una pianta d’amore? Pace, guarigione, un fervore di vita, liberazione, tenerezza, giustizia: questi nostri frutti continueranno a germogliare sulla terra anche quando noi l’avremo lasciata

(Ermes Ronchi)

 

La gioia degli amati che amano.

 

 1. Il contesto del brano evangelico è il «libro degli addii» (Gv13-17), a tavola Gesù rivela se stesso e le cose che gli stanno a cuore ai «suoi», un vero lascito testamentario non solo ai presenti a quella cena ma agli amici di ogni luogo e di ogni tempo resi contemporanei al suo racconto tramite la «lectio», la lettura-ascolto. Contemporanei a un Tu che ci svela al contempo il suo nome e il suo compito, il nostro nome e il nostro compito e il nome di chi è all’origine del tutto.

2. La narrazione inizia con un Gesù che si presenta in questi termini: io mi chiamo «amato dal Padre» (Gv 15,9), il quale a sua volta si chiama amore: «Dio è amore» (1Gv 4,18). Gesù comunica ciò che sa, introduce i suoi a segreti uditi dal Padre stesso (Gv 15,15), il segreto dell’ «incipit»: in principio vi è un Tu che ama, un Amante dal cui grembo è stato generato l’Amato, nome proprio di Gesù, inviato ad amare come amato, compito proprio di Gesù (Gv 15,9). Vi è dunque l’Amore all’origine di Gesù e alla intelligenza di sé come amato, un Amore a lui imperativo categorico: la fedeltà alla propria verità di amato inviato a travasare l’amore che lo ha generato, il solo in grado di generare figli e non schiavi, amici e non nemici. Gesù, a questa consapevolezza di sé di essere il sacramento storico, visibile e tangibile, di Dio amante dell’uomo, è «Si»: «Rimango nel suo amore» e il suo comando rimane in me (Gv 15,10). La mente è aperta a conoscenze inedite precluse all’indagine razionale e al calcolo scientifico, un sapere frutto di discorsi a tavola di un certo Gesù: in principio vi è un Amante, detto Padre, che in forza dell’Amore, detto Spirito, genera l’Amato, detto Figlio, l’inviato a inondare di amore sia il mondo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16), che i suoi non a caso definiti discepoli amati: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi» (Gv 15,9). Come? Con un amore elettivo: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16); oblativo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13); esigente: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,13),: «Questo vi comando: che riamiate gli uni gli altri» (Gv 15,17). Un amore infine amico: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15), e «Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando» Gv15,14).

3. Chi è il discepolo? Un incontrato e un invitato a tavola da un amico di nome Gesù che ha deciso di raccontargli «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,35). Dio è amore e fonte sorgiva di ogni amore, Gesù è l’amato inviato a raccontare in parole e gesti l’amore di Dio per ogni creatura, il discepolo è l’amato da Dio in Gesù mandato ad amare come amato da Dio in Gesù. Ove al «Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9) si risponde si lì è dato al discepolo, e in lui a ogni uomo, di conoscere finalmente il proprio ineffabile nome, il proprio ineffabile compito e il proprio ineffabile approdo: amati per amare per sempre facendo dell’amore il perno da cui tutto muove e a cui tutto rimanda. Visione urgente a livello personale, comunitario, ecclesiale e sociale nella lucida consapevolezza che «al di fuori dell’amore non c’è salvezza». E non c’è gioia: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). La gioia degli amati che amano.

(Giancarlo Bruni)

 

Rimanete nel mio amore

 

      «Rimanete nel mio amore» (Gv 15,10). In che modo ci rimarremo? Ascolta quanto segue: «Se osservate i miei comandamenti», dice il Signore, «rimarrete nel mio amore» (ibi). È l’amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l’osservare i comandamenti che fa nascere l’amore? Ma chi può mettere in dubbio che l’amore precede l’osservare i comandamenti? Chi non ama non ha motivo di osservare i comandamenti. Dicendo: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», il Signore non vuole indicare l’origine dell’amore, ma la prova. Come se dicesse: Non crediate di poter rimanere nel mio amore se non osservate i miei comandamenti; potrete rimanervi solo se li osserverete. Questa sarà la prova che rimanete nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti. Nessuno quindi si illuda di amare il Signore, se non osserva i suoi comandamenti, perché lo amiamo in quanto osserviamo i suoi comandamenti, e quanto meno li osserviamo tanto meno lo amiamo. Anche se dalle parole: «Rimanete nel mio amore» non appare chiaro di quale amore egli stia parlando, se di quello con cui amiamo lui o di quello con cui egli ama noi, possiamo però dedurlo dalla frase precedente. Egli aveva detto: «Anch’io ho amato voi», e subito dopo ha aggiunto: «Rimanete nel mio amore». Si tratta dunque dell’amore che egli nutre per noi. E allora che cosa significa: «Rimanete nel mio amore», se non: rimanete nella mia grazia? E che cosa significa: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», se non che voi potete avere la certezza di essere nel mio amore, cioè nell’amore che io vi porto, se osserverete i miei comandamenti? Non siamo dunque noi che prima osserviamo i comandamenti di modo che egli venga ad amarci, ma il contrario: se egli non ci amasse, noi non potremmo osservare i suoi comandamenti. Questa è la grazia che è stata rivelata agli umili, mentre è rimasta nascosta ai superbi.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 82,3, NBA XXIV, p. 1248).

 

Credo

 

Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero

che non mi seduce con un miracolo

e che non mi opprime con la sua autorità.

Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà,

che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male,

che non accetta compromessi,

ma che benedice la follia di chi lo segue.

Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione,

che non rimette a posto le cose dall’alto,

che non esercita la giustizia degli uomini.

Credo in un Dio che si lascia tradire,

che al mio no risponde con un bacio silenzioso,

credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.

Credo in un Dio che non ho inventato io,

che non soddisfa i miei bisogni,

che non dice e fa quello che voglio io,

un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.

Credo in un Dio vero,

che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità,

che si fa piccolo, debole indifeso

perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.

Credo in un Dio che gioca a nascondino

perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo,

credo in un Dio che mi si fa vicino,

che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.

Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.

(Ester Battista).

 

Da’ gratuitamente

 

«Il tuo amore, in quanto viene da Dio, è permanente. Puoi reclamare il carattere permanente del tuo amore come un dono di Dio. E puoi dare questo amore permanente agli altri. Quando gli altri cessano di amarti, non devi cessare di amarli. A livello umano, i cambiamenti possono essere necessari, ma a livello del divino tu puoi rimanere fedele al tuo amore.

Un giorno sarai libero di dare un amore gratuito, un amore che non chiede niente in cambio. Un giorno sarai anche libero di ricevere un amore gratuito. Spesso l’amore ti viene offerto, ma tu non lo riconosci. Lo metti da parte perché rimani fissato nell’idea di riceverlo dalla medesima persona alla quale l’hai dato.

Il grande paradosso dell’amore è che proprio quando hai rivendicato il fatto che sei il diletto figlio di Dio, hai posto dei confini al tuo amore, e quindi hai contenuto i tuoi bisogni, è allora che cominci a crescere nella libertà di dare gratuitamente».

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Queriniana, Brescia. 2005, 27-28).

 

L’amore

 

Noi delle strade siamo certissimi di poter amare Dio sin quando avrà voglia di essere amato da noi. Non pensiamo che l’amore sia una cosa che brilla, ma una cosa che consuma; pensiamo che fare tutte le piccole cose per Dio ce lo fa amare altrettanto che il compiere grandi azioni. D’altra parte pensiamo di essere molto male informati sulla misura dei nostri atti. Non sappiamo che due cose: la prima, che tutto quello che facciamo non può essere che piccolo; la seconda, che tutto ciò che fa Dio è grande. Questo ci rende tranquilli di fronte all’azione. Sappiamo che ogni nostro lavoro consiste nel non gesticolare sotto la grazia, nel non scegliere le cose da fare, e che Dio agirà per nostro mezzo. Non c’è niente di difficile per Dio, e chi teme la difficoltà si crede capace di agire. Poiché troviamo nell’amore un’occupazione sufficiente, non abbiamo cercato il tempo per classificare gli atti in preghiere e in azioni. Troviamo che la preghiera è un’azione e l’azione una preghiera; ci sembra che l’azione veramente amorosa è tutta piena di luce. Ci sembra che di fronte ad essa l’anima è come una notte tutta protesa verso la luce che sta per venire. E quando la luce si fa – il volere di Dio chiaramente compreso – ecco l’anima viverla con dolcezza piena, con pacatezza piena, guardando Dio animarsi e agire in essa. Ci sembra che l’azione sia anche una preghiera d’implorazione. Non ci sembra che l’azione c’inchiodi nel nostro terreno di lavoro, di apostolato o di vita. Al contrario, ci sembra che l’azione perfettamente compiuta là dove ci viene reclamata innesta noi in tutta la Chiesa, ci diffonde in tutto il suo corpo, ci fa disponibili in essa. I nostri passi camminano in una strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero. E’ per questo che i nostri piccoli atti, nei quali non sappiamo distinguere fra azione e preghiera, uniscono così perfettamente l’amore di Dio e l’amore dei nostri fratelli. Il fatto di abbandonarci alla volontà di Dio ci consegna nello stesso istante alla Chiesa che da questa volontà medesima è resa costantemente salvatrice e madre di grazia. Ciascun atto docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio in una grande libertà di spirito. Allora la vita è una festa. Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso. Non importa che cosa dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella per il suo Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Un’informazione? …eccola: è Dio che viene ad amarci. E’ l’ora di metterci a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare.

(Madeleine Delbrêl).

 

Parlami d’Amore

 

Amore supera l’amore, mio caro. L’amore è volo d’uccello nel cielo infinito. Ma il volo dell’uccello è più che il volteggiare in aria di un esserino di carne, più che le sue ali innamorate, corteggiate dal vento, è più che l’indicibile gioia quando muoiono i battiti delle ali e il corpo in pace plana nella luce. L’amore è canto di violino che canta il canto del mondo. Ma il canto del violino è più che il legno e l’archetto, inerti e solitari, più che le note in abito da sera che danzano sulla partitura, e più che le dita dell’artista che corrono sulle corde. L’amore è luce, per le strade umane. Ma la luce che si dà è più che carezza mattutina che apre gli occhi notturni, più che raggi di fuoco che riscaldano i corpi, e più che mille pennelli d seta che colorano i volti. L’amore è fiume d’argento che scorre verso il mare. Ma il fiume vivo, che indugia o che si affretta, è più che il suo letto accogliente, scrigno che non trattiene, più che l’acqua che si arrossa allo sguardo del tramonto, e più che l’uomo sulla riva che getta l’esca e ne estrae i frutti. L’amore è veliero che sulle acque fende le onde. Ma la corsa del veliero è più che la prora sedotta che penetra il mare, che si offre o i dibatte, più che le vele frementi sotto il tocco della brezza o gli schiaffi del vento, è più che le mani del marinaio afferrate al timone, mentre instancabile insegue la sua selvaggina. …l’Amore supera l’amore. L’Amore è soffio infinito, che viene da un altrove e vola verso l’altrove. L’amore è mente d’uomo che conosce e riconosce il soffio, è libertà d’uomo che tutto si volge verso di Lui. L’amore è consenso dell’uomo al soffio che invita, è cuore dell’uomo che si apre per accoglierlo e donarLo, è corpo dell’uomo che si raccoglie, disponibile, perché da Lui abitato, da Lui invaso prenda il volo verso gli altri, verso… l’altro, e perché infine ciò che era lontano si ricongiunga e si accordi ciò che era separato diventi uno e che dall’uno sgorghi una nuova vita. 

(Michel Quoist).

 

La mia vocazione

 

Nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore… la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore.

( Santa Teresa di Gesù Bambino).

 

Una luce splende alla mia anima

 

Che ti amo Signore, non ho alcun dubbio; ne sono certo.

Con la tua parola hai toccato il mio cuore, e io ho cominciato ad amarti.

Ma che cosa amo amandoti?

Non una bellezza corporea né una grazia transitoria;

non lo splendore di una luce così cara a questi miei occhi;

non dolci melodie di svariate cantilene;

non un profumo di fiori, di unguenti e di aromi;

non manna né miele, non membra invitanti ad amplessi carnali.

Amando il mio Dio, non amo queste cose.

E tuttavia nell’amare lui amo una certa luce,

una voce, un profumo, un cibo ed un amplesso

che sono la luce, la voce, il profumo,

l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce

che nessun fluire di secoli può portar via,

dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere,

dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire,

dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare.

Tutto questo io amo quando amo il mio Dio.

(S. Agostino) 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– H.J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

VI DOMENICA DI PASQUA

V DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura:Atti 9,26-31

In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso. La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.

 

 

v Il capitolo 9 degli Atti degli Apostoli segna una svolta molto importante nella storia della prima comunità cristiana: con la conversione di Saulo (vv. 1-19), l’inizio della sua predicazione (vv. 20-31) e l’orientamento di Pietro verso il mondo pagano (vv. 32-43; e. 10), si pre-para il terreno all’espansione della predicazione apostolica verso le nazioni pagane. La nostra lettura è un elemento di coesione in questo insieme di fatti, in quanto descrive il difficile e delicato inserimento di Paolo nella comunità degli apostoli.

     Anche se in certo contrasto con l’esperienza narrata dallo stesso Paolo in Gal 1,18-24, la presentazione lucana del viaggio di Saulo a Gerusalemme obbedisce ad un preciso intento: sottolineare vigorosamente il contatto di Paolo col collegio apostolico, così da legittimare la predicazione successiva dell’Apostolo.

— Da questo punto di vista è di grande peso esegetico il v. 28: «andava e veniva in Gerusalemme» indica la familiarità piena che si è stabilita tra lui, Paolo, e gli altri apostoli; attinge da questa comunione la parrēsía (coraggio di parlare francamente, cf. il greco: parrēsia = zòmenos, v. 28), discutendo liberamente anche con gli ex-correlegionari, gli ebrei «ellenisti», cioè di lingua e cultura greca.

— «Ma questi tentavano di ucciderlo» (v. 29). È il secondo complotto tramato dai Giudei per eliminare questo loro correlegionario che ha «tradito» la sua fede, diventando cristiano.

— «La Chiesa era dunque in pace» (v. 31). Opportuno sommario, per mostrare lo stato di pace interna (accordo e comunione) ed esterna (fine della persecuzione con la conversione di Saulo). La Chiesa è organismo vivo che cresce e cammina, non per forza naturale, ma per due fattori fondamentali; cammina nel timore di Dio, in obbedienza e docilità al Signore; si moltiplica grazie al «conforto», ossia all’assistenza attiva e fecondante dello Spirito Santo.

 

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,18-24

Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

 

 

v Nella I Epistola di Giovanni, che si può considerare come un’enciclica destinata alle chiese dell’Asia su cui incombe la minaccia di eresie e lacerazioni interne, si discernono alcune parti parenetiche (dove prevalgono le esortazioni) e altre parti dottrinali (dove abbondano indicazioni dogmatiche). La nostra lettura si colloca di una sezione parenetica, che esorta cioè a «nascere da Dio» compiendo opere di giustizia (2,28-3,24).

     Data la struttura circolare, con numerosi ritorni, del nostro brano, basterà chiarire solo alcuni termini-chiave: «verità», «cuore», «comandamento».

     a) «Verità», in senso semitico e giovanneo, indica propriamente la salda rivelazione di Dio Amore con fatti e «nella verità» (v. 18); significa pertanto, amare con opere (e non solo a parole) e in conformità a quanto Dio in Gesù Cristo ha rivelato di se stesso. «Siamo dalla verità» (v. 19) vuole dire: veniamo da Dio, rivelato a noi da Gesù Cristo.

     b) «Cuore» è sinonimo di coscienza, oltre che centro delle decisioni dell’uomo. Dire che «il nostro cuore ci rimprovera» o «non ci rimprovera» (vv. 20-21) significa che riceviamo o non riceviamo l’approvazione della nostra coscienza. Ma il giudizio di Dio è ben al di là di tale approvazione («è più grande del nostro cuore»). Tale superiorità sottolinea la grandezza imperscrutabile dell’amore di Dio.

     c) «Il comandamento», nella letteratura giovannea, è quello per autonomasia dato da Gesù ai discepoli: amarsi gli uni gli altri (Gv 15,12) come lui ci ha amati. Qui il «comandamento» (o anche al plurale «i comandamenti») ha un duplice aspetto; a) credere «nel nome», cioè nella persona stessa di Gesù Cristo, Figlio di Dio, e come tale confessarlo; b) amarci gli uni gli altri perché è lui che ci ha dato tale comandamento, e non a motivo di un amore generico o sentimentale. Tale comandamento è talmente fondamentale per la nostra vita di credenti, da essere il presupposto necessario perché si realizzi l’inabitazione di Dio nel credente. Fede, amore, inabitazione di Dio sono tre aspetti indissociabili del comandamento di Gesù.

 

Vangelo: Giovanni 15,1-8

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

 

 

Esegesi

     Siamo nell’ampio contesto dei discorsi di addio ambientati nell’intima cena (Gv 13,1-35). In forma circolare, tali discorsi, che rappresentano il testamento spirituale del Signore, insistono su due fondamentali temi, quello della fede e dell’amore, atteggiamenti essenziali della vita dei discepoli di Gesù.

     Il brano odierno rappresenta un significativo sviluppo all’interno dei discorsi di addio. Esso va collocato nell’insieme del cap. 15, nel quale si cela una forte tensione tra due poli: da una parte, l’amore a Gesù e i suoi frutti (vv. 1-17), dall’altra, l’odio del mondo e la testimonianza del Paraclito (vv. 18 ss.).

— «Io sono la vite vera» (vv. 1.5). Le parole introdotte da Io sono contengono un’autorivelazione come quando nel libro dell’Esodo JHWH rivela il proprio nome (Es 3,14). In riferimento al mistero di Cristo, la sua identità è caratterizzata dall’aggettivo «vera». Vite vera, in due sensi: a) in Gesù Cristo si realizzano in misura totale e piena quello che la vite natu-rale esprime; b) Israele, vigna di Dio, aveva tradito le attese di Dio (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21); Gesù invece le realizza in pieno perciò è la vera vite.

— «Il Padre mio è l’agricoltore» (vv. 1-2), l’autorivelazione si estende anche al Padre, al rapporto di profonda unione che Gesù-vite ha con il Padre da una parte, e al rapporto vitale che lega i tralci (i discepoli) all’azione sovrana e gratuita del Padre, dall’altra.

— Due principalmente, gli aspetti di questa azione del Padre:

a) in senso positivo, egli monda, o purifica, quei tralci che già portano frutto, perché — come dalla potatura — ne risulti un impulso di vitalità e di fertilità (v. 2); le iniziative del Padre, anche se appaiono dolorose, hanno come fine una crescita ed una promozione e non una mortificazione della vita;

b) in senso negativo, il castigo e l’eliminazione dei tralci che, non portando frutto, si oppongono alle premure del Padre e alla vita donata da Gesù: questi tralci sono tolti (v. 2), gettati via, raccolti, gettati nel fuoco, bruciati (v. 6). Dietro queste immagini si intravede la cura estrema di Dio nel preservare l’opera salvifica del Figlio da ogni ambiguità e compromesso col male.

Rimanete in me come io in voi (v. 4). Questa reciproca immanenza non significa che Gesù e i credenti siano sullo stesso piano. In ogni caso precede l’azione di Gesù-vite (come io in voi), che eleva e rende possibile l’unione dei discepoli con lui («rimanete in me»).

— Sono da precisare due aspetti di questo «rimanere»: da una parte esso indica un rapporto di fede (le mie parole rimangono in voi, chiedete, ecc.); dall’altra, è condizione essenziale per vivere e portare frutto di salvezza (v. 5). La salvezza non dipende soltanto dalla libera adesione dell’uomo e degli apporti — sia pur generosi — della sua azione: procede dalla vita che riceviamo da Dio, come la linfa vitale che nutre i tralci, e li mette in condizione di portare frutti.

 

Meditazione

 

È la quinta domenica «di» Pasqua; ossia la quinta volta che torna lo stesso ed unico giorno di Pasqua. Ed è così per tutte le domeniche. Esse tornano fedelmente, quasi segno della fedeltà di Dio; tornano anche se tante volte siamo noi ad essere assenti; tornano perché possiamo resta­re nel giorno di Pasqua e incontrare Gesù risorto. Per questo gli antichi cristiani ripetevano convinti questa affermazione: «non possiamo vivere senza la domenica», ossia «non possiamo vivere senza incontrare Gesù risorto». Potremmo, allora, applicare anche alla domenica e ai giorni della settimana la parabola odierna della vite e i tralci, somigliando la vite alla domenica e i tralci agli altri giorni. Quest’ultimi restano senza frutto se non sono vivificati dallo Spirito che riceviamo nella santa litur­gia della domenica. Restare nella domenica, ossia conservare nel cuore quello che vediamo, ascoltiamo e viviamo nella santa liturgia, vuol dire rendere più fruttuosi i giorni della settimana.

La liturgia di questa domenica sottolinea la necessità di «rimanere» in Gesù, un tema particolarmente caro all’apostolo Giovanni. Nella sua prima lettera afferma: «Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio e Dio in lui». E nella parabola della vite e i tralci il termine «rimanere» ne è il cuore. Il verbo viene ripetuto ben sette volte nel nostro testo, e nei versetti seguenti altre due volte. L’immagine della vigna, nel suo simbolismo religioso, era molto nota ai discepoli di Gesù. Uno degli ornamenti più vistosi del tempio eretto a Gerusalemme da Erode e che Gesù frequentò era appunto una vite d’oro con grappoli alti come un uomo. Ma soprattutto nelle Scritture il tema della vigna era tra i più significativi per esprimere il rapporto tra Dio e il suo popolo: «Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte!» invoca il salmista (80,15-16). E Isaia, nel mirabile «canto della vigna», descrive la delusione di Dio nei confronti di Israele, sua vigna, che aveva curato, piantato, vangato, difeso, ma dalla quale non ha avuto altro che frutti amari. Geremia rimprovera il popolo d’Israele: «Io ti avevo piantata come vite pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?» (2,21).

Nelle parole di Gesù, c’è un cambiamento piuttosto singolare, la vite non è più Israele, ma lui stesso: «Io sono la vera vite». Nessuno l’aveva mai detto prima. Per comprendere appieno queste parole è necessario collocarle nel contesto dell’ultima cena, quando Gesù le pronunciò. Quella sera il discorso ai discepoli fu lungo, complesso e con i toni di gravità propri degli ultimi momenti della vita: un vero e proprio testa­mento. Nel primo discorso chiarisce chi è la vera guida del popolo del Signore; e dice: «Io sono il buon pastore». Subito dopo, iniziando il secondo discorso, afferma: «Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agri­coltore». Gesù si identifica con la vite, specificando che è la «vera» vite; ovviamente per distinguersi dalla «falsa».

Ma non è una vite isolata. Gesù aggiunge: «io sono la vite e voi i tral­ci». I discepoli sono legati al Maestro e sono parte integrante della vite: non c’è vite senza tralci, e viceversa. Potremmo dire che il legame dei discepoli con Gesù è appunto come quello della vite con i tralci, essen­ziale e forte. È un legame che va ben oltre i nostri alti e bassi psicologi­ci, le nostre buone o cattive condizioni. L’antico segno biblico della vigna riappare qui in tutta la sua forza. Con Gesù nasce una vigna più larga e più estesa della precedente e soprattutto percorsa da una nuova linfa, l’agape, l’amore stesso di Dio. La forza di questo amore è dirom­pente: permette di produrre molto frutto. Dice Gesù: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto». Sono belle le paro­le di commento di Papia, uno dei Padri Apostolici, a questa pagina evangelica: «Verranno giorni in cui nasceranno vigne, con diecimila viti ciascuna. Ogni vite avrà diecimila tralci ed ogni tralcio avrà diecimila pampini e ogni pampino diecimila grappoli. Ogni grappolo avrà diecimila acini, ed ogni acino spremuto darà una misura abbondante di vino».

Il Vangelo prosegue: «Ogni tralcio che porta frutto, lo porta perché porti più frutto». Sì, proprio quelli che «portano frutto», conoscono anche il momento della potatura. Sono quei tagli che di tempo in tempo, appunto come accade nella vita naturale, è necessario operare perché possiamo essere «senza macchia» (Ef 5,27). Il testo evangelico non vuol dire che Dio manda dolori e sofferenze ai suoi figli migliori per provarli o purificarli. No, non è in questo senso che va intesa la potatura; il Signore non ha bisogno di intervenire con le sofferenze per migliorare i suoi figli. La verità è molto più piana. La vita spirituale è sempre un itinerario o, se si vuole, una crescita. Ma non è mai né scon­tata né naturale, e non è un progresso univoco. Ognuno di noi ha l’esperienza della crescita in se stesso di frutti buoni assieme a senti­menti cattivi, ad abitudini egoistiche, ad atteggiamenti freddi e violenti, a pensieri malevoli, a spinte di invidia e di orgoglio… È, qui che si deve potare, e non una volta sola, perché sempre si ripresentano questi sentimenti, seppure in modi e con manifestazioni diverse. Non c’è età della vita che non esiga cambiamenti e correzioni, e quindi potature.

Questi tagli, talora anche molto dolorosi, purificano la nostra vita e fanno scorrere con maggior freschezza la linfa dell’amore del Signore. Per sei volte, in otto righe, Gesù ripete: «rimanete in me», «rimanete nella vite». È la condizione per portare frutto, per non seccarsi ed essere quindi tagliati e bruciati. Forse quella sera i discepoli non capirono; magari, si saranno chiesti: «ma che vuol dire rimanere con lui se sta per andarsene?». In verità, Gesù indicava una via semplice per restare con lui; si rimane in lui se le «sue parole rimangono in noi». È la via che intraprese Maria, sua madre, la quale «conservava nel suo cuore tutte queste cose». È la via che scelse Maria, la sorella di Lazzaro, che restava ai piedi di Gesù e ascoltava la sua parola. È la via tracciata per ogni discepolo. Nella tradizione bizantina c’è una splendida icona che riproduce plasticamente questa parabola evangelica. Al centro è dipinto il tronco della vite su cui è seduto Gesù con la Scrittura aperta. Dal tronco partono dodici rami su ognuno dei quali è seduto un apostolo, con la Scrittura aperta tra le mani. È l’icona della nuova vigna, l’immagine della nuova comunità che ha origine da Gesù, vera vite. Quel libro aperto che sta nelle mani di Gesù è lo stesso che hanno gli apostoli: è la vera linfa che permette di «non amare a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità».

 

L’immagine della domenica  


LA GIOIA DI VOLARE 

Chi lega a sé una gioia

distrugge la vita che vola;

ma chi bacia la gioia che vola

vive nell’alba dell’Eternità.

(William Blake)

 

Preghiere e racconti

Naturale e artificiale

La nostra vita è vita davvero non quando conosciamo la data esatta della nostra morte ma quando ne accettiamo l’esistenza come dato fondante della nostra complessità. La nostra vita è davvero vita non quando livelliamo la diversità nel nome di un malinteso bene comune, ma quando diventiamo consapevoli che la nostra verità non sta nell’avere ma nell’essere, nel costruire il nostro destino esercitando la vita contro la morte, l’accoglienza invece del rifiuto, la compassione invece dell’intolleranza, la gratitudine al posto del risentimento.

Per essere grati, dobbiamo però rompere l’idolatrica maschera che genera sterilità e risentimento.

Per essere grati, dobbiamo fare un passo indietro e provare stupore per il puro fatto di esistere, fuori dal mistero dell’oscurità.

Per essere grati, dobbiamo imparare a purificare il nostro cuore da tutte le sozzure, da tutti gli idoli, liberarlo dall’ego onnipresente perché al suo posto si possa accasare la Sapienza.

Per essere grati, dovremmo raggiungere quel punto in noi stessi in cui il finito tocca l’infinito e provare nostalgia per il bene racchiuso nell’Alleanza.

Per essere grati, dobbiamo riconoscere la vita come dono e come immensa potenza del sacro presente nel mondo.

Lo sguardo della gratitudine è uno sguardo che non teme le emozioni più profonde, al contrario trova proprio nel viverle il suo vero compimento. Non c’è ritrosia, non frigidità nella gratitudine ma, piuttosto, abbondanza di lacrime. Quanta bellezza abbiamo sprecato, quanta armonia abbiamo distrutto, quanta misericordia non abbiamo vissuto! Eppure era lì, davanti a noi, sarebbe bastato aprire gli occhi, le orecchie, mettersi umilmente seduti in ascolto: ascoltare il silenzio e, con il silenzio, tutto ciò che al suo interno si nasconde.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 112-113)

 

Io sarò vigna

Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.

Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: «Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti. Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo».

   E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: «I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni».

E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».

E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.

(K. GIBRAN, Il Profeta).

 

Curare la vigna è come curare la vita

Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, all’andata come al ritorno, dovevo camminare mezz’ora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche. Cosi ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle. La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno scostato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.

D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E li, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio li, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).

 

Noi tralci, Lui la vite: siamo della stessa pianta di Cristo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio: io e lui la stessa cosa! Stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Lui in me e io in lui, come figlio nella madre. E il mio padre è il vignaiolo: Dio raccontato con le parole semplici della vita e del lavoro. Un Dio che mi lavora, si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma le cesoie, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. Per farmi portare sempre più frutto.

E poi una novità assoluta: mentre nei profeti e nei salmi del Primo Testamento, Dio era descritto come il padrone della vigna, contadino operoso, vendemmiatore attento, tutt’altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io sono la vite, voi siete i tralci. Facciamo parte della stessa pianta, come le scintille nel fuoco, come una goccia nell’acqua, come il respiro nell’aria. Con l’Incarnazione di Gesù, Dio che si innesta nell’umanità e in me, è accaduta una cosa straordinaria: il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore seme, il vasaio si è fatto argilla, il Creatore creatura. La vite-Gesù spinge la linfa in tutti i miei tralci e fa circolare forza divina per ogni mia fibra. Succhio da lui vita dolcissima e forte. Dio che mi sei intimo, che mi scorri dentro, tu mi vuoi sempre più vivo e più fecondo di gesti d’amore… Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte? Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, inviare mali o sofferenze, bensì dare forza, qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Questo vuole per me il Dio vignaiolo: «Portare frutto è simbolo del possedere la vita divina» (Brown).

Dio opera per l’incremento, per l’intensificazione di tutto ciò che di più bello e promettente abita in noi. Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa che sale e si diffonde fino all’ultima gemma. Noi portiamo un tesoro nei nostri vasi d’argilla, un tesoro divino: c’è un amore che sale lungo i ceppi di tutte le vigne, di tutte le esistenze, un amore che sale in me e irrora ogni fibra. E l’ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. Se noi sapessimo quale energia c’è nella creatura umana! Abbiamo dentro una vita che viene da prima di noi e va oltre noi. Viene da Dio, radice del vivere, che ripete a ogni piccolo tralcio: Ho bisogno di te per grappoli profumati e dolci; di te per una vendemmia di sole e di miele.

(Ermes Ronchi)

 

La potatura

Nel vangelo secondo Giovanni ci sono parole di Gesù alle quali purtroppo siamo abituati e che dunque ascoltiamo o leggiamo in modo superficiale. In verità confesso che queste parole mi sembrano folli, mi sembrano pretese assurde, che un uomo equilibrato non può avanzare. Solo quando le leggo o le ascolto quali parole del Risorto vivente, del Kýrios, del Signore in mezzo alla sua chiesa (cf. Gv 20,19.26), mi sento di accoglierle come parole di verità e di vita. Ma allora mi danno quasi le vertigini e mi fanno sentire inadeguato di fronte alla rivelazione del mistero…

I brani giovannei che ascoltiamo nel tempo pasquale e che innanzitutto testimoniano – come si vedeva domenica scorsa – le affermazioni di Gesù “Io sono…”, possono urtarci, possono sembrare incomprensibili… eppure sono parole del Signore! La pagina odierna è tratta dai “discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), parole – lo ripeto – del Risorto. Gesù afferma: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore, il vignaiolo”. Per un ebreo credente la vite è una pianta familiare, che insieme al grano e all’olivo contrassegna la terra di Israele; è la pianta da cui si trae “il vino, che rallegra il cuore umano” (Sal 104,15). Proprio la vite era diventata l’immagine del popolo di Israele, della comunità del Signore: vite scelta, strappata all’Egitto e trapiantata (cf. Sal 80,9-12), coltivata con cura e amore dal Signore, che da essa attende frutti (cf. Is 5,4).

Gesù, rivelando di essere lui la vite vera (alethiné) – come Geremia proclama di Israele: “Ti ho piantato come vite vera (alethiné)” (Ger 2,21) – si definisce l’Israele autentico, piantato da Dio, dunque pretende di rappresentare tutto il suo popolo. Egli è la vite vera e Dio, chiamato con audacia “Padre”, è il vignaiolo, colui che la coltiva. I profeti nella loro predicazione si erano più volte serviti di questa immagine per parlare dei credenti: Dio è il vignaiolo che ama la sua vigna ma da essa è frustrato (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21; 5,10; 6,9; 8,13); Dio è il vignaiolo che piange la sua vigna, un tempo rigogliosa ma ora bruciata (cf. Os 10,1; Ez 15,1-8); Dio è il vignaiolo invocato in soccorso della sua vigna devastata e recisa (cf. Sal 80,13-17). Sì, Gesù, il Messia di Israele, è la vigna che ricapitola in sé tutta la storia del popolo di Dio, assumendo i suoi peccati e le sue sofferenze. Gesù però è anche la vigna che è la sua comunità, la chiesa, e – come dice Paolo servendosi della metafora del corpo che, seppur formato dal capo e dalle membra è uno solo (cf. Rm 12,4-8; 1Cor 12,12-27) – egli è la pianta e i credenti in lui sono i tralci: ma la pianta della vite è sempre una! Il Padre vignaiolo, avendo cura di questa vite e desiderando che faccia frutti abbondanti, interviene non solo lavorando la terra ma anche con la potatura, operazione che il contadino fa d’inverno, quando la vite non ha foglie e sembra morta.

Conosciamo bene la potatura necessaria affinché la vite possa aumentare la linfa e così produrre non fogliame, non tralci vuoti, ma grappoli grandi, nutriti fino alla maturazione. Quando il contadino pota, allora la vite “piange” dove è tagliata, fino a quando la ferita guarisce e si cicatrizza. La potatura tanto necessaria è pur sempre un’operazione dolorosa per la vite, e molti tralci sono tagliati e gettati nel fuoco… Gesù non ha paura di dire che anche suo Padre, Dio, deve compiere tale potatura, che la vita che egli è deve essere mondata e che dunque deve sentire nel suo stesso corpo le ferite. È la parola di Dio che compie questa potatura, perché essa è anche giudizio che separa; del resto, non era stata proprio la parola di Dio a mondare la comunità di Gesù, con l’uscita dal cenacolo di Giuda il traditore, la sera precedente la passione (cf. Gv 13,30)?

Per i discepoli di Gesù c’è la necessità di rimanere tralci della vite che egli è, di rimanere (verbo méno) in Gesù (facendo rimanere in loro le sue parole) come lui rimane in loro. Rimanere non è solo restare, dimorare, ma significa essere comunicanti in e con Gesù a tal punto da poter vivere, per la stessa linfa, di una stessa vita.

Ognuno di noi discepoli di Gesù è un tralcio che, se non porta frutto, viene separato dalla vite e può solo seccare ed essere gettato nel fuoco; ma se resta un tralcio della vite, allora dà frutto e, per la potatura ricevuta dal Padre, darà frutto buono e abbondante! Ma in questa parola di Gesù ci viene anche ricordato che non spetta né alla vigna né alla vite potare, e dunque separare, staccare i tralci: solo Dio lo può fare, non la chiesa, vigna del Signore, non i tralci. E non va dimenticato che, se anche la vigna a volte può diventare rigogliosa e lussureggiante, resta però sempre esposta al rischio di fare fogliame e di non dare frutto. Per questo è assolutamente necessario che nella vita dei credenti sia presente la parola di Dio con tutta la sua potenza e la sua signoria: la Parola che monda (verbo kathaíro) chiesa e comunità; la Parola che, come spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12), taglia il tralcio sterile, pota il tralcio rigoglioso e prepara una vendemmia abbondante e buona.

(Enzo Bianchi)

 

Senza di me non potete far nulla

     Il Signore prosegue: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). […] Chi si illude di poter portare frutto da se stesso, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo non è cristiano. Ecco in quale profondo abisso siete precipitati. Ma considerate ancor più attentamente ciò che aggiunge e afferma la Verità: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce «molto frutto», non dice: perché senza di me potete fare poco, ma: «senza di me non potete far nulla». Tanto il poco che il molto, non si può comunque farlo senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Anche quando il tralcio produce poco frutto, infatti, il viticoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia se il tralcio non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. […] «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i cristiani se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere rimanendo nel Salvatore, se non ciò che tende alla salvezza? […] Le parole del Signore rimangono in noi, quando facciamo tutto quanto egli ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma non si trovano realizzate nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 81,2-4, NBA XXIV, pp. 1240-1244).

 

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta                                            

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau).

 

Aumenta la nostra fede

«Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un dono elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5). Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro decisione, ma credevano di riceverla in dono da Dio. Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insufficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32). Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24). I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non speravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro. E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidiano del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita dichiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può portare frutti spirituali. Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).

(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp. 160-161).

 

Preghiera

O Padre, celeste vignaiolo che hai piantato sulla nostra terra la tua vite scelta – il santo germoglio della stirpe di David – e compi il tuo lavoro in ogni stagione.

Fa’ che accettiamo le potature di primavera, anche se, teneri tralci, gemiamo trasudando lacrime sotto i colpi decisi delle tue cesoie. Vieni pure a mondarci nel culmine della stagione estiva, perché i viticci superflui non sottraggano linfa vitale al grappolo che deve maturare.

Frutto della nostra vita sia l’amore, quel «più grande amore» che dal tuo cuore, attraverso il cuore di Cristo, con flusso inesauribile si riversa in noi. E tutti gli uomini, fratelli nostri nel tuo nome, ne siano ricolmati, con spirito di dolcezza, di gioia e di pace.

    

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA DI PASQUA (B)

IV DOMENICA DI PASQUA

 Prima lettura:Atti 4,8-12

In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.  Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

 

 

  • Il testo è il terzo discorso cristologico «di» Pietro negli Atti (cf. 2,14-36; 3,12-26). Egli sta parlando proprio negli atri del Tempio (portico di Salomone) dopo aver ridato, «nel nome di Gesù il Nazareno» la salute a uno storpio. Nonostante la sua fine ignominiosa sulla croce, Gesù è risuscitato dai morti.

         Pietro e Giovanni si arrogavano un diritto, quello di parlare dentro il recinto sacro, che non avevano, facendo pure affermazioni false, almeno dubbie, sulla risurrezione di un condannato a morte. Per questo le autorità intervengono: «i sacerdoti, il capitano del tempio, i sadducei» (4,1). Questi ultimi fanno parte del partito dominante, ma intervengono soprattutto perché offesi nelle loro convinzioni dottrinali. Essi non ammettevano la risurrezione dei morti (cf. At 23,8; Mt 22,23). I due apostoli sono messi in prigione e il processo è rimandato al giorno dopo, debbono rispondere del loro potere taumaturgico. In genere i prodigi si operavano in nome di Dio, ma ci si poteva avvalere anche di forze avverse a lui. Gesù era stato accusato di compiere i miracoli in virtù di Beelzebub; potevano essere impostori anche i suoi discepoli.

         La risposta di Pietro, forse meglio la prima apologetica cristiana, è apodittica; il loro potere viene da Gesù. Il «nome» è un ebraismo che sta per la persona. «Quell’uomo» (2,22) pertanto che essi avevano crocifisso è in grado di operare ancora; vuol dire che è tuttora vivo; è uscito dal regno dei morti; è passato nel mondo della vita, ossia di Dio. È infatti alla «sua destra» ed è «stato costituito Signore e Cristo», aveva affermato poco prima davanti al popolo (2,24,33,36).

         Pietro e Giovanni sono, a detta delle stesse autorità, dei semplici «illetterati», non possono conoscere segrete arti magiche, perciò la guarigione del paralitico non può non essere attribuita che a una potenza superiore che parte sempre da Dio. Questa era quindi una riprova delle rivendicazioni di Gesù. La sua sconfitta era stata solo apparente. Egli opera ancora nella storia anche se solo tramite i suoi discepoli.

         Il coraggio dei due illetterati che polemizzano con le stesse autorità giudaiche è al di sopra di ogni supposizione. Occorre che gli interlocutori cambino il loro giudizio su Gesù di Nazaret: invece che un malfattore debbono considerarlo il loro salvatore. Egli solo è la pietra angolare su cui grava la nuova comunità dei credenti. Se non si accetta questo rife-rimento e questa subordinazione non si arriva a Dio.

     

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-2

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.  Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

 

 

  • L’autore della I lettera di Giovanni richiama un aspetto essenziale dell’identità cristiana, la filiazione da Dio. Egli non è un teologo e ancor meno un filosofo bensì una guida spirituale che deduce la «filiazione divina» del cristiano dalla comunione di vita e dall’identità di comportamento che riesce ad avere con il Signore.

         La «conoscenza» di Dio, è detto al cap. 2,1, quindi il rapporto intimo con lui (senso biblico di conoscere), non dipende dalla comprensione della sua realtà ultima, ma dall’adeguazione dei propri comportamenti con i suoi. È l’agire come Dio agisce — cioè con quella stessa rettitudine, santità, perfezione — che rivela la somiglianza, la «connaturalità» con lui. «Da questo sappiamo di conoscerlo (di amarlo), se osserviamo i suoi comandamenti» (2,3). E aggiunge: «Da ciò conosciamo di essere in lui» (2,5). Concludendo ribadisce: «Chi dice di dimorare in lui (in Dio) deve comportarsi come lui (Gesù Cristo) si è comportato» (2,5-6).

         In fondo vivere cristianamente è ripercorrere fino alla perfezione il cammino di Gesù il quale in tutto ha cercato di attuare il volere del Padre. Ma il cristiano deve rimanere in comunione con Dio e in unione con Cristo non solo intenzionalmente ma realmente, facendo propria la testimonianza di Cristo che è l’esplicitazione ultima della volontà di Dio. «Se voi conoscete che egli è giusto anche chi opera la giustizia è da lui (Dio) generato» (2,29).

         È l’agire che rivela l’intima natura dell’uomo, in questo caso del cristiano. Se ci si comporta come Dio che sa compiere solo il bene a tutti anche a quelli che non lo meritano, si da non solo a vedere ma realmente si dimostra che si hanno i suoi stessi sentimenti, la sua stessa bontà e santità. «Figlio di Dio» è un appellativo onorifico ma anche oneroso, poiché comporta una scelta operativa che deve mantenersi sulla stessa linea di quella di Dio. La filiazione è un dono di Dio ma è anche risposta dell’uomo che ha saputo accogliere le mozioni dello Spirito e si è lasciato guidare da esse nella sua vita.

         Il cristiano che sa fare il bene a chi ne ha bisogno, sino ad amare pure chi lo odia, è vero figlio di Dio perché compie ciò che Dio stesso realizza nel corso del tempo e della storia.

 

Vangelo: Giovanni 10,11-18

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

 

 

Esegesi

   La pericope (Gv 10,11-18) illustra il comportamento di Gesù verso gli uomini. Esso si contrappone a quello delle guide giudaiche, ma l’evangelista pensa anche a quelle di certe comunità cristiane. Il confronto che compare altre volte nel libro (cf. 2,13ss; 8,31 ss) inizia al termine del capitolo IX.

     Gesù sta parlando con un gruppo di farisei definiti ciechi non per nascita, ma volontari, perché, pur vedendo le opere che il Cristo compie, rifiutano di comprenderne la portata, come dimostra la reazione davanti al miracolo dell’uomo a cui è stata ridonata la vista (9,14). Non solo non vogliono vedere ma pretendono di imporre come verità la loro menzogna. Ritorna il detto: gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce (3,19).

     I dirigenti d’Israele sono guide cieche, ma più ancora sono «briganti e ladri» (10,1). Essi si sono introdotti nell’«atrio», (aulè), il recinto sacro, il tempio, non attraverso la porta, legittimamente quindi, ma fraudolentemente, peggio,  rubando e uccidendo le persone giuste e innocenti che vi si frapponevano. I ladri sono chiamati tali perché saltano i muri; il vero pastore passa attraverso la porta: è noto al portiere e alle pecore, può chiamarle e condurle al pascolo.

     Affinché  non ci siano equivoci, l’evangelista scopre l’identità del pastore: «Io sono», proclama solennemente Gesù; ma non uno qualunque, bensì «il pastore per eccellenza» (ho kalòs). L’espressione dice di più di «buon pastore». Egli solo realizza l’oracolo di Ez 34,23 («Susciterò per loro un pastore che li pascerà, David mio servo; egli li condurrà al pascolo; sarà il loro pastore»). Il re-pastore che Israele attende è, nonostante le apparenze e la sua provenienza da un oscuro villaggio della Galilea (Gv 1,42), Gesù il nazareno.

     Nella storia d’Israele si sono susseguiti molti pastori, forse anche buoni, ma nessuno merita tale appellativo quanto Gesù, perché nessuno ha svolto compiti pari ai suoi e soprattutto con la dedizione eguale alla sua. La specificità del vero pastore è vivere e operare per il bene del gregge, non per la propria esaltazione o per interesse. In realtà il vero pastore è a servizio delle pecore e non permette che queste siano a servizio della sua persona (cf. Ez 34,10). Il suo contrario è il mandriano che lavora per la mercede, senza affezione e nemmeno tanta attenzione alla sicurezza delle pecore, che pure ha in custodia.

     Quelli che prima erano «guide cieche», «briganti e ladri», sono ora designati come «mercenari». Essi che uccidevano e distruggevano ora lasciano sbranare le pecore dai «lupi» che sono in fondo i loro alleati poiché compiono le loro stesse operazioni, disperdere le pecore invece che proteggerle.

     Il ragionamento giovanneo avanza, com’è risaputo, per «circoli concentrici». L’evangelista ha detto il suo pensiero fin dall’inizio del capitolo, ne ha enunciato il tema al v. 11 ; ma vi torna sopra ripetutamente aggiungendovi ulteriori precisazioni. Gesù è il pastore vero, ideale, perché assolve il suo mandato non tanto per dovere, quanto con dedizione e amore. Egli infatti ama le pecore che gli sono state affidate. Il verbo «conoscere» nel linguaggio biblico non è semplice percezione mentale, ma relazione affettiva e fattiva. È sinonimo di volontà di bene; è amare. «Nessuno conosce il padre se non il figlio», afferma Gesù nel comma giovanneo di Mt 11,27; nessuno cioè lo ama quanto lui ed è da lui riamato. Allo stesso modo Gesù dedica le sue energie, e alla fine la sua stessa vita, per le persone alle quali è stato inviato. Il rapporto che lo lega a Dio è lo stesso che lo porta agli uomini, per questo si tratta di un riferimento autentico, sincero, vero. «Quel giorno conoscerete, cioè sperimenterete, che io sono nel padre mio; voi in me ed io in voi», affermerà più avanti egli stesso (Gv 14,20). Con Dio non si può fingere quindi non ci può essere inganno nell’amore di Gesù per l’uomo. Esso è senza limiti, senza restrizioni, totale, poiché non si arresta neanche davanti al pericolo della vita. Gesù infatti ha sostenuto la causa dei suoi «fratelli» (cf. Gv 20,17) contro il potere delle guide cieche, affrontando ladri e banditi con il rischio di rimanere vittima delle loro aggressioni.

     Non solo. Il pericolo né l’ha fatto recedere dai suoi compiti, né ha ristretto l’ambito delle sue operazioni. Egli più che fermarsi alle pecore perdute della casa d’Israele (Mt 10,6), rivolge i suoi messaggi e le sue attenzioni a tutti coloro che incontra nel suo cammino, dentro e fuori i confini della Palestina. La sua luce si irradia su «ogni uomo» (Gv 1,6), non solo sugli israeliti. La comunità cristiana è senza frontiere, universale. I privilegi d’Israele sono caduti una volta per sempre. Il velo del tempio, direbbe Matteo, è stato strappato da capo a fondo e non può essere più ricucito (27,51).

     I seguaci di Gesù, i nuovi credenti, provengono dalle fila del giudaismo, dall’interno del recinto sacro (atrio), ma anche dalle nazioni, poiché pure ad esse appartiene la salvezza. L’unità di tutti i credenti non sarà più fondata sulla dipendenza a istituti o istituzioni sacre, ma dalla comunione che gli uomini avranno tra di loro e con Cristo. La «voce» di Gesù

che tutti egualmente ascolteranno si identifica innanzitutto con le sue proposte, ma anche con il calore con cui le comunica, l’amore con cui le accompagna. Coloro che l’ascoltano ne rimarranno per questo conquistati e coinvolti, diventando suoi discepoli.           

     L’ultima ripresa del discorso, il «circolo» conclusivo, allarga ancora una volta il tema iniziale. Gesù è stato investito dallo Spirito di Dio per una missione tra gli uomini (Gv 1,32), in concreto ha avvertito in sé i riflessi che l’amore di Dio ha per le sue creature predilette e gli ha dato piena accoglienza, non tanto per la sua realizzazione o glorificazione, quanto per il loro bene. Il dare se stesso è perdere la propria vita, ma non è perdersi, poiché la vita data per amore diventa un guadagno (cf. Fil 1,21; 3,7), un ricupero centuplicato di quanto si è dato (Mt 19,29).

     L’amore è libera donazione. Per questo ciò che Gesù ha compiuto è frutto di una sua personale decisione; nessuno l’ha obbligato, tanto meno costretto; ha fatto solo quello che lo Spirito gli ha suggerito e quello che lui ha «liberamente» voluto. L’amore di Dio è stato liberamente accolto e liberamente sono state accettate le sue richieste. Per questo l’opera di

Gesù è stata una risposta di amore.

 

L’immagine della domenica 

 

IL PASTORE BUONO

«Anche se vado per una valle oscura,

non temo alcun male,

perché tu sei con me.

Il tuo bastone e il tuo vincastro

mi danno sicurezza» 

(Salmo 23, 4).

 

Meditazione

La comunità ecclesiale dedica questa quarta domenica di Pasqua, chiamata del Buon Pastore, alla preghiera e alla riflessione per le vocazioni sacerdotali e religiose. Al centro della liturgia della Parola c’è l’appassionato, discorso ove Gesù, in piena polemica con la classe dirigente d’Israele, si presenta come il «buon pastore», ossia come colui che raccoglie e guida le pecore sino ad offrire la sua stessa vita. E aggiunge: «chi non offre la vita per le pecore non è pastore bensì mercenario». In effetti, l’opposizione tra il pastore e il mercenario nasce proprio da questa motivazione: il pastore svolge la sua opera per amore, rinunciando al proprio interesse anche a costo della vita, mentre il mercenario lo fa per interesse personale e per denaro, ed è quindi logico che nel momento del pericolo abban-doni le pecore al loro destino. L’evangelista indica il pericolo con l’immagine del lupo che «rapisce e disperde» le pecore. È una sferzata durissima ai farisei, accusati di «pascere se stessi… e non il gregge» (Ez 34,2), mentre egli è venuto per «raccogliere in unità i figli dispersi» (Gv 11,52).

A guardare bene, l’opera del lupo è congeniale all’atteggiamento del mercenario. Ad ambedue, infatti, interessa solo il proprio tornaconto, la propria soddisfazione, il proprio guadagno e non quello delle pecore; si realizza così una alleanza di fatto tra l’interesse per sé e il disinteresse per gli altri. Ne viene fuori una sorta di diabolica congiura degli indifferenti e degli egoisti contro i più deboli e gli indifesi. Se pensiamo all’enorme numero di persone che hanno smarrito il senso della vita e vagano senza meta alcuna, se guardiamo i milioni di profughi che abbandonano le loro terre e i loro affetti in cerca di una vita migliore senza che nessuno se ne preoccupi, se osserviamo lo sbandamento dei giovani in cerca della felicità senza che ci sia chi gliela indichi, dobbiamo purtroppo constatare la triste e crudele alleanza tra i lupi e i mercenari, tra gli indifferenti e coloro che cercano solo di trar-re vantaggi personali da tali sbandamenti. Scrive il profeta Ezechiele: «le mie pecore si disperdono su tutto il territorio del paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura» (Ez 34,6).

Viene il Signore Gesù e con autorità grande afferma: «Io sono il buon pastore, o dò la vita per le mie pecore». Non solo lo ha detto. Lo ha anche mostrato con i fatti, particolarmente nei giorni della Settimana Santa, quando ha amato i suoi fino alla fine, fino all’effusio­ne del sangue. Finalmente è arrivato in mezzo agli uomini chi spezza la triste e amara alleanza tra il lupo e il mercenario, tra l’interesse per sé e il disinteresse per gli altri, e finalmente chi ha bisogno di conforto e di aiuto sa dove rivolgersi, sa dove bussare, sa dove muovere i suoi occhi e il suo cuore. Gesù stesso lo disse: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32). Tutto il Vangelo, in fondo, non parla d’altro che di questo legame tra folle disperate, abbandonate, sfinite, senza pastore e Gesù che si commuove per loro. «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?» (Lc 15,4), dice il Signore. Si attribuisce a San Carlo Borromeo la frase: «per salvare un’anima, anche una sola, andrei sino all’inferno». Questo è l’animo del pastore: andare sino all’inferno, sino al punto più profondo, sino al limite più basso, per salvare una persona. Si può comprendere anche in questa prospettiva la «discesa agli inferi» di Gesù nel Sabato Santo. Neppure da morto, potremmo dire, Gesù si è fermato a pensare a se stesso; ma come buon pastore è andato a cercare chi era perduto, chi era ed è dimenticato, chi era ed è negli inferni di questo mondo che il male e gli uomini hanno creato.

Il Vangelo sembra dire che o si è pastori in questo modo o altri­menti non si può che essere mercenari. È vero, solo Gesù è «buon pastore»: o si somiglia a lui o si tradisce la sua stessa missione. Sappiamo bene di essere inadeguati, ed è il suo Spirito effuso nei nostri cuori che ci trasforma perché «abbiamo in noi gli stessi senti­menti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2, 5). L’odierna pagina evange­lica — come questa domenica suggerisce — si applica anzitutto a coloro che hanno responsabilità «pastorali» nella Chiesa, in particolare ai vescovi e ai sacerdoti. Ed è sommamente opportuno; è anzi doveroso pregare, e non solo oggi, perché i «pastori» somiglino sempre più a Gesù, vero ed unico «buon pastore». Ed è anche urgente intensificare la nostra preghiera perché il Signore doni alla sua Chiesa giovani che ascoltino l’invito ad essere «pastori» secondo il suo cuore, secondo la sua stessa passione d’amore.

Ogni comunità cristiana è chiamata a guardare l’abbondanza della «messe» e la scarsità degli «operai». Fa parte della sua preoccupazione più intensa. C’è tuttavia una responsabilità «pastorale» che appartiene a tutti i credenti. Ogni discepolo, infatti, è nello stesso tempo membro del gregge del Signore ma, a suo modo, anche «pastore», ossia respon­sabile dei fratelli, delle sorelle e del prossimo. In tante altre pagine della Scrittura emerge questa responsabilità «pastorale» di ogni creden­te. Alle origini dell’umanità Dio chiese conto a Caino di suo fratello, e non fu certo esemplare la risposta: «Son forse io custode di mio fratel­lo?». Sì, Caino era il custode (in questo senso si può dire che era il «pastore») di Abele. Così ogni credente deve esserlo per il suo prossi­mo. Salga a Dio la preghiera perché nella comunità cristiana ci sia chi ascolti la chiamata del Signore a servire la Chiesa nel ministero ordina­to. È da questo terreno pieno di «pastoralità» che possono nascere «pastori» per l’oggi. Una comunità appassionata genera pastori. Il buon pastore, infatti, non è un eroe; è uno che ama; e l’amore porta là dove neppure sogneremmo di arrivare.

L’amore sostiene il «buon pastore» e lo sottrae dalla logica del mer­cato e dalle trame fredde dell’interesse individuale. Questo amore ci fa uscire dalle nostre chiusure, dalle nostre abitudini pigre, dai nostri recinti, e ci inserisce nelle preoccupazioni stesse del Signore: «Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore». L’amore di Dio intenerisce il cuore: ci fa commuovere su coloro che vagano nella nostra città in cerca di un approdo, su quelli che non sanno ove trovare conforto, sui milioni e milioni di disperati che coprono la faccia della terra, su quell’uomo o quella donna vicina o lontana che aspetta consolazione e non la trova. Scrive Matteo: «Gesù vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore che non hanno pastore». E aggiunge subito l’evangelista: «Allora disse ai suoi discepoli: pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe» (Mt 9,36-37). Tutta la comunità cristiana è unita al Signore Gesù che si commuove ancora sulle folle di questo mondo. E con lui prega perché non manchino gli operai per la vigna del Signore. Ma nello stesso tempo, ogni credente, davanti a Dio e davanti «ai campi che già biondeggiano per la mietitura» (Gv 4,35) deve dire con il profeta: «Ecco, Signore, manda me!» (Is 6,8).

 

Preghiere e racconti

Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo

«Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore» (10,14s). In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto. La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore. La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre. I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù. Allora potremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro. Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.

Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo. Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione empirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo. L’uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio. Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.

La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comunione della conoscenza e dell’amore di Dio. Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinitario.

L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre. «La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità.

Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre. Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».

(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).

 

Gesù, il buon pastore

Chi è Gesù? Gesù è il buon pastore. Siamo invitati dallo stesso Signore a pensarlo così: una figura estremamente amabile, dolce, vicina. E noi possiamo attribuire soltanto al Signore l’esprimersi con bontà infinita. Presentandosi in tale aspetto, egli ripete l’invito del pastore: disegna cioè un rapporto che sa di tenerezza e di prodigio. Conosce le sue pecorelle, e le chiama per nome. Poiché noi siamo del suo gregge, è agevole la possibilità di corrispondenza che antecede il nostro stesso ricorso a lui.

Egli ci conosce e ci nomina; si avvicina a ciascuno di noi e desidera farci pervenire a una relazione affettuosa, filiale con lui. La bontà del Signore si palesa qui in maniera sublime, ineffabile […].

Il Cristo che portiamo all’umanità è il «Figlio dell’uomo», come lui stesso si è chiamato. È il primogenito, il prototipo della nuova umanità, è il Fratello, il Compagno, l’Amico per eccellenza. Solo di lui si può dire con piena verità che «conosceva tutto quanto c’è nell’uomo» (Gv 2,25). È l’inviato da Dio, non per condannare il mondo, ma per salvarlo. È il buon pastore dell’umanità. Non c’è valore umano che non abbia rispettato, innalzato e riscattato. Non c’è sofferenza umana che non abbia compresa, condivisa e valorizzata. Non c’è bisogno umano – fatta eccezione delle imperfezioni umane – che non abbia assunto e provato lui stesso e proposto alla inventiva e alla generosità degli altri uomini come oggetto della loro sollecitudine e del loro amore, per così dire come condizione della loro salvezza.

(PAOLO VI, Discorso del 28 aprile 1968).

 

Il Pastore ucciso come pecora

Volgiamo gli occhi al nostro pastore, il Cristo. Vediamo il suo amore che con la sua mitezza vince l’indolenza delle pecore. Gioisce delle pecore che lo circondano, cerca quelle che si smarriscono. Non rifiuta di percorrere monti e foreste, attraversa precipizi, è accanto a quella che vagabonda e se la trova affaticata, non la odia a motivo del suo comportamento, ma è mosso a compassione dal suo patire e, presala sulle spalle, cura la fatica della pecora con la propria fatica. E gioisce della propria fatica, perché ha trovato le pecore e guarisce le loro fatiche. «Chi se ha cento pecore e ne ha perduta una, non lascia le novantanove nel deserto e non va a cercare la perduta finché la trova?» (Lc 15,4). La perdita di una sola pecora turba la gioia di quelle al sicuro, e la tristezza di una sola minaccia la gioia di tutte. […] Ma se il pastore «la trova, la prende sulle sue spalle con gioia» (Gv 10,11) «ed, entrato nella casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (Lc 15,6)». […]

    «Io sono il buon pastore. Il buon pastore depone la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Pilato ha visto questo pastore, gli ebrei lo hanno visto, condotto alla croce per il suo gregge, come annunciava il coro dei profeti: «Come un agnello è condotto al macello, come pecora muta davanti ai tosatori, non ha aperto la sua bocca» (Is 53,7). Il Pastore è ucciso come pecora per le pecore, non oppone resistenza al patire, non fugge il giudizio, non respinge quelli che lo mettono in croce. Non ha subito la passione, ma volontariamente ha accolto la morte per le pecore. «Ho il potere di dare la mia vita e di riprenderla di nuovo» (Gv 10,18). Distrugge la passione con la sua passione, la morte con la sua morte; con la sua tomba apre le tombe, smuove i chiavistelli degli inferi. La morte ha potere fino a quando Cristo ha accolto la morte; fino ad allora i sepolcri sono chiusi pesantemente e la prigionia non ha soluzione, fino a quando il Pastore scende e annuncia alle pecore in potere della morte la liberazione. Appare agli inferi e dà l’ordine di uscire. Appare e rinnova l’appello alla vita. «Il buon pastore dà la vita per le pecore»; così cerca di essere amato dalle pecore. Ama Cristo chi ascolta attentamente la sua voce.

(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia 26, PG 85,304A-308A).

 

Il prete piccolo e grande

Un prete dev’essere contemporaneamente piccolo e grande,

nobile di spirito come di sangue reale,

semplice e naturale come di ceppo contadino,

una sorgente di santificazione,

un peccatore che Dio ha perdonato,

un servitore per i timidi e i deboli,

che non s’abbassa davanti ai potenti ma si curva davanti ai poveri,

discepolo del suo Signore,

capo del suo gregge,

un mendicante dalle mani largamente aperte,

una madre per confortare i malati,

con la saggezza dell’età e la fiducia d’un bambino,

teso verso l’alto,

i piedi sulla terra,

fatto per la gioia,

esperto del soffrire,

lontano da ogni invidia,

lungimirante,

che parla con franchezza,

un amico della pace,

un nemico dell’inerzia,

fedele per sempre…

Così differente da me!

(Anonimo).

 

Salmo 23

O Dio,

che hai regalato al mondo e alle chiese tanti buoni pastori, tante donne e tanti uomini che vivono la loro funzione come servizio di amore, noi Ti ringraziamo per la testimonianza che ci hai dato mediante Gesù, il buon pastore.

Ma, soprattutto, noi ci rivolgiamo a Te sapendo che le Scritture fanno di Te non solo il pastore buono ed amorevole, ma l’unico pastore a cui possiamo affidare le nostre esistenze. Così ti preghiamo:

Il Signore è il mio pastore:

non manco di nulla;

su pascoli erbosi mi fa riposare

ad acque tranquille mi conduce.

Mi rinfranca,

mi guida per il giusto cammino,

per amore del suo nome.

Se dovessi camminare in una valle oscura,

non temerei alcun male,

perché tu sei con me.

Il tuo bastone e il tuo vincastro

mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa

sotto gli occhi dei miei nemici;

cospargi di olio il mio capo.

Il mio calice trabocca.

Felicità e grazia mi saranno compagne

tutti i giorni della mia vita,

e abiterò nella casa del Signore

per lunghissimi anni.

 

Gesù il pastore buono che dà la vita, che contagia d’amore

Pastore buono: è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine non ha in sé nulla di debole o remissivo: è il pastore forte che si erge contro i lupi, che ha il coraggio di non fuggire; il pastore bello nel suo impeto generoso; il pastore vero che si frappone fra ciò che dà la vita e ciò che procura morte al suo gregge.

Il pastore buono che nella visione del profeta «porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri» (Isaia 40,11), evoca anche una dimensione tenera e materna che, unita alla fortezza, compone quella che papa Francesco chiama con un magnifico ossimoro, una «combattiva tenerezza» (Evangelii gaudium 88).

Che cosa ha rivelato Gesù ai suoi? Non una dottrina, ma il racconto della tenerezza ostinata e mai arresa di Dio. Nel fazzoletto di terra che abitiamo, anche noi siamo chiamati a diventare il racconto della tenerezza di Dio. Della sua combattiva tenerezza.

Qual è il comportamento, il gesto che caratterizza questo pastore secondo il cuore di Dio? Il Vangelo di oggi lo sottolinea per cinque volte, racchiudendolo in queste parole: il pastore dà la vita. Qui affiora il filo d’oro che lega insieme tutta intera l’opera ininterrotta di Dio nei confronti di ogni creatura: il suo lavoro è da sempre e per sempre trasmettere vita, «far vivere e santificare l’universo» (Prece eucaristica III).

Dare la vita non è, innanzitutto o solamente, morire sulla croce, perché se il Pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo rapisce, uccide, vince. Dare la vita è l’opera generativa di Dio, un Dio inteso al modo delle madri, uno che nel suo intimo non è autoreferenzialità, ma generazione. Un Dio compreso nel senso della vite che dà linfa ai tralci; del seno di donna che offre vita al piccolo; dell’acqua che dà vita alla steppa arida.

Io offro la mia vita significa: vi offro una energia di nascita dall’alto; offro germi di divinità, per farvi simili a me (noi saremo simili a lui, 1 Gv 3,2 nella II Lettura). Solo con un supplemento di vita, la sua, potremo battere coloro che amano la morte, i tanti lupi di oggi.

Perché anche noi, discepoli che vogliono, come lui, sperare ed edificare, dare vita e liberare, siamo chiamati ad assumere il ruolo di “pastore buono”, cioè forte e bello, combattivo e tenero, del gregge che ci è consegnato: la famiglia, gli amici, quanti contano su di noi e di noi si fidano.

“Dare vita” significa contagiare di amore, libertà e coraggio chi avvicini, di vitalità ed energia chi incontri. Significa trasmettere le cose che ti fanno vivere, che fanno lieta, generosa e forte la tua vita, bella la tua fede, contagiosi i motivi della tua gioia.

Ermes Ronchi

 

Il «Buon Pastore»

La quarta domenica di Pasqua, domenica del buon Pastore, ha il suo centro nella pagina evangelica che, con l’immagine di Gesù pastore, presenta una visione sintetica dell’evento pasquale, culmine della storia di salvezza. Nel suo ministero Gesù è stato pastore del “piccolo gregge” (Lc 12,32) esponendo la sua vita fino a donarla per amore dei suoi (cf. Gv 10,11-15: riferimento alla morte di Cristo); la sua morte poi sfocia nella resurrezione che prolunga ed estende il suo ministero di pastore a livello universale che crea comunione e unità (Gv 10,16-18: riferimento alla resurrezione).

E in forza dell’evento pasquale egli è il “pastore buono”, cioè il pastore che dà salvezza, l’unico a cui spetti questo titolo che nel Primo Testamento designa Dio nel rapporto con il popolo d’Israele nel suo insieme (Sal 80: “Tu, pastore d’Israele”) e con ciascun figlio d’Israele singolarmente (Sal 23: “Il Signore è il mio pastore”).

La prima lettura, tratta come sempre nel tempo pasquale (secondo un’antica tradizione liturgica) dagli Atti degli apostoli, presenta l’annuncio della resurrezione di Cristo nel discorso di Pietro al sinedrio: le energie della resurrezione agiscono nella chiesa e, grazie alla fede, il nome del Signore opera guarigioni di malati. La seconda lettura presenta il cristiano quale rigenerato a figlio di Dio dal dono di amore del Padre.

Il paradosso cristiano emerge dalla rivelazione di Gesù quale “buon pastore”, cioè quale autentico e unico pastore: egli “offre (lett. “depone”) la vita per le pecore”, cioè rischia la vita, la espone ai pericoli dei briganti e degli animali feroci, pur di salvare le sue pecore. E arriva anche a dare la vita, a morire per i suoi. Egli non è un mercenario, un salariato, ma il pastore unito alle pecore da un legame personale e di amore.

Niente di funzionale nella qualità di pastore che Cristo vive: egli è in legame di obbedienza e di amore con il Padre (“il Padre conosce me e io conosco il Padre”) e vive un legame di conoscenza, amore e appartenenza con le pecore: “Conosco le mie (pecore) e le mie (pecore) conoscono me”. Tutto si gioca sul piano della relazione, non del ruolo, né della funzione, sul piano dell’amore, non del dovere: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

La rivelazione del pastore diviene anche rivelazione della qualità della pecora, ovvero, fuor di metafora, del credente che segue il pastore Gesù Cristo. Il credente è colui che conosce il Signore e ne ascolta la voce (vv. 14.16). Ascolto e conoscenza del Signore sono azioni anzitutto personali che introducono nella vita spirituale e conducono verso l’unità interiore. Ma sono anche azioni ecclesiali che consentono al Signore di governare la sua comunità e di condurla verso l’unità: “Diventeranno un solo gregge e un solo pastore”.

Il testo intravede il formarsi di un popolo composto da persone provenienti non solo da Israele, ma anche dalle genti (“ho altre pecore che non sono di questo ovile”), evento che sarà frutto della Pasqua (“quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”: Gv 12,32) e si compirà nell’eschaton (“l’Agnello sarà il loro pastore”: Ap 7,17). Giovanni presenta Gesù come pastore universale: a lui solo spetta questo titolo.

È Gesù Cristo il “Pastore della chiesa universale sparsa su tutta la terra”, come recita il Martirio di Policarpo (XIX,2). Giovanni inoltre parla dell’unicità del pastore, che è Cristo, non dell’ovile, come intese erroneamente la traduzione latina di Gerolamo (et fiet unum ovile) suscitando interpretazioni che vi vedevano un riferimento alla sede petrina: “Giovanni non avrebbe mai detto che Pietro era l’unico pastore!” (Ignace de la Potterie).

Il legame tra Cristo “buon pastore” e la resurrezione emerge anche dall’arte funeraria cristiana antica che rappresenta Cristo con una pecora sulle spalle già nelle antiche catacombe e nelle zone cimiteriali: egli è il pastore che conduce l’uomo attraverso la morte alla vita eterna in Dio.

(Luciano Manicardi)

 

Commento al Salmo 23

Rivolgersi al Signore nella preghiera implica un radicale atto di fiducia, nella consapevolezza di affidarsi a Dio che è buono, «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6-7; Sal 86,15; cfr Gl 2,13; Gn 4,2; Sal 103,8; 145,8; Ne 9,17). Per questo oggi vorrei riflettere con voi su un Salmo tutto pervaso di fiducia, in cui il Salmista esprime la sua serena certezza di essere guidato e protetto, messo al sicuro da ogni pericolo, perché il Signore è il suo pastore. Si tratta del Salmo 23 – secondo la datazione greco latina 22 – un testo familiare a tutti e amato da tutti.

«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla»: così inizia questa bella preghiera, evocando l’ambiente nomade della pastorizia e l’esperienza di conoscenza reciproca che si stabilisce tra il pastore e le pecore che compongono il suo piccolo gregge. L’immagine richiama un’atmosfera di confidenza, intimità, tenerezza: il pastore conosce le sue pecorelle una per una, le chiama per nome ed esse lo seguono perché lo riconoscono e si fidano di lui (cfr Gv 10,2-4). Egli si prende cura di loro, le custodisce come beni preziosi, pronto a difenderle, a garantirne il benessere, a farle vivere in tranquillità. Nulla può mancare se il pastore è con loro. A questa esperienza fa riferimento il Salmista, chiamando Dio suo pastore, e lasciandosi guidare da Lui verso pascoli sicuri:

«Su pascoli erbosi mi fa riposare,

ad acque tranquille mi conduce.

Rinfranca l’anima mia,

mi guida per il giusto cammino

a motivo del suo nome» (vv. 2-3).

 

La visione che si apre ai nostri occhi è quella di prati verdi e fonti di acqua limpida, oasi di pace verso cui il pastore accompagna il gregge, simboli dei luoghi di vita verso cui il Signore conduce il Salmista, il quale si sente come le pecore sdraiate sull’erba accanto ad una sorgente, in situazione di riposo, non in tensione o in stato di allarme, ma fiduciose e tranquille, perché il posto è sicuro, l’acqua è fresca, e il pastore veglia su di loro. E non dimentichiamo qui che la scena evocata dal Salmo è ambientata in una terra in larga parte desertica, battuta dal sole cocente, dove il pastore seminomade mediorientale vive con il suo gregge nelle steppe riarse che si estendono intorno ai villaggi. Ma il pastore sa dove trovare erba e acqua fresca, essenziali per la vita, sa portare all’oasi in cui l’anima “si rinfranca” ed è possibile riprendere le forze e nuove energie per rimettersi in cammino.

Come dice il Salmista, Dio lo guida verso «pascoli erbosi» e «acque tranquille», dove tutto è sovrabbondante, tutto è donato copiosamente. Se il Signore è il pastore, anche nel deserto, luogo di assenza e di morte, non viene meno la certezza di una radicale presenza di vita, tanto da poter dire: «non manco di nulla». Il pastore, infatti, ha a cuore il bene del suo gregge, adegua i propri ritmi e le proprie esigenze a quelli delle sue pecore, cammina e vive con loro, guidandole per sentieri “giusti”, cioè adatti a loro, con attenzione alle loro necessità e non alle proprie. La sicurezza del suo gregge è la sua priorità e a questa obbedisce nel guidarlo.

Cari fratelli e sorelle, anche noi, come il Salmista, se camminiamo dietro al “Pastore buono”, per quanto difficili, tortuosi o lunghi possano apparire i percorsi della nostra vita, spesso anche in zone desertiche spiritualmente, senza acqua e con un sole di razionalismo cocente, sotto la guida del pastore buono, Cristo, siamo certi di andare sulle strade “giuste” e che il Signore ci guida e ci è sempre vicino e non ci mancherà nulla.

Per questo il Salmista può dichiarare una tranquillità e una sicurezza senza incertezze né timori:

«Anche se vado per una valle oscura,

non temo alcun male, perché tu sei con me.

Il tuo bastone e il tuo vincastro

mi danno sicurezza» (v. 4).

 

Chi va col Signore anche nelle vali oscure della sofferenza, dell’incertezza e di tutti i problemi umani, si sente sicuro. Tu sei con me: questa è la nostra certezza, quella che ci sostiene. Il buio della notte fa paura, con le sue ombre mutevoli, la difficoltà a distinguere i pericoli, il suo silenzio riempito di rumori indecifrabili. Se il gregge si muove dopo il calar del sole, quando la visibilità si fa incerta, è normale che le pecore siano inquiete, c’è il rischio di inciampare oppure di allontanarsi e di perdersi, e c’è ancora il timore di possibili aggressori che si nascondano nell’oscurità. Per parlare della valle “oscura”, il Salmista usa un’espressione ebraica che evoca le tenebre della morte, per cui la valle da attraversare è un luogo di angoscia, di minacce terribili, di pericolo di morte. Eppure, l’orante procede sicuro, senza paura, perché sa che il Signore è con lui. Quel «tu sei con me» è una proclamazione di fiducia incrollabile, e sintetizza l’esperienza di fede radicale; la vicinanza di Dio trasforma la realtà, la valle oscura perde ogni pericolosità, si svuota di ogni minaccia. Il gregge ora può camminare tranquillo, accompagnato dal rumore familiare del bastone che batte sul terreno e segnala la presenza rassicurante del pastore.

Questa immagine confortante chiude la prima parte del Salmo, e lascia il posto ad una scena diversa. Siamo ancora nel deserto, dove il pastore vive con il suo gregge, ma adesso siamo trasportati sotto la sua tenda, che si apre per dare ospitalità:

 

«Davanti a me tu prepari una mensa

sotto gli occhi dei miei nemici.

Ungi di olio il mio capo;

il mio calice trabocca» (v. 5).

Ora il Signore è presentato come Colui che accoglie l’orante, con i segni di una ospitalità generosa e piena di attenzioni. L’ospite divino prepara il cibo sulla “mensa”, un termine che in ebraico indica, nel suo senso primitivo, la pelle di animale che veniva stesa per terra e su cui si mettevano le vivande per il pasto in comune. È un gesto di condivisione non solo del cibo, ma anche della vita, in un’offerta di comunione e di amicizia che crea legami ed esprime solidarietà. E poi c’è il dono munifico dell’olio profumato sul capo, che dà sollievo dall’arsura del sole del deserto, rinfresca e lenisce la pelle e allieta lo spirito con la sua fragranza. Infine, il calice ricolmo aggiunge una nota di festa, con il suo vino squisito, condiviso con generosità sovrabbondante. Cibo, olio, vino: sono i doni che fanno vivere e danno gioia perché vanno al di là di ciò che è strettamente necessario ed esprimono la gratuità e l’abbondanza dell’amore. Proclama il Salmo 104, celebrando la bontà provvidente del Signore: «Tu fai crescere l’erba per il bestiame e le piante che l’uomo coltiva per trarre cibo dalla terra, vino che allieta il cuore dell’uomo, olio che fa brillare il suo volto e pane che sostiene il suo cuore» (vv. 14-15). Il Salmista è fatto oggetto di tante attenzioni, per cui si vede come un viandante che trova riparo in una tenda ospitale, mentre i suoi nemici devono fermarsi a guardare, senza poter intervenire, perché colui che consideravano loro preda è stato messo al sicuro, è diventato ospite sacro, intoccabile. E il Salmista siamo noi se siamo realmente credenti in comunione con Cristo. Quando Dio apre la sua tenda per accoglierci, nulla può farci del male.

Quando poi il viandante riparte, la protezione divina si prolunga e lo accompagna nel suo viaggio

«Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne

tutti i giorni della mia vita,

abiterò ancora nella casa del Signore

per lunghi giorni» (v. 6).

La bontà e la fedeltà di Dio sono la scorta che accompagna il Salmista che esce dalla tenda e si rimette in cammino. Ma è un cammino che acquista un nuovo senso, e diventa pellegrinaggio verso il Tempio del Signore, il luogo santo in cui l’orante vuole “abitare” per sempre e a cui anche vuole “ritornare”. Il verbo ebraico qui utilizzato ha il senso di “tornare”, ma, con una piccola modifica vocalica, può essere inteso come “abitare”, e così è reso dalle antiche versioni e dalla maggior parte delle traduzioni moderne. Ambedue i sensi possono essere mantenuti: tornare al Tempio e abitarvi è il desiderio di ogni Israelita, e abitare vicino a Dio nella sua vicinanza e bontà è l’anelito e la nostalgia di ogni credente: poter abitare realmente dove è Dio, vicino a Dio. La sequela del Pastore porta alla sua casa, è quella la meta di ogni cammino, oasi desiderata nel deserto, tenda di rifugio nella fuga dai nemici, luogo di pace dove sperimentare la bontà e l’amore fedele di Dio, giorno dopo giorno, nella gioia serena di un tempo senza fine.

Le immagini di questo Salmo, con la loro ricchezza e profondità, hanno accompagnato tutta la storia e l’esperienza religiosa del popolo di Israele e accompagnano i cristiani. La figura del pastore, in particolare, evoca il tempo originario dell’Esodo, il lungo cammino nel deserto, come un gregge sotto la guida del Pastore divino (cfr Is 63,11-14; Sal 77,20-21; 78,52-54). E nella Terra Promessa era il re ad avere il compito di pascere il gregge del Signore, come Davide, pastore scelto da Dio e figura del Messia (cfr 2Sam 5,1-2; 7,8; Sal 78,70-72). Poi, dopo l’esilio di Babilonia, quasi in un nuovo Esodo (cfr Is 40,3-5.9-11; 43,16-21), Israele è riportato in patria come pecora dispersa e ritrovata, ricondotta da Dio a rigogliosi pascoli e luoghi di riposo (cfr Ez 34,11-16.23-31). Ma è nel Signore Gesù che tutta la forza evocativa del nostro Salmo giunge a completezza, trova la sua pienezza di significato: Gesù è il “Buon Pastore” che va in cerca della pecora smarrita, che conosce le sue pecore e dà la vita per loro (cfr Mt 18,12-14; Lc 15,4-7; Gv 10,2-4.11-18), Egli è la via, il giusto cammino che ci porta alla vita (cfr Gv 14,6), la luce che illumina la valle oscura e vince ogni nostra paura (cfr Gv 1,9; 8,12; 9,5; 12,46). È Lui l’ospite generoso che ci accoglie e ci mette in salvo dai nemici preparandoci la mensa del suo corpo e del suo sangue (cfr Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20) e quella definitiva del banchetto messianico nel Cielo (cfr Lc 14,15ss; Ap 3,20; 19,9). È Lui il Pastore regale, re nella mitezza e nel perdono, intronizzato sul legno glorioso della croce (cfr Gv 3,13-15; 12,32; 17,4-5).

Cari fratelli e sorelle, il Salmo 23 ci invita a rinnovare la nostra fiducia in Dio, abbandonandoci totalmente nelle sue mani. Chiediamo dunque con fede che il Signore ci conceda, anche nelle strade difficili del nostro tempo, di camminare sempre sui suoi sentieri come gregge docile e obbediente, ci accolga nella sua casa, alla sua mensa, e ci conduca ad «acque tranquille», perché, nell’accoglienza del dono del suo Spirito, possiamo abbeverarci alle sue sorgenti, fonti di quell’acqua viva «che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14; cfr 7,37-39).

(BENEDETTO XVI, UDIENZA GENERALE, Piazza San Pietro Mercoledì, 5 ottobre 2011)

 

Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno!

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

IV DOMENICA DI PASQUA (B)

III DOMENICA DI PASQUA

 Prima lettura:Atti 3,13-15.17-19

In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni. Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».

 

 

v Questo brano fa parte della catechesi su Gesù che Pietro rivolge ai suoi uditori di origine ebraica. L’autore degli Atti degli apostoli ha raccolto questa catechesi in una serie di «discorsi» e li ha collocati nella prima parte della sua opera (capitoli 2-4). È importante sottolineare gli elementi che caratterizzano questa catechesi.

     Innanzitutto emerge la continuità tra l’agire di Dio nell’Antico Testamento e ora nella risurrezione di Gesù: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù». La risurrezione di Gesù non va considerata come un corpo estraneo nella Bibbia. Essa si inserisce pienamente nel progetto di salvezza che Dio ha pensato per l’uomo, un progetto che passa misteriosamente attraverso la croce e culmina nella gloria della Pasqua. Questo progetto era già anticipato nei «Canti del Servo sofferente del Signore» (vedi Is 42; 49; 52-53), nei quali si delineava chiaramente la «logica» di Dio: il Servo sofferente sarebbe divenuto il Messia glorificato, grazie all’intervento decisivo di JHWH. Ai suoi uditori, che conoscevano bene la Bibbia, Pietro propone questa «logica», ricorrendo alla stessa terminologia di Isaia: «Dio ha glorificato il suo Servo Gesù».

     L’entrare in questa «logica» esige però un cambiamento di mentalità e una conversione nei confronti di Gesù. L’espressione «io so che voi avete agito per ignoranza» vuole sottolineare quanto sia difficile comprendere la vita, la morte e la risurrezione di Gesù nella «logica» che è propria di Dio. Il termine «ignoranza» (in greco, àghnoia) indica la difficoltà di comprendere in questo modo tutta la vicenda di Gesù. Questa «ignoranza» è da collocare alla base del processo condotto contro Gesù: «Voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato… avete rinnegato il Santo e il Giusto… Avete ucciso l’autore della vita». Infatti nessuno era stato in grado di comprendere il progetto di salvezza di Dio, che doveva passare attraverso la croce e la sofferenza. Solo dopo la risurrezione di Gesù, gli apostoli vengono illuminati e comprendono in pienezza l’agire di Dio. La predicazione di Pietro e degli altri apostoli, testimoni della misteriosa «logica» di Dio, offre la possibilità di convertirsi al progetto di Dio, portato a compimento da Gesù in un modo e in una forma che la mentalità degli uomini non è riuscita a comprendere.

 

Seconda lettura: 1Giovanni 2,1-5

Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.

 

 

v Questo breve brano presenta una nuova esortazione per il cristiano, che è quella di osservare i comandamenti. Precedentemente l’autore aveva esortato i destinatari del suo scritto a pentirsi dei peccati e a riconoscerli davanti a Dio, per entrare nella pienezza della salvezza offerta da Gesù. A queste esortazioni seguiranno quelle di guardarsi dal «mondo» (inteso come tutto ciò che si oppone al vangelo) e dagli «anticristi» (il riferimento è ad alcune eresie che già hanno preso piede nella comunità cristiana a cui scrive Giovanni).

     «Abbiamo un Paràclito presso il Padre»: il termine greco paràkletos («avvocato», «intercessore», «consolatore») è caratteristico di Giovanni, che lo riferisce allo Spirito Santo (vedi i seguenti testi del suo vangelo: 14,16.26; 15,26; 16,7) e, in questo passo della prima lettera, a Gesù. Esso designa una persona amica, che sta vicino a chi è accusato e condotto in tribunale (il verbo greco parakalèo significa anche: «chiamare accanto») e ne sostiene le ragioni o ne mitiga la sentenza, qualora questa risultasse sfavorevole.

     «Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo»: il verbo «conoscere» va inteso nel suo significato globale, come è usato nella Bibbia. Questo è il verbo che significa sapere chi è Dio e ciò che egli vuole. Significa conoscere il modo di porsi di Dio nei confronti dell’uomo e significa l’imitazione di questo stesso comportamento di Dio da parte dell’uomo. Non è quindi un verbo puramente astratto, teorico, ma è un verbo con una forte accentuazione pratica ed etica.

     Il richiamo all’osservanza dei comandamenti è motivato dal fatto che l’eresia gnostica — sviluppatasi all’epoca di questo scritto — sosteneva che la salvezza dell’uomo era possibile solo attraverso la conoscenza teorica di Dio (ma senza alcuna implicanza etica). Questa conoscenza — chiamata con il termine greco ghnòsis — portava a considerare il corpo dell’uomo, con le sue passioni e i suoi peccati, come irrilevante nel conseguimento della salvezza. Ciò significava un totale disinteresse per la morale, che per il cristiano non è tanto un insieme di leggi o di divieti, quanto piuttosto la conoscenza della volontà di Dio e il conformarsi ad essa, compiendola ogni giorno. Infatti per il cristiano non vi può essere separazione tra anima e corpo, tra conoscenza di Dio e pratica cristiana, tra religione e morale, tra vangelo e vita quotidiana.

 

Vangelo: Luca 24,35-48

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

 

 

Esegesi 

     Il brano proposto conclude l’episodio che ha come protagonisti i due discepoli di Emmaus, e contiene un nuovo racconto di apparizioni, che gli esegeti chiamano «apparizione di riconoscimento». Mediante alcuni segni/gesti che Gesù compie — come il mangiare, il lasciarsi toccare, il mostrare le mani e i piedi —, egli vuole eliminare negli apostoli il sospetto che si tratti della visione dello spirito di un morto («un fantasma»), vanificando così l’esperienza più vera della Pasqua.

     Per i cristiani che provenivano dall’ambiente greco, infatti, era comune credenza che lo spirito vivesse separato dal corpo dopo la morte. Era perciò necessario precisare che Gesù risorto non è uno spirito senza corpo e che non appartiene più al regno dei morti, come gli spiriti. Per questo, nel racconto di apparizione, si insiste sul vedere, mangiare, toccare.

     Ma anche l’ambiente ebraico incontrava grandi difficoltà nel comprendere e nell’accettare la risurrezione di Gesù. Accettarla significava, infatti, che ormai si era davanti all’intervento definitivo di JHWH nella storia, che erano iniziati gli ultimi tempi e che ormai erano giunti il mondo nuovo, il Regno di Dio e la risurrezione finale e definitiva, promessa dai profeti (vedi Ezechiele). Per questo l’evangelista colloca l’evento della Pasqua di Gesù nell’insieme delle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno».

     «Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma»: lo spavento ha origine dal fatto che Gesù appare all’improvviso. Il termine «fantasma» traduce il greco pneuma («spirito»). Secondo la concezione greca, dopo la morte lo spirito era separato dal corpo e non si riuniva più ad esso. Nella concezione cristiana, invece, corpo e spirito costituiscono la persona, e la risurrezione fa di questo nostro corpo non un fantasma, ma un corpo «glorioso», «glorificato», come quello di Gesù.

     «Lo prese e lo mangiò davanti a loro»: con questa frase, più che insistere sulla realtà inconfondibile del corpo di Gesù, l’evangelista vuole evidenziare la vittoria di Gesù sulla morte, simboleggiata dalla rinnovata partecipazione alla mensa con i suoi discepoli, come avveniva prima della morte. L’espressione «davanti a loro» (in greco, enòpion autòn) si potrebbe tradurre anche: «a mensa con loro». È un’espressione che ricorre anche in Lc 13,26: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza (in greco, enòpion sou, «alla tua mensa»)» e probabilmente con essa si vuole esprimere la continuità tra il Gesù prima della Pasqua e il Gesù risorto.

     «Nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi »: è la suddivisione di tutta la Bibbia secondo il canone ebraico. È curioso, qui il rilievo dato ai Salmi, dal momento che la Bibbia ebraica chiama la terza parte della Scrittura, con il termine generico «Gli Scritti». Probabilmente i Salmi vengono nominati perché costituiscono la parte più abbondante degli «Scritti». Non

va neppure dimenticato che nel Nuovo Testamento i Salmi vengono citati con frequenza sia nei vangeli sia negli Atti degli apostoli come profezie della risurrezione di Gesù.

 

L’immagine della domenica 

 

 

SIA PACE IN TE!

Sia pace fra le tue mura,

prosperità fra i tuoi palazzi.

Per amore dei miei fratelli e amici

dirò: Sia pace in te!

Per amore della casa del Signore, nostro Dio,

chiederò: Sia bene per te!

(Salmo 121)

 

Meditazione

Il Vangelo di questa domenica ci narra ancora una volta i fatti del gior­no della resurrezione. L’insistenza non è casuale: la Chiesa continua a ricordarci che ogni domenica è Pasqua, il giorno in cui Gesù vince la morte e incontra nuovamente i discepoli. Gli incontri di Gesù con i suoi discepoli sono diversi. Quello che ci narra il Vangelo di questa Domenica capita nel cenacolo, dove sono radunati i discepoli. Gesù —racconta l’evangelista Luca — entra nel cenacolo mentre i due discepo­li, tornati in fretta da Emmaus, stanno ancora raccontando quello che è accaduto loro lungo la via. Gli apostoli al vedere Gesù, «in persona», venire in mezzo a loro sono presi da stupore e spavento. E, come già altre volte era accaduto, anche ora pensano sia un fantasma. Ancora una volta — domenica scorsa abbiamo constatato lo scetticismo di Tommaso — il Vangelo di Pasqua sottolinea l’incredulità degli apostoli. Vengono in mente le parole del prologo di Giovanni: «Venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto». Gli amici più stretti stanno par­lando di lui, si riferiscono tra loro le varie apparizioni, potremmo dire che sono ormai quasi convinti della sua risurrezione, tanto che dicono: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone» (Lc 24,34). Eppure, appena Gesù entra in mezzo a loro pensano sia un fantasma, una figura astratta, irreale. Si spaventano, persino. Eppure, Gesù glielo aveva detto e spiegato. Ebbene, bisogna partire proprio da questa inaccoglienza, vestita di stolto realismo, per comprendere l’odierna pagina evangelica. Siamo anche noi assieme ai discepoli quella sera di Pasqua, stupiti e spaventa­ti. Anche noi pensiamo tante volte che il Vangelo sia una specie di fantasma, ossia che si tratti di parole astratte, lontane dalla vita, belle ma impossibili a vivere; e ne abbiamo anche paura perché pensiamo che siano troppo esigenti, che chiedano sacrifici, che propongano rinunce, che pretendano una vita poco felice. Ne consegue che con incredibile facilità le infiacchiamo nella loro radicalità perché non ci disturbino troppo. Ma Gesù torna; torna ogni domenica e dopo il saluto di pace dice a tutti noi: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne ed ossa come vedete che io ho». Mentre parla in questo modo, mostra loro le mani e i piedi segnati ancora dalle ferite dei chiodi. Gesù mostra la realtà concreta del suo corpo risorto, ma ancora ferito. E forse l’ultima ferita — questa volta tocca l’anima — gliela stanno infliggendo proprio in quel momento i discepoli con la loro inaccoglienza. L’evangelista sembra però indicare una via per superare questa distanza; una via non teorica e astratta, ma molto concreta. Potremmo chiamarla la via dell’incontro con le sue ferite. Gesù, per vincere i dubbi dei discepoli, dice loro: «Guardate le mie mani e i miei piedi; sono proprio io! Toccatemi e guardate». Poteva chiedere che toccasse­ro e guardassero qualsiasi altra parte del corpo. Ma perché ha voluto specificare quelle parti ancora segnate dalle ferite dei chiodi? Perché Gesù insiste che proprio quelle parti ferite debbano essere guardate e toccate? Le ferite sul corpo, senza dubbio, ci dicono che il Gesù di Pasqua è lo stesso Gesù del Venerdì Santo, ma la loro permanenza nel corpo del Signore risorto richiama anche la realtà del dolore e del male ancora presente in questo mondo. La resurrezione certo è avve­nuta, ma deve continuare ancora. È iniziata con Gesù, il capo del corpo che è la Chiesa e l’umanità intera, ma ci sono tante parti di que­sto unico corpo che hanno ancora ferite aperte: sono i poveri, i malati, i carcerati, i torturati, i condannati a morte, i paesi in guerra, i colpiti dalle disgrazie e dalla violenza. E l’elenco può continuare ancora più a lungo. Queste ferite debbono entrare «di persona» in mezzo a noi, perché con esse entra realmente il Signore, e attraverso di esse continua a dirci: «Toccatemi e guardatemi… sono proprio io!». I poveri e i deboli non sono fantasmi di cui aver paura o da cui fuggire, sono il corpo ferito del Signore che chiede e attende di essere toccato per risorgere. «Toccatemi e guardate!». È la preghiera, spesso il grido, che oggi milio­ni di disperati rivolgono al mondo dei sani e dei ricchi: guardateci e toccateci! Essi infatti sono spesso totalmente dimenticati e ancor meno toccati. Dietro questo invito di Gesù ci sono oggi milioni e milioni di bambini, di vedove, di orfani, che continuano ad attendere aiuto e dav­vero pochi «guardano» e ancor meno si incamminano per «toccare». Sì, guardare e toccare! Questi sono i verbi della risurrezione: accorger­si di chi ci sta accanto e soffre e non passare oltre come fecero quel sacerdote e quel levita. La vittoria sulla nostra incredulità inizia da quest’incontro affettuoso con il corpo ancora ferito di Gesù. Immediatamente dopo, nota l’evangelista, Gesù «aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture. Fu necessario che i discepoli ascoltassero nuovamente il Vangelo e si lasciassero toccare il cuore. Non basta ascoltare una volta o alcune volte le Sante Scritture. Il credente deve risco-prire la gioia di frequentare ogni giorno le Sante Scritture. Ogni volta che si apre una pagina della Bibbia è Dio stesso che parla a noi. I Santi Padri amavano dire che la Santa Scrittura è la Lettera di amore di Dio agli uomini. Come non leggere e rileggere questa lettera? Gesù con i due discepoli di Emmaus non fece altro che spiegare loro le Scritture e i due si sentirono scaldare il cuore nel petto. Ogni domenica Gesù torna e parla a ciascuno di noi, come fece con quelli di Emmaus. Dalla Pasqua perciò inizia un ascolto che non termina più: quella Parola proclamata e predicata è la linfa della vita di ogni discepolo e dell’intera comunità. Senza di essa saremmo senza nutrimento, senza pane. La carestia sarebbe tremenda; e non solo per i discepoli ma per il mondo intero. Ogni domenica perciò il Signore ci raccoglie, apre la nostra mente all’intelligenza delle Scritture e riscalda i nostri cuori. Di questo Vangelo — dice Gesù ai discepoli di ogni tempo — «voi siete testimoni».

 

Preghiere e racconti

Sulle tracce di Gesù

II punto cruciale di questo cammino sta nel riconoscere che il Gesù risorto, che compie i desideri dell’uomo, è ancora il Gesù crocifisso, che ha affidato al Padre il compimento dei propri desideri. Ha uniformato la propria volontà alla volontà del Padre. Ha accettato di perdere la propria vita sulla croce, per compiere la missione di proclamare all’uomo peccatore e separato da Dio che il Padre non lo abbandona al fallimento, non lo rifiuta anche se è rifiutato; anzi gli dona il proprio Figlio, per mostrare che neppure il peccato impedisce a Dio di amare l’uomo e di attirarlo a sé in un gesto di perdono, che vince il peccato e la morte.

Tutto questo è implicitamente contenuto nel grido del discepolo prediletto, che rompe il silenzio del mattino: «E il Signore» (Gv 21,7). Questa espressione, infatti, rievoca le professioni di fede della Chiesa primitiva. Gesù, che si è umiliato nella morte, in obbedienza al Padre e per amore degli uomini, è stato glorificato dal Padre ed è stato proclamato Signore, cioè colui che reca pienamente in sé la forza d’amore e di salvezza che è propria di Dio stesso.

Gesù manifesta la sua capacità e volontà di comunicare agli uomini l’amore salvifico del Padre anche attraverso un gesto simbolico. Egli mangia con i discepoli.

L’umile, quotidiano gesto del mangiare è ricco di potenzialità espressive. Può prestarsi a esprimere la comunicazione di beni sempre più grandi e misteriosi, che approfondiscono il bene fisico del cibo e il bene psicologico della conversazione, scambiati durante il pasto comune.

Gesù assume questo gesto umano e lo carica di prodigiose potenzialità. Il pasto descritto nel cap. 21 di Giovanni non risulta essere un convito propriamente eucaristico. Rievoca però il convito di Jahvè col popolo degli ultimi tempi, annunciato nell’Antico Testamento. Si ricollega ai conviti messianici fatti da Gesù con i discepoli o con le folle. Allude all’ultima cena o ad altri conviti di Gesù risorto, che hanno caratteri più propriamente e chiaramente eucaristici e comportano quindi il trapasso del generico simbolismo conviviale nella reale comunione col Signore, che si rende presente trasformando il pane e il vino nella vita e misteriosa realtà del corpo donato e del sangue versato.

(C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, 258-259).

 

È pace la prima parola pronunciata da Cristo Risorto

 In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho» (…). Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme(…)». Lo conoscevano bene, dopo tre anni di strade, di olivi, di pesci, di villaggi, di occhi negli occhi, eppure non lo riconoscono. Gesù è lo stesso ed è diverso, è il medesimo ed è trasformato, è quello di prima ed è altro. Perché la Risurrezione non è semplicemente un ritornare alla vita di prima: è andare avanti, è trasfigurazione, è acquisire un di più. Energia in movimento che Gesù non tiene per sé, ma che estende all’intera creazione, tutta presa, e da noi compresa, dentro il suo risorgere e trascinata in alto verso più luminose forme.

Pace, è la prima parola del Risorto. E la ripete ad ogni incontro: entro in chiesa, apro il Vangelo, scendo nel silenzio del cuore, spezzo il pane con l’affamato. Sono molte le strade che l’Incamminato percorre, ma ogni volta, sempre, ad ogni incontro ci accoglie come un amico sorridente, a braccia aperte, con parole che offrono benessere, pace, pienezza, armonia. Credere in lui fa bene alla vita. Vuole contagiarci di luce e contaminarci di pace. Lui sa bene che sono gli incontri che cambiano la vita degli esseri umani. Infatti viene dai suoi, maestro di incontri, con la sua pedagogia regale che non prevede richieste o ingiunzioni, ma comunione. Viene e condivide pane, sguardi, amicizia, parola, pace. Il ruolo dei discepoli è non difendersi, non vergognarsi, ma ridestare dal sonno dell’abitudine mani, occhi, orecchie, bocca: toccate, guardate, mangiamo insieme. Aprirsi con tutti «i sensi divine tastiere» (Turoldo), strumenti di una musica suonata da Dio.

«Toccatemi, guardate». Ma come toccarlo oggi, dove vederlo? Lui è nel grido vittorioso del bambino che nasce e nell’ultimo respiro del morente, che raccoglie con un bacio. È nella gioia improvvisa dentro una preghiera fatta di abitudini, nello stupore davanti all’alleluja pasquale del primo ciliegio in fiore. Quando in me riprende a scorrere amore; quando tocco, con emozione e venerazione, le piaghe della terra: «ecco io carezzo la vita perché profuma di Te» (Rumi)…

«Non sono un fantasma» è il lamento di Gesù, e vi risuona il desiderio di essere abbracciato forte come un amico che torna da lontano, di essere stretto con lo slancio di chi ti vuole bene. Non si ama un fantasma. «Mangiamo insieme». Questo piccolo segno del pesce arrostito, gli apostoli lo daranno come prova decisiva: abbiamo mangiato con lui dopo la sua risurrezione (At 10,41). Perché mangiare è il segno della vita; mangiare insieme è il segno più eloquente di una comunione ritrovata, il gesto che lega, custodisce e accresce le vite. Il cibo è una realtà santa. Santa perché fa vivere. E che l’uomo viva è la prima di tutte le leggi, della legge di Dio e delle leggi umane.

(Ermes Ronchi)

 

«Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,48)

«Mentre essi parlavano di queste cose», essi gli apostoli riuniti insieme (Lc 24,33) a riflettere sul senso di una tomba vuota, del messaggio degli angeli alle donne, dell’apparizione ai due discepoli di Emmaus e a Pietro (Lc 24,1-35), conseguenze di un evento al quale nessuno aveva assistito e sul quale non restava e non resta che il silenzio. Parliamo dell’atto della resurrezione di Gesù. Se la sua crocifissione è stata uno «spettacolo» (Lc 23,48) pubblico visto da molti, alla sua resurrezione non ha partecipato occhio umano alcuno. Parlavano dunque di cose successive passibili di più interpretazioni, la tomba vuota potrebbe anche voler dire cadavere trafugato e le apparizioni potrebbero voler dire allucinazioni, fantasie: «credevano di vedere un fantasma» (Lc 24,37), uno spirito. Luca con maestria ripercorre il cammino travagliato degli amici di Gesù alla fede nella resurrezione: dalla tristezza e dalla delusione per una presenza tolta e per sogni frustrati (Lc 24,17.21) a una mente ottusa tarda a capire i segni che le sono stati dati (Lc 24,25). Tomba vuota, messaggi di angeli, racconti di donne e apparizioni di fatto generano sconvolgimento e paura (Lc 24,22.37), stato confusionale. Una situazione tuttavia che pur non capendo non si arrende, se ne parla, si vorrebbe comprendere.

 2. E «mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro…e disse…perché sorgono dubbi…sono proprio io», egli il Risorto con i segni della passione e non un puro spirito o fantasma. Una apparizione dal di «fuori» resasi necessaria per fare uscire il «dentro» o cuore degli apostoli dalla incredulità introducendoli nel riconoscimento di lui come il vivente (Lc 24,36-43), e conseguentemente in una lettura diversa dei segni dati. Ad esempio la tomba vuota da sola non è stata in grado di liberare dalla prigione di ragionamenti senza sbocco, mentre diventa annuncio di resurrezione a chi è stata concessa la fede in essa attraverso il convincimento operato dal Risorto stesso. È ciò che è accaduto agli apostoli, dal Risorto che si impone ad essi come risorto alla tomba, alle donne, agli angeli e ai due di Emmaus come messaggeri del Risorto. Approccio singolare. Un convincimento, prosegue Gesù (Lc 24,44-47), a cui gli apostoli avrebbero potuto pervenire anche senza la sua apparizione costretta dalla costatazione di un eccesso di perdita di memoria e di mente chiusa. «Poi disse: Sono queste le parole che io vi dissi quando ancora ero con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei Salmi. Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno». Gesù ri-dice ai suoi ciò che in precedenza aveva loro pre-detto, risveglia la loro memoria e li reinizia a comprendere la sua morte-resurrezione alla luce di una lunga catena di citazioni scritturistiche, alla luce cioè della volontà del Padre contenuta nello «Sta scritto». In Luca via alla resurrezione o alla interpretazione secondo Dio della tomba vuota è tutta la Scrittura attraverso cui la Parola di Dio diventa il messaggero della Pasqua di Gesù il Cristo, l’inviato del Padre a mutare il cammino dell’uomo orientandolo verso i sentieri del perdono e della conversione (Lc 24,47): «Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,48).

 (Giancarlo Bruni)

 

E’ il Signore!

E’ l’acclamazione pasquale, è una parola che contiene tutto.

Il Signore è Colui che possiede la tua vita e te la vuole far vivere al centuplo;

Colui che ha un progetto per te, che ti conduce a esprimere pienamente te stesso;

Colui che è la somma di tutte le cose desiderabili;

Colui che chiarisce, dipana, ordina, purifica, soddisfa tutti i tuoi desideri più profondi.

E’ il Signore della vita, della storia, della mia vicenda personale.

E’ il Signore della mia famiglia, della scuola, della società.

E’ Colui nel quale tutto trova il senso.

E’ Colui che è capace di dare a tutto un progetto ed una prospettiva.

(dagli Scritti del Card. C.M. Martini).

 

Aprire gli occhi

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente chiusi

per evitare di vedere

la miseria agitarsi alla nostra porta?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente tappati

per evitare di guardare

faccia a faccia

il prossimo

che ci viene incontro?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente velati

per evitare di essere abbagliati

dalla presenza di Cristo

con il suo vangelo esigente?

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere lo Spirito di Dio

all’opera sui molteplici cantieri

dove l’umanità si rinnova?

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere il seme

che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata?

 

La pace sia con voi!

Di ritorno dagli inferi, Cristo per donare la pace al mondo esclama: «La pace sia con voi! I discepoli parlavano ancora, quando Gesù stette in mezzo a loro e disse loro: La pace sia con voi!». Giustamente dice: «con voi», perché la terra si era già consolidata, il giorno era ritornato, il sole aveva ripreso il suo splendore e il mondo aveva ritrovato il suo ordine e la coesione. Ma presso i discepoli la guerra infuriava ancora; fede e mancanza di fede si combattevano violentemente. Il turbamento della passione non aveva scosso il loro cuore quanto la terra; credulità e incredulità devastavano il loro animo con una guerra senza tregua; schiere di pensieri assediavano la loro mente e sotto i colpi della disperazione e della speranza il loro cuore si spezzava, nonostante la sua forza. I sentimenti e i pensieri dei discepoli erano divisi tra gli innumerevoli miracoli che rivelano Cristo e le molteplici umiliazioni della sua morte, tra i segni della sua divinità e le debolezze della carne, tra l’orrore della sua morte e le grazie della sua vita. Ora il loro spirito veniva portato in cielo, ora le loro anime ricadevano a terra; e nel loro cuore in cui infuriava la tempesta non trovavano alcun porto tranquillo, nessun luogo di pace. Al veder questo, Cristo che scruta i cuori, che comanda ai venti, governa le tempeste e con un semplice segno muta la tempesta in un cielo sereno, li conferma con la sua pace, dicendo: «La pace sia con voi! Sono io; non temete. Sono io, il morto e sepolto. Sono io. Per me Dio, per voi uomo. Sono io. Non uno spirito rivestito di un corpo, ma verità stessa fatta uomo. Sono io. Sono io, vivente tra i morti, celeste al cuore degli inferi. Sono io, che la morte ha fuggito, che gli inferi hanno temuto. Gli inferi mi hanno proclamato Dio, nel loro spavento. Non temere Pietro, che mi hai rinnegato, ne tu, Giovanni, che sei fuggito, ne tutti voi che mi avete abbandonato, che avete pensato a tradirmi, che non credete ancora in me, anche se mi vedete. Non temete, sono io. Sono io, vi ho chiamati per grazia, vi ho scelti perdonandovi, vi ho sostenuto con la mia compassione, vi ho portato nel mio amore e oggi vi accolgo per mia sola bontà, perché il Padre non vede più il male quando accoglie suo figlio».

(PIETRO CRISOLOGO, Discorso 81, PL 52, 428A-D).

 

Andremo alla casa del Signore

Mi rallegrai quando mi dissero:

«Andremo alla casa del Signore».

E ora i nostri piedi

sono nell’interno delle tue porte,

Gerusalemme!

Gerusalemme costruita come città,

in sé ben compatta!

Là salivano le tribù, le tribù del Signore,

secondo il precetto dato a Israele

di lodarvi il nome del Signore.

Sì, là s’ergevano i seggi del giudizio,

i seggi della casa di Davide.

Augurate la pace a Gerusalemme:

vivano in prosperità quanti ti amano!

Sia pace fra le tue mura,

prosperità fra i tuoi palazzi.

Per amore dei miei fratelli e amici

dirò: Sia pace in te!

Per amore della casa del Signore, nostro Dio,

chiederò: Sia bene per te!

(Salmo 121).

 

L’anima soffre e anela al Signore

Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.

Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi.

Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.

Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.

E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.

(Don Tonino Bello).

 

Preghiera

O Signore, Signore risorto, luce del mondo, a te sia ogni onore e gloria! Questo giorno, così pieno della tua presenza, della tua gioia, della tua pace, è davvero il tuo giorno! Sono appena rientrato da una passeggiata attraverso l’oscurità dei boschi. Era freddo e ventoso, ma tutto parlava di te. Ogni cosa: le nuvole, gli alberi, l’erba umida, la valle con le sue luci lontane, il rumore del vento. Parlavano tutti della tua risurrezione: tutti mi rendevano consapevole che ogni cosa è davvero buona. In te tutto è creato buono e da te tutta la creazione è rinnovata e portata a una gloria persino più grande di quella posseduta al principio.

Camminando nell’oscurità dei boschi alla fine di questa giornata piena di intima gioia, ti ho sentito chiamare Maria Maddalena per nome e dalla riva del lago ti ho sentito gridare ai tuoi amici di gettare le reti. Ti ho anche visto entrare nella sala con la porta serrata dove i tuoi discepoli erano radunati pieni di paura. Ti ho visto apparire sul monte così come nei dintorni del villaggio. Quanto sono veramente intimi questi eventi: sono come favori speciali fatti a cari amici. Non sono stati fatti per impressionare o sopraffare qualcuno, ma semplicemente per mostrare che il tuo amore è più forte della morte.

O Signore, ora so che è nel silenzio, in un momento tranquillo, in un angolo dimenticato che tu m’incontrerai, mi chiamerai per nome e mi dirai una parola di pace. E nell’ora della maggiore quiete che tu diventi per me il Signore risorto. O Signore, sono così riconoscente per tutto quello che mi hai dato nella settimana trascorsa! Rimani con me nei giorni che verranno. Benedici tutti quelli che soffrono in questo mondo e dona pace alla tua gente, che hai tanto amato da dare la vita per lei. Amen.

(J.M. NOUWEN, Preghiere dal silenzio, in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 242-243).

 

      

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

III DOMENICA DI PASQUA

 

PASQUA DI RISURREZIONE

Prima lettura:Atti 10,34a.37-43

In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui.  E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».

 

 

v Il brano di oggi inizia con le prime parole del versetto 34 del capitolo 10 e continua col versetto 37 fino al 43, togliendo le parole di Pietro dal loro contesto.

     Pietro sta parlando a Cornelio ai suoi congiunti e amici intimi (At 10,24), che lo avevano mandato a chiamare, per ispirazione divina. Pietro risponde prontamente all’invito, perché, per grazia divina, ha capito che i disegni di Dio sulle persone non corrispondono agli schemi umani e che «chi teme e pratica la giustizia è a lui accetto» (At 10,35).

     Si tratta quindi di un discorso a dei pagani, ai quali viene annunciato il Cristo morto e risorto, nucleo essenziale della predicazione apostolica.

     La missione di Gesù comincia a partire dal battesimo di Giovanni ed è compiuta in Giudea a partire dalla Galilea. L’autore degli Atti pone la Galilea come una regione della Giudea, che viene intesa come tutto il territorio abitato dagli ebrei. Politicamente Galilea e Giudea erano separate, pur facendo parte entrambe della provincia romana.

     Dio è protagonista della vicenda di Gesù. Dio stesso ha consacrato (echrisen) in Spirito Santo Gesù (At 10,38 cf. Is 61,l; Mt 3,16; Lc 4,18). La parola greca «consacrare» richiama l’appellativo «Cristo» unto, messia in ebraico.

     La potenza dello Spirito conferito da Dio fa sì che Gesù passi «beneficando e risanando» (At 10,38). Più che le parole di Gesù importano i suoi gesti, che rivelano che Dio è con lui. Gli apostoli e i discepoli, che devono annunciare Gesù morto e risorto, sono investiti del dovere della testimonianza «di tutte le cose da lui compiute» (At 10,39).

     «Essi lo uccisero, appendendolo alla croce». La versione usata dalla liturgia sembra dare per scontato che gli uccisori di Gesù sono stati i giudei, mentre i responsabili ultimi della sua morte erano i capi romani, i soli che potevano comminare la pena di morte, come Cornelio, che era un centurione romano, ben sapeva. E i Romani non avevano nessuna intenzione di derogare alle loro prerogative o il loro potere; essi avevano tutta la forza per decidere anche contro il parere dei giudei. Per amore di quieto vivere e per una certa intelligenza politica, essi cercavano la collaborazione in loco; essi lasciavano una certa libertà al Sinedrio, a patto naturalmente che non fosse di intralcio, ma servisse da intermediario fra il potere e il popolo. È molto importante aver presente la reale situazione storica, per non ricadere anche involontariamente nell’assurda denuncia dei giudei «deicidi», denunciata apertamente come erronea dalla chiesa cattolica a partire dal concilio Vaticano II (cf. Nostra Aetate n. 4 e relativi documenti di applicazione della commissione pontificia per i rapporti religiosi con gli ebrei del Segretariato per l’unità dei cristiani — ora consiglio pontificio — Orientamentie sussidi).

     Dio ha risuscitato Gesù il terzo giorno ed è sua volontà che non apparisse a tutto il popolo, ma solo ad alcuni testimoni particolari, da lui stesso scelti (At 10,41). A questi pochi è stato concesso di mangiare e bere con lui, dopo la risurrezione dei morti. Essi e coloro che credono sulla loro parola formano la catena della tradizione e, di generazione in generazione, predicano la sua risurrezione. «Vi ho trasmesso, quello che ho ricevuto, dice Paolo, che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e fu risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e poi ai dodici… (1 Cor 15,3,5).

     Gesù è costituito, grazie alla sua risurrezione e glorificazione, «giudee dei vivi e dei morti». Coloro a cui egli è apparso dopo la risurrezione hanno il dovere di predicarlo. A questo annuncio si riallaccia la predicazione della conversione (cf. Mc 1,15) a cui sono invitati coloro che crederanno nel suo nome e che in suo nome riceveranno per dono di Dio la remissione dei peccati.

     «A lui tutti i profeti danno questa testimonianza» (At 20,43): si fa un breve accenno all’argomento della testimonianza profetica, che però non viene svolto, trattandosi di un uditorio pagano. Tuttavia è sintomatico che non venga omessa del tutto la menzione della continuità tra l’Antico Testamento e il Nuovo, assicurata dalle predizioni profetiche» (CARLO MARIA MARTINI, Nuovissima versione della Bibbia, 37, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 199510 174, n. 17).

 

 

Seconda lettura: Colossesi 3,1-4

Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.       

 

 

v I versetti che leggiamo oggi danno inizio alla parte parenetica della lettera. I cristiani col battesimo (Col 2,11-13,20) sono «risorti con Cristo», sono rinati a vita nuova, devono quindi vivere secondo questa nuova situazione.

     «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù» (Col 3,1). Queste cose sono le virtù contrarie ai vizi, che vengono enumerati dopo (Col 3,5-6.9). I cristiani, infatti, sono già risorti col Cristo e sono là dove egli è, ma in modo nascosto; la loro gloria, come quella del Cristo si manifesterà nel giorno della rivelazione definitiva. Per ora vale l’esortazione a manifestare questa gloria attraverso una vita di rettitudine e di carità (Col 3,12-14).

 

Vangelo: Giovanni 20,1-9

 Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.  Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».

Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.  Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.  Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

     

 

Esegesi 

     Gli evangelisti sinottici parlano delle donne che si recano al sepolcro di buon mattino per compiere i riti sul cadavere di Gesù; Giovanni incentra l’attenzione su una donna particolare: Maria di Magdala. Ella trova la pietra rimossa e ne deduce che il corpo è stato trafugato e corre ad avvertire Pietro e il discepolo prediletto, che la tradizione identifica con l’evangelista Giovanni.

     Questi si portano immediatamente al sepolcro, al quale giunge per primo il discepolo più giovane. Egli da uno sguardo fugace all’interno, vede le bende abbandonate, ma, per deferenza verso il più anziano, non entra e lo aspetta sulla soglia. Pietro entra nella cella mortuaria e vede le bende e il sudario «avvolto» a parte. Il vangelo di Giovanni non parla delle sue reazioni. Luca (24,12) dice che tornò indietro pieno di stupore (thaumazo in greco, verbo che indica grande perplessità).

     «Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8). Che cosa vide? non è il vedere di Tommaso (Gv 21,29), ma il vedere interiore. Egli di fronte al sepolcro vuoto non pensa, come la Maddalena, che hanno trafugato il cadavere o non sospende il giudizio come Pietro, ma crede sulla Parola di Gesù, a sua volta fondata sulla tradizione delle Scritture ebraiche. Il frutto della comprensione delle Scritture è il credere; non, però, un frutto «automatico», ma dono dello Spirito, che raggiunge le persone in modo misterioso ed è accolto da ciascuno in maniera diversa. Anche la Maddalena e Pietro avevano avuto comunanza con Gesù e conoscevano le Scritture, ma a loro non basta ancora per credere dinanzi al sepolcro vuoto. Essi «non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,9).

 

L’immagine della domenica

  

 

RISURREZIONE 

«Amare è dire: tu non morirai!»  

(G. Marcel)

 

Meditazione

Siamo arrivati alla Pasqua dopo aver seguito Gesù nei suoi ultimi giorni di vita. Domenica scorsa abbiamo agitato con gioia i rami di ulivo per accoglierlo mentre entrava in Gerusalemme. Lo abbiamo poi seguito negli ultimi tre giorni: ci ha accolti al cenacolo, con un desiderio struggente di amicizia, tanto da abbassarsi sino a lavare i piedi e donarsi come pane ‘spezzato’ e sangue ‘versato’. E poi ci ha voluti accanto a sé nell’orto degli Ulivi, quando la tristezza e l’angoscia gli opprimevano il cuore tanto da farlo sudare sangue. Il bisogno di amicizia fattosi ancora più prepotente non fu capito; i tre discepoli più vicini a Gesù, prima si addormentarono e, poi, assieme a tutti gli altri, lo abbandonarono. Il giorno dopo lo troviamo in croce, solo e nudo; le guardie lo avevano spogliato della tunica; in verità lui stesso si era già spogliato della vita. Davvero ha dato tutto se stesso per la nostra salvezza. Il sabato è stato triste; un giorno vuoto per noi, ma pieno di gioia per coloro che aspettavano di essere salvati nel regno della morte. Gesù, che è morto donando la vita, ha continuato a donarla «scendendo agli inferi», ossia nel punto più basso possibile: ha voluto portare sino al limite estremo la sua solidarietà con gli uomini, fino ad Adamo, come ci ricorda la grande tradizione della Chiesa di Oriente.

Il Vangelo di Pasqua parte proprio da questo estremo limite, dalla notte buia. Scrive l’evangelista Giovanni che «era ancora buio» quando Maria di Magdala si recò al sepolcro. Era buio fuori, ma soprattutto dentro il cuore di quella donna (come nel cuore di chiunque altro amava quel Maestro che «aveva fatto bene ogni cosa»); il buio per la perdita dell’unico che l’aveva capita: non solo le aveva detto cosa aveva nel cuore, soprattutto l’aveva liberata da ciò che l’opprimeva più di ogni altra cosa (scrive Luca che era stata liberata da sette demoni). Con il cuore triste Maria si recava al sepolcro. Forse ricordava gli anni, pochi ma intensi, passati con Gesù. L’amicizia è sempre prendente; si potrebbe dire che non si può seguire Gesù da lontano, come ha fatto Pietro in questi giorni. Arriva il momento della resa dei conti e quindi della scelta di un rapporto definitivo. L’amicizia di Gesù è di quella specie che porta a considerare gli altri più di se stessi: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 12). Maria di Magdala lo constata di persona quel mattino, quand’è ancora buio. Il suo amico è morto perché ha voluto bene a lei e a tutti i discepoli, Giuda compreso.

Appena giunta al sepolcro ella vede che la pietra posta sull’ingresso, una lastra pesante come ogni morte e ogni distacco, è stata ribaltata. Neppure entra. Corre subito da Pietro e da Giovanni: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro!», grida, trafelata. Neanche da morto, pensa, lo vogliono. E aggiunge con tristezza: «Non sappiamo dove l’abbiano posto». La tristezza di Maria per la perdita del Signore, anche solo del suo corpo morto, è uno schiaffo alla nostra freddezza e alla nostra dimenticanza di Gesù vivo. Oggi, questa donna è un alto esempio per tutti i credenti, per ciascuno di noi. Solo con i suoi sentimenti nel cuore è possibile incontrare il Signore risorto. È lei e la sua disperazione, infatti, che muovono Pietro e l’altro discepolo che Gesù amava. Essi corrono immediatamente verso il sepolcro vuoto; dopo aver iniziato assieme a seguire il Signore durante la passione, sebbene da lontano (Gv 18, 15-16), ora si trovano a «correre entrambi», per non stargli lontano. È una corsa che esprime bene l’ansia di ogni discepolo, direi di ogni comunità, della Chiesa tutt’intera che cerca il Signore. Anche noi dobbiamo correre verso il sepolcro, ormai vuoto. La nostra andatu­ra non deve essere lenta, appesantita dall’amore per noi stessi, dalla paura di scivolare e di perdere qualcosa di nostro, dal timore di dover abbandonare abitudini ormai sterili, dalla pigrizia di un realismo triste che non fa sperare più nulla, dalla rassegnazione di fronte alla guerra e alla violenza che sembrano inesorabili. Bisogna riprovare a correre, lasciare quel cenacolo dalle porte chiuse e andare verso il Signore. Sì, la Pasqua è anche fretta. Giunse per primo alla tomba il discepolo dell’amore: l’amore fa correre più veloci. Ma anche il passo più lento di Pietro lo portò sulla soglia della tomba; ed ambedue entrarono. Pietro per primo, osservò un ordine perfetto: le bende stavano al loro posto come svuotate del corpo di Gesù e il sudario «avvolto in un luogo a parte». Non c’era stata né manomissione né trafugamento: Gesù si era come liberato da solo. Non era stato necessario sciogliere le bende come per Lazzaro. Le bende erano lì, come svuotate. Anche l’altro discepolo entrò e ‘vide’ la stessa scena: «Vide e credette», nota il Vangelo. Si erano trovati davanti ai segni della risurrezione e si lascia­rono toccare il cuore.

Fino ad allora infatti — prosegue l’evangelista — «non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti». Questa è spesso la nostra vita: una vita senza resurrezione e senza Pasqua, rassegnata di fronte ai grandi dolori e ai drammi degli uomini, rinchiusa nella tristezza delle proprie abitudini e della propria rassegnazione. La Pasqua è venuta, la pietra pesante è stata rovesciata e il sepolcro si è aperto. Il Signore ha vinto la morte e vive per sempre. Non possiamo più starcene chiusi come se il Vangelo della resurrezione non ci sia stato comunicato. Il Vangelo è resurrezione, è rinascita a vita nuova. E va gridato sui tetti, va comunicato nei cuori perché si aprano al Signore. Questa Pasqua non può passare invano; non può essere un rito che più o meno stancamente si ripete uguale ogni anno; essa deve cambiare il cuore e la vita di ogni discepolo, di ogni comunità cristiana, del mondo intero. Si tratta di spalancare le porte al risorto che viene in mezzo a noi, come leggeremo nei giorni prossimi durante le apparizioni ai discepoli. Egli deposita nei cuori degli uomini il soffio della resurrezio­ne, l’energia della pace, la potenza dello Spirito che rinnova.

Scrive l’apostolo: «Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio» (Col 3, 3). La nostra vita è come coinvolta in Gesù risorto e resa partecipe della sua vittoria sulla morte e sul male. Assieme al risorto entrerà nei nostri cuori il mondo intero con le sue attese e i suoi dolori. Entrerà questo mondo d’inizio millennio ferito dalla guerra e da tanta violenza ma anche percorso da un grande ane­lito di pace. Potremmo dire che questo mondo ferito è presente nel corpo stesso di Gesù, nelle sue ferite che sono ancora presenti nel suo corpo. Egli le presenta a noi come le presentò ai discepoli, perché possiamo cooperare con lui alla nascita di un cielo nuovo e di una terra nuova, ove non c’è più né lutto né lacrima, né morte né tristezza perché Dio sarà tutto in tutti.

 

 Preghiere e racconti

 

     Il sole di giustizia

      Il sole di giustizia scomparso da tre giorni si leva oggi e illumina tutta la creazione: Cristo nella tomba da tre giorni ed esistente da prima dei secoli. È germogliato come una vigna e riempie di gioia tutta la terra abitata. Volgiamo i nostri occhi alla luce senza tramonto e lasciamoci riempire della gioia di questa luce. Le porte degli inferi sono spezzate da Cristo, i morti si levano come dal sonno; è risorto il Cristo, resurrezione dei morti, e ha destato Adamo. È risorto Cristo, resurrezione di tutti, e ha liberato Eva dalla maledizione. È risorto Cristo, la resurrezione, e ha trasfigurato in bellezza ciò che era privo di bellezza e di splendore. Il Signore si è risvegliato come dal sonno e ha confuso i suoi nemici calpestandoli sotto i piedi. Cristo è risorto e ha dato gioia a tutta la creazione; è risorto e la prigione degli inferi è stata svuotata; è risorto e ha trasformato il corruttibile in incorruttibile. Cristo è risorto e ha ristabilito Adamo nell’antica dignità dell’immortalità.

      Chiunque è una nuova creatura in Cristo sia rinnovato dalla resurrezione. […] La chiesa che è in Cristo diventa oggi un cielo nuovo, cielo più bello di quello che vediamo. Non ha bisogno della luce di un sole che tramonta ogni sera, perché ha per luce quel Sole che il sole della terra ha temuto quando lo ha visto sospeso alla croce. Di questo sole il profeta ha detto: «Si leva il sole di giustizia per quelli che temono il Signore» (Ml 3,20).

(EPIFANIO DI CIPRO, Omelia sulla santa resurrezione di Cristo, PG 43,465A-C)

 

La corsa al sepolcro e la voce dell’angelo: «Non è qui»

Una tomba, una casa, il primo sole, e la corsa di donne e uomini come una spola lucente a tessere vita. Per prima è Maria di Magdala ad uscire di casa quando è ancora notte, buio nel cielo e buio nel cuore. Non ha niente tra le mani, solo il suo amore che si ribella alla morte di Gesù: «amare è dire: tu non morirai!» (G. Marcel). Il suo amore, che intona un nuovo Cantico dei Cantici in quell’alba: «Mi alzerò…farò il giro delle strade: “avete visto l’amore dell’anima mia?”» (Cantico 3,1-3). E poi il giardino, la corsa e le lacrime, il nome pronunciato come solo chi ti ama sa fare. Quell’uomo amato, che sapeva di cielo, che aveva spalancato per lei orizzonti infiniti, è ora chiuso in un buco nella roccia. Tutto finito. Ma allora perché si reca al sepolcro? «Perché si avvicinò alla tomba, pur essendo una donna, mentre ebbero paura gli uomini? Perché lei gli apparteneva e il suo cuore era presso di lui. Dove era lui, era anche il cuore di lei. Perciò non aveva paura» (Meister Eckhart). E vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Il sepolcro è spalancato, aperto come il guscio di un seme, vuoto e risplendente, nel fresco dell’alba. E nel giardino è primavera. Maria di Magdala corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo. Anche su di loro era rotolato un masso che li stava schiacciando. Il dolore a unghiate graffiava il cuore. Ma loro erano rimasti insieme, ecco la forza, il gruppo non si era dissolto: qualcosa, molto di Gesù perdurava tra loro come collante delle vite.

Insieme è molto di più della somma dei singoli: tu sei argine alle mie paure e riserva d’olio per la mia lampada, io sarò soffio di vento nelle tue vele e impulso per andare: uscirono allora, e correvano insieme tutti e due… Arrivano e vedono: manca un corpo alla contabilità della morte, manca un ucciso ai registri della violenza: il loro bilancio è in perdita. «Non è qui» dice un angelo alle donne. Che bella questa parola: «non è qui». Lui è, ma non qui. Lui è, ma va cercato fuori, altrove, è in giro per le strade, è il vivente, è un Dio da sorprendere nella vita. È dovunque, eccetto che fra le cose morte. Matura come un germoglio di luce nella notte, come un seme di fuoco nella storia. Vi precede in Galilea (Mt 28,7): è il primo della lunga carovana, cammina davanti, ad aprire la nostra immensa migrazione verso la vita. Davanti, a ricevere in faccia il vento, l’ingiuria, la morte, il sole, senza arretrare di un passo mai. E coloro che, come lui, non accettano che il mondo si perpetui così com’è, coloro che vogliono cieli nuovi e nuova terra, sanno che chi vive una vita come la sua ha in dono già la sua stessa vita indistruttibile.

(Ermes Ronchi)

 

Dov’è il Signore?

Al cuore delle letture del giorno di Pasqua vi è l’annuncio e l’esperienza della resurrezione. La scoperta della tomba vuota conduce Maria di Magdala a darne la notizia a Pietro e al discepolo amato: quest’ultimo, entrato nel sepolcro, “vide e credette”. È l’inizio della fede pasquale (vangelo). Da quel primo giorno della settimana la resurrezione di Gesù diviene evento di parola, diviene annuncio, anzi è la parola per eccellenza che la chiesa è chiamata ad annunciare e a testimoniare, come fa Pietro nel suo discorso riportato dagli Atti (I lettura). La resurrezione di Gesù coinvolge il credente facendo del battezzato un uomo partecipe del mistero pasquale e la cui vita è ormai nascosta con Cristo in Dio (II lettura). Dove cercare il Signore? Dov’è il Signore? Questa la domanda che le parole preoccupate di Maria di Magdala suscitano in noi: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto” (Gv 20,2). Qual è il luogo, il dove, del Signore? Maria è ancora “nel buio” (Gv 20,1), deve ancora avvenire il suo passaggio verso il chiarore della fede, verso la luce della visione chiara. Per ora la ricerca di Maria è a tentoni e – non ancora illuminata dalla fede – si risolve in una incomprensione dell’evento: Maria pensa a un trafugamento del cadavere. C’è una relazione affettiva, umana, umanissima con il Signore che non è sufficiente per cogliere l’interezza del mistero.

La fede non è riducibile a una pura dimensione affettiva. Il testo sottolinea l’importanza del vedere da parte dei personaggi che giungono alla tomba. Maria vede la pietra ribaltata dal sepolcro e corre da Pietro e dal discepolo amato; quest’ultimo, nella corsa insieme con Pietro, giunge per primo al sepolcro e vede le bende, ma non entra; Pietro entra nel sepolcro e vede con precisione tutto ciò che vi è: bende, sudario piegato e riposto in un luogo a parte. Ma anche questo sguardo constatativo, razionale, preciso, completo, non basta a cogliere il mistero. Solo il discepolo amato, dopo aver rispettosamente atteso Pietro e aver lasciato che per primo entrasse nel sepolcro chi godeva di un primato nel gruppo dei Dodici, “entrò … e vide e credette”. Il discepolo amato non vede alcun oggetto specifico: è l’assenza stessa che diviene per lui evocatrice di una Presenza. La sua visione è animata dall’intuizione spirituale che gli consente di iniziare un processo che giungerà alla pienezza della fede. Ma per il salto della fede, dunque per vedere la vita nel luogo della morte, occorre credere alla testimonianza delle Scritture (cf. Gv 20,9).

Di Gesù restano solo i segni del corpo morto e assente, sicché il sepolcro (mnemeîon in greco: lett. “memoriale”) è memoria immota, cimiteriale, morta. La Scrittura, che sempre è segno di un’assenza (lo scritto rimpiazza la presenza), è invece memoriale di un vivente e memoria vivificante: accostata al vuoto della tomba essa la riempie di una parola che è all’origine della resurrezione perché è la parola stessa del Dio della vita. Cercare colui che è assente, vedere colui che non è visibile, trovare colui che non ha un luogo identificabile: questi sono gli elementi che caratterizzano la ricerca del Signore anche oggi. L’assenza di Dio da motivo di lamento deve passare a condizione di ricerca. Da fuggire è la pretesa di sapere o di stabilire con certezza dove sia il Cristo, dove sia da cercare e dove no. Fuga da attuarsi in obbedienza alle parole di Gesù: “Se qualcuno vi dirà: ‘Ecco, il Cristo è qui, ecco è là’, non ci credete” (Mc 13,21). È un preciso invito alla non-fede che Gesù fa. Non-fede necessaria alla fede nel Risorto. E occorre non credere a chi vuole dare visibilità a Cristo dicendo: “Sono io” (Mc 13,5). “Non in modo osservabile” viene il Regno, e nessuno può dire “Eccolo qui, eccolo là” (Lc 17,21). Pretendere di individuare e circoscrivere il luogo del Risorto è operazione idolatrica, fatta dai manipolatori del religioso, che non sopportano l’insicurezza e la fatica della ricerca a cui obbliga il non est hic (“non è qui”: Mc 16,6).

(Luciano Manicardi)

 

Cantiamo: Alleluia!

Bisogna che «questo corpo corruttibile» – non un altro – «si rivesta di incorruttibilità, e questo corpo mortale» – non un altro – «si rivesta di immortalità. Allora s’avvererà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria». Cantiamo: Alleluia! «Allora si av-vererà la parola della Scrittura», parola di gente non più in lotta, ma in trionfo: «La morte è stata inghiottita nella vittoria». Cantiamo: Alleluia! «Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Cantiamo: Alleluia! (cfr. 1Cor 15,53-55). […] Cantiamo «Alleluia» anche adesso, sebbene in mezzo a pericoli e a prove che ci provengono sia dagli altri sia da noi stessi. Dice l’Apostolo: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze» (1Cor 10,13). Anche adesso, dunque, cantiamo «Alleluia». L’uomo resta ancora preda del peccato, ma Dio è fedele. E non si dice che Dio non permetterà che siate tentati, ma: «Non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze; al contrario, insieme con la tentazione, vi farà trovare una via d’uscita perché possiate reggere». Sei in balìa della tentazione, ma Dio ti farà trovare una via per uscirne e non perire nella tentazione. […]

Oh! Felice alleluia quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena sicurezza, senza alcun avversario! Lassù non ci saranno nemici, non si temerà la perdita degli amici. Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente tribolata, là da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speranza, lassù nella realtà; qui in via, lassù in patria. Cantiamo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere la gioia del riposo, ma per procurarci un sollievo nella fatica. Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia. Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, nella retta fede, in una vita buona.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 256,2-3, NBA XXXII/2, pp. 816-818).

 

Imparare a riconoscere Gesù

Qualche volta noi ci crogioliamo un po’, ci lamentiamo col Signore, che non si manifesta in maniera chiara, che non ci dice come fare. Adagio adagio, però, si capisce che il Signore vuole che noi cerchiamo, che cresciamo in questa ricerca. Noi diventiamo veri ricercatori di Dio cercando la sua volontà, cercandola in questa Chiesa, in questo mondo, in questa società, in queste situazioni difficili, crescendo nel dialogo, nella pazienza, nella sopportazione, nell’ascolto.

Così cresciamo. Se no saremmo degli automi; se ogni mattina ci risvegliassimo col programma già fatto da Dio, allora non ci sarebbe più problema. Invece siamo degli operatori attivi e cresciamo responsabilmente nel Regno di Dio, ricercando umilmente la sua volontà e purificandoci in questa ricerca. Ciò vale anche per la ricerca di Dio in se stesso, che è crescita purificante, faticosa, e se molti arrivano a non credere in Dio, non è perché abbiano più o meno argomenti di noi, ma perché si sono stancati di cercarlo, cioè hanno finito di fare il vero mestiere di uomo che è mettersi di fronte alla verità.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 57-58).

 

Pasqua è…

Credere che anche i ladroni possono andare in Paradiso. Dico ladroni perché mi pare che aggiungere “buoni” sia pleonastico.

È credere che in tre giorni possono accadere cose che non sono accadute in trenta secoli.

È credere che i soldi non comprano mai nessuno e se  lo comprano è per distruggerlo.

È credere che anche gli amici veri possono tradire altri amici veri. La causa: troppa sicurezza nel reputarsi “veri”.

È accettare di iscrivere il dolore dentro la storia della nostra vita, accettarlo come compagno. C’è un dolore che annulla l’uomo e c’è un dolore che annulla gli errori dell’uomo.

È uscire dalla metropoli e percorrere i sentieri oltre le mura: sentieri di silenzio, faticosi, scoscesi, puliti, stretti.

È credersi Giuda e Pietro, cireneo e soldato, Pilato e Maddalena, sepolcro e giardino, terremoto e sindone, legno e sangue, mors e alleluja.

È smettere di farsi parola per incominciare a farsi pane, vino, mensa, cenacolo, fuoco, amore.

È incontrarsi con il giardiniere e scoprirlo Cristo; incontrarsi con un viandante e scoprirlo Cristo; incontrarsi con i vecchi compagni e scoprirli Cristo; incontrarsi con i pescatori e …mangiare con Cristo.

È asciugarsi il volto pieno di lacrime e …meravigliarsi che dalle lacrime possano nascere …le risurrezioni.

(Antonio Mazzi).

 

Andate presto, andate a dire…

Voi che l’avete intuito per grazia

correte su tutte le piazze

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che la notte è passata.

Andate a dire che per tutto c’è un senso.

Andate a dire che l’inverno è fecondo.

Andate a dire che il sangue è un lavacro.

Andate a dire che il pianto è rugiada.

Andate a dire che ogni stilla è una stella.

Andate a dire: le piaghe risanano.

Andate a dire: per aspera ad astra.

Andate a dire: per crucem ad lucem.

Voi, che lo avete intuito per grazia,

correte di porta in porta

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che il deserto fiorisce.

Andate a dire che l’Amore ha ormai vinto.

Andate a dire che la gioia non è sogno.

Andate a dire che la festa è già pronta.

Andate a dire che il bello è anche vero.

Andate a dire che è a portata di mano.

Andate a dire che è qui, Pasqua nostra.

Andate a dire che la storia ha uno sbocco.

Andate a dire: liberate, lottate.

Andate a dire che ogni impegno è un culto.

Voi, che lo avete intuito per grazia,

correte, correte per tutta la terra

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che ogni croce è un trono.

Andate a dire che ogni tomba è una culla.

Andate a dire che il dolore è salvezza.

Andate a dire che il povero è in testa.

Andate a dire che il mondo ha un futuro.

Andate a dire che il cosmo è un tempio.

Andate a dire che ogni bimbo sorride.

Andate a dire che è possibile l’uomo.

Andate a dire, voi tribolati.

Andate a dire, voi torturati.

Andate a dire, voi ammalati.

Andate a dire, voi perseguitati.

Andate a dire, voi prostrati.

Andate a dire, voi disperati.

Andate a dire, comunque sofferenti.

Andate a dire, offerenti-sorridenti.

Andate a dire su tutte le piazze.

Andate a dire di porta in porta.

Andate a dire in fondo alle strade.

Andate a dire per tutta la terra.

Andate a dire gridandolo agli astri.

Andate a dire che la gioia ha un volto.

Proprio quello sfigurato dalla morte.

Proprio quello trasfigurato nella Pasqua.

Oggi, proprio ora, qui andate a dire.

Andate a dire.

Ed è subito pace.

Perché è subito Pasqua.

(Sabino Palumbieri, Via Paschalis, Elledici, 2000, pp. 28-29)

 

Quelli che fanno suonare le campane

Qualche mese fa, concludendo la visita pastorale in una parrocchia della mia diocesi, l’ultimo giorno andai in una scuola materna. C’erano tantissimi bambini di tre o quattro anni che si affollavano stupiti intorno a me: non mi conoscevano, mi vedevano come un personaggio esotico. La maestra chiese: “Bambini, sapete chi è il vescovo?”. Tutti diedero delle risposte. Uno disse: “E’ quello che porta il cappello lungo in testa”; un altro, chissà per quale associazione di immagini, disse una cosa bellissima che a me piacque tanto: “il Vescovo è quello che fa suonare le campane”. Forse mi aveva visto in processione, al suo paese, in qualche festa accompagnata dal tripudio delle campane. Il vescovo come colui che fa suonare le campane: è una definizione bellissima, forse poco teologica ma profondamente umana. Sarebbe bello che i vostri fedeli, i vostri amici, coloro che vi conoscono, potessero dare di voi una definizione così. Sarebbe bello che la gente dicesse di tutti noi che siamo “quelli che fanno suonare le campane”: le campane della gioia di Pasqua, le campane della speranza.

(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).

 

I macigni rotolati

Ricorrerò alla suggestione del macigno che la mattina di Pasqua le donne, giunte nell’orto, videro rimosso dal sepolcro. Ognuno di noi ha il suo macigno. Una pietra enorme, messa all’imboccatura dell’anima, che non lascia filtrare l’ossigeno, che opprime in una morsa di gelo, che blocca ogni lama di luce, che impedisce la comunicazione con l’altro. E’ il macigno della solitudine, della miseria, della malattia, dell’odio, della disperazione, del peccato. Siamo tombe alienate. Ognuna col suo sigillo di morte. Pasqua, allora, sia per tutti il rotolare del macigno, la fine degli incubi, l’inizio della luce, la primavera di rapporti nuovi, e se ognuno di noi, uscito dal suo sepolcro, si adopererà per rimuovere il macigno del sepolcro accanto, si ripeterà finalmente il miracolo del terremoto che contrassegnò la prima Pasqua di cristo. Pasqua è la festa dei macigni rotolati. E’ la festa del terremoto.

(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).

 

L’affidamento dell’uomo a Dio                                

Nella Pasqua Gesù, da un lato, rivela il mistero dell’amore di Dio per l’uomo; dall’altro, celebra e attua nel modo umanamente più perfetto l’amore, l’obbedienza, l’affidamento dell’uomo a Dio. L’aspetto singolare, eccezionale, unico del sacrificio pasquale è che la rivelazione e la celebrazione – attuazione sono una sola cosa, così come nell’essere di Gesù, Dio e l’uomo, pur rimanendo distinti, diventano una sola cosa.

La Pasqua di Gesù, proprio perché è quella manifestazione-celebrazione dell’amore di Dio ora descritta, tende a raggiungere ogni uomo, sia per manifestargli l’amore di Dio, per annunciargli che il suo peccato è perdonato, per dargli speranza di vita e di gioia oltre la sofferenza e la morte, sia per attrarre ogni uomo nello stesso movimento di celebrazione del mistero, di adorazione di Dio, di conformazione alla volontà del Padre che ha animato tutta la vita di Gesù suggellata nella Pasqua.

L’eucaristia è appunto la modalità istituita da Gesù nell’ultima cena per attuare questa intrinseca intenzione salvifica della Pasqua.  

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol. II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94).

 

Questo giorno fatto dal Signore penetra tutte le cose

In questo giorno, per opera della risurrezione di Cristo gli inferi aperti restituiscono i morti, la terra rinnovata fa germogliare risorti, il cielo dischiuso accoglie chi sale. Il ladrone sale in paradiso (cfr. Lc 23,43), i corpi dei santi entrano nella città santa (cfr. Mt 27,53), i morti ritornano tra i vivi (cfr. Mt 27,52) e in certo senso tutti gli elementi alla risurrezione di Cristo progrediscono e si innalzano. Gli inferi rinviano in alto quanti racchiudono, la terra invia al cielo quelli che li ha sepolti, il cielo presenta al Signore quelli che accoglie e, con una sola operazione, la passione del Salvatore innalza dal profondo, solleva dalla terra e colloca nell’alto dei cieli. La risurrezione di Cristo è infatti vita per i morti, perdono per i peccatori, gloria per i santi. Il santo David invita dunque ogni creatura a festeggiare la risurrezione di Cristo, poiché dice che bisogna esultare in questo giorno fatto dal Signore e rallegrarsi [Sal 117 (118) ,24]. […] Questo giorno fatto dal Signore penetra tutte le cose, contiene il cielo, abbraccia la terra e gli inferi. La luce di Cristo infatti non è fermata da pareti, non è divisa da elementi, non è oscurata dalle tenebre. La luce di Cristo, voglio dire, è giorno senza notte, giorno senza fine, splende in ogni luogo, si irradia ovunque, non viene meno in alcun luogo. Che questo giorno sia Cristo lo dice l’Apostolo: «La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13,12). La notte è avanzata, è detto e non si dice che segue il giorno; questo affinché tu capisca che al sopraggiungere della luce di Cristo le tenebre del Divisore sono messe in fuga e non giunge l’oscurità dei peccati e un perenne splendore scaccia le nebbie del passato, arresta il male che cerca di farsi spazio. La Scrittura attesta che questo giorno, cioè il Cristo, illumina cielo, terra e gli inferi. Che risplenda sopra la terra lo dice Giovanni: «Era la vera luce, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1,9). Che risplenda negli inferi, lo dice il profeta: «Una luce è sorta per quelli che sedevano nell’ombra di morte» (Is 9,2). Che questo giorno duri in eterno nei cieli, lo dice David: «Stabilirò per sempre la sua discendenza e il suo trono come i giorni del cielo» [Sal 88 (89),30].

(MASSIMO DI TORINO, Discorsi 53,1-2, Scrittori dell’area santambrosiana, pp. 250-252).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA DI RISURREZIONE