XXV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:Sapienza 2,12.17-20

 «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».

 

 

v Presentazione generale:

a) Il contesto – I capp. 1-5 del libro della Sapienza presentano la figura del «sapiente» e dello «stolto» (chiamati anche «giusto» e «empio»): chi sono, cosa fanno, come concepiscono la vita; quali valori privilegiano, a quali cose e persone danno il primato. Nella tradizione biblica «giusto» (o «sapiente») è l’uomo che sa riferire tutto a Dio e sa leggere la storia, gli avvenimenti, la stessa vita di ogni giorno alla luce della dimensione religiosa e nell’atteggiamento di chi sa accogliere ogni cosa come dono del suo Signore. «Empio» o «stolto» è l’uomo che pone al centro del suo vivere se stesso, le cose, il successo. È l’uomo incapace di cogliere la presenza di Dio nel suo mondo e nella sua vita. L’empio, comunque, non è l’ateo, nel senso che noi oggi diamo a questo termine. La Bibbia non conosce la figura moderna dell’ateo, ma solo l’uomo che di fronte al male, al dolore o a qualsiasi altro elemento che provoca differenza e disagio, si interroga sulla certezza della presenza di Dio «qui» e «adesso», proprio come fanno gli «empi» di questa lettura (cf. Sal 13,1: «Lo stolto pensa: ‘Non c’è Dio’»).

b) Il tema –  È il contrasto tra la concezione del vivere propria degli empi e quella dei giusti. In questo contrasto vengono evidenziate le reazioni degli empi nei confronti di quanti vivono alla luce della Parola di Dio e dei valori che ad essa si ispirano. Questo testo è stato applicato alla Passione di Gesù e alla sua vita apparentemente abbandonata da Dio sulla croce. Gli evangelisti pongono sulle labbra di coloro che assistono alla sua crocifissione le ultime parole di questo brano («Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuole bene», cf. Mt 27,43). In Gesù, giusto per eccellenza, si rivela non l’abbandono di Dio, ma il suo amore e la sua vicinanza all’uomo. Dalle sue sofferenze e dalla sua croce, infatti, ha origine la salvezza degli uomini. Per la chiesa primitiva il nostro brano (come pure il Sal 21,9 che contiene le medesime espressioni) sono stati considerati profezie riguardanti Gesù, il Giusto consegnato nelle mani degli empi e morto per la nostra salvezza.

     Annotazioni

— v. 17: «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo… ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta»; queste parole vanno collocate nel contesto generale del libro della Sapienza, che contiene una forte critica nei confronti degli Israeliti che avevano rinnegato la loro formazione religiosa ed erano passati alla cultura ellenistica. Dall’ellenismo (introdotto in Oriente da Alessandro Magno, nel 333 a.C.) avevano accettato anche le mode e le abitudini (palestre, teatri, spettacoli, terme ecc.) e anche l’invito a non farsi più circoncidere. Quest’ultimo elemento era da sempre considerato caratteristico della formazione e della religiosità ebraiche.

— v. 19: «Mettiamolo alla prova… per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione»: questi verbi che si riferiscono alla «tentazione» — e che la Bibbia ama attribuire a Dio — sono qui attribuiti agli empi, i quali si propongono non di rafforzare la fede e la fiducia dei giusti (secondo il significato che la Bibbia dà alla tentazione), ma di farli deviare dalla via del bene e di scoraggiarli dal compiere ogni cosa secondo Dio e nella fedeltà alla sua Parola.

 

Seconda lettura: Giacomo 3,16-4,3

Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia. Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.

 

 

v Presentazione generale:

La Lettera di Giacomo comprende una serie di esortazioni senza un ordine logico, che si ispirano all’idea fondamentale di un’esistenza cristiana da vivere nella fedeltà al vangelo, nella carità e nella solidarietà (a questo si rifanno le severe espressioni che la Lettera usa contro i ricchi, incapaci di solidarietà e chiusi alle necessità del prossimo bisognoso). Una vita così vissuta esprime anche la ricchezza interiore dell’uomo che, opponendosi ai vizi, alle passioni cattive e alle suggestioni del potere e del denaro, manifesta padronanza di sé e fedeltà al progetto di Dio sull’uomo e sulla creazione. Il nostro brano comprende due temi: a) la qualità della vera sapienza, quella che conduce a vivere secondo il progetto di Dio (Gc 3,13-18); b) la riflessione sulle cause delle ostilità nel cuore dell’uomo e nel mondo e i loro rimedi (Gc 4,1-12).

     Annotazioni

— v. 16: «C’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni»: queste espressioni fanno parte del cosiddetto «catalogo dei vizi» che spesso la predicazione degli apostoli richiamava per mettere in guardia chi non accoglieva l’invito del vangelo a convertirsi dalle opere cattive e a vivere con attenzione e impegno (cf. 2Cor 12,20).

— v. 17: «La sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera»: questa descrizione della «vera» sapienza si ispira alla concezione che di essa hanno i Sinottici e Paolo (cf. Gal 5,22-23). In particolare è da sottolineare l’affinità di questi termini con il resto delle Beatitudini (Mt 5,1 ss), un testo che nell’evangelista Matteo diventa il programma di vita del cristiano. Vivere secondo questo programma è anche per Giacomo un segno della vera sapienza cristiana che vede, giudica, illumina tutto alla luce del vangelo e della persona di Gesù. Anche l’espressione «buoni frutti» richiama il Vangelo (cf. Mt 7.16-20): «Dai loro frutti li riconoscerete») 4,1: «Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? »: alla ricerca dei rimedi da contrapporre ai mali dell’uomo (guerre, liti, contese), Giacomo propone atteggiamenti e comportamenti che, sanando l’interno dell’uomo («il cuore») hanno poi la capacità di influire positivamente anche sul mondo esteriore. Per questo sono importanti il dominio delle passioni, la forza della preghiera e l’attenzione a vivere secondo le virtù che caratterizzano e distinguono il cristiano (vv. 2-3).

 

Vangelo: Marco 9,30-37

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

 

 

 

Esegesi

Presentazione generale:

a) Il contesto – È quello che caratterizza la seconda parte del vangelo di Marco. Secondo lo schema di questo evangelista, la prima parte contiene il racconto dei miracoli di Gesù (cc. 1-8) per orientare il lettore alla comprensione della sua identità di Messia e Figlio di Dio (come farà Pietro in 8,27-29, che è «il centro» del vangelo di Marco). La seconda parte (cc. 9-16) è tutta impostata sulle esigenze radicali che Gesù chiede ai discepoli e ai cristiani di ogni tempo che lo vogliono seguire. Con il nostro brano ha inizio la descrizione di queste esigenze. Esse vengono collocate in questa seconda sezione perché solo chi ha riconosciuto

la vera identità di Gesù (in tutto obbediente al Padre fino ad accettare la croce) sa anche accettare il suo destino di morte e di risurrezione.

b) Il tema – È la presentazione della missione di Gesù alla luce del progetto di salvezza di Dio (che passa attraverso la croce e la morte) e la richiesta al discepolo di ogni tempo di partecipare a questo progetto nella totale obbedienza che ha caratterizzato Gesù.

     Annotazioni

— v. 30: «Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse»: questa frase è da collocare nel contesto del cosiddetto «segreto messianico»: Gesù cioè vuole essere riconosciuto come Messia e Figlio di Dio non nell’esteriorità dei miracoli (che aveva finora compiuti in Galilea), ma nella obbedienza a Dio che lo consegna alla croce e alla morte.

— v. 31: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini»: «Figlio dell’uomo» è uno dei titoli messianici di Gesù, che si ispira a Dan 7,14 (testo ritenuto messianico nell’interpretazione biblica) e al profeta Ezechiele (che inizia sempre i suoi oracoli con l’espressione «Figlio dell’uomo», tuttavia senza significato messianico, ma con il significato comune di «uomo»).

     Il verbo «consegnare» è molto ricco teologicamente. Esso indica il progetto che Dio ha pensato per gli uomini: per la loro salvezza Dio «consegna» Gesù nelle loro mani. Gesù, infatti, non è stato tradito («tradire» è un secondo significato dello stesso verbo paradìdomi, che traduciamo con «consegnare») solo da Giuda o dagli Anziani, ma è stato «consegnato» a morte da Dio stesso. Gesù non è stato ucciso (nel senso teologico) dai contemporanei (anche se storicamente essi hanno preso parte al consumarsi di questa morte), ma dalle «mani» di ogni uomo (= dai suoi peccati) alle quali Dio ha «consegnato» Gesù.

— v. 34: «Avevano discusso tra loro chi fosse più grande»: i discepoli si aspettavano da un momento all’altro che Gesù inaugurasse il Regno messianico (che essi vedevano erroneamente anticipato dai miracoli da Lui compiuti), nel quale pensavano di essere favoriti con un posto di particolare prestigio.

— v. 35: «Sedutosi… preso un bambino… chi accoglie uno solo di questi bambini»: il verbo «sedersi» indicava l’attività di insegnamento del maestro o del rabbino. Il verbo da anche l’idea della profondità e della gravità degli insegnamenti che Gesù sta per dare ai discepoli («essere l’ultimo… essere il servo di tutti»).

     «Bambini» e «piccoli» nel vangelo (oltre al loro proprio significato letterale) indicano anche i membri più deboli della comunità cristiana, le persone più dimenticate e per le quali nessuno ha uno sguardo o un’attenzione particolare. Di esse deve farsi carico il discepolo di Gesù, come Lui si è fatto carico dell’umanità debole e fragile sotto il dominio del peccato.

 

Meditazione

 

      C’è un’immagine, nel racconto di Marco, che ritorna spesso e che ritma un po’ tutta la narrazione: è l’immagine della via, immagine allo stesso tempo reale e simbolica. È la strada che conduce a Gerusalemme e che Gesù percorre con i suoi discepoli, ma è anche il simbolo dell’itinerario che ogni discepolo deve compiere nella misura in cui sceglie di seguire Gesù. Lungo la via il discepolo impara a posare la pianta dei suoi piedi nell’orma che Gesù lascia; lungo la via il discepolo impara a conoscere il volto di Gesù, il segreto del suo cammino, la meta a cui tende tutta la sua vita; lungo la via il discepolo scopre anche la sua debolezza, la sua incapacità a seguire il Signore Gesù, la sua durezza di cuore, la sua cecità; lungo la via, infine, il discepolo comprende che solo riconoscendo la sua povertà può avere la grazia della sequela, il dono di scoprire che è sempre Gesù a camminare avanti, mentre egli può solo e sempre stare dietro.

   Nella pericope del racconto di Marco proposta in questa domenica, lungo la via ascoltiamo ora una parola di Gesù che il discepolo ha già udito (cfr. Mc 8,31), ma che al suo orecchio appare sempre dura, addirittura estranea: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (9,31). Consegnare, uccidere, risorgere: tre verbi che offrono la sequenza di una storia drammatica e paradossale, inaudita, la vicenda ‘pasquale’ di Gesù. Una vicenda già contenuta in filigrana nella storia dei profeti, di coloro che Dio invia per comunicare la sua parola di giudizio e di salvezza sulla storia degli uomini. La storia del profeta, del giusto, è sempre una storia drammatica, contraddittoria e violenta, e in questi termini la rilegge il libro della Sapienza (cfr. la prima lettura). «Tendiamo insidie al giusto… mettiamolo alla prova con violenze… condanniamolo ad una morte infamante» (Sap 2,12.17-20): è questa la risposta degli empi a una parola di Dio, comunicata dal profeta, una parola che suona come accusa a una logica di ingiustizia e di violenza (quella logica condannata in Gc 3,16-4,3). Il profeta diventa segno di contraddizione, odiosa pietra di scandalo («per noi è di incomodo e si oppone alle nostre azioni»: 2,12) per un sistema sociale e religioso basato sulla ipocrisia, ma nascosto dietro una apparente legalità. Ecco perché la sua parola deve essere neutralizzata dimostrandone l’inefficacia ridicola e malefica, o più semplicemente deve essere eliminato.

    Ma tra i tre verbi che caratterizzano la vicenda del ‘profeta’ Gesù, uno in particolare offre una luce per raggiungere il cuore di avvenimenti di per sé incomprensibili. Si tratta del verbo consegnareviene consegnato nelle mani…»: paradidotai eis cheiras), un verbo che domina tutta la via crucis del Figlio dell’uomo: Giuda, il discepolo che lo tradisce, lo consegna ai soldati; i soldati ai capi del popolo; i capi del popolo a Pilato e questi ai crocefissori. Ma il paradosso è che il Padre stesso consegna il Figlio alla morte e in questa morte è Dio stesso a consegnarsi all’uomo, a donarsi, a offrire per l’uomo la sua stessa vita.

    Consegnare, uccidere, risorgere: tre verbi oscuri per il discepolo che insegue i suoi pensieri, che cerca un volto di Gesù molto diverso da quello che lui ora gli sta presentando. Il discepolo non comprende questa logica che gli pare assurda. Ma pur non comprendendo, ha paura di domandare: «…non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo» (Mc 9,32). È veramente paradossale questa reazione. Chi non capisce, chiede. E perché il discepolo non osa chiedere? Forse perché ha paura della risposta: o meglio, ha paura di un confronto con la parola di Gesù. Il discepolo preferisce nascondersi dietro le proprie molte parole, le quali offrono cammini più facili, indicano desideri più gratificanti, immediati: «Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (9,34).

    Lungo la strada allora Gesù fa fare una sosta al discepolo, ponendo anzitutto una domanda, che però resta senza risposta: «Di che cosa stavate discutendo lungo la strada?» (9,33). Sembra quasi che di fronte a Gesù il discepolo non sappia usare la parola. Ed è veramente così: il discepolo non sa usare la parola, resta muto, perché non ha ascoltato la Parola, quella parola che è il cammino di Gesù, quella parola dura che è la croce. Solo Gesù può dare una risposta alle molte parole e ai silenzi del discepolo. E la sua risposta è sconcertante e vera allo stesso tempo. Essa ha come due momenti, due angolature attraverso cui si può rileggere la vicenda di Gesù, ma che diventano anche altrettante scelte concrete per il discepolo. «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (9,35). Gesù prende sul serio il desiderio del discepolo, essere il primo, cioè realizzarsi pienamente, poter emergere nella vita. Ma la risposta che Gesù offre è sconcertante: inverte quella strada che il discepolo credeva di poter percorrere per essere il più grande. Per Gesù essere il più grande non è porsi sull’altro, prevalere sull’altro, cercare tutto ciò che è primo; essere grandi è stare ai piedi dell’altro, essere per l’altro dono, consegnarsi all’altro perché esso possa vivere. In una parola, il discepolo deve capire che c’è una sola via che realizza pienamente il desiderio più vero di vita che abita in lui: è proprio quella via da cui il discepolo ha distolto lo sguardo, la via di Gesù, «il quale da ricco che era si fece povero… che non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso…» (cfr. 2Cor 8,9; Fil 2,6.7); la via dell’umiltà, la via del servizio, la via del dono.

    Ma c’è un passo ulteriore, un salto di qualità che Gesù fa compiere al discepolo. «E preso un bambino lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie… colui che mi ha mandato”» (9,36-37). Questo gesto di Gesù, pieno di compassione e di tenerezza, libera il discepolo da un’ultima tentazione. Essere all’ultimo posto, essere il servo di tutti, significa essere liberati dalla tentazione del potere. Ma il discepolo può ancora essere attratto dalla pretesa di essere sempre lui quello che deve fare o deve dare agli altri. Scoprire che al centro non c’è tanto il suo servizio all’altro, ma l’altro come persona, anzi il piccolo, l’ultimo come un dono da accogliere, significa essere veramente liberi e poveri. Chi veramente dona, chi si fa ultimo, chi si fa nostro servo è il Signore Gesù: è lui il piccolo che sta in mezzo a noi come servo, è lui che ci dona tutto rivelandoci il volto misericordioso del Padre. Di fronte al piccolo, qualunque esso sia, non possiamo fare altro che aprire le nostre mani per ricevere il dono della compassione del Padre, nel volto di Gesù.

  

L’immagine della domenica

SALINA CULCASI (TRAPANI)  –  2018

 

 

 

È QUEL CHE È

È ridicolo, dice l’orgoglio;

è avventato, dice la prudenza;

è impossibile, dice l’esperienza:

è quel che è, dice l’amore.

(Erich Fried)

 

Preghiere e racconti

 

In mitezza e umiltà

«Essi però non comprendevano quelle parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni» (Mc 9,32). Tale ignoranza da parte dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza della loro mente, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore. Questi uomini che vive-vano ancora secondo la carne ed erano ignari del mistero della croce, si rifiutavano di credere che colui che essi avevano riconosciuto quale Dio vero sarebbe morto ed essendo abituati a sentirlo parlare in parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, cercavano di attribuire un senso figurato anche a quello che diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione. «E giunsero a Cafarnao. Entrati in casa chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?”. Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande» (Mc 9,33-34). Sembra che la discussione tra i discepoli a proposito del primo posto fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che qui era stato affidato loro qualcosa di segreto. Ma già da prima erano convinti, come racconta Matteo (cfr. Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del Regno dei cieli, e che la chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome. Ne concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri o che Pietro era superiore a tutti. Il Signore, vedendo i pensieri dei discepoli, cerca di correggere il loro desiderio di gloria col freno dell’umiltà e fa loro intendere che non si deve cercare di essere primi; così, dapprima li esorta con il semplice comandamento dell’umiltà e, subito dopo, li ammaestra con l’esempio dell’innocenza del bambino. Dicendo infatti: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,37) […] li esorta, a motivo della loro malizia, a essere anche loro come bambini, cioè a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia e la devozione senza ira. Prendendo poi in braccio il bambino, indica che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili e che, quando avranno messo in pratica il suo comandamento: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), solo allora potranno gloriarsi.

(BEDA IL VENERABILE, Commento al vangelo di Marco, CCL 120.n. 551).

 

Soprattutto un viaggio di ricerca

“Io sono un navigatore e un viaggiatore, e ogni giorno scopro una nuova regione della mia anima” … Queste  semplici ma straordinariamente parole di Kahlil Gibran (Sabbia e onda) possono ben attagliarsi al tema di queste pagine, poiché pongono in rilievo un fatto fondamentale: l’uomo scopre nel mondo solo quello che ha già dentro di sé.

Il viaggio deve essere soprattutto uno strumento di approfondimento interiore, un mezzo per andare oltre le secche della quotidianità e far sì che l’anima respiri nuova aria, si alimenti con nuove energie spirituali. Viaggiare è conoscere, ma è anche conferma della conoscenza acquisita e anche un modo per essere nella storia, senza distorsioni, linearmente, forse partendo dalle origini.

(Massimo CENTINI, Il cammino di Santiago, Xenia, Milano, 2009, 10-11).

 

Collaboratori della gioia di tutti

Chiamato a servire, nell’impegno di ogni giorno, nella specificità dei servizi d’amore cui Dio lo chiama, il cristiano non deve mai perdersi d’animo, né cedere alla tentazione della disperazione e dello scetticismo. Il segreto che gli permette di mantenere intatta la sua capacità di leggere giorno dopo giorno i segni della salvezza di Dio, che è all’opera, sta nell’incontro fedele e perseverante con Cristo, sorgente di vera gioia.

Questa gioia dell’incontro col Signore accompagna la vita del cristiano: anche nella prova e nella persecuzione i discepoli restano “pieni di gioia e di Spirito Santo” (Atti 13,52). La gioia è un frutto dello Spirito, conseguenza del dimorare in Dio nella preghiera e nella celebrazione del suo amore per noi, sperimentato nella fede e nella speranza: “Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Tessalonicesi 5,16-18). La gioia si coniuga così alla carità, vissuta nel portare con Cristo il peso della sofferenza propria e altrui.

Servire è farsi collaboratori della gioia di tutti: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Corinzi 1,24).

(Bruno FORTE, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 71).

 

Rinascere dalle ceneri del tuo dolore

Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vivere la vita che volevi. La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale. Il vero successo, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato. Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti capita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione. Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore. Non sentirti sopraffatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza. Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande degli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino. Dentro di te c’è un essere capace di ogni cosa.  Guardati allo specchio. Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune. Se impari a conoscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.  Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti. Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisioni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua. Sei parte della forza della vita stessa. Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano. Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il servizio”.

(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).

 

L’insegnamento di Gesù: chi vuol essere primo sia servo di tutti

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Il Vangelo ci sorprende con parole inusuali, ci consegna tre nomi di Gesù che vanno controcorrente: ultimo, servitore, bambino, così lontani dall’idea di un Dio Onnipotente e Onnisciente quale l’abbiamo ereditata.

Il contesto. Gesù sta parlando di cose assolute, di vita e di morte, sta raccontando ai suoi migliori amici che tra poco sarà ucciso, è insieme con il gruppo dei più fidati, ed ecco che loro non lo ascoltano neppure, si disinteressano della tragedia che incombe sul loro maestro e amico, tutti presi soltanto dalla loro competizione, piccoli uomini in carriera: chi è il più grande tra noi? Penso alla ferita che deve essersi aperta il lui, alla delusione di Gesù. C’è di che scoraggiarsi. Tra noi, tra amici, un’indifferenza così sarebbe un’offesa imperdonabile. Invece il Maestro del cuore, ed è qualcosa che ci conforta nelle nostre fragilità, non rimprovera gli apostoli, non li ripudia, non li allontana, e tanto meno si deprime. Li mette invece sotto il giudizio di quel limpidissimo e stravolgente pensiero: chi vuol essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti.

Il primato, l’autorità secondo il Vangelo discende solo dal servizio. Prese un bambino, lo pose in mezzo, lo abbracciò e disse: chi accoglie uno di questi bambini accoglie me. È il modo magistrale di Gesù di gestire le relazioni: non si perde in critiche o giudizi, ma cerca un primo passo possibile, cerca gesti e parole che sappiano educare ancora. E inventa qualcosa di inedito: un abbraccio e un bambino. Tutto il vangelo in un abbraccio, un gesto che profuma d’amore e che apre un’intera rivelazione: Dio è così. Al centro della fede un abbraccio. Tenero, caloroso. Al punto da far dire ad un grande uomo spirituale: Dio è un bacio (Benedetto Calati). E papa Francesco, a più riprese: «Gesù è il racconto della tenerezza di Dio», un Dio che mette al centro della scena non se stesso e i suoi diritti, ma la carne dei piccoli, quelli che non ce la possono fare da soli. Poi Gesù va oltre, si identifica con loro: chi accoglie un bambino accoglie me. Accogliere, verbo che genera il mondo come Dio lo sogna.

Il nostro mondo avrà un futuro buono quando l’accoglienza, tema bruciante oggi su tutti i confini d’Europa, sarà il nome nuovo della civiltà; quando accogliere o respingere i disperati, che sia alle frontiere o alla porta di casa mia, sarà considerato accogliere o respingere Dio stesso. Quando il servizio sarà il nome nuovo della civiltà (il primo si faccia servo di tutti). Quando diremo a uno, a uno almeno dei piccoli e dei disperati: ti abbraccio, ti prendo dentro la mia vita. Allora, stringendolo a te, sentirai che stai stringendo fra le tue braccia il tuo Signore.

(Ermes Ronchi)

 

 

1. La creatura umana abituata a sostare nella propria interiorità diviene sempre più capace di dare il nome ai desideri profondi che la abitano, e tra questi la brama non sempre confessata del primeggiare, la corsa ai posti che danno potere, successo e notorietà. A questo ordine di pensieri offre frammenti decisivi di luce la pagina evangelica odierna, introdotta da un lato dal secondo annuncio di passione: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato», e dall’altro dalla costatazione che: «essi, i discepoli, non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni» (Mc 9,31-32). L’evangelista annota con cura la distanza che intercorre tra i pensieri di Gesù e quelli dei suoi pur percorrendo la stessa «via», termine in Marco metafora della sequela, del camminare con Gesù dietro a Gesù. Un fare strada insieme al momento contraddistinto da due visioni antitetiche della messianicità. Di fatto gli occhi e gli orecchi dei discepoli sono ciechi e sordi (Mc 4,12; 8,18.33) a capire Gesù, il consegnato dalle mani del Padre a un mondo amato per farne in lui un mondo nuovo, come il consegnato dalle mani dell’uomo a una morte ignominiosa. Un Gesù ridotto a «cosa» consegnato da Giuda ai sommi sacerdoti (Mc 14,10), da costoro a Pilato (Mc 15,1.10) e da quest’ultimo ai soldati (Mc 15,15). Per Pietro (Mc 8,32), per i figli di Zebedeo (Mc 10,35-40) e per i discepoli in genere lunga è la strada che porta a una lettura della messianicità in sintonia con le figure bibliche del Figlio dell’uomo (Dn 7,13), del Servo sofferente (Is 52,13-53,12) e del Giusto condannato a una morte infame (Sap 2,12-20). Una lettura che, come avvertono gli stessi discepoli, necessita di supplementi di spiegazione volutamente sottaciuti per timore di trovarsi di fronte a un messaggio troppo duro (Mc 9,32). Al momento essi restano abbarbicati alla loro visione e alle conseguenze che ne derivano: preso il potere da parte di Gesù chi siederà alla sua destra e alla sua sinistra? (Mc 10,37), chi saranno i primi ministri del suo regno?

2. E così mentre Gesù annunciava la sua passione i discepoli discutevano per via su: «Chi tra di loro fosse il più grande» (Mc 9,34), il primo, silenziosi dinanzi alla esplicita domanda di Gesù: «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?» (Mc 9,33). Il tacere di chi si vergogna di uscire allo scoperto esponendo apertamente la ragione di un conflitto presente tra i Dodici come nella comunità di Marco e in quelle di ogni luogo e tempo. Questione dinanzi alla quale è bene tacere dando spazio alla parola di Gesù, una parola pronunciata in «casa», metafora del rapporto intimo e amicale con Gesù. Ieri come oggi egli si siede dinanzi ai suoi e dice a tutti ciò che ha detto ai Dodici: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo e servo di tutti. E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,35-37). Passaggio di rara preziosità in cui Gesù dice ai suoi ciò che egli è e fa: è il Figlio venuto a servire e a dare la vita (Mc 10,45), è il Maestro e Signore venuto quale schiavo a lavare i piedi (Gv 13,13-15), è il primo di natura divina che ha spogliato se stesso assumendo la forma e la condizione umane dell’ultimo (Fil 2,6-7), è il ricco divenuto povero (2 Cor 8,9). Per Gesù essere il primo vuol dire essere il servo di tutti da una posizione povera di rilevanza mondana, servo che elegge a primi della sua cura gli ultimi qui rappresentati dai bambini, i poveri per eccellenza nel loro essere totale dipendenza. Questo è il primato da ricercare, di esso Gesù in croce è adempiuta esegesi, spiegazione.

 3. L’insegnamento è chiaro. A nessuno è richiesto di negare e di negarsi al desiderio di divenire il primo avvertiti del fatto che dietro questa affermazione, se rettamente intesa, si nasconde la legittima ambizione del divenire semplicemente se stessi, la propria verità. Ove ciò accade lì ciascuno è davvero una primizia unica e irripetibile, non secondo a nessuno e non gregario di nessuno. Una primizia, suggerisce Gesù, non posseduta dal demone della prepotenza che rende sudditi gli altri, che mette i piedi in testa agli altri e che toglie il respiro agli altri. Ma posseduta dallo spirito del servizio che soffia all’orecchio della mente la giusta posizione da assumere nella vita, l’ultima, e ancora gli amici primi da accogliere e da servire nella vita, gli ultimi, ai quali Cristo stesso si è identificato (Mc 9,37) elevandoli a rango di sacramento della sua presenza. Spirito di servizio che infine soffia alla nostra mente la lettura di sé come luoghi attraverso cui Cristo continua ad essere l’abbraccio di Dio ai poveri della terra: «Sapendo queste cose, sarete beati, se le metterete in pratica» (Gv 13,17). A questa grandezza chiama Colui che fa cose meravigliose nei suoi umili servi (Lc 1,49).

(Giancarlo Bruni)

 

Preghiera per il servizio

Signore,

mettici al servizio dei nostri fratelli

che vivono e muoiono nella povertà

e nella fame di tutto il mondo.

Affidali a noi oggi;

dà loro il pane quotidiano

insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.

Signore,

fa di me uno strumento della tua pace,

affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio,

lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia,

l’armonia dove c’è la discordia,

la verità dove c’è l’errore,

la fede dove c’è il dubbio,

la speranza dove c’è la disperazione,

la luce dove ci sono ombre,

e la gioia dove c’è la tristezza.

Signore,

fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata,

di capire, e non di essere capita,

e di amare e non di essere amata,

perché dimenticando se stessi ci si ritrova,

perdonando si viene perdonati

e morendo ci si risveglia alla vita eterna.

(Madre Teresa di Calcutta)

 

Rendici umili servi di tutti!

Signore Gesù, come Giacomo e Giovanni anche noi spesso «vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiediamo». Non siamo infatti migliori dei due discepoli. Come loro abbiamo però ascoltato il tuo insegnamento e vorremmo ricevere da te la forza per attuarlo; quella forza che ha poi condotto i figli di Zebedeo a testimoniarti con la vita.

Gesù, aiutaci a comprendere l’amore che ti ha spinto a bere il calice della sofferenza al nostro posto, a immergerti nei flutti del dolore e della morte per strappare dalla morte eterna noi, peccatori. Aiutaci a contemplare nel tuo estremo abbassamento l’umiltà di Dio. Liberaci dalla stolta presunzione di asservire gli altri a noi stessi e infondici nel cuore la carità vera, che ci farà lieti di servire ogni fratello con il dono della nostra vita

Mite Servo sofferente, che con il tuo sacrificio di espiazione sei divenuto il vero sommo sacerdote misericordioso, tu ben conosci le infermità del nostro spirito e le pesanti catene dei nostri peccati: tu che per noi hai versato il tuo sangue, purificaci da ogni colpa. Tu che ora siedi alla destra del Padre, rendici umili servi di tutti!

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Spano

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXV DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:Isaia 50,5-9a

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?

 

 

v I «Carmi del servo di JHWH» riflettono l’esperienza dell’esilio, di cui sembrano raccogliere la lezione: il valore redentivo della prova, delle afflizioni, del dolore.

     Già qualche profeta (per es. Geremia) aveva svolto una missione contrassegnata da sofferenze e persecuzioni, ora l’intera nazione, dispersa e disorientata, sta sopportando prove e disagi di ogni genere. Invece di ribellarsi o di reagire insensatamente contro Dio, era più saggio prendere dal Signore il «castigo» e prepararsi a ricevere, se a lui piace, il perdono e la riabilitazione.

     Il «Servo di JHWH» non è un individuo né una pura idealizzazione. È il simbolo dell’Israele migliore, di quelli che erano in grado innanzitutto di mettersi in ascolto di quanto era in procinto di dire Iddio al suo popolo. Non è facile dialogare con lui nella disgrazia. Nella circostanza si è portati a chiudersi in se stessi o a imprecare, ma il Servo reagisce e ascolta ciò che gli dice il Signore.

     Forse quando l’autore compone i «Carmi» l’esilio era anche passato, ma la situazione è quella precedente; gli uomini sono ancora sotto l’abbattimento, la stanchezza morale e fisica. La sfiducia può prendere anche il profeta, chiamato a rincuorare i fratelli, ma pensa il Signore a tenerlo sveglio.

     Il servo è un personaggio e più ancora una personificazione. In lui tutta la nazione rievoca le sofferenze e le umiliazioni subite nella deportazione e che continuano nella restaurazione poiché sono ancora sotto un dominatore. I colpi dei flagelli, lo strappo della barba sono i segni del dileggio morale e fisico a cui gli uomini sono sottoposti. Ma Israele nella sua afflizione ha un consolatore a cui fare affidamento: è JHWH. Il suo Dio è l’unico Signore, viene ripetuto nello Shema. Egli è ora a suo fianco anche in questo estremo frangente e lo aiuterà.

     Le prove possono fiaccare, ma sapute accettare dalla mano del Signore, irrobustiscono la fede, rendono più saldo il rapporto con Dio. Se JHWH è vicino, dalla parte delle vittime c’è sempre una speranza che la nazione possa sopravvivere. «Chi di voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo» (v. 10). È il senso di tutto il carme.

 

Seconda lettura: Giacomo 2,14-18

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».

 

 

v L’identità del credente è segnata non tanto dalle parole, ma dalle buone azioni che gli vengono suggerite dalla sua fede in Cristo. Non basta ripetere ciò che Gesù ha detto e aderirvi interiormente per essere salvi, ma occorre far propria la sua esperienza.

     Non si può dire che sia un comportamento cristiano il discriminare negli incontri comunitari un fratello dall’altro, privilegiare il ricco e umiliare il povero. «Avvilire l’indigente» non è agire come Dio agisce, né come Gesù ha esortato a fare. Il credere non serve a nulla se non è suffragato dalle opere che la fede propone. Sarebbe come il dire a degli ignudi e a degli affamati «riscaldatevi e  saziatevi» senza dargli né una veste, né un pane.

     La dottrina su Dio sarà sempre utile a instaurare rettamente i propri comportamenti quotidiani, ma se questi non vengono influenzati, modificati, riordinati dalla fede, non vengono conformati alla proposta di Dio (comandamenti) e alla testimonianza di Cristo, in altre parole, se non hanno nessuna risonanza pratica nella vita, servono ad aumentare la responsabilità e la condanna del credente.

     Se la fede non rifluisce nei comportamenti, non agisce nella vita, è «morta» (v. 17). È come non averla.

     Il v. 18 è misterioso. Sembra farsi avanti un interlocutore fittizio che contesta la tesi dell’inutilità della fede senza le opere (2,14). Certo la fede può precedere le opere e trovarsi anche senza di esse, ma alla fine rimane sempre vero che sono le opere a darle conferma. Talmente che se uno ha solo la fede senza le opere, la sua realtà può rimanere sempre insicura, mentre in chi compie la volontà di Dio, cerca di ripercorrere la testimonianza di Cristo anche se non ha fede esplicita, cioè non sa esattamente e senza colpa chi egli è, è egualmente un implicito credente. Le opere danno un’identità sicura, le parole da sole danno un’identità sempre dubbia.

 

Vangelo: Marco 8,27-35

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».

 

 

Esegesi

     Il brano di Mc 8,27-35 segna una svolta radicale nel vangelo di Marco. Chiude il ministero galilaico accompagnato da una solenne autorevole manifestazione di Gesù, che non è consentito capire e della quale non è neppure lecito parlare. Gesù preferisce passare in silenzio se non proprio in incognito. Fa tutti i suoi pronunciamenti, compie grandi prodigi che suscitano entusiasmo nella folla: 1,27 («che è questo?») 4,12 («Non abbiamo mai visto nulla di simile»), 4,47 («Chi è dunque costui?») 7,37 («Stupivano») e nello stesso tempo reazioni negative presso gli scribi e farisei: 2,7 («Perché costui fa queste cose? Bestemmia»), 3,36 («Ha uno spirito immondo»), 3,6 («tengono consiglio per farlo perire»). L’agire di Gesù sorprende anche le autorità che parlano per bocca di Erode Antipa, il tetrarca della Gallica (6,14).

     Gesù non solo non scopre il suo «segreto» ma proibisce a coloro che possono averlo intuito di parlarne. Tali sono gli ordini impartiti ai demoni (1,34; 3,12) e ai miracolati (1,44; 5,19; 5,43; 6.45; 7.36). L’evangelista afferma che a «quelli che erano attorno a lui», spiegava «in disparte» ogni cosa (4,38), ma il mistero rimaneva nascosto anche a loro.

     La tensione che domina la prima parte del vangelo di Marco si chiude con l’interrogatorio di Cesarea di Filippo, fuori della Galilea. Infatti dopo la guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26) la comitiva si incammina verso «i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo», la capitale della Traconitide a due giorni di viaggio dal Lago di Tiberiade. È una meta reale e simbolica. L’evangelista vuole sottolineare che la prima manifestazione di Gesù avviene in terra pagana.

     La tradizione evangelica ricorda una confessione messianica di Pietro. Giovanni la colloca dopo il discorso sul pane della vita (6,68-69), i sinottici a Cesarea di Filippo. La ricostruzione della scena è più didattica che storica; deve appurare chi è Gesù. Ed è lui che ha proposto e quindi voluto questa «rivelazione». In genere i maestri sono interpellati dagli alunni; qui è Gesù che pone non le domande, ma la domanda che serpeggia in tutto il vangelo. E proprio per non introdurre exabrupto nella questione comincia da un’interrogazione sull’opinione della folla che serve solo a richiamare l’attenzione sulla vera risposta che viene dai discepoli («Ma voi, chi dite»).

     Alla luce del linguaggio veterotestamentario, cioè delle profezie messianiche dell’Antico Testamento, Gesù non poteva essere che una figura profetica, del tipo di Giovanni Battista o di Elia del quale si attendeva per di più il «ritorno» all’aprirsi dell’era escatologica (cf. Mal 3,23-24; Mt 11,14). Ma in tutti i modi le categorie dell’A.T. non sono idonee per spiegare chi è Gesù. Occorre una risposta che venga dall’esperienza di coloro che lo hanno conosciuto, che sono stati a suo fianco, alla sua scuola. Ed essi hanno capito che il loro maestro è più che un profeta, «è il Cristo». L’espressione «il Cristo», quando l’evangelista scrive, è la stessa che la Chiesa adopera per designare Gesù di Nazaret che è pur sempre un «grande profeta» (cf. Lc 7,16), ma anche il «messo» di Dio per eccellenza, il messia. In altre parole è il personaggio promesso per la fine dei tempi; allo scopo di imprimere alla storia della salvezza l’orientazione voluta dal creatore. Egli è colui che avrebbe ristabilito tutte le cose. Quindi era il fiduciario e il plenipotenziario di Dio; il salvatore, il «redentore», verrà aggiunto più tardi nella predicazione cristiana.

     Se l’espressione si limitasse alle intenzioni di Pietro forse il significato sarebbe stato più ristretto e supererebbe di poco l’espressione «figlio di David» (10,47-48) o «restauratore del regno davidico» (11,18), ma l’evangelista ripete più la fede della Chiesa che quella del primo apostolo. Essa sarà ribadita poco dopo nella «confessione» di Gesù davanti al Sinedrio (14,61).

     Ormai i discepoli conoscono colui a cui hanno dato la parola, di cui si sono messi al seguito, ma Gesù ha altre cose da aggiungere alla confessione dell’apostolo per questo è costretto a chiedere ancora di «non parlare» su tale dichiarazione (v. 30). E la «parola» nuova, inattesa da dire è quasi più importante della prima perché ne costituisce il presupposto (v. 32).

     Se pertanto la «confessione» chiude la prima parte del vangelo, la dichiarazione di Gesù apre la seconda, quella riguardante la «croce» e il «cammino» che porta verso di essa, in concreto verso Gerusalemme, il Golgota, e del «cammino» che si impone a quanti sono al seguito di colui che, pur essendo «il Cristo», è finito sul patibolo.

     I versetti 8,27.30 sono veramente al centro di tutto il vangelo. Gesù adesso non ha più veli nel parlare, non è sfuggente, né misterioso. Annunzia «apertamente» (parresiai) «la parola» (ton logon). Il testo è chiamato abitualmente la prima profezia della passione e della risurrezione, ma nell’attuale versione si è verificata una contaminazione tra i racconti del tragico avvenimento e la dichiarazione di Gesù al riguardo. Alcuni particolari sono passati da un quadro all’altro senza creare confusione, ma dando alla profezia più il colore di una narrazione che di un oracolo.

     L’essenziale dell’avvertimento di Gesù è che il Cristo, ma è chiamato più vagamente «il figlio dell’uomo», una designazione che richiama Dn 7,14, deve «molto patire» ed «essere rigettato». In altre parole, il messia non sarà accolto dal suo popolo, fino a condannarlo a morte, ma la morte non sarà la sua fine bensì l’inizio della sua vittoria (risurrezione). «Dopo tre giorni» è un’espressione ebraica per dire «dopo breve tempo», dopo «un corto intervallo».

     Il comportamento di Pietro, i «rimproveri» che fa a Gesù, sono verosimilmente storici, ma sono anche emblematici, esprimono non tanto il pensiero dell’apostolo, ma di ogni benpensante, di qualsiasi uomo che stenta sempre a capire come l’affermazione del bene, della verità abbia condizionamenti così irrazionali a cui non c’è alternativa. Si può accettare o rifiutare, non cambiare.

     La terza parte della pericope, vv. 34-35, è un’esplicitazione della seconda. Il vangelo (logos) della croce non riguarda solo Gesù, ma tutti i suoi discepoli, indistintamente. A tal proposito è convocata, non si sa da dove, anche «la folla» (ochlos). Se il programma del cristiano è quello di «seguire Gesù» (opiso mou elthein; akolouthein) si tratta di un cammino che non può arrestarsi a metà strada. Non può escludere la «croce» come non ha potuto escluderla Gesù. Per arrivare a ciò bisogna cominciare dalla dimenticanza di se stessi, dalla abnegazione. Occorre la forza d’animo, il coraggio di non prendere troppo in considerazione i propri interessi, i propri beni, la stessa vita. «Rinnegare» significa anche riconoscere i propri limiti. E non si tratta di farne un’offerta a Dio, ma ai propri simili ai quali si è in grado di accordare una più larga, generosa collaborazione.

     La «croce» che si è esortati a prendere fa prevedere che il prezzo della sequela di Cristo può equivalere alla perdita della vita, ma può non arrivare a questi estremi. Se la croce è il simbolo di qualsiasi sofferenza può designare ogni rinunzia che si impone al credente per tener fede ai suoi impegni.

     La massima conclusiva ribadisce (v. 35) in termini parenetici il messaggio di tutto il discorso tenuto da Gesù ai suoi. Il seguire Cristo non è un consiglio qualsiasi che può lasciare indifferenti l’ascoltatore. La «vita» (psyche) di cui parla Gesù non è né la semplice vita spirituale (anima), né la sola vita fisica (corporea). È l’una e l’altra insieme, cioè l’intera esistenza che comincia nel tempo e si protrae nell’eternità. Non solo non è indifferente il credere e il non credere, ma da esso dipende la felicità nel tempo e oltre il tempo. 

 

L’immagine della domenica   

 

 

Bramo la tua voce, o Dio

Mi rassicuri la tua mano nella notte,

la voglio riempire di carezze,

tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore

segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(Rabindranath Tagore)

 

Meditazione

    La pagina evangelica di questa domenica occupa un posto cruciale nel racconto di Marco. La professione di fede di Pietro, con il successivo «primo annunzio della passione», è infatti collocata al centro del libro e segna una svolta decisiva nel ministero di Gesù. D’ora innanzi il suo cammino prenderà una nuova ‘piega’, una nuova direzione, dirigendosi decisamente verso il luogo del compimento del suo pellegrinaggio terreno. Da Cesarea di Filippo (all’estremo nord del territorio palestinese) Gesù inizia il suo ultimo viaggio verso Gerusalemme, in una marcia di avvicinamento che proseguirà a ritmo incalzante, senza ripensamenti e senza incertezze, fino allo scontro definitivo con i suoi avversari (la prima lettura ci presenta, in parallelo, la misteriosa figura del «servo del Signore» che con coraggio e determinazione va per la sua strada, noncurante delle minacce e dell’opposizione violenta, ma confidando solo nell’assistenza di Dio).

    «E per strada interrogava i suoi discepoli» (v. 27). Il Gesù di Marco è uno che interroga spesso, che fa sempre molte domande. I discepoli sono continuamente sollecitati a riflettere sul senso della loro esistenza, sulle ragioni della loro sequela e, soprattutto, sul mistero della persona che hanno davanti. «Ma voi, chi dite che io sia?» (v. 29a). È questa la domanda che, più di ogni altra, interessa a Gesù. La gente può dire tante cose, anche giuste e pertinenti, ma l’identità di Gesù non la si può ‘afferrare’ da lontano: solo una frequentazione assidua e quotidiana, solo una prossimità vitale può mettere nelle condizioni di accedere a una conoscenza non superficiale di lui. Si percepisce bene qui tutta l’attesa di Gesù per la risposta dei suoi discepoli. Ed ecco irrompere sulla scena Pietro che, facendosi il portavoce del gruppo, dà la sua bella risposta, chiara e sintetica: «Tu sei il Cristo» (v. 29b). È la prima volta che Pietro prende personalmente la parola nel vangelo di Marco e possiamo dire che lo fa in modo più che appropriato (non sappiamo come sia arrivato a formulare questa stupenda professione di fede; forse l’esperienza dello ‘stare con Gesù’ per lungo tempo avrà sortito qualche buon effetto…). Dal canto suo, Gesù non commenta la risposta di Pietro, anche se, in qualche modo, sembra approvarla. Gli preme solo che, per il momento, essa non venga divulgata: «E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno» (v. 30).

    Gesù comincia allora a impartire il suo insegnamento, un insegnamento di capitale importanza poiché, per la prima volta, verte sulla sua sorte di passione e risurrezione. Egli è sì «il Cristo», ma i tratti che lo contraddistinguono sono alquanto inattesi e, comunque, assai diversi da quelli immaginati dai suoi discepoli. In una progressione impressionante, quattro verbi scandiscono il destino di sofferenza e di gloria che attende il «Figlio dell’uomo»: soffrire molto, essere rifiutato, venire ucciso, risorgere (v. 31). Nel momento stesso in cui i discepoli credono finalmente di aver compreso qualcosa intorno al loro singolare Maestro, ecco che si vedono ‘scaricare’ addosso parole scioccanti e incomprensibili: un Messia che deve passare per la sofferenza e la morte (senza dimenticare l’aspetto del rifiuto, della «riprovazione», non meno scandaloso). È questa necessità che i discepoli proprio non riescono a ‘digerire’: perché «deve»? Non potrebbe passare per un’altra via il destino del ‘loro’ Messia? Ed è proprio attorno a questo punto fatidico che esplode fortissimo il contrasto tra Gesù e i suoi. Ancora una volta è Pietro a farsi avanti, reagendo in modo deciso e disapprovando senza mezzi termini le parole di Gesù (addirittura si mette «a rimproverarlo»). Ma Gesù, con altrettanta energia, «rimprovera» Pietro bollando il suo atteggiamento come ‘satanico’ (v. 33). In nessun altro passo del vangelo è riportato un dissenso e uno scontro così violento tra i due! Pietro sembra trovarsi sotto l’influsso di uno ‘spirito cattivo’, tanto che Gesù si comporta con lui come un indemoniato (il verbo qui usato per indicare il «rimprovero» di Gesù, epitimá, è lo stesso generalmente adoperato per le scene di espulsione degli spiriti impuri: cfr. 1,25; 3,12; 9,25). Colui che aveva appena chiamato Gesù «il Cristo», si vede ora apostrofare con un titolo terribile e durissimo: «Satana»! Chi non pensa «secondo Dio», chi non riesce a sentire e a vedere le ‘cose’ di Dio lasciandosi guidare soltanto dai suoi istinti carnali, dai suoi desideri puramente umani, da tutto ciò, appunto, che è «secondo gli uomini», non può far altro che il gioco di Satana, il gioco dell’avversario di Dio per antonomasia. Invece di seguire Gesù, di lasciarsi condurre da lui sulla via di Dio, Pietro si mette davanti, ostacolando il cammino di Gesù e frapponendosi tra lui e il Padre suo (proprio come cercava di fare il Tentatore nel deserto!). Ma subito Gesù, in tono perentorio, ricolloca Pietro al posto che gli spetta: «Va’ dietro a me!». Così Pietro è di nuovo invitato a obbedire a quella voce udita al tempo della sua prima chiamata lungo il mare di Galilea quando, insieme a suo fratello Andrea, si sentì dire: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (1,17). Il posto del discepolo è sempre «dietro» – come rimarca ancora una volta Gesù nei due detti conclusivi (vv. 34-35) -; ma non solo: se non si osservano alcune condizioni basilari non si può, neanche lontanamente, cercare di seguire Gesù, di conoscerlo, di aderire a lui. Si tratta di imparare a dire di «no» a se stessi per dire di «sì» a un altro; si tratta di entrare nella logica paradossale del vangelo che implica il percorrere la via della croce, la stessa seguita da Gesù; si tratta, in ultima istanza, di spossessarsi persino della propria vita per riceverla nuova e ‘salvata’ dalle mani di Dio.

 

Preghiere e racconti

 

La rinuncia a se stessi

Quando una situazione umana ci chiede una totale rinuncia a noi stessi, istintivamente cerchiamo il compromesso o semplicemente imbocchiamo la strada della fuga, ci accomuniamo agli apostoli, che anch’essi sono fuggiti di fronte al realismo della Passione di Gesù. A tanti livelli e su tanti piani dobbiamo cercare di smascherare le forme di fuga che caratterizzano il nostro preteso “servizio agli altri”. Quante volte a livello della famiglia, ci lasciamo andare alla ricerca soltanto della gratificazione dell’affermazione di noi stessi e non accettiamo le persone che ci sono vicine così come sono nella loro realtà, le vorremmo sempre diverse e ci arrovelliamo? Quante volte nell’ambito professionale ci lasciamo trascinare solo dall’interesse e non cerchiamo di rendere un servizio fino in fondo, servizio che ci chiede di uscire da noi stessi di prendere parte in qualche modo alla croce e di partecipare alla sua forza rivelatrice? Quante volte di fronte alle richieste che i nostri fratelli avanzano, noi manifestiamo disagio, stizza, rifiuto: tante realtà semplici della nostra vita quotidiana in cui Gesù dalla croce ci chiede di operare una profonda conversione, di metterci davvero in ginocchio davanti alla croce per coglierne il realismo e la fedeltà che cambiano la vita..

Innanzitutto, si rimane colpiti dal fatto che, nel Vangelo di Marco, la descrizione dei miracoli compiuti da Cristo sfuma, fino a scomparire del tutto, quanto più ci si avvicina alla Croce: è qui, dove Gesù non salva se stesso, che anche i miracoli muoiono. Se i miracoli sono i segni tangibili della potenza di Dio, la Croce ci dice in modo chiaro che questa potenza si manifesta soprattutto nell’amore e nel dono che Cristo fa di sé. Per Marco, il vero discepolo è colui che sa riconoscere il Figlio di Dio inchiodato sulla croce per la nostra salvezza (15,39).

«La croce è diventata la suprema cattedra per la rivelazione della sua nascosta e imprevedibile identità; il volto dell’amore che si dona e che salva l’uomo condividendone in tutto la condizione, escluso il peccato (Ebrei 4,15). La Chiesa non lo dovrà mai dimenticare: sarà questa la sua strada a servizio dell’amore e della rivelazione di Dio agli uomini».

(CVMC 14).

 

Porta ogni giorno la croce del Signore

Se anche tu fossi

così sottile e sapiente

da possedere ogni scienza

e interpretare ogni lingua

e scrutare i segreti del cielo,

di tutto ciò non potresti gloriarti,

perché un dèmone, da solo,

seppe delle cose celesti,

e ora sa delle terrene,

più di tutti gli uomini.

E se anche tu fossi il più bello

e il più ricco tra tutti gli uomini

e facessi cose mirabili,

come mettere in fuga i dèmoni,

tutto ciò non ti appartiene,

e non puoi affatto gloriartene.

Solo delle nostre infermità,

di questo solo possiamo gloriarci,

portando ogni giorno

la santa croce del nostro Signore Gesù Cristo.

(San Francesco D’Assisi)

 

Quale atteggiamento davanti alla sofferenza e alla morte?

La croce non è solo un bell’oggetto artistico per decorare i salotti e i ristoranti di Friburgo, ma è anche il segno della trasformazione più radicale nel nostro modo di pensare, sentire e vivere. La morte di Gesù in croce ha cambiato tutto. Qual è la reazione umana più spontanea davanti alla sofferenza e alla morte?

Per conto mio, sarei portato istintivamente a impedire, evitare, negare, fuggire, star lontano e ignorare il soffrire e il morire. È una reazione che indica che queste due realtà non si accordano col nostro programma di vita. Per la maggior parte della gente, sono proprio questi i due nemici principali della vita. Ci sembra davvero ingiusto che esistano, e ci sentiamo obbligati a cercare in un modo o nell’altro di tenerli sotto controllo come meglio possiamo; se poi non ci riusciamo subito, vuol dire che ci sforzeremo di fare meglio un’altra volta.

Ci sono dei malati che capiscono ben poco la loro malattia, e spesso muoiono senza mai aver pensato sul serio alla morte. L’anno scorso un mio amico morì di cancro. Sei mesi prima di morire era già evidente che non gli restava molto da vivere. Gli facevano tante iniezioni, fleboclisi e cose del genere che si aveva l’impressione che lo si volesse tenere in vita a ogni costo. Non voglio dire che si facesse male a cercare di guarirlo: voglio dire piuttosto che s’impiegava tanto tempo a tenerlo in vita che non ne restava più per prepararlo alla morte.

Il risultato logico di questa situazione è che ci curiamo ben poco dei defunti. Non facciamo molto per ricordarli, cioè per associarli alla nostra vita interiore.

Ben diverso era l’atteggiamento di Gesù verso la sofferenza e la morte. Egli infatti guardava queste realtà bene in faccia e a occhi aperti. Anzi, la sua vita intera fu una consapevole preparazione alla morte. Gesù non esalta la sofferenza e la morte come cose che dobbiamo desiderare, ma ne parla come di cose che non dobbiamo rigettare, evitare o ignorare.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 26-29).

 

La domanda che ci interroga nel profondo: voi chi dite che io sia?

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.

E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (…).

Gesù interroga i suoi, quasi in un sondaggio d’opinione: La gente chi dice che io sia? E l’opinione della gente è bella e incompleta: Dicono che sei un profeta, uno dei più grandi! Ma Gesù non è semplicemente un profeta del passato che ritorna, fosse pure il più grande di tutti. Bisogna cercare ancora: Ma voi, chi dite che io sia?

Non chiede una definizione astratta, ma il coinvolgimento personale di ciascuno: “ma voi…”. Come dicesse: non voglio cose per sentito dire, ma una esperienza di vita: che cosa ti è successo, quando mi hai incontrato? E qui ognuno è chiamato a dare la sua risposta. Ognuno dovrebbe chiudere tutti i libri e i catechismi, e aprire la vita.

Gesù insegnava con le domande, con esse educava alla fede, fin dalle sue prime parole: che cosa cercate? (Gv 1,38). Le domande, parole così umane, che aprono sentieri e non chiudono in recinti, parole di bambini, forse le nostre prime parole, sono la bocca assetata e affamata attraverso cui le nostre vite esprimono desideri, respirano, mangiano, baciano.

Ma voi chi dite che io sia? Gesù stimolava la mente delle persone per spingerle a camminare dentro di sé e a trasformare la loro vita. Era un maestro dell’esistenza, e voleva che i suoi fossero pensatori e poeti della vita. Pietro risponde: Tu sei il Cristo. E qui c’è il punto di svolta del racconto: ordinò loro di non parlare di lui ad alcuno. Perché ancora non hanno visto la cosa decisiva. Infatti: cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.

Volete sapere davvero qualcosa di me e di voi? Vi do un appuntamento: un uomo in croce. Prima ancora, l’appuntamento di Cristo sarà un altro: uno che si china a lavare i piedi ai suoi. Chi è il Cristo? Il mio “lavapiedi”. In ginocchio davanti a me. Le sue mani sui miei piedi. Davvero, come a Pietro, ci viene da dire: ma un messia non può fare così.

E Lui: sono come lo schiavo che ti aspetta, e al tuo ritorno ti lava i piedi. Ha ragione Paolo: il cristianesimo è scandalo e follia. Adesso capiamo chi è Gesù: è bacio a chi lo tradisce; non spezza nessuno, spezza se stesso; non versa il sangue di nessuno, versa il proprio sangue. E poi l’appuntamento di Pasqua. Quando ci cattura tutti dentro il suo risorgere, trascinandoci in alto.

Tu, cosa dici di me? Faccio anch’io la mia professione di fede, con le parole più belle che ho: tu sei stato l’affare migliore della mia vita. Sei per me quello che la primavera è per i fiori, quello che il vento è per l’aquilone. Sei venuto e hai fatto risplendere la vita. Impossibile amarti e non tentare di assomigliarti, in te mutato / come seme in fiore. (G. Centore).

(Ermes Ronchi)

 

 “E voi, ciascuno di voi, chi dite che io sia?”

È facilissimo dare a Gesù un’identità secondo i nostri desideri ed è anche facile giungere a dire chi lui è, ma è molto più difficile accettare che sia lui a spiegare e a dire la propria identità. Il brano evangelico di questa domenica vuole proprio interrogarci sulla nostra fede-adesione conoscitiva a Gesù. Ascoltiamolo dunque.

Gesù nel suo ministero, con la sua parola autorevole, con il suo comportamento e con le azioni di liberazione dal male che compiva, destava domande sulla sua identità: “Che è mai questo?” (Mc 1,27); “Chi è mai costui?” (Mc 4,41); “Da dove gli vengono queste cose? E che tipo di sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria?” (Mc 6,2-3).

Vi erano giudizi su di lui: veniva definito bestemmiatore (cf. Mc 2,7), “pazzo, fuori di sé” (Mc 3,21), posseduto dal demonio (cf. Mc 3,22). Vi erano, infine, anche urla di demoni che, scacciati da Gesù, gli gridavano: “Tu sei il Santo di Dio” (Mc 1,24), “il Figlio del Dio Altissimo” (Mc 5,7).

Sono dunque i demoni che sanno esprimere la vera identità di Gesù, con la loro conoscenza sovrumana, mentre gli uomini non sanno o sanno poco. Al massimo arrivano a pensare che sia un profeta mandato da Dio (cf. Mc 6,15), perché compie i segni di Elia e di Eliseo, perché parla come gli antichi profeti, con la loro franchezza e autorevolezza, dovuta al fatto che dice quello che pensa e che vive, senza ipocrisie e senza vantare autorità acquisite per qualità sacerdotale o professionale.

Queste si acquisivano per appartenenza a una discendenza o per aver frequentato una scuola rabbinica, come quelle di Gerusalemme o di Tiberiade. Ma Gesù non può vantare nulla di tutto ciò: dunque, chi è in verità?

Egli approfitta di un viaggio insieme alla sua comunità fuori della terra santa, in una regione sirofenicia e pagana, alle pendici dell’Hermon, presso le sorgenti del Giordano, per chiedere ai discepoli la loro opinione su di lui. È Gesù stesso a interrogarli, nei dintorni di Cesarea di Filippo (la città che porta il nome di Cesare, il potente dominatore di questo mondo!), innanzitutto chiedendo che cosa la gente dice di lui.

Essi lo sanno, perché quanti non osavano avvicinare Gesù potevano parlare con loro, manifestando opinioni sul loro rabbi. I discepoli, in risposta, riferiscono a Gesù l’opinione più diffusa: la gente pensa che egli sia un uomo autorevole, un profeta, così simile al Battista suo maestro ucciso da Erode (cf. Mc 6,17-29), al punto da pensare che quest’ultimo fosse risuscitato dai morti (cr. Mc 6,16); oppure lo paragonano a Elia, il profeta degli ultimi tempi. In ogni caso, è percepito come un profeta.

Gesù però non si ferma a questa prima domanda, e pone loro quella seria e decisiva: “E voi, ciascuno di voi, chi dite che io sia?”. Questa domanda esige che i discepoli si chiedano se anche loro seguono l’opinione comune, ciò che quasi tutti pensano, oppure se hanno un proprio pensiero. Certamente tra i discepoli gli stessi Dodici non la pensavano tutti allo stesso modo.

Per Marco è però importante la dichiarazione di Pietro, colui che tra i Dodici teneva il primo posto. È lui – e non a nome di tutti, o come portavoce, ma personalmente – a proclamare: “Tu sei il Cristo, il Messia!”. Pietro dice che Gesù è più di un profeta, è l’inviato di Dio, unto dal Signore per stabilire il regno di Dio. Quella di Pietro è una vera confessione di fede, nella sua espressione teologica, perché Gesù è veramente il Cristo, il Messia (come appare fin dal primo versetto del vangelo secondo Marco), e questo sarà il suo titolo più importante per i giudei, per Israele.

E tuttavia l’evangelista non mette in bocca a Gesù parole che confermino tale confessione, che dicano un “amen” un “sì” a Pietro (come invece in Mt 16,17-19). Nel vangelo più antico questa confessione è accolta da Gesù nel silenzio e con l’imposizione del silenzio, perché era vera, ma poteva essere insufficiente, dunque doveva essere messa alla prova.

Ed è ciò che puntualmente avviene subito dopo. Non appena Pietro ha confessato la sua fede di giudeo credente, in attesa del compimento della promessa di Dio, ecco che Gesù può iniziare un insegnamento nuovo rispetto a quello della tradizione. Per questo “incominciò” (érxato) a dire che egli, Messia sì, ma – come amava definirsi – Figlio dell’uomo, “doveva soffrire molte cose, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”.

Ecco l’insegnamento nuovo e scandaloso, ma fatto apertamente da Gesù. E allora Pietro che, insieme agli altri Undici, stava dietro a lui (opíso autoû), secondo l’usanza dei discepoli nei confronti del loro rabbi, accelera il passo, gli si pone davanti, lo precede e lo rimprovera. Per Pietro è impossibile un Messia che non trionfi, che non sia vittorioso sui nemici, un Messia rigettato dalle autorità legittime della comunità dei credenti di Israele, un Messia che subisca una morte violenta. E poi, cosa significa questo rialzarsi il terzo giorno?

Gesù allora può solo rispondergli: “Passa dietro a me (opíso mou), alla mia sequela, al tuo posto di discepolo”, e lo definisce “Satana”, cioè oppositore, avversario: a Pietro viene dato il nome del demonio! È facile dire a Gesù che egli è il Cristo, il Messia, ma è impossibile accettare un “Messia al contrario”, un Messia sofferente sconfitto; si tratta davvero di un insegnamento nuovo, e Pietro non è pronto ad accoglierlo…

Mosè era morto “sulla bocca di Dio” (Dt 34,5), Elia era stato da Dio assunto in cielo (cf. 2Re 2,1-18), e invece proprio il Messia deve subire violenza, condanna, rifiuto? Non può essere, pensa Pietro… E invece è così – dice Gesù – e in effetti così è stato.

Un abisso separa il piano, la volontà di Dio dai pensieri degli umani (cf. Is 55,8-9), anche dai nostri, dai miei! In verità è tanto facile acclamare Gesù come Cristo, cantarlo e invocarlo; ma accettarne la fine ignominiosa, il fallimento della missione, è scandalo, inciampo, è quasi impossibile per le nostre attese religiose.

E poi, al pensiero che dietro a un tale Messia, maestro e profeta si è coinvolti nella sua vicenda, allora siamo presi da paura e preferiamo non credere, non conoscere la vera identità di Gesù. E così siamo cristiani non del Vangelo, ma del campanile; cristiani culturalmente, non perché seguiamo Gesù; cristiani pii e devoti, ma lontani dall’ombra della croce.

(Enzo Bianchi)

 

Rinnega se stesso chi ama se stesso

Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […]

«Rinneghi se stesso».

In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.

Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).

 

La segnaletica del Calvario

Sulle grandi arterie, oltre alle frecce giganti collocate agl’incroci, ce ne sono altre, più piccole, che indicano snodi secondari. Ora, per noi che corriamo distratti sulle corsie preferenziali di un cristianesimo troppo accomodante e troppo poco coerente, quali sono le frecce stradali che invitano a imboccare l’unica carreggiata credibile, quella che conduce sulla vetta del Golgota? Ve ne indico tre.

La freccia dell’accoglienza. E una deviazione difficile, ma che porta diritto al cuore del Crocifisso. Accogliere il fratello come un dono, con tutti i suoi bagagli, compreso il bagaglio più difficile da far passare alla dogana del nostro egoismo: la sua carta d’identità! Sì, perché non ci vuole molto ad accettare il prossimo senza nome, o senza contorni, o senza fisionomia. Ma occorre una gran fatica per accettare quello che abita di fronte a casa mia. Il cristianesimo è la religione dei nomi propri, dei volti concreti, del prossimo in carne e ossa con cui confrontarsi, non delle astrazioni volontaristiche.

La freccia della riconciliazione. Ci indica il cavalcavia sul quale sono fermi, a fare autostop, i nostri nemici. E noi dobbiamo assolutamente frenare. Per dare un passaggio al fratello che abbiamo ostracizzato dai nostri affetti. Per stringere la mano alla gente con cui abbiamo rotto il dialogo. Per porgere aiuto al prossimo col quale abbiamo categoricamente deciso di archiviare ogni tipo di rapporto. E sulla rampa del perdono che vengono collaudati il motore e la carrozzeria della nostra esistenza cristiana.

La freccia della comunione. Al Golgota si va in corteo, come ci andò Gesù. Non da soli. Pregando, lottando, soffrendo con gli altri. Non con arrampicate solitarie, ma solidarizzando con gli altri che, proprio per avanzare insieme, si danno delle norme, dei progetti, delle regole precise, a cui bisogna sottostare da parte di tutti. Se no, si rompe il tessuto di una comunione che, una volta lacerata, richiederà tempi lunghi per pazienti ricuciture.

(Don Tonino Bello)

 

Canto alla croce

Ama la croce, luce e pace,

e per essa, ormai,

Cristo sia il tuo signore!

Tracciala su di te con la mano:

essa ti tiene e tu la tieni

con tutto il tuo essere.

Il cuore in croce, la croce nel cuore,

liberato da ogni bruttura,

calmo e sereno;

che ben forte la croce amatissima

dalle tue labbra sia proclamata:

lodata senza fine.

 Nel riposo, nella fatica,

quando ridi e quando piangi,

conserva ben stretta

– quando vai, quando vieni,

nelle gioie, nei dolori –

la croce nel cuore!

(San Bonaventura)

 

Il dubbio, la verità e Cristo

Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiani e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.

(F. Dostoevskij)

 

Preghiera

Concedimi, Gesù benignissimo, la tua grazia,

la quale sia con me e con me lavori e con me sino alla fine perseveri.

Dammi di desiderare e volere solo quello che è a te più accetto e più caramente piace a te.

Fa’ che la tua volontà sia la mia, e la mia volontà segua sempre la tua e concordi con essa a perfezione.

Che io abbia un unico volere e non volere con te; e che possa volere o non volere se non ciò che tu vuoi o non vuoi.

Dammi di morire a tutte le cose che sono nel mondo, e per te d’essere sprezzato e ignorato in questa vita.

Dammi sopra ogni cosa desiderata, di riposare in te e pacificare in te il mio cuore.

Te, vera pace del cuore, solo riposo, fuor di te ogni cosa è dura e inquieta.

In questa pace – cioè in te solo, sommo, eterno bene – dormirò e riposerò. Così sia.

(L’imitazione di Cristo, III, 15).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIV DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:Isaia 35,4-7a

Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua.

 

 

v I capitoli 34-35 costituiscono la cosiddetta «Piccola Apocalisse» del libro di Isaia. Composti probabilmente dopo l’esilio, contengono una serie di oracoli di giudizio contro i nemici d’Israele (34), contrapposti a oracoli di salvezza (35).

     Un inno di gioia (35, 1-3) introduce l’oracolo di consolazione rivolto agli «smarriti di cuore»: l’intervento del Signore è insieme vendetta, ricompensa e salvezza. La giustizia si presenta con due facce, il castigo degli empi e la retribuzione dei giusti.

     All’annuncio del v. 4 segue la descrizione del giorno della salvezza (vv. 5 e ss.), per mezzo delle immagini tradizionali che rappresentano i tempi messianici. Ciechi, sordi, zoppi e muti saranno sanati: le diverse situazioni di schiavitù, i diversi impedimenti che incatenano il popolo credente cadono come per incanto. Sono guarigioni reali e simboliche a un tempo: aprire gli occhi, schiudere gli orecchi significa anche dare la vera conoscenza spirituale e convertire i cuori all’ascolto della parola del Signore: saltare come cervi e gridare di gioia rappresenta la libertà e l’entusiasmo di confessare la fede.

     La salvezza coinvolge non solo gli esseri umani, ma anche la natura, il cui ritorno alla vita è rappresentato con le immagini dell’acqua che rigenera il deserto e feconda la terra. Il paese inaridito che simboleggiava il castigo divino (34, 10ss.) torna qui a fiorire: scaturiranno acque, torrenti nella steppa, la terra bruciata sarà una palude e il suolo riarso si animerà di sorgenti. 

 

Seconda lettura: Giacomo 2,1-5

Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?

 

 

v La lettera di Giacomo entra nel quotidiano della vita di comunità, con chiare indicazioni di comportamento.

     Le conseguenze pratiche della fede sono estremamente chiare fin dall’inizio della lettera. Il secondo capitolo si apre con un’affermazione categorica: esiste una contraddizione insanabile tra la fede nel Signore Gesù e gli interessi personali, egoistici e transitori.

     I tre versetti successivi (2-4) chiariscono l’affermazione con un esempio. La descrizione dell’uomo ricco e del povero accolti nell’assemblea con evidente disparità di trattamento è vivace e realistica, tanto da far pensare che già nella comunità delle origini esistessero questi problemi. L’interrogativo finale lascia alla coscienza della persona la decisione: ma l’accusa è forte e fa riflettere. Si tratta infatti non semplicemente di discriminare (diakrinô), ma addirittura di giudizi perversi (kritaì dialigismôn ponêrôn). Non è quindi solo una fede debole e incerta, ma una vera e propria ingiustizia nei confronti dei fratelli, qualcosa che ferisce profondamente la comunità. Potremmo dire, con linguaggio moderno, che i favoritismi dettati dall’attenzione al denaro e ai privilegi sociali non sono semplicemente un «peccato veniale».

     Segue infatti un ragionamento stringato che ribadisce il pensiero dell’Apostolo. Il v. 5, che introduce l’argomentazione, è una domanda retorica che, nella linea del pensiero dei profeti d’Israele e dello stesso Paolo, ricorda la scelta preferenziale di Dio a favore dei poveri. I poveri agli occhi del mondo sono ricchi nella fede ed eredi del regno: i criteri umani sono quindi completamente capovolti dalla logica di Dio, e se preferenza deve esserci nella comunità cristiana, questa deve andare proprio a coloro che dal mondo sono emarginati e respinti. 

 

Vangelo: Marco 7,31-37

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

 

 

Esegesi

     La guarigione del sordomuto, narrata solo in Marco, è localizzata in territorio pagano (la Decapoli), dove tuttavia sembra essere già giunta la fama di Gesù taumaturgo.

     Il primo versetto (31) offre una precisa indicazione geografica, anche se non appare chiaro l’itinerario seguito da Gesù per giungere da Tiro e Sidone (sulla costa fenicia) fino alla Decapoli, a est del lago di Tiberiade.

     Il v. 32 presenta la situazione, senza indugiare sui preamboli: la gente del posto chiede a Gesù di imporre le mani sul malato, credendo forse che la sua potenza passi come un fluido magnetico. Non è ancora fede, ma ingenua fiducia, forse mista a superstizione, nei confronti di un uomo che opera prodigi.

     I tre versetti centrali (33-35) descrivono il miracolo, con alcune notazioni importanti che introducono il tema del «segreto messianico». Gesù prende in disparte l’uomo, lontano dalla folla, come a voler dissipare ogni fraintendimento propagandistico in quello che sta per fare; eppure indulge alla semplicità della gente e compie anche dei gesti concreti (le dita nelle orecchie, la saliva) che potrebbero farlo assomigliare ai maghi e taumaturghi del tempo. Il prodigio tuttavia non si compie direttamente in conseguenza dei gesti, ma appare piuttosto effetto dell’invocazione di Gesù e della sua parola, non a caso nel versetto centrale (34): egli alza gli occhi al cielo, rivolto palesemente a Dio, e dice in aramaico «Apriti!».

     Il collegamento parola-evento è chiaramente sottolineato dall’avverbio «e subito». Il prodigio è espresso con verbi che adombrano anche un significato di conversione interiore: gli orecchi «si aprono», il cuore e la mente dell’uomo sono quindi aperti ad accogliere la Parola del Signore; la lingua «si scioglie», l’uomo è quindi liberato dai legami del male che lo tenevano prigioniero.

     Viene poi la raccomandazione del segreto, caratteristica di Marco (v. 36): l’ora non è ancora giunta, e tuttavia la notizia del prodigio viene diffusa nonostante il divieto di Gesù. La reazione (v. 37) è di stupore, il miracolo risveglia qualcosa di più della superstizione che lo aveva preceduto. Queste persone credevano possibili guarigioni prodigiose, ma l’a-zione di Gesù li sorprende: ancora adesso non è fede, ma un passo ulteriore si è compiuto, ci si interroga su chi sia quest’uomo che fa udire i sordi e fa parlare i muti.

    

Meditazione

Il passo evangelico di questa domenica inizia con una breve introduzione di carattere geografico. Sono nominate le città di Tiro e Sidone, il territorio della Decàpoli: l’evangelista Marco ha cura di farci sapere che Gesù, dopo l’episodio della donna siro-fenicia (cfr. 7,24-30), rimane nella regione pagana del paese e quindi anche il personaggio che tra poco incontrerà è un pagano.

    «Gli portarono un sordomuto…» (v. 32). Sulla scena compaiono all’improvviso alcune persone anonime che si preoccupano di condurre a Gesù un uomo gravemente colpito nella sua dimensione comunicativa (è infatti «sordo» e «muto», cioè incapace di ascoltare e di parlare) per chiederne la guarigione. È da notare che il termine impiegato da Marco per connotare il mutismo di quest’uomo (in greco: mogilálon, «che parla a fatica, con difficoltà») si trova solo qui in tutto il NT e ricorre un’altra volta soltanto nell’AT, precisamente nel testo di Is 35,6 (vedi il brano proposto come prima lettura). Con ciò l’evangelista vuole invitare i suoi lettori a comprendere questo episodio come il compimento di una profezia, come uno dei segni messianici che Gesù realizza.                                  

    Subito, senza perdere tempo e senza troppi discorsi, Gesù mette in atto la sua ‘terapia’ (vv. 33-34). E per prima cosa «prende con sé» il sordomuto (il verbo evidenzia un tratto di delicata accoglienza da non trascurare, soprattutto nel difficile rapporto che a volte si instaura tra malato e guaritore) e lo porta «in disparte». Per un incontro vero e personale con Gesù è necessario separarsi dalla folla, allontanarsi dagli umori sempre ambigui e volubili di essa. Poi Gesù compie due gesti molto concreti (all’apparenza quasi rozzi e poco eleganti) che esprimono la volontà di stabilire un contatto con il malato – anche fisico, corporeo -, di stabilire una comunicazione che prende avvio proprio dagli organi malati: gli orecchi e la lingua. È un «toccare» che mira a riaprire i canali chiusi della comunicazione alla loro sorgente, là dove ogni suono e ogni voce entra nel corpo (gli orecchi) e là dove ogni parola prende forma per uscire verso l’esterno (la lingua). Gesù quindi prosegue levando gli occhi al cielo, in un gesto di preghiera, ed emettendo un sospiro, un «gemito», quasi a esprimere un appello, un’invocazione muta e silenziosa a quel Dio che può donargli la forza di vincere ogni resistenza insita nel corpo dell’infermo. Un sospiro che dice la sua pena e, insieme, la sua partecipazione a una tale condizione umana. Da ultimo pronuncia un comando, forte e imperioso, che è la parola centrale e decisiva di tutto il racconto: «Effatà». È  una parola in aramaico, come altre parole cruciali e decisive riportate da Marco nel suo vangelo. È curioso che qui Gesù parli al singolare: «Apriti!»: è anzitutto l’uomo come tale, nella sua totalità, che deve aprirsi, che deve lasciare che questa parola rompa, infranga, vinca la sua chiusura. Prima che essere rivolta alle sue orecchie, questa parola di Gesù è rivolta al suo cuore, al centro interiore dell’intera sua persona.

    Ed ecco il risultato immediato di tutta questa opera di guarigione: «E subito gli si aprirono gli orecchi…» (v. 35). C’è un’«apertura», c’è uno «scioglimento», c’è un parlare ritrovato e «corretto», che manifestano l’efficacia della ‘cura’ di Gesù e diventano altresì contagiosi, tanto che i presenti non riescono a ubbidire al comando di Gesù, che ingiungeva loro il silenzio, ma «più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano…» (v. 36). Con una bella immagine, il card. C.M. Martini nella sua lettera pastorale «Effatà, Apriti» così commenta: «La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Galilea…». L’esclamazione conclusiva (v. 37), pronunciata al colmo dello stupore, rievoca la finale del racconto della creazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). Siamo dunque in presenza di un evento che dischiude di nuovo la realtà originaria, un evento in grado di ricreare quell’umanità così come Dio l’aveva voluta agli inizi della creazione.

    S. Ambrogio, nella sua spiegazione al rito dell’ Effatà che si celebrava durante la liturgia battesimale (reinserito ora nella celebrazione del Battesimo degli adulti), chiama questo episodio evangelico: «il mistero dell’apertura». In un contesto di iniziazione è fondamentale che qualcosa venga ‘aperto’ ed è nondimeno fondamentale la consapevolezza del bisogno di ‘lasciarsi aprire’. Tutto il vangelo di Marco è attraversato da questa ‘apertura’ (dai cieli che si aprono al battesimo di Gesù fino al velo del tempio che si squarcia «da cima a fondo» al momento della sua morte) e forse non è un caso che questo racconto di guarigione sia stato collocato a questo punto della narrazione evangelica: la sua valenza simbolica in ordine al cammino di sequela dei discepoli può essere illuminante. Ricordiamo che siamo nel contesto della cosiddetta «sezione dei pani» (Mc 6,30-8,21) in cui è più volte sottolineata l’ottusità dei discepoli, la loro lentezza di mente, la loro durezza di cuore: di fronte a sempre nuove e più grandi rivelazioni di Gesù corrisponde da parte loro un’incomprensione sempre maggiore. I discepoli appaiono come ciechi e sordi, incapaci di vedere e udire la novità del vangelo. Ecco allora che la fatica impiegata da Gesù per guarire quel sordomuto (la molteplicità dei dettagli è indicativa di tutta la laboriosità e lo sforzo compiuto per risolvere il caso) diventa segno della fatica usata a guarire i discepoli dalla loro cecità e sordità spirituale (riguardo alla cecità, l’episodio del cieco di Betsàida, in 8,22-26, svolge una funzione analoga). Ma, nello stesso tempo, l’’apertura’ del sordomuto diventa anche segno della possibilità offerta a tutti (discepoli compresi!) di ottenere la guarigione, di ritrovare una capacità nuova di ascolto e comprensione del mistero di Gesù. Ed è proprio questo il vero miracolo a cui tende tutto il vangelo…

 

Preghiere e racconti

 

Effatà

«A tante domande sulla malattia del comunicare umano contrapponiamo ora una scena di risanamento. Contempliamo Gesù nel momento in cui sta facendo uscire un uomo dalla sua incapacità a comunicare. Si tratta della guarigione del sordomuto raccontata in Mc 7, 31-37. S. Ambrogio chiama questo episodio -e la sua ripetizione nel rito battesimale – “il mistero dell’apertura”: “Cristo ha celebrato questo mistero nel Vangelo, come leggiamo, quando guarì il sordomuto” (I misteri, I, 3).

Dividiamo il racconto in tre tempi: la descrizione del sordomuto, i segni e gesti di apertura, il miracolo e le sue conseguenze.

1. La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio comunicativo di quest’uomo. E’ uno che non sente e che sì esprime con suoni gutturali, quasi con mugolìi, di cui non si coglie il senso. Non sa neanche bene cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù. Il caso è in sé disperato (7, 31-32).

2. Ma Gesù non compie subito il miracolo. Vuole anzitutto far capire a quest’uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e vuole prendersi cura di lui. Per questo lo separa dalla folla, dal luogo del vociferare convulso e delle attese miracolistiche. Lo porta in disparte e con simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza. Sono segni corporei che ci appaiono persino rozzi, scioccanti. Ma come comunicare altrimenti con chi si è chiuso nel proprio mondo e nella propria inerzia ? come esprimere l’amore a chi è bloccato e irrigidito in sé, se non con qualche gesto fisico? Notiamo anche che Gesù comincia, sia nei segni come poi nel comando successivo, con il risanare l’ascolto, le orecchie. Il risanamento della lingua sarà conseguente.

A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l’alto e un sospiro che indica la sua sofferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa condizione umana. Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come titolo di questa lettera: “Effatà” cioè “Apriti!” (7, 34). E’ il comando che la liturgia ripete prima del Battesimo degli adulti: il celebrante, toccando con il pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: “Effatà, cioè: apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio” (Rito dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti, n. 202).

3. Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto come apertura (“gli si aprirono le orecchie”), come scioglimento (“si sciolse il nodo della sua lingua”) e come ritrovata correttezza espressiva (“e parlava correttamente”). Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa: “E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano”. La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Galilea: “E, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”” (7, 35-37).

In quest’uomo, che non sa comunicare e viene rilanciato da Gesù nel vortice gioioso di una comunicazione autentica, noi possiamo leggere la parabola del nostro faticoso comunicare interpersonale, ecclesiale, sociale. Possiamo anche individuare le tre parti di questa Lettera: 1. rendersi conto delle proprie difficoltà comunicative; 2. lasciarsi toccare e risanare da Gesù; 3. riaprire i canali della comunicazione a tutti i livelli.

Il comunicare autentico non è solo una necessità per la sopravvivenza di una comunità civile, familiare, religiosa. E’ anche un dono, un traguardo da raggiungere, una partecipazione al mistero di Dio che è comunicazione».

(Card. C.M. MARTINI, Lettera pastorale: Effatà, apriti, 1990-1991).

 

Dal silenzio alla parola

Vivere è percorrere la stessa avventura del sordomuto della Decapoli: ognuno è un uomo che non sa parlare, un uomo che non sa ascoltare. Un nodo in gola, un nodo in cuore. Penso alle mie sordità, al mio ascoltare senza partecipazione; penso alla mia lingua annodata, all’insignificanza dei miei messaggi e delle mie parole. E ne comprendo la causa. Non so ascoltare chi è appena fuori del mio spazio vitale, dall’ambito della famiglia o delle amicizie; o ascolto distrattamente, “a mezzo orecchio”, sperando solo che l’altro finisca in fretta, perché ho cose più intelligenti da dire, osservazioni più acute, idee più importanti.

E la parola si fa dura e vuota. «Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quello dell’ascolto. Chi non sa ascoltare il proprio fratello presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore» (Bonhoeffer), come il fariseo nel tempio: «Io, Signore, io e i miei digiuni, io e le decime, io…». In quante famiglie si parla tra sordi. E diventano culle di silenzio e di solitudini. Quanti figli perduti nelle nostre case, e bastava forse solo ascoltarli.

Chi non sa ascoltare perderà la parola, perché parlerà senza toccare il cuore dell’altro.

Guariremo tutti dalla povertà delle parole solo quando ci sarà donato un cuore che ascolta. È ciò che fa Gesù: porta in disparte il sordomuto, lo tocca con le sue dita, con il segno intimo e vitale della saliva.

È ciò che continua a fare con me: mi tocca in ogni gioia e in ogni prova, i giorni vibrano della sua presenza, mi tocca in ogni fratello che mi viene incontro, nei poveri senza voce, negli anziani soli che nessuno ascolta.

Mi tocca e mi restituisce il dono di ascoltare e di “parlare correttamente”, che non è l’eloquenza ma una nuova capacità di comunicare, di indovinare quelle parole che toccano il nervo della vita, bruciano le ipocrisie, hanno il gusto dell’amicizia. Gesù ripete anche a me: «Effatà, apriti! Esci dal tuo nodo di silenzi e di paure; apriti ad accogliere vite nella tua vita, spalanca le tue porte a Cristo».

Se rimani chiuso in te, non scoprirai mai, diceva un tormentato scrittore, «un Dio che gioisce e ride con l’uomo davanti ai caldi giochi del sole o del mare» (Pasolini) o che versa le sue lacrime nelle tue lacrime, ma solo distanza e solitudine.

«E comandò loro di non dirlo a nessuno».

Gesù aiuta senza condizioni. Per lui è più importante la gioia del sordomuto, che non la sua gratitudine; la felicità dell’uomo conta più della fedeltà.

Quanti miracolati del Vangelo sembrano scomparire nel nulla, rapiti nel gorgo della loro felicità. Invece stanno fecondando in silenzio la storia con una nuova capacità di vere relazioni.

(Ermes Ronchi)

 

La tua Parola

La tua Parola, Signore, non l’hai scritta perché io la studiassi e la spiegassi. La tua Parola, Signore, mi è giunta perché l’amassi, perché mi sforzassi di calarla nel mio intimo, perché anch’io potessi diventare una tua parola.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto  Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 119).

 

«Apri la tua bocca»

Sia sempre nel nostro cuore e sulla nostra bocca la meditazione della sapienza e la nostra lingua esprima la giustizia. La legge del nostro Dio sia nel nostro cuore. Per questo la Scrittura ci dice: «Parlerai di queste cose quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai» (Dt 6,7). Parliamo dunque del Signore Gesù, perché egli è la Sapienza, egli è la Parola, è la parola di Dio.

Infatti è stato scritto anche questo: «Apri la tua bocca alla parola di Dio». Tu la apri, egli parla. Per questo Davide ha detto: «Ascolterò che cosa dice in me il Signore» (cfr. Sal 84,9) e lo stesso Figlio di Dio dice: «Apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80,11). Ma non tutti possono ricevere la perfezione della sapienza come Salomone e come Daniele. A tutti però viene infuso lo spirito della sapienza secondo la capacità di ciascuno, perché tutti abbiano la fede. Se credi, hai lo spirito di sapienza.

Perciò medita sempre, parla sempre delle cose di Dio «quando sarai seduto in casa tua» (Dt 6,7). Per casa possiamo intendere il nostro intimo, per parlare all’interno di noi stessi. Parla con saggezza per sfuggire al peccato e per non cadere con il troppo parlare. Quando stai seduto parla con te stesso, quasi come se dovessi giudicarti. Parla per strada, per non essere mai ozioso. Tu parli per strada se parli secondo Cristo, perché Cristo è la via. In cammino parla a tè stesso, parla a Cristo.

Quando ti alzi, parlagli per eseguire ciò che ti è comandato. Senti come Cristo ti sveglia. La tua anima dice: «Un rumore! È il mio diletto che bussa», e Cristo dice: «Aprimi sorella mia, mia amica» (Ct 5,2). Senti come tu devi svegliare Cristo. L’anima dice: «Io vi scongiuro, figlio di Gerusalemme, svegliate, ridestate l’amore» (Ct 3,5). L’amore è Cristo.

(S. Ambrogio di Milano).

 

La guarigione del sordomuto e la nostra liberazione

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

Il percorso tracciato da Marco è molto significativo: con una lunga deviazione Gesù sceglie un itinerario che congiunge città e territori estranei alla tradizione religiosa di Israele; percorre le frontiere della Galilea, alla ricerca di quella parte comune ad ogni uomo che viene prima di ogni frontiera, di ogni divisione politica, culturale, religiosa, razziale.

Scrivo queste parole dalla Mongolia, da una piccola, giovanissima chiesa ad Arvaheer, dove risuonano vere; dove, nella fede sorgiva delle origini, senti che Gesù è davvero l’uomo senza confini, che lui è il volto alto e puro dell’uomo, e che per il cristiano ogni terra straniera è patria.

Gli portarono un sordomuto. Un uomo imprigionato nel silenzio, vita a metà, ma “portato” da una piccola comunità di persone che gli vogliono bene da colui che è Parola e liberazione, che parla come nessuno mai, che è l’uomo più libero passato sulla terra. E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più di ciò che gli è chiesto, non gli basta imporre le mani in un gesto ieratico, vuole mostrare la umanità e l’eccedenza, la sovrabbondanza della risposta di Dio. Allora Gesù lo prese in disparte, lontano dalla folla. In disparte, perché ora conta solo quell’uomo colpito dalla vita. Immagino Gesù e il sordomuto occhi negli occhi, che iniziano a comunicare così. E seguono dei gesti molto corporei e insieme molto delicati: Gesù pose le dita sugli orecchi del sordo. Secondo momento della comunicazione, il tocco delle dita, le mani parlano senza parole. Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti dò qualcosa di mio, qualcosa che sta nella bocca dell’uomo insieme al respiro e alla parola, simboli dello Spirito. Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo di incontro con il Signore. Gesù guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: Effatà, cioè: Apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua del cuore, quasi soffiando l’alito della creazione: Apriti, come si apre una porta all’ospite, una finestra al sole. Apriti dalle tue chiusure, libera la bellezza e le potenzialità che sono in te. Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite. E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. Prima gli orecchi. Ed è un simbolo eloquente. Sa parlare solo chi sa ascoltare. Gli altri innalzano barriere quando parlano, e non incontrano nessuno. Gesù non guarisce i malati perché diventino credenti o si mettano al suo seguito, ma per creare uomini liberi, guariti, pieni. «Gloria di Dio è l’uomo vivente» (sant’Ireneo), l’uomo tornato a pienezza di vita.

(Ermes Ronchi)

 

La “salvezza” è fondamentalmente esperienza di alterità

La liberazione dalla schiavitù babilonese è descritta da Isaia con immagini che parlano di vita ritrovata, di vita che sgorga là dove c’era morte: sorgenti d’acqua scaturiscono nel deserto; i ciechi riacquistano la vista, i muti ritrovano la capacità di parola; i sordi possono ascoltare. Marco riprende le immagini del testo isaiano per narrare la guarigione di un sordomuto ed esprimere così l’avvento di una liberazione ancor più radicale: la liberazione messianica. L’espressione tradotta in italiano con “sordomuto” (Mc 7,32) indica una persona sorda che si esprime a fatica, con difficoltà, balbuziente. Tanto che la sua guarigione è espressa dicendo che egli “parlava correttamente” (Mc 7,35). Incapace di ascoltare, egli non sa neppure esprimersi correttamente e perde la capacità comunicativa trovandosi in un isolamento doloroso. È l’incapacità di comunicare che affligge così gravemente quest’uomo privandolo della sua soggettività: egli è totalmente passivo. Condotto da altri a Gesù, è oggetto di gesti e parole da parte di Gesù finché viene liberato dai vincoli che lo imprigionavano impedendogli di comunicare. Ed è interessante e significativo che, per guarire dalla sua incomunicabilità e ritrovare la sua soggettività, egli debba essere separato dalla folla e portato in disparte: lì può essere restituito a se stesso e diventare soggetto della sua parola. Lì avviene l’incontro personale con Cristo.

Quest’uomo simbolizza la situazione per cui la “salvezza” è fondamentalmente esperienza di alterità, è apertura e affidamento a un altro, passa attraverso un altro. Così come investe la corporeità: il testo presenta un incontro in cui la fisicità è centrale. Gesù comunica soprattutto con il corpo: il testo parla di mani, dita e tatto, di ascolto e di orecchi, di lingua, saliva e parola, di occhi e di sguardo. Se il corpo è il nostro modo di essere al mondo e di comunicare con il mondo, Gesù deve svegliare la vita corporea di quest’uomo, deve ridestarne i sensi perché egli possa ritrovare il senso del vivere. Lo spirituale avviene sempre grazie alla mediazione del corporeo. La guarigione del sordo balbuziente, connessa alla guarigione del cieco di Betsaida (cf. Mc 8,22-26), che presenta elementi letterari e tematici molto simili, svela certamente una dimensione simbolica. Le due pericopi inquadrano episodi in cui Gesù si confronta con l’incomprensione e con l’inintelligenza dei suoi discepoli (cf. Mc 8,4.14-21) che “hanno orecchi e non ascoltano, hanno occhi e non vedono” (cf. Mc 8,18), con l’ostilità dei farisei (cf. Mc 8,11-13), mentre moltiplica contatti salvifici con pagani (cf. Mc 8,1-9; anche il nostro episodio si svolge in terra pagana). Insomma, la sordità che impedisce di parlare correttamente riguarda i discepoli e significa un non-ascolto della Parola che conduce a non annunciarla correttamente o a non confessare adeguatamente la fede (come Pietro in Mc 8,27-33). Solo un ascolto della Parola assiduo e profondo genera un annuncio autentico e efficace; solo una ecclesia audiens può essere ecclesia docens. Fuori di questo ascolto, di questa apertura vivificante e sanante alla Parola, l’annuncio della chiesa si riduce a balbettio o addirittura a sproposito.

In questo senso, il gesto terapeutico di Gesù di mettere le dita negli orecchi dell’uomo acquista una valenza spirituale nella linea delle espressioni bibliche che parlano di circoncidere gli orecchi (cf. Ger 6,10), forare gli orecchi (cf. Sal 40,7), ovvero aprire il canale attraverso cui la rivelazione raggiunge il cuore dell’uomo e gli consente di lodare Dio e di annunciare le sue azioni (cf. il rapporto tra “risveglio” degli orecchi e lingua ben istruita in Is 50,4).

Uno solo è guarito, ma l’acclamazione della folla universalizza il gesto di Gesù parlando di muti e sordi al plurale (cf. Mc 7,37). L’esperienza di Dio conosciuta da qualcuno una volta nella storia può essere confessata nella sua estensione universale e nella sua dimensione di eternità nell’azione di grazie, massimamente nella celebrazione liturgica (cf. il salmo 136).

(Luciano Manicardi)

 

Preghiera

Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio,

per l’amore che hai mostrato a noi

in Gesù Cristo nostro Signore.

In Lui, che ci ha amati sino alla fine,

noi siamo vincitori sul dolore,

l’angoscia, la persecuzione, la fame,

la miseria, e pericoli e la morte violenta.

Nel silenzio dell’abbandono e della solitudine

Tu elargisci le ricchezze della tua benedizione

e sfami la fame di compagnia con l’abbondanza della Tua Parola e del Tuo Corpo.

Ti rendiamo grazie,

perché Tu ascolti il silenzio dei nostri cuori,

Tu agisci in noi con la tua potenza,

ci guarisci dall’incomunicabilità,

sciogli la nostra lingua

e metti sulle nostre labbra il nome

di Gesù tuo Figlio.

Fa’ che possiamo testimoniarTi

come nostro unico Salvatore, sempre più uniti

in una sola fede e in un solo Battesimo.

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO

XXIII DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

XVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: Esodo 16,2-4.12-15

In quei giorni, nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». Allora il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge. Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”». La sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?», perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo».

 

 

v Dopo l’epica trionfale del passaggio del mar Rosso, celebrata nel c. 15 dal canto dei figli d’Israele, i lunghi anni di peregrinazioni nel deserto vedono i ripensamenti, le mormorazioni, le ribellioni del popolo, e la paziente cura con cui Dio lo assiste. È una lunga pedagogia attraverso la quale il popolo dovrà imparare che solo da Dio viene la salvezza e la vita.

     È il tema della «tentazione» e della «prova»: il popolo «tenta» Dio con le sue accuse, perché non si fida; Dio «mette alla prova» il popolo per temprarlo a dargli forza.

     Nel racconto prevale la redazione dovuta alla fonte sacerdotale (P), la più recente, che con uno stile più involuto e barocco insiste sugli aspetti anche rituali della vita della comunità, presenta Aronne accanto a Mosè, richiama la legge del sabato (anche se non è stato ancora consegnato il decalogo).

1. NOTE ESEGETICHE

     vv. 2-4 — A Mara l’intervento del Signore ha reso dolce e potabile l’acqua; nel deserto di Sin gli Israeliti patiscono la fame. Tutta la comunità si lamenta: singolare questa sottolineatura di una unanimità nella ribellione. È più facile compattare il popolo nella sterile protesta, che far nascere una comunione di spiriti concorde nella sequela del Signore.

     Termine della protesta non è il Signore, ma i suoi portavoce: Mosè e Aronne. La libertà costa cara, è un dono che va anche guadagnato passo dopo passo nella lunga traversata del deserto: il popolo non regge al peso.

     Il ricordo della schiavitù si sbiadisce e cede il posto al ricordo del cibo assicurato.

     Il Signore parla a Mosè, prima ancora che questi abbia potuto trasmettergli le lamentele del popolo: previene l’intercessione, che pure è un compito che Mosè assolve di frequente a favore del popolo (cf. 14,13-15).

     Il Signore farà piovere il pane dal cielo: è la gratuità assoluta del dono, intervento miracoloso dall’alto; ma il popolo dovrà ogni giorno — con l’eccezione del sabato — «uscire» e «raccogliere» la razione quotidiana.

     È richiesta quindi anche una attività, per così dire, di cooperazione al dono divino.

     Uscire (jatsa’) è il verbo usato per l’uscita, cioè la liberazione, dall’Egitto: il popolo, materialmente già liberato con il passaggio del mare, deve ora liberarsi spiritualmente, smettere di rimpiangere la terra di schiavitù e accogliere consapevolmente e responsabilmente la difficile condizione di libertà.

     Raccogliere (laqat) è il lavoro del contadino, ma anche la spigolatura (cf. Rut): lavoro sì quindi, ma reso possibile da un’offerta e da una disponibilità gratuita, accolto con umiltà.

     La razione del giorno allontana ogni tentazione di accumulo e di possesso; il termine è diverso (la LXX traduce tò tès emèras, e non epioùsios), eppure forte è la valenza evocativa del «pane quotidiano» del Padre nostro.

     Il dono è anche una prova (nasah) per verificare l’osservanza della Legge da parte del popolo. Dio non «mette alla prova» mandando chi sa quali sventure, ma donando il necessario per vivere: accettare la vita come dono di Dio è un atto di fede non sempre così scontato.

     v. 12 — Ed ecco ancora ripetute le parole del Signore che preannunciano il duplice prodigio: la carne al tramonto e il pane al mattino, con il consueto ritornello: così il popolo saprà che il Signore è il suo Dio.

     vv. 13-15 — Viene descritta ora la realizzazione del prodigio. Come avviene per il passaggio del mare, si tratta di fenomeni naturali (i forti venti che provocano le secche nel «mare dei giunchi», il passaggio periodico degli uccelli migratori, la resina che si forma sulle tamerici del deserto), che assumono tuttavia la forma del miracolo per l’eccezionalità con cui si verificano e la corrispondenza alla parola del Signore. L’apparire della manna al mattino è descritto con stupore sacrale: qualcosa di granuloso, fine come la brina, che gli Israeliti non avevano mai visto. E questo stupore rimane nel nome: la domanda «cos’è?» (man hu) è un’etimologia popolare della parola «manna». Mosè dà la risposta giusta, det-tata dalla fede e non dalla botanica: è il pane che il Signore ha promesso e dato, è il «pane dal cielo» di cui Gesù darà una nuova lettura nel cap. 6 del vangelo di Giovanni.

  

Seconda lettura: Efesini 4,17.20-24

Fratelli, vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri. Voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità.

 

 

v Vicina per tema e per stile alla lettera ai Colossesi, quella agli Efesini è stata paragonata alle variazioni infinite e alle concatenazioni di un’opera musicale barocca. Piuttosto che una lettera ai cristiani di Efeso, è probabilmente una circolare diretta alle assemblee della Frigia. Indicata fra le «lettere della prigionia», potrebbe risalire agli anni 65/70, per mano di uno dei discepoli di Paolo, forse dopo la scomparsa dell’Apostolo.

1. NOTE ESEGETICHE

     Il capitolo 4 apre la parte parenetica della lettera.

     v. 17 — Dopo aver fortemente richiamato la centralità di Cristo, il capo da cui tutto il corpo ecclesiale trae linfa vitale «in modo da edificare se stesso nella carità» (v. 16), l’esortazione si fa più precisa. Essa poggia su una serie di opposizioni fra ieri e oggi, fra i pagani e coloro che hanno «imparato a conoscere il Cristo», fra l’umanità antica e quella nuova.

     L’autore prende le distanze dallo «ieri» dei pagani per esortare alla scelta di un comportamento «nuovo».

     vv. 20-21 — «Avete imparato a conoscere il Cristo» significa lasciarsi istruire da lui a vivere secondo l’abito nuovo, quello del battesimo. Emàthete (avete imparato) è la stessa radice di mathetès (discepolo).

     vv. 22-24 — L’uomo vecchio, che si corrompe seguendo illusorie chimere, deve essere abbandonato: nel battesimo siamo «sepolti» con Cristo (Rm 6,4). L’uomo nuovo, che corrisponde al disegno della creazione, esige un rinnovamento della mentalità: una metanoia, una conversione. «Rivestire Cristo» e «nuova creatura» sono temi ricorrenti nell’epistolario paolino (cf. Ef 2,15; Rm 13,14; 2Cor 5,17; Col 3,10).

 

Vangelo: Giovanni 6,24-35

 In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo».  Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».  Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».

 

 

Esegesi 

     Il capitolo 6 del vangelo di Giovanni è dedicato alla moltiplicazione dei pani e al lungo discorso tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, in cui egli si identifica nel «pane disceso dal cielo». La tradizione dottrinale e liturgica della Chiesa ha da sempre applicato questo discorso al mistero dell’eucarestia.

     Compiuto il miracolo, Gesù sfugge alla folla che vorrebbe farlo re e si ritira solo sul monte: non è un messianismo trionfalistico il suo, ed è necessaria una lunga catechesi perché gli stessi discepoli possano essere condotti ad accettare la via della croce. Segue l’episodio di Gesù che cammina sulle acque, segno anticipatore della risurrezione, alla luce della quale soltanto i discepoli potranno comprenderlo.

     La pericope che qui commentiamo contiene la rivelazione di Gesù, vero pane di vita.

     vv. 24-25 — La folla attraversa il lago in direzione di Cafarnao, alla ricerca di Gesù. Il tema della ricerca è costante nei Vangeli: si tratta spesso di una ricerca iniziale, inconsapevole, non riflessa, che scaturisce da esigenze primarie e immediate, come il bisogno di pane. Gesù non respinge questa esigenza elementare e non disdegna di soddisfarla, come ha mostrato con il miracolo; ma altro è il dono che egli porta.

     I due versetti sono prospettici: il v. 24, che introduce la ricerca (zetèo), rinvia al 26 (mi cercate…), mentre il v. 25, in cui si chiede «come mai» (pote) Gesù è arrivato oltre il lago, rinvia al 52: «come (pos) costui può darci da mangiare la sua carne?».

     v. 26 — Gesù conosce i cuori degli uomini e sa che lo cercano perché vogliono saziare la loro fame.

     Non hanno ancora compreso che il miracolo non è un prodigio che mira a sorprendere, un modo per risolvere a buon mercato i problemi quotidiani, una soddisfazione materiale o un atto di potenza; il miracolo è segno, indica al di là di sé una verità più profonda, ed è quella che bisogna cercare. Non hanno visto il segno, si sono fermati al pane: da qui parte Gesù per la grande catechesi eucaristica, per rivelare quale è il pane vero che dà la vita eterna. E solo pochi sapranno intendere le sue parole (cf. vv. 66-69).

     I vv. 26-27, riferiti alla moltiplicazione dei pani, sono come la proposizione del tema: Gesù (il Figlio dell’uomo) da un cibo che non perisce.

     vv. 27-30 — Il tema qui introdotto è la fede, e la parola-chiave che lega questi versetti è operare/opera (ergàzein/ergon): l’opera di Dio è credere.

     L’esortazione di Gesù al v. 27, «procuratevi (ergàzesthe) il cibo che rimane», è ripresa nella domanda del v. 28: «cosa dobbiamo fare per compiere (ergazòmetha) le opere di Dio?» L’aporia che sembra sussistere tra un’attività tesa a procurarsi il cibo, e il fatto che questo cibo sia un dono (il Figlio dell’uomo ve lo darà), viene risolta al v. 29: l’opera consiste nel credere (pistèuete) in colui che Dio ha mandato. Le opere di cui i discepoli non hanno ancora capito il senso (erga) del v. 28 —; pensano infatti a precetti da osservare, a opere meritorie da compiere — diventano in bocca a Gesù un’unica opera (ergon): la fede, decisione radicale che coinvolge la libertà dell’uomo e trasforma la vita, è l’opera di Dio che apre alla possibilità della vita eterna (il cibo che rimane per la vita eterna).

     v. 30 — La domanda è legata a ciò che precede («cosa fai?», tì ergathe) e a ciò che segue, il ricordo della manna che provoca la spiegazione/rivelazione di Gesù. Cominciano a intuire di non aver percepito i «segni» di cui parla Gesù («non perché avete visto dei segni», v. 26), ma chiedono ancora il «segno» come una prova, una garanzia miracolistica che svuoterebbe la decisione di fede dal coinvolgimento libero, responsabile e personale.

     v. 31 — L’espressione di Gesù (che crediate in colui che Egli ha mandato) è chiaramente messianica, e coerentemente i suoi uditori si richiamano all’Esodo, figura di liberazione e di salvezza.

     vv. 32-35 — Il tema è ora il discorso di rivelazione: Gesù è il pane del cielo, il vero pane di Dio. Gesù infatti interpreta il miracolo della manna: non Mosè, ma Dio dà il pane del cielo; e il pane vero, di cui la manna è semplice figura, è quello che scende dal cielo (preesistenza del Figlio) e dà la vita al mondo (missione universale di Gesù).           

     La richiesta del v. 34 ricalca quella della Samaritana (cf. 4,15), con lo stesso fraintendimento tra il livello del cibo e dell’acqua materiali e il livello del segno salvifico. La conclusione di Gesù è il discorso di rivelazione, introdotto dalla formula «Io sono». Gesù si identifica con «il pane di vita», la fede in lui è ciò che dà la salvezza, libera dalla fame e dalla sete, non solo in senso materiale. Questa è la novità sconvolgente, su cui il discorso di Cafarnao continua, fino a provocare scandalo (v. 61) e scissione nella comunità: «da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro» (v. 66). La salvezza consisterà nel riconoscere nella fede le «parole di vita eterna» (v. 68).

 

L’immagine della domenica

   


A te la profonda pace

dello scorrere dell’onda.

A te la profonda pace

della terra silenziosa.

A te la profonda pace

delle stelle lucenti.

A te la profonda pace

del Figlio della pace.

(Antica Benedizione Celtica)


Meditazione 

     Nel Vangelo di Giovanni i segni che Gesù opera sono sempre accompagnati e interpretati dai suoi discorsi. Se il segno conferma l’efficacia della Parola, sigillandone la rivelazione, è la Parola che consente di non fraintendere il segno. Non è pertanto ‘vedere’ il segno a generare la fede, piuttosto è credere nella parola di Gesù che consente di ‘vedere’ nel modo giusto il segno e di accoglierlo nel suo significato più vero e fecondo per la nostra vita. Questa dinamica caratteristica del IV Vangelo ritorna evidente al capitolo sesto, dove il discorso nella sinagoga di Cafarnao interpreta il gesto con cui Gesù ha sfamato le folle. Quanto accade nel racconto di Giovanni è peraltro ciò che si ripete in ogni celebrazione eucaristica, nella quale siamo invitati ad alimentare la nostra fede personale e la nostra vita comunitaria all’unica mensa della Parola e del Corpo di Cristo, secondo la suggestiva espressione del Vaticano II (cfr. DV 21). Questa unità tra Parola e Segno va tenuta presente anche nel leggere Giovanni 6. Secondo la tradizione sinottica, Gesù risponde alla prima tentazione del deserto citando Dt 8,3: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (cfr. Mt 4,4). Anche in questo ‘deserto’ Gesù dona il cibo, ma non fa mancare la sua parola, che consente di accogliere il pane quale esso veramente è: segno di Dio che rivela se stesso prendendosi cura della vita dell’uomo. Anzi, offrendo il proprio Figlio come pane per la vita dell’uomo. Pane che nutre l’esistenza umana a condizione che ci sia una parola che porti alla luce la sua fame nascosta e più vera. Anche in Samaria la donna incontrata presso il pozzo si era vista consegnare, sempre dalla parola di Gesù, alla sua vera sete. Qual è dunque la nostra fame?

     La liturgia della parola domenicale, dopo aver proclamato il segno nella scorsa domenica, per quattro domeniche consecutive ci fa ascoltare il discorso che segue. L’inevitabile suddivisione del capitolo in cinque parti rende più difficile seguirne lo sviluppo unitario. Può essere perciò utile ricordare subito la trasformazione che, grazie al gesto e alla parola di Gesù, avviene tra l’apertura e la conclusione del capitolo. All’inizio del racconto, «lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi» (v. 2). Alla fine del capitolo solo i Dodici rimangono, professando la loro fede con Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (vv. 68-69). Dal seguire Gesù perché si vedono i segni operati sui malati alla fede di chi rimane perché crede in una parola di vita; dalla fame di pane al desiderio di una comunione personale con Gesù (da chi altri andare?); dalla guarigione delle malattie alla pienezza della vita eterna: questo è il passaggio molteplice che il segno operato da Gesù, e la parola che lo interpreta, sollecitano a compiere. Non per nulla l’evangelista aveva an-notato che quanto Gesù desiderava operare celava un’intenzione precisa: mettere alla prova Filippo, e insieme a lui ogni discepolo, quelli di allora come quelli di oggi. «Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere» (v. 6). La prova biblica, soprattutto quella che caratterizza il cammino nel deserto, come ci ricorda anche la prima lettura tratta da Esodo 16, non intende solo saggiare quello che c’è nel nostro cuore o la qualità della nostra relazione con il Signore, ma anche purificare la nostra fede per renderla sempre più aderente all’opera di Dio e aperta alla sua rivelazione. Gesù sapeva quello che stava per compiere; la prova è ciò che consente al discepolo di entrare sempre più profondamente in questo suo stesso sapere. I segni che Gesù compie hanno questa duplice valenza: rivelano il mistero di Dio perché nello stesso tempo purificano la fede degli uomini. Nei dialoghi del vangelo di Giovanni la rivelazione si attua sempre secondo questa dinamica, che ritorna puntualmente anche in questo racconto: «Il segno è la moltiplicazione dei pani, letta dalla folla e letta da Gesù: è nel contrasto tra queste due letture che si rivela chi è Gesù» (B. Maggioni).

     La domanda che alla fine Gesù porrà ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?» (v. 67) deve essere l’interrogativo che sentiamo rivolto alla nostra stessa fede e può illuminare la lettura dell’intero dialogo, non solo delle sue battute conclusive. Certo, rispondiamo insieme a Pietro, vogliamo rimanere! Gesù ci ricorda tuttavia qual è la condizione per farlo davvero, senza andarsene altrove come accade ai più: accettare che la sua parola ci metta alla prova, ci purifichi, ci converta.

     Nel testo che leggiamo in questa domenica la conversione si attua almeno a due livelli: è infatti relativa tanto al che cosa cercare quanto al come cercare. Il tema della ricerca è sollevato da Gesù stesso, che svela l’ambigua ricerca degli uomini: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (v. 26). È superficiale anche la domanda: «Rabbì, quando sei venuto qua?» (v. 25). Non è il quando, ma il da dove e il perché, ossia verso dove e a quale fine, che consente di capire chi sia davvero Gesù. Come mostrerà l’intero discorso, Gesù è colui che viene dal Padre per dare la vita al mondo, attraverso la sua carne offerta. «Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (v. 33). Solamente nell’orizzonte di questo movimento si capisce chi è Gesù. Egli discende dal cielo perché donato dal Padre, e viene per donare al mondo la vita stessa che riceve da Dio. Non è forse questo il sigillo che Dio, il Padre, ha posto sul Figlio? Il sigillo di un dono, che fa sì che il nostro desiderio di vita venga appagato non quando cerchiamo un pane che sazia la nostra fame, colmando il nostro bisogno, ma quando, nutrendoci di questo pane di vita che soltanto Gesù offre, anzi, che egli stesso è, ci lasciamo condurre da esso in una logica diversa. Quella del dono, secondo la quale saziarne il nostro desiderio di vita (la nostra sete, la nostra fame) ogni qualvolta, anziché preoccuparci di appagare i nostri bisogni, diventiamo a nostra volta capaci di prendere in mano la nostra esistenza per consegnarla nel gesto dell’offerta. La differenza che deve convenire la nostra ricerca non consiste tanto tra un pane materiale che colma una fame corporale e un altro genere di pane o di fame. La differenza sta nella logica diversa con cui ci rapportiamo alla nostra vita e a quella degli altri. Da una parte la logica vorace del possesso, dall’altra quella eucaristica e gratuita dell’offerta di sé. Per compiere il segno Gesù non aveva forse chiesto proprio questo ai discepoli? Che divenissero capaci di offrire tutto ciò che avevano, i duecento denari o quanto quel ragazzino poteva mettere a disposizione, perché la folla ricevesse tutto ciò di cui aveva bisogno? Questo è il pane che non perisce; un pane che dura perché ha la consistenza del dono di sé, che rimane, mentre al contrario presto svanisce o si imputridisce, come accadeva alla manna nel deserto, tutto ciò che tentiamo di possedere egoisticamente per noi e per il nostro vantaggio.

     «Il pane della vita, sono io», afferma con decisione Gesù al v. 35, e «chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!». Andare a Gesù, entrare in comunione con lui attraverso l’unica opera che Dio ci chiede di compiere, la fede, significa per il discepolo assumere la sua logica, o meglio lasciarsi introdurre in quel movimento di consegna che Gesù vive: donato dal Padre al fine di essere dono per il mondo. La vita che, facendosi pane, Gesù ci comunica, è la vita eterna. Una vita che dura, rimane, perché condivide la qualità stessa della vita di Dio. È la vita del mondo di Dio, del suo modo di essere, tutto attraversato e contrassegnato dalla logica del dono di sé: il dono della vita che il Padre fa al Figlio, che il Figlio accoglie e non disperde per donarla a sua volta agli uomini.

     Il «fate questo in memoria di me» che ripetiamo in ogni eucaristia assume in tal modo il suo spessore più vero. Ci nutriamo di questo pane di vita, che è Gesù, per divenire sua memoria vivente. Per saziarci di questo pane non dobbiamo fare molte opere o impegnare sforzi eccessivi: una sola è l’opera da compiere, la fede, come uno solo è il comandamento nuovo da vivere, l’amore (cfr. 13,34). La prospettiva di Giovanni è unitaria e unificante: c’è un solo pane di vita che ci sazia, il Signore Gesù; per entrare in comunione con lui è necessaria una sola opera, credere in lui, consentendo così alla vita che ci comunica di portare il suo unico frutto in noi, che è l’amore. In tal modo il dono che riceviamo non perisce, trattenendolo per noi stessi, ma rimane, come dono condiviso nella carità.

 

Preghiere e racconti

 

Il pane che ci unisce

Nello spezzare il pane insieme noi affermiamo la nostra condizione spezzata, anziché negare la sua realtà. Diventiamo più consapevoli che mai di essere presi, messi a parte come testimoni di Dio; di essere benedetti dalle parole e dagli atti della grazia; di essere spezzati, non per vendetta o per crudeltà, ma al fine di diventare un pane che può essere dato come cibo agli altri. Quando due, tre, dieci, cento o mille persone mangiano unite alla vita spezzata e versata di Cristo, esse scoprono che la loro stessa vita è parte di quell’unica vita e si riconoscono così a vicenda come fratelli e sorelle.

Vi sono pochi luoghi rimasti al mondo dove la nostra comune umanità può essere elevata e celebrata, ma ogni volta che ci riuniamo attorno ai semplici segni del pane e del vino noi abbattiamo molti muri e cogliamo un barlume delle intenzioni di Dio per la famiglia umana. E ogni volta che questo accade, siamo chiamati a preoccuparci maggiormente non soltanto del benessere dell’altro, ma anche del benessere di tutti nel mondo. Lo spezzare il pane dunque… ci mette in contatto con coloro il cui corpo e la cui mente è stata spezzata dall’oppressione e dalla tortura e la cui vita viene distrutta nelle prigioni di questo mondo. Ci mette in contatto con gli uomini, le donne e i bambini la cui bellezza fisica, mentale e spirituale rimane invisibile a causa della mancanza di cibo e di riparo…

Queste relazioni ci rendono davvero «uniti nel pane» e ci sfidano a operare con tutte le nostre energie per il pane quotidiano di tutti. In questo modo il nostro pregare insieme diventa un appello all’azione.

(Henri J.M. NOUWEN, Compassion, in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 197-198).

 

Quelli che mangiano di me avranno ancora fame

Dice la Sapienza: «Quelli che mangiano di me avranno ancora fame, quelli che bevono di me avranno ancora sete» (Sir 24,29). Cristo, Sapienza di Dio, non viene ora mangiato fino saziare il nostro desiderio, ma soltanto in una misura in cui rinnova il nostro desiderio di sazietà e più gustiamo la sua dolcezza, più il nostro desiderio viene ravvivato. Per questo quelli che lo mangiano avranno ancora fame, finché non giungeranno a sazietà. Ma quando il loro desiderio sarà stato colmato dai beni celesti, non avranno più né fame né sete (cfr. Ap 7,16). Le parole: «Quelli che mangiano di me avranno ancora fame» si possono intendere come riferite al mondo futuro perché c’è in questa sazietà eterna una specie di fame che non deriva dal bisogno, ma dalla felicità. Gli invitati al banchetto desiderano sempre mangiare e non si stancano di saziarsi. La sazietà non conosce fastidi e il desiderio sospiri. Cristo infatti, sempre ammirabile nella sua bellezza, è sempre pure desiderabile, lui «nel quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo» (1Pt 1,12). Così pur possedendolo lo si desidera, e mentre lo si possiede lo si cerca come sta scritto: «Cercate sempre il suo volto» (Sal 104 [105],4). Si cerca sempre colui che si ama per possederlo sempre. Così quelli che lo trovano lo cercano ancora, quelli che lo mangiano ne hanno ancora fame, quelli che lo bevono ne hanno ancora sete. Ma questa ricerca elimina ogni preoccupazione, questa fame scaccia ogni fame, questa sete estingue ogni sete. Non è la fame dell’indigenza, ma della felicità raggiunta.

(BALDOVINO DI FORD, Il sacramento dell’altare 2,3, SC 93, pp. 252-254)

 

L’effimero non soddisfa

 Che cos’è l’effimero? È ciò che il mondo produce e che offre alla tua fame, senza però poterla saziare. Sono i piaceri della vita, la gloria, il potere, la ricchezza e tutto ciò che popola la fiera delle vanità che gli uomini amano frequentare. Tuttavia non tutto ciò che è effimero è da condannare. Al contrario vi sono tante cose buone, il cui uso e possesso ci è donato dalla bontà del Creatore. La creazione stessa, benché sottoposta alla caducità, è un meraviglioso dono col quale l’Onnipotente desidera rallegrare le nostra vita qui sulla terra. Eppure le cose effimere, anche quando sono buone, possono trasformarsi in un pericolo per la nostra anima e in una illusione pericolosa nella nostra ricerca della felicità.

Come può accadere questo? Le cose effimere possono darti un’apparente sazietà e una falsa felicità. Il loro possesso ti soddisfa momentaneamente e ti illude di sentirti realizzato. Si tratta invece di una sensazione che dura poco, perché l’inquietudine, che sembrava assopita, si risveglia di nuovo e la fame riprende più vigorosa di prima. Quando ci si nutre di effimero non si è mai davvero sazi. La catena delle illusioni e delle delusioni si prolunga all’infinito, finché la corsa non si esaurisce, lasciando alla delusione l’ultima fatale parola. La bestia che è in noi «mai non empie la bramosa voglia e dopo ‘l pasto ha più fame che pria» (Dante, Inferno, I, 99). L’abilità del tentatore e quella di usare le cose finite, per quanto buone e belle possano essere, per trascinarti qua e là lungo le vie del mondo in modo tale che tu perda di vista la meta dell’eternità. Ti tiene al guinzaglio presentandoti il miraggio della felicità, senza però che tu possa assaporarne la realtà. La sua insuperabile astuzia consiste nel soffocare la tua fame di assoluto con l’abbondanza delle cose finite.

Gesù, dialogando con la donna samaritana, che aveva cercato nell’amore vagabondo di dissetare la sua sete di felicità, smaschera la tentazione e mette a nudo l’inganno del falsario: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete» (Gv 4,13) afferma mettendo il dito sulla piaga. Chi di noi potrebbe negarlo? Chi potrebbe affermare di essere felice col possesso di ciò che il mondo offre? Gesù è sicuro di quello che dice perché conosce come nessun altro il cuore dell’uomo. Lui, per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte, sa bene che l’uomo è stato creato “capace di Dio” e che non può essere felice se non dissetandosi al suo amore. Perciò aggiunge subito dopo: «Ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la via eterna» (Gv 4,14). Dunque non l’acqua che si attinge fuori di noi, ma quella che zampilla dentro di noi è capace di dissetarci e di renderci felici. […] Sappi che non perderai affatto il piacere per le cose belle della terra. Anzi, le gusterai ancora di più, secondo la promessa del vero Maestro degli uomini: «cercate il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta».

(Padre Livio Fanzaga, Fa’ posto a Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2009, 16-18).

 

Il pane vivo

Io sono il pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,51). Vivo precisamente perché disceso dal cielo […] I fedeli dimostrano di conoscere il corpo di Cristo, se non trascurano di essere il corpo di Cristo. Diventino corpo di Cristo se vogliono vivere dello Spirito di Cristo. Dello Spirito di Cristo vive soltanto il corpo di Cristo. Fratelli miei, capite quello che vi dico? Tu sei un uomo, possiedi lo spirito e possiedi il corpo. Chiamo spirito ciò che comunemente si chiama anima, grazie alla quale sei un uomo; sei composto infatti di anima e di corpo. E così possiedi uno spirito invisibile e un corpo visibile. Ora dimmi: qual è il principio vitale del tuo essere? E il tuo spirito che vive del tuo corpo o è il tuo corpo che vive del tuo spirito? Che cosa potrà rispondere chi vive? È il mio corpo che vive del mio spirito. Vuoi tu vivere dello Spirito di Cristo? Devi essere nel corpo di Cristo. Forse che il mio corpo vive del tuo spirito? No, il mio corpo vive del mio spirito, e il tuo del tuo. Il corpo di Cristo non può vivere se non dello Spirito di Cristo. È quello che dice l’Apostolo, quando ci parla di questo pane: Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo (ICor 10,17) . Mistero di amore! Simbolo di unità! Vincolo di carità! Chi vuoi vivere ha dove vivere, ha di che vivere. Si avvicini, creda, entri a far parte del Corpo, e sarà vivificato. Non disdegni di appartenere alla compagine delle membra, non sia un membro infetto che si deve amputare. […] Rimanga unito al corpo, viva di Dio per Dio; sopporti ora la fatica su questa terra per regnare poi in cielo.

(AGOSTINO, Commento al vangelo di Giovanni 26,13, in Opere di sant’Agostino, pp. 608-610).

 

Preghiera

Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno!

 

 * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVIII DOMENICA

XVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: 2Re 4,42-44

In quei giorni, da Baal Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.

 

 

v Il brano fa parte del ciclo di Eliseo (2Re 2,1-9,10; 13,14-21), del quale si narrano l’intervento negli affari politici del tempo, il ruolo da lui svolto nella rivolta di Iehu e i prodigi, fra cui questo della moltiplicazione delle primizie offerte all’uomo di Dio.

    Il possidente terriero proveniente da Baal Salisa (l’attuale Ketr-Tilt distante 26 km a ovest di Galgala), porta, secondo le prescrizioni di Levitico 23,17-18 («Porterete dai luoghi dove abiterete due pani per offerta con rito di agitazione, i quali saranno di due decimi di efa di fior di farina e li farete cuocere lievitati; sono le primizie in onore del Signore»), «il pane di primizia», fatto cioè con il raccolto dell’anno e destinato a Dio. Con la sua offerta esso vuole onorare l’uomo di Dio, che dal contesto risulta essere chiaramente Eliseo.

    La pietà del profeta verso la folla che soffre la fame a causa della carestia (v. 38) spinge Eliseo a dividere generosamente l’offerta con i cento discepoli dei profeti che lo seguivano. La quantità è sufficiente solo per venti dei presenti. L’obiezione del servo è motivata: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?» (v. 43a). Ma più forte della ragione umana è la fede del profeta nell’intervento di Dio: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”» (v. 43b).                                      

    Dio non delude chi confida nel suo nome e dona ai suoi eletti più di quanto sia necessario: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare» (v. 44).

 

Seconda lettura: Efesini 4,1-6

 Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.

 

 

v Questo brano della lettera agli Efesini presenta un discorso parenetico che ha per contenuto l’esortazione all’unità per mezzo dell’amore. Quello di Paolo è un premuroso incoraggiamento. È Paolo stesso, infatti, che invita in prima persona, presentandosi non solo come «l’Apostolo di Cristo», ma anche come «prigioniero a motivo del Signore».

    Per effetto della sua esperienza di sofferenza ha acquistato una sapienza delle cose divine e quindi può esortare i membri della comunità a una vita che corrisponda alla beneficenza divina. La condotta corrispondente si attua soltanto se i membri della Chiesa, rinunciando alla superbia, si lasciano guidare dall’umiltà collaborando col prossimo.

    Accanto all’umiltà si trova la mansuetudine o mitezza che consiste in un comportamento pacifico e paziente, dolce e amichevole che trae origine dal timore di Dio e dall’amore.

    All’umile mansuetudine si accompagna la magnanimità, dono dello Spirito, che è sopportazione paziente e longanime del prossimo e che sgorga dalla carità. Paolo completa e precisa il suo pensiero esortando i fedeli a sopportarsi nell’amore che avviene quando si perdonano reciprocamente, mantenendo e custodendo la pace.

    Ciò che i cristiani devono custodire, però, non è stato prodotto da essi, né deve essere da essi acquisito, ma è stato loro concesso e devono semplicemente custodirlo. Ciò che devono custodire è l’unità dello spirito: il pneuma (lo spirito), infatti, è la forza che produce e conserva l’unità. Chi è anche solo pigro nel custodire l’unità tiene una condotta indegna della sua vocazione, dimostrando di mancare di umiltà e mansuetudine, di pazienza e magnanimità, di libertà d’amore.

    L’unità si custodisce nel vincolo della pace, nella pace alla quale i fedeli sono stati ammessi quando hanno accolto la chiamata di Dio. L’esortazione a custodire l’unità è fondata e giustificata dal fatto che uno è il corpo, uno lo spirito ed unica anche la speranza. Non custodire l’unità dell’unico corpo significherebbe negare l’unità dell’unico spirito, ledere la nuova natura in cui i credenti vivono dal momento del battesimo. Significherebbe negare l’unità dell’unico Signore, della sola fede, del solo battesimo.

    Dall’unica Chiesa, attraverso l’unico Signore, lo sguardo dell’Apostolo giunge all’unico Dio, che è il supremo e più intimo fondamento dell’unità. In definitiva l’unità si fonda sul fatto che nei cristiani abita l’unico Dio.

 

Vangelo: Giovanni 6,1-15

In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

          

 

Esegesi

 

     Con una indicazione generica di tempo (v. 1: «Dopo questi fatti»), l’evangelista racconta un trasferimento di Gesù all’altra riva del lago di Galilea, cioè a quella orientale, e lo colloca lontano dalla città santa. Da dove venga la folla, che compare improvvisamente (v. 2: «… e lo seguiva una grande folla »), qui non è detto. Di un seguito di tanta gente non si fa mai parola nel Vangelo di Giovanni. Le folle inizialmente seguono Gesù per i segni che egli compie sugli infermi, ma ora partecipano al prodigio straordinario della moltiplicazione dei pani. Tuttavia, il giorno seguente, rifiuteranno la rivelazione del Figlio di Dio e non lo riconosceranno (6,26ss).

   Il monte (v. 3: «Gesù salì sul monte»), su cui Gesù si reca con i suoi discepoli, non è una montagna qualsiasi, ma il monte della Galilea. Monte teologico e punto fondamentale di interesse per i Sinottici che vi collocano i fatti più importanti della vita di Gesù. L’interesse di Giovanni è anch’esso teologico e non geografico e segue la tradizione biblica che presenta Dio che si rivela sul monte (il Sinai).

    Anche l’annotazione sull’imminenza della Pasqua ha un significato teologico e corrisponde pienamente allo stile dell’evangelista che inquadra i vari episodi della vita di Gesù nelle principali feste giudaiche (2,13; 7,2; 11,15). C’è però molto di più: Gv 6,4 sembra, infatti, porre la moltiplicazione dei pani sotto il segno della pasqua cristiana, l’Eucaristia.

   L’esplicitazione che la pasqua è la festa dei giudei sembra insinuare che al tempo dell’evangelista si celebrava un’altra pasqua (quella cristiana), riattualizzata nel sacramento dell’Eucaristia.

    Giovanni non si sofferma a sottolineare la compassione di Gesù per la folla. A differenza dei Sinottici, è Gesù che rivolge a Filippo la domanda per metterlo alla prova (v. 5: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?») e non i discepoli.

    Un acquisto rilevante di pane, quanto si sarebbe potuto comprare con un denaro (il salario giornaliero di un operaio), sarebbe stato ugualmente insufficiente. Lo sforzo umano, infatti, anche se generoso, è sempre insufficiente a saziare, mentre l’intervento del Verbo incarnato appaga non solo i bisogni dei presenti, ma di tutto il mondo, come insinua la raccolta dei dodici pezzi avanzati.

    L’informazione data da Andrea sul ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci è propria del quarto vangelo: solo Giovanni scrive che i pani erano d’orzo, per indicare che si tratta di cibo dei poveri e per rievocare l’analogo prodigio operato dal profeta Eliseo (2Re 4,42-44).

    Giovanni (ma anche i Sinottici) sottolinea che sul posto c’era molta erba tipico della primavera in Palestina. Questa osservazione concorda con quella di 6,4 sulla vicinanza della Pasqua. Il numero dei commensali, come la menzione dei gesti del Maestro, fanno parte della tradizione comune e sono riferiti allo stesso modo dai Sinottici.

    Le particolarità più rilevanti del quarto vangelo si trovano nell’uso del verbo eucharistéin (rendere grazie) che sostituisce eulogéin (benedire) dei Sinottici, nella presenza del participio anakéimenois (seduti) e nella distribuzione dei pani fatta da Gesù in persona. Nella moltiplicazione dei pesci adopera òpsos invece di ichthys.

    Anche l’ordine di radunare i pezzi avanzati è proprio di Giovanni. I Sinottici, infatti, non riportano questo ordine del Maestro.

    L’annotazione finale, sui dodici cesti di pezzi avanzati, dopo che le cinquemila persone si erano saziate, sottolinea per contrasto l’abbondanza e la ricchezza del dono di Gesù, come avviene alle nozze di Cana per il vino (Gv 2,1-11).

     Gv 6,14 descrive la reazione della folla dinanzi al prodigio straordinario e ricorda l’entusiasmo del popolo ebreo in attesa del Messia. Il Maestro è riconosciuto come il profeta atteso per la fine dei tempi dalla folla sfamata, ma il passo finale ci fa capire che l’entusiasmo messianico della folla è di carattere politico (6,15). La folla vuole rapire Gesù per farlo re, ma siccome la sua regalità è fraintesa dalla folla egli fugge sul monte (6,15), per sottrarsi al loro sguardo. 

 

L’immagine della domenica

  

 

Pellegrino

Quand’anche avessi percorso tutti i sentieri,

superato montagne e valli da est a ovest,

se non ho scoperto la libertà di essere me stesso,

allora non sono ancora arrivato.

(Fratello Dino)

 

Meditazione

     «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (v. 9). Effettivamente, davanti ad una folla di cinquemila uomini – senza contare le donne e i bambini – chi non si porrebbe una simile domanda? Che chiede, peraltro, risoluzione pressoché immediata! Ma, a ben pensarci, a ogni livello, da quello economico a quello educativo, da quello religioso a quello relazionale, chi si sente certo di poter offrire a ognuno ciò che gli è necessario per una crescita sana e completa? Chi non si sente inadeguato dinanzi al compito di diventare adulto, a qualunque epoca, situazione, cultura appartenga? Questa cruda constatazione non è conferma del detto ‘mal comune, mezzo gaudio’, ma forse ci aiuta a relativizzare le affermazioni spavalde di chi, magari politico, assicura la risoluzione di ogni problema in scioltezza…

     Ma torniamo al nostro brano, che ci pone drammaticamente dinanzi alla dimensione più essenziale della nostra stessa sussistenza: il cibo. Il pane, evidente immagine simbolica dell’elemento più elementare e necessario per la nostra vita, non c’è. O almeno, non c’è per tutti. La nostra superficialità e la nostra ricchezza occidentale ci permettono di riuscire a dimenticare che ogni giorno nel mondo migliaia di persone muoiono di fame e di sete. Le ragioni sono molteplici e il vangelo non è un testo di strategia socio-politico-economica (anche se questa dimensione non è esclusa). Eppure ci può aiutare ad affrontare in modo più corretto la totalità della nostra – e altrui – vita.

     Si può, ad esempio, osservare che se cinque pani e due pesci non sono praticamente nulla per un’immensa folla come quella che Gesù aveva raccolto attorno a sé, è altrettanto vero che sono tanti per una sola persona. Perché i beni essenziali sono nelle mani di pochi, di pochissimi? Una riflessione sulla nostra sobrietà e sulla nostra volontà di condivisione di quei beni che per essenza non possono diventare strumento di ricatto e di schiavitù verso altre persone meno fortunate di noi – perché solo di fortuna si tratta: che merito c’è nell’essere nato in una zona del mondo piuttosto che in un’altra? – si impone.

     Ma poi, ci poniamo questa domanda – «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (v 5) – oppure resta un optional per ‘anime belle’? Quale prezzo siamo disposti a pagare perché vi sia oggettivamente una migliore giustizia per tutti? Non a caso la domanda viene posta da Gesù. Il racconto di questo grande segno, riportato – unico caso nei vangeli, segno che effettivamente il fatto è storico e ha stupito non poco – anche da Matteo, Marco e Luca, ci svela impietosamente quale fu il suggerimento dato dai discepoli al Signore: «Congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare» (Mt 14,15). Detto altrimenti, ‘si arrangino’!

     Cosa fa allora Gesù? Innanzi tutto non fa un discorso: di ottimi e unanimemente condivisi principi morali e spirituali. Non lo fa nemmeno per prendere tempo. O meglio, il discorso lo tara, bellissimo e profondo, il più lungo mai riportato nei vangeli, capace di far interrogare tutti i presenti sul senso di quanto appena avvenuto (cfr. vv. 22-59). Ma, appunto, lo farà solo dopo aver agito, solo dopo aver preso a cuore questa impellente urgenza alimentare. E per prima cosa fa sedere i presenti (cfr v. 10), li mette comodi: c’è un desiderio e uno stile di qualità dietro questo particolare. Non si vuole ‘fare la carità’ – intendendo quest’espressione nel peggior modo possibile, ovvero mantenendo ben evidenti le distanze tra chi dona e chi riceve esasperando l’umiliazione degli indigenti – ma raggiungere una relazionalità accogliente, attenta, umana. Successivamente si parte da quello che si possiede, da quanto – seppur pochissimo che sia – viene messo a disposizione di Gesù. La rinuncia a trattenere solo per sé, con il rischio che tolga al possessore la propria sicurezza, è una forza inestimabile di condivisione. E Gesù ringrazia, il Padre e – certamente – anche l’offerente. E nelle mani di Gesù avviene la possibilità che ognuno trovi nutrimento sufficiente, anzi abbondante (cfr. vv. 11-13). Era già successo nei tempi antichi, quando un altro ragazzo, Davide, offrendo anch’egli la disponibilità a giocare tutta la sua vita e affidandosi alla forza di Dio, aveva vinto Golia con una fionda e qualche ciottolo di fiume (cfr. 1Sam 17).

     Solo Gesù è in grado di colmare la nostra fame e sete di vita, di una vita piena. Lui desidera nutrire la nostra esistenza, essere il cibo che rende bella e giusta la nostra vita. Ma lo vuole per tutti, proprio tutti.

  

Preghiere e racconti

 

Sofferenza

Se qualche volta la nostra povera gente è morta di fame, ciò non è avvenuto perché Dio non si è preso cura di loro, ma perché voi ed io non abbiamo dato, perché non siamo stati uno strumento di amore nelle sue mani per far giungere loro il pane e il vestito necessario, perché non abbiamo riconosciuto Cristo quand’egli è venuto, ancora una volta, miseramente travestito nei panni dell’uomo affamato, dell’uomo solo, del bambino senza casa e alla ricerca di un tetto.

Dio ha identificato se stesso con l’affamato, l’infermo, l’ignudo, il senza tetto; fame non solo di pane, ma anche di amore, di cure, di considerazione da parte di qualcuno; nudità non solo di abiti, ma anche di quella compassione che veramente pochi sentono per l’individuo anonimo; mancanza di tetto non solo per il fatto di non possedere un riparo di pietra, bensì per non aver nessuno da poter chiamare proprio caro.

(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1998, 28-29).

 

Questi è davvero il profeta

Furono riempite dodici ceste. Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale. Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi. Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo. Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede. Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi. Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: «Beati quelli che non vedono e credono» (Gv 20,29). Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire. Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo. Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? «Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta» (Gv 6,14). […] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: «Susciterò per loro un profeta simile a te» (Dt 18,18). Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà. E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli. Lo stesso Signore dice di se stesso: «Un profeta non riceve onore nella sua patria» ( Gv 4,44). Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta. Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli. Egli stesso è detto angelo del grande consiglio. E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr. Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 24,6-7, NBA XXIV, pp. 564-566).

 

Il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro

«Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».

È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.

Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).

 

 Quel lievito di un pane che non finisce

La moltiplicazione dei pani è qualcosa di così importante da essere l’unico miracolo presente in tutti e quattro i Vangeli. Più che un miracolo è un segno, fessura di mistero, segnale decisivo per capire Gesù: Lui ha pane per tutti, lui fa’ vivere! Lo fa’ offrendo ciò che nutre le profondità della vita, alimentando la vita con gesti e parole che guariscono dal male, dal disamore, che accarezzano e confortano, ma poi incalzano.

Cinquemila uomini, e attorno è primavera; sul monte, simbolo del luogo dove Dio nella Bibbia si rivela; un ragazzo, non ancora un uomo, che ha pani d’orzo, il pane nuovo, fatto con il primo cereale che matura. Un giovane uomo, nuovo anche nella sua generosità. Nessuno gli chiede nulla e lui mette tutto a disposizione; è poca cosa ma è tutto ciò che ha. Poteva giustificarsi: che cosa sono cinque pani per cinquemila persone? Sono meno di niente, inutile sprecarli. Invece mette a disposizione quello che ha, senza pensare se sia molto o se sia poco. È tutto! Ed ecco che per una misteriosa regola divina quando il mio pane diventa il nostro pane, si moltiplica. Ecco che poco pane condiviso fra tutti diventa sufficiente. C’è tanto di quel pane sulla terra, tanto di quel cibo, che a non sprecarlo e a condividerlo basterebbe per tutti. E invece tutti ad accumulare e nessuno a distribuire! Perché manca il lievito evangelico. Il cristiano è chiamato a fornire al mondo lievito più che pane (de Unamuno): ideali, motivazioni per agire, sogni grandi che convochino verso un altro mondo possibile. Alla tavola dell’umanità il cristianesimo non assicura maggiori beni economici, ma un lievito di generosità e di condivisione, come promessa e progetto di giustizia per i poveri.

Il Vangelo non punta a realizzare una moltiplicazione di beni materiali, ma a dare un senso a quei beni: essi sono sacramenti di gioia e comunione. Giovanni riassume l’agire di Gesù in tre verbi: «Prese il pane, rese grazie e distribuì». Tre verbi che, se li adottiamo, possono fare di ogni vita un Vangelo: accogliere, rendere grazie, donare. Noi non siamo i padroni delle cose, le accogliamo in dono e in prestito. Se ci consideriamo padroni assoluti siamo portati a farne ciò che vogliamo, a profanare le cose. Invece l’aria, l’acqua, la terra, il pane, tutto quello che ci circonda non è nostro, sono “fratelli e sorelle minori” da custodire. Il Vangelo non parla di moltiplicazione, ma di distribuzione, di un pane che non finisce. E mentre lo distribuivano non veniva a mancare, e mentre passava di mano in mano restava in ogni mano. Come avvengano certi miracoli non lo sapremo mai. Ci sono e basta. Ci sono, quando a vincere è la legge della generosità.

(Ermes Ronchi)

 

Il pane

Il pane, nutrimento basilare dell’uomo mediterraneo, diviene il segno della cura che Dio ha per l’uomo e del suo amore sovrabbondante nel racconto in cui venti pani d’orzo, “secondo la parola del Signore” trasmessa dal profeta Eliseo, sfamano cento persone e ne avanza perfino (I lettura). Nel vangelo, cinque pani d’orzo e due pesci, mediante i gesti e le parole di Gesù, sfamano cinquemila persone e anche in questo caso avanza molto cibo. Più che di moltiplicazione, occorre parlare di condivisione e di dono.

L’iniziativa di sfamare le folle non viene dai discepoli (come nei sinottici), ma direttamente da Gesù. Non è motivata neppure dalla compassione nei confronti di folle stanche o smarrite (come in Mc 6,34; 8,2; Mt 15,32). Il gesto di Gesù è sovranamente gratuito: è un’azione, non una reazione. Nasce solo dal suo sguardo sulla folla in quel tempo prossimo alla Pasqua (cf. Gv 6,4). E così il gesto appare rivelativo: sia in rapporto al Dio che nella Pasqua compirà il suo amore sovrabbondante per l’uomo donando il suo stesso Figlio per la vita del mondo, sia in rapporto all’uomo e alla sua fame non dovuta a particolari circostanze, ma fondamentale, costitutiva. Questa fame non è una disgrazia, ma la verità umana ordinata alla verità di Dio che la precede e la fonda e che è il desiderio di Dio di consegnarsi all’uomo per aver comunione con lui e perché l’uomo abbia la vita in abbondanza.

Il pane è il simbolo più adeguato per esprimere il bisogno dell’uomo e l’amore di Dio. Tutta la storia di salvezza può essere riassunta nel gesto con cui Dio “dà il pane a ogni creatura” (Sal 136,25). Realtà umanissima, il pane è simbolo di vita e riunisce in sé il riferimento alla natura e alla cultura, alla terra, al lavoro dell’uomo, alla sua corporeità, alla sua fondamentale povertà, alle dimensioni della convivialità e dell’incontro, della socialità e della comunione, insomma di tutto ciò che dà senso alla vita sostentata dal pane. Il pane simbolizza tutto ciò che è essenziale per la vita. Il gesto eucaristico di Gesù (“prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì”: Gv 6,11) indica sia l’eucaristia come luogo di incontro di Dio con l’uomo sotto il segno della gratuità, dell’amore sovrabbondante ed eccessivo, del dono che non può essere contraccambiato, sia l’essenzialità del ringraziamento che l’uomo è chiamato a fare prima di mangiare, di fronte a ogni cibo, come confessione di fede che la vita non viene da lui ma è dono. Nel momento dello sfogo dell’appetito basilare della creatura, il ringraziamento immette una distanza tra sé e il proprio bisogno che restituisce l’uomo alla propria verità confessando il Dio signore della vita. La folla coglie correttamente il gesto di Gesù come segno che rivela qualcosa della sua identità profonda (cf. Gv 6,14), ma ne trae conseguenze che Gesù rigetta in modo netto. Sapendo che volevano farlo re, Gesù si ritira in solitudine sulla montagna (cf. Gv 6,15). La sua regalità è altra e apparirà nella paradossale gloria del Crocifisso. Gesù rifiuta la logica mondana di re e governatori che chiede potere e legittimazione del proprio dominio in cambio di elargizioni di mezzi di sussistenza.

Gesù si rifiuta di umiliare la fame “ontologica” dell’uomo, il bisogno umano, sfruttandolo per sé, e di attentare alla gratuità di Dio, facendone mercato. Gesù si ritira, “fa anacoresi”, persino “fugge”, secondo alcuni testimoni della tradizione manoscritta (Gv 6,15). Fugge chi di un profeta vuole fare un re, chi da un gesto di amore e di rivelazione vuole trarre un’istituzione politica. Fugge chi lo applaude e lo acclama, fugge persino i propri discepoli, mostrando che a volte l’arte della fuga è l’unica possibilità di salvaguardare la qualità e la dignità della propria vita e l’evangelicità della propria fede. Gesù fugge, ma non per isolarsi, bensì per trovarsi insieme con il Padre. Fugge nella solitudine abitata della sua comunione con il Padre. Gesù è “tutto solo” (Gv 6,15). Ma dice altrove Gesù: “Io non sono solo, perché il Padre è con me” (Gv 16,32).

(Luciano Manicardi)

 

Offerta al mondo

Noi cittadini e cittadine del mondo,

gente del cammino, gente che cerca,

eredi del legato di antiche tradizioni,

vogliamo proclamare:

– che la vita umana è, per se stessa, una meraviglia;

 che la natura è la nostra madre e il nostro focolare,

 e che dev’essere amata e preservata;

– che la pace dev’essere costruita con sforzo,

 con la giustizia, col perdono e la generosità;

– che la diversità di culture

 è una grande ricchezza e non un ostacolo;

– che il mondo ci si presenta come un tesoro

 se lo viviamo in profondità,

 e le religioni vogliono essere dei cammini

 verso tale profondità;

– che, nella loro ricerca, le religioni trovano forza e senso

 nell’apertura al Mistero inafferrabile;

– che fare comunità ci aiuta in questa esperienza;

– che le religioni possono essere un punto di accesso

 alla pace interiore, all’armonia con se stesso e col mondo,

 ciò che si traduce in uno sguardo ammirato, gioioso e grato;

– che noi che apparteniamo a diverse tradizioni religiose

 vogliamo dialogare tra di noi;

– che vogliamo condividere con tutti

 la lotta per fare un mondo migliore,

 per risolvere i gravi problemi dell’umanità:

 la fame e la povertà,

 la guerra e la violenza,

 la distruzione dell’ambiente naturale,

 la mancanza di accesso ad un’esperienza profonda di vita,

 la mancanza di rispetto per la libertà e la differenza;

– e che vogliamo condividere con tutti

 i frutti della nostra ricerca

 delle aspirazioni più alte dell’essere umano,

 nel rispetto più radicale di ciò che ciascuno è

 e col proposito di poter vivere tutti insieme

 una vita degna di essere vissuta.

(Testo elaborato dalle diverse tradizioni religiose radunate per il IV Parlamento delle Religioni del Mondo, a Barcellona nel 2004).

 

Rese grazie per insegnarci a rendere grazie

Il fatto che Gesù sollevasse gli occhi e vedesse venire la moltitudine è segno della compassione divina, perché egli è solito andare incontro con il dono della misericordia celeste a tutti quelli che desiderano venire a lui. E perché non si perdano nel cercarlo, è solito aprire la luce del suo spirito a coloro che corrono a lui. Che gli occhi di Gesù indichino spiritualmente i doni dello Spirito, lo testimonia Giovanni nell’Apocalisse; costui, parlando di Gesù simbolicamente, dice: «Vidi un agnello che stava in piedi, come sgozzato, con sette corna e sette occhi, che sono gli spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6). […] Il Signore diede i pani e i pesci ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Il mistero dell’umana salvezza iniziò a narrarlo il Signore e dai suoi ascoltatori è stato confermato fino a noi. Spezzò i cinque pani e i due pesci e li distribuì ai discepoli quando svelò loro il senso per comprendere ciò che su di lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (cfr. Lc 24,44-45). I discepoli li offrirono alla folla quando «predicarono dovunque con l’aiuto del Signore, che confermava la parola coi miracoli che l’accompagnavano» (Mc 16,20). […] E non bisogna trascurare che quando fu sul punto di rifocillare la folla, Gesù rese grazie. Rese grazie per insegnare anche a noi a rendere sempre grazie per i doni celesti che riceviamo e per mostrarci quanto egli stesso gioisce dei nostri progressi, della nostra rigenerazione spirituale. […] Saziata la moltitudine, Gesù comandò ai discepoli di raccogliere gli avanzi perché non andassero perduti. «Li raccolsero e riempirono dodici canestri di avanzi» (cfr. Mc 6,43). Poiché con il numero dodici si è soliti indicare la somma della perfezione, con i dodici canestri pieni di avanzi si intende tutto il coro dei dottori spirituali, ai quali viene ordinato di radunare, meditare, consegnare allo scritto e conservare per uso proprio e del popolo i passi oscuri delle Scritture che il popolo da sé non riesce a comprendere. Così hanno fatto gli apostoli e gli evangelisti inserendo nelle loro opere non poche citazioni della Legge e dei Profeti da loro interpretate in modo spirituale. Così hanno fatto alcuni loro discepoli, maestri della chiesa su tutta la terra studiando accuratamente interi libri dell’Antico Testamento, e anche se sono strati disprezzati dagli uomini, sono ricchi del pane della grazia celeste.

(BEDA IL VENERABILE, Omelie sul vangelo 2,2, CCL 122, pp. 195-198).

 

Preghiera

Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.

Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà. Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre. Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di essere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza. Tu mi ripeti, Gesù, che proprio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.

Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVII DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

 

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Amos 7,12-15

In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».

Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».

     

 

v Il brano — unico cenno biografico del libro — riferisce la polemica tra Amos e la classe sacerdotale, legata alla corte e al potere. Il sacerdote Amasia accusa Amos di cospirazione contro il re, e vuole cacciarlo dal santuario di Betel, ma Amos risponde con la serena consapevolezza della propria fedeltà alla missione ricevuta dal Signore.

     Non ci sono particolari motivi per negare un fondamento storico all’episodio, anche se non è semplice identificare l’attività e la condizione sociale del profeta nel suo luogo d’origine.

     vv. 12-13 – Il discorso di Amasia è ben costruito, con un sapiente uso del parallelismo e una cadenza ritmata, anche se sono tradotti in prosa. Evidente l’alterigie e il sarcasmo di chi si ritiene investito della funzione ufficiale di vegliare sull’istituzione regale.

     Amos è chiamato «veggente» (chozeh) e non profeta (nabi’), ma questo di per sé non ha un accento spregiativo; la terminologia è varia e oscillante, specialmente per i profeti più antichi. Si sottolinea la contrapposizione fra i due regni: Amos, originario di Giuda, svolge il suo ministero in Samaria, e Amasia si ritiene autorizzato a respingerlo al suo paese. Il santuario di Betel è infatti un «tempio del regno», quasi un’istituzione politica, più che religiosa. Ritornato nel regno del Sud, Amos potrà tranquillamente guadagnarsi da vivere; nel Nord invece la sua attività è considerata sovversiva e pericolosa.

     vv. 14-15 – Nella sua replica Amos afferma con forza la propria vocazione profetica. Egli non è stato sempre profeta, né ha mai appartenuto alle confraternite o scuole di profeti che allora abbondavano in Palestina. Al contrario, era un allevatore o un contadino, aveva un lavoro e forse delle proprietà che gli consentivano di vivere dignitosamente, senza dover ricorrere, come sembra insinuare Amasia, alla carità pubblica presso i santuari.

     È il Signore che lo ha chiamato da dietro il gregge — come Mosè: cf. Es 3,1 —, e alla sua vocazione non si disobbedisce: è fuori discussione quindi che Amos abbandoni la sua missione.

     Qualche incertezza nell’identificare esattamente il precedente mestiere di Amos: il v. 14 sembra alludere all’allevamento di bovini, mentre il 15 parla di «gregge», quindi di ovini. Quanto al sicomoro, la cui corteccia veniva incisa per utilizzarne i succhi, Amos sarebbe stato proprietario delle piante, da cui ricavava il foraggio per il suo bestiame. Sia che fosse un pastore o un incisore di sicomori, sia che fosse proprietario di terre o bestiame, in ogni caso Amos viveva del suo lavoro e non era profeta prima della vocazione.

 

Seconda lettura: Efesini 1,3-14

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.

  In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo. In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto,  avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.

 

 

v La lettera agli Efesini, come quella ai Colossesi cui è molto vicina, fa parte delle cosiddette deuteropaoline, attribuite a Paolo secondo l’uso antico, ma dovute a una posteriore scuola paolina.

     Il brano 1,3-14, inserito tra l’indirizzo e la preghiera di ringraziamento, costituisce un blocco monolitico, quasi un prologo alla lettera. È una benedizione, secondo la prassi liturgica giudaica, formata da un unico periodo in cui si susseguono frasi concatenate, quasi senza pause.

     Il v. 3 – la formula di benedizione — è introduttivo. Il verbo benedire (euloghein) è ripetuto due volte, con sensi diversi: lodare Dio (da parte nostra), beneficare il popolo (da parte di Dio). Duplice anche il riferimento a Cristo: se ne afferma la relazione singolare con il Padre e la qualifica di Signore, e la sua opera salvifica: siamo salvati per mezzo di Cristo e in quanto incorporati a Lui nella Chiesa.

     La prima parte – vv. 4-10 – descrive i contenuti della benedizione, con una serie di verbi con soggetto Dio:

     1. l’elezione e la predestinazione alla filiazione divina (vv. 4-6a)

     2. la grazia della redenzione (vv. 6b-7)

     3. la conoscenza del piano salvifico (vv. 8-10), culmine dell’azione benedicente di Dio. Dio ha stabilito dall’eternità che Cristo sia l’amministratore dei tempi nuovi della salvezza, e rappresenti perciò la pienezza del tempo e della storia. «Ricapitolare» (anakephalaiosasthai) tutto in Lui significa portare all’unità tutto ciò che è frammentato e disperso, e anche sottoporre tutto il creato a Lui come capo di tutta la realtà.

     La seconda parte – vv. 11-14 – descrive l’impatto storico della benedizione sulla comunità, con l’alternanza dei soggetti noi/voi:

     1. il primo «noi» indica la comunità giudeo-cristiana, in cui Paolo si identifica, e la sua modalità di accesso alla salvezza: l’elezione divina, per cui la comunità diventa proprietà di Dio, come Israele (vv. 11-12).

     2. il «voi» indica gli etno-cristiani, destinatari della lettera, e la loro modalità di appropriazione della salvezza (v. 13).

     3. il secondo «noi» è inclusivo delle due componenti. Lo Spirito è caparra — acconto che garantisce — della salvezza per tutti i credenti (v. 14).

     È una benedizione motivata dall’esperienza e dal riconoscimento dell’iniziativa salvifica di Dio, caratterizzata dall’economia trinitaria.

 

Vangelo: Marco 6,7-1

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.  E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

 

 

Esegesi

     La pericope della missione ai Dodici appare slegata dal contesto ed è quindi difficile la sua collocazione storica nella vita di Gesù. Marco pone l’episodio tra la predicazione a Nazaret e il martirio del Battista, e narra il ritorno dei discepoli prima della moltiplicazione dei pani (cap. 6). Si riconoscono molti contatti con i paralleli sinottici, Mt 10,1.5-15 e Lc 9,1-6.

     Sembra che Marco desideri limitare al minimo la parte relativa all’insegnamento del ministero degli Apostoli: il contenuto della proclamazione non è infatti precisato, e il v. 12 si limita a un generico invito alla conversione.

     L’importanza della missione tuttavia è fuor di dubbio, e sufficientemente testimoniata dalla relazione che ne fanno i tre evangelisti.

     v. 7 – L’espressione «i Dodici» è cara a Marco. Bene attestata nell’ambiente giudaico la pratica di lavorare in coppia (cf. i discepoli del Battista e Paolo). Il «potere sugli spiriti immondi» è indicato più avanti, quando si dice che i discepoli riescono a operare un esorcismo (9,18).

     vv. 8-9 – Le indicazioni di Gesù sull’equipaggiamento dei discepoli mostrano l’urgenza della missione: non ci si può attardare nei preparativi. Matteo e Luca vietano, tra l’altro, anche di portare con sé un bastone, permesso invece da Marco: indizio forse dei pericoli che presentava la situazione in cui fu scritto questo vangelo.

     Il senso generale è comunque quello di testimoniare distacco dai bisogni terreni e fiducia in Dio. Il discepolo è libero da paure e ansietà per quanto riguarda le necessità quotidiane della vita: i gigli del campo e gli uccelli del cielo gli sono di esempio.

     vv. 10-11 – L’ospitalità ricevuta e semplicemente accettata enfatizza l’importanza e la santità della missione. Il gesto di «scuotere la terra sotto i piedi» era compiuto dal giudeo al ritorno da una terra pagana, quasi a evitare ogni contatto tra il mondo pagano e la terra d’Israele. Qui il gesto è rivolto, non ai pagani in quanto tali, ma a chiunque rifiuta di accogliere il messaggio evangelico.

     L’espressione «a testimonianza per loro» va intesa come una direttiva per un cambiamento del cuore, della mentalità: una conversione. Il senso del termine greco non è quello di un giuramento «contro qualcuno», ma piuttosto del «mettere in guardia».

     vv. 12-13 -La predicazione è appena accennata, con parole familiari in Marco. Nuova (solo 3x nel N.T.: Lc 10,34 e Gc 5.14) è l’azione di «ungere (aleipho) con olio (elaion)» i malati, cui Marco attribuisce un’efficacia miracolosa per la guarigione. 

 

 

L’immagine della domenica


 

«Niente di più bello

che trovare camminando

ciò che unicamente

camminando si cerca».


Meditazione 

    Dopo l’insuccesso sperimentato da Gesù nella propria patria, l’evangelista Marco ci narra l’invio dei Dodici in missione. La deludente e fallimentare visita a Nàzaret non distoglie Gesù dalla sua attività missionaria; al contrario, egli sembra voler ancor più ampliare e intensificare il suo raggio d’azione chiamando i Dodici a collaborare alla sua opera di evangelizzazione. Ciò che finora ha fatto lui solo, ora è affidato anche alle mani e alla bocca dei suoi collaboratori.

    In 3,13-19, riferendo la chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici, Marco ne sottolinea i due scopi principali: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14). Da allora i Dodici hanno sempre accompagnato Gesù, condividendo la sua vita, ascoltando il suo insegnamento e assistendo ai suoi gesti prodigiosi. Ora è giunto il momento di porre in atto il secondo scopo indicato dal ‘programma’ apostolico: l’invio in missione. «E prese (lett. cominciò) a mandarli…» (v. 7). Abbiamo qui un inizio, una nuova tappa del cammino di sequela dei Dodici. È la prima volta, infatti, che vengono «mandati» (apostéllein) ed è significativo che solo dopo aver eseguito la loro missione saranno designati con il nome di «apostoli» (apostólous, inviati, mandati: v. 30).

    Quando chiama (al v. 7 ricompare, per la seconda volta, lo stesso verbo della prima chiamata: proskaleîtai, «chiama a sé»; cfr. 3,13), Gesù lo fa sempre in vista di una missione, la sua è sempre una chiamata per. Così che la missione fa intrinsecamente parte della vocazione apostolica, della vocazione della Chiesa e di ogni vocazione. Non è qualcosa che si aggiunge in un secondo tempo alla sua struttura costitutiva: ne fa parte sin dall’inizio. E ciò che va ricordato al riguardo è che Dio sceglie sempre chi vuole, indipendentemente dalle sue qualità umane e spirituali, dalla sua condizione sociale, dal suo livello di preparazione culturale. Ne è un esempio il profeta Amos (prima lettura), semplice pastore e raccoglitore di sicomori, che il Signore un bel giorno, senza il minimo preavviso, chiama (anzi «prende») e manda a profetizzare al suo popolo (Am 7,14-15). Anche in questo caso, nel medesimo istante in cui chiama, Dio affida una missione («Va’…»), senza lasciare al chiamato troppo tempo per meditarci sopra…

    Marco è l’unico evangelista a riferire che i Dodici sono inviati «a due a due». Certamente questo dato rispecchia la prassi della Chiesa primitiva (cfr. At 8,14; 13,2; 15,2.22; ecc.) e si fonda sul fatto che, secondo la prospettiva biblica, una testimonianza ha valore solo se convalidata da almeno due testimoni (cfr. Dt 19,15). Ma si può vedere in questo tratto qualcosa che non è estraneo alla natura stessa del messaggio che i missionari devono portare. Essi infatti non annunciano un sistema dottrinale o morale, ma la buona notizia del Regno, la vicinanza e la prossimità di Dio a ogni uomo, la comunione di vita che Egli vuole instaurare con tutti i suoi figli attraverso il Figlio suo. Per questo è importante vivere in prima persona questo messaggio di comunione, per evangelizzare anzitutto con la stessa vita e per rendere più credibile la parola che si proclama. Due persone formano già una piccola comunità (cfr. Mt 18,20), uno spazio cioè in cui è possibile vivere la relazione, la condivisione, il mutuo affetto e l’amore reciproco. Quando si è in due, poi, ci si può sempre aiutare e sostenere vicendevolmente, «infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro…» (Qo 4,9-12). E questo semplice fatto dell’andare insieme, a due a due, può essere già una ‘buona notizia’ per l’uomo di oggi, tanto afflitto dal male della solitudine e dell’isolamento…

    Nelle istruzioni che Gesù dà ai Dodici al momento della loro partenza (ossia come devono equipaggiarsi per il viaggio e come devono comportarsi quando arrivano in un determinato luogo) non viene precisato né dove essi devono andare, né cosa devono dire: c’è solo questo andare in coppia, con un «potere» ricevuto per delega (quello sugli «spiriti impuri» che, in primo luogo, spetta solo a Gesù) e con un bastone, unico ‘bagaglio’ da avere con sé. I missionari devono andare ‘nudi’ e ‘leggeri’, consci di non avere nulla da offrire se non la parola stessa di Gesù e il suo potere, necessario per affrontare coraggiosamente la stessa lotta che egli ha ingaggiato contro lo spirito del male. Questa povertà estrema, questa sobrietà radicale, questa spoliazione assoluta che deve caratterizzare la missione non è un aspetto secondario, anzi: ne è la condizione indispensabile. Perché il vangelo si annuncia anzitutto con uno stile di vita connaturale al vangelo stesso, che insegna ad affidarsi a Dio non confidando in se stessi (perché, comunque, Lui si prende in ogni caso cura dei suoi figli più che degli uccelli del cielo e dei gigli del campo), che manifesta l’amore privilegiato di Dio per i più poveri (e quindi predilige anche i mezzi poveri), che spinge ad andare incontro a tutti senza fare discriminazioni di sorta (e quindi ad accettare con gratitudine l’ospitalità di chiunque senza cercarne una migliore). In questo la Chiesa di ogni tempo è sempre chiamata a confrontarsi e a verificarsi.

    Il discorso ai missionari si chiude con una nota ‘domestica’ e, altresì, ‘drammatica’. Il «rimanere in una casa» (v 10) apre uno squarcio sulla dimensione intima, familiare, quotidiana della vita. La parola evangelica ha bisogno di incarnarsi in primo luogo lì, nel tessuto più ordinario dell’esistenza, tra le mura dove nasce e cresce l’amore, dove si imparano a vivere le relazioni, ma dove anche cominciano a sorgere le prime sofferenze, le prime incomprensioni, le prime rotture. «Casa» dice luogo dove si abita, si dimora; così Dio vuole abitare, prendere dimora in ogni nostra casa.

    Ma questa stessa «casa» può diventare luogo di rifiuto di non accoglienza. «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero. » (v. 11). Sembra quasi che la parola del vangelo abbia difficoltà a trovare un terreno buono in cui porre radici tanto e sottolineato, nel nostro testo, il rilievo dato alla chiusura, all’opposizione. Il rifiuto è messo in preventivo fin dall’inizio. Ma questo non deve scoraggiare il discepolo (non è stato così anche per il suo Maestro?): egli deve solo portare a termine, con tutto l’impegno possibile, il compito affidatogli, lasciando poi a Dio il risultato. Nella certezza che la parola di Dio possiede una forza e una efficacia che gli permetteranno comunque di portare frutto. 

 

Preghiere e racconti

Hanno annunciato

“Signore, tieni presenti le loro minacce, e concedi ai tuoi servi di annunciare la tua Parola in tutta franchezza“. (At 4,29) 

Hanno annunciato che un sapone fa primavera,

hanno proclamato che un tipo di benzina

t’assicura il coraggio e formidabile potenza.

Hanno gridato per le piazze e sui tetti

le pseudosicurezze dell’uomo robotizzato.

Ma hanno taciuto il Verbo

e nelle loro bocche si è spenta perfino la parola:

la parola della vera amicizia e del cordiale saluto.

Hanno annunciato che la pace

è fatta di tante uova di cioccolata,

e della tredicesima, e di molte banconote,

di frigoriferi colmi d’ogni bene,

e di appartamenti in città con bagni di maiolica.

Ma la violenza è esplosa per le strade

e dalle uova di cioccolata sono nati serpenti

che celano nella coda mitra e bombe molotov.

O uomini e donne del nostro tempo,

noi manchiamo di vero annuncio,

perché manchiamo di conoscenza contemplativa.

Ignoriamo la parola che nasce dal Verbo di Dio

perché abbiamo smarrito il silenzio,

anzi ne abbiamo paura.

E lo uccidiamo perfino al mare e sui monti

a colpi di radioline e transistor.

Ma invano noi edifichiamo la città

se non è il Signore a costruirla con noi.

Se la sua Parola non ci penetra e non ci cambia

invano attendiamo la pace

da noi e dai nostri fratelli.

(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).

 

Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio

     Il Signore non solo ammaestra i Dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca. Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo. Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi. Ne manda dunque due. «Due sono meglio di uno», dice l’Ecclesiaste (Qp 4,9). Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né  pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà. Chi al vedere un apostolo senza bisaccia né pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti. […] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi. In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero. […] «Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13). Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio. Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: «Chi è malato chiami a se i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio» (Gc 5,14). Così l’olio serve a confortare nella sofferenza. Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.

(TEOFILATTO, Commento al vangelo di Marco 6, PG 123,548C-549C).

 

Il mio sì

Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato. Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio: un posto da nessun altro occupato. Poco importa che io sia ricco, povero disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome. Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro. Io ho la mia missione. In qualche modo sono necessario ai suoi intenti tanto necessario al posto mio quanto un arcangelo al suo. Egli non ha creato me inutilmente. Io farò del bene, farò il suo lavoro. Sarò un angelo di pace un predicatore della verità nel posto che egli mi ha assegnato anche senza che io lo sappia, purché io segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione.

(John Henry Newman).

 

Chi vive in Cristo sa che tutte le persone, anche i nemici, non appaiono per casualità

È Domenica, il giorno del riposo, e siamo stanchi per “tutto quello che abbiamo fatto e insegnato”. D’accordo, magari non siamo tutti missionari, e forse questa settimana non abbiamo predicato. Probabilmente non siamo entrati nella storia come gli apostoli, senza borsa né denaro; e può darsi che stiamo covando qualche rancore, e non abbiamo nessuna voglia di riconciliarci, altro che andare “a due a due”…

Ma il Signore lo sa, e per questo, attraverso la Chiesa, ci dona questo Vangelo, una Parola che c’entra sempre con la nostra vita. Ci è predicata perché ci illumini e si compia in noi. Apostoli o no, di sicuro “non abbiamo neanche il tempo di mangiare”.

Le settimane ci scorrono sotto il naso tra ufficio, spesa, scuola, banche, ospedali, palestra, riunioni di condominio; e poi i figli, il fidanzato, i suoceri, il cane che abbaia davanti alla porta, la spazzatura che tracima come un torrente gonfiato dalla pioggia, il piccolo con la febbre alta ma è finito l’antipiretico e sono le undici e mezza, dove sarà una farmacia di turno?

Se siamo preti, ecco le messe, catechismo, consiglio pastorale, riunione in decanato e mille altri incontri. E alla fine non abbiamo mai tempo per mangiare, per riposare davvero. Ma se non ci alimentiamo, e bene, il nostro fare ci distrugge. Infatti…

Quanti figli, mogli, mariti, amici, colleghi, conducenti della macchina davanti e parrocchiani pagano i nostri isterismi da iperattivismo… Troppi. Siamo sempre stanchi, angosciati, nevrotici, stritolati in agende fittissime che neanche Obama si sogna di avere.

E per alimentarci solo un fast-food spirituale, e che vuoi che sia un hamburger di preghiere, ci basta per stare in piedi, cioè in pace, dieci minuti scarsi. Ma questa Domenica di Luglio può essere diverso. Andiamo allora con Gesù in un “luogo in disparte, solitario”, per “riposarci un po’”. Impariamo cioè dal “riposo” di Gesù e degli apostoli come “fare” le cose di tutti i giorni.

Per esempio, nella messa di questa Domenica, il luogo dove imparare a vivere “separati”, cioè “santi”. E nella liturgia, come una saetta, il Vangelo vibra una parola tra le ore indaffarate delle nostre vite: “commozione”, che nel greco del Vangelo, è una parola vicinissima a “viscere”, la fonte della vita che risiede nel seno di una madre.

Gli apostoli dunque, vanno inviati da un amore più grande, l’amore di una madre, assorbito nell’intimità con il Signore. La missione, qualunque missione, si svela nel cuore di Maria, ferito dall’amore, come quello del suo Figlio: “Chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 37).

Predicano, annunciano, guariscono, ma poi tornano e si rifugiano dal loro Amato, il Signore che li “rapisce” in un luogo di riposo. Sono questi i ritmi autentici della vita, segnati dall’intimità con il Signore: da Lui, per Lui, con Lui, a Lui. Secondo la Scrittura condensata nel Vangelo di oggi, questa intimità ha un luogo, il deserto.

Questo, nella Bibbia, è il luogo della memoria dell’amore e dell’ascolto dell’Amato: è il luogo del primo amore, quello a cui ritornare sempre per non abbattersi di fronte alle difficoltà: “Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata” (Ger. 2,2).

Ma il deserto, in ebraico “midbar”, è anche il luogo-simbolo dell’ascolto della Parola, in ebraico: “dabar”; al centro della missione vi è dunque un luogo dove amare, e dove amare è ascoltare, perché ascoltare è obbedire, e dove vi è l’obbedienza vi è sempre il puro amore. Nel deserto cresce l’amore degli apostoli, nell’ascolto obbediente della parola di Gesù la fede si fa adulta.

Come Maria, come fu chiamata dai Padri, la Chiesa diviene il “deserto fiorito”, la debolezza rivestita della Grazia, l’assemblea convocata per ascoltare la Parola che ha il potere di trasformare il deserto dell’impossibile umano nel giardino del possibile di Dio.

Il deserto è così l’esperienza che si fa memoriale e fondamento per ogni missione, anche la più difficile, anche quella che conduce al martirio, sia esso quello del sangue, sia esso quello di una predicazione in una terra indifferente, o quello di un giovane che voglia vivere un fidanzamento casto, o quello di una madre e un padre che accolgono il settimo figlio, o quello di chi non resiste al male e, a scuola, in ufficio, ovunque, si lascia privare dell’onore offrendo l’altra guancia.

Il deserto infatti è anche il luogo della prova. Nel Deuteronomio è scritto: “Il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire” (Dt. 8,14-16).

Si tratta delle prove conosciute da Israele nel cammino dell’Esodo, ma che evocano anche la dura prova della Donna dell’Apocalisse, perseguitata dal drago che vuole divorare il bambino appena nato. Questa donna è Maria, che ha conosciuto la prova della fede, la spada che le ha attraversato l’anima, come la lancia che ha ferito il costato del suo Figlio.

Nel deserto Maria fugge per esservi nutrita, esattamente come gli apostoli, e come la Chiesa durante i secoli. Nel mezzo delle angustie e delle persecuzioni sofferte per il Vangelo, il Signore dona a Maria e ai suoi figli le “ali della grande aquila” per volare nel deserto preparato per la Chiesa, per gli Apostoli, per ciascuno di noi, come un luogo di rifugio, un porto sicuro dove attraccare la barca della nostra vita; dove imparare l’amore nell’ascolto, dove sperimentare la potenza e la protezione di Dio, dove essere nutriti dall’unico alimento che sazia e rende capaci di qualunque cosa, come è stato per Elia che, nutrito dal cibo del Cielo, ha sfidato gli idoli uscendone vincitore.

Possiamo far mille cose, ma senza l’esperienza del deserto, senza vivere come in una cella dove essere con e per il Signore, tutto ciò che facciamo, fosse anche il miracolo più straordinario, non sarà altro che l’ennesima iniezione di fumo a riempire un vuoto abissale. Lo diceva San Paolo, si può far tutto, anche le cose più sante, ma senza la Carità, senza Cristo, è tutto fumo, vapore, vanità di vanità: “Occorre guardarsi, osservava San Bernardo, dai pericoli di una attività eccessiva, qualunque sia la condizione e l’ufficio che si ricopre, perché le molte occupazioni conducono spesso alla “durezza del cuore”, “non sono altro che sofferenza dello spirito, smarrimento dell’intelligenza, dispersione della grazia… Ecco dove ti possono trascinare queste maledette occupazioni, se continui a perderti in esse… nulla lasciando di te a te stesso” (Benedetto XVI, Angelus del 20 agosto 2006; San Bernardo, De consideratione, II, 3).

Fateci caso, anche nel riposo Gesù si “commuove”. Vuol dire che Gesù non viveva a compartimenti stagni, ma tutto quello che diceva e faceva sorgeva dalla sua “compassione”, dal suo sguardo materno che in tutti riconosceva delle “pecore senza pastore”.

Ecco, oggi il Signore ci dice che c’è un solo modo di vivere autenticamente, ed è quello di una madre che si “commuove”, cioè si “muove-con” il figlio che porta nel seno. Tutto di lei è per lui: i pensieri, i gesti, i minuti. Quando mangia sta attenta a quello che potrebbe fargli male, se c’è qualche pericolo sospende qualsiasi lavoro, perfino il riposo della notte dipende strettamente dal bimbo che porta in grembo. Non si appartiene più,è trasformata in vita da donare al suo piccolo.

Come una madre incinta, anche noi siamo chiamati a dare frutto per gli altri in tutto quello che facciamo. A “muoverci-con” le persone che Dio ci affida, ovvero ad amarle sino al punto di entrare nel loro dolore e nella loro gioia. A donare ogni frammento del nostro fare perché tutto nella nostra vita sia un segno della sollecitudine di Cristo. Anche la malattia che ti impedisce qualsiasi cosa, come il dolore, è amore che sgocciola dalle ferite del corpo e del cuore per la folla che soffre senza speranza.

Occorre allora guardarci dentro e chiederci che cosa ci muove: un’ansia che ci impedisce star fermi per non incontrare noi stessi, una nevrosi che cerca di dare senso all’inutile susseguirsi delle nostre ore vuote? oppure la commozione, le viscere stesse di Gesù che risuonano d’amore nelle nostre viscere, che ci proietta in un amore più grande? L’amore che si dimentica di se stesso, che non scrive appuntamenti sulle agende, che non fa conti, ma che, come pane spezzato, si da in pasto ad ogni uomo. Come ripeteva San Francesco: “Donandosi si riceve, dimenticando se stessi ci si ritrova”.

E questo è vero per ogni atto della nostra vita che si fa annuncio del Vangelo: sbrigare una pratica, cambiare un pannolino, fare la spesa, studiare, uscire con il fidanzato, andare al cinema o guardarsi una partita, “sbarcando” ogni giorno con Lui pieni di “commozione” di fronte a tutti quelli che “ci precedono”, dal marito o la moglie che incontriamo svegliandoci, ai figli, ai colleghi, a chi sale sulla metro con noi o sfioriamo al banco del mercato.

Ma la “compassione” nasce dall’essere stati a nostra volta oggetti della “compassione” di Gesù. Per questo oggi ci richiama all’ovile della Chiesa per “riposare” in Lui. E così, dalle “viscere” della comunità dove ci siamo ben alimentati, sapremo uscire ad annunciare le “molte cose” sperimentate a chi ancora vaga nella vita perché non ha conosciuto Cristo.

Chi vive in Cristo sa che le persone, tutte, anche quelle più moleste, anche chi si fa nemico, non appaiono nella vita per casualità: esse “precedono” i discepoli di Cristo; forse inconsapevolmente, o più realisticamente perché in qualche modo hanno intuito che nei cristiani vi è qualcosa di diverso, un barlume di speranza. Per questo un discepolo non si stupisce mai di quello che accade nella sua esistenza, perché ogni istante, ogni incontro, ogni fare è prezioso. Gli occhi della “commozione”, infatti, “capiscono” che ogni persona ci “precede” e non è lì per caso, perché “tutti cercano Lui” in noi, per non restare come “pecore senza pastore”.

(Don Antonello Iapicca)

  

I discepoli partono due a due, non soli

Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli… Ogni volta che Dio ti chiama, ti mette in viaggio. L’ha fatto con Abramo da Ur dei Caldei (alzati e va’); con il popolo in Egitto (lo condurrai fuori, nel deserto…); con il profeta Giona (alzati e va’ a Ninive); con Israele ormai installato al sicuro nella terra promessa.

Dio viene a snidarti dalla vita stanca, dalla vita seduta; mette in moto pensieri nuovi, ti fa scoprire orizzonti che non conoscevi. Dio mette in cammino. E camminare è un atto di libertà e di creazione, un atto di speranza e di conoscenza: è andare incontro a se stessi, scoprirsi mentre si scopre il mondo, un viaggio verso un altro mondo possibile.

Partono i discepoli a due a due. E non ad uno ad uno. Il loro primo annuncio non è trasmesso da parole, ma dall’eloquenza del camminare insieme, per la stessa meta. E ordinò loro di non prendere nient’altro che un bastone. Solo un bastone a sorreggere il passo e un amico a sorreggere il cuore.

Un elogio della leggerezza quanto mai attuale: per camminare bisogna eliminare il superfluo e andare leggeri. Né pane né sacca né denaro, senza cose, senza neppure il necessario, solo pura umanità, contestando radicalmente il mondo delle cose e del denaro, dell’accumulo e dell’apparire. Per annunciare un mondo altro, in cui la forza risiede nella creatività dell’umano: «l’annunciatore deve essere infinitamente piccolo, solo così l’annuncio sarà infinitamente grande» (G. Vannucci).

Entrati in una casa lì rimanete. Il punto di approdo è la casa, il luogo dove la vita nasce ed è più vera. Il Vangelo deve essere significativo nella casa, nei giorni delle lacrime e in quelli della festa, quando il figlio se ne va, quando l’anziano perde il senno o la salute… Entrare in casa altrui comporta percepire il mondo con altri colori, profumi, sapori, mettersi nei panni degli altri, mettere al centro non le idee ma le persone, il vivo dei volti, lasciarsi raggiungere dal dolore e dalla gioia contagiosa della carne.

Se in qualche luogo non vi ascoltassero, andatevene, al rifiuto i discepoli non oppongono risentimenti, solo un po’ di polvere scossa dai sandali: c’è un’altra casa poco più avanti, un altro villaggio, un altro cuore. All’angolo di ogni strada, l’infinito.

Gesù ci vuole tutti nomadi d’amore, gente che non confida nel conto in banca o nel mattone, ma nel tesoro disseminato in tutti i paesi e città: mani e sorrisi che aprono porte e ristorano cuori. Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. Dio chiama e mette in viaggio per guarire la vita, per farti guaritore del disamore, laboratorio di nuova umanità.

(Ermes Ronchi)

 

 la regola della missione è la condivisione

Quando un profeta è rifiutato a casa sua, dai suoi, dalla sua gente (cf. Mc 6,4), può solo andarsene e cercare altri uditori. Hanno fatto così i profeti dell’Antico Testamento, andando addirittura a soggiornare tra i gojim, le genti non ebree, e rivolgendo loro la parola e l’azione portatrice di bene (si pensi solo a Elia e ad Eliseo; cf., rispettivamente, 1Re 17 e 2Re 5). Lo stesso Gesù non può fare altro, perché comunque la sua missione di “essere voce” della parola di Dio deve essere adempiuta puntualmente, secondo la vocazione ricevuta.

Rifiutato e contestato dai suoi a Nazaret, Gesù percorre i villaggi d’intorno per predicare la buona notizia (cf. Mc 6,6) in modo instancabile, ma a un certo momento decide di allargare questo suo “servizio della parola” anche ai Dodici, alla sua comunità. Per quali motivi? Certamente per coinvolgerli nella sua missione, in modo che siano capaci un giorno di proseguirla da soli; ma anche per prendersi un po’ di tempo in cui non operare, restare in disparte e così poter pensare e rileggere ciò che egli desta con il suo parlare e il suo operare.

Per questo li invia in missione nei villaggi della Galilea, con il compito di annunciare il messaggio da lui inaugurato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete alla buona notizia” (Mc 1,15). Li manda “a due a due”, perché neppure la missione può essere individuale, ma deve sempre essere svolta all’insegna della condivisione, della corresponsabilità, dell’aiuto e della vigilanza reciproca. In particolare, per gli inviati essere in due significa affidarsi alla dimensione della condivisione di tutto ciò che si fa e si ha, perché si condivide tutto ciò che si è in riferimento all’unico mandante, il Signore Gesù Cristo.

Ma se la regola della missione è la condivisione, la comunione visibile, da sperimentarsi e manifestare nel quotidiano, lo stile della missione è molto esigente. Il messaggio, infatti, non è isolato da chi lo dona e dal suo modo di vivere. Come d’altronde sarebbe possibile trasmettere un messaggio, una parola che non è vissuta da chi la pronuncia? Quale autorevolezza avrebbe una parola detta e predicata, anche con abile arte oratoria, se non trovasse coerenza di vita in chi la proclama?

L’autorevolezza di un profeta – riconosciuta a Gesù fin dagli inizi della sua vita pubblica (cf. Mc 1,22.27) – dipende dalla sua coerenza tra ciò che dice e ciò che vive: solo così è affidabile, altrimenti proprio chi predica diventa un inciampo, uno scandalo per l’ascoltatore. In questo caso sarebbe meglio tacere e di-missionare, cioè dimettersi dalla missione!

Per queste ragioni Gesù non si attarda sul contenuto del messaggio da predicare, non dà raccomandazioni di tipo dottrinale, mentre entra addirittura nei dettagli sul “come” devono mostrarsi gli inviati e gli annunciatori. Per Gesù la testimonianza della vita è più decisiva della testimonianza della parola, anche se questo non l’abbiamo ancora capito. In questi ultimi trent’anni, poi, abbiamo parlato e parlato di evangelizzazione, di nuova evangelizzazione, di missione – e non c’è convegno ecclesiale che non tratti di queste tematiche! –, mentre abbiamo dedicato poca attenzione al “come” si vive ciò che si predica.

Sempre impegnati a cercare come si predica, fermandoci allo stile, al linguaggio, a elementi di comunicazione (quanti libri, articoli e riviste “pastorali” moltiplicati inutilmente!), sempre impegnati a cercare nuovi contenuti della parola, abbiamo trascurato la testimonianza della vita: e i risultati sono leggibili, sotto il segno della sterilità!

Attenzione però: Gesù non dà delle direttive perché le riproduciamo tali e quali. Prova ne sia il fatto che nei vangeli sinottici queste direttive mutano a seconda del luogo geografico, del clima e della cultura in cui i missionari sono immersi. Nessun idealismo romantico, nessun pauperismo leggendario, già troppo applicato al “somigliantissimo a Cristo” Francesco d’Assisi, ma uno stile che permetta di guardare non tanto a se stessi come a modelli che devono sfilare e attirare l’attenzione, bensì che facciano segno all’unico Signore, Gesù.

È uno stile che deve esprimere innanzitutto decentramento: non dà testimonianza sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare, sulla sua comunità, sul suo movimento, ma testimonia la gratuità del Vangelo, a gloria di Cristo. Uno stile che non si fida dei mezzi che possiede, ma anzi li riduce al minimo, affinché questi, con la loro forza, non oscurino la forza della parola del “Vangelo, potenza di Dio” (Rm 1,16).

Uno stile che fa intravedere la volontà di spogliazione, di una missione alleggerita di troppi pesi e bagagli inutili, che vive di povertà come capacità di condivisione di ciò che si ha e di ciò che viene donato, in modo che non appaia come accumulo, riserva previdente, sicurezza. Uno stile che non confida nella propria parola seducente, che attrae e meraviglia ma non converte nessuno, perché soddisfa gli orecchi ma non penetra fino al cuore. Uno stile che accetta quella che forse è la prova più grande per il missionario: il fallimento.

Tanta fatica, tanti sforzi, tanta dedizione, tanta convinzione,… e alla fine nulla: il fallimento. È ciò che Gesù ha provato nell’ora della passione: solo, abbandonato, senza più i discepoli e senza nessuno che si prendesse cura di lui. E se la Parola di Dio venuta nel mondo ha conosciuto rifiuto, opposizione e anche fallimento (cf. Gv 1,11), la parola del missionario predicatore potrebbe avere un esito diverso?

Proprio per questa consapevolezza, l’inviato sa che qua e là non sarà accettato ma respinto, così come altrove potrà avere successo. Non c’è da temere; rifiutati ci si rivolge ad altri, si va altrove e si scuote la polvere dai piedi per dire: “Ce ne andiamo, ma non vogliamo neanche portarci via la polvere che si è attaccata ai nostri piedi. Non vogliamo proprio nulla!”.

E così si continua a predicare qua e là, fino ai confini del mondo, facendo sì che la chiesa nasca e rinasca sempre. E questo avviene se i cristiani sanno vivere, non se sanno predicare… Ciò che è determinante, oggi più che mai, non è un discorso, anche ben fatto, su Dio, che non interessa più a nessuno; non è la costruzione di una dottrina raffinata ed espressa ragionevolmente; non è uno sforzarsi di rendere cristiana la cultura, come molti si sono illusi.

No, ciò che è determinante è vivere, semplicemente vivere con lo stile di Gesù: semplicemente essere uomini come Gesù è stato uomo tra di noi, dando fiducia e mettendo speranza, aiutando gli uomini e le donne a camminare, a rialzarsi, a guarire dai loro mali, chiedendo a tutti di comprendere che solo l’amore salva.

Così Gesù toglieva terreno al demonio (“cacciava i demoni”) e faceva regnare Dio su uomini e donne che grazie a lui conoscevano la straordinaria forza del ricominciare, del vivere e vivere ancora… Noi cristiani viviamo questo Vangelo oppure lo proclamiamo a parole senza renderci conto della nostra schizofrenia tra mente e vita? La vita cristiana è una vita umana conforme alla vita di Gesù, non una dottrina, non un’idea, non una spiritualità terapeutica, non una religione finalizzata alla cura del proprio io!

(Enzo Bianchi)

 

Portatrici dell’amore di Cristo

Cerchiamo di vivere lo spirito delle missionarie della carità fin dall’inizio, spirito di totale abbandono a Dio, di amorevole fiducia reciproca e di gioia in ogni situazione.

Se accettiamo veramente questo spirito, allora saremo sicuramente delle autentiche cooperatrici di Cristo, le portatrici del suo amore. Questo spirito deve irraggiare dal vostro cuore sulle vostre famiglie, sul vostro vicinato, sulle vostre città, sul vostro paese, sul mondo. Cerchiamo di aumentare sempre di più il capitale dell’amore, della cortesia, della comprensione e della pace. Il denaro verrà, se cerchiamo anzitutto il regno di Dio: allora ci sarà dato il resto.

(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Ed. San Paolo).

 

Una Chiesa missionaria

«Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo della vita si  apre al desiderio di condividere e comunicare la sua gioia, non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato agli “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio in tutta la comunità» (CVMC 46). «La Chiesa ha bisogno soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo» (CVMC 63).

 

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

parola del Padre a te ci rivolgiamo.

Custodisci i nostri propositi,

ravviva il nostro servizio ecclesiale,

sorreggi le nostre fatiche,

guida i nostri passi

nella ricerca delle vie più adatte

per annunciare il tuo vangelo.

La nostra povertà è grande,

noi non confidiamo in noi stessi, ma solo in te:

incoraggiaci, assicuraci, donaci la tua benedizione.

Tu che, con il Padre e lo Spirito Santo,

vivi e regni in noi nella tua Chiesa,

per tutti i secoli dei secoli. Amen.

(Paolo VI).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO

XV DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: Ezechiele 2,2-5

In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».        

 

v Nei capp. 1-3 del libro di Ezechiele troviamo raccolte alcune visioni avute dal profeta Ezechiele: la visione del «carro del Signore», che indica la mobilità di Dio che segue il suo popolo dovunque, anche in terra di esilio (1,4-28; 3,12-16) e la visione del libro, che sottolinea come le parole dette dal profeta sono in realtà parole di Dio (2.1-3,11). Si ritiene che la visione del libro fosse quella inaugurale, legata cioè alla visione di Ezechiele (nel 593 a.C.). La nostra breve I Lettura contiene appena gli inizi di questa suggestiva scena programmatica, in cui il Signore ordina al profeta di mangiare e assimilare il libro, ossia la sua Parola.

     Questi quattro versetti (vv. 2-5) andrebbero integrati nell’insieme della visione, per meglio coglierne la valenza profetica.

— Nella loro brevità, contengono preziose indicazioni sulle tre fondamentali coordinate di ogni missione: il mandante, il mandato, i destinatari.

     a) Mandante, colui che manda Ezechiele («io ti mando», v. 3) è il Signore Dio. Qui il profeta non lo contempla direttamente ma attraverso alcuni segni della sua presenza: uno spirito (= ruah) o forza divina che lo solleva e lo rende capace di ascolto (v. 2), la parola o voce (v. 3), una mano tesa contenente un rotolo (v. 9). Segni che velano la vera identità di Dio e ne sottolineano il mistero, la trascendenza.

     b) Mandato è il profeta, caratterizzato frequentemente (più di 90 volte) qui e altrove, come Figlio dell’uomo, figlio di Adamo tratto dalla terra, e pertanto essere debole, fragile, effimero. Nonostante questa sua condizione di estrema debolezza, il profeta è abilitato a parlare in nome di Dio, a riferirne le parole: Dice il Signore Dio (v. 4). Il fatto che il profeta è mandato ed esercita la sua missione («un profeta si trova in mezzo a loro», v. 5) dimostra — di per sé e indipendentemente dall’ascolto che avrà («ascoltino o non ascoltino») che Dio è presente nella storia del suo popolo e veglia sul suo piano salvifico. Il fatto stesso della presenza di un profeta prova l’interesse di Dio per il suo popolo.

     c) Destinatari della missione sono gli Israeliti, storicamente gli esuli delle 10 tribù del nord ed il resto del regno di Giuda. La storia lunga della loro infedeltà, considerata sia nel passato («i loro padri») che nel presente («di me fino ad oggi», v. 3) è caratterizzata come storia di ribelli non contro una legge o un patto, ma «contro di me» (cf. v. 5).

     Tre espressioni caratterizzano l’infedeltà degli israeliti:

— si sono rivoltati contro di me (v. 3), per la precisione si tratta del gesto arrogante con cui il suddito rifiuta il vassallaggio al proprio sovrano;

— hanno peccato (v. 3), cioè hanno trasgredito precisi obblighi e statuti che avevano con me;

figli testardi e dal cuore indurito (v. 4). Alla lettera: impudenti di faccia e duri di cuore. Il peccato si traduce in un duplice indurimento, interiore (cuore) ed esteriore (faccia), che solo un cuore di carne (cf. Ez 36,26) potrà eliminare.

 

Seconda lettura: 2 Corinzi 12,7-10

Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

 

 

v Ci troviamo all’interno della terza sezione della 2Cor, rappresentata dai capp.  10-13. È una sezione particolare che si può definire globalmente Apologia di Paolo (come fa la Bibbia di Gerusalemme) dai toni violenti e sferzanti: l’Apostolo difende il suo ministero contro alcuni «falsi apostoli» (11,13) che lo accusano e lo screditano davanti alla comunità di Corinto. L’Apostolo parla anche di se stesso, facendo in certo qual modo il proprio elogio. La lettura odierna rappresenta un momento importante di questa confessione autobiografica (11,22-12,13), riconoscendo che dietro la sua debolezza agisce la potenza di Dio (12,7-10).

     Siccome precedentemente ha parlato di favori e rivelazioni, Paolo parla ora di una prova particolare destinato a evitare che egli monti in superbia (v. 7).

     Il breve brano presenta alcuni punti, che vanno chiariti. Consideriamo le seguenti espressioni:

a) una spina nella carne, termine enigmatico, variamente interpretato nella storia dell’esegesi: malattia cronica, persecuzioni (padri latini e greci), tentazioni contro la castità (Gregorio Magno), ecc. Oggi si tende a vedere nella «spina» una malattia che poneva intralci e ritardi al ministero di Paolo.

b) un inviato di Satana, inteso in senso metaforico, esprime la convinzione ebraica secondo cui prove, disgrazie, sofferenze, vengono non da Dio, ma da Satana. È la stessa concezione che troviamo nel libro di Giobbe (cf. Gb 2.6).

c) mi vanterò, mi compiaccio (vv. 9.10), sono verbi che dovrebbero avere come oggetto realtà gloriose: vittorie, virtù, imprese, ecc. Paradossalmente qui hanno come oggetto delle condizioni di cui umanamente ci si vergogna: «debolezze», «infermità», «angosce», ecc.

d) quando sono debole, è allora che sono forte (v. 10). Altro noto paradosso.

     Questi paradossi esprimono questa convinzione di Paolo: è la potenza salvifica di Cristo che opera in lui quando è debole. Ecco perché non solo accetta le prove, ma addirittura si vanta e si compiace in esse.

 

Vangelo: Marco 6,1-6

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.  Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

 

Esegesi

     Dopo una serie di prodigi culminati nel racconto di una risurrezione (c. 5) si direbbe che Mc comincia a preparare il destino di condanna e di morte, cui Gesù va incontro, narrando le reazioni di scetticismo e di rifiuto che egli affronta nella sua stessa patria (6,1-6), cioè a Nazaret. È questo il brano del Vangelo di questa domenica.

— Lo stupore, in senso scettico, che l’insegnamento di Gesù desta nei suoi compatrioti, si esprime in una serie incalzante di cinque domande (vv. 2-3). Esaminiamone distintamente il senso:

     a) Prima domanda: Da dove gli vengono queste cose? (v. 2), «queste cose» sono le cose che insegna. L’insegnamento di Gesù potrebbe avere diverse origini, ed il dove? varie risposte: dal cielo o dagli uomini (cf. Mc 11,30), da Satana (3,22.30), ecc. Il fatto che, pur conoscendone il nome, i suoi compatrioti lo indichino ripetutamente dicendo «costui» esprime distanza e dubbio.

     b) Seconda domanda: dietro l’insegnamento c’è un certo tipo di sapienza che secondo gli ascoltatori egli non possiede da sé, ma gli è stata data. Questo passivo esige un completamento, un agente: sapienza data da chi? Le risposte possono essere due: o da Dio (passivo «divino»), o da Satana (passivo «diabolico»). Il fatto che i compatrioti si scandalizzino di lui (v. 3) indica che essi pensino alla seconda, non alla prima, possibilità.

     c) Terza domanda, relativa ai prodigi cui si assiste (vedi cap. 5). Se i prodigi avvengono attraverso le mani del taumaturgo, la domanda che ci si pone è: chi opera questi fatti tramite Gesù? Se si esclude che egli sia il Messia, non resta altra risposta che questa: non Dio, ma il diavolo opera questi strani miracoli.

     d) Quarta e quinta domanda, partono dall’origine di Gesù, nota a tutti, per affermare che non può essere il Messia, che invece — secondo la tradizione ebraica — non sarebbe stato conosciuto da nessuno, date le sue origini misteriose. Di Gesù si indica prima la nota professione personale, il falegname (non «il figlio del carpentiere» come in Mt 13,55), e poi le persone della sua parentela: figlio di Maria (probabilmente è avvenuta già la morte di Giuseppe), con «fratelli» e «sorelle» (congiunti) a tutti noti.

Ed era per loro motivo di scandalo (v. 3). «Scandalizzarsi» propriamente designa una caduta provocata da un inciampo (skándalon). Nel Nuovo Testamento spesso questo termine lo si indica in senso religioso, un’occasione di peccato, una seduzione all’apostasia e all’incredulità. Gesù diventa occasione di scandalo per i suoi compaesani, perché in certo senso ne provoca la caduta (peccato di incredulità) con il suo insegnamento e le sue azioni.

Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria (v. 4). Indirettamente e senza grosse polemiche, Gesù reagisce enunciando il principio del profeta disprezzato in patria; e non solo nel suo paese natio, ma anche tra i suoi parenti e nella sua stessa famiglia. Marco accentua questi due ultimi termini (parentela, famiglia) radicalizzando così il rifiuto che Gesù ha trovato tra i suoi (vedi 3,21). Dicendo «un profeta» e attribuendo a sè tale detto, in qualche modo Gesù rivendica la dignità e le prerogative del profeta escatologico rifiutato dagli altri.

E lì non poteva compiere nessun prodigio (5a). Frase apparentemente in contrasto con quella che segue: impose le mani a pochi malati e li guarì (5b). In realtà, l’evangelista non vuole assolutizzare il principio che l’incredulità escluda del tutto i miracoli e paralizzi la compassione di Gesù. Con il v. 5b vuole lasciarci un’impressione positiva.

Si meravigliava della loro incredulità (v. 6). Anche se ha enunciato il principio del v. 4 (un profeta non è disprezzato che…). Gesù prova un certo stupore verso l’incredulità dei suoi. Questo vuol dire che, benché sia di regola così, l’incredulità non è, per lui un fatto scontato, da accogliere con supina rassegnazione.

  

L’immagine della domenica

 

 

LE RADICI DELL’INNOCENZA

«Fuggi», «taci» e «prega»

indicano i tre modi di evitare

che il mondo ci plasmi a sua immagine

e sono, quindi, le tre vie alla vita nello Spirito.

(H.J.M. NOUWEN)


 Meditazione 

    La pagina evangelica di questa domenica ci narra la visita di Gesù alla sua città natale. È la prima volta che Gesù, dall’inizio del suo ministero pubblico, fa ritorno nella sua patria. A Nazaret «era stato allevato» (Lc 4,16) e aveva trascorso i primi trent’anni della sua vita (cfr. Lc 3,23), conducendo un’esistenza segnata dall’ordinarietà e dalla condivisione del comune destino dei suoi abitanti. Gli evangelisti non ci dicono pressoché nulla di questi anni di vita ‘nascosta’ e noi non possiamo far altro che prendere atto di questo riserbo rispettando un silenzio che, forse, la dice lunga sulla ‘serietà’ di quel mistero che noi chiamiamo incarnazione.

    Possiamo immaginare la curiosità e l’animazione dei nazaretani nel rivedere un loro concittadino diventato tanto ‘famoso’ negli ultimi tempi (già dopo il primo miracolo a Cafàrnao si dice che «la sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea»: Mc 1,28). Una curiosità che si tramuta in stupore appena cominciano a sentirlo parlare nella loro sinagoga, nella consueta celebrazione liturgica sabbatica. «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?…» (vv. 2-3). L’evangelista accumula qui una serie di ben cinque domande per dare corpo a tutta la meraviglia degli abitanti di Nàzaret: come è possibile che quest’uomo parla in questo modo e compie tali cose? Lo conosciamo bene tutti: è uno di noi…! E così lo stupore iniziale cede subito il passo a un atteggiamento di scetticismo e di incredulità: «Ed era per loro motivo di scandalo» (v. 3b). È lo sconcerto di chi non riesce a mettere insieme una sapienza e una potenza che si reputa non possano venire altro che da Dio con le modeste e umili origini di colui che è conosciuto come «il falegname, il figlio di Maria» (v. 3a). Come può il divino conciliarsi con un umano così ‘umano’? Come può Dio manifestarsi in una realtà così quotidiana e familiare? La presunta conoscenza di Gesù da parte dei nazaretani è l’ostacolo più grande alla loro apertura di fede, a una fede che si apre a un ‘oltre’ che travalica l’immediatezza della propria esperienza quotidiana, pur non negandola. «La meraviglia è un pochino sempre a doppio esito: c’è la meraviglia che vuol capire, che si lascia educare a capire. […] E c’è invece la meraviglia che non nasce dall’intelligenza, cioè dalla volontà dell’uomo di capire, di piegarsi e di incontrare la verità o comunque ciò che gli si manifesta: ma è la meraviglia della ragione, che conduce a misurare questa cosa secondo il metro che sono io. Questa meraviglia conduce all’incredulità e al rifiuto, mentre la prima conduce all’ammirazione, si lascia educare dall’avvenimento, si lascia piegare» (G. Moioli).

    È  significativo che a questa meraviglia incredula faccia eco l’amara meraviglia di Gesù: «E si meravigliava della loro incredulità» (v. 6a). Gesù non riesce a capacitarsi che si possa arrivare a un tale livello di incredulità. E proprio tra i suoi parenti, nella sua casa, nella sua patria… Sembra una costante nella storia della salvezza, ma proprio i più vicini, coloro che dovrebbero conoscere meglio l’inviato di Dio, che vantano con lui una certa familiarità, sono quelli che meno accolgono il suo messaggio, che più si chiudono alla sua azione. Ne sono testimonianza le parole disincantate che il profeta Ezechiele riceve da parte del Signore: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli… Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito…» (Ez 2,3-4; prima lettura). Il detto popolare, citato da Gesù, sul profeta disprezzato tra i suoi (cfr. Mc 6,4) è una conferma di questo atteggiamento di ‘ribellione’ del popolo al quale Dio manda i suoi messaggeri. Si potrebbe dire che Gesù è sì stupito e sorpreso di questo rifiuto, ma non impreparato: conosce, infatti, la sorte di tutti i profeti che lo hanno preceduto.

    In questo clima di incredulità Gesù non può compiere alcun miracolo. La non-fede degli abitanti di Nàzaret ha il triste effetto di ridurre all’impotenza Gesù («E lì non poteva compiere nessun prodigio»: v. 5a); al contrario della fede della donna emorroissa e del capo della sinagoga Giairo (cfr. Mc 5,21-43), che permettono a Gesù di sprigionare tutta la sua potenza salvifica, capace persino di risuscitare i morti! La fede può tutto (cfr. Mc 9,23), l’incredulità invece rende impossibile ogni opera di Dio. I gesti e i prodigi che Gesù compie sono sempre in vista della fede e in risposta a essa; per questo non ha alcun senso un miracolo fuori dall’’ambito vitale’ in cui solamente esso può avvenire.

    Tuttavia, prima di lasciare la sua città, Gesù riesce a compiere qualche guarigione (cfr. v. 5b), segno che il rifiuto non è stato totale: qualche barlume di fede si è trovato anche lì, tra i suoi compatrioti. L’insuccesso sperimentato non ferma la ‘corsa’ del vangelo: a dispetto di tutto, Gesù continua a percorrere i villaggi della Galilea portando a tutti la sua parola di vita. Anche da profeta inascoltato e disprezzato continua a diffondere con fiducia il seme del vangelo.

    Un’ultima osservazione circa la ‘parentela’ di Gesù. Già in Mc 3,33 Gesù chiedeva ai suoi ascoltatori: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Conosciamo la risposta che lo stesso Gesù da subito senza aspettare la reazione dei suoi interlocutori. Qui a Nàzaret, dove Gesù giunge con i suoi discepoli (la sua ‘nuova famiglia’), si fa ancora più acuto il contrasto tra parentela ‘carnale’ e parentela ‘di fede’. La prima non è negata, né  disprezzata, ma, ai fini della comunione con il Signore, deve sfociare nella seconda. Perché il solo legame che rende ‘familiari’ del Figlio dell’uomo è l’obbedienza della fede e l’ascolto sincero della parola di Dio.

 

Preghiere e racconti

Viveva di fede come noi

«Quanto avrei voluto essere sacerdote per poter predicare sulla Madonna! Una sola volta sarebbe stata sufficiente per dire tutto quello che penso a questo proposito. Prima avrei fatto capire quanto poco conosciamo la sua vita. Non occorre dire cose inverosimili o che non sappiamo; per esempio che, da piccola, a tre anni, la Madonna ha offerto se stessa a Dio nel Tempio con sentimenti ardenti di amore e del tutto straordinari; mentre forse ci é andata semplicemente per obbedire ai suoi genitori… Perché una omelia sulla Madonna possa piacermi e farmi del bene, occorre che io veda la sua vita reale, non la sua vita supposta; e sono certa che la sua vita reale era molto semplice. Ce la mostrano inabbordabile, mentre bisognerebbe mostracela imitabile, fare vedere le sue virtù, dire che viveva di fede come noi, dare delle prove di questo per mezzo del Vangelo in cui leggiamo: «Non compresero le sue parole » (Lc 2,50). E questa parola molto misteriosa: «I suoi genitori si stupivano delle cose che si dicevano di lui» (Lc 2,33). Questo stupirsi suppone un certo meravigliarsi, non è vero? Sappiamo bene che la Madonna è Regina del Cielo e della terra, eppure è più madre che regina, e non occorre dire a motivo delle sue prerogative, che lei eclissi la gloria di tutti i santi, come il sole al suo sorgere fa scomparire le stelle. Mio Dio! quanto questo mi appare strano! Una madre che fa scomparire la gloria dei suoi figli! Io penso tutto il contrario, ritengo che essa farà crescere molto lo splendore degli eletti. È bene parlare delle sue prerogative, ma non occorre dire soltanto questo… Forse qualche anima andrà fino al punto di sentire allora una certa lontananza con una tale creatura talmente superiore e dirà: «Se le cose stanno così, ci accontenteremo di andare a brillare in un angolino». Ciò che la Madonna aveva in più rispetto a noi, era il fatto che non poteva peccare, che era esente dalla macchia originale, ma d’altra parte, è stata meno fortunata di noi, poiché non ha avuto la Madonna da amare, e questa è una tale dolcezza per noi».

(Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), carmelitana, dottore della Chiesa, in Ultimi colloqui, 21/08/1897). 

 

Lo «scandalo» di un Dio che entra nella mia casa

Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? (…)». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità (…).

Il Vangelo di oggi è chiuso tra due parentesi di stupore: inizia con la sorpresa della gente di Nazaret: Da dove gli viene tutta questa sapienza e questi prodigi?. E termina con la meraviglia di Gesù: E si meravigliava della loro incredulità. Né la sapienza né i miracoli fanno nascere la fede; è vero il contrario, è la fede che fa fiorire miracoli.

La gente passa in fretta dalla fascinazione alla diffidenza e al rifiuto. Da dove gli vengono queste cose? Non da Nazaret. Non da qui. In questa domanda «Da dove?» è nascosto il punto da cui ha origine l’Incarnazione: con il Verbo entra nel mondo un amore da altrove, “alieno”, qualcosa che la terra da sola non può darsi, viene uno che profuma di cielo. Quel mix di sapienza e potenza che Gesù trasmette, non basta alla gente di Nazaret per aprirsi allo spirito di profezia, quasi che il principio di realtà («Lo conosco, conosco la sua famiglia, so come lavora») lo avesse oscurato. Ma l’uomo non è il suo lavoro, nessuno coincide con i problemi della sua famiglia: il nostro segreto è oltre noi, abbiamo radici di cielo. Gesù cresce nella bottega di un artigiano, le sue mani diventano forti a forza di stringere manici, il suo naso fiuta le colle, la resina, sa riconoscere il tipo di legno. Ma, noi pensiamo, Dio per rivelarsi dovrebbe scegliere altri mezzi, più alti. Invece lo Spirito di profezia viene nel quotidiano, scende nella mia casa e nella casa del mio vicino, entra là dove la vita celebra la sua mite e solenne liturgia, la trasfigura da dentro. Fede vera è vedere l’istante che si apre sull’eterno e l’eterno che si insinua nell’istante.

Dice il Vangelo: Ed era per loro motivo di scandalo. Scandalizza l’umanità di Gesù, la prossimità di Dio. Eppure è proprio questa la buona notizia del Vangelo, stupore della fede e scandalo di Nazaret: Dio ha un volto d’uomo, il Logos la forma di un corpo. Non lo cercherai nelle altezze del cielo, ma lo vedrai inginocchiato a terra, ai tuoi piedi, una brocca in mano e un asciugamano ai fianchi. La reazione di Gesù al rifiuto dei compaesani non si esprime con una reazione dura, con recriminazioni o condanne; come non si esalta per i successi, così Gesù non si deprime mai per un fallimento, «ma si meravigliava» con lo stupore di un cuore fanciullo. A conclusione del brano, Marco annota: Non vi poté operare nessun prodigio; ma subito si corregge: Solo impose le mani a pochi malati e li guarì. Il Dio rifiutato si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo. L’amante respinto continua ad amare anche pochi, anche uno solo. L’amore non è stanco: è solo stupito. Così è il nostro Dio: non nutre mai rancori, lui profuma di vita.

(Ermes Ronchi)

 

Il profeta

Il profeta incontra l’indifferenza, la diffidenza e il rigetto, ma la sua missione non dipende dall’audience, bensì dalla fedeltà alla parola di Colui che l’ha inviato. Ezechiele è mandato a un popolo ribelle ed egli dovrà svolgere la sua missione “ascoltino o non ascoltino”. La sua sola presenza e la sua parola scomoda saranno segno della premura di Dio che ha inviato un profeta al suo popolo (I lettura). Gesù, nella sua patria, conosce l’incredulità dei suoi concittadini e formula il detto: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua” (vangelo). Il vangelo apre uno squarcio sulla disillusione (“si meravigliava della loro incredulità”) che Gesù deve aver provato nei confronti dell’ambiente che l’ha visto crescere: la conoscenza alla maniera umana, “secondo la carne” (2Cor 5,16), diviene chiusura nei confronti dell’inviato di Dio. Per incontrare Gesù, o lasciarsene incontrare, occorre il salto della fede, il rischio della fede. Forse Gesù si meraviglia perché questa conoscenza è totalmente non dialogica: non domanda nulla, non chiede, non parla, ma giudica e rifiuta a priori, e, mentre rende Gesù oggetto di scandalo, impedisce di accedere allo straordinario che Dio può compiere in lui.

La conoscenza dell’altro non può essere fossilizzata e ingessata: l’identità di una persona è in divenire, e conoscere significa essere aperto al novum, alla sorpresa. Soprattutto quando si tratta di conoscere quel mistero inesauribile che è una persona. Nei confronti di Gesù la pur indiscutibile conoscenza delle sue origini conduce i suoi concittadini a non cogliere la sua identità profonda: essi lo omologano a loro stessi, lo riducono alla loro misura e alla loro statura. Ma l’altro è sempre più grande della conoscenza che ne abbiamo. La conoscenza che gli abitanti di Nazaret hanno di Gesù diviene inciampo, trappola, “scandalo” che impedisce la fecondità dell’incontro: “Si scandalizzavano di lui”. Questo scandalo, per cui Gesù appare come sapiente misconosciuto (Mc 6,2), come profeta disprezzato (Mc 6,5) e come medico ridotto all’impotenza (Mc 6,5), non riguarda però solo i contemporanei di Gesù, ma trova una sua rinnovata versione anche riguardo alla conoscenza di Gesù oggi. E in profondità svela la difficoltà a credere radicalmente e autenticamente il vangelo, perché solo confessando Gesù quale Signore lo si incontra anche come medico, sapiente e profeta. Medico ridotto all’impotenza. Se la fede viene ridotta a strumento di soddisfazione del bisogno umano, essa può conoscere una deriva tecnicistica e taumaturgica che la piega alla misura del destinatario il quale non compie più il movimento salvifico di apertura al mistero di Dio in Cristo. Allora la guarigione non è più segno di una salvezza escatologica, ma la salvezza diviene metafora di guarigione, essendo questa l’unica cosa sentita come importante. È la fede ridotta a farmaco, a psicoterapia o addirittura a magia. Profeta disprezzato.

La parola profetica è disprezzata quando viene usata da un’ideologia, asservita a interessi di parte. Se Gesù parla di disprezzo del profeta nella sua patria, oggi la parola profetica è disprezzata e privata dalla sua valenza escatologica se non si asservisce alla patria, se non accetta di servire da collante nazionale, se non si fa distributore di valori etici. Se non si piega ancillarmente a una parola penultima.

Sapiente misconosciuto. Ovvero la riduzione del sapere dell’altro al mio sapere. L’intolleranza verso una sapienza altra è l’intolleranza verso la legittima e necessaria pluralità di sapienze, di ermeneutiche del reale, di sensi cercati e assegnati al vivere. La sapienza che è Gesù il Signore non si identifica con una filosofia o cultura, ma è realtà transculturale che orienta l’umano. Come Gesù è stato ridotto all’impotenza da coloro che affermavano di conoscerlo meglio, così la fede può oggi essere resa insignificante proprio da coloro che pretendono di farsene paladini e difensori, ma in realtà la riducono alle proprie visioni del mondo e non accettano di lasciarsene mettere in discussione.

(Luciano Manicardi)

 

Secondo la fede

     Così la multiforme sapienza di Dio distribuisce la salvezza degli uomini con una molteplice e insondabile compassione e accorda il dono della sua generosità secondo la capacità di ciascuno. Per le guarigioni stesse che opera non vuole regolarsi sull’uniforme potenza della sua maestà, ma sulla fede che trova in ciascuno di noi o che egli stesso ha distribuito. L’uno crede che per essere purificato dalla lebbra basti la sola volontà di Cristo; Cristo lo guarisce con il solo assenso della sua volontà dicendo: «Lo voglio, sii guarito» (Mt 8,3). Un altro lo supplica di venire da lui e di resuscitare sua figlia imponendole le mani; entra a casa sua e gli concede l’oggetto della richiesta nella maniera sperata (cfr. Mt 9,18). Un terzo crede che la salvezza risieda nell’ordine dato con parole: «Dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito» (Mt 8,8); con il comando della sua parola restituisce alle membra illanguidite il loro vigore primitivo: «Va’ e ti sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13). Altri sperano di trovare guarigione toccando la frangia del suo vestito; egli dona loro con generosità il dono della salute (cfr. Mt 9,20). Accorda agli uni la guarigione delle loro malattie su loro richiesta, ad altri offre un rimedio spontaneo, altri li esorta alla speranza dicendo: «Vuoi essere guarito?» (Gv 5,6); porta il suo aiuto ad altri che non speravano più. Sonda i desideri degli uni, prima di soddisfare la loro volontà: «Che volete che vi faccia?» (Mt 20,32). A un altro che non sa per quale via ottenere quello che desidera, dice con bontà: «Se credi, vedrai la gloria di Dio» (Gv 11,40). Su altri effuse abbondantemente la sua potenza di guarigione al punto che l’evangelista riferendosi a essa concluse: «Egli guarì tutti i loro malati» (Mt 14,14); presso altri, però, l’abisso senza limiti dei suoi benefici venne bloccato tanto che si disse: Gesù non poteva operare nessun miracolo a causa dell’incredulità (cfr. Mc 6,5-6). E così la generosità di Dio si conforma alla capacità di fede dell’uomo, al punto di dire a uno: «Ti avvenga secondo la tua fede» (Mt 9,29); a un altro: «Va’ e ti sia fatto come hai creduto» (Mt 8,13); e a un altro: «Ti sia fatto come tu vuoi» (Mt 15,28); e a un altro ancora: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 5,34).

(GIOVANNI CASSIANO, Conferenze 13,15, SC 54, pp. 175-176).

 

I sepolcri imbiancati

II maestro sembrava non essere assolutamente toccato da ciò che la gente pensava di lui, pur non essendo sempre un rigorosissimo osservante. Quando i discepoli gli chiesero come avessero raggiunto questo grado di libertà interiore, egli rise forte e disse: «Fino a 20 anni non mi è importato nulla di che cosa la gente pensasse di me; dopo i 20 anni mi preoccupavo immensamente di che cosa pensassero i miei vicini; poi un giorno, dopo i 50 anni, capii improvvisamente che essi non pensavano minimamente a me».

(Racconto ebraico).

 

Questi è davvero il profeta

Furono riempite dodici ceste. Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale. Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi. Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo. Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede. Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi. Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: Beati quelli che non vedono e credono (Gv 20,29). Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire. Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo. Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta (Gv 6,14). […] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: Susciterò per loro un profeta simile a te (Dt 18,18). Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà. E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli. Lo stesso Signore dice di se stesso: Un profeta non riceve onore nella sua patria (Gv 4,44). Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta. Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli. Egli stesso è detto angelo del grande consiglio (cfr. Is 9,6). E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr. Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.

(AGOSTINO, Omelie sul vangelo di Giovanni 24,6-7, in Opere di sant’Agostino, pp. 564-566).

 

Ogni giorno è da vivere

Ogni mattina

è una giornata intera

che riceviamo dalle mani di Dio.

Dio ci dà una giornata da Lui stesso preparata per noi.

Non vi è nulla di troppo e nulla di «non abbastanza»,

nulla di indifferente e nulla di inutile.

È un capolavoro di giornata

che viene a chiederci

di essere vissuto.

Noi la guardiamo come una pagina d’agenda,

segnata d’una cifra e d’un mese.

La trattiamo alla leggera

come un foglio di carta.

Se potessimo frugare il mondo

e vedere questo giorno elaborarsi

e nascere dal fondo dei secoli,

comprenderemmo il valore di un solo giorno umano.

(M. Delbrêl).

 

Bramo la tua voce, o Dio

Quando mi fermo stanco sulla lunga strada

e la sete mi opprime sotto il solleone;

quando mi punge la nostalgia di sera

e lo spettro della notte copre la mia vita,

bramo la tua voce, o Dio,

sospiro la tua mano sulle spalle.

Fatico a camminare per il peso del cuore

carico dei doni che non ti ho donati.

Mi rassicuri la tua mano nella notte,

la voglio riempire di carezze,

tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore

segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(Rabindranath Tagore)

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

XIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: Sapienza 1,13-15;2,23-24

 

Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.

                

 

  • Un Gesù sinceramente turbato dalla morte, specialmente dei piccoli e degli innocenti, ci suggerisce l’immagine vera di Dio Padre, anch’egli non contento della soggezione dell’uomo alla morte. Tale percezione, che ci fa accorgere che Dio è molto più solidale con noi di quanto si possa immaginare, viene ripresa con parole intense dall’autore del libro della Sapienza, il quale, alludendo in maniera più o meno esplicita ai primi tre capitoli della Genesi, si esprime così: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale» (1,13-15).

         Occorre però chiarire che l’autore di Sapienza non intende la morte puramente in senso biologico, bensì soprattutto in senso «escatologico». La morte biologica non dipende infatti da una nostra scelta. Eppure essa può segnare la completa disfatta dell’esistenza qualora la si accompagni alla «rovina», o meglio, alla perdizione, che si rivela quale diretta conseguenza di errate scelte morali: «Non provocate la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani» (1,12). Dio, dunque, ha creato tutto per il bene, come il racconto sacerdotale della creazione ci ricorda (Gen 1,31: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona»); suo obiettivo era l’affermazione della vita, dell’armonia, del benessere, perché tutto era orientato positivamente alla salvezza, come la frase «le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte» testimonia. Alla stessa umanità egli ha voluto dare piena fiducia e libertà, infatti era essa a governare, mentre il regno della morte non aveva alcun diritto di cittadinanza (2,23: «Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura»).

         Purtroppo, «la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (2,24): il diavolo, quindi, invidioso di un uomo reso da Dio immortale (ossia sempre in comunione con Dio), suo luogotenente sulla terra e felice, cerca il modo di introdurre un «cuneo» di separazione, agendo ovviamente sulla parte più debole, che è appunto l’uomo. A quest’ultimo è però possibile sottrarsi alla morte «seconda», come direbbe Francesco d’Assisi, testimoniando nella propria esistenza la vicinanza a Dio con l’operare la giustizia e il bene.

 

Seconda lettura: 2 Corinzi 8,7.9.13-15

Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».

 

 

  • Il brano paolino è, invece, un forte invito alla solidarietà e alla generosità, sulla scorta dell’esempio del Maestro Gesù Cristo: «come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (8,7.9). Paolo, infatti, era impegnato a coinvolgere tutte le comunità ecclesiali da lui fondate in una colletta a favore della chiesa-madre di Gerusalemme, che versava in condizioni poco floride. Ai corinzi, probabilmente non molto propensi a collaborare nonostante la loro migliore situazione economica, viene ricordato con discrezione che persino chi è più povero di loro (ossia le comunità della Macedonia) ha insistito per partecipare. Colpisce, però, il profondo motivo della «ricchezza» di Cristo, che nella lettera ai Filippesi Paolo esprime così: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (2.5-7). In realtà. Gesù non si è mai risparmiato per coloro che Dio Padre gli ha affidato in quanto fratelli, poiché è stato generoso e disponibile durante la sua missione e, nel momento supremo della croce, ha rivelato la ricchezza della grazia, ossia l’incommensurabile abbondanza della salvezza ponendola a disposizione di chiunque creda, senza alcuna distinzione in base all’età, al censo, alla nazionalità.

     Se quindi tale ricchezza costituisce una grazia per l’umanità, questa allora non si vede trattata in modo disuguale da Dio. Proprio per sottolineare l’«imparzialità» divina che non vuole creare sperequazioni, l’Apostolo richiama esplicitamente in 8,13-15 il caso della raccolta della manna nel deserto da parte degli ebrei: «Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: “Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno”» (precisiamo che il testo prodotto da Paolo si trova in Es 16,18 secondo la versione greca dei Settanta).

 

Vangelo: Marco 5,21-43

 In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

          

 

Esegesi 

     A conclusione della giornata delle parabole (4,1-34), il vangelo di Marco ci presenta Gesù che prosegue la sua opera di formazione dei discepoli attraverso la realizzazione di miracoli. Il primo è quello della tempesta sedata, alla fine del quale i discepoli si chiedono chi sia realmente Gesù, che domina persino le forze della natura (cf. 4,41). Segue poi la liberazione dell’indemoniato di Gerasa (5,1-20) e, infine, il brano di questa domenica. Rientra nel piano di tale formazione anche la difficoltà e l’insuccesso: in 5,17, nonostante Gesù avesse guarito un pericoloso indemoniato, i Geraseni «si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio»; in 6,1-6 si riporta che Gesù, pur trovandosi a Nazaret, la propria patria, «non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità».

     I due “casi” che la liturgia oggi ci propone, invece, costituiscono un esempio positivo della stima e dell’attenzione di cui godeva Gesù in terra di Galilea. Infatti, partito dalla sponda gadarena del lago di Tiberiade, egli si vide immediatamente circondato da molta folla appena giunse sulle rive galilaiche. Qui incontrò un uomo molto autorevole, uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo (che in ebraico significherebbe “l’illuminato”). Il vangelo ce lo presenta esplicitamente come un padre disperato: «E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva» (5,22-23).

     Possiamo immaginare la partecipazione emotiva di Gesù a questo dramma, al quale si associa la folla accompagnando fisicamente il Maestro e il padre. Al v. 25 si incastra un’altra storia, quella di una donna che ormai ha tentato in ogni modo, ma senza successo, di guarire dalla malattia che l’affliggeva: «Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando» (5,25-26). Il ragionamento della donna è lineare: il solo toccare Gesù può procurarmi la guarigione. Ed è ciò che avviene. Ci possiamo meravigliare del fatto che Gesù abbia quasi “preteso” che chi aveva ricevuto la guarigione testimo-niasse pubblicamente: non doveva egli avere fretta di recarsi a casa di Giairo? Eppure egli ha da dire qualcosa alla donna che ha nutrito una fede tanto grande: «E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (5,33-34).

     Queste parole di sollievo e liberazione in fondo servono anche a Giairo, che a sua volta riceverà un segno ancora più strepitoso. Benché infatti fosse stato annunciato che la bambina era morta, «Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!» (5,36), perché ciò che costituisce la sorte irreparabile e irrimediabile per l’uomo, per il Figlio di Dio non è un ostacolo al dispiegamento della propria potenza. La bambina viene quindi risuscitata e, con grande senso di delicatezza umana e far certificare meglio la realtà della risurrezione. Gesù «raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare» (5,43).

     In questi due segni emerge con chiarezza un elemento che potremmo definire “discriminante”, ossia la fede. In primo luogo la donna, la quale aveva ormai sperimentato ampiamente la limitatezza dei mezzi della scienza umana, incapace di guarirla ma non di impoverirla. Perciò, piena di speranza, ella fa quello che tanti altri malati prima di lei hanno fatto, secondo la stessa testimonianza di Marco: «Infatti ne aveva curati molti, così che quanti avevano qualche male gli si gettavano addosso per toccarlo» (Mc 3.10). La sua non è fiducia in eventuali virtù magiche detenute da Gesù, bensì vera e propria fede che addirittura suscita quel tremore tipico di chi ha compiuto una forte esperienza dell’ingresso di Dio nella sua vita. A Giairo, poi, viene chiesto qualcosa di autenticamente eroico: aver fede che Gesù è in grado di «risvegliare» sua figlia, per la quale era già pronto il funerale.                                            

     Gesù parla in realtà come figlio di Dio, per il quale la morte è solamente sonno; il suo scopo è rivelare ai genitori della fanciulla e ai tre apostoli, in quanto testimoni qualificati, che la mano potente di Dio, unita all’efficacia della sua parola, è in grado di restituire la vita. Perciò Gesù prende la fanciulla per mano e le dice «Talità kum», frase che i genitori suoi forse tante volte avranno adoperato per destare la propria figlia dal sonno. Quanta gioia avrà investito il cuore di Giairo e della moglie! Ma è lo sconcerto a prendere il sopravvento. Non è difficile da comprendere che anch’essi, «toccato con mano» l’intervento rivelatore e salvatore di Dio nella propria vita, siano rimasti spiazzati. Come è suo solito nel vangelo di Marco, Gesù raccomanda vivamente di non far sapere niente ad alcuno, perché questo miracolo sarebbe frainteso al di fuori del contesto che gli è proprio: la rivelazione del Figlio di Dio sulla croce.

 

Meditazione 

     La vita! La vita risanata, risuscitata, esaltata. Dio ama e vuole la vita. Come recita la prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Ha creato tutto per l’esistenza» (1,13-14). La vita: ecco il tema che prepotentemente emerge dalla liturgia della Parola odierna.

Nonostante le genealogie che Matteo (1,1-17) e Luca (3,23-38) riportano nei loro vangeli sembrino attribuire ai maschi la dimensione generativa, tutti sanno che è la donna a partorire. Il lungo brano evangelico, insolito per l’evangelista Marco che ci ha abituato a brevi schizzi vivaci, ci trasmette quest’oggi l’esperienza di due figure femminili: l’una fisicamente segnata dalla malattia proprio nella sua femminilità, l’altra ‘ritornata alla vita’ a dodici anni, età ‘ufficiale’ della maturità riproduttiva. Tre quadri: al centro, quasi pietra preziosa incastonata, la vicenda della donna emorroissa; ai bordi, in due tempi, la narrazione della risurrezione della figlia di Giairo.

Un primo elemento che stupisce nel nostro brano è la presenza della folla, avvolgente e pervasiva come un mantello: accompagna Gesù e i suoi discepoli nel tragitto verso la casa del capo della sinagoga, funge da inconsapevole schermo tra l’emorroissa e Gesù stesso, tenta di bloccare il cammino del maestro, ne irride le parole; non può che essere «cacciata fuori» (v. 40) ne deve essere messa a conoscenza (cfr. v. 43) di quanto successo all’interno della casa. Malgrado – o forse proprio grazie a questo tratto, per cui ognuno di noi può riconoscersi nei soggetti del racconto – delle due donne ‘protagoniste’ non venga riportato il nome, bisogna prendere posizione personalmente ed uscire allo scoperto (cfr. vv. 22-23.33), senza paura della propria storia e senza vergogna di Gesù. La relazione con il Signore non può mai essere anonima ed indistinta, non può accontentarsi di fare da spettatore esterno, dentro una folla: è chiamata ad una sequela consapevole, libera e matura.

Ma cosa può spingere una figura pubblica come Giairo ed una donna legalmente impura (cfr. Lv 15,25) a gettarsi a piedi di Gesù, dinanzi a tutti, se non un pericolo ‘mortale’, una situazione in cui la morte sta tentando di inghiottire la vita? Ne nasce allora una lotta tra la paura (cfr. vv. 33.36) e la fede, nella speranza che Gesù possa operare qualcosa e comprendere il dramma di chi lo supplica. Costoro chiedono una vicinanza ‘fisica’ ai loro cari o alla loro persona: «Vieni a imporle le mani» (v. 23), «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello» (v. 28). La guarigione, e la salvezza che ne segue, in quanto riapre ad una relazione nuova con la vita, passa attraverso un contatto. Se questa dimensione è stata assunta con serietà dalla comunità dei discepoli attraverso le forme sacramentali, non deve essere intesa magicamente, superstiziosamente: l’incontro con Gesù è anche sempre mediato dalla parola, dallo sguardo ed è tra persone, non è incontro con un oggetto o un talismano!

Gesù cerca l’incontro personale ma non ha paura di agire e di compromettersi dinanzi a tutti. Se lascia fuori dalla casa di Giairo folla e parenti in trambusto per evitare ogni possibile spettacolarizzazione del suo operato, non si lascia distogliere dall’obiezione dei discepoli (cfr. v. 31) per porre invece dinanzi alla folla la donna che ha sentito «nel suo corpo che era stata guarita da quel male» (v. 29): vuole che tutti ne attestino la guarigione, così da reintrodurla nella comunità dei ‘viventi’! Ma la lotta tra la vita e la morte non lascia attimo di requie: per una figlia risanata e riconsegnata alla vita, un’altra muore a dodici anni (cfr. vv. 34-35). Non si è ancora avuto modo di rendersi conto della meraviglia operata che – sembra di sentire l’opprimente ed incalzante serie di sciagure riportate all’inizio del libro di Giobbe (cfr. 1,16-18) – subito subentra la temuta notizia della dipartita della figlioletta di Giairo. Se Gesù è riuscito a ridare all’emorroissa la capacità di generare vita, potrà fare qualcosa anche in questa situazione limite, disperata, dove la vita sembra aver capitolato per sempre? Qualcuno suggerisce addirittura di non disturbare ulteriormente Gesù… «Soltanto abbi fede!» (v. 36). Un gesto semplice e discreto, accompagnato dalla parola più importante di tutto il vocabolario cristiano – «Alzati!» (v. 41): è il verbo della risurrezione – producono il contatto vivificante anche con questa fanciulla, riportandola letteralmente in vita.

Stare lontani da Gesù apre la strada alla morte, toccarlo con la fede strappa da ogni vincolo di morte e sveglia la vita deposta in noi. Accogliamo la testimonianza di queste donne anonime che non si lasciano morire ma sperano in colui che è «venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).

  

L’immagine della domenica

 

   

OGNI ISTANTE CHE DIO TI DONA 

«Vivi meglio che puoi,

pensa meglio che puoi

e fai del tuo meglio oggi.

Perché l’oggi sarà presto il domani

e il domani sarà presto l’eterno». 

(A.P. Gouthey)

 

Preghiere e racconti

Che significato ha una malattia?

Sono molti i fattori che fanno ammalare gli alberi, ancora di più quelli che debilitano gli uomini.

Quando, in un albero, la malattia va troppo in là è difficile salvarlo: marciscono le radici, si gonfia il tronco, il ricambio si interrompe e le foglie cadono private della linfa.

Quando si ammala un uomo si pensa subito a un virus o a un batterio, che probabilmente c’è, ma nessuno si chiede da dove viene, come mai si e insinuato là dentro, perché proprio oggi e non un mese fa, in quella persona e non in quell’altra che magari era molto più esposta al rischio di un contagio? Perché, a parità di cure, uno guarisce e un altro soccombe?

Basta che un fulmine sfiori la corteccia di una quercia secolare per innescarne la distruzione, in quel varco si insinuano batteri, funghi e coleotteri destinati in breve a propagarsi a discapito della sua vita.

Gli alberi da frutto diventano fragili quando perdono la verticalità: un pino può crescere anche se è piegato dal vento ma non un albicocco: è la perpendicolarità perfetta al suolo a permettergli di vivere e fruttificare.                                     

Per distruggere un uomo, per farlo ammalare, invece, cosa ci vuole? E per guarirlo? Che significato ha una malattia nel corso di una vita? Dannazione? sfortuna? o forse un’occasione improvvisa, un dono prezioso che il cielo ci offre?

(Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 129-130).

 

 Gesù ci prende per mano e ci dice «alzati»

E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!».

Gesù cammina verso una casa dove una bambina di 12 anni è morta, cammina accanto al dolore del padre. Ed ecco una donna che aveva molto sofferto, ma così tenace che non vuole saperne di arrendersi, si avvicina a Gesù e sceglie come strumento di guarigione un gesto commovente: un tocco della mano.

L’emoroissa, la donna impura, condannata a non essere toccata da nessuno – mai una carezza, mai un abbraccio – decide di toccare; scardina la regola con il gesto più tenero e umano: un tocco, una carezza, un dire: ci sono anch’io! L’esclusa scavalca la legge perché crede in una forza più grande della legge. Gesù approva il gesto trasgressivo della donna e le rivolge parole bellissime, parole per ognuno di noi, dolce terapia del vivere: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Le dona non solo guarigione fisica, ma anche salvezza e pace e la tenerezza di sentirsi figlia amata, lei, l’esclusa.

Giunsero alla casa del capo della sinagoga e c’era gente che piangeva e gridava forte. Entrato, disse loro: “Perché piangete? Non è morta questa bambina, ma dorme”. Dorme. Verbo entrato nella fede e nel linguaggio comune: infatti la parola cimitero deriva dal verbo greco che designa il dormire. Cimitero è la casa dei dormienti, è la casa di Giairo, dove i figli e le figlie di Dio non sono morti, ma dormono, in attesa della mano che li rialzerà. Lo deridono, allora, con la stessa derisione con cui dicono anche a noi: tu credi nella vita dopo la morte? Sei un illuso: “finito io, finito tutto”. E Gesù a ripetere: “tu abbi fede”, lascia che la Parola della fede riprenda a mormorare in cuore, che salga alle labbra con un’ostinazione da innamorati: Dio è il Dio dei vivi e non dei morti.

Gesù cacciati fuori tutti, prende con sé il padre e la madre, ricompone il cerchio vitale degli affetti, il cerchio dell’amore che dà la vita. Poi prende per mano la piccola bambina, perché bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare. Chi è Gesù? una mano che ti prende per mano. Bellissima immagine: la sua mano nella mia mano, concretamente, dolcemente, si intreccia con la mia vita, il suo respiro nel mio, le sue forze con le mie forze. E le disse: “Talità kum. Bambina alzati”. Lui può aiutarla, sostenerla, ma è lei, è solo lei che può risollevarsi: alzati. E lei si alza e si mette a camminare.

Su ciascuno di noi qualunque sia la porzione di dolore che portiamo dentro, qualunque sia la nostra porzione di morte, su ciascuno il Signore fa scendere la benedizione di quelle antiche parole: Talità kum. Giovane vita alzati, risorgi, riprendi la fede, la lotta, la scoperta, la vita, torna a ricevere e a restituire amore.

(Ermes Ronchi)

 

«Va’ in pace e sii guarita dal tuo male»

1. Ancora miracoli per dire che non il loro numero e neppure la loro straordinarietà devono attirare l’attenzione, ma il «chi» essi vogliono rivelare e il «che cosa» essi vogliono indicare. Essi manifestano la fragilità della condizione umana soggetta alle onde del mare, ai disturbi psichici, alle malattie fisiche e alla inesorabilità della morte e, al contempo, narrano la potenza di Dio posta in Gesù a servizio della liberazione-guarigione dell’uomo carente. Scopo dei miracoli è pertanto svelare «chi» c’è dietro ad essi, l’uomo debole e Gesù salvezza di Dio, traduzione delle viscere di misericordia di un Padre nell’atto di inchinarsi con benevolenza sugli affaticati e oppressi della terra. E ancora «che cosa» c’è dietro ad essi, un gesto creazionale teso a restituire l’uomo e la natura alla loro integrità manomessa; un dono di novità che sboccia là ove la fede gli tende la mano; un adesso in cammino verso il giorno in cui non ci sarà più ne pianto ne morte (Ap 21,4-5). Miracoli dunque come eventi indici di nuova creazione, un qui e ora particolarmente evidente ove avviene il grande miracolo da ricercare e mai negato, il passaggio dal cuore di pietra, la malattia della disumanizzazione, al cuore di carne, la guarigione dell’umanizzazione che si lascia raccontare anche in corpi deboli e in anime sofferenti. E’ in questa ottica che vanno lette le guarigioni della donna affetta da emorragie e della fanciulla morta.

2. La donna affetta da emorragie (Mc 5,25-34) è l’immagine della creatura che ha perso tutto, salute, figli, denari, speranza nei medici, relazioni sociali e accesso alla sinagoga proprio a causa di una malattia che la poneva in uno stato di impurità legale (Lv 15,25). Vera icona dei senza nome, dei privati di se stessi, anonimi perduti in una folla anonima senza vie d’uscita, senza risposta al loro desiderio di guarigione. Marco ama sottolineare il fatto che sotto il sole si danno situazioni estreme di disagio, e altresì ama sottolineare che anche in questi casi continua il permanere di una estrema speranza, l’uscirne fuori, una speranza, conclude l’evangelista, non delusa quando i senza nome vengono a conoscenza del nome di Gesù nel quale Dio salva. E’ la speranza che muove questa donna dal corpo malato a toccare almeno il mantello di quel corpo da cui emana una forza di guarigione. Siamo al cospetto di una singolare via di salvezza, quella del contatto dei corpi, ove il toccare il corpo o il mantello di Gesù equivale a ricevere da Gesù l’energia che sana il proprio corpo malato, energia espressione dell’amore di Dio sprigionato da quel corpo. Magia? No, puntualizza Marco. Vi è un toccare e un toccare, quello della folla attorno a Gesù e quello di questa donna: «Diceva infatti: Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata» (Mc5,28). Il suo gesto è ispirato dalla fiducia in Gesù, nasce da un personale atto di fede che libera all’istante la forza taumaturgica di Gesù (Mc 5,29), fede percepita da Gesù (Mc 5,30-33) e portata a pena luce da Gesù: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (Mc 5,34). Quella donna che nascostamente, è dei poveri rimanere nell’ombra, ha toccato con mano la salvezza ora è portata a piena luce restituita a un diverso rapporto con Gesù, dal guardarlo di spalle al faccia a faccia nel non tremore e nel dialogo: «La donna gli disse tutta la verità…egli le disse» (Mc 5,33-34). E ancora restituita a un diverso rapporto con se stessa, da anonima a figlia, e alla vita sociale e religiosa. Ed eccoci all’altro miracolo, quello della figlioletta di un capo della sinagoga di nome Giairo (Mc 5,21-24.35-43), salvezza totale non vi è se non si dà guarigione dalla morte. Attorno ad essa vi è sempre il desiderio di sfuggirla (Mc 5,23), agitazione e lamento (Mc 5,37) e derisione di chi la ritiene non ultima parola (Mc 5,40).

L’evangelista vuole risvegliare l’attenzione su come Dio in Gesù una dodicenne morta (Mc 5,42): va (Mc 5,24), giunge a quella casa (Mc 5,38), vi entra (Mc 5,39.40), converte la morte in sonno: «La bambina non è morta, ma dorme» (Mc 5,39), prende per mano la fanciulla, il suo corpo è potenza di resurrezione, e pronuncia la grande attesa parola: «Fanciulla, io ti dico: alzati» (Mc 5,41), verbo di resurrezione. Io sono colui che ha potere sulla morte, la loro mano senza vita è nella mia mano che dà vita, la loro sorte è nella mia parola. L’unica cosa richiesta è: «Non temere, solo abbi fede» (Mc 5,36) nello stupore (Mc 5,42).3. Sì, non resta che il silenzio proprio agli iniziati alla sublime conoscenza del corpo di Gesù come luogo che manifesta e trasmette l’eros di Dio che va là ove sono corpi malati e corpi morti per stringerli a sé e per farsi stringere in un abbraccio di guarigione, e lo è già l’essere riconosciuti, e di resurrezione. Un Gesù che attraverso i suoi vuole continuare ad essere contatto che salva.

(Giancarlo Bruni)

 

La vita umana, “prezioso scrigno da custodire e curare”

“[…] Oggi ci è data l’opportunità di riflettere sull’esperienza della malattia, del dolore, e più in generale sul senso della vita da realizzare pienamente anche quando è sofferente. Nel messaggio per l’odierna ricorrenza ho voluto porre in primo piano i bambini ammalati, che sono le creature più deboli e indifese. E’ vero! Se già si resta senza parole davanti a un adulto che soffre, che dire quando il male colpisce un piccolo innocente? Come percepire anche in situazioni così difficili l’amore misericordioso di Dio, che mai abbandona i suoi figli nella prova? Sono frequenti e talora inquietanti tali interrogativi, che in verità sul piano semplicemente umano non trovano adeguate risposte, poiché il dolore, la malattia e la morte restano, nel loro significato, insondabili per la nostra mente. Ci viene però in aiuto la luce della fede. La Parola di Dio ci svela che anche questi mali sono misteriosamente “abbracciati” dal disegno divino di salvezza; la fede ci aiuta a ritenere la vita umana bella e degna di essere vissuta in pienezza pur quando è fiaccata dal male. Dio ha creato l’uomo per la felicità e per la vita, mentre la malattia e la morte sono entrate nel mondo come conseguenza del peccato. Ma il Signore non ci ha abbandonati a noi stessi; Lui, il Padre della vita, è il medico per eccellenza dell’uomo e non cessa di chinarsi amorevolmente sull’umanità sofferente. Il Vangelo mostra Gesù che “scaccia gli spiriti con la sua parola e guarisce coloro che sono ammalati” (Mt 8, 16), indicando la strada della conversione e della fede come condizioni per ottenere la guarigione del corpo e dello spirito, è la guarigione voluta dal Signore sempre. È la guarigione, d’amore integrale, di corpo e anima, perciò scaccia gli spiriti con la parola. La sua parola è parola d’amore, parola purificatrice: scaccia gli spiriti del timore, della solitudine, dell’opposizione a Dio, perché così purifica la nostra anima e dà pace interiore. Così ci dà lo spirito dell’amore e la guarigione che comincia dall’interno. Ma Gesù non ha solo parlato: è Parola incarnata. Ha sofferto con noi, è morto. Con la sua passione e morte Egli ha assunto e trasformato fino in fondo la nostra debolezza. Ecco perché – secondo quanto ha scritto il Servo di Dio Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Salvifici doloris – “soffrire significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all’opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all’umanità in Cristo” (n. 23).

Cari fratelli e sorelle, ci rendiamo conto sempre più che la vita dell’uomo non è un bene disponibile, ma un prezioso scrigno da custodire e curare con ogni attenzione possibile, dal momento del suo inizio fino al suo ultimo e naturale compimento. La vita è mistero che di per se stesso chiede responsabilità, amore, pazienza, carità, da parte di tutti e di ciascuno. Ancor più è necessario circondare di premure e rispetto chi è ammalato e sofferente. Questo non è sempre facile; sappiamo però dove poter attingere il coraggio e la pazienza per affrontare le vicissitudini dell’esistenza terrena, in particolare le malattie e ogni genere di sofferenza. Per noi cristiani è in Cristo che si trova la risposta all’enigma del dolore e della morte. La partecipazione alla Santa Messa, come voi avete appena fatto, ci immerge nel mistero della sua morte e della sua risurrezione. Ogni Celebrazione eucaristica è il memoriale perenne di Cristo crocifisso e risorto, che ha sconfitto il potere del male con l’onnipotenza del suo amore. E’ dunque alla “scuola” del Cristo eucaristico che ci è dato di imparare ad amare la vita sempre e ad accettare la nostra apparente impotenza davanti alla malattia e alla morte […]”.

(Benedetto XVI, Intervento in occasione della Giornata Mondiale del Malato, 11.02.2009).

 

Per Dio la morte è un sonno

     Ogni testo del vangelo ci è molto utile sia per la vita presente che per la futura, ma il testo di oggi ancora di più perché contiene la totalità della nostra speranza e bandisce ogni motivo di disperazione. […] Ma parliamo del capo della sinagoga che, mentre conduce Cristo presso sua figlia, offre a una donna l’occasione di venire a Gesù. Così comincia la lettura di questo giorno: «Ecco che un capo si avvicinò, si prosternò davanti a Gesù dicendo: “Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà”» (Mt 9,18). Cristo conosceva l’avvenire e non ignorava che questa donna le sarebbe venuta incontro. È lei che farà capire al capo dei giudei che Dio non ha bisogno di spostarsi, che non è necessario mostrargli il cammino né sollecitare la sua presenza fisica. Bisogna credere, invece, che Dio è presente ovunque, con tutto il suo essere, sempre; e ancora che lui può fare tutto senza fatica, donando un ordine, che invia la sua potenza senza trasportarla, che mette in fuga la morte con un ordine senza muovere la mano, che rende la vita per sua decisione, senza far ricorso alla medicina.

     «Mia figlia è morta proprio ora, ma vieni». Questo significa: «Il suo corpo conserva ancora il calore della vita, vi sono ancora dei segni della sua anima, il suo spirito non l’ha ancora lasciata. La famiglia ha ancora la figlia, il regno dei morti non la riconosce ancora come sua. Vieni presto a trattenere la sua anima pronta a partire».

     Insensato! Non credeva che Cristo poteva resuscitare una morta, ma soltanto trattenerla. Così, come Cristo giunse nella casa e vide che la gente piangeva la fanciulla come una morta, volle condurre alla fede i loro cuori increduli e disse che la figlia del capo dormiva, non era morta poiché essi pensavano che risorgere dai morti non fosse più facile che levarsi dal sonno. «La fanciulla non è morta, ma dorme» (Mt 9,23). E, in verità, per Dio la morte è un sonno. […] Ascolta ciò che dice l’Apostolo: «All’istante, in un batter d’occhio i morti resusciteranno» (2Cor 15,52).

(PIETRO CRISOLOGO, Discorso 34,1.5, CCL 24, pp. 193.197-199).

 

Cerca qualcuno che ti faccia sorridere

Quando la porta della felicità si chiude,

un’altra si apre, ma tante volte guardiamo

così a lungo a quella chiusa,

che non vediamo quella che è stata aperta per noi.

Cerca qualcuno che ti faccia sorridere

perché ci vuole solo un sorriso

per far sembrare brillante una giornataccia.

Trova quello che fa sorridere il tuo cuore.

L’amore comincia con un sorriso.

Quando sei nato, piangevi

e tutti intorno a te sorridevano.

Vivi la vita in modo che quando morirai,

tu sia l’unico che sorride

e tutti intorno a te piangano.

(Paulo Coelho).

 

«Sei un pellegrino in viaggio, ma prova a goderti il viaggio»

Una mia ex-studentessa, una ragazza tranquilla e riservata, venne a trovarmi. Chiacchierammo per un po’, quindi le domandai se stava utilizzando il suo diploma di infermiera. «No», rispose. «Vede, sto morendo. Ho la leucemia e sono in fase terminale». Naturalmente, rimasi senza fiato. Quando mi ripresi dall’emozione, chiesi a Betty che cosa provasse: «Che cosa si prova a ventiquattro anni, quando pensi che hai davanti tutta la vita e all’improvviso ti metti a contare i giorni che ti restano?». Col suo solito atteggiamento riservato e sereno, mi rispose: «Forse non riuscirò a spiegarmi, ma questi sono i giorni più felici della mia vita. Quando pensi di avere tanti anni davanti è facile rimandare le cose. Uno dice a se stesso: «Mi fermerò e annuserò il profumo dei fiori la prossima primavera». Ma quando sai che i giorni della tua vita sono limitati, ti fermi ad annusare il profumo dei fiori e a sentire il calore dei raggi solari proprio oggi. A causa della malattia di cui soffro, ho subìto numerosi prelievi del midollo spinale. E’ un procedimento doloroso, ma il mio ragazzo mi stava vicino e mi teneva la mano. Credo che fossi più consapevole del conforto della sua mano nella mia che dell’ago inserito nel mio midollo spinale».

Parlammo a lungo della morte e delle prospettive che essa apre. Avevo sempre sentito dire che non si potrebbe vivere in pienezza se non si sapesse che la vita un giorno o l’altro finirà. Betty mi aiutò a capire questa verità. Adesso è morta, la leucemia se l’ è presa. Grazie a lei ho capito che è indispensabile godere di tutte le cose buone di questa vita. Era come se Dio mi stesse dicendo attraverso di lei: «Sei un pellegrino in viaggio, ma prova a goderti il viaggio».

(John Powell, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 41997, 134-135).

 

La vita eterna  che cos’è?

«Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo.

Continuare a vivere in eterno  senza fine  appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine –  questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile.

È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: “È vero che la morte non faceva  parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio […] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non illumina la grazia”. Già prima Ambrogio aveva detto: “Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza…”».

(BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, 24-25).

 

Signore, fa di me uno strumento della tua pace,

Signore, fa di me uno strumento della tua pace,

dove c’ è l’odio che io porti l’amore,

dove c’è l’offesa che io porti il perdono,

dove c’ è la discordia che io porti l’unione,

dove c’ è l’errore che io porti la verità,

dove c’ è il dubbio che io porti la fede,

dove c’ è la disperazione che io porti la speranza,

dove c’ è il buio che io porti la luce,

dove c’ è la tristezza che io porti la gioia.

Fa’, o Signore, che io non cerchi tanto

di essere consolato quanto di consolare,

di essere compreso quanto di comprendere,

di essere amato quanto di amare.

Perché è dimenticando se stesso che ci si trova,

è morendo che si risuscita

alla vita eterna”.

        (Preghiera Semplice, attribuita a S. Francesco).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO ANNO B

 

NATIVITA’ DI S. GIOVANNI BATTISTA

Prima lettura:Isaia 49,1-6

Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane; il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome. Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio». Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza – e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».

      

 

v Nel libro di Isaia sono inseriti quattro brani lirici, detti i canti del servo, i quali presentano un servo di Dio perfetto, adunatore del suo popolo e luce delle nazioni, che predica la vera fede, che espia con la sua morte i peccati del popolo ed è glorificato da Dio.

Riguardo a questi quattro poemetti gli esegeti non sono d’accordo sulla loro origine e sul loro significato; anche l’identificazione del Servo è molto discussa; vi si è visto la figura della comunità di Israele, ma le caratteristiche individuali sono molto accentuate; perciò altri esegeti, che sono attualmente in maggioranza, riconoscono nel servo un personaggio storico, del passato o del presente. In questa prospettiva l’opinione più probabile è quella che identifica il servo sofferente con Isaia stesso. Alcuni pensano di poter combinare le due interpretazioni, considerando il servo come un individuo che incorpora i destini del suo popolo.

In ogni caso il servo è mediatore della salvezza futura, il che giustifica l’interpretazione messianica che è stata data a questi passi. Gesù ha evocato questi passi applicandoli a se stesso e alla sua missione (Lc 22,19-20.37; Mc 10,45).

Il brano della lettura costituisce il secondo dei canti del servo.

Questo secondo canto riprende i temi del primo (Is 48,1-8) insistendo su alcuni aspetti della missione del servo; la sua predestinazione (Is 49,1,5), la missione estesa non al solo Israele che il servo deve riunire, ma anche alle nazioni che deve illuminare (Is 49,6). Egli deve compiere una predicazione nuova che scuote (Is 19,2), che porta luce e salvezza (Is 49,6). Si accenna anche a un insuccesso del servo (Is 49,4) e viene esaltata la sua fiducia in Dio solo (Is 49,4-5) che si conclude con il trionfo finale. Il fatto che nel testo sia nominato Israele nella frase: «Mio servo sei tu, Israele» suggerisce l’ambivalenza della figura del servo, che ora è Israele, cioè tutta la comunità del popolo eletto, ora il suo capo e salvatore.

 

Seconda lettura: Atti 13,22-26

 

In quei giorni, [nella sinagoga di Antiochia di Pisìdia,] Paolo diceva:
«Dio suscitò per i nostri padri Davide come re, al quale rese questa testimonianza: “Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore; egli adempirà tutti i miei voleri”. Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio inviò, come salvatore per Israele, Gesù. Giovanni aveva preparato la sua venuta predicando un battesimo di conversione a tutto il popolo d’Israele. Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”. Fratelli, figli della stirpe di Abramo, e quanti fra voi siete timorati di Dio, a noi è stata mandata la parola di questa salvezza».

       

 

v I capitoli 13-15 degli Atti sono come il cuore del libro; in essi avviene il passaggio dell’annuncio evangelico dai Giudei ai pagani, in modo tale che ciò che era accaduto già con Pietro nella predicazione in casa di Cornelio, ora diventa prassi abituale, e il concilio di Gerusalemme sancisce la dottrina ufficiale sulle relazioni tra i credenti in Cristo di origine ebraica. Come Pietro dopo il discorso inaugurale di Pentecoste si era rivolto dapprima agli Ebrei di Gerusalemme e poi ai pagani presenti nella casa del centurione Cornelio per annunciare il messaggio di fede su Gesù, lasciandosi condurre dagli avvenimenti provvidenziali e dall’iniziativa di Dio in essi operante, così l’apostolo Paolo prima si rivolge ai membri del popolo eletto per annunciare il messaggio della risurrezione di Gesù, poi di fronte al loro rifiuto, si rivolge ai pagani.

     Il brano della lettura è una sezione del primo grande discorso di Paolo agli Ebrei della diaspora in Antiochia di Pisidia, il secondo sarà rivolto ai pagani, ai Greci dell’areopago di Atene. Con la presente allocuzione si può dire che inizia la missione e l’opera dell’apostolo nella Chiesa primitiva, dopo quella di Pietro. Si va realizzando il programma enunciato da Gesù (At 1,8): dopo Gerusalemme e la Giudea, l’evangelizzazione si avvia verso gli estremi confini della terra. Nasce così la comunità di Antiochia di Siria (At 11,19-26) che a partire da questo momento diviene anch’essa centro di spinta missionaria. Da Antiochia di Siria parte l’avventura missionaria di Paolo che si spinge fino all’altra Antiochia, quella di Pisidia città nell’interno dell’altopiano anatolico per raggiungere la quale era necessario un viaggio lungo, faticoso e pericoloso. L’intero discorso di Paolo, che può ritenersi un paradigma della sua predicazione ai Giudei, si trova perciò collocato in un tempo forte per la Chiesa nascente.

     La prima parte traccia un compendio della storia di salvezza, dall’elezione del popolo al periodo dei giudici, al tempo della monarchia (At 13,16-21). La seconda parte da Davide passa direttamente all’annuncio di Gesù, è l’evangelo su Gesù (At 13,22-37). La terza parte proclama il perdono dei peccati e la giustificazione mediante la fede. Il passo della lettura appartiene alla seconda parte (At 13,38-41).

     L’intera seconda parte del discorso è incentrata su Gesù e la sua risurrezione. La sezione che costituisce il brano della lettura è incentrata sulla persona di Giovanni Battista, precursore di Cristo. Egli è presentato come colui che ha predicato il battesimo di penitenza; le frasi su di lui rivelano che il Battista appartiene al tempo dei profeti che preparano la venuta di Gesù. Luca ripete le frasi con le quali nel vangelo il precursore aveva presentato se stesso e insieme aveva presentato Cristo: «Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali» (At 13,25).

     Questo annuncio è denominato come «parola di questa salvezza» (At 13,26). Nella persona di Gesù infatti si è realizzata la salvezza che costituiva la grande attesa della fede del popolo eletto.

 

Vangelo: Luca 1,57-66.80

 

Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei. Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante si aprirono la sua bocca e la sua lingua, e parlava benedicendo Dio. Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui. Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.

 

  

Esegesi

Dopo il duplice quadro delle annunciazioni — a Zaccaria del concepimento e della nascita di Giovanni Battista, a Maria del concepimento e della nascita di Gesù — ecco ora il quadro della nascita di Giovanni e della sua circoncisione, ricco di riferimenti biblici all’antico Testamento. Con il fatto della nascita di Giovanni avviene il compimento della promessa fatta a Zaccaria suo padre nell’annunciazione datagli dall’angelo Gabriele.

L’economia della salvezza è giunta a un momento decisivo con la venuta nel mondo del precursore di Gesù; l’atmosfera di gioia e di benedizione che inquadra tutta la scena prepara l’espansione dell’allegrezza messianica e della glorificazione di Dio che sta per avvenire con la nascita di Gesù.

Il passo evangelico si struttura nel modo seguente: il parto di Elisabetta, la reazione gioiosa dei parenti e vicini; la circoncisione e imposizione del nome al bambino, la fine del mutismo di Zaccaria, la reazione dei vicini. A questo insieme, dopo la proclamazione dell’inno di Zaccaria, va congiunta la notizia finale sull’infanzia e la vita nascosta di Giovanni nel deserto.

La nascita di Giovanni: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio» (Lc 1,57). Con la nascita di Giovanni viene dato compimento alla promessa dell’angelo a Zaccaria: «tua moglie ti darà un figlio» (Lc 1,13). L’espressione sul compiersi del tempo indica l’attenzione dell’evangelista all’aspetto temporale storico degli avvenimenti salvifici; l’azione di Dio a favore degli uomini entra nel ritmo temporale, si accompagna alla loro storia, l’assume e così eleva il tempo e la storia degli uomini all’altezza dell’eternità. È questa la dialettica del mistero divino: entrare nell’umano, nello storico, per comunicare il divino e l’eterno.

La gioia dei parenti e dei vicini: «I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei» (Lc 1,58). Dio rende grande la sua misericordia come manifestazione del suo favore, della sua grazia, che opera la salvezza umana. I parenti e i vicini di Elisabetta non avevano ancora appreso la notizia della sua maternità durante il tempo della sua gravidanza perché la donna si era tenuta nascosta (Lc 1,24). I parenti e i vicini di Elisabetta ascoltano la notizia della nascita, vengono messi ora di fronte a una espressione della bontà e della grandezza di Dio e partecipano alla gioia che si diffonde e diviene comune.

La nascita del bambino è immersa nella gioia; si realizza ciò che l’angelo aveva detto a Zaccaria: «avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita» (Lc 1,14). Nel caso di Giovanni si tratta di un bambino nato da una donna anziana ritenuta sterile. Trattandosi del compimento della volontà divina di salvezza anche San Paolo invita i cristiani a partecipare alla sua gioia per il servizio e il sacrificio apostolico: «anche voi godetene e rallegratevi con me» (Fil 2,18). Il tema della gioia è caratteristico per il vangelo dell’infanzia e per l’intera opera di Luca.

Circoncisione e imposizione del nome: «Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati (Lc 1.59-63).

Secondo il comando di Dio ad Abramo, ripreso nella legge di Mosè, un bambino doveva essere circonciso l’ottavo giorno dalla sua nascita (Gn 17,12; Lev 12,3). La circoncisione richiama a Dio la sua alleanza e all’uomo la sua appartenenza al popolo eletto con gli obblighi che ne derivano. Per i singoli Israeliti maschi la circoncisione era il segno della dignità di membri del popolo sacerdotale regale e profetico, era la garanzia di partecipare alle benedizioni promesse da Dio e il segno distintivo dai non Israeliti.

Viene elaborata tutta una dottrina teologica riguardante la circoncisione; san Paolo la interpreta come «sigillo della giustizia nella fede» (Rm 4,11), cioè segno di una giustizia che consiste nel credere con fede vissuta. La circoncisione poteva venire eseguita da qualunque israelita; la sua importanza dispensava perfino dalla legge rigorosa del riposo sabbatico.

Nel nostro testo, secondo la consuetudine del tempo, con il rito della circoncisione è congiunta la imposizione del nome. Il passo che consideriamo costituisce una concentrazione della teologia del nome. È precisamente sulla imposizione del nome che l’evangelista fissa la sua attenzione. Il testo è costruito sulla opposizione tra la proposta umana e la scelta divina. Coloro che vengono per circoncidere il bambino seguendo le consuetudini, propongono di dare un nome presente nell’ascendenza fa-  miliare, in questo caso il nome del padre Zaccaria. Il piano di Dio è un altro, esso si rivela nell’accordo che emerge tra Elisabetta e Zaccaria, senza che fra di loro sia avvenuta comunicazione a causa del mutismo di Zaccaria. L’accordo dei genitori sullo stesso nome da assegnare al figlio esprime la loro volontà di ricordare a tutti che quel bambino indica l’iniziativa libera e gratuita di Dio; il nome sarà Giovanni, che significa: Dio è favorevole, nome che era stato rivelato dall’angelo a Zaccaria durante la visione avvenuta nel tempio (Lc 1,13). Tale nome del bambino apre uno spiraglio di luce sul segreto della sua missione futura, la benevolenza, la grazia, il favore divino verso i credenti avranno in lui l’inizio della realizzazione definitiva.

Il passo si conclude con l’annotazione: «tutti furono meravigliati». Viene così annunciato un altro tema caratteristico, la meraviglia gioiosa, l’ammirazione per le opere di Dio. La gioia e la meraviglia sono il clima operato dal dispiegarsi dell’agire salvifico di Dio entro la dimensione dello spazio e del tempo umano per realizzare il suo piano attraverso coloro che egli manda; qui il mandato da Dio è Giovanni, il precursore di Gesù.

Fine del mutismo di Zaccaria: «In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio» (Lc 1,64). Gli eventi annunciati dall’angelo a Zaccaria durante il servizio liturgico nel tempio ottengono ora il loro ultimo compimento; si tratta del segno che Zaccaria aveva domandato all’angelo e l’angelo aveva accordato dicendogli: «Sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole le quali si adempiranno a loro tempo» (Lc 1,20).

Adesso il figlio è nato, il nome stabilito è stato dato, perciò finisce per Zaccaria l’impossibilità di parlare, la sua bocca si apre, la sua lingua si scioglie, egli parla. Aveva perduto improvvisamente la parola, la riacquista ora improvvisamente e come il mutismo aveva assunto anche l’aspetto di punizione per la mancanza di fede, ora la guarigione è il segno che la sua fede è piena e matura. Questa infatti si espande in lode di Dio. La nascita di Giovanni fa sì che la bocca di suo padre si apra ed egli possa proclamare la meravigliosa azione di Dio benedicendolo. Il parlare di Zaccaria benedicendo Dio è testimonianza per tutti gli ascoltatori della sua fede e delle gesta divine.

La reazione dei vicini: «Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui» (Lc 1,65-66). Coloro che erano testimoni di questi eventi furono ripieni di timore e di riverenza, comprendendo che attraverso tutti questi segni stava accadendo un singolare prodigio e intervento di Dio.

Avevano conosciuto Elisabetta sterile e anziana, diventare madre; avevano veduto il vecchio sacerdote reso muto, divenire padre; avevano assistito all’imposizione di un nome inconsueto e inatteso, dichiarato dalla madre e confermato dal padre; erano stati spettatori dell’improvvisa loquela di Zaccaria; tutti questi fatti generavano negli animi un profondo sentimento religioso di riverenza. Tale infatti è il senso del «timore», tema frequentemente ricorrente nel vangelo di Luca. Il timore del Signore non è principalmente il sentimento della paura; esso implica anche l’amore pieno di riverenza e la disposizione d’animo alla obbedienza verso ciò che Dio comanda; esso è l’inizio e il coronamento della sapienza di fede in cui si sviluppa la relazione interpersonale tra i credenti e Dio in modo che timore e amore, sottomissione e confidenza filiale convergono fino alla coincidenza.

Questo sentimento della ristretta cerchia dei parenti e dei vicini di Zaccaria ed Elisabetta si diffonde con la notizia degli eventi in tutta la regione della Giudea. Il messaggio percorre spazi più vasti del solo ambiente in cui si è verificato l’intervento diretto di Dio; chi lo accoglie se ne fa egli stesso araldo e in tale modo di bocca in orecchi, e di orecchi in bocca l’annuncio viene divulgato. Coloro che ascoltano ripongono nel loro cuore, nella loro memoria, nella loro riflessione il contenuto del messaggio e vi trovano il nutrimento per la loro fede e la loro pietà. Così Giovanni appena nato è costituito nella sua persona un segno manifestativo, una orientazione di tutti verso Dio. La sua presenza, il suo esistere nel mondo, anche se ancora protetto dall’infanzia, è già sulla bocca e nell’animo della gente. Di lui dicevano: « Che sarà mai questo bambino?» (Lc 1,66) esprimendo un sentimento di intensa ammirazione.

L’ultima espressione: «La mano di Dio stava con lui» (Lc 1,66) significa l’efficace presenza, assistenza, protezione di Dio e la certezza dell’esito felice del compito affidato a Giovanni. La mano del Signore nella sacra Scrittura è il simbolo della forza di Dio, della sua onnipotenza che salva. Da tutti gli eventi raccontati appare che Dio assume il fanciullo sotto la sua speciale provvidenza come strumento del suo piano salvifico, le espressioni che seguono confermano e illustrano nella vita nascosta di Giovanni questa presenza e questo speciale governo divino.

La vita nascosta di Giovanni: «Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele» (Lc 1,80). Questa descrizione sulla vita dell’infanzia di Giovanni abbraccia tutto il periodo che va dalla circoncisione e imposizione del nome fino all’inizio del ministero pubblico del precursore. Viene indicata la crescita fisica e spirituale, la scelta del deserto come luogo di residenza abituale. La maturazione corporale segue le leggi della natura, ma in Giovanni lo Spirito di Dio che aveva già preso possesso di lui fin dal seno della madre (Lc 1,15) e lo aveva mosso nel sussulto dentro il seno materno al momento del saluto di Maria ad Elisabetta (Lc 1,41,44) ora prosegue la sua azione fortificandolo in ordine alla missione pubblica.

Anche la scelta del deserto come ambiente di soggiorno può ascriversi alla mozione dello Spirito, come sarà per Gesù stesso (Lc 4,1). Essendo Giovanni figlio di famiglia sacerdotale la sua destinazione ordinaria sarebbe stata quella di dedicarsi al servizio liturgico del tempio; ma la chiamata di Dio lo destina al compito di essere l’araldo dell’epoca messianica, il precursore di Cristo. La permanenza nel deserto come luogo di solitudine in cui si è più vicini a Dio costituisce la preparazione di Giovanni alla sua missione.

 

Meditazione 

L’evento della nascita di Giovanni Battista illumina gli altri testi biblici: il testo di Isaia ne diviene profezia («il Signore mi ha plasmato suo servo fin dal seno materno»: Is 49,5), mentre il passo degli Atti è sintesi del ministero di Giovanni e accenna alla sua  «nuova nascita», se così possiamo chiamare il suo diminuire per lasciar crescere il Messia di cui egli è il precursore (At 13,25).

L’importanza capitale di Giovanni nell’economia cristiana appare dal fatto che solo di lui e di Maria (oltre che, ovviamente, di Gesù) la chiesa celebra liturgicamente la nascita.

Giovanni, il cui nome significa «il Signore fa grazia», è figlio della vecchiaia e figlio della grazia. Vecchiaia dei suoi genitori e sterilità della madre sono l’alveo di impotenza su cui si posa la grazia del Signore, la sua misericordia: «Il Signore aveva esaltato in Elisabetta la sua misericordia» (Lc 1,58). Giovanni, con il suo venire al mondo, narra la misericordia di Dio ai suoi genitori: il suo nascere è per Zaccaria ed Elisabetta dono insperato che giunge contro ogni attesa e previsione. E l’esperienza della grazia, quando si abita nell’impotenza, infonde coraggio. Il coraggio con cui Elisabetta, contro ogni consuetudine famigliare e uso sociale, impone il nome «Giovanni» al bambino. E Zaccaria appoggia la moglie contro le contestazioni del parentado. Da dove vengono il coraggio della vecchia donna che era chiamata «la sterile» (Lc 1,36) e la lucidità amorosa del vecchio sacerdote reso muto? Forse è il coraggio che nasce dall’aver traversato molte tribolazioni, dall’essere stati umiliati e provati, arrivando a conoscere ciò che nella vita di fede è veramente essenziale: la misericordia di Dio.

I genitori di Giovanni sono uomini resi poveri e umili dalla vita: sono dei «poveri di sé», dei «poveri in spirito», cioè persone libere, che non hanno un ego da difendere e che sanno dunque vedere la realtà e se stessi con occhi semplici e sguardo puro, non inquinato. Questa lezione dell’essenziale, di ciò che è veramente prezioso, è spesso appresa da chi ha conosciuto la fatica e la durezza del vivere e le ha sopportate con pazienza. E conoscere l’essenziale dona parresia e forza, capacità di affrontare con libertà e coraggio ostacoli, contestazioni e diffidenze.

Giovanni è anche figlio della fede provata. Elisabetta e Zaccaria erano «giusti davanti a Dio» (Lc 1,6) ed erano rimasti giusti anche in mezzo alle prove. Noi certamente pensiamo che per loro deve essere stato difficile discernere la giustizia di Dio: perché quella sterilità? Perché quella vecchiaia senza futuro? Giovanni è anche il figlio di questa fede che accetta di perseverare, di questa fedeltà che a noi può sembrare folle o eroica, ma che per i due genitori era forse semplicemente il quotidiano cammino da percorrere senza tante storie e lamenti, senza accuse rivolte a Dio o all’ingiustizia della vita.

Certo, Zaccaria ha conosciuto anche cedimenti nella fede: in lui mutismo e uso della parola accompagnano rispettivamente incredulità e fede (cfr. Lc 1,18-20; Lc 1,63-64). Impossibilitato a benedire il popolo al termine della liturgia al Tempio (Lc 1,22), ora egli benedice Dio avendo riconosciuto il suo intervento (Lc 1,64).

Credere all’intervento benedicente di Dio nella miseria della propria vita è la condizione per trasmettere agli altri la benedizione di Dio.

Nel rapporto genitori-figli, generare implica anche il dare il nome. E dare il nome è fare una promessa e assegnare un compito: tu vivrai la tua vita, vivrai nel tuo nome, realizzerai la tua unicità. Dare il nome è esercitare un potere e un’autorità disponendosi a spogliarsi di tale autorità e di tale potere.

Se Giovanni crescerà nel deserto (Lc 1,80) e nel deserto svolgerà il suo ministero e la sua predicazione annunciando l’imminenza del Regno e della visita di Dio, egli era già il figlio dell’intervento di Dio nel deserto simbolico della vecchiaia e della sterilità dei suoi genitori. E come i suoi genitori avevano saputo imparare l’essenziale da ciò che patirono e soffrirono, anch’egli saprà discernere e mostrare l’essenziale ai suoi contemporanei indicando in Gesù di Nazaret il Messia.

 

L’immagine della domenica

    


LAUDATO SI’

Laudato si’, mi’ Signore,

per sor’aqua, la quale è multo utile

et humile et pretiosa et casta. 

(Dal Cantico delle Creature)


 

Preghiere e racconti

La nascita di Giovanni

La Chiesa festeggia la natività di Giovanni, attribuendole un particolare carattere sacro. Di nessun santo, infatti, noi celebriamo solennemente il giorno natalizio; celebriamo invece quello di Giovanni e quello di Cristo. Giovanni però nasce da una donna avanzata in età e già sfiorita. Cristo nasce da una giovinetta vergine. Il padre non presta fede all’annunzio sulla nascita futura di Giovanni e diventa muto. La Vergine crede che Cristo nascerà da lei e lo concepisce nella fede. Sembra che Giovanni sia posto come un confine fra due Testamenti, l’Antico e il Nuovo. Infatti che egli sia, in certo qual modo, un limite lo dichiara lo stesso Signore quando afferma: «La Legge e i Profeti fino a Giovanni» (Lc 16, 16). Rappresenta dunque in sé la parte dell’Antico e l’annunzio del Nuovo. Infatti, per quanto riguarda l’Antico, nasce da due vecchi. Per quanto riguarda il Nuovo, viene proclamato profeta già nel grembo della madre. Prima ancora di nascere, Giovanni esultò nel seno della madre all’arrivo di Maria. Già da allora aveva avuto la nomina, prima di venire alla luce. Viene indicato già di chi sarà precursore, prima ancora di essere da lui visto. Questi sono fatti divini che sorpassano i limiti della pochezza umana. Infine nasce, riceve il nome, si scioglie la lingua del padre. Basta riferire l’accaduto per spiegare l’immagine della realtà.

Zaccaria tace e perde la voce fino alla nascita di Giovanni, precursore del Signore, e solo allora riacquista la parola.

Che cosa significa il silenzio di Zaccaria se non la profezia non ben definita, e prima della predicazione di Cristo ancora oscura? Si fa manifesta alla sua venuta. Diventa chiara quando sta per arrivare il preannunziato. Il dischiudersi della favella di Zaccaria alla nascita di Giovanni è lo stesso che lo scindersi del velo nella passione di Cristo. Se Giovanni avesse annunziato se stesso non avrebbe aperto la bocca a Zaccaria. Si scioglie la lingua perché nasce la voce. Infatti a Giovanni, che preannunziava il Signore, fu chiesto: «Chi sei tu?» (Gv 1, 19). E rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto» (Gv 1, 23). Voce è Giovanni, mentre del Signore si dice: «In principio era il Verbo» (Gv 1, 1). Giovanni è voce per un po’ di tempo; Cristo invece è il Verbo eterno fin dal principio.

(Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo: Disc. 293, 1-3; PL 38, 1327-1328).

 

Giovanni Battista

Il personaggio

 

Luca ci racconta con molti particolari l’annuncio solenne della nascita di Giovanni. Come dice A. Nocent: «Così Dio vuole sottolineare che egli stesso prende l’iniziativa della salvezza del suo popolo. Egli stesso sceglie gli strumenti e se ne serve a modo suo. L’annuncio della nascita di Giovanni è solenne: esso avviene nell’inquadratura liturgica del tempio. Fin dalla designazione del nome del bambino, “Giovanni”, che significa: “Dio è favorevole”, tutto diventa una precisa preparazione divina dello strumento che il Signore si è scelto. Il suo arrivo non passerà inavvertito e la sua nascita sarà accolta con gioia da molti (Lc 1,14). Sarà un uomo consacrato e, come prescrive il libro dei Numeri (6,1), si asterrà dal vino e dalle bevande inebrianti. Il nazireato è già segno della sua vocazione di asceta. Lo Spirito abita in lui dal seno di sua madre. Alla vocazione di asceta si aggiunge quella di guida del popolo (Lc 1,17). Egli precederà il Messia, funzione che Malachia attribuiva a Elia (3,23). Nella sua circoncisione un fatto significativo indica ancora la scelta divina: nessuno nel suo parentado porta il nome di Giovanni (Lc 1,6), ma il Signore vuole che sia chiamato così, sconvolgendo le usanze. È il Signore che lo ha scelto, è lui che dirige il gioco e conduce il suo popolo».

L’incontro fra Giovanni e Gesù, tra il Precursore e il Salvatore, avviene già prima della nascita. È l’unione tra i due Testamenti, nel momento in cui l’Antico lascia il passo al Nuovo. Al significativo particolare dell’annuncio delle loro nascite, si aggiunge l’incontro nel seno materno, quando Maria visita Elisabetta e la creatura di questa le salta di gioia nel grembo (Lc 1,39-45). Gesù causa gioia, Giovanni la riceve. Le loro madri, partecipi della gioia, intonano ognuna un canto di lode. Elisabetta si rivolge alla madre del suo Signore, dichiarandola benedetta tra tutte le donne; Maria, riprendendo le promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza, proclama la grandezza del Signore e si rallegra in Dio, suo salvatore (cf. Lc 1,46-56). Abbiamo una stretta consonanza anche nella designazione divina dei loro nomi e nell’accostamento dei loro significati: favore di Dio, salvezza di Dio; nei cantici profetici di Zaccaria e di Simeone, quando i bambini saranno circoncisi. La consonanza si farà abbraccio nel passaggio da un’èra all’altra in occasione del battesimo di Gesù da parte di Giovanni; e si farà abbraccio di congedo quando, dopo aver indicato Gesù come «l’Agnello di Dio colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29), Giovanni riconosce umilmente: «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,30).

Dopo averci offerto tanta abbondanza di particolari sulla sua nascita, i vangeli non ci parlano più di Giovanni Battista fino al battesimo di Gesù. Alcuni autori avanzano congetture e supposizioni a questo proposito: che si fosse formato in una delle comunità di vita ascetica del deserto (gli esseni) e che alcuni membri di tali comunità lo avessero seguito come discepoli per iniziare la sua predicazione… I vangeli lo presentano mentre predica la conversione secondo la missione profetica che gli era stata affidata. Ci offrono alcuni dettagli (per esempio Mt 3,1-12) dai quali deduciamo la sua personalità: vita austera, penitente, radicale; uomo sincero e incorruttibile, esigente e coerente. L’abbigliamento, il cibo, il modo di parlare ci rivelano la figura del profeta di vecchio stampo.

Punto di contraddizione, trascinerà masse di persone semplici in sincera ricerca, ma si scontrerà con l’opposizione delle classi privilegiate, che vedevano vacillare la loro posizione, se le dure denunce di Giovanni, tanto scarne quanto giuste, avessero sortito il loro effetto. La fine del Battista, la decapitazione, ne è una drammatica testimonianza (Mc 6,17-29).

Nessun altro personaggio ha avuto il privilegio che egli ottenne, dal momento che Gesù stesso gli dedicò un panegirico: « Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Che cosa dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re! E allora che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta. Egli è colui, del quale sta scritto: “Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te”. In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,2-11; Lc 7,24-30). Proprio queste parole di Gesù, che riassumono ed esaltano la figura di Giovanni, ci danno l’occasione di addentrarci nella descrizione della missione a lui affidata.

 

La sua missione

 

Gesù non poteva essere più esplicito nell’applicare a Giovanni le parole del profeta: «Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero». Giovanni Battista è il segno dell’irruzione di Dio in mezzo al suo Popolo. Come aveva proclamato il padre Zaccaria intonando il Benedictus (Lc 1,67-69), il Signore visita e redime il suo popolo realizzando le promesse. Egli è il Precursore e il suo ruolo è «preparare la via al Signore». Il compimento di questa missione si riassume a sua volta nella frase che i vangeli ricordano come inizio della sua predicazione: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!».

Ma, per quanto importante, la missione di Giovanni non finisce qui, bensì raggiunge il suo punto culminante nel duplice incontro che abbiamo citato prima: il battesimo di Gesù e la designazione di Cristo da parte di Giovanni come l’Agnello di Dio. Dicevamo che è l’incontro e il passaggio da un’alleanza all’altra. Il battesimo di Giovanni era battesimo di acqua in segno di penitenza per i propri peccati. Quello di Gesù sarà un battesimo «in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,1-12): brucerà il peccato, ma anche la morte, sua nefasta conseguenza; sorgerà la nuova luce e lo Spirito infonderà la vita nuova. Coloro che rinasceranno a questa vita rinasceranno alla vita stessa di Dio, saranno fratelli di Cristo e partecipi del suo trionfo e della sua risurrezione. In questo senso Gesù diceva che «il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui (Giovanni)» (Mt 11,11).

Questo aspetto viene simboleggiato, con le rispettive differenze, dalle date che la liturgia segnala per la nascita di Gesù e di Giovanni. Da una parte i due personaggi, strettamente uniti, che dividono in due il calendario coincidendo con i solstizi d’inverno (25 dicembre) e d’estate (24 giugno). Dall’altra Giovanni, come luce splendente dell’Antico Testamento, ha la sua festa nel giorno più lungo dell’anno. Tuttavia non può riuscire a dominare la notte; egli non è la luce ma il testimone della luce (Gv 1,8). Domani la notte comincerà a essere un po’ più lunga di oggi, sempre un po’ di più… fino alla notte di Natale, la più corta. Si direbbe che le tenebre abbiano vinto, ma non è così. Cristo nasce oggi. Egli è la luce, il nuovo sole e perciò domani il giorno sarà un po’ più lungo, un po’ di più… e la luce vincerà le tenebre.

Anche l’altro momento è particolarmente significativo. «In modo ancora più positivo – dice A. Nocent – Giovanni dovrà indicare colui che è già presente ma che ancora non si conosce (Gv 1,26) e che egli addita quando lo vede venire da lui: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29). Giovanni corrisponde e vuole corrispondere a ciò che è stato detto di lui e predetto per lui. Deve testimoniare che il Messia è presente. Il modo con cui lo indica già esprime ciò che il Cristo rappresenta per lui: è “l’Agnello di Dio”. Il Levitico nel capitolo 14 descrive l’immolazione dell’agnello in espiazione dell’impurità legale. Leggendo questo passo, san Giovanni evangelista pensa al servo del Signore descritto da Isaia nel capitolo 53 e che porta su di sé i peccati d’Israele. Giovanni Battista, indicando il Cristo ai suoi discepoli, già lo vede come la vera Pasqua che supera quella dell’Esodo (12, 1) e dalla quale l’universo otterrà la salvezza». A partire da questo momento si mette in disparte. Non si tratta di una minuzia: è una parte altrettanto fondamentale della sua missione con un messaggio molto concreto.

 

Giovanni, il Battista, dono di Dio

Per Elisabetta si compì il tempo e diede alla luce un figlio. I figli vengo­no alla luce come compi­mento di un progetto, vengo­no da Dio. Caduti da una stel­la nelle braccia della madre, portano con sé scintille d’infinito: gioia (e i vicini si ralle­gravano con la madre) e pa­rola di Dio. Non nascono per caso, ma per profezia. Nel lo­ro vecchio cuore i genitori sentono che il piccolo appar­tiene ad una storia più gran­de, che i figli non sono nostri: appartengono a Dio, a se stes­si, alla loro vocazione, al mon­do. Il genitore è solo l’arco che scocca la freccia, per farla vo­lare lontano. Il passaggio tra i due testamenti è un tempo di silenzio: la parola, tolta al tem­pio e al sacerdozio, si sta in­tessendo nel ventre di due madri. Dio traccia la sua sto­ria sul calendario della vita, e non nel confine stretto delle i­stituzioni.
Un rivoluzionario rovescia­mento delle parti, il sacerdo­te tace ed è la donna a pren­dere la parola: si chiamerà Giovanni, che in ebraico si­gnifica: dono di Dio. Elisabet­ta ha capito che la vita, l’a­more che sente fremere den­tro di sé, sono un pezzetto di Dio. Che l’identità del suo bambino è di essere dono. E questa è anche l’identità profonda di noi tutti: il nome di ogni bambino è «dono per­fetto».

Stava la parola murata den­tro, fino a quando la donna fu madre e la casa, casa di profe­ti.
Zaccaria era rimasto muto perché non aveva creduto al­l’annuncio dell’angelo. Ha chiuso l’orecchio del cuore e da allora ha perso la parola. Non ha ascoltato, e ora non ha più niente da dire. Indicazio­ne che mi fa pensoso: quan­do noi credenti, noi preti, smarriamo il riferimento alla Parola di Dio e alla vita, di­ventiamo afoni, insignifican­ti, non mandiamo più nessun messaggio a nessuno. Eppu­re il dubitare del vecchio sa­cerdote non ferma l’azione di Dio. Qualcosa di grande e di consolante: i miei difetti, la mia poca fede non arrestano il fiume di Dio.

Zaccaria incide il nome del fi­glio: «Dono-di-Dio», e subito riprende a fiorire la parola e benediceva Dio. Benedire su­bito, dire-bene come il Crea­tore all’origine ( crescete e mol­tiplicatevi): la benedizione è una energia di vita, una forza di crescita e di nascita che scende dall’alto, ci raggiunge, ci avvolge, e ci fa vivere la vita come un debito d’amore che si estingue solo ridonando vi­ta.

Che sarà mai questo bambi­no? Grande domanda da ri­petere, con venerazione, da­vanti al mistero di ogni culla. Cosa sarà, oltre ad essere do­no che viene dall’alto? Cosa porterà al mondo? Un dono unico e irriducibile: lo spazio della sua gioia; e la profezia di una parola unica che Dio ha pronunciato e che non ripe­terà mai più (Vannucci). Sarà «voce», proprio come il Batti­sta, la Parola sarà un Altro.

(Ermes Ronchi)

 

Solennità della Nascita di San Giovanni Battista

 

Oggi, 24 giugno, celebriamo la solennità della Nascita di San Giovanni Battista. Se si eccettua la Vergine Maria, il Battista è l’unico santo di cui la liturgia festeggia la nascita, e lo fa perché essa è strettamente connessa al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Fin dal grembo materno, infatti, Giovanni è il precursore di Gesù: il suo prodigioso concepimento è annunciato dall’Angelo a Maria come segno che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37), sei mesi prima del grande prodigio che ci dà salvezza, l’unione di Dio con l’uomo per opera dello Spirito Santo. I quattro Vangeli danno grande risalto alla figura di Giovanni il Battista, quale profeta che conclude l’Antico Testamento e inaugura il Nuovo, indicando in Gesù di Nazaret il Messia, il Consacrato del Signore. In effetti, sarà lo stesso Gesù a parlare di Giovanni in questi termini: «Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, / davanti a te egli preparerà la via. In verità io vi dico: fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,10-11).Il padre di Giovanni, Zaccaria – marito di Elisabetta, parente di Maria –, era sacerdote del culto dell’Antico Testamento. Egli non credette subito all’annuncio di una paternità ormai insperata, e per questo rimase muto fino al giorno della circoncisione del bambino, al quale lui e la moglie dettero il nome indicato da Dio, cioè Giovanni, che significa «il Signore fa grazia». Animato dallo Spirito Santo, Zaccaria così parlò della missione del figlio: «E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo / perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, / per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza / nella remissione dei suoi peccati» (Lc 1,76-77). Tutto questo si manifestò trent’anni dopo, quando Giovanni si mise a battezzare nel fiume Giordano, chiamando la gente a prepararsi, con quel gesto di penitenza, all’imminente venuta del Messia, che Dio gli aveva rivelato durante la sua permanenza nel deserto della Giudea. Per questo egli venne chiamato «Battista», cioè «Battezzatore» (cfr Mt 3,1-6). Quando un giorno, da Nazaret, venne Gesù stesso a farsi battezzare, Giovanni dapprima rifiutò, ma poi acconsentì, e vide lo Spirito Santo posarsi su Gesù e udì la voce del Padre celeste che lo proclamava suo Figlio (cfr Mt 3,13-17). Ma la missione del Battista non era ancora compiuta: poco tempo dopo, gli fu chiesto di precedere Gesù anche nella morte violenta: Giovanni fu decapitato nel carcere del re Erode, e così rese piena testimonianza all’Agnello di Dio, che per primo aveva riconosciuto e indicato pubblicamente. Cari amici, la Vergine Maria aiutò l’anziana parente Elisabetta a portare a termine la gravidanza di Giovanni. Ella aiuti tutti a seguire Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio, che il Battista annunciò con grande umiltà e ardore profetico.

(Santo Padre Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’Angelus, 24.06.2012).

 

Preghiera

 

Tu ci parli. Signore, attraverso profeti pienamente inseriti nelle vicende del loro popolo e del loro tempo e insieme capaci di restare in solitudine o di andare nel deserto per fare riascoltare la tua Parola a coloro che li seguono.

Tu ci parli, Signore, attraverso testimoni in grado di condividere le angosce dei loro fratelli, le paure e i drammi degli uomini e insieme pieni di fede nell’indicare la tua presenza già operante, la tua promessa suscitatrice di vita.

Tu ci parli, Signore, attraverso uomini che sanno contestare coraggiosamente le mode, le abitudini, i pregiudizi, i luoghi comuni dei loro contemporanei e insieme profondamente solidali con loro nel ricercare il tuo volto che salva, nel parlare al cuore di chi dispera.

Guarda, ti preghiamo, alla tua Chiesa, alla Chiesa del nostro tempo, a noi che siamo il tuo popolo, costituiti per tua grazia profeti e testimoni della tua verità: donaci di essere mediatori della tua consolazione nel momento stesso in cui denunciamo le nostre e le altrui ipocrisie. Nei deserti della nostra società fa’ risuonare la tua Parola, perché anche noi ‘usciamo’, confessando i nostri peccati per essere di nuovo immersi nella grazia del tuo Spirito.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XII NATIVITÀ GIOVANNI BATTISTA (B)

XI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Ezechiele 17,22-24

Così dice il Signore Dio: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò».

 

 

  • Questo brano dallo stile poetico conclude un oracolo di minaccia rivolto contro il re Sedecia (598-587 a.C.), re di Giuda e di Gerusalemme, oracolo che risale probabilmente a epoca anteriore al 589 e spiega il motivo per cui il re, avendo infranto il suo patto, ha fatto «bancarotta», totale fallimento nella sua politica. Ma di fatto la minaccia (17,1-21) si risolve in una prospettiva di salvezza: l’una e l’altra si corrispondono simmetricamente, come immagini speculari.

Parola di minaccia e parola di salvezza sono presentate tramite un’allegoria: l’immagine dell’albero. Simbolo antichissimo quello dell’al­bero: esso rappresenta il mondo (albero del mondo), le divinità (piante verdi sulle alture cultuali condannate dai profeti), la vita (vedi l’albero della vita in Gen 2), l’uomo stesso («albero piantato lungo corsi d’acque», Sal 1,3: Ger 17), il re (Dan 4), il potere (Gdc 9,7-13; 2 Re 14,9), ecc.

Nella parola di salvezza, il Signore si comporta come un contadino o giardiniere: dalla cima di un albero molto vecchio (un cedro che sim­boleggia la dinastia di Davide) coglie un ramoscello e lo innesta su una pianta più giovane. Dio «giardiniere» è immagine del Dio creatore («piantò un giardino in Eden», Gen 2,8). L’allegoria esprime così la realtà della fine e della continuità: fine, in quanto l’antica dinastia non ci sarà più; continuità, in quanto essa sopravvivrà, anche se sotto altra forma, nel nuovo virgulto.

Il cedro si trova su di un alto monte, vale a dire — al tempo stesso — il mondo ed il colle di Sion, stagliandosi al di sopra di tutti gli altri alberi, nel senso che è più grande e nobile di tutte le altre famiglie regali del mondo (vv. 22-24).

Questo albero inoltre avrà dimensioni tali, da offrire spazio vitale («ombra») e alimento a molti altri esseri viventi (v. 23 ). È un bel tratto allegorico, che ritroveremo nel vangelo odierno, lì dove il Regno di Dio è paragonato al grande albero annunciato nella parola di salvezza del profeta Ezechiele.

 

Seconda lettura: 2Corinzi 5,6-10

Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi. Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.

 

 

  • Questa lettura ha grande importanza riguardo all’esistenza cristiana, in quanto espone il rapporto tra questa vita temporale e la vita eterna presso Dio.

— Lungi dal nostro Signore e Redentore, siamo come non «a casa» (v. 6). È il famoso tema di questa vita come esilio. Non siamo ancora nella nostra esistenza vera, piena, quella che ci conviene del tutto. Segno di ciò è la morte: un giorno dovremo lasciare questa dimora provvisoria e partire, metterci in viaggio per quella eterna. Questa situazione di esilio però non ci angoscia, ma la viviamo nella fiducia del Redentore (vv. 6-8).

— Noi adesso viviamo nella fede, non nell’evidenza della visione (v.7). Il divario e la tensione tra il credere adesso e giungere allora alla visione presso Dio (v. 7) sono fondamentali sia per Paolo che per noi.

Siamo ancora in cammino verso la visione! Siamo orientati e guidati da un anelito verso la visione di Dio (v. 8). Il «vedere Dio» sarà come un abitare, un «essere a casa»: lì noi saremo completamente noi stessi, senza alcuna alienazione.

— Finché ci troviamo in questo stato, siamo responsabili davanti al Cristo (vv. 9-10), giacché dovremo rendere conto della nostra vita vissuta nel tempo. Paolo ci mostra come azione e contemplazione sono tra loro indissociabili: proprio perché ci prepariamo alla visione finale di Dio, il nostro agire quaggiù sulla terra assume un grande peso. Accederemo infatti alla presenza di Dio come coloro i quali avranno vissuto la loro vita sulla terra in conformità o in contrasto col Cristo.

 

Vangelo: Marco 4,26-34

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

 

 

Esegesi 

Fino al cap. 3, il vangelo di Marco mostra principalmente gli spostamenti continui di Gesù, caratterizzati dall’annuncio del regno di Dio (1,15) e dai molteplici prodigi che ne danno conferma. Questo ministero itinerante culmina con la dichiarazione di Gesù relativa ai suoi «parenti»: «Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre» (3,35).

Nel cap. 4 è come se Gesù si fermasse, e facesse il punto sulla sorte del suo annuncio accolto dai discepoli e dalla gente. Su questo tema vertono le parabole del seminatore (4,1-9) con relativa spiegazione ai discepoli (vv. 13-20), e due parabole del regno, che ne descrivono il misterioso dinamismo: il seme che cresce da solo (vv. 26-29) ed il grano di senape (vv. 30-34). Il vangelo odierno comprende appunto queste due ultime parabole.

a) Nella prima parabola (contenuta soltanto nel vangelo di Marco) il significato centrale è costituito dal punto più impressionante, ossia dal contrasto tra la crescita incessante del piccolo seme nella terra e l’attesa «inerte» da parte dell’uomo. Ma occorre evidenziare due elementi: primo, attesa inattiva e ignara dell’uomo («come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa…», v. 26) non vuole inculcare apatia e disinteresse, ma sottolineare semplicemente la verità che la crescita del seme è dono di Dio, frutto della sua grazia, perciò non dipende dall’uomo; secondo, il riferimento alla mietitura (v. 29) evidenzia che, come per il seminatore è certo il tempo della raccolta , così Dio con certezza farà arrivare, alla fine del mondo, l’ora della pienezza del suo regno. L’avvenuto inizio rimanda con sicurezza da un compimento, progettato da Dio e non dall’uomo.

b) Quanto alla seconda parabola (presente anche in Matteo e Luca), essa fa perno su di un altro sorprendente contrasto: il divario tra l’inizio estremamente minuscolo (proverbiale piccolezza del granello di senapa) la crescita enorme ed inattesa dello stesso, al punto da offrire nutrimento ed ombra anche a molti uccelli. Così come è espressa, la parabola potrebbe significare o che la sovranità di Gesù (inizialmente nascosta e limitata a pochi) si estenderà ad un orizzonte che abbraccia tutti gli uomini, oppure che l’attuale sparuto gruppo di discepoli alla fine dei tempi, per la potenza di Dio, si ingrandirà al punto da accogliere tutta quanta l’umanità. Anche qui l’accento cade sul fatto che i risultati non dipendono né dall’impegno né dalle capacità degli uomini, ma in definitiva sono frutto della potenza di Dio.

 

L’immagine della domenica  

 
 

SEMINA

Getta i semi nella terra il contadino,

poi si riposa e guarda tutto intorno;

guarda il campo, la casa e il mulino,

pensa che i semi saran pane un giorno.

(C. Del Soldato)

 

Meditazione

Ezechiele parla dell’azione di Dio con linguaggio allegorico e Marco parla del Regno di Dio con linguaggio parabolico. L’azione di Dio può essere detta, o meglio, evocata, mediante un linguaggio che par­la di inizi modesti, anzi, pressoché invisibili, ma destinati a uno svi­luppo futuro rigoglioso e grandioso. «Come rassomiglieremo il Regno di Dio? O In quale parabola lo metteremo?». Così, letteralmente, dice Mc 4,30. Ovvero, come parla­re del Regno di Dio? Che linguaggio adottare per annunciare il Vangelo? Gesù utilizza un linguaggio parabolico, sapienziale, con­creto, non astratto, non dogmatico, né teologico. Un linguaggio nar­rativo aderente al reale. Gesù parla di Dio narrando storie di re e di pescatori, di seminatori e di contadini. Un linguaggio profonda­mente umano, semplice, comprensibile, che attua una comunicazio­ne aperta, inglobante e non escludente. Come noi, oggi, parliamo delle «cose del Padre»? Come far diventare buona comunicazione la buona notizia del Vangelo, se non lasciando alla Parola di Dio la sua forza di evocazione del mistero e di coinvolgimento del destinatario? Il Vangelo chiede di essere annunciato non come sapere chiuso che esprime la sapienza di chi lo predica o come dottrina che manifesta un Dio inaccessibile, ma come offerta di vita e di relazione per chi lo ascolta. Come benedizione. Altrimenti si rischia di soffocare la buona notizia con una cattiva comunicazione: annunciare il Vangelo «contro», piegarlo a precomprensioni parziali, edulcorarne le esi­genze, dimenticarne la dimensione di perdono e di misericordia.

Alla luce della parabola del seminatore (cfr. Mc 4,1-20) in cui si af­ferma che «il seminatore semina la Parola» (Mc 4,14), si comprende che Gesù qui sta parlando dell’efficacia della Parola di Dio. Il seme se­minato germoglia e completa la sua crescita senza intervento del se­minatore (cfr. Mc 4,27-28). Ma di quale efficacia si tratta? Ora, l’effi­cacia della Parola, così spesso affermata nelle Scritture (cfr. Is 55,10-­11; Eb 4,12), non va intesa in senso mondano e pensata come misurabile in termini quantitativi: la Parola di Dio è sempre «la parola della croce» (1Cor 1,18) e la sua efficacia è dello stesso ordine dell’efficacia salvifica della croce: potenza di vita celata nell’impotenza di un crocifisso. Esattamente come il Regno di Dio che è simile a un seme gettato e che deve essere sepolto nella terra per germinare. Del resto, il seme, simbolo della Parola di Dio e del Regno di Dio, non è anche segno di Cristo stesso e della sua Pasqua, della sua morte e del­la sua resurrezione? «Se il chicco di grano caduto in terra non muo­re, rimane solo; se invece muore produce molto frutto» (Gv 12,24). Caduta nel cuore di un uomo, la Parola di Dio deve rimanervi, esse­re interiorizzata, ascoltata sempre di nuovo con perseveranza, deve essere fatta regnare sulle tante altre parole che distraggono dall’essenziale, fino a divenire principio di discernimento e di azione, dun­que di carità, di misericordia, di perdono, di giustizia, di verità. E l’uomo che avrà coltivato così nel proprio cuore la Parola di Dio sarà da essa rigenerato e ne mostrerà l’efficacia nel suo stesso vivere, sen­za esibizionismi, «come, egli stesso non lo sa».

Spesso le parabole che Gesù narra sono seguite dall’incomprensio­ne degli uditori e dalle spiegazioni che Gesù fornisce ai suoi discepoli (cfr. Mc 4,34). In effetti, il linguaggio semplice delle parabole rivela mentre cela, e richiede un’intelligenza umile e non arrogante, una sa­pienza, una capacità di cogliere in unità la terra di cui narrano le pa­rabole e il cielo a cui alludono. L’intelligenza del mistero non va con­fusa con la conoscenza e ancor meno con l’informazione, ma si situa sul piano della sapienza. E la sapienza, etimologicamente, abbraccia in sé tanto il sapere, quanto il sapore, tanto la mente quanto il palato, tan­to lo spirito quanto il corpo. Un’intelligenza capace di gratitudine è aperta al dono perché il mistero del Regno non è conquista degli in­tellettuali, ma dono accolto dai semplici e dai piccoli (cfr. Mt 11,25).

 

Preghiere e racconti

 

La possibilità della fede

“Aumenta la nostra fede!” A questa richiesta degli Apostoli – voce di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio con umiltà e desiderio – Gesù risponde così: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa, direte a questo monte: ‘spostati da qui a là’, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(Matteo 17,20). Credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara o a un progetto privo di incognite: non si crede a qualcosa che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e piacimento. Credere è fidarsi di qualcuno, assentire alla chiamata dello straniero che invita, rimettere la propria vita nelle mani di un altro, perché sia lui a esserne l’unico, vero Signore. Crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da lui nell’ascolto obbediente e nella docilità del più profondo di sé. Fede è resa, consegna, abbandono, accoglienza di Dio, che per primo ci cerca e si dona; non possesso, garanzia o sicurezza umane. Credere, allora, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi. “Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: gèttati, ti prenderò fra le mie braccia!” (Søren Kierkegaard). Eppure, credere non è un atto irragionevole. È anzi proprio sull’orlo di quell’abisso che le domande inquietanti impegnano il ragionamento: se invece di braccia accoglienti ci fossero soltanto rocce laceranti? E se oltre il buio ci fosse ancora nient’altro che il buio? Credere è sopportare il peso di queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile amante che chiama.

(Bruno FORTE, Lettera ai ricercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 27-28)

 

Dio, seminatore che non si stanca mai di noi

Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno. L’infinito di Dio raccontato da un minuscolo seme, il futuro nella freschezza di un germoglio di senape. Accade nel Regno di Dio come quando un uomo semina. Il Regno accade perché Dio è l’instancabile seminatore, che non è stanco di noi, che ogni giorno esce a immettere nell’universo le sue energie in forme seminali, germinali, come un nuovo giardino dell’Eden che sta a noi custodire e coltivare. E nessun uomo o donna che siano privi dei suoi germi di vita, nessuno troppo lontano dalla sua mano.

Che dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Gesù sottolinea un miracolo infinito di cui non ci stupiamo più: alla sera vedi un bocciolo, il giorno dopo si è aperto un fiore. Senza alcun intervento esterno. Qui affonda la radice della grande fiducia di chi crede: le cose di Dio, l’intera creazione, il bene crescono e fioriscono per una misteriosa forza interna, che è da Dio. Nonostante le nostre resistenze e distrazioni, nel mondo e nel cuore il seme di Dio germoglia e si arrampica verso la luce.

La seconda parabola mostra la sproporzione tra il granello di senapa, il più piccolo di tutti i semi, e il grande albero che ne nascerà. Senza voli retorici: il granello non salverà il mondo. Noi non salveremo il mondo. Ma, dice Gesù, gli uccelli verranno e vi faranno il nido. All’ombra del tuo albero grande accorreranno in molti, all’ombra della tua vita verranno per riprendere fiato, trovare ristoro, fare il nido: immagine della vita che riparte e vince. «Se tu hai aiutato anche uno solo a stare un po’ meglio, la tua vita si è realizzata» (Papa Francesco).

La parabola del granello di senape racconta la preferenza di Dio per i mezzi poveri; dice che il suo Regno cresce per la misteriosa forza segreta delle cose buone, per l’energia propria della bellezza, della tenerezza, della verità, della bontà. Mentre il nemico semina morte, noi come contadini pazienti e intelligenti seminiamo buon grano; noi come campo di Dio continuiamo ad accogliere e custodire i semi dello Spirito, nonostante l’imperversare di tutti gli erodi dentro e fuori di noi. Un seme deposto dal vento nelle fenditure di una muraglia è capace di viverci; è capace, con la punta fragilissima del suo germoglio, di aprirsi una strada nel duro dell’asfalto. Gesù sa di aver immesso nel mondo un germe di bontà divina che, con il suo assedio dolce e implacabile, spezzerà la crosta arida di tutte le epoche, per riportarvi sentori di primavera, di vita fiorita, di mietiture. Tutta la nostra fiducia è in questo: Dio è all’opera in seno alla storia e in me, in alto silenzio e con piccole cose.

(Ermes Ronchi)

 

Così è il regno di Dio

Piccola realtà, ma che ha in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla. Il contadino non può fare davvero nulla: deve solo seminare il seme nella terra, ma poi sia che lui dorma sia che si alzi di notte per controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui. Dopo il tempo pasquale e le due domeniche del tempo Ordinario sulle quali sono state innestate due feste teologiche, quella della Trinità di Dio e quella del Corpo e Sangue di Cristo, la chiesa ci fa riprendere la lettura del vangelo secondo Marco, quello proprio del ciclo liturgico B. Nel vangelo più antico Gesù pronuncia un discorso in parabole come insegnamento rivolto ai discepoli che ha chiamato alla sua sequela e alle folle che ascoltano la sua predicazione del Regno veniente (cf. Mc 4,1-34). Le parabole sono un linguaggio enigmatico che diventa però “mistero” (Mc 4,11) per chi segue Gesù e in qualche modo entra nella sua intimità, fino a trovarsi in uno spazio che può essere definito da Gesù stesso, “dentro” (cf. Mc 3,31-32; 4,11). Nello stesso tempo, le parabole sono da lui dette in modo che gli ascoltatori cambino il loro modo di pensare. Esse, infatti, contengono sempre un messaggio di contro-cultura, correggono ciò che tutti pensano o sono portati a pensare, e di conseguenza sono annuncio di qualcosa di nuovo: una novità apportata da Gesù non a livello di idee, ma come qualcosa che cambia il modo di vivere, di sentire, di giudicare e di operare.

Gesù era un uomo che innanzitutto sapeva vedere: vedeva, osservava, contemplava tutto ciò che gli era intorno e tutti quelli che gli si avvicinavano e che egli avvicinava a sé. In lui la consapevolezza e l’adesione alla realtà erano sempre in esercizio, sicché poteva poi pensare. Di più, potremmo dire che il suo pensare davanti al Padre e alla sua volontà era un pregare che gli permetteva di immaginare racconti e situazioni, quelli che narrava nelle parabole. Nella nostra pericope Gesù, dopo aver pronunciato la parabola del seminatore, spiegata in seguito ai soli discepoli (cf. Mc 4,1-20) e i due brevi detti sulla lampada “che viene” e sulla misura dell’ascolto (cf. Mc 4,21-25), narra altre due parabole. Egli afferma che “così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa”. Gesù ci parla ancora del seme, un elemento che lo intrigava e sul quale aveva molto meditato. Il seme è sempre qualcosa che resta dal raccolto precedente, è il frutto di una pianta che, raccolto, secca e sembra morto. Ma se il seme cade, se è gettato sotto terra, allora nella terra intrisa di acqua marcisce, visibilmente si disfa e muore; in realtà, però, genera vita, che diventa una pianta e che apparirà infine addirittura come una moltiplicazione e una trasformazione del seme stesso, attraverso frutti abbondanti. Il seme è adatto per rappresentare la dinamica dell’enigma che diventa mistero, ed è per questo che Gesù ricorre più volte a questa immagine, la più presente nelle parabole da lui create.

La venuta del regno di Dio, il suo apparire, è dunque paragonato al processo agricolo che ogni contadino conosce bene, anzi che vive con attenzione e premura: semina, nascita del grano, crescita, formazione della spiga e maturazione. Di fronte a tale sviluppo, occorre meravigliarsi, guardando alla potenza, alla forza presente in quel piccolo seme secco, che sembra addirittura niente. Così è il regno di Dio: piccola realtà, ma che ha in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla.

Di fronte a questa realtà, il contadino non può fare davvero nulla: deve solo seminare il seme nella terra, ma poi sia che lui dorma sia che si alzi di notte per controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui. Anzi, se il contadino volesse misurare la crescita e andasse a verificare cosa accade al seme sotto terra, minaccerebbe fortemente la nascita e la vita del germoglio.

Ecco allora l’insegnamento di Gesù: occorre meravigliarsi del regno che si dilata sempre di più, anche quando noi non ce ne accorgiamo, e di conseguenza occorre avere fiducia nel seme e nella sua forza. E il seme è la parola che, seminata dal predicatore, darà frutto anche se lui non se ne accorge né può verificare il processo: di questo deve essere certo!

Nessuna ansia pastorale, ma solo sollecitudine e attesa; nessuna angoscia di essere sterili nel predicare: se il seme è buono, se la parola predicata è parola di Dio e non del predicatore, essa darà frutto in modo anche invisibile. Questa la certezza del “seminatore” credente e consapevole di ciò che opera: la speranza della mietitura e del raccolto non può essere messa in discussione.

Segue un’altra parabola, sempre sul seme, ma questa volta su un seme di senape. Gesù è veramente un uomo intelligente e sapiente, e anche in questa parabola le sue parole mostrano come egli non fosse mai distratto, ma tutto e tutti vedesse e pensasse. Egli sa bene che il chicco di senape è tra i semi più minuscoli, non più grande di un granello di sale; eppure anch’esso, se seminato in terra, diventa un albero che si impone. Sembra impossibile che da un seme così minuscolo possa derivare un albero tanto rigoglioso: anche qui c’è dunque da stupirsi, da meravigliarsi! Eppure proprio ciò che ai nostri occhi è piccolo, può avere una forza impensabile per noi umani… Ecco, infatti, che il seme di senape sotto terra marcisce, germoglia, poi spunta e cresce fino a essere un arbusto sulle cui fronde gli uccelli possono fare il nido. Qui Gesù allude certamente a quell’albero intravisto da Daniele, simbolo del regno universale di Dio (cf. Dn 4,6-9.17-19). Sì, anche questa parabola vuole comunicarci qualcosa di decisivo: la parola di Dio che ci è stata donata può sembrare piccola cosa, rivestita com’è di parola umana, fragile e debole, messa in bocca a uomini e donne poveri, non intellettuali, non saggi secondo il mondo (cf. 1Cor 1,26). Eppure quando essa è seminata e predicata da loro, proprio perché è parola di Dio contenuta in parole umane, è feconda e può crescere come un albero capace di accogliere tante creature.

Queste parabole ci devono interrogare sulla nostra consapevolezza della parola di Dio che ci è data e che noi dobbiamo seminare, sulla nostra visione del Regno come realtà di piccoli e di poveri, realtà di un “piccolo gregge” (Lc 12,32), che può divenire una raccolta delle genti del mondo intero, in cammino verso il regno di Dio veniente per tutti. Ma pensiamoci un momento: chi pronunciava queste parabole era un oscuro laico di Galilea, non sacerdote e neppure rabbino formatosi in qualche scuola riconosciuta a Gerusalemme o lungo il lago di Galilea. E con lui c’era una comunità itinerante che lo seguiva: una dozzina di uomini e poche donne senza cultura; una realtà piccola e oscura ma significativa. Allora, perché avere timore di essere noi cristiani una minoranza oggi nel mondo? Basta che siamo significativi, cioè che crediamo alla potenza della parola di Dio, che la seminiamo con umiltà e molta pace, senza angoscia né frenetica attesa di vedere i risultati…

(Enzo Bianchi)

 

E il piccolo seme, là sotto, moriva di gioia

«…quando il piccolo seme ruzzolò dalle mani del vecchio contadino in mezzo ai grossi grani di frumento echeggiò tra le zolle una risata impercettibile. Chissà com’era capitato lì quel semino ridicolo! Neppure le vecchie erbe del fossato lo conoscevano. L’avena, già alta, propalò al vento il suo parere: “Divento gialla se ne uscirà una fogliolina sola”.

Il piccolo seme si sentì avvilito da quelle voci di disprezzo, che il vento sparpagliava dappertutto; ma non si rattrappì, né si rassegnò ad essere soltanto un piccolo seme nero per sempre. Qualcosa doveva esser pure capace di fare! Sognò di crescere alto fino a sovrastare anche il granoturco…”Chissà se l’avena diventerà gialla per davvero”, pensò. Voleva riuscirci a tutti i costi! Lasciò che i grossi semi di frumento si crogiolassero pigramente a deriderlo; egli affondò subito le radici nel terreno umido e succoso… Fu un inverno faticosissimo per lui. Venne l’estate ed i viandanti additavano meravigliati una pianta alta e vasta, dominante sulla distesa del grano.

Passò anche il Signore, la vide, indovinò l’enorme fatica del piccolo seme nell’inverno e volle premiare con una sua parola la sua fiducia in se stesso: “Guardate il seme di senapa, è il più piccolo dei semi, eppure cresce come un albero, sì che i passeri si abbandonano sicuri sui rami robusti”. E il piccolo seme, là sotto, moriva di gioia ».

 

Grande albero e piccolissimo grano

«[Nella Chiesa esiste] La tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri. E questo non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio vale sempre la parabola del grano di senape (cf. Mc 4,31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale. Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».

(J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione in Divinarum Rerum Notitia. Studi in onore del Card. Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).

 

Il seme delle domande

Dio mio, sono venuto con il seme delle domande!

Le seminai e non fiorirono.

Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte,

ma il vento non le sfoglia!

Dio mio, sono Lazzaro!

Piena d’aurora, la mia tomba

dà al mio carro neri puledri.

Dio mio, resterò senza domanda e con risposta

vedendo i rami muoversi!

(F. García Lorca)

 

Il seme e il frutto

Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra

nel grembo materno

e aspetta devotamente: esso comincia a lottare,

un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole

cresce, diventa grande e forte

abbraccia con la corona verde delle sue foglie

finché tutto intero splende al sole

diventa gemma e fiorisce un fiore.

E nella fioritura, seme dopo seme,

c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.

E tu pianti nuovamente i mille semi,

e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.

Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli

abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro

guida verso casa i pensieri e pensa:

tutto ciò era nel primo seme.

(Christian Morgenstern)

 

La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione

Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della crescita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.

Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di accettazione da parte del genere umano. L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita. C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fissa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio. Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui. […]

Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165, 167).

 

Rinnega se stesso chi ama se stesso

Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […] «Rinneghi se stesso».

In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.

Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).

 

Piccolo seme

Ho imparato

che non muore

chi lascia dietro di sé

un seme

se c’è qualcuno a custodire

il piccolo seme verde

e a crescerlo nel cuore

sotto un dolore di neve

e a lasciarlo crescere ancora

nel sole senza tramonto dell’amore

finché diventa

un albero grande che da ombra e frutti

e altri semi.

Signore, vorrei lasciargli

un piccolo seme verde

e vorrei, Signore, lasciargli la neve e il sole.

(Preghiere di Mamma e Papa, Gribaudi, Torino, 1989).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XI DOMENICA TEMPO ORD ANNO B