I DOMENICA DI AVVENTO

Prima lettura: Genesi 33,14-16

 

 Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda. In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra. In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia.

     

 

v Il messaggio della prima lettura è più che un annuncio di calda speranza. La sua funzione è di completare la prospettiva escatologica del Vangelo e di richiamare anche il dato storico dell’incarnazione. Per noi che leggiamo la profezia di Geremia, le sue parole non sono più un semplice annuncio al futuro («verranno giorni… realizzerò… farò germo-gliare…»), ma la documentazione di un futuro che è diventato il presente della storia della salvezza. La Parola di Dio documenta che le promesse divine trovano un compimento e tale compimento è Cristo. Non sarà difficile la lettura cristologica di questo passo di Geremia.

     Leggiamo di fatto in filigrana il passaggio dall’AT al NT: quello che poteva riferirsi a Davide e alla sua dinastia, appartiene in modo inequivocabile a Gesù di Nazaret, il più illustre discendente di Davide. L’oracolo rivela quindi un manifesto carattere messianico.

     Il brano si trova nel contesto di un messaggio di consolazione e riprende l’oracolo di 23,5-6. Esso si compone dell’impegno di Dio a realizzare le sue promesse al popolo nel suo insieme (Israele e Giuda) e ciò avviene mediante la nascita di uno che, discendente da Davide, porterà la «salvezza».                                  

     Il termine chiave che ritorna tre volte è «giustizia». Isaia aveva dato a un bambino che doveva nascere il nome profetico di ‘Emmanuele’ (Dio con noi), Geremia quello di ‘Signore nostra giustizia’. In entrambi i casi si tratta di uno che avrà uno speciale rapporto con Dio, in quanto effettivamente realizzerà, e pienamente, la volontà divina, la ‘giustizia’. Il testo messianico prepara gli animi ad accogliere Gesù di Nazaret, colui che il NT ci dirà totalmente in comunione con Dio, da essere Lui stesso Dio in quanto Figlio.

     La lettura nel suo insieme invita a coltivare la speranza, virtù non facilmente reperibile nel nostro mondo. Deve essere una speranza ‘teologale’, in quanto innervata nelle promesse divine e vissuta come gioiosa attesa dal popolo di Dio. In questo senso dà senso anche al tempo liturgico che stiamo vivendo.

 

Seconda lettura: 1Tessalonicesi 3,12-4,2

 

Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi. Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.

    

 

v La speranza e l’attesa si coniugano felicemente con l’impegno: si va incontro al Signore nell’esercizio sereno e quotidiano dei propri doveri sociali e cristiani. Tra tutti eccelle quello dell’amore.

     Il brano comprende i versetti conclusivi della prima parte della lettera (capp. 1-3) e quelli iniziali della seconda (capp. 4-5). I versetti 12-13 creano un’atmosfera soffusa di preghiera e contengono due richieste per la comunità.                                  

     Nella prima Paolo domanda a Dio di appianare le difficoltà perché possa giungere a Tessalonica. È un desiderio, una sorta di augurio, bene espresso in greco dal modo ottativo che ha appunto questa sfumatura. Paolo non programma se non in comunione con la volontà divina che tutto dirige. E come precedentemente era stato Satana a bloccare il cammino verso la comunità (cf. 2,18), così ora solo Dio può concedere il raggiungimento dell’agognata meta. Il desiderio di Paolo rimane comunque aperto alle disposizioni della imperscrutabile volontà divina. È come se egli dicesse: «se, come, quando Dio vorrà». È giusto e doveroso che il missionario in servizio al Vangelo faccia dei progetti, ma è altrettanto vero che deve essere disposto a ribaltarli quando la divina Provvidenza ne proponga altri.

     La seconda richiesta di preghiera tocca il cuore stesso della vita comunitaria. Paolo chiede un amore sovrabbondante, trabocchevole, perché poco amore non è ancora amore. La pienezza di amore riguarda sia l’interno, la comunità stessa, sia l’esterno, ‘rappresentato da quel «tutti» (v. 12) che abbatte inesorabilmente ogni frontiera ed ogni steccato divisorio. Solo un amore ‘a tutto campo’ permette di andare serenamente incontro al Signore. La preghiera si conclude con questa prospettiva escatologica, quasi a ricordare che solo da una visuale completa si capisce meglio la realtà.

     Con una festosa immagine di luce termina la prima parte della lettera. Con 4,1 siamo in presenza di una nuova parte della lettera, come indicano chiaramente il contenuto ricco di esortazioni e il vocabolario corrispondente.

     Incontro al Signore si va insieme, guidati da coloro che hanno una più matura esperienza di fede. Paolo è per la comunità di Tessalonica il padre spirituale, il maestro, il fratello e l’amico. Dato questo sottofondo, può impartire direttive del tipo «avete appreso da noi come comportarvi» (v. 1). Potrebbe sembrare presuntuoso da parte di Paolo presentarsi come modello, se non si conosce la situazione storica in cui operava. In un tempo in cui non esistevano testi scritti né tradizioni orali poiché la comunità era da poco fondata,  l’unico riferimento concreto era l’apostolo con il suo insegnamento e comportamento. Egli non solo ha predicato il Vangelo, ma pure ha insegnato a incarnarlo nella vita quotidiana. Per questo motivo si offre a modello. Paolo sarebbe veramente presuntuoso se si ritenesse l’unico punto di riferimento, ma sa bene di essere solo una specie di specchio che riflette il Cristo; la formula completa compare in 1Cor 11,1: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo».

     La richiesta, di conseguenza, non disturba più il lettore, anzi, gli mostra una dimensione inedita dell’autorità, quella di proporsi agli altri quale esempio da imitare perché tutti insieme si possa «piacere a Dio». Ravvisiamo in questa espressione un principio fondamentale dell’agire morale che consiste nella sintonia con la volontà divina (cf. la «giustizia» della prima lettura).

     Quando Paolo impartisce importanti direttive, svolge un ruolo profetico perché agisce da portavoce di Gesù Cristo; al pari della parola annunciata che era recepita come «Parola di Dio» (2,13), così ora le indicazioni comportamentali vengono «da parte del Signore Gesù» (v. 2). Paolo ha appreso dal Signore, vive la sua fede e la trasmette sotto forma di testimonianza. Egli va così incontro al Signore e sollecita a fare altrettanto.

 

Vangelo: Luca 21,25-28.34-36

 

 

     In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

 

 

 Esegesi

     Il brano è composto da due spezzoni (vv. 25-28: disastri cosmici e manifestazione gloriosa del Figlio dell’uomo; vv. 34-36: richiesta di vigilanza) del cosiddetto ‘discorso escatologico’, cioè che riguarda le ‘cose ultime’ (ta eschata in greco significa le realtà ultime, chiamate anche, alla latina, ‘novissimi’).

Il discorso si colora con tratti apocalittici. Il termine ‘apocalittico’ indica la rivelazione (dal greco apokalyptein: togliere il velo, rivelare) del giudizio divino, del mistero e della persona di Gesù. Può indicare un modo particolare di esprimersi caratterizzato dalla rivelazione di segreti riguardanti la fine dei tempi e il corso della storia. Poiché la descrizione è spesso affidata a un linguaggio cifrato ricco di visioni e di simboli non raramente terrificanti, nel modo di esprimersi comune ‘apocalittico’ è divenuto sinonimo di ‘catastrofico’. Le espressioni devono essere capite nel loro significato, senza dimenticare la natura e gli artifici del linguaggio profetico apocalittico. Si tratta di un modo di comunicare, più che di

una precisa descrizione di eventi futuri. L’accenno agli sconvolgimenti cosmici e alle ‘guerre mondiali’ sono pezzi d’obbligo negli annunci profetici e rappresentavano le immagini più catastrofiche che la fantasia dell’uomo antico avesse a disposizione.       

     La distruzione ha effetto di trasformazione. A differenza del linguaggio popolare che intende ‘apocalittico’ solo come distruzione e basta, il mondo biblico intende la distruzione come il primo passo perché possa sorgere qualcosa di nuovo. È come l’abbattimento di una casa per costruirne una nuova. L’espressione «Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte» prepara ed è condizione perché si verifichi la novità che segue.

     Infatti tutto il magma di angoscia e di negatività che precede (cf. anche la parte non registrata dal testo liturgico, per esempio i vv. 10-24), prepara ed è funzionale al grande annuncio dei vv. 27-28, cuore teologico del brano e principio ispiratore della odierna liturgia della Parola. Dopo aver ripreso un testo biblico di distruzione, quasi a voler cancellare un universo corrotto, si offre allo sguardo degli eletti la figura vittoriosa di Cristo: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria» (v. 27). Nel buio della negatività si accende la luce radiosa del Figlio dell’uomo che si manifesta «con grande potenza e gloria». È possibile una duplice lettura: quella legata al contesto del brano, di chiara matrice escatologica, e quella legata al tempo liturgico dell’Avvento che riattualizza la venuta storica di Gesù.

     È un momento di grande gioia, non esplicitamente espressa, ma inclusa nelle due espressioni «risollevatevi e alzate il capo» e «la vostra liberazione è vicina». La venuta di Cristo trasforma radicalmente la storia, imprimendole il marchio positivo della novità da lui apportata. Con Lui e grazie a Lui nulla è perduto, tutto è sapientemente trasformato. Del giu-dizio e della sorte degli empi non si parla. Il discorso non culmina in una visione di giudizio, bensì in una consolante promessa per gli eletti. Si è smarrito il tono apocalittico, spesso tenebrosi e lugubre, e si è fatto spazio al tono del vangelo, lieta novella per tutti gli uomini.

     All’azione di Cristo deve seguire l’impegno dei cristiani, richiamato dai vv. 34-36, il secondo spezzone del brano liturgico. Al fine di non edulcorare una realtà che rimane comunque difficile e per non lasciare gli uomini in una neghittosa attesa, il discorso vibra nella parte conclusiva sulle note dell’esortazione. Poiché la venuta di Cristo è il fatto conclusivo della storia, in quanto costituisce il termine del tempo e l’inizio definitivo dell’eternità, occorre essere saggi e vivere in operosa attesa. La saggezza sta proprio nel saper riconoscere i segni del tempo finale. L’impegno potrebbe essere riassunto nel duplice imperativo «Vegliate in ogni momento pregando». La venuta di Cristo non ci deve trovare distratti da mille cose inutili o, peggio, nocive. Vegliare è il modo storico di rispondere alla prima venuta di Gesù, la sua incarnazione. È un vegliare fatto di serena attività che rifugge dall’ansia nevrotica del futuro come pure da una dissennata irresponsabilità. È una attività in comunione con il divino, reso manifesto da quel «pregando» che Luca ama inserire con insistenza nel suo Vangelo e che anche qui mette ‘in più’ rispetto alla sua probabile fonte, il Vangelo di Marco.

 

Meditazione

 

     I temi che caratterizzano la liturgia della Parola di questa prima domenica di Avvento si intrecciano simbolicamente con la prospettiva suggerita ai credenti dai testi scritturistici presentati nelle ultime domeniche del tempo ordinario. La visione che si apre al nostro sguardo è ancora quella del tempo e della storia colti nella loro fase finale, in relazione con il compimento della promessa di Dio, quella promessa di bene fondata sulla fedeltà del Signore al popolo di Israele… e gratuitamente estesa ad ogni uomo: «Ecco verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele… In quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto…» (Ger 33,14-15). Sono tempi e giorni, come ci ricorda il profeta Geremia, che verranno, e che dunque devono essere attesi nella pazienza e nella speranza, sapendo discernere fin d’ora i segni della salvezza veniente. La prospettiva che apre lo sguardo credente sugli ultimi tempi offre così una qualità singolare alla storia che l’uomo è chiamato a vivere, plasmando quegli atteggiamenti che ci permettono di camminare sul crinale del già e non ancora: la vigilanza, l’attenzione ai segni, la pazienza, il discernimento. È soprattutto la pericope di Luca ad aiutarci a focalizzare questa visione di fede sulla storia e sul suo compimento.

     Pur rifacendosi al ricco immaginario apocalittico fornito dalla tradizione giudaica, la prospettiva del discorso escatologico di Gesù riportato in Luca non sembra eccessivamente preoccupata di fornire elementi di identificazione o criteri precisi di discernimento che permettano di intravedere l’approssimarsi del compimento della storia. Ciò che deve stare a cuore al discepolo è piuttosto il modo con cui si è chiamati a vivere in questa storia da credenti, tenendo sempre lo sguardo volto al compimento. Il credente può sempre cadere in due trappole: o la tentazione di una impazienza che tende ad anticipare il compimento o la rassegnazione di chi non aspetta più nulla, disimpegnandosi nella storia. Gli imperativi del discernimento (Lc 21,29-33), dell’attenzione (vv. 34-35) e della vigilanza orante (v. 36) sono un antidoto ad ogni pretesa o delusione di fronte al tempo, al suo scorrere e alle sue contraddizioni, e permettono di essere umilmente radicati e impegnati in questa storia nell’attesa di un compimento che è solo nelle mani di Dio. Si potrebbe dire che la qualità della presenza del credente nella storia è data, secondo il testo di Luca, da due movimenti. Il primo è caratterizzato dalla pazienza che permette di resistere nel tempo dell’attesa e custodire il cuore della propria vita da ciò che lo minaccia, radicati nella fedeltà di Dio alle sue promesse: «con la vostra pazienza (en te upomone) salverete la vostra vita» (Lc 21,19). Questo è l’atteggiamento che caratterizza il tempo della Chiesa, ponendo i credenti in continua tensione verso il Signore e impegnandoli a testimoniare nella storia il desiderio dell’incontro con il Veniente. Il secondo movimento, quasi contrapposto alla apparente staticità di una paziente attesa, si esprime in una sorta di liberazione, di ripresa di vita, di gioia: allora vedranno il Figlio dell’uomo venire… risollevatevi ed alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (vv 27-28). Di fronte agli eventi che annunciano un disfacimento di questo tempo e di questo mondo e che, generando angoscia e disperazione, rendono l’uomo incapace di guardare in faccia la storia per comprenderne il senso, colui che ha atteso il Figlio dell’uomo intuisce che tutto ciò che sta avvenendo orienta all’incontro. Il credente è chiamato a guardare con libertà e parresia, fiducia e desiderio il Volto del suo Signore che è vicino, anzi è invitato a scorgerlo già negli avvenimenti. Il tempo della pazienza è terminato; può alzarsi e riprendere la pozione dell’uomo libero. Ma ciò che permette il passaggio dalla pazienza alla liberazione, ciò che permette di comprendere questa storia è l’incontro con un Volto: il Volto di colui che «viene su una nube con grande potenza e gloria» (v. 27). È il Volto del crocifisso e risorto, del trafitto verso il quale ogni uomo è chiamato a volgere lo sguardo (cfr. Gv 19, 37), a rivelare il senso e il compimento della storia, di ogni storia: la storia, ogni storia è sanata e salvata dalle ferite di Colui che viene sulle nubi con grande potenza e gloria. È questa la promessa di bene e il germoglio giusto scorti da lontano dal profeta Geremia.

     «Con la vostra pazienza salverete la vostra vita […] risollevatevi e alzate il capo… per comparire davanti al Figlio dell’uomo» (vv. 19.28.36). In queste espressioni del testo di Luca possiamo inoltre scorgere la dinamica della speranza, il faticoso cammino interiore che trasforma la vita del credente in spazio aperto, pronto all’incontro con il Veniente. È tuttavia necessario percorrere queste tappe per radicare la speranza nella propria vita, trasformarla in stile che da spessore alle relazioni e strappa l’esistenza al ripiegamento su di sé. Colui che dispera, si nega, perde la sua coesione interiore, abdica alla vita; il disperato è colui che non alza il capo, cioè non sa assumere la dignità propria dell’uomo. Nella parola di Gesù, invece, abbiamo tre volti della speranza, tre spazi che in progressione aprono all’incontro con il volto di colui che è la nostra speranza. Anzitutto la speranza permette di discernere la verità del tempo dell’attesa. È nella pazienza (nel senso etimologico del termine greco, «stare sotto un peso») che l’uomo può custodire integra e vera la propria vita; ma è la speranza a rendere l’attesa paziente tempo di discernimento, durante il quale, nonostante le contraddizioni (i colpi che tendono a spostarci e a far cambiare posizione), è possibile mettere a fuoco ciò che è veramente essenziale («le mie parole non passeranno»: v. 33). Chi sa dimorare nella pazienza, custodendo vigile la speranza, ha la forza di riprendere la posizione eretta, vincendo così ogni tentazione di ripiegamento. E questo è possibile perché all’orizzonte della propria esistenza, della storia (nonostante i segni contrari) scorge l’approssimarsi di ‘Colui che viene’. Se si è conservato sempre vigile lo sguardo del cuore sul volto luminoso del Risorto, allora si saprà riconoscerlo quando egli viene a liberarci. Infine, il frutto della speranza è la parresia, la piena fiducia, lo stare faccia a faccia con il Signore: lo sguardo del figlio che non ha più paura e sta in piedi, da persona pienamente liberata, davanti al suo Signore.

     «Vegliate in ogni momento pregando…» (v. 36). Speranza e vigilanza diventano così i due percorsi essenziali su cui il credente cammina nel tempo. La speranza rende vigile la nostra vita, custodisce agile il nostro cuore, ravvivando in esso il continuo desiderio dell’incontro con il Veniente. E la vigilanza orante accresce in noi la speranza, nutrendo di essa ogni nostro desiderio. Un cuore non abitato dalla speranza e dalla vigilanza diventa pesante, ingombro di tante presenze che lo stordiscono.

     E infine non si deve dimenticare che gli imperativi della pazienza, della vigilanza e della speranza assumono un orizzonte ecclesiale. Non sono rivolti semplicemente al singolo discepolo, ma alla comunità dei discepoli, alla Chiesa. E sulla qualità di testimonianza offerta da questi imperativi, la Chiesa gioca l’autenticità della sua presenza nel tempo e nella storia. Una Chiesa che sa attendere è una Chiesa viva: sa vivere in coscienza l’unicità e l’irripetibilità del tempo in cui è inserita; è capace di andare al di là di quello che fa, meno preoccupata di riempire con le sue opere gli spazi che la storia gli offre, quanto piuttosto preoccupata a far calare in essa il senso di una incompiutezza, di una speranza, di un cammino verso quella pienezza nell’incontro con il Veniente. «Ogni Chiesa deve lottare contro la tentazione di assolutizzare ciò che compie – ricorda Giovanni Paolo II nella Orientale Lumen 8 – e quindi di autocelebrarsi o abbandonarsi alla tristezza. Ma il tempo è di Dio, e tutto ciò che si realizza non si identifica mai con la pienezza del Regno, che è sempre dono gratuito… ».

 

L’immagine della domenica

 

 

DIO PUÒ SEMPRE ARRIVARE

«… Non si può mai sapere se Dio è in una storia, prima che uno l’abbia finita di raccontare.

Perché anche se mancassero solo due parole o soltanto la pausa che segue le ultime parole del racconto, Egli può sempre arrivare».

(Rainer Maria Rilke)

 

Preghiere e racconti

 

Dio ci dona il suo tempo

Iniziamo oggi, con la prima Domenica di Avvento, un nuovo Anno liturgico. Questo fatto ci invita a riflettere sulla dimensione del tempo, che esercita sempre su di noi un grande fascino.

Tutti diciamo che “ci manca il tempo”, perché il ritmo della vita quotidiana è diventato per tutti frenetico. Anche a tale riguardo la Chiesa ha una “buona notizia” da portare: Dio ci dona il suo tempo. Noi abbiamo sempre poco tempo; specialmente per il Signore non sappiamo o, talvolta, non vogliamo trovarlo. Ebbene, Dio ha tempo per noi! Questa è la prima cosa che l’inizio di un anno liturgico ci fa riscoprire con meraviglia sempre nuova. Sì: Dio ci dona il suo tempo, perché è entrato nella storia con la sua parola e le sue opere di salvezza, per aprirla all’eterno, per farla diventare storia di alleanza. In questa prospettiva, il tempo è già in se stesso un segno fondamentale dell’amore di Dio: un dono che l’uomo, come ogni altra cosa, è in grado di valorizzare o, al contrario, di sciupare; di cogliere nel suo significato, o di trascurare con ottusa superficialità.

Tre poi sono i grandi “cardini” del tempo, che scandiscono la storia della salvezza: all’inizio la creazione, al centro l’incarnazione-redenzione e al termine la “parusia”, la venuta finale che comprende anche il giudizio universale. Questi tre momenti però non sono da intendersi semplicemente in successione cronologica. Infatti, la creazione è sì all’origine di tutto, ma è anche continua e si attua lungo l’intero arco del divenire cosmico, fino alla fine dei tempi. Così pure l’incarnazione-redenzione, se è avvenuta in un determinato momento storico, il periodo del passaggio di Gesù sulla terra, tuttavia estende il suo raggio d’azione a tutto il tempo precedente e a tutto quello seguente. E a loro volta l’ultima venuta e il giudizio finale, che proprio nella Croce di Cristo hanno avuto un decisivo anticipo, esercitano il loro influsso sulla condotta degli uomini di ogni epoca.

Il tempo liturgico dell’Avvento celebra la venuta di Dio, nei suoi due momenti: dapprima ci invita a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto uomo per la nostra salvezza. Ma il Signore viene continuamente nella nostra vita. Quanto mai opportuno è quindi l’appello di Gesù, che in questa prima Domenica ci viene riproposto con forza: “Vegliate!” (Mc 13,33.35.37). E’ rivolto ai discepoli, ma anche “a tutti”, perché ciascuno, nell’ora che solo Dio conosce, sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza. Questo comporta un giusto distacco dai beni terreni, un sincero pentimento dei propri errori, una carità operosa verso il prossimo e soprattutto un umile e fiducioso affidamento alle mani di Dio, nostro Padre tenero e misericordioso. Icona dell’Avvento è la Vergine Maria, la Madre di Gesù.

InvochiamoLa perché aiuti anche noi a diventare un prolungamento di umanità per il Signore che viene.

 

Maria, vergine dell’attesa

Se andiamo alla ricerca di un motivo esemplare che possa ispirare i nostri passi, e dare agilità alle cadenze del nostro cammino in questo periodo che ci separa dal Natale, dobbiamo assolutamente rifarci alla Madonna. Lei è la Vergine dell’attesa, la Vergine dell’Avvento, la Madre dell’attesa.

Lo sapete che nel Vangelo, prima ancora che ci venga detto il suo nome, viene riferito un fremito d’attesa che ardeva nella sua anima? San Luca, prima ancora di dirci che «il suo nome era Maria» (Lc 1, 26), ci dice un’altra cosa: «In quel tempo l’angelo Gabriele venne mandato ad una ragazza promessa sposa ad un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide» (Lc 1, 26-27).

«Promessa sposa», cioè fidanzata! Noi sappiamo che la parola fidanzata viene vissuta da ogni donna come un preludio di tenerezze misteriose, di attese. Fidanzata è colei che attende. Anche Maria ha atteso; era in attesa, in ascolto: ma di chi? Di lui, di Giuseppe! Era in ascolto del frusciare dei suoi sandali sulla polvere, la sera, quando lui, profumato di vernice e di resina dei legni che trattava con le mani, andava da lei e le parlava dei suoi sogni.

Maria viene presentata come la donna che attende. Fidanzata, cioè. Solo dopo ci viene detto il suo nome. L’attesa è la prima pennellata con cui san Luca dipinge Maria, ma è anche l’ultima. E infatti sempre san Luca il pittore che, negli Atti degli apostoli, dipinge l’ultimo tratto con cui Maria si congeda dalla Scrittura. Anche qui Maria è in attesa, al piano superiore, insieme con gli apostoli; in attesa dello Spirito (At 1, 13-14); anche qui è in ascolto di lui, in attesa del suo frusciare: prima dei sandali di Giuseppe, adesso dell’ala dello Spirito Santo, profumato di santità e di sogni.

Attendeva che sarebbe sceso sugli apostoli, sulla chiesa nascente per indicarle il tracciato della sua missione.

 

Maria, Vergine e Madre dell’attesa

Vedete allora che Maria, nel Vangelo, si presenta come la Vergine dell’attesa e si congeda dalla Scrittura come la Madre dell’attesa: si presenta in attesa di Giuseppe, si congeda in attesa dello Spirito. Vergine in attesa, all’inizio. Madre in attesa, alla fine. E nell’arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l’altra cosi divina, cento altre attese struggenti. L’attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L’attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele. L’attesa del giorno, l’unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L’attesa dell’«ora»: l’unica per la quale non avrebbe saputo frenare l’impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L’attesa dell’ultimo rantolo dell’unigenito inchiodato sul legno. L’attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia. Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all’infinito.

 

Con la lampada accesa

E noi oggi di che cosa parliamo se non di Avvento, di attesa? Voi promettete fede al Signore e con i vostri sospiri, con i vostri sentimenti, con le vostre attese, ricevete le tenerezze misteriose che vi riserva: vigilanti, così come si vive il periodo del fidanzamento, con il tripudio interiore.

Un giorno le nozze dell’Agnello le celebreremo tutti quanti. Saremo tutti invitati, tutti protagonisti. Verrà questo giorno!

Nei tempi gelidi che stiamo vivendo, nell’appannamento dei nostri entusiasmi e nella tristezza dei nostri peccati, non possiamo sentirci mancare il coraggio, al punto da non annunciarvi queste cose con forza, per quanto possano sembrare lontane, utopiche. No, non sono utopie, sono invece i luoghi dove noi realizzeremo veramente la nostra felicità, il nostro bene. Questo vi annunciamo oggi!

Le ragazze che sono davanti a me, sono anche un po’ l’icona di quello che dovremmo essere: con l’abito bianco, con la lampada accesa, in attesa; disponibili non soltanto a tenere la lampada accesa, ma anche a conservare una riserva sufficiente di olio nei recipienti, al punto che quando qualcuno ci rivolge quella preghiera così implorante e così umana che dice: «Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono!», noi possiamo rispondere non come le vergini prudenti: «No, perché non basta ne a noi ne a voi» (Mt 25, 9), ma: «Sì, vogliamo correre il rischio che non basti ne a noi ne a voi».

A voi che oggi non fuggite per la tangente dell’irreale, ma fate una scelta di concretezza, vorrei dire: «Amate il mondo e siate disponibili a dare l’olio alle lampade del mondo, perché anche il mondo possa attendere e possa vivere l’attesa».

 

La vera tristezza

Oggi non si attende più. La vera tristezza non è quando ti ritiri a casa la sera e non sei atteso da nessuno, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita. E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio. Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita. E ormai i giochi sono fatti. E nessun’anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci saranno più ne soprassalti di gioia per una buona notizia, ne trasalimenti di stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto, non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere. La vita, allora, scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco. Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere. Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle attese. E forse è vero.

Oggi abbiamo preso, invece, una direzione un tantino barbara: il nostro vissuto ci sta conducendo a non aspettare più, a non avere neppure il fremito di quelle attese che ci riempivano la vita un tempo: quando, non so, aspettavi profumi di mosti, o il cigolare dei frantoi o il grembo di tua madre che si incurvava sotto il peso di una nuova vita, o i profumi dei pampini, degli ulivi, o il profumo di spigo, di mele cotogne. Forse sto scappando anch’io per le tangenti del sogno, però – dite la verità – è così standardizzata la nostra vita, è così incastrata nei diagrammi cartesiani che c’imprigionano e ci stringono all’angolo, che non sappiamo più aspettare. Intuiamo tutti che abbiamo una vita prefabbricata, per cui ci lasciamo vivere, invece di vivere.

 

Una «pro-vocazione»

Oggi l’Avvento c’impegna invece a prendere la storia in mano, a mettere le mani sul timone della storia attraverso la preghiera, l’impegno e starei per dire anche l’indignazione: indignatevi un po’, fratelli e sorelle! Indignatevi, perché abbiamo perso questa capacità; anche noi sacerdoti, anche noi vescovi, non ci sappiamo più indignare per tanti soprusi, tante ingiustizie, tante violenze… Tutto quello che viviamo ora, qui, non è solo una simbologia. Vorrei dirvi, cari fratelli, che questi ragazzi, Antonio e Stefano e poi Barbara e Francesca e Lorella e Miriam, devono diventare per noi una provocazione, uno scrupolo, una spina di inappagamento, messa nel fianco della nostra vita, un’icona, una «pro-vocazione», una chiamata da parte di chi sta un po’ più avanti. Con i gesti anche paradossali delle scelte audaci, ci stimolano ad essere uomini dell’attesa come Maria; ci spingono a non diffidare mai dei sogni, per essere capaci sempre di annunciare al mondo rovesciamenti da troni e innalzamenti dello stereo, come Maria, donna dell’attesa, che ha aspettato questa ricollocazione sui troni della giustizia per tutti coloro che, invece, vivono nel fetore delle stalle e nel sopruso degli egemoni, che schiacciano sempre la gente.

Attesa, attesa, ma di che? Che cosa aspettiamo?

Aspettiamo prima di tutto un cambio per noi, per la nostra vita spirituale, interiore, e poi avvertiamo che stiamo camminando su speroni pericolosi, su rocce che possono farci ruzzolare da un momento all’altro. Forse abbiamo assunto un modo non proprio allineato alla logica delle beatitudini.

Attesa quindi di rinnovamento per noi, attesa di rinnovamento per la storia dell’umanità. Attesa di cambi interiori della nostra mentalità: non siamo ancora capaci di pronunciare una parola forte per dire che la guerra è iniqua, che ogni guerra è iniqua! Ancora ci stiamo trastullando con i concetti della guerra giusta o ingiusta, o della difesa…

Abbiamo nelle mani il Vangelo della non violenza attiva, il codice del perdono, ma siamo ancora cristiani irresoluti, che camminano secondo le logiche della prudenza carnale e non della prudenza dello Spirito. Siamo gente che riesce a dormire con molta tranquillità, pur sapendo che nel mondo ci sono tante sofferenze. Sopportiamo facilmente che, all’interno della nostra città, col freddo che fa, le stazioni siano assediate da terzomondiali o da persone che vivono allo sbando, che non hanno più progetti.

Macché fidanzamento, che sogni, che attese di sandali, che profumi di vernice o di santità! Molta gente odora soltanto della tristezza dei propri sudari.

Fratelli e sorelle, vergini fidanzate, provocate questa gente! Oggi ci sono tante fotografie per voi, tanti lampeggiamenti di flash; sarebbe molto bello che ognuno di voi, con il suo obiettivo allargato, imprimesse la provocazione di un’attesa di cieli nuovi e terre nuove. Anche tu, Stefano, che ti accingi ad entrare nel consesso presbiterale; e tu, Antonio, che ci sei già entrato, che sei già lettore e annunci la parola di Dio e da oggi tocchi anche le patene, le pissidi: tocchi quello che sarà il corpo vivente del Signore. Questo contatto con i vasi sacri, col grano fatto pane, con l’uva fatta vino, ti mette in rapporto con il cosmo, con questa realtà materiale, toccabile, perché il regno di Dio viene costruito non con i fumi delle nostre utopie ma con le pietre che vengono scavate nelle cave della storia, della terra. Scommetto che anche il pane che si mangia nel cielo è intriso delle acque della nostra terra e del grano che viene prodotto dai nostri campi!

Buona attesa, dunque. Il Signore ci dia la grazia di essere continuamente allerta, in attesa di qualcuno che arrivi, che irrompa nelle nostre case e ci dia da portare un lieto annuncio!

(Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 45-54).

 

Amare la prima venuta, desiderare la seconda

Fratelli carissimi, dovete sapere che questo tempo beato che noi chiamiamo «Avvento del Signore» evoca due realtà e, dunque, duplice deve essere la nostra gioia, poiché duplice è anche il guadagno che ci deve portare. Questo tempo evoca le due venute del nostro Signore: quella dolcissima venuta in cui il più bello dei figli dell’uomo (Sal 44 [45], 3), il desiderato da tutte le genti (Ag 2,7 Vg), vale a dire il Figlio di Dio, si manifestò visibilmente nella carne a questo mondo, lui a lungo atteso e desiderato ardentemente da tutti i padri; ciò avvenne quando egli venne in questo mondo a salvare i peccatori. Ma questo tempo evoca anche l’altra venuta che dobbiamo aspettare con una solida speranza e che dobbiamo ricordare spesso tra le lacrime, il momento, cioè, in cui il nostro Signore, che dapprima era venuto nascosto nella carne, verrà manifestamente nella sua gloria, come canta il salmo: Dio verrà manifestamente (Sal 49 [50], 3), cioè il giorno del giudizio, quando verrà manifestamente per giudicare […]. Giustamente la chiesa ha voluto che in questo tempo si leggessero le parole dei santi padri e si ricordasse il desiderio di quelli che vissero prima della venuta del Signore. Non celebriamo questo loro desiderio per un solo giorno, ma per un tempo abbastanza lungo, poiché di solito quando desideriamo e amiamo molto qualcosa, se accade che essa viene differita per un qualche tempo, ci sembra più dolce ancora quando giunge.

Seguiamo, dunque, fratelli carissimi, gli esempi dei santi padri, proviamo il loro stesso desiderio, e infiammiamo i nostri cuori con l’amore e il desiderio di Cristo. Dovete sapere che è stata stabilita la celebrazione di questo tempo per rinnovare in noi il desiderio che gli antichi santi padri avevano riguardo alla prima venuta del Signore nostro e dal loro esempio impariamo a nutrire un grande desiderio della sua seconda venuta. Dobbiamo pensare a quante cose buone ha fatto il Signore nostro nella sua prima venuta e a quelle ancor più grandi che farà nella seconda e con tale pensiero dobbiamo amare molto la sua prima venuta e desiderare molto la seconda.

(AELREDO DI RIEVAULX, Discorsi 1, PL 195,209A-210B).

 

Questo mondo è un luogo buono?

Nell’antico Testamento la Bibbia parla del mondo come della creazione buona di Dio e come del mondo dell’uomo, un mondo che Dio tiene in mano e che trasformerà nel suo mondo definitivo. Tuttavia già l’Antico Testamento sa che il mondo è incrinato, che in esso è presente il peccato, che esistono l’odio e la discordia. Secondo il punto di vista pessimistico del Qohelet, il mondo si muove in un circolo di delusione e di oppressione. I profeti interpretano il mondo a partire dalla sua fragilità, ma annunciano contemporaneamente un mondo rinnovato da Dio, un mondo colmo di giustizia e di pace.

Anche nel Nuovo Testamento incontriamo questa doppia concezione. Paolo e Giovanni interpretano il mondo in modo piuttosto negativo. Per Giovanni, il mondo si è rifiutato di credere in Gesù. È, quindi, un mondo che rimane buio, non illuminato. Parla di “questo” mondo, che si chiude di fronte a Dio. Ma contro questo mondo chiuso la fede vuole erigere un mondo opposto, nel quale Dio governa e illumina ogni cosa, nel quale l’amore di Dio permea ogni cosa. Per Paolo, il mondo è connotato soprattutto dal peccato. Ed è solo un mondo temporaneo, che il cristiano deve sopportare fino a quando Cristo presenterà il nuovo mondo. Il mondo è il luogo in cui viviamo. In esso riconosciamo la bellezza della creazione. Ma contemporaneamente il mondo è il luogo in cui ci dovremmo affermare. Dovremmo vivere nel mondo, senza lasciarci condizionare dal mondo. Viviamo piuttosto nel mondo come coloro che hanno la loro vera origine in Dio e che, quindi, plasmano e organizzano il mondo in modo tale che diventi degno di essere vissuto per tutti. Abbiamo una responsabilità verso questo mondo. Non possiamo sfruttarlo, ma dovremmo averne cura in modo tale che anche le generazioni future possano vivere bene in esso.

Se il mondo sia un luogo buono è, quindi, una domanda rivolta a noi stessi. Infatti, se sia un luogo buono per le generazioni che ci seguiranno dipende, non da ultimo, dal modo in cui lo lasceremo a loro.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2008, 181-182).

 

Preghiera (prima domenica)

Signore del giorno e della notte,

Dio del cielo e della terra,

si avvicina l’ora della tua venuta.

Non lasciarci intorpidire in un’attesa sonnolenta.

Desta i nostri cuori alla Parola

che non cessi di rivolgerci

attraverso i secoli dei secoli.

Padrone dello spazio e del tempo,

nostro Dio, nostro Padre,

non lasciarci riaddormentare:

rendici attenti all’occasione di salvezza che ci offri,

a questi segni incipienti del Regno del tuo Figlio

che vive presso di te e tra noi

ora e sempre.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don TONINO BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

APPROFONDIMENTO:

I AVVENTO

GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

 Prima lettura:Daniele 7,13-14

 

Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.

 

 

v La visione del Figlio dell’uomo in Dn 7,13ss chiude la prima visione apocalittica del nostro libro. La si trova al centro del c. 7 e poi alla fine della spiegazione dei simboli (7,26s). Nella prima parte, sotto lo sguardo profetico del veggente, si svolge la paurosa attività delle 4 bestie simboliche, che salgono dalle acque del mare mosse dai 4 venti. Esse rappresentano 4 famosi re, che dalle descrizioni sembrano identificarsi con l’impero babilonese («terribile leone dal cuore d’oro»), con l’impero medo («orso che divora Babilonia»), con il persiano («leopardo» dalle 4 teste di regnanti), con il greco («mostro dai denti di ferro, che tutto

stritola» assieme al tiranno che combatte contro i Santi di Dio, probabilmente l’empio Antioco IV del 168 a.C. persecutore dei pii Giudei).

     Si trattava di eventi del passato collegati alla situazione contemporanea, visti secondo la nota concezione apocalittica: l’agitarsi delle acque primordiali, da cui provengono le forze del male, sotto il vigile controllo della ruah, lo spirito di JHWH, come in Genesi 1,1-2; governanti e imperi si muovono quali strumenti dell’onnipotente Dio d’Israele.

     Lo dimostra l’improvvisa apparizione di un Vegliardo che, circondato da miriadi di esseri celesti, siede sul trono a giudicare le 4 bestie, togliendo loro ogni potere e condannandole alla morte. A questo punto irrompe la scena del nuovo sovrano dei popoli.

     v. 13: «ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo». Il personaggio viene dall’alto, e non più dagli abissi dell’oceano; è un essere dalle sembianze umane, non ben definite, superiori a quelle di un semplice mortale; non più sotto il simbolo di bestie mostruose e feroci… Egli è come l’angelo-principe di una grande nazione (10,13).

     v. 14: «Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano». A lui sono affidati i poteri regali su tutte le nazioni della terra: un regno che non vedrà mai il tramonto. Nella prospettiva del messianismo escatologico reale rappresenta l’intervento definitivo del Dio d’Israele sulle vicende della storia, proiettato in un futuro indeterminato

(l’eschaton), l’‘ahar, il seguito degli anni nella forma di un governo collettivo, consegnato al «resto santo» del popolo prediletto, i Santi dell’Altissimo. Non si esplicita se esso sarà di tipo terreno o spirituale. Si dichiara però che sia il rappresentante ideale (il figlio dell’uomo), sia la sua sovranità vengono dall’alto, proprio come la piccola pietra che si stacca dal monte e annienta le potenze del male (Dn 2,45).

     Vi si intravede la figura personale di un Inviato dal Signore Onnipotente, già delineato negli scritti dell’epoca giudaico-maccabeica (Parabole di Enoc, del 95 circa a.C.): considerato come «Re celeste, assise presso la gloria divina, che dovrà un giorno rendersi manifesto,

quale giudice del cielo e della terra, dei vivi e dei morti». È il Messia del giudizio universale, che in Mt 25,31 ss assegnerà a ogni uomo la sorte eterna in base al comandamento del sincero amore fraterno, e dirà l’ultima parola su tutta la storia dell’umanità: «gli rispose Gesù: Anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo» (Mt 26,64).

 

Seconda lettura: Apocalisse 1,5-8

 

Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen! Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!

 

 

v Siamo all’inizio della grande rivelazione profetico-apocalittica di Giovanni. Dopo il breve prologo (1,1-3) in cui si presenta il tema di tutta l’opera: — esposizione dei mirabili eventi prossimi ad accadere, così come l’autore li ha appresi da Cristo, a utilità di chi legge e ascolta —, si entra immediatamente in dialogo con le 7 chiese della cristianità d’Asia, a cui saranno indirizzate le 7 epistole (cc. 2-3), dettate dal Figlio dell’uomo, il Vivente in eterno, apparso a Giovanni in estasi (1,9-17).

     Il veggente si introduce con un saluto ai destinatari e con l’augurio di «grazia e pace» da parte di Colui che è, era e viene (il Padre divino), dei 7 Spiriti che stanno davanti al suo trono (Lo Spirito, cioè, con i suoi 7 doni, che da Lui proviene), e di Cristo Gesù. Di questi in particolare vengono esaltate le eccelse prerogative in 3a persona (vv. 6-7) e più direttamente in 1a persona (v. 8).

     v. 5a: «Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra». Son i titoli della grandezza di Gesù, visto nel suo ruolo di rivelatore supremo delle realtà divine («testimone fedele»), protagonista della storia salvifica (il «primo» a risorgere), dominatore delle vicende umane (signore dei signori).

     vv. 5b-6: «A Colui che ci ama e ci ha liberati… a lui la gloria e la potenza». Al richiamo di quei titoli sgorga dal cuore del profeta una elevata dossologia: — egli è colui che per amore ci ha lavati nel suo sangue, purificandoci dai nostri peccati e facendo di noi (ormai uniti vitalmente a Lui) una comunità sacerdotale di fronte al resto dell’umanità, per la lode di Dio suo Padre; a Lui si renda ogni onore e gloria per sempre…

     v. 7: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà». Egli è il maestoso Personaggio, già contemplato da Daniele e annunziato dallo stesso Maestro divino nel processo di Caifa (MC 14,62), a cui è conferito ogni potere in cielo e in terra, dinanzi al quale compariranno un giorno tutte le genti, anche coloro che lo hanno trafitto, perché ne siano giudicati (Zc 12,9).

     v. 8: «Io sono l’Alga e l’Omega… Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!». Ora parla lo stesso Gesù: — Egli non è il trasumanato eroe esaltato dalle mitologie orientali, ma Colui che è Principio e Fine di tutte le cose, Alfa e Omega cioè Colui che comprende e supera tutto ciò che esiste o è pensabile, che è (JHWH), che era ab aeterno, che viene in ogni epoca e si presenta sempre a nuovo nelle sue manifestazioni e nelle sue gesta, mai pienamente definibile dalla mente umana; centro e ragione d’essere di tutti gli avvenimenti che seguiranno, meta gloriosa dell’umanità e dell’universo! —.

 

Vangelo: Giovanni 18,33b-37

 

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».  

 

 

Esegesi 

     Il tratto di Gv 18,33-38a è la parte centrale del processo di Gesù dinanzi a Pilato (18,28-19,16). I capi dei Giudei che hanno deciso per conto loro di mandare a morte Gesù lo hanno condotto presso il tribunale del procuratore romano, perché sia lui a pronunziare la sentenza definitiva, quale detentore supremo del jus gladii (il diritto di vita e di morte sui sudditi di Roma). Dopo aver essi dichiarato che il Rabbì di Galilea, secondo il loro giudizio, era un trasgressore della legge e reo di morte. Pilato rientra nel pretorio per interrogare Gesù e rendersi personalmente conto della colpevolezza di Gesù (18,28-33): era nel suo diritto.

     Qui l’evangelista Giovanni riporta il luminoso dialogo tra il Maestro divino e il rappresentante della potenza pagana. Il discepolo vi ha impresso qualche barlume della sua intima comprensione del Cristo: ne ha fatto l’epifania della sua Regalità divina.

     v. 33: «Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» L’interrogatorio comincia con la chiara accusa dei capi giudei: Gesù avrebbe preteso di essere uno dei seducenti Messia, pretendente alla guida del suo popolo (Lc 23,3). «Gesù il nazareno, il re dei Giudei»: sarà il titolo posto sulla croce per ordine dello stesso Pilato (19,19).

     v. 34: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?» Gesù, prima di rispondere, vuole chiarificare in che senso il governante di Roma intendeva quel titolo: nel senso del popolo giudaico che aspettava la venuta di un Messia, leader religioso inviato dall’alto, ovvero nel senso di un condottiero politico liberatore dal giogo straniero, come poteva immaginarlo un romano? Pilato parlava secondo la concezione degli ebrei, o secondo la propria mentalità?… Il procuratore respinge quasi con sdegno la prima ipotesi. Non gli interessava proprio nulla delle credenze di quella gente: «Sono forse io Giudeo?». A lui preme sapere se davvero quell’imputato ha commesso le gravi trasgressioni per cui i suoi connazionali lo hanno sottoposto al suo giudizio! E conclude: «che cosa hai fatto»? (v. 35).

     v. 36: «Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo». Il divin Maestro ora può parlare liberamente e illustrare la sua reale posizione di fronte al tribunale di Roma. Egli poteva rassicurare il rappresentante dell’impero, dicendo di non aver fatto nulla, né contro l’ordine  sociale, né contro l’autorità dei Cesari accettata dal suo popolo (Lc 20,20-26), ma ha preferito attirare l’attenzione di quell’uomo a qualcosa di più profondo e convincente: la caratteristica incontrovertibile della sua Persona, quella che Giovanni ha già molte volte sottolineato nel suo racconto: la trascendenza del messaggio di Cristo.

     Egli promuove un regno che non appartiene all’ordinamento di questo mondo visibile (8,23), poggiato sulla forza delle armi e del consenso popolare. Il governatore lo può ben constatare: non c’è alcun suo fautore che lo difenda contro le ingiuste accuse dei suoi avversari (18,8.11).

     v. 37: «Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re». All’insinuazione, sembra un po’ ironica di Pilato: «e allora saresti Re, tu?» «tu così solo e improvviso?» (trad. ad litt. dal greco), il divino accusato prosegue: — Io sono realmente Re, nel senso che ti ho indicato, e sono venuto al mondo per testimoniare quel che ho visto e conosco (3,13; 8,23; 19,35): la realtà di un altro mondo, una realtà soprasensibile, che supera tutte le cose e le concezioni di quaggiù; realtà percepibile da chi è pronto ad accettare la Verità. Chi infatti è aperto alla verità riconosce la mia voce (10,3) e mi segue (3,31-36; 1 Gv 19,18-20). Il mio sarà così un regno nuovo, senza violenza e soprusi di alcun genere, basato solo sulla libera accoglienza del Trascendente, che è presso di ognuno e si rivela attraverso la mia parola (8,26).

     Siamo al centro di tutta la Rivelazione del Verbo divino fattosi uomo, così come si presenta nel quarto Vangelo: il Verbo che risplende tra le tenebre e manifesta a tutti la verità dell’Amore infinito del Creatore, e aggrega, chiunque vi aderisce, alla sua stessa vitalità eterna e consostanziale col Padre; si rimane nel mondo, ma non si è più di questo mondo (17,11.16).

     Pilato, tuttavia, è ancora lontano da quella verità, e se ne esce con una battuta: «ma cos’è la verità?» (18,38a).

 

Meditazione

Con questa domenica si chiude l’anno liturgico. Tra sette giorni la Liturgia della Chiesa inviterà i credenti ad iniziare un nuovo tempo di preghiera e di memorie sante. Non si tratta semplicemente di un ciclo temporale che si aggiunge ad altri calendari (scolastico, solare, giudi­ziario, amministrativo, e così via). Il tempo liturgico è altro da quello ordinario o da quelli stabiliti dagli uomini. È, infatti, un tempo nel quale non siamo noi, o le vicende di questo mondo, a decidere le sca­denze e a segnare i ritmi e gli obiettivi, come sempre accade. Nel tempo liturgico siamo noi ad essere guidati: veniamo, infatti, come sottratti alla normalità delle nostre abitudini e delle nostre preoccupazioni per essere inseriti in un altro ritmo temporale: quello di Gesù. Sono le pagi­ne del Vangelo a scandire il tempo dell’anno liturgico perché i creden­ti, strappati dal tempo dei propri affari, siano trasportati dentro la sto­ria stessa di Gesù, divenendo così suoi contemporanei. Da Natale a Pasqua sino a Pentecoste siamo chiamati a stare accanto a Gesù che nasce, che cresce, che predica e che guarisce percorrendo le strade e le piazze della sua terra, che soffre e che muore sulla croce, che però risorge, che ascende al cielo e che manda lo Spirito Santo sulla Chiesa inviando i discepoli sino agli estremi confini della terra. L’anno liturgi­co, insomma, è Cristo stesso («annus est Christus», diceva l’antica sag­gezza cristiana) che ci viene donato.

In questo singolare «anno» non si commemora un assente, ricordan­do magari con affetto i momenti salienti della sua vita. Si tratta, invece, di una realtà ben più profonda: la memoria liturgica rende presente in mezzo a noi il mistero stesso che celebriamo. Nell’anno liturgico tra­scorso di domenica in domenica siamo stati presi per mano dalla Santa Liturgia e portati appunto accanto a Gesù, dentro la sua vita, seguen­dolo passo dopo passo in tutto il suo itinerario verso il Padre che sta nei cieli. E così accade ogni anno. Ma non è una stanca ripetizione. Se gli «anni liturgici» continuano a ripetersi, è perché non termina mai la nostra condizione di discepoli, ossia di seguaci del Signore. Abbiamo sempre bisogno di riascoltare la Parola di Dio e di riprendere a seguire Gesù perché cresciamo con lui «in sapienza, in età e in grazia», come scrive Luca. Il Vangelo che viene annunciato in questa domenica ci porta vicino al Signore, unico pastore della nostra vita, perché noi ascoltandolo lo seguiamo e seguendolo lo amiamo.

Quest’ultima domenica dell’anno liturgico fa celebrare ai credenti la festa di Gesù Cristo, re dell’universo. È la festa della Sua signoria sul mondo, sul creato, sugli uomini, sulla storia. È una domenica che viene per così dire a coronare tutta la vicenda di Gesù e della stessa storia umana. È la festa in cui contempliamo Cristo nella pienezza della sua signoria sul creato. Ma il paradosso di questa festa sta nel fatto che men­tre vediamo Cristo, come re dell’universo, il Vangelo ce lo presenta umiliato, ridicolizzato, sconfitto. Questo stridente contrasto porta a chiederci: ma che re è il nostro? Che regalità è la sua? E che regno è quello su cui governa? È lo scetticismo di Pilato di fronte all’affermazio­ne di coloro che gliela avevano condotto perché lo condannasse. Infatti, chiede incuriosito: «Tu sei il re dei giudei?». L’aspetto arrendevole e modesto di Gesù, era ben lontano da quello di un sobillatore capace di mettersi alla testa di una banda armata. Eppure, Gesù non nega l’affer­mazione fatta da Pilato: «Tu lo dici, io sono re!». Ma, per chiarire il senso di questa affermazione, aggiunge immediatamente: «Il mio regno non è di questo mondo». E ne porta una prova lampante: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei». È tutto vero, anche se viene da pensare che quei pochi amici che pure aveva, non solo non lo hanno difeso, al contrario lo hanno abbandonato dandosi alla fuga; solo uno ha tentato la difesa con un colpo di spada, ma si è attirato una dura reprimenda da parte di Gesù. Il Maestro, il pastore resta solo. Ma che re è? Certo, non lo è alla maniera di questo mondo. E lo dice con chiarez­za: «il mio regno non è di questo mondo». In quattro righe questa affermazione è ripetuta per ben due volte: «Il mio regno non è di quag­giù». La sua regalità non trae origine dal mondo, non poggia sul con­senso della gente (fosse anche da un ampio consenso democratico) e non dipende dalle sue qualità; essa viene dall’alto, da Dio. I profeti avevano preannunciato l’avvento di questo nuovo re. La profezia di Daniele riportata nella prima lettura della Liturgia parla infatti di «uno, simile a figlio d’uomo» che appare sulle nubi del cielo e che riceve dal «vegliardo» il «potere, la gloria e il regno». E la visione continua con una scena grandiosa: «Tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto». La visione del profeta Daniele si consuma nella sua pie­nezza nel regno di cui parla Gesù, un regno che viene dal cielo e per questo eterno e indistruttibile. Ma non è lontano ed estraneo alla terra.

Al contrario, pur non essendo del mondo, il potere di Cristo si esercita sulla terra e nella storia degli uomini. E Pilato a suo modo lo capisce, tanto che conclude: «Dunque, tu sei re?». È come dire che l’accusa rivolta a Gesù è giusta. Ed in effetti Gesù afferma che è venuto nel mondo proprio per «rendere testimonianza alla verità». E aggiunge: «Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce!». La verità di cui Gesù parla non sono principi logici astratti o idee belle da contemplare. La verità è una storia, ossia la storia dell’amore di Dio per gli uomini. Egli, come scrive Giovanni nel suo Vangelo: «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perdu­to, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» ( Gv 3,16-17). Gesù è il volto concreto dell’amore di Dio, il volto concreto della Verità, il testimone della inimmaginabile «passio­ne» di Dio per gli uomini. È vera regalità quella di Gesù, anche se agli occhi del mondo è davvero strana. Egli regna dal pretorio, ma stando dalla parte dello sconfitto. Egli si erge a maestro autorevole, ma stando dalla parte degli imputati. Il suo potere è la forza dell’amore, è la forza della misericordia, della compassione e della mitezza. Così Egli governa i cuori degli uomini e la loro storia. L’amore appare debole agli occhi degli uomini, ma è forte agli occhi di Dio. È una forza reale. Del resto Gesù lo ha detto fin dall’inizio della sua missione sul monte delle Beatitudini: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). La terra non è dei violenti, ma dei miti, dei misericordiosi. La vera grandez­za, la vera regalità, il vero potere, sta nel lasciarsi conquistare dalla «veri­tà» di Dio, ossia dal suo sconfinato amore che giunge sino a dare la vita per gli uomini. Di questo amore ha bisogno il mondo. Perché l’amore sconfigge ogni male, compresa la morte. In questa domenica che chiu­de l’anno liturgico, la Chiesa ci fa vedere la conclusione della storia: Gesù trionfa sul male e instaura il regno dell’amore. Giovanni, come a descrivere la liturgia celeste di questa domenica, ci apre uno spiraglio sul cielo: «Ecco, viene son le nubi del cielo e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batte­ranno il petto».

 

 

L’immagine della domenica

 

 

LA VERITÀ

Se qualcuno mi dimostrasse

che Cristo è fuori della verità,

mi dimostrasse

che veramente la verità non è in Cristo,

beh, io preferirei, lo stesso, restare con Cristo

piuttosto che con la verità.

(F. Dostoevskij)

 

Preghiere e racconti

 

Occhi spalancati sulla croce

In quel Vangelo che portavo sempre in tasca cercavo dunque, prima di tutto, l’incontro con uno Sguardo capace di illuminare ogni cosa.

Ricordavo le parole della catechesi: io sono la Via, la verità, la Vita. E non era forse questo l’affanno costante dei miei giorni? Tra l’opacità del quotidiano, tra i suoi infiniti e ingannevoli viottoli, trovare la Via, la strada maestra il cui ingresso spesso è celato dai rovi. Lì, ne reo certa, erano nascosti i pilastri della Verità, e solo quei pilastri sarebbero stati in grado di accogliere per sempre la mia vita nella dimensione della libertà assoluta.

Dunque, grazie a Francesco, a un tratto scoprii che Cristo poteva anche avere gli occhi aperti, e che le sue braccia, anziché pendere mestamente dalla croce, potevano essere spalancate in un cosmico abbraccio. Fino ad allora, i pochi crocefissi che avevo visto erano tutti tristemente e dolorosamente morti. Quella desolazione, quei corpi inanimati, quegli occhi chiusi mi avevano fatta sentire esclusa da qualsiasi possibilità di dialogo.

Quanti danni ha fatto – e continua a fare – una visione di Cristo unicamente doloristica! A chi può parlare un uomo tormentato dagli spasmi dell’agonia? In un mondo ormai completamente scristianizzato, in cui l’unico vero peccato riconosciuto è quello della gola – perché attenta alla linea – come si può immaginare che le persone inizino un cammino spirituale se, come sprone, hanno davanti a sé un’immagine che non ha nessun segno della potenza della vita che verrà?

Oh, magnifici crocefissi con gli occhi spalancati, con le braccia aperte, vive, pronte ad abbracciare e a consolare ogni pianto.

Oh, sguardo di pura Luce, sguardo che contiene l’universo e costantemente lo rigenera, tocca i nostri cuori, invalidi!

Solo Tu puoi sciogliere il ghiaccio, solo tu puoi compiere la misteriosa alchimia in grado di trasformare la pietra in carne, l’odio in amore, la non vita della menzogna in vita!

Solo Tu puoi liberarci dalle catene che ci tengono prigionieri, ignoti, sconosciuti e ostili a noi stessi.

Solo Tu puoi donarci la libertà assoluta di chi non soccombe alla morte.

È questa la nostalgia che hai impresso in ogni embrione che si forma nella splendente profondità del ventre materno.

(Susanna TAMARO, Un cuore pensante, Bompiani, Milano, 2015, 145-147)

 

 La Verità e le verità

«Credo che la nostra maturità umana dipende dalla capacità di unificare noi stessi e il nostro sguardo sulla realtà. Altrimenti rischiamo di rimanere preda di un molteplice illusorio, di verità, libertà, parole…»

Esercizio non facile in una società multiculturale come quella in cui viviamo, dove si incrociano esperienze, tradizioni e religioni diverse e dove chi parla di una sola verità rischia di essere o di apparire un integralista. «Senza dubbio questo rischio c’è – ammette don Ignazio -, ma la verità di cui parlo io è la verità dell’indicibile. Quando la verità è dicibile c’è molta difficoltà a definirla come l’unica verità. La verità unica è quella che parla a tutti e quando non riesce a farlo bisogna essere prudenti a definirla l’unica vera verità. Quando diciamo che la parola è una noi siamo convinti di appartenere a questa verità, ma questa verità non ci appartiene, perché è molto più grande di noi e non possiamo gestirla né possiamo avere con essa un rapporto ideologico. Noi apparteniamo alla verità e all’infinito, ma l’infinito non ci appartiene».

(Dal libro di Enzo Romeo, I solitari di Dio. Separati da tutto, uniti a tutti, Catanzaro/Roma, Rubbettino/Rai-Eri, 2005, 10).

 

Un regno che libera, un re che si fa servitore

 Due re, uno di fronte all’altro. Pilato, la massima autorità civile e militare in Israele, il cui potere supremo è di infliggere la morte; Gesù che invece ha il potere, materno e creatore, di dare la vita in pienezza. Chi dei due è più libero, chi è più uomo? Pilato, circondato dalle sue legioni, prigioniero delle sue paure, oppure Gesù, un re disarmato che la verità ha fatto libero; che non ha paura, non fa paura, libera dalla paura, che insegna a dipendere solo da ciò che ami?

Mi commuove ogni volta il coraggio di Gesù, la sua statura interiore, non lo vedi mai servile o impaurito, neppure davanti a Pilato, è se stesso fino in fondo, libero perché vero. Dunque tu sei re? Pilato cerca di capire chi ha davanti, quel Galileo che parla e agisce in modo da non lasciare indifferente nessuno. La riposta: Sì, ma il mio regno non è di questo mondo. Forse riguarda un domani, un al di là? Ma allora perché pregare “venga il tuo regno”, venga nelle case e nelle strade, venga presto? I regni della terra, si combattono, il potere di quaggiù ha l’anima della guerra, si nutre di violenza. Gesù invece non ha mai assoldato mercenari, non ha mai arruolato eserciti, non è mai entrato nei palazzi dei potenti, se non da prigioniero. «Metti via la spada» ha detto a Pietro, altrimenti la ragione sarà sempre del più forte, del più violento, del più crudele, del più armato. Il suo regno è differente non perché si disinteressa della storia, ma perché entra nella storia perché la storia diventi tutt’altra da quello che è. I servi dei re combattono per loro. Nel suo regno accade l’inverso, il re si fa servitore: non sono venuto per essere servito, ma per servire. Non spezza nessuno, spezza se stesso; non versa il sangue di nessuno, versa il suo sangue; non sacrifica nessuno, sacrifica se stesso per i suoi servi. «Il suo regno non è di questo mondo, ed è per questo che può essere in questo mondo, e può riprenderne le minime cose senza sciuparle, può riprendere ciò che è rotto e farne un canale» (Fabrice Hadjadj).

Pilato non può capire, prende l’affermazione di Gesù: io sono re, e ne fa il titolo della condanna, l’iscrizione derisoria da inchiodare sulla croce: questo è il re dei giudei. Voleva deriderlo e invece è stato profeta: il re è visibile là, sulla croce, con le braccia aperte, dove dona tutto di sé e non prende niente. Dove muore ostinatamente amando. E Dio lo farà risorgere, perché quel corpo spezzato diventi canale per noi, e niente di quell’amore vada perduto. Pilato poi si affaccia con Gesù al balcone della piazza, al balcone dell’universo, lo presenta all’umanità: ecco l’uomo! E intende dire: ecco il volto alto e puro dell’uomo.

(Ermes Ronchi)

 

Siamo giunti alla fine dell’anno liturgico B, nel quale abbiamo ascoltato nella liturgia domenicale il vangelo secondo Marco. Domenica scorsa l’annuncio del Veniente, il Figlio dell’uomo (cf. Mc 13,26), ci ha rallegrati, perché questa è la nostra speranza, la nostra attesa: che il Signore Gesù venga nella gloria e venga presto. Oggi, in verità, celebriamo un aspetto di questa venuta nella gloria, attraverso il quarto vangelo, che con audacia profonda sa leggerla già nella storia di Gesù di Nazaret, addirittura nella sua passione. In essa avviene un’epifania: proprio quando Gesù è nel pretorio romano di Gerusalemme, consegnato dai capi dei giudei, si confessa davanti a Pilato “Re dei giudei”, cioè loro Messia, unto e inviato da Dio al suo popolo. Ma attenzione: nel quarto vangelo Gesù è un “Re al contrario”, non ha il potere mondano, la gloria dei re della terra, non si fregia dell’applauso della gente, non appare in una liturgia trionfale. Al contrario, proprio nella nudità di un uomo trattato come schiavo, quindi torturato, flagellato, finanche incoronato di spine, si rivela quale unico e vero Re di tutto l’universo, con una gloria che nessuno può strappargli, la gloria di chi ama gli altri fino alla fine (cf. Gv 13,1), di chi sa dare la vita per loro (cf. Gv 15,13), rimanendo nell’amore (cf. Gv 15,9): gloria dell’amore vissuto e dell’amore mai contraddetto.

Ma cerchiamo di leggere con obbedienza il racconto di questa scena, o meglio di questa “epifania”. La passione secondo Giovanni (cf. Gv 18,1-19,42), si compone di undici scene, ognuna situata in un luogo diverso. Al centro sta la scena dell’incoronazione di spine, in cui Gesù riceve l’adorazione dei soldati che lo sbeffeggiano e lo salutano con scherno: “Salve, Re dei giudei” (Gv 19,3), dandogli colpi in faccia. È una scena oggettivamente di derisione, di disprezzo, ma nel vangelo secondo Giovanni in verità è epifania, cioè rivela la vera regalità di Gesù, servo e vittima innocente del male del mondo. La scena-epifania di questa domenica è quella immediatamente precedente, la quarta, quando i capi dei giudei hanno ormai consegnato Gesù al procuratore romano, perché lo condanni a morte come malfattore. Pilato, che ha incontrato Gesù e non vorrebbe interessarsi della sua sorte, resiste alle pressioni degli accusatori e, entrato nel pretorio per chiamare Gesù, lo interroga. Innanzitutto gli chiede ciò che più gli interessa: “Sei tu il Re dei giudei?”. Ovvero: “Tu vanti un potere politico su questa terra e su questa gente?”. Questo, infatti, può essere un’insidia per Cesare. Ma Gesù non gli risponde subito, ponendogli invece a sua volta una domanda: “Tu, non ebreo, appartenente alle genti, ai gojim, mi fai questa domanda per una ricerca interiore o semplicemente perché sei istigato dai miei accusatori?”. Insomma, Pilato è manipolato dai capi dei giudei o la sua domanda nasce da una mozione interiore? Pilato, però, non comprende e mostra anzi il profondo disprezzo verso i giudei e anche verso Gesù, un uomo legato, consegnato a lui, inerme e per nulla bellicoso. Ripete solo a Gesù che sono proprio i suoi connazionali e correligionari ad averlo dato in balia del potere imperiale.

Segue dunque la domanda: “Che cosa hai fatto da poter essere incolpato, quale delitto contro la legge hai commesso?”. Ed ecco che Gesù fa la rivelazione: “Il Regno, quello mio, non è di questo mondo”. Quello di Gesù non è un regno che si instaura con la violenza della spada, non ha soldati pronti alla guerra, non è un regno tra i regni di questo mondo, in concorrenza tra loro. Ripeto, non è possibile nessuna concorrenza, tanto meno una conciliazione tra il Regno che Gesù annuncia e i regni che sono sulla terra: il Regno di Gesù è servizio, è dare la vita, è pace, giustizia e non può essere letto a partire dall’esperienza del potere propria degli esseri umani. Ma Pilato non riesce a reggere questa risposta di Gesù, non riesce a sintonizzarsi sulle sue parole. Non può fare altro che dirgli: “Dunque tu sei re?”, cioè pretendi – condannato come sei, in mio potere, ridotto a “cosa”, consegnato a me dai capi dei giudei e da me consegnabile alla morte – di essere re? Gesù allora replica: “Tu lo dici: io sono Re. Per essere Re sono venuto in questo mondo, con una missione che mi chiede semplicemente di essere testimone della verità: testimone della verità sull’uomo che è chiamato a essere figlio di Dio; testimone della verità che deve essere ‘fatta’, realizzata da ogni uomo e da ogni donna; testimone della verità di un Dio che ha tanto amato l’umanità da darle suo Figlio (cf. Gv 3,16)”.

Stiamo attenti: la verità non è una realtà astratta, non è neppure riducibile a una dottrina o a un’etica, ma è innanzitutto una “vita”, la vita di un uomo conforme alla volontà di Dio, la vita di un uomo che è vera e autentica quando è donata, dunque la vita di Dio stesso che Gesù vive in sé e narra umanamente a tutti quelli che lo incontrano, lo vedono, lo ascoltano.

In questa risposta a Pilato, dunque in questa epifania, Gesù è Re più che mai, Re dell’universo, Re di tutta l’umanità, perché è lui l’umanità autentica come Dio l’ha pensata, voluta e creata. Qui Gesù si mostra Re più che mai, perché non ha nessuna paura, perché regna su tutto ciò che lo attornia e su tutto ciò che accade; domina gli eventi, resta libero e parla, agisce solo per amore: regna con la regalità con la quale regna Dio! Se c’è un’ora in cui il Regno di Dio è venuto, è stato in mezzo a noi e si è rivelato, è stato narrato, questa è l’ora della passione e della croce.

Comprendiamo allora perché l’evangelista subito dopo annota che Pilato, rivolgendosi alla folla e ai capi dei giudei, proclama per due volte che Gesù è innocente, che non c’è in lui alcuna colpa secondo il diritto romano (cf. Gv 18,38; 19,4; e ancora in 19,6); poi, dopo averlo fatto flagellare (cf. Gv 19,1), lo presenta con le parole: “Ecco l’uomo!” (Gv 19,5). Pilato però – ci rivela sempre l’evangelista – durante quell’interrogatorio ha paura, e quando sente che, secondo l’accusa, Gesù si è fatto Figlio di Dio, “ha ancor più paura” (cf. Gv 19,7-8). I poteri di questo mondo possono non avere paura l’uno dell’altro, e per questo si fanno guerra; ma di fronte a Gesù “hanno paura”, perché Gesù inerme, mite, povero, innocente, regna veramente ed è lui il Re e il Giudice di tutto l’universo.

Questa festa di Cristo Re è stata come ri-evangelizzata dalla riforma liturgica del Vaticano II, grazie alla scelta delle letture evangeliche che presentano Gesù quale Re nella passione (il testo odierno è Lc 23,35-43) e quale Giudice veniente nella misericordia (cf. Mt 25,31-46).

(Enzo Bianchi)

 

Dio-verità

Chi ha superato la paura della morte, non ha ancora vinto tutti gli altri timori. Alcuni non temono la morte, ma hanno paura dei piccoli mali della vita. Alcuni non temono la morte, ma temono la morte delle persone care. Chi cerca la Verità, deve vincere tutti questi timori e altri ancora: bisogna essere pronti a sacrificare tutto per la Verità. La verità non si può sacrificare per nessuna ragione. La verità è come un grande albero, che più lo si coltiva, più da frutti. Colui che cerca la verità dovrebbe essere più umile della polvere.

Se conoscessimo la verità intera, che bisogno ci sarebbe di cercarla? Possedere la conoscenza perfetta della verità è possedere Dio. Poiché la verità è Dio. Dal momento che non conosciamo la verità totale, dobbiamo sentirci impegnati in una ricerca incessante, e questo è il più grande privilegio e il più grande dovere dell’uomo.

Dio-verità va incontro a quelli che lo cercano. Sono un umile cercatore della verità, e in questa ricerca ripongo la massima fiducia nei miei compagni per poter conoscere i miei errori. Sono fedele soltanto alla verità e non devo ubbidienza a nessuno salvo che alla verità. Tutta la verità, non semplicemente le idee vere, ma i visi autentici, i dipinti o le canzoni autentiche sono sommamente belli. Volete sapere quali siano le caratteristiche di un uomo che desideri realizzare la Verità che è Dio?  Deve essere completamente libero dall’ira e dalla lussuria, dall’avidità e dall’attaccamento, dall’orgoglio e dal timore. Voi ed io siamo una cosa sola. Non posso farvi del male senza ferirmi. Io sono il servo di musulmani, cristiani, persi, ebrei, come lo sono degli indù. E un servo non ha bisogno di prestigio, ma di amore. L’amore è il rovescio della moneta, il cui diritto è la verità.

(Mahatma Gandhi).

 

Ho cercato la verità, amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle Confessioni di sant’Agostino.

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

 Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

 Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio MAZZI, Preghiere di un prete di strada).

 

Imparare a riconoscere Gesù

Qualche volta noi ci crogioliamo un po’, ci lamentiamo col Signore, che non si manifesta in maniera chiara, che non ci dice come fare. Adagio adagio, però, si capisce che il Signore vuole che noi cerchiamo, che cresciamo in questa ricerca. Noi diventiamo veri ricercatori di Dio cercando la sua volontà, cercandola in questa Chiesa, in questo mondo, in questa società, in queste situazioni difficili, crescendo nel dialogo, nella pazienza, nella sopportazione, nell’ascolto.

Così cresciamo. Se no saremmo degli automi; se ogni mattina ci risvegliassimo col programma già fatto da Dio, allora non ci sarebbe più problema. Invece siamo degli operatori attivi e cresciamo responsabilmente nel Regno di Dio, ricercando umilmente la sua volontà e purificandoci in questa ricerca. Ciò vale anche per la ricerca di Dio in se stesso, che è crescita purificante, faticosa, e se molti arrivano a non credere in Dio, non è perché abbiano più o meno argomenti di noi, ma perché si sono stancati di cercarlo, cioè hanno finito di fare il vero mestiere di uomo che è mettersi di fronte alla verità.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 57-58).

 

Il mio Regno non è di questo mondo

Ascoltate, giudei e gentili; ascoltate circoncisi, ascoltate incirconcisi; ascoltate, regni tutti della terra: «Io non intralcio la vostra sovranità in questo mondo. Il mio Regno non è di questo mondo (Gv 18,36)». Non lasciatevi prendere dal vano timore da cui fu colto Erode il Grande, quando gli fu annunciato che era nato Cristo e, nell’intento di far morire Gesù, uccise così tanti bambini (cfr. Mt 2,3.16). «Il mio Regno non è di questo mondo», dice Gesù. Che volete di più? Venite nel Regno che non è di questo mondo; venite con fede e non vogliate diventare crudeli per la paura! È vero che in una profezia Cristo, parlando di Dio suo Padre, dice: «Da lui io sono stato costituito re sopra Sion, il suo monte santo» (Sal 2,6), ma quella Sion e quel monte non sono di questo mondo. Che cos’è il Regno di Cristo? Sono quelli che credono in lui, a proposito dei quali egli dice: «Voi non siete del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,16), anche se egli voleva che rimanessero nel mondo, e per questo prega il Padre per essi: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal male» (Gv 17,15). Per questo anche qui non dice: «Il mio Regno non è in questo mondo», ma dice: «II mio Regno non è di questo mondo». E dopo aver dimostrato questo dicendo: «Se il mio Regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero per me, affinché non fossi consegnato ai giudei» (Gv 18,36), non dice: «Ora il mio Regno non si trova in questa terra», ma dice: «Il mio Regno non è di questa terra». Il suo regno, infatti, è in questa terra fino alla fine dei secoli, e porta in sé la zizzania mescolata con il grano fino al momento della mietitura, che avverrà alla fine dei tempi, quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, e toglieranno dal suo Regno tutti gli scandali (cfr. Mt 13,38-41). E questo non potrebbe avvenire se il regno non fosse qui, sulla terra. Tuttavia, non è di questa terra, poiché è in esilio in questo mondo. A quelli che fanno parte del suo Regno egli dice: «Voi non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo» (Gv 15,19).

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 115,2,NBA XXIV, pp. 1520-1522).

 

La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione

Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della crescita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.

Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di accettazione da parte del genere umano. L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita. C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fissa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio. Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui. […]

Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165).

 

Preghiera

Troppe volte, Signore Gesù,

abbiamo rivolto il nostro cuore ad altri sovrani,

ai vari dominatori del mondo.

Troppe volte, dominati dall’ansia del futuro

e dall’angoscia del pericolo,

ci rivolgiamo ad altri «re».

Solo l’amore e la fiducia che ne deriva

liberano l’uomo dalla fobia

e dalla tirannia della sua presunzione.

Oggi, Signore, ci inviti ad alzare il capo

e a guardare nel tuo futuro.

 Tu, Re di misericordia,

ricordati di noi nel tuo Regno,

facci percepire il palpito del tuo cuore.

Un mondo disgregato dalla diffidenza,

dal dubbio e dallo scetticismo

trova solo in te la salvezza.

 Il tuo Regno non è fatto

di splendido isolamento,

ma di profonda solidarietà

con l’umanità redenta.

 Il tuo Regno non impone diffidenza,

ma libera, salva, assicura speranza.

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXIV DOMENICA TEMPO ORD CRISTO RE ANNO B

XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura:Daniele 12,1-3

 

In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.
Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.  

      

 

  • La struttura dei 14 capitoli del libro di Daniele, a cui appartiene il brano della prima lettura, è molto semplice. Si tratta infatti di un libro nel quale prevale l’elemento narrativo, composto dal racconto delle vicende di Daniele alla corte del re Nabucodonosor (cap. 1-6), dalla descrizione delle sue visioni (capp. 7-12) e da tre episodi molto noti (il caso di Susanna, la confutazione dei sacerdoti del Dio Bel e l’uccisione del Drago-idolo: capp. 13-14). Più complesso è invece il modo con cui questo libro biblico trasmette il suo messaggio. Gli esegeti infatti collocano il libro di Daniele al culmine di quella produzione letteraria che nel Giudaismo è conosciuta come letteratura apocalittica. Questo genere letterario è stato molto utilizzato dagli autori dei testi apocrifici (quelli non accettati nel canone biblico): le loro immagini, le loro speculazioni sui numeri, le descrizioni di grandi bestie e di angeli, i segni

    premonitori della fine del mondo sono stati utilizzati (ma molto più sobriamente) anche dagli autori di alcuni libri biblici o di parti di essi (Daniele, parti di Is, Ez, Zc, Apocalisse).

         Il contenuto dell’apocalittica è racchiuso nel significato stesso di questo termine, che in greco significa «rivelazione». Al popolo biblico (e nel NT alla comunità cristiana) che si sente sfiduciato e che sta per cedere alla tentazione di sentirsi definitivamente abbandonato dal suo Dio, l’autore sacro assicura la «rivelazione» di Dio attraverso visioni, sogni, immagini e simboli che il destinatario sa comprendere e interpretare (a differenza della difficoltà che incontriamo noi oggi). L’angoscia dei tempi di persecuzione (sia per il popolo biblico che per i cristiani) favoriva l’utilizzazione del genere letterario dell’apocalittica; esso solo permetteva di proiettare l’attuale situazione di sofferenza nella vittoria definitiva che Dio avrebbe saputo riportare sul male e sui persecutori del suo popolo. Il momento dell’angoscia e della persecuzione veniva così considerato come via alla definitiva vittoria di Dio e dei buoni.

         In questo contesto va letto anche il brano della prima lettura. «Il tempo di angoscia» va compreso alla luce della riflessione che l’apocalittica fa sul momento presente della persecuzione: esso è preludio alla vittoria di Dio e del bene, non alla sconfitta e all’annullamento del suo popolo. «Si troverà scritto nel libro» è l’immagine biblica che rasserena l’uomo: egli fa parte del progetto di Dio («il libro»), un progetto buono e destinato a realizzarsi nel bene; perciò l’uomo non deve temere né il fallimento né l’abbandono. «Michele» è uno degli angeli che l’apocalittica colloca a protezione delle nazioni. Secondo l’angelologia giudaica ogni nazione ha un angelo protettore, descritto spesso come «capo» o «principe» o «comandante» di eserciti celesti (cf. Dan 10,13).

         «Vita eterna e l’infamia eterna» esplicitano la condizione dell’uomo davanti a Dio, dopo la risurrezione, a seconda del ruolo che ciascuno ha rivestito nella vita presente. Il momento della persecuzione sembra dar ragione ai più forti e alle potenze del male e sembra porre fine a tutto ciò in cui il popolo biblico ha sempre creduto. La «rivoluzione» che Dio fa al suo popolo è che la vera sorte e il vero destino dell’uomo sono definiti da Lui nell’aldilà e non nell’alternarsi continuo delle vicende di questo mondo.

 

Seconda lettura: Ebrei 10,11-14.18

 

Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.

 

 

  • La lettera agli Ebrei propone il tema del sacerdozio di Cristo, un tema che non viene trattato esplicitamente nei Vangeli. Nell’esporre la sua riflessione, l’autore di questa lunga «omelia» (come viene definita la Lettera agli Ebrei) si sofferma ora sul confronto tra il sacerdozio dell’AT e quello di Gesù, evidenziandone le differenze. Il primo era ereditario nell’ebraismo, infatti, la carica di sommo sacerdote (almeno fino ai tempi di Erode il Grande) era a vita e veniva trasmessa ai discendenti. Inoltre ad esso poteva accedere solo chi apparteneva alla tribù sacerdotale di Levi. Nel NT, invece, il sacerdozio costituisce uno speciale rapporto tra il credente e Gesù, una particolare chiamata, una risposta radicale alla sua sequela, cioè una vocazione.

         I sacerdoti dell’AT ripetevano ogni giorno e ogni anno gli stessi sacrifici e le stesse feste, senza tuttavia ottenere la salvezza e il perdono definitivo («Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati»). Il sacrificio di Gesù, invece, è definitivo ed esaustivo: con l’offerta di se stesso al Padre sulla croce ha ottenuto «una volta per sempre» la salvezza per tutta l’umanità.

         L’espressione «si è assiso per sempre alla destra di Dio» (che ricalca il Salmo 110 messianico-sacerdotale) sottolinea l’unicità («una volta per sempre») e la definitività del sacerdozio di Cristo; l’intronizzazione di Cristo alla destra di Dio dice eloquentemente che la sua opera «sacerdotale» è stata perfetta e non ha bisogno di essere ulteriormente completata con ripetizioni di riti e sacrifici, come invece avveniva nel sacerdozio levitico.

         Fondamentalmente il sacerdozio di Cristo consiste nell’aver egli sempre compiuto la volontà del Padre e nell’essersi offerto a lui nella totale disponibilità del suo essere (come le vittime sacrificate), fino ad accogliere docilmente la croce per la salvezza definitiva dell’umanità.

 

Vangelo: Marco 13,24-32

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

   

 

Esegesi

 

     Il brano evangelico contiene la conclusione del «discorso escatologico» di Gesù. In questo discorso sugli «ultimi avvenimenti» (come significa in greco il termine éscathon) si intrecciano e si sovrappongono vari elementi: la descrizione della distruzione del tempio di Gerusalemme la descrizione della fine del mondo, l’esortazione alla vigilanza e il ricorso ad alcuni temi cari al genere letterario dell’apocalittica. Gli studiosi hanno cercato di collocare in un certo ordine tutto questo complesso materiale e di interpretarlo per una migliore comprensione del messaggio che l’evangelista vuole comunicare al lettore (cf. J. Dupont, La distruzione del tempio e la fine del mondo. Studi sul discorso di Mc 13, Ed. Paoline, Roma 1979, pp. 44-54).

     Questo messaggio è profondamente radicato nella Bibbia e nella persona di Gesù. La Bibbia annuncia in ogni sua pagina l’avvento del Regno di Dio e Gesù realizza nella sua persona e nella sua vita questa promessa. Il nostro brano utilizza le immagini del genere letterario dell’apocalittica («in quel giorno», «quella tribolazione», «il Figlio dell’uomo venire sulle nubi», «il sole si oscurerà»), ma il contenuto e totalmente aperto alla salvezza portata da Gesù e alla sua presenza nel mondo, da Lui amato e salvato (a differenza delle immagini apocalittiche che lo vedono destinato alla catastrofe).                           

     Questa salvezza è stata possibile grazie all’incarnazione di Gesù e alla sua obbedienza al Padre, accettata fino alle estreme conseguenze, compresa l’esclusione dalla sua rivelazione di quanto in essa non rientrava (la conoscenza e la divulgazione del momento preciso della fine del mondo). Anche il cristiano deve rinunciare a calcoli cronologici, ma deve spendere ogni giorno della sua vita aderendo alle parole e al vangelo di Gesù, che realizzano la promessa biblica del Regno di Dio, «vicino» ad ogni generazione che si succede.

 

Meditazione

 

Ci stiamo ormai avviando verso la conclusione dell’anno liturgico. Il brano del Vangelo che viene annunciato in questa domenica fa parte del «discorso escatologico» («delle realtà ultime»), che in Marco com­prende tutto il capitolo 13 (è il discorso più lungo riportato dal secon­do evangelista). Gesù è appena uscito dal tempio, dove ha fatto l’elogio di una povera vedova che ha gettato nel tesoro tutto quanto aveva per vivere, e si sta dirigendo verso il monte degli ulivi da dove si può ammi­rare lo splendore del tempio. I discepoli, guardando questa incredibile costruzione, ne restano colpiti, e uno di loro dice a Gesù: «Maestro, guarda che pietre e che costruzione!». Ed in effetti si trattava di un complesso architettonico che suscitava le meraviglie di chiunque lo avesse veduto. Nello stesso Talmud si legge: «Chi non ha visto ultimato il santuario in tutta la sua magnificenza, non sa cosa sia la sontuosità di un edificio» (Sukka 51b). Gesù, quasi interrompendo le affermazioni di meraviglia del discepolo, dice a tutti che di quella costruzione non sarebbe rimasta pietra su pietra. I discepoli, al sentire queste parole, restano ovviamente stupiti e increduli. I tre più intimi, cui si aggiunge Andrea, subito chiedono quando tale disastro dovrebbe accadere. E Gesù risponde con un lungo discorso nel quale descrive gli avvenimen­ti degli «ultimi giorni». Il brano evangelico che è stato annunciato in questa domenica (Mc 13, 24-32) riporta il punto culminante del discor­so. Gesù, dopo aver parlato della «grande tribolazione» di Gerusalemme, annuncia che seguiranno sconvolgimenti cosmici: «il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le poten­ze che sono nei cieli saranno sconvolte». E aggiunge: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria».

Il testo evangelico suggerisce che il «Figlio dell’uomo» non viene nella stanchezza delle nostre abitudini, e neppure si inserisce nel natu­rale sviluppo delle cose. Quando egli verrà porterà un cambiamento radicale sia nella vita degli uomini che nella stessa creazione. Per espri­mere questa trasformazione profonda — una sorta di violenta interruzione della storia — Gesù riprende il linguaggio tipico della tradizione apocalittica allora molto diffusa, e parla di crollo cosmico, di scardinamento del sistema planetario. Già il profeta Daniele aveva preannuncia­to: «Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popo­lo, chiunque si troverà scritto nel libro». I testi della Scrittura non aval­lano, però, una sorta di «teoria della catastrofe», secondo la quale deve esserci prima l’inabissarsi del mondo in un completo fallimento per poter quindi attendere finalmente Dio che volgerà al bene ogni cosa. No, Dio non arriva alla fine, quando tutto è perduto; Egli non rinnega la sua creazione, che è stata creata tutta buona (cfr. Gn 1); nel libro dell’Apocalisse, infatti, leggiamo: «Tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà esistevano e furono create» (4,11). La Scrittura, in tutte le sue pagine, esorta piuttosto ad operare (e ad invocare) per l’instaura­zione di una creazione nuova secondo l’immagine della città futura descrittaci nelle pagine finali dell’Apocalisse: «Vidi un cielo nuovo e una terra nuova; il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (21,1-2). Lo sconvolgimento del creato, che ci sarà, è finalizzato appunto all’instaurazione di questa «Gerusalemme» ove tutti i popoli della terra saranno radunati come in un’unica grande famiglia. Se del tempio che vedevano gli apostoli non sarebbe rimasta pietra su pietra è perché nella futura Gerusalemme non ci sarà più un tempio, appun­to come sta scritto: «In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’On­nipotente e l’Agnello sono il suo tempio» (Ap 21, 22).

Gesù parla di «ultimi giorni», ma dice anche che tali rivolgimenti avverranno in «questa generazione», ossia nel tempo che coinvolgeva i suoi ascoltatori. Del resto era la stessa presenza di Gesù a realizzare lo sconvolgimento del corso normale della vita del mondo; basti pensare a quanto accadeva con la sua predicazione e a quanto accadde con la sua resurrezione. L’irruzione del «Figlio dell’uomo» era ormai avvenu­ta e sarebbe continuata per tutte le generazioni che si sarebbero succe­dute lungo la storia. Il «giorno del Signore», prefigurato da Daniele e dagli altri profeti, irrompe in ogni generazione, anzi in ogni giorno della storia (è questo il vero senso della scansione degli anni in prima e dopo Cristo). E suggestiva l’espressione usata da Gesù sulla prossimi­tà degli «ultimi giorni». Egli dice: «sappiate che egli è vicino, è alle porte». Questa immagine è usata anche altre volte dalle Scritture per esortare i credenti ad essere pronti per accogliere il Signore che passa. «Ecco, il giudice è alle porte», scrive Giacomo nella sua lettera (5,9). E l’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Alle porte di ogni giornata della nostra vita c’è il Signore che bussa, c’è il «giorno ultimo» che attende di essere accolto, c’è il giudizio di Dio che intende trasformare il tempo che già ora viviamo.

La «fine del mondo» deve avvenire ogni giorno; ogni giorno dobbia­mo far finire un piccolo o un grande pezzo del mondo cattivo e malva­gio che, non Dio, ma gli uomini costruiscono. Del resto i giorni che passano finiscono inesorabilmente; di essi non resta più nulla se non il loro bagaglio di bene o, purtroppo, di male che noi realizziamo. La Scrittura ci invita ad avere davanti agli occhi questo futuro verso cui siamo diretti: la fine del mondo non è la catastrofe, ma l’instaurazione della città santa che scende dal cielo. Si tratta di una città, ossia di una realtà concreta non astratta che raccoglie tutti i popoli attorno al loro Signore. Questo è il fine (e, in certo modo, anche la fine) della storia. Ma questa città santa deve essere seminata già da ora nei nostri giorni, perché possa crescere e trasformare la vita degli uomini a sua immagi­ne. Non si tratta di un innesto automatico e facile. Gesù parla anche di opposizioni e persino di tradimenti, insomma di un cammino che richiede vigilanza, attenzione e anche lotta. E tuttavia non manca di assicurare i suoi della sua protezione. Dice loro: «nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime». Del resto ogni generazione cristiana deve percorrere la via trac­ciata dal Maestro. C’è quindi una fatica quotidiana che ogni credente deve compiere per costruire il mondo nuovo che Gesù è venuto ad iniziare. Ma la perseveranza nell’ascolto del Signore e nella sua sequela sono la garanzia della salvezza. Ricordando quanto Gesù ha detto: «il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».

 

L’immagine della domenica

  
 

Notte che mi guidasti,

oh, notte più dell’alba compiacente!

Oh, notte che riunisti

L’Amato con l’amata,

amata nell’Amato trasformata!

(Giovanni della Croce)


Preghiere e racconti

Una scheggia di luce

Fin dai primordi della civiltà marinara l’uomo ha imparato a fare dei grandi fuochi sulla costa, per aiutare i naviganti a orizzontarsi nella notte.

Ai fuochi, sono succeduti i fari e, anche se ormai siamo nell’epoca dei satelliti, la maggior parte dei fari continua fedelmente a fare il suo lavoro.

Da bambina rimanevo incantata per ore a guardare il fascio di luce che il grande faro di Barcola proiettava nel golfo antistante.

La sua regolarità era quasi ipnotica.

C’era il buio, e poi subito dopo quella striscia di luce che sferzava la notte con regolare fermezza, come se avesse voluto tagliarla a spicchi. Una volta ho voluto persino andare a visitarlo, ma dato che era giorno è stata una delusione. Senza le lanterne e il buio intorno, non era altro che una torre molta alta.

Che cos’altro sono i sacramenti, se non la luce che irrompe nella notte e ci permette di ritrovare la rotta che ci conduce in porto?

E che cos’è questa luce, se non il respiro dell’Eterno che, per un istante, irrompe nel tempo? Credevamo che tutto fosse qui invece, a un tratto, scopriamo che c’è una realtà che ci trascende, che precede la nostra esistenza e la segue.

E questa realtà ci parla del divino che c’è in noi. In fondo al grigiore dei giorni, una scheggi di luce splendente.

Invece di lasciarla, in cantina, a coprirsi di polvere, decidiamo di prenderci cura di lei, di lustrarla come faceva Aladino con la sua lampada. Non ne uscirà un Genio obbediente, ma qualcosa di più bello e di più grande.

Di più sorprendente.

(Susanna TAMARO, Un cuore pensante, Bompiani, Milano, 2015, 182-183).

 

Ogni giorno un mondo nasce e uno muore

Un Vangelo sulla crisi e insieme sulla speranza, che non intende incutere paura (non è mai secondo il vangelo il volto di un Dio che incute paura), che vuole profetizzare non la fine, ma il fine, il significato del mondo.

La prima verità è che l’universo è fragile nella sua grande bellezza: in quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo… Eppure non è questa l’ultima verità: se ogni giorno c’è un mondo che muore, ogni giorno c’è anche un mondo che nasce. «E si va di inizio in inizio, attraverso inizi sempre nuovi» (Gregorio di Nissa).

Quante volte si è spento il sole, quante volte le stelle sono cadute a grappoli dal nostro cielo, lasciandoci vuoti, poveri, senza sogni: una disgrazia, una malattia, la morte di una persona cara, una sconfitta nell’amore, un tradimento. Fu necessario ripartire, un’infinita pazienza di ricominciare. Guardare oltre l’inverno, credere nell’estate che inizia con il quasi niente, una gemma su un ramo, la prima fogliolina di fico, «nella speranza che viene a noi vestita di stracci perché le confezioniamo un abito da festa» (Paul Ricoeur).

Gesù educa alla speranza, a intuire dentro la fragilità della storia come le doglie di un parto, come un uscire dalla notte alla luce. Quanto morir perché la vita nasca (Clemente Rebora). Ben vengano allora certe scosse di primavera a smantellare ciò che merita di essere cancellato, anche nella istituzione ecclesiastica. E si ricostruirà, facendo leva su due punti di forza.

Il primo: quando vedrete accadere queste cose sappiate che Egli è vicino, il Signore è alle porte. La nostra forza è un Dio vicino, «la sua strada passa ancora sul mare, anche se non ne vediamo le tracce» (Salmo 77,20). La nostra nave non è in ansia per la rotta, perché sente su di sé il suo Vento di vita.

Il secondo punto di forza è la nostra stessa fragilità. Per la sua fragilità l’uomo, tanto fragile da aver sempre bisogno degli altri, cerca appoggi e legami. Ed è appoggiando una fragilità sull’altra che sosteniamo il mondo. Dio è dentro la nostra fragile ricerca di legami, viene attraverso le persone che amiamo. «Ogni carne è intrisa d’anima e umida di Dio» (Bastaire).

Il Vangelo parla di stelle che cadono. Ma il profeta Daniele alza lo sguardo: i saggi risplenderanno, i giusti saranno come stelle per sempre, il cielo dell’umanità non sarà mai vuoto e nero, uomini giusti e santi si accendono su tutta la terra, salgono nella casa delle luci, illuminano i passi di molti. Sono uomini e donne assetati di giustizia, di pace, di bellezza. E sono molti, sono come stelle nel cielo. E tutti insieme foglioline di primavera, del futuro buono che viene.

(Ermes Ronchi)

 

Vivere l’attesa del Signore

Prima lettura e vangelo contengono un messaggio escatologico: Daniele annuncia il tempo della resurrezione e il vangelo l’evento della venuta gloriosa del Figlio dell’uomo. In entrambi i testi l’evento annunciato è al contempo di giudizio e di salvezza. L’escatologia, con al suo centro la venuta del Signore nella gloria, è dimensione che presenta difficoltà notevoli per una sua traduzione in termini di vita spirituale e anche di annuncio e di predicazione. Ora, la venuta gloriosa è anzitutto una parola in cui Gesù impegna se stesso (“Le mie parole non passeranno”: Mc 13,31), è una promessa del Signore che chiede fiducia al credente.

La Bibbia cristiana termina con la promessa del Signore “Sì, vengo presto” (Ap 22,20) che, mentre chiude il libro, apre la storia dei cristiani nel mondo alla speranza e al futuro. Inoltre l’annuncio della venuta del Signore è parte integrante del mistero cristologico: Cristo è già venuto nella storia nel passato, ma verrà anche nel futuro alla fine della storia; è il Verbo che ha presieduto la creazione nell’“in principio” e il Veniente che sigillerà la nuova creazione escatologica.

Il Christus totus è anche il Cristo che verrà: la venuta finale è pertanto istanza perenne di giudizio della chiesa. Il Veniente è il Signore della chiesa. Dire che “il Signore verrà nella gloria” significa affermare la signoria di Cristo sulla storia e sul tempo. La venuta del Signore non porta con sé lo scacco del mondo, ma il suo futuro: mentre annuncia una fine instaura un fine. Il Dio rivelato da Gesù Cristo è il futuro, non il fallimento del mondo.

Il vangelo sottolinea che l’annuncio della venuta del Signore non aliena il credente dall’oggi, anzi gli chiede capacità di aderire al presente, anzi alla terra in cui vive, e di amarla. Una delle parole di Gesù più dense di tenerezza e di attenzione al reale è il detto che segue l’annuncio dei fenomeni cosmici che accompagneranno la venuta del Figlio dell’uomo: “Dal fico imparate la parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina” (v. 28).

Solo chi sa osservare realmente i rami del fico e coglie il momento in cui essi mettono i nuovi germogli può esprimersi così. Solo chi ama la terra, questa terra, può credere la nuova terra della promessa. Mentre annuncia l’evento escatologico, Gesù chiede all’uomo di mettersi alla scuola dell’albero del fico e, con esso, di tutta la natura colta come parabola della storia di Dio con il mondo. La fedeltà alla terra è la condizione per credere e attendere la venuta gloriosa del Signore.

La venuta è annunciata come certa, ma il suo momento è incerto (v. 32): il credente può dunque assumerla spiritualmente nello spazio di un’attesa che si declina come resistenza (cioè forza nelle avversità e nelle tribolazioni della storia: Mc 13,24 e i vv. precedenti), come pazienza (cioè capacità di vivere l’incompiutezza del quotidiano), come perseveranza (cioè rifiuto di apostatare nei tempi bui), come fede che crede le cose invisibili più salde e sicure di quelle visibili (cf. 2Cor 4,17-18). “Beato chi attenderà con pazienza” (Dn 12,12).

Lo sconvolgimento delle realtà celesti (cf. Mc 13,24-25) dice che è in atto un evento divino, ma sole e luna, astri e potenze celesti erano anche, nel pantheon degli antichi romani (e Marco scrive a cristiani di Roma) entità divinizzate. Qui non vi è solo la fine del mondo, ma la fine di un mondo, il crollo del mondo degli dèi pagani detronizzati dal Figlio dell’uomo.

E se si afferma che la fine dell’idolatria si compirà con il Regno di Dio instaurato dalla venuta del Signore, si insinua anche che la prassi dei cristiani nel mondo può costituire un segno del regnare di Dio grazie alla vigilanza per non far regnare su di sé gli idoli. Probabilmente, molti destinatari romani del vangelo prima della conversione erano adoratori di questi idoli. Annunciando la sua venuta gloriosa, Gesù chiede dunque ai cristiani, come gesto profetico, la conversione. Vivere l’attesa del Signore significa vivere in stato di conversione.

(Luciano Manicardi)

 

Dopo l’11 settembre

Il paradosso del nostro tempo nella storia è che

abbiamo edifici sempre più alti, ma moralità più basse,

autostrade sempre più larghe, ma orizzonti più ristretti.

Spendiamo di più, ma abbiamo meno,

comperiamo di più, ma godiamo meno.

Abbiamo case più grandi e famiglie più piccole,

più comodità, ma meno tempo.

 Più conoscenza, ma meno giudizio,

più esperti, e ancor più problemi,

più medicine, ma meno benessere.

 Beviamo troppo, fumiamo troppo,

spendiamo senza ritegno, ridiamo troppo poco,

guidiamo troppo veloci, ci arrabbiamo troppo,

facciamo le ore piccole, ci alziamo stanchi,

vediamo troppa TV, e preghiamo di rado.

 Abbiamo moltiplicato le nostre proprietà,

ma ridotto i nostri valori.

Parliamo troppo, amiamo troppo poco

e odiamo troppo spesso.

 Abbiamo imparato come guadagnarci da vivere,

ma non come vivere.

Abbiamo aggiunto anni alla vita, ma non vita agli anni.

 Siamo andati e tornati dalla Luna,

ma non riusciamo ad attraversare la strada

per incontrare un nuovo vicino di casa.

Abbiamo conquistato lo spazio esterno,

ma non lo spazio interno.

 Abbiamo creato cose più grandi, ma non migliori.

Abbiamo pulito l’aria, ma inquinato l’anima.

Abbiamo dominato l’atomo, ma non i pregiudizi.

Pianifichiamo di più, ma realizziamo meno.

Abbiamo imparato a sbrigarci, ma non ad aspettare.

 Costruiamo computers più grandi per contenere più informazioni,

per produrre più copie che mai, ma comunichiamo sempre meno.

Questi sono i tempi del fast food e della digestione lenta,

grandi uomini e piccoli caratteri,

ricchi profitti e povere relazioni.

 Questi sono i tempi di due redditi e più divorzi,

case più belle ma famiglie distrutte.

Questi sono i tempi dei viaggi veloci,

dei pannolini usa e getta,

della moralità a perdere,

delle relazioni di una notte,

dei corpi sovrappeso e delle pillole che possono farti fare di tutto,

dal rallegrarti al calmarti, all’ucciderti.

 E’ un tempo in cui ci sono tante cose in vetrina

e niente in magazzino.

Un tempo in cui la tecnologia può farti arrivare questa lettera,

e in cui puoi scegliere di condividere queste considerazioni con altri,

o di cancellarle.

 Ricordati di spendere del tempo con i tuoi cari ora,

perché non saranno con te per sempre.

Ricordati di dire una parola gentile a qualcuno

che ti guarda dal basso in soggezione,

perché quella piccola persona presto crescerà

e lascerà il tuo fianco.

 Ricordati di dare un caloroso abbraccio

alla persona che ti sta a fianco,

perché è l’unico tesoro che puoi dare con il cuore

e non costa nulla.

 Ricordati di dire “vi amo” ai tuoi cari,

ma soprattutto pensalo.

Un bacio e un abbraccio possono curare ferite

che vengono dal profondo dell’anima.

Ricordati di tenerle le mani e godi di questi momenti,

perché un giorno quella persona non sarà più lì.

 Dedica tempo all’amore,

dedica tempo alla conversazione,

e dedica tempo per condividerei pensieri preziosi della tua mente.

 E ricorda sempre:

la vita non si misura da quanti respiri facciamo,

ma dai momenti che ci tolgono il respiro.

(George Carlin).

 

Le due venute

Noi annunciamo non solo una, ma due venute di Cristo, la seconda molto più risplendente della prima. La prima si compì sotto il segno della pazienza, la seconda porta la corona del regno regale. Per lo più, infatti, il Signore nostro Gesù Cristo si manifesta in duplice modo: in due nascite, una da Dio prima dei secoli e una dalla Vergine al compimento dei secoli; in due discese, una nel nascondimento come pioggia sul vello (cfr. Sal 71 [72] ,6) e una che alla fine sarà manifesta; in due venute: nella prima, avvolto in fasce dentro la stalla e, nella seconda, avvolto da un manto di luce (cfr. Lc 2,7; Sal 103 [104] ,2); nella prima, sottoposto all’umiliazione della croce che non giudicò vergognosa e, nella seconda, scortato da schiere angeliche nella gloria. Crediamo fermamente, dunque, non solo alla prima venuta, ma attendiamo anche la seconda. Se nella prima abbiamo detto: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 21,9), nella seconda ripeteremo di nuovo le stesse parole e così correndo incontro al Signore insieme agli angeli, prostrandoci diremo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 23,39). Il Salvatore verrà di nuovo non per essere giudicato, ma per giudicare quelli che l’hanno giudicato. […] Viene il Signore nostro Gesù Cristo dai cieli, viene nella gloria nell’ultimo giorno; vi sarà infatti la fine di questo mondo e sarà creato un mondo nuovo. Sarà rinnovata la terra sommersa da corru-zioni, furti, adulteri e ogni genere di peccati, il mondo bagnato di sangue misto a sangue (cfr. Os 4,1), perché questa meravigliosa dimora dell’uomo non resti colma di iniquità. Questo mondo possa perché ne appaia uno migliore. […] Passeranno le cose che ora vediamo e verranno quelle migliori che attendiamo, ma nessuno pretenda di sapere quando. Sta scritto: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta» (At 1,7). Non devi temerariamente pretendere di sapere che cosa accadrà dopo, né supinamente adagiarti nel sonno. Sta scritto: «Vegliate perché nell’ora in cui non l’aspettate verrà il Figlio dell’uomo» (Mt 24,42.44).

(CIRILLO DI GERUSALEMME, Le catechesi 15,1.3-4, PG 33.869A-B; 872C-873; 876A).

 

La biblioteca di Dio

Credo che in qualche punto dell’universo debba esserci un archivio in cui sono conservate tutte le sofferenze e gli atti di sacrificio dell’uomo. Non esisterebbe giustizia divina se la storia di un misero non ornasse in eterno l’infinita biblioteca di Dio.

(Isaac Bashevis Singer).

 

Trova il tempo

Trova il tempo di pensare;

trova il tempo di pregare;

trova il tempo di ridere.

È la fonte del potere;

è il più grande potere sulla terra;

è la musica dell’anima.

Trova il tempo per giocare;

trova il tempo per amare ed essere amato;

trova il tempo di dare.

È il segreto dell’eterna giovinezza;

è il privilegio dato da Dio;

la giornata è troppo corta per essere egoisti.

 Trova il tempo di leggere;

trova il tempo di essere amico;

trova il tempo di lavorare.

 È la fonte della saggezza;

è la strada della felicità;

è il prezzo del successo.

 Trova il tempo di fare la carità;

è la chiave del Paradiso.

(poesia scritta sul muro della Casa dei bambini di Calcutta).

 

Insegnami ad usare bene il tempo

Dio mio,

insegnami ad usare bene il tempo che tu mi dai

e ad impiegarlo bene,

senza sciuparne.

Insegnami a prevedere senza tormentarmi,

insegnami a trarre profitto dagli errori passati,

senza lasciarmi prendere dagli scrupoli.

Insegnami ad immaginare l’avvenire senza disperarmi

che non possa essere quale io l’immagino.

Insegnami a piangere sulle mie colpe senza cadere nell’inquietudine.

Insegnami ad agire senza fretta,

e ad affrettarmi senza precipitazione.

Insegnami ad unire la fretta alla lentezza,

la serenita’ al fervore, lo zelo alla pace.

Aiutami quando comincio,

perche’ e’ proprio allora che io sono debole.

Veglia sulla mia attenzione quando lavoro,

e soprattutto riempi Tu i vuoti delle mie opere.

Fa’ che io ami il tempo che tanto assomiglia alla Tua grazia

perche’ esso porta tutte le opere alla loro fine e alla loro perfezione

senza che noi abbiamo l’impressione di parteciparvi in qualche modo.

(Jean Guitton)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXIII DOM TEMP ORD ANNO B

 

XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura:1Re 17,10-16

In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta. Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere». Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo». Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”». Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.

 

 

v Dopo l’annuncio della siccità (v. 1) e la chiamata da parte di Dio con il ritiro al torrente Cherit (vv. 2-7), ora Elia deve spostarsi a Sarepta, circa 15 km a sud di Sidone, sulla costa fenicia, terra dalla quale proveniva Gezabele, nemica dichiarata di JHWH e dunque di Elia stesso. In quel territorio Elia non si trova più sotto la giurisdizione di Acab. L’ordine può essere stato dato da Dio a motivo della persecuzione, che ormai potrebbe essere aperta (cf. 18,10). Proprio una vedova, che già per il suo stato sociale era condannata agli stenti, viene individuata come sostegno del profeta. Umanamente questo è paradossale, ma è sempre Dio a garantire la vita al di là delle umane risorse e aspettative.

     Nell’antico vicino oriente le vedove erano riconoscibili per l’abito da lutto che esse indossavano, segno permanente della loro incompletezza dopo la perdita dello sposo (cf. Gn 38,13; Gdt 10,3). Entrato in città, Elia ne scorge una che raccoglie la legna destinata a cuocere le ultime poche risorse che sono rimaste per lei e suo figlio: un pugno di farina e una goccia d’olio. La vedova a cui Elia è inviato è sul lastrico, rassegnata ormai alla morte e alla cui alternativa non vede esonerato neanche il proprio figlio.

     La donna esaudisce prontamente il desiderio di Elia in merito alla sete, come del resto prevede il grande senso di ospitalità orientale, ma recrimina per la richiesta di cibo. Il fatto che la donna invochi JHWH nella sua risposta ad Elia può dipendere dal fatto di avere riconosciuto in lui un ebreo sia per l’abbigliamento che per la pronuncia. Secondo l’uso orientale la donna giura per la divinità dell’ospite. Il giuramento rivela che quanto viene asserito dalla donna è vero ed importante.

     Alla comprensibile protesta della donna Elia risponde non trascurando i suoi legittimi bisogni, ma invitandola a farli precedere da un atto di fede attraverso l’oracolo che egli pronuncia. Il contenuto delle parole di Elia non sono semplicemente un rovesciamento di prospettiva di futuro che aveva la vedova, la quale si sentiva ormai alla fine, ma anche una indicazione chiara di colui che offrirà la soluzione. L’oracolo profetico è chiaramente forgiato sulla fede monoteista israelitica secondo la quale JHWH è l’unico Signore del creato dal quale la pioggia dipende. Vi è qui un chiaro atteggiamento polemico verso il culto forestiero di cui Gezabele era promotrice e che riconosceva in Baal il dio della fecondità, manifestata appunto nei riguardi della terra con la pioggia.

     Colui che regola i cicli naturali, che detiene il controllo delle riserve celesti (Gb 38,22-30) ha certamente potere anche sulla dispensa della vedova. Essa si fida della parola di Elia e il miracolo si compie. Attraverso il suo profeta Dio stesso si è presentato a quella diseredata non per toglierle il poco che le era rimasto, ma per aggiungere vita e speranza.

     A causa di questo episodio Elia viene considerato nella pietà giudaica il patrono dei casi impossibili.

 

Seconda lettura: Ebrei 9,24-28

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.

 

 

v Già il v. 11 del nostro capitolo aveva parlato del santuario non fatto da mani di uomo. Ora, riprendendo la liturgia del giorno dell’espiazione, si parla ancora del rapporto simbolico che intercorre tra il tempio di Gerusalemme, imponente costruzione umana, e il santuario celeste. In 8,2 l’autore aveva già trattato di questo simbolo molto lontano dalla realtà che esso rappresenta, dal momento che il vero santuario in cui Cristo è entrato è il cielo stesso. Lì Gesù si trova direttamente di fronte al Padre e diventa il nostro avvocato, come veniva ricordato nel passaggio della scorsa domenica in 7,25.

     Ritornando alla liturgia dello jom kippur, cioè del giorno della espiazione, Gesù viene paragonato al sommo sacerdote, ma per istituire un contrasto. Mentre il primo doveva annualmente «comparire», in modo solenne per indicare l’entrata del gran sacerdote nella parte più sacra del tempio, il santo dei santi, per Gesù non è così. Egli non ha bisogno di reiterare la sua offerta, perché per la purificazione dal peccato non si serve del sangue di terzi, che nel caso del sommo sacerdote era addirittura di animale, sangue di cui idealmente veniva rivestito e dal quale veniva protetto nel suo accesso al Santo dei santi; sangue che non era in grado di purificare dai peccati. Per questo il sacrificio, anche se svolto con la maggiore solennità, aveva una scadenza annuale che già in se stessa era dichiarazione di limitatezza.

     Il v. 26 si apre con un ragionamento che procede per assurdo, per condurre alla comprensione della efficacia di quanto è stato compiuto da Cristo. Se fossero valsi per Lui i criteri che regolavano l’espiazione nell’antico culto, egli avrebbe dovuto accompagnare tutta la storia umana, fin dalle sue origini, con il sacrificio. Infatti la storia degli uomini è storia di peccatori e di miserie. Al contrario, una sola volta, nella pienezza dei tempi, cioè nel momento stabilito dal Padre, Gesù è «apparso» prima nel tempo, dimensione in cui si commettono i peccati, e, dopo aver consumato in esso il sacrificio di se stesso, è «apparso» nel santuario celeste rivestito del proprio sangue che lo qualifica come efficace espiatore ed intercessore. È pertanto sul sangue stesso di Gesù che si basa l’assoluta validità del suo sacrificio e dunque la sua non reiterabilità.

     Nei vv. 27-28 vi è un nuovo confronto tra Gesù e l’esperienza umana. Per l’uomo dopo la morte viene il giudizio, per Gesù invece vi sarà una seconda «apparizione». Il tratto più interessante di questi versetti è il modo in cui viene presentata la parusia, perché certamente di essa parla l’autore quando dice che Cristo «apparirà una seconda volta». Il ritorno finale viene descritto rifacendosi ancora alla liturgia del giorno della espiazione. Quando il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi tutto il popolo rimaneva fuori in attesa di lui che uscendo avrebbe portato il perdono divino. Così nel suo ritorno finale Cristo uscirà come vero sommo ed eterno sacerdote dal santuario celeste per portare la salvezza a coloro che lo attendono. Prevale qui un aspetto positivo della venuta finale descritta come il compimento dell’attesa della sospirata, completa assoluzione.

 

Vangelo: Marco 12,38-44

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

    

 

Esegesi

     Il brano evangelico è diviso in due sezioni. La prima è costituita dai vv. 38-40 che contengono l’ultimo insegnamento impartito da Gesù nel capitolo 12 di Marco. La seconda, introdotta da un cambiamento di luogo, occupa i vv. 41-44 con la vedova additata ad esempio di vera pietà. Uno sguardo d’insieme alla tradizione sinottica ci avvertirebbe che l’atteggiamento polemico di Gesù verso gli scribi fu forte e non raro; basterebbe ricordare il capitolo 23 di Matteo. La comunità primitiva si preoccupò subito di conservare memoria degli insegnamenti di Gesù in questa materia per ricavare anche da essi uno stile nuovo di vita al suo interno. Il vangelo di Marco ha conservato poco materiale a questo proposito, e la parte che ci tocca leggere in questa domenica è la più polemica. Gli scribi vengono presi di mira a causa della loro preoccupazione per l’esteriorità. Probabilmente la loro condizione di studiosi e di esperti del testo sacro era manifestata nell’abbigliamento da un mantello apposito che essi si ponevano sulle spalle. Altri segni di distinzione ai quali erano particolarmente attaccati erano gli atti di omaggio e di riguardo che venivano loro riservati in pubblico, innanzitutto nelle piazze, dove un gran numero di persone potevano assistere agli atti di deferenza che ricevevano. Anche nelle case private, in occasione di banchetti, e persino nei luoghi di culto, le sinagoghe, desideravano essere in rilievo occupando i primi posti. L’ultima apostrofe che Gesù riserva loro riguarda la vita di pietà vissuta in pubblico come atto di esibizionismo religioso.

     Staccata dal piano esteriore è la loro avidità che prende di mira le persone meno tutelate: le vedove. Professionalmente gli scribi offrivano la loro consulenza in materia legale, il che equivaleva in una società e cultura come quella giudaica, ad una competenza religiosa perché tutto veniva regolato alla luce della Torâ. Essi però erano esosi per le loro prestazioni persino con i meno abbienti. Le parole con le quali Gesù conclude le considerazioni a loro riguardo sono assai dure. All’affermazione alla quale essi tanto tengono per il presente farà seguito una condanna più pesante di quella riservata al popolo. Forse si può notare qui una fine ironia: a queste persone esasperatamente preoccupate di primeggiare sarà data loro la possibilità di farlo persino nella dimensione definitiva, ma in un modo negativo.

     La seconda sessione del nostro brano (vv. 41-44) narra un episodio che si svolge in un ambiente specifico del grande complesso del tempio. Si tratta di un corridoio dell’atrio, luogo in cui anche le donne potevano recarsi. In questo corridoio vi erano tredici urne nelle quali venivano deposte le offerte dei devoti. Ad introdurre il denaro nel contenitore era un sacerdote al quale l’offerente indicava lo scopo di quanto consegnava. Le urne si distinguevano proprio anche per la speciale destinazione data all’offerta e dunque all’uso che ne sarebbe stato fatto. Anche in questo ambiente non manca l’ostentazione che fa da legame narrativo con la sezione precedente: i ricchi gettano molto danaro. Proprio questo filo conduttore ci porta a scoprire che la pericope liturgica si gioca sul contrasto.

     All’esteriorità e all’avidità di cui si è parlato si contrappone la generosità e la pochezza della vedova. Di proposito viene detto che la somma in suo possesso è costituita da due unità monetarie, le più piccole allora conosciute nel sistema numismatico della Giudea. Rimaneva così alla vedova la possibilità di un’equa, ragionevole divisione delle sue risorse con Dio. Non è stato questo il suo criterio di scelta. Completamente dimentica di sé ha affidato tutte le sue sostanze, quindi praticamente la sua vita a Dio.

     Sulla linea del contrasto il messaggio evangelico potrebbe dunque essere questo: Dio non è una possibilità da sfruttare per la propria affermazione, ma una persona alla quale umilmente e fiduciosamente abbandonare se stessi.

 

Meditazione

La scena evangelica si apre con una singolare notazione: «la folla numerosa lo ascoltava volentieri». Perché? Gesù toccava il cuore della gente perché l’amava a tal punto da dare la sua stessa vita per loro. Ascoltare il Vangelo, e ascoltarlo volentieri, era decisivo per la salvezza. Già l’antico libro del Siracide esortava l’uomo saggio ad «ascoltare volentieri la parola divina» (6,35).

Siamo al termine del viaggio di Gesù verso Gerusalemme e il contra­sto con gli scribi e i farisei ha raggiunto il suo culmine. L’evangelista Marco sottolinea la diversità tra l’atteggiamento della folla e quello della gerarchia religiosa. Non è una differenza di appartenenza. Il Vangelo di domenica scorsa parlava, ad esempio, di uno scriba che «non era lontano dal regno dei cieli». Il nodo del problema sta nel cuore dell’uomo, ossia se sente il bisogno di essere salvato. Gesù ascolta le domande della folla che lo segue e non vuole disattenderne il bisogno e tanto meno abban­donarla al suo destino. Il rifiuto o la disattenzione a quel grido avrebbe significato riconsegnare quella folla nelle mani degli scribi e dei farisei, cattivi pastori, che avrebbero lasciato tutti nella disperazione. L’indifferenza non è mai neutra; è molto di più, è abbandono dei più deboli in balìa degli «scribi». E ogni tempo ha i suoi «scribi» che si aggi­rano con lunghe vesti, che occupano i primi seggi nelle assemblee e nelle agorà della politica e della cultura, che ricevono i saluti e l’ossequio della maggioranza. Scribi e farisei sono coloro che dettano cosa sia la felicità o l’infelicità; sono coloro che governano le coscienze e i gusti, che ci indirizzano con un’autorità che spesso non cogliamo ma alla quale sog­giaciamo. Sono dei veri «maestri» di vita. Hanno a disposizione potenti mezzi, come potenti e forti erano gli scribi al tempo di Gesù. Egli, allora come oggi, con la povertà della predicazione evangelica, vuole scalzarli dal loro ruolo di guida perché non impongano più pesi gravi e inutili sulle spalle della gente disperata. Gesù, solo lui, è il vero buon pastore.

Gesù non si arresta nella sua requisitoria e aggiunge: «Essi divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere». Le case delle vedove sono quelle di chi non ha nessuno che li difenda. Ancora oggi sono molte le case di vedove e di orfani non difesi, a volte si tratta di paesi interi. Sì, ci sono tante vedove come quella di Sarepta, di cui abbiamo ascoltato dal primo libro dei Re. Al tempo di Elia e di Gesù le vedove, assieme a orfani e stranieri, erano considerate tra i poveri. Infatti essere vedova (e, essendo numerose le guerre, era facile trovarsi in quella condizione) voleva dire perdere i propri diritti, ma soprattut­to la possibilità di avere il necessario per vivere. Quanti sono costretti a dichiarare anche oggi: «Non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e moriremo»! In tante case e in tante terre non c’è da mangiare per il domani. Non c’è futuro. Chi guarderà queste vedove? Chi si prenderà cura di loro? Chi volgerà loro almeno uno sguardo?

Gesù le guarda. Le guarda come oggi ha fissato i suoi occhi sulla vedova che dava la sua offerta per il tempio. Gesù la vede mentre pone nelle mani del sacerdote due soli spiccioli. Nessuno, ovviamente, vi fa caso. Non è di famiglia nobile o di casa reale per attirare l’attenzione; non appartiene al mondo delle persone ricche o famose per essere notata. Non conta nulla. Se qualcuno dei passanti l’ha vista, l’avrà anche giudicata male. Cosa ha dato? Solo due spiccioli! Nulla, rispetto alle sostanziose offerte che i ricchi ostentavano. Ma quella donna, insi­gnificante agli occhi dei più e magari anche disprezzata, è guardata con affetto e ammirazione da Gesù. Solo da lui. Neppure i discepoli si accorgono di lei. Possiamo immaginare Gesù che al vedere la scena chiama gli amici perché rivolgano l’attenzione a quella vedova. Ai discepoli, distratti o attenti solo a ciò che fa impressione, Gesù insegna a guardare con amore e attenzione anche le cose più piccole. È lo stes­so sguardo di Dio, che con sollecitudine si prende cura dei poveri, come abbiamo cantato nel Salmo 145, una vera icona dell’amore di Dio per i poveri. Con la solennità dei momenti importanti – ben diver­so è il giudizio degli uomini! – Gesù dice: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere». Non ha trattenuto per sé neppure uno dei due spiccioli. Ella, a differenza degli altri e di tutti noi, ha amato Dio con tutta la sua anima e tutte le sue forze, sino a dare tutto quello che aveva. In una società che insegna a trattenere per se stessi, il dono della vedova e le parole di Gesù – perché si ha sempre bisogno delle parole del Signore per capire anche le cose semplici – ci indicano quanto siano vere le parole di Gesù riportate negli Atti degli Apostoli: «Sì è più beati nel dare che nel ricevere» (20,35).

Non è un caso che un episodio così insignificante e comunque così poco appariscente sia posto dall’evangelista a conclusione della vita pubblica di Gesù e del suo insegnamento nel tempio di Gerusalemme. Al contrario del giovane ricco che «se ne andò triste» perché aveva molti beni e volle conservarli per sé (Mc 10,22), questa povera vedova, donando tutto, ci insegna come amare Dio e il Vangelo. Ella si allonta­nò felice. Non era in verità vedova. Agli occhi degli uomini appariva tale. Su di lei si erano posati gli occhi d’amore di Gesù. La stessa felici­tà gusteremo noi se, come lei, sapremo dare il nostro povero cuore interamente al Signore.

Torniamo brevemente sull’episodio di Elia. La vicenda di Elia si apre nel capitolo 17 del Primo Libro dei Re proprio con il racconto dell’incontro del profeta con la vedova di Sarepta. Siamo innanzitutto in un territorio pagano, quindi la vedova non appartiene al popolo di Israele, non crede nel Dio di Elia. Eppure ella accoglie Elia e lo ascolta. Gesù stesso, rispondendo all’incredulità degli abitanti di Nazareth, citerà proprio questo episodio: «C’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone» (Lc 4,25-26). La profezia di Elia, prima ancora di essere annuncio della parola di Dio, è incontro umano con una povera vedova, per la quale egli compie il miracolo del cibo e della vita ridonata al figlio. Fa parte del compito profetico, affi­dato ad ogni cristiano, comunicare la misericordia di Dio al mondo, a cominciare dai poveri. Ma anche i poveri, come quella vedova, hanno bisogno di ascoltare la parola del profeta, anzi hanno diritto di ascol­tarla, perché solo essa può cambiare nel profondo la loro condizione avvicinandoli a Dio. Gesù, proprio nella sinagoga di Nazareth, fa pro­prio il compito profetico di Is 61: «Mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18). L’annuncio del Vangelo non è mai disgiunto dalla preoccupazione umana di fronte al bisogno materiale di coloro che incontriamo, ma guai se non tenessimo insieme questi due aspetti della vita cristiana.

 

L’immagine della domenica

  

IN CAMMINO VERSO TRIACASTELA – CAMMINO DI SANTIAGO 2018


Sulla bilancia della giustizia divina

non si pesa la quantità dei doni,

bensì il peso dei cuori. 

(Leone Magno)


Preghiere e racconti

“Nessuno è così povero da non poter donare qualcosa”

La generosità di cui parla il papa è una conseguenza della fede, intesa come “l’atteggiamento interiore di chi fonda la propria vita su Dio, sulla sua Parola, e confida totalmente in Lui”.

Riferendosi alla liturgia della 32ma domenica durante l’anno (B) il pontefice presenta la figura di due vedove, quella di Sarepta di Sidone, nel Primo Libro dei Re (17,10-16), e quella che offre due spiccioli al tesoro del tempio, nell’episodio narrato dal vangelo di Marco (12,41-44).

“Entrambe queste donne – spiega il papa – sono molto povere, e proprio in tale loro condizione dimostrano una grande fede in Dio. La prima compare nel ciclo dei racconti sul profeta Elia. Costui, durante un tempo di carestia, riceve dal Signore l’ordine di recarsi nei pressi di Sidone, dunque fuori d’Israele, in territorio pagano. Là incontra questa vedova e le chiede dell’acqua da bere e un po’ di pane. La donna replica che le resta solo un pugno di farina e un goccio d’olio, ma, poiché il profeta insiste e le promette che, se lo ascolterà, farina e olio non mancheranno, lo esaudisce e viene ricompensata. La seconda vedova, quella del Vangelo, viene notata da Gesù nel tempio di Gerusalemme, precisamente presso il tesoro, dove la gente metteva le offerte. Gesù vede che questa donna getta nel tesoro due monetine; allora chiama i discepoli e spiega che il suo obolo è maggiore di quello dei ricchi, perché, mentre questi danno del loro superfluo, la vedova ha offerto ‘tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere’ (Mc 12,44)”.

“Quella della vedova, nell’antichità,  – continua – costituiva di per sé una condizione di grave bisogno. Per questo, nella Bibbia, le vedove e gli orfani sono persone di cui Dio si prende cura in modo speciale: hanno perso l’appoggio terreno, ma Dio rimane il loro Sposo, il loro Genitore. Tuttavia la Scrittura dice che la condizione oggettiva di bisogno, in questo caso il fatto di essere vedova, non è sufficiente: Dio chiede sempre la nostra libera adesione di fede, che si esprime nell’amore per Lui e per il prossimo. Nessuno è così povero da non poter donare qualcosa. E infatti entrambe le nostre vedove di oggi dimostrano la loro fede compiendo un gesto di carità: l’una verso il profeta e l’altra facendo l’elemosina. Così attestano l’unità inscindibile tra fede e carità, come pure tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo – come ci ricordava il Vangelo di domenica scorsa.

“Il Papa San Leone Magno – continua – di cui ieri abbiamo celebrato la memoria, così afferma: ‘Sulla bilancia della giustizia divina non si pesa la quantità dei doni, bensì il peso dei cuori. La vedova del Vangelo depositò nel tesoro del tempio due spiccioli e superò i doni di tutti i ricchi. Nessun gesto di bontà è privo di senso davanti a Dio, nessuna misericordia resta senza frutto (Sermo de jejunio dec. mens., 90, 3)”.

“La Vergine Maria – conclude – è esempio perfetto di chi offre tutto se stesso confidando in Dio; con questa fede ella disse all’Angelo il suo «Eccomi» e accolse la volontà del Signore. Maria aiuti anche ciascuno di noi, in questo Anno della fede, a rafforzare la fiducia in Dio e nella sua Parola”.

(Benedetto XVI)

 

Un bel gesto

Trascorremmo quella notte in un delizioso alberghetto sulla riva di un lago circondato da un fitto bosco. L’edificio era costruito in pietra e legno e dotato di caminetti in cui crepitava un bel fuoco. I motivi disegnati sulla carta da parati si ispiravano al nome di ogni stanza. La nostra si chiamava La prateria: era di color verde chiaro e le pareti erano piene di piante e fiori silvestri. Le regole della casa costrinsero Ali a dormire solo quella notte, in una piccola ma confortevole cuccetta, ma era chiaro che il mio amico avrebbe fatto una gran fatica a separarsi fisicamente ed emotivamente dal suo cucciolo.

Quando scendemmo per la cena non fu una gran sorpresa incontrare la stessa famiglia chiassosa che avevamo già notato all’ora di pranzo, visto che in quella zona gli hotel non sono certo numerosi. Com’era ovvio, la nostra entrata provocò lo stesso trambusto di poche ore prima, a dimostrazione del detto: “Qualunque cosa farai, non riuscirai mai ad accontentare tutti”. Tuttavia, con il passare dei minuti, forse per colpa della stanchezza di bambini e adulti, l’atmosfera al loro tavolo si fece così sgradevole che cominciammo a sentirci a disagio per l’evidente aggressività e violenza trattenuta a stento che si respirava in quella sala. Il figlio più piccolo piangeva disperato. Un altro era in punizione senza cena. Un terzo era costretto a finire una porzione di pesce che evidentemente non gli piaceva. Gli altre due tenevano gli occhi fissi sul piatto, senza il coraggio di aprire la bocca. Il mio giovane amico, poco avvezzo ai litigi familiari, rimase profondamente colpito dalla scena, fin quasi a perdere l’appetito. E fu allora che compì il secondo miracolo d’amore del nostro viaggio: si alzò da tavola, andò a prendere Ali e, portandolo in braccio come un soffice bebè bianco, lo offrì in regalo ai bambini. Loro, con gli occhi che sprizzavano gioia, allungarono le mani per accarezzarlo. Il gesto e l’atteggiamento del giovane principe furono così commoventi che i genitori non seppero cosa dire. Quando alla fine si decisero a reagire e cercarono di rifiutare il dono, Ali faceva già parte delle loro vite. […] Da quel momento la felicità tornò a regnare nella sala da pranzo e il mio giovane amico si godette la sua cena, interrotta di continuo dai saluti e dalle risate dei bambini, oltre che dai latrati di gioia di Ali, che a quel punto aveva ben cinque amici pronti a giocare con lui e a soddisfare ogni sua necessità.          

“È stato proprio un bel gesto, soprattutto perché stamattina quei bambini ti avevano preso in giro” commentai per vedere come avrebbe reagito. Ma per tutta risposta lui disse: “Sei stato tu a farmi capire che li avevo provocati con il mio aspetto strano, ed è normale che i bambini reagiscano in maniera spontanea. E poi, non ne potevo più di quella tensione, e ho seguito l’impulso da fare qualcosa per allentarla. Ali mi è stato accanto, portandomi felicità quando più ne avevo bisogno. Mi fa piacere che adesso possa illuminare altri cuori”.

Con questa gratificante esperienza volgeva al termine la seconda giornata del nostro viaggio. Una volta ancora, ebbi l’impressione che il giovane principe avesse superarto con un solo gesto tutte le mie prolisse spiegazioni.

(A.G. ROEMMERS, Il ritorno del giovane principe, Corbaccio, Milano, 2012, 85-87)

 

L’offerta della vedova

Nell’attesa dell’ora, il Figlio dell’uomo non agisce quasi più. Si limita a guardar passare la gente: gli scribi in lunghe vesti riveriti per tutto in grazia delle loro interminabili preghiere, i fedeli che gettano i loro doni nella cassa delle offerte. Appoggiato a una colonna, nel recinto del Tempio, Gesù si inquieta, si fa beffe dei Farisei, e al tempo stesso s’intenerisce per una vedova che offre a Dio la sua stessa indigenza. Che vale un’elemosina che non ci priva di nulla? Forse, noi non abbiamo mai dato nulla.

(F. MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950, 123-124).

 

Gli spiccioli della vedova e il tesoro in Cielo

Il Vangelo mette a confronto due magisteri: quello degli scribi, teologi e giuristi importanti, e quello di una vedova povera e sola; ci porta alla scuola di una donna senza più difese e la fa maestra di vita. Gli scribi sono identificati per tre comportamenti: per come appaiono (passeggiano in lunghe vesti) per la ricerca dei primi posti nella vita sociale, per l’avidità con cui acquisiscono beni: divorano le case delle vedove, insaziabili e spietati.  Tre azioni descritte con i verbi che Gesù rifiuta: apparire, salire e comandare, avere. Sintomi di una malattia devastante, inguaribile, quella del narcisismo.

Sono di fatto gli inconvertibili: Narciso è più lontano da Dio di Caino. Gesù contrappone un Vangelo di verbi alternativi: essere, discendere, servire e donare. Lo fa portandoci in un luogo che è quanto di più estraneo al suo messaggio si possa immaginare: in faccia al tesoro del tempio; e lì, seduto come un maestro, osserva come la gente getta denaro nel tesoro: “come” non “quanto”.

Le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. I ricchi gettavano molte monete, Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine. Due spiccioli, un niente, ma pieno di cuore. Gesù se n’è accorto, unico; chiama a sé i discepoli, li convoca, erano con la testa altrove, e offre la sua lettura spiazzante e liberante: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Gesù non bada alla quantità di denaro. Anzi afferma che l’evidenza della quantità è solo illusione. Conta quanto peso di vita c’è dentro, quanto cuore, quanto di lacrime, di speranza, di fede è dentro due spiccioli.

L’uomo per star bene deve dare. È la legge della vita, siamo progettati così. Questa capacità di dare, e dare come un povero non come un ricco, ha in sé qualcosa di divino! Tutto ciò che è fatto con tutto il cuore ci avvicina all’assoluto di Dio.

Il verbo salvifico che Gesù propone in contrapposizione al “divorare” degli scribi, è “gettare”, ripetuto sette volte nel brano, un dare generoso e senza ritorno. Lo sa bene la vedova, l’emblema della mancanza. La sua mano getta, dona con gesto largo, sicuro, generoso, convinto, anche se ciò che ha da donare è pochissimo. Ma non è la quantità che conta, conta sempre il cuore, conta l’investimento di vita. La fede della vedova è viva e la fa vivere. Non le dà privilegi né le riempie la borsa, ma le allarga il cuore e le dà la gioia di sentirsi figlia di Dio, così sicura dell’amore del Padre da donare tutto il poco che ha. Questa donna, che convive col vuoto e ne conosce l’angoscia, è fiduciosa come gli uccelli del cielo, come i gigli del campo. E il Vangelo torna a trasmettere il suo respiro di liberazione.

(Ermes Ronchi)

 

Sulle orme di Cristo

1. Il gesto dell’obolo della vedova, su cui soffermiamo l’attenzione, è episodio in assoluto decisivo per la comprensione dell’intero scritto di Marco. Ne è una chiave di lettura, non a caso collocata tra la conclusione delle controversie di Gesù al tempio e sul tempio (Mc 11,27-12,40) e la profezia sulla distruzione del tempio (Mc13), con la proclamazione del Cristo pietra scartata divenuta pietra d’angolo di una nuova costruzione.

Opera fatta dal Signore, meraviglia ai nostri occhi (Mc 12,1-12; Sal 118,22-23). Non dunque di prima intenzione un racconto morale sulla generosità-non generosità, ma una narrazione esemplificativa del destino di morte di Gesù e del senso di quella morte e della intera sua vita.

2. Tutto muove da un atto di osservazione di Gesù, il quale «seduto di fronte al tesoro», alla cassetta cioè che raccoglieva le elemosine fatte al tempio, guarda la folla che vi depone la propria offerta. Sostanziosa, molte monete, quella di tanti ricchi, una cifra pressoché insignificante quella di una povera vedova, due monetine che fanno un soldo (Mc 12,41-42). All’osservazione Gesù fa seguire la chiamata a sé dei discepoli e l’interpretazione di quanto ha visto: questa vedova ha gettato più di tutti, tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere, non il superfluo (Mc 12,43-44). Non ha gettato cioè qualcosa ma ha buttato la sua stessa vita, il tutto di sé, questa la sua offerta per un mondo, aspetto da sottolineare, rappresentato da un tempio che non dà frutti e da gente che conta che si distingue per divorare le case delle vedove (Mc 12,40), dei poveri. In breve per un mondo non meritevole di ogni luogo e tempo, a cominciare da ciascuno e dalle proprie Chiese.

Un gesto assurdo, al di là di ogni logica, da parte di una creatura unica, la sola ad agire così, e per una realtà umana in declino che continua a tagliare i suoi figli minori (Mc 12,1-8), eppure amata al punto da dare tutto il proprio corpo e tutto il proprio sangue per essa (Mc 14,22-25). Gesù nella vedova ha letto se stesso e la sua morte così assurda, così inutile e così altamente significativa: è da dono radicale di sé a chi radicalmente ti nega che qualcosa di nuovo può nascere sotto il sole, le lacrime segno di una guarigione (Lc 22,62) operata da queste piaghe d’amore (1Pt 2,24).

3. Marco apre finestre che costituiranno materia ininterrotta di riflessione nella Chiesa delle origini e di sempre, il significato folle e scandaloso (1Cor 1,23) di un evento, la Croce, evocato dall’episodio dell’obolo della vedova. Dio in Cristo si identifica con una creatura nella miseria la cui generosità senza limite senza riserve stà nel donare totalmente se stessa, per puro amore, a un mondo assurdo che la sfrutta. Icona dello spegnersi di Cristo per uomini di ogni dove senza frutti, senza qualità, sempre pronti a spegnerlo: io, tu, noi, loro senza eccezione alcuna, infastiditi dalla sua stessa presenza che costringe a rendersi conto del come siamo presenti al mondo. Ma ove tale dono di sé del Cristo viene accolto, e le vie al sì sono tante quante sono le creature umane, lì inizia a nascere l’uomo nuovo, la catena delle vedove che nella loro pochezza hanno appreso qual’è la vera ricchezza che dà senso al vivere e al morire aprendo scenari inediti di resurrezione, consumare se stessi per ciò che amabile non è.

Sulle orme di Dio in Cristo e in forza del suo sguardo al contempo lucido e tenero: vede la mia insipienza e ci muore per rendermi sapiente, vede la mia cattiveria e ci muore per rendermi buono, vede la mia meschina astuzia e ci muore per rendermi semplice. Vede la mia non qualità e mi sogna a sua altezza: «predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio» (Rm 8,29).

(Giancarlo Bruni)

 

Essere dono

Ognuno è chiamato ad essere dio. Ma essere dio non vuol dire  avere tutto, servirsi di ogni cosa  e di ogni uomo; non vuol dire essere un “potente” per opprimere gli altri. Essere dio vuol dire  essere un potente che dona agli altri il suo potere; vuol dire dare un senso di eternità a ciò che ci circonda, dare speranza ai disperati, gioia a chi piange, luce a chi non vede…Vuol dire indicare Dio a chi crede che Dio non esista.

(O. OLIVIERO, L’amore ha già vinto. Pensieri e lettere spirituali (1977-2005), Milano 2005, 22).

 

Il mendicante e il re

Si racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto. In tal modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo con una cortesia.

Si narra ancora di un mendicante che un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato. Con sua meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo l’elemosina. Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare. Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato in pepita d’oro. Si rammaricò. Se avesse donato tutto il suo riso, sarebbe diventato ricco.

 

Si privò di tutto quanto aveva per vivere

«Chi usa misericordia verso il povero, presta a interesse al Signore» (Pr 19,17). […] Colui che presta denaro ai poveri del Signore, attende dal Signore la ricompensa della vita eterna. Del resto, anche il beato apostolo Paolo nel suo insegnamento attesta che, tra le preoccupazioni di tutte le chiese, quella che lui ha per i poveri non è di certo la più piccola. Dice infatti: «Soltanto ricordiamoci dei poveri, cosa che mi sono preoccupato di fare» (Gal 2,10); e in un altro passo esclama: «Niente abbiamo portato venendo in questo mondo, e niente possiamo portar via» (1Tm 6,7); e ancora: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (2Cor4,7). […] Ricordiamoci anche di quella vedova che, nella sua sollecitudine per i poveri, trascurando se stessa, si privò di tutto quello che aveva per vivere, memore soltanto della vita futura, come attesta il Giudice stesso, il quale dice che altri danno del loro superfluo, essa invece, che forse era più bisognosa di molti anche tra i poveri, pur possedendo solo due monete, fu in verità più ricca nell’animo di tutti quanti i ricchi, e rivolta ai soli doni della bontà divina, avara del solo tesoro celeste, donò tutto quello che possedeva, perché tutto ciò che si raccoglie sulla terra alla terra deve tornare. Essa gettò nel tesoro del tempio quello che aveva per possedere ciò che non aveva ancora visto; vi gettò i beni destinati alla corruzione per procurarsi quelli immortali. Quella povera donna non disprezzò il giudizio disposto e ordinato da Dio per essere accolti da lui quando ritornerà. Per questo colui che tutto dispone e il Giudice del mondo anticipò la sua sentenza e lodò nel Vangelo la donna che avrebbe incoronata nel giudizio. […] Rendiamo dunque al Signore i suoi doni; restituiamoli a lui che li riceve nella persona di ogni povero; diamoli, dico, con gioia per riceverli di nuovo da lui con esultanza, come egli stesso afferma.

(PAOLINO DA NOLA, Lettere 34,2-4, PL 61,345C.346A-C).

 

Le persone sono doni

Qualche tempo fa, ho ricevuto un articolo non firmato intitolato Le persone sono doni. Vorrei parafrasarne alcuni passi come segue:

«Le persone sono doni di Dio che mi vengono fatti. Sono già avvolti in una carta a volte bella, a volte meno attraente. Alcuni vengono strapazzati durante l’invio postale; altri, invece, sono recapitati con riguardo per espresso; alcuni sono avvolti alla bell’ e meglio e sono facili da aprire, altri sono chiusi saldamente.

Ma il dono non è l’involucro ed è importante rendersene conto. È così facile sbagliarsi al riguardo, e giudicare il contenuto dall’involucro esteriore.

Talvolta, il dono si apre con grande facilità; altre volte, c’è bisogno dell’aiuto altrui. Forse ciò è dovuto al fatto che gli altri hanno paura; forse in precedenza sono stati feriti e non vogliono esserlo ancora; o, forse, in passato sono stati aperti e poi abbandonati. Può darsi che adesso si sentano più una “cosa” che “persone”.

Io sono una persona: come chiunque altro, anch’io sono un dono. Dio ha infuso in me una bontà che è solo mia. E tuttavia, a volte, ho paura di guardare dentro il mio involucro: forse temo di essere deluso; forse non mi fido del mio contenuto; o forse non ho mai accettato veramente il dono che io stesso costituisco.

Ogni incontro e ogni condivisione con le persone è uno scambio di doni. Il mio dono sono io; il tuo dono sei tu. Siamo doni vicendevoli».

(J. POWELL, Parlami di te. So ascoltare il tuo Cuore, Milano, Gribaudi, 2005, 24-25).

 

I valorosi sono sempre tenaci?

“I valorosi sono sempre tenaci?”. Dal cielo, il Signore sorride contento, perché era ciò che Egli voleva: che ciascuno avesse nelle proprie mani la responsabilità della propria vita. In fin dei conti aveva dato ai propri figli il più grande di tutti i doni: la capacità di scegliere e di decidere i propri atti. Soltanto gli uomini e le donne segnati nel cuore dalla fiamma sacra avevano coraggio di affrontarLo. E soltanto questi conoscevano il cammino per tornare al Suo amore, giacché capivano finalmente che la tragedia non era una punizione, ma una sfida.

Elia rivide a uno a uno tutti i suoi passi: dal momento in cui aveva lasciato la falegnameria, aveva accettato la propria missione senza discutere. Anche se fosse stata vera, e lui pensava che lo fosse, Elia non aveva mai avuto l’opportunità di vedere che cosa accadeva nei cammini che aveva rifiutato di percorrere. Perché aveva paura di perdere la fede, la dedizione, la volontà. Riteneva che fosse molto rischioso sperimentare il cammino delle persone comuni: alla fine avrebbe potuto anche abituarsi e amare ciò che vedeva. Non capiva che anche lui era una persona come tutte le altre, anche se udiva gli angeli e riceveva di tanto in tanto qualche ordine da Dio: era talmente convinto di sapere ciò che voleva da essersi comportato proprio come coloro che non avevano mai preso una decisione importante nella vita.

Era sfuggito al dubbio. Alla sconfitta. Ai momenti di indecisione. Ma il Signore era generoso, e lo aveva condotto nell’abisso dell’inevitabile per dimostrargli che l’uomo deve scegliere, e non accettare, il proprio destino.

(Paulo COELHO, Monte Cinque, Bompiani, Milano, 1998, 206-207).

 

Preghiera

Signore Gesù,

che da ricco che eri ti sei fatto povero per arricchirci con la tua povertà,

aumenta la nostra fede!

È sempre molto poco ciò che abbiamo da offrirti,

ma tu aiutaci a consegnarlo senza esitazione nelle tue mani.

Tu sei il Tesoro del Padre e il Tesoro dell’umanità:

in te si riversa la pienezza della divinità,

eppure tu attendi ancora, da noi, l’obolo di ciò che siamo,

perfino del nostro peccato.

Crediamo che tu puoi trasformare la nostra miseria in beatitudine per molti,

ma tu insegnaci la generosità e l’abbandono confidente dei poveri in spirito!

Vogliamo accettare la sfida della tua parola e donarti tutto,

anche il necessario per l’oggi e il domani: tu stesso fin d’ora sei la Vita per noi.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXII DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI

 Prima lettura:Apocalisse 7,2-4.9-14

Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio». E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

 

 

v Davvero il santo è merce rara, come qualcuno va pessimisticamente dicendo? La prima lettura risponde abbattendo statistiche tendenti al ribasso.

     Dopo la solenne scenografia celeste (cf. cap. 4) e la migliore comprensione del senso della vita e della storia grazie all’intervento dell’Agnello (cf. cap. 5), inizia la progressiva apertura dei sette sigilli che rendevano finora inaccessibile il libro (cf. cap. 6). La storia è striata di sangue e di sofferenza, ma non affidata ad un cieco destino di morte. Coloro che stanno dalla parte di Dio e dell’Agnello non sono risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, sono però risparmiati dalla distruzione totale e dall’annientamento. La loro vita non cade nell’oblio, perché accolta e trasfigurata.

     Tre tappe scandiscono il brano: il sigillo impresso al gruppo dei 144.000 (vv. 2-4), il gruppo internazionale dei salvati (vv. 9-12) e la loro identità (vv. 13-14). All’inizio viene ritardato l’intervento punitivo dei 4 angeli, per permettere a un quinto di segnare il numero degli eletti. Rielaborando una scena del profeta Ezechiele (cf. Ez 8-10), l’autore proclama la salvezza che raggiunge il resto di Israele, computato in 144.000, cioè 12.000 per tribù (elencate nei vv. 5-8, tralasciati dal testo liturgico). Il numero, più qualitativo che quantitativo, viene dal prodotto di 12 (numero delle tribù di Israele), per 12 (numero degli apostoli, continuatori dell’antico popolo ma anche fondamento del nuovo), per 1.000 (numero di grandezza divina); esso designa una grande quantità di salvati provenienti dal giudaismo. (Per alcuni autori — per esempio Prigent — si tratterebbe dei cristiani nella loro totalità; Ap 14,3 ripropone il numero e parla di «i redenti della terra»).

     Distinto dal precedente si pone un altro gruppo, questa volta internazionale, impossibile a quantificarsi perché «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare». Alcune precisazioni valgono per una loro prima identificazione (cf. v. 9: stanno in piedi, perché sono vivi come l’Agnello con il quale sono posti in relazione (gli stanno davanti), indossano vesti bianche (colore che li accomuna al mondo del divino e in modo particolare alla risurrezione di Cristo) e reggono delle palme (segno che condividono con Lui la vittoria sul male e godono della pienezza della vita); in seguito saranno identificati con maggior precisione. Di loro viene riferito il canto celebrativo che accomuna Dio e Agnello, segno evidente di una perfetta comunione esistente tra i due esseri, cui viene attribuito il merito della salvezza. Alla celebrazione si associa praticamente tutta la corte celeste in una dossologia che comprende 7 titoli (numero della pienezza). Infine, l’espediente della domanda del vegliardo, elemento tipico del genere letterario apocalittico, favorisce la piena decodificazione dei salvati: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v. 14). I salvati sono pertanto coloro che traggono origine (ieri, oggi e sempre) dalla morte redentrice di Gesù (la «grande tribolazione»). Sono i santi che partecipano ora alla liturgia celeste, condividendo una vita di piena comunione, dopo aver partecipato, durante la vita mortale, alla passione di Cristo.

 

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

              

 

v La santità è amore. La lettera che celebra l’amore di Dio e dell’uomo ci propone la fonte dell’amore e, di conseguenza, la fonte della santità.

     I vv. 1-2 sono il canto entusiastico della comunità che si scopre già fin d’ora figlia del Padre che sta nei cieli: «quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!». Il testo non parla di Cristo, ma di lui hanno trattato i due capitoli precedenti e non si dà amore del Padre se non in Cristo. Il legame a lui stacca e isola la comunità dal mondo, qui inteso come la realtà negativa che si oppone a Dio; il mondo è principio di non-amore, di non-santità. Esiste quindi una incompatibilità radicale, perché i credenti sono abilitati ad una dignità di figli che li nobilita. L’amore divino è realtà che previene e che investe l’uomo, recandogli un dono inatteso e impensabile. Dio è sorgente dell’amore e quindi di ogni santità che è nell’uomo il riflesso di Dio. Se i vv. 1-2 suscitano e alimentano la nostalgia della santità, ad un impegno personalizzato sollecita il versetto successivo.

     Infatti, proprio alla possibilità di rendere efficace tale riflesso, pensa il v. 3 che completa il quadro indicando l’impegno della comunità per rispondere al dono divino. Così dalla contemplazione stupita ed ammirata di quello che Dio è e fa, si passa alla collaborazione dell’uomo che accoglie responsabilmente il dono. Uno strumento privilegiato di accoglienza è la continua purificazione, atteggiamento di conversione necessario per lasciarsi invadere da Dio: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (v. 3). Al gloriarsi della propria dignità di figli ricevuta in dono, segue l’adeguamento che è lo sforzo continuo fatto di piccole trasformazioni. Conversione è l’imperativo affidato all’uomo, dopo che gli è stato comunicato l’indicativo (realtà) della sua condizione di figlio: «purificare se stesso» vuole dire rendersi pronti alla sequela di Cristo, andare con lui incontro al Padre. Adottato questo principio di vita, si capisce il seguito, non registrato dalla lettura odierna, del cristiano che non pecca, ovviamente perché si sviluppa in lui quel «germe divino» (v. 9) che è il principio di santità, la vita stessa di Dio, che lo rende figlio nel Figlio.

 

Vangelo: Matteo 5,1-12a

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

 

 

 

Esegesi

     Il brano delle beatitudini elettrizza la odierna liturgia della parola. Esso inaugura il discorso del monte, il primo dei cinque grandi discorsi che strutturano il vangelo di Matteo. È la prima parte del primo discorso, cioè l’intonazione di tutte le parole di Gesù. Si comprende subito l’importanza attribuita dall’evangelista a questo proclama, chiamato senza troppa enfasi la magna charta, del cristianesimo. Lo potremmo quindi intendere come il suo manifesto, la sua carta costituzionale. E come in ogni stato la Costituzione è l’elemento sorgivo e strutturante delle varie componenti, una stella polare cui fare sempre riferimento, così il brano delle beatitudini caratterizza lo statuto cristiano. Il richiamo ad esso dovrà essere continuo e costante per non smarrire mai la bussola della propria identità. L’evangelista Matteo prepara il lettore con una concentrazione di particolari: è sulla montagna che Gesù presenta il suo pensiero, esattamente come Mosè aveva ricevuto le disposizioni divine sul monte Sinai; Gesù si pone a sedere assumendo l’atteggiamento dell’autorità che legifera; attorno sta il gruppo dei discepoli che non ricevono una informazione o una comunicazione, ma un insegnamento che dovrà poi trasformarsi in vita vissuta (cf. Mt 5,1.2).

     Se già la presentazione era solenne, l’impressione di maestosa autorevolezza promana ora dal messaggio, ritmato da una serie di «beati». Il termine ‘felice’ ‘beato’ (makàrios in greco, da cui il nome proprio Macario e il termine ‘macarismo’ per indicare la beatitudine o

felicità) si trova 50 volte nel NT, ma collegato in forma litania compare solo nel nostro brano e nel passo parallelo di Luca che crea il contrasto tra 4 beatitudini e 4 guai (cf. Lc 6,20-26). Proclamando le beatitudini, Gesù riprende in parte lo stile dell’AT: sono dichiarati felici gli uomini che vivono secondo le regole dettate dalla sapienza (cf. Sir 25,7-10); nei salmi è proclamato beato l’uomo che teme (= ama) il Signore, dimostrando tale amore con l’osservanza della sua volontà espressa nella sua legge (cf. Sal 128,1; 1,1). Difficilmente si trovano due beatitudini insieme e mai sono ad esse associati i guai come nella combinazione di Luca.

     Nel giudaismo di poco anteriore a Gesù è dato trovare, come nel nostro caso, la presenza di una sequenza di beatitudini e anche la loro combinazione con i ‘guai’: questi si spiegano forse per la viva speranza dei tempi ultimi. Sempre in tale contesto si incontra il discorso diretto («voi»), sconosciuto all’AT e presente in Mt 5,11. A differenza dell’AT, non ci sono frasi secondarie che specificano le beatitudini.

     Pur con qualche somiglianza letteraria con l’AT e con il giudaismo, possiamo affermare l’originalità della presentazione di Matteo. Troviamo infatti due gruppi di quattro beatitudini che si corrispondono anche nel numero delle parole. Nel primo gruppo si presenta per lo più una condizione di sofferenza, nel secondo un determinato comportamento. I vv. 11-12 sono diversi: in essi compare il discorso diretto e forse sono una rielaborazione redazionale in forma di beatitudine di un detto di Gesù. Dobbiamo senz’altro riconoscere la novità assoluta e senza precedenti del contenuto. Diversamente dalla prospettiva della letteratura sapienziale che additava una salvezza futura e terrena. Gesù annuncia una salvezza presente e senza restrizioni: tutti hanno accesso alla felicità, a condizione che siano legati a lui. Sganciati da lui, le beatitudini non hanno senso. È lui ad inserire coloro che lo seguono nella condizione di cittadini del regno, di figli di Dio.

     Le beatitudini sono piccole frasi che si intrecciano come una litania per proclamare una felicità davvero strana: «Beati i poveri in spirito… beati gli afflitti…». Dopo averle ascoltate, non sarà difficile essere presi da uno shock. Proclamare la felicità dei poveri, degli affamati, dei perseguitati sembra una evidente e sconcertante falsità che cozza contro la più elementare esperienza. Sarebbe come dichiarare che la loro disgrazia vale una benedizione: da qui alla mistificazione il passo è breve, perché sembra una buona soluzione per mantenere le cose allo stato di fissità, senza tentarne un miglioramento. L’accusa di conservatorismo arriva subito e facilmente. Si potrebbe aggiungere pure la volontà di sottrarre l’uomo alle responsabilità e agli impegni che lo ancorano al presente. Così, ad una prima reazione, il proclama delle beatitudini diventa il manifesto di una mortificante sclerosi che certo non onora Dio e che impoverisce l’uomo. Sotto la bandiera di un sublime ideale si fa passare un ordine invertito di valori umani.

     Che cosa possiamo rispondere?

     Le beatitudini sono proclamate da Gesù che annuncia solo quello che vive. Sarebbe sorprendente che un uomo che tutti riconoscono di una inimitabile coerenza abbia iniziato la sua predicazione (così in Matteo) con un clamoroso bluff. Le beatitudini sono il prisma che rinfrange non solo l’attitudine, ma anche i veri atteggiamenti di Lui.

     La prima cosa da sapere e da imparare consiste nella convinzione che la felicità attinge al mondo interiore. La felicità nasce dall’anima stessa; non si trova per strada, non si compra né si vende. Essa è un’attitudine interiore che risveglia un comportamento visibile. Le beatitudini sono un appello a cambiare vita e prima ancora a modificare sensibilmente la propria mentalità. E questo avviene orientandosi verso Dio: ecco la realtà del «regno dei cieli» che apre la prima e la più importante delle beatitudini; ecco il passivo divino «saranno consolati» che andrebbe reso meglio «Dio li consolerà», mostrando anche nella traduzione che la fonte della consolazione è Dio stesso. Così di seguito, tutto rimanda a Dio.

     La forza sta tutta qui: Gesù annuncia quello che egli vive. In lui si riscontra identità tra messaggio e messaggero, tra il dire, l’agire e l’essere. Il segreto dell’efficacia della sua missione sta nella totale identificazione col messaggio che annuncia: egli proclama la ‘buona novella’ non solo con quello che dice o fa, ma con quello che è. Ed egli è in perfetta comunione con il Padre, di cui esegue pienamente la volontà. Allora anche le difficoltà (o disgrazie) che accompagnano e segnano inesorabilmente la vita di ogni uomo, assumono un significato diverso prendono senso perché integrate in una vita che parte da Dio e che a Lui arriva. Questa è la santità.

 

Meditazione

È bene per noi, uomini e donne della terra, ancora sotto il dominio del peccato e della morte, pregare con chi è passato attraverso la grande tribolazione, la morte, colei che sembra allontanare definitivamente da Dio e dalla vita che egli ci ha donato. E, mentre celebriamo la liturgia, ci uniamo a coloro che celebrano la liturgia del cielo e cantano la lode di Dio. Sono i santi, uomini e donne diversi, che si sono fatti ascoltato­ri della Parola di Dio e discepoli di Gesù, scegliendo di vivere non per se stessi, ma per lui che è morto e risorto per noi. La Chiesa, nostra madre, in modo sapiente, anticipa la festa di tutti i Santi alla memoria dei fedeli defunti, quasi per aiutarci a comprendere il mistero della morte e perché non siamo dominati dalla paura. Il Signore infatti non abbandona gli uomini all’abisso della morte e nel Figlio Gesù, primo­genito di una moltitudine di fratelli, ci fa già cantare nella liturgia la gioia della resurrezione. La memoria dei santi accanto a noi ci aiuta a guardare con speranza il tempo che viviamo; soprattutto ci aiuta a non vivere prigionieri del nostro piccolo mondo, della terra su cui cammi­niamo, neppure delle realtà ecclesiali di cui siamo parte. Vi è una mol­titudine immensa di uomini e donne, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua, che insieme a noi e alla nostra comunità canta la salvezza che viene da Dio attraverso l’Agnello e ci rende partecipi di un popolo grande, in cui la diversità di origine e di cultura non diventa motivo di divisione e di inimicizia. È il popolo di Dio, sacramento dell’unità della famiglia umana, come ha detto il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium, liberato dall’odio, dalla divisione, dall’inimicizia, da tutti quei motivi di separazione che ancora non permettono agli uomini di vivere sulla terra quella visione del cielo.

Le parole dell’Apocalisse sembrano descrivere un altro mondo, lon­tano, irraggiungibile, impossibile da realizzare nel nostro. Sì, siamo di fronte davvero a un mondo altro, diverso da quello di tutti i giorni, spesso costellato di divisioni, contrapposizioni, inimicizie, che impedi­scono l’unità e intralciano il superamento del proprio io in una comunione e una sintonia con gli altri. Ci sono ancora troppe inimicizie che passano nei cuori di ognuno. Quante divisioni ancora tra i popoli, quanti conflitti nella vita di ogni giorno, fondati sulla difesa di se stessi e del proprio interesse. Le parole dell’Apocalisse rimangono una visio­ne e una profezia, ma sono anche una vocazione, quella di ognuno dei cristiani che da uomini della terra diventano uomini spirituali e si fanno discepoli del Signore, entrando già fin d’ora a far parte di quella moltitudine immensa. E un popolo di poveri, di gente che piange, di miti; di affamati e assetati di giustizia, di misericordiosi, di puri di cuore, di operatori di pace, di perseguitati per causa della giustizia e del Signore. Sembra un popolo di deboli, perché i poveri sono disprez­zati, coloro che soffrono abbandonati, i miti dileggiati, i cercatori di giustizia e di pace considerati degli ingenui, i perseguitati dimenticati, come tanti cristiani nel mondo. Qual è la loro forza se non di essere in quel popolo? Quale la loro felicità e beatitudine se non nella certezza che Dio realizzerà la sua parola e che fin da oggi sono radicali nella promessa di Dio? Questo Vangelo, che abbiamo ascoltato molte volte, traccia un itinerario tanto diverso dal vangelo di questo mondo, che proclama beati i ricchi, i forti, i belli, i furbi, coloro che fanno il loro interesse. La Chiesa lo ripropone nella solennità di tutti i santi, per farci comprendere qual è la via della santità, a cui tutti siamo chiamati.

Si vive talvolta una vita modesta, incentrata su se stessi, istintiva e suscettibile, ci si accontenta di quanto si riesce a percepire dal nostro orizzonte quotidiano, impauriti davanti alle grandi visioni. Così la visio­ne di Dio si appanna e svanisce. Per far parte di quella moltitudine immensa e poter incontrare il Dio della vita passando attraverso la grande tribolazione senza soccombere, bisogna essere più ambiziosi nell’amore, non tiepidi e calcolatori, non avari ed egoisti, non chiusi nel proprio mondo di buoni, che giudicano gli altri. I martiri, che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello e di cui la Chiesa fa sempre memoria, ci indicano la forza di una vita spesa nell’amore. Uno degli ultimi, che la Chiesa proclamerà beato, è don Pino Puglisi, un sacerdote che ha dato la sua vita per il Vangelo e non ha ceduto alla mentalità violenta e mafiosa da cui era circondato. La visione di Dio ci chiama ad essere santi, a vivere sulla terra come cittadini del cielo, familiari e cercatori di Dio, amici dei poveri e dei bisognosi per poter essere un giorno con loro, miti in un mondo pre­potente e violento, operatori di pace là dove permangono piccoli o grandi conflitti, affamati di quella giustizia di Dio, che mai è disgiunta dalla misericordia e non invoca la vendetta sul colpevole e sul malvagio. Se vogliamo un mondo migliore e più umano, percorriamo la via della santità, che ci è così bene indicata nelle beatitudini. E, se vogliamo realizzarla, uniamoci ai poveri, perché sono i primi beati, i primi a far parte del regno di Dio. Gesù, secondo i Vangeli sinottici, incontra per primi i discepoli e i poveri, i malati, gli indemoniati. Tutti loro fanno parte della sua famiglia. E noi potremo esser ugualmente felici, percor­rendo la via che il Signore ha proclamato dal monte delle beatitudini, nuovo Sinai, come la legge di Dio, l’insegnamento nuovo che porta a compimento l’antico senza abolirne il valore.

A noi, discepoli dell’unico che ha vissuto tutte le beatitudini, il Signore Gesù, viene chiesto di lasciarci attrarre da questo popolo, ribel­landoci all’individualismo che ci vorrebbe divisi. Le beatitudini sono le parole che ogni giorno ci permetteranno di far parte della famiglia di Dio e di gustare la gioia e la bellezza di essere un noi, un unico popolo, dove non esistono più confini di nazione, tribù, popolo, lingua. Ci tro­viamo davanti all’antico sogno di Dio che volle gli uomini non nemici né divisi, ma fratelli. Oggi nella festa di tutti i santi lo vediamo realizzar­si e ci sentiamo coinvolti in un disegno di amore che va oltre quanto siamo in grado di comprendere e di vivere ogni giorno. Non tiriamoci indietro per paura di perdere noi stessi. Aspiriamo alla santità, che è comunione con il Signore, vita gioiosa con i fratelli e amica dei poveri. Viviamo l’audacia di essere uomini e donne di quella moltitudine immensa, che non accetta la divisione come un fatto normale né il conflitto come naturale. La vittoria di Gesù sulla morte, la testimonian­za di coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’agnello, raf­forzano la nostra esistenza in un mondo di gente incerta e impaurita e ci aiutano a guardare al futuro con speranza e con la certezza che il Signore non permetterà al male di soffocare i tanti segni di bene che i suoi discepoli custodiscono. La beatitudine dei discepoli di Gesù sarà la gioia di continuare a vivere in quella moltitudine immensa e senza con­fini, popolo di umili e di poveri, santificato dalla presenza di Dio e reso forte dal suo amore che ha vinto la morte.

Per questo ovunque nel mondo i cristiani continuano incessante­mente ad innalzare la loro lode al Padre e all’Agnello, primogenito di quella moltitudine immensa: «Amen, lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli». Nella preghiera di lode essi ritrovano la forza per l’agire, la speranza che si fa tenace ricerca della pace contro il pessimismo e il realismo triste di chi accetta l’inimicizia come un fatto naturale e inevitabile. La visione di Dio ci precede sempre. Non dimentichiamolo! E l’Eucaristia in qual­che modo la rende più vicina perché ci rende più vicini al Signore e ci fa parte già in questo mondo di quella moltitudine immensa che cele­bra la vittoria di Dio sul male. Mentre egli si manifesta a noi, siamo costituiti come suo popolo e ci avviciniamo a lui in quella comunione di amore che diventa canto di lode e rendimento di grazie.

 

Preghiere e racconti

La santità è sempre giovane

«Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”. “Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri. Beati voi!”. E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità. Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio. Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita. Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.

“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana. È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio. Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore. Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo. (…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente. E la santità non è questione di età. La santità è vivere nello Spirito Santo”.

Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza. Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.

(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).

 

Ciò che ho scritto di noi

Ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia

è la mia nostalgia cresciuta sul ramo inaccessibile

è la mia sete tirata su dal pozzo dei miei sogni

è il disegno tracciato su un raggio di sole

ciò che ho scritto di noi è tutta verità

è la tua grazia

cesta colma di frutti rovesciata sull’erba

è la tua assenza

quando divento l’ultima luce all’ultimo angolo della via

è la mia gelosia

quando corro di notte fra i treni con gli occhi bendati

è la mia felicità

fiume soleggiato che irrompe sulle dighe

ciò che ho scritto di noi

è tutta una bugia

ciò che ho scritto di noi è tutta verità.

(Nazim Hikmet)

 

Le beatitudini bibliche

Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali. È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città. Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono. Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati. Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo. La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza. A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità. E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.

Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili. Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana. Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.

Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).

Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.

(A. MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato, 1992, 542s.).

 

Il paese della felicità

Se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, partiremmo comunque subito.

Perché sarebbe in ogni caso più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.

(Thorkild Hansen)

 

Perché dovrei aiutare soprattutto i deboli?

Friedrich Nietzsche ha rimproverato al cristianesimo di glorificare la dimensione della debolezza e di condannare la dimensione della forza. Il cristianesimo sarebbe diventato, quindi, una religione dei gretti, nella quale la forza non ha posto e dalla quale le personalità forti si sentono respinte. Anche se Nietzsche esagera nella sua critica al cristianesimo, ha sottolineato tuttavia un aspetto importante: il cristianesimo non può diventare una religione della debolezza, altrimenti alla lunga non può dispiegare nessuna forza in questo mondo.

San Benedetto lo sapeva. Ammonisce l’abate a trattare i confratelli in modo tale che i forti vengano sollecitati e i deboli non vengano umiliati. Questa è per me una regola fondamentale e saggia. I forti hanno bisogno di una sfida per crescere e mettere i loro punti forti al servizio della comunità. Una comunità che glorifichi i deboli può togliere il respiro anche ai forti. In questo modo danneggerebbe se stessa. C’è bisogno di un buon equilibrio fra forti e deboli. Entrambi dovrebbero essere sfidati e dovrebbero poter vivere nella comunità in modo tale da crescere in essa.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 145).

 

Posso vivere basandomi sui valori e tuttavia avere successo?

I valori ci conferiscono valore e dignità. La vita di chi fa attenzione ai valori nella sua sfera personale acquisterà valore. Chi non si orienta più ai valori perde il rispetto per se stesso e per gli altri. La sua vita avrà sempre meno valore. Lo tirerà giù. La parola “valore” viene dal latino valere, che significa “essere forte e sano”. I valori ci danno, quindi, una forza interiore. Rendono sana la nostra vita. Se costruisco sui valori, quello che creo con la mia vita avrà un fondamento solido. Non crollerà con facilità, come si può osservare con le persone che costruiscono la loro casa di vita sulla sabbia delle loro illusioni o delle immagini ingannevoli. Alla lunga può resistere solo chi costruisce la sua casa su un terreno solido. E tale terreno solido sono i valori o gli atteggiamenti fondati sui valori, le virtù note fin dall’antichità: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e gli atteggiamenti cristiani come la fede, la speranza e la carità. Solo che rende giustizia alla propria essenza e chi rimane fedele con coraggio a quello che è importante per lui, chi accetta la propria dimensione e non segue continuamente esigenze smisurate, solo chi è saggio e valuta correttamente la situazione concreta, potrà vivere bene a lungo. E a lungo termine avrà anche successo nella vita.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 149).

 

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

custodisci questi giovani nel tuo amore.

Fa’ che odano la tua voce

e credano a ciò che tu dici,

poiché tu solo hai parole di vita eterna.

Insegna loro come professare la propria fede,

come donare il proprio amore,

come comunicare la propria speranza agli altri.

Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo,

in un mondo che ha tanto bisogno

della tua grazia che salva.

Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini,

perché siano sale della terra e luce del mondo

all’inizio del terzo millennio cristiano.

Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida

questi giovani uomini e giovani donne

del ventunesimo secolo.

Tienili tutti stretti al tuo materno cuore. Amen.

(Preghiera del Papa, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).

 

     

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

TUTTI I SANTI (Anno B)

 

 

XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura:Geremia 31,7-9

Così dice il Signore: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito».      

 

 

v Il piccolo brano di questa lettura è inserito nella raccolta degli oracoli di restaurazione composti in varie epoche dal profeta Geremia (30,2s), profeta di «distruzione», ma anche di «edificazione» (1,10). Dopo aver annunziato in generale l’estrema rovina del suo popolo e il cambiamento di sorte del «resto» di Giacobbe (30,1-22), in 31,1-6 viene espressa la somma gioia del Padre d’Israele e del suo portavoce nel contemplare il viaggio del ritorno in patria degli Israeliti: è l’aver trovato grazia agli occhi del Signore, aver esperimentato l’immensa pietà («amore eterno… e compassione», 31,3) del Dio dei padri. Segue la descrizione festosa del rientro in Palestina sulle labbra dello stesso Signore:

     v. 7: dice il Signore: «innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate». È un invito a tutta l’assemblea dei credenti a godere per le meraviglie operate dall’Altissimo (Sal 96.97), e precisamente per la salvezza del «resto» d’Israele, il prediletto tra i popoli («la prima delle nazioni»): l’intera ricostituzione di quella stirpe, a cui è stata fatta una promessa eterna; di questa Dio si è ricordato nel tempo della loro sventura, quando erano ormai ridotti a un piccolo numero (Is 41,13-20).

     v. 8: «Ecco, li riconduco… dalle estremità della terra». L’onnipotenza divina non conosce limiti di spazio, né difficoltà di itinerari: li raggiungerà dovunque si trovino e guiderà verso il loro paese, compresi zoppi e infermi, esattamente come ha già fatto con i loro antenati attraverso il deserto del Sinai (Is 40,10), «portando gli agnellini sul petto e conducendo pian piano le pecore madri» (Is 40,11).

     v. 9: «li riporterò tra le consolazioni… io sono un padre per Israele». Dopo il pianto, li attende ora una grande consolazione, dopo l’oppressione della schiavitù, l’abbondanza dei beni nella loro terra preparata da secoli da JHWH, «scorrente latte e miele (Es 3,8) e fiumi d’acqua». La motivazione: Dio è un vero Padre, pieno di tenerezza, che non potrà mai dimenticare il suo primogenito: «ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà» (31,3; Os 11,8).

     Viene così esaltata sia l’assoluta potenza del Dio d’Israele dinanzi a cui non c’è alcuna barriera, sia la sua fedeltà ai disegni d’amore manifestati ai patriarchi del popolo eletto. È un sovrano pietoso di cui tutte le creature si possono fidare, sempre pronto a intervenire a favore di chi riconosce la sua infinita benevolenza paterna. Lo confermerà splendidamente il Maestro divino Gesù (Mt 6,25-34).

 

Seconda lettura: Ebrei 5,1-6

Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek». 

      

 

v L’autore della lettera sta presentando Gesù nella sua missione di Salvatore dell’umanità, in quanto si è fatto partecipe e solidale della nostra natura (2,14-17). Da qui la designazione di nostro mediatore di pace, espiatore di tutte le nostre colpe e nostro sommo Sacerdote presso il trono dell’Altissimo (2,14-17). Si continua poi a elencare le sue prerogative di fedeltà, di misericordia, di efficacia (fino a tutto il c. 10).

     In 5,1-10 abbiamo la precisa definizione del sacerdozio di Cristo.

     v. 1: «Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini». Anzitutto una definizione basilare, applicabile a ogni tipo di mediatore sacro fra gli uomini e la Divinità: essere presi dal gruppo dei propri simili e designati nell’ambito delle realtà religiose, col compito di offrire doni graditi al Signore supremo e sacrifici di animali in riparazione delle offese fatte alla maestà divina. Proprio ciò che si era realizzato nell’ordinamento levitico del popolo ebreo: consacrazione dei figli di Levi al servizio del culto e per la presentazione delle offerte sull’altare di JHWH (Es 28.29; Lv 2.4).

     v. 2: «Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli…». In secondo luogo saranno dotati di compassione, cioè di comprensione e misericordia verso la debolezza dei propri fratelli, in quanto anch’essi partecipi dei loro limiti e delle loro manchevolezze, sia pure per mancanza di piena cognizione del male compiuto («ignoranza») e per cui saranno tenuti a offrire espiazione anche per se stessi (Lv 9,7).

     v. 4: «Nessuno attribuisce a se stesso questo onore». In terzo luogo occorre che la designazione a quell’ufficio provenga dall’alto. Nessuno può presumere di avere il singolare compito di accostarsi al trono del Dio tre volte santo per attirare sugli altri le divine compiacenze. Solo Lui può conferire questo onore a chi vuole: così è stato per Aronne (Es 28,1), così sarà per i primi rappresentanti di Cristo (Gv 3,27:15,16); chi se ne è arrogato il diritto è stato radiato dal suo cospetto (Nm 16;1 Re 13,1-5).

     v. 5: «Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote». Cristo è sommo sacerdote perché così l’ha solennemente dichiarato JHWH, conferendogli la sua somma compiacenza: «Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato» (Sal 2,7), «in te mi sono compiaciuto» (Lc 3,22). Nato da donna (Gal 4,4) e insieme consostanziale al Padre, partecipe della natura umana e della divina, è già costituito supremo mediatore fra l’umanità e la Divinità per la sua perfetta solidarietà con l’uomo e la sua unione ipostatica col Verbo. Così è stato confermato con un altro oracolo divino: «tu sei sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek» (Sal 110,4). Al cap. 7 della nostra Lettera verrà spiegata la superiorità nel tempo e nel valore del sacerdozio di Melchisedek (che si presenta nella Genesi senza genealogia e ereditarietà umana) nei confronti del sacerdozio levitico (iniziato nel tempo e ereditario), e di conseguenza viene esaltata la sublimità e perennità del Sacerdozio di Cristo, evidentemente designato dall’Altissimo, indefettibile e efficacissimo.

     In conclusione in Cristo Gesù abbiamo un Mediatore sommo e universale: santissimo, che non ha avuto bisogno di offrire espiazione per sé, dotato di immensa pietà e solidarietà per i suoi fratelli, che ha lavato i peccati di tutti col suo sangue divino, che penetra i cieli fino al trono dell’Eterno e può ottenerci ogni benedizione e salvarci da ogni male.

 

Vangelo: Marco 10,46-52

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada. 

 

 

Esegesi

L’episodio della guarigione del cieco di Gerico, nel II Vangelo, fa da cerniera tra la sezione dell’ultimo tratto di viaggio di Gesù verso Gerusalemme (10,34-45), e la sezione dell’ingresso trionfale del re davidico nella città santa. La prima si chiude con l’incomprensione dei discepoli dopo l’annunzio della passione; e la seconda inizia con l’aperta acclamazione messianica del figlio di David (11,1-11.27-33). Il racconto sembra orientato verso la piena adesione al Salvatore divino nella sua più alta manifestazione.

      v. 46: «mentre Gesù partiva da Gèrico». Gesù scendendo dalla Transgiordania è di passaggio a Gerico, diretto verso Gerusalemme (a circa 30 Km), per celebrarvi la sua ultima Pasqua e il suo supremo sacrificio. Con lui ci sono i suoi discepoli e una folla di persone, probabilmente suoi seguaci e pellegrini. All’uscita della città, sul ciglio della strada si trova un cieco mendicante. Parte del suo mantello pare gli stia disteso accanto per ricevervi le elemosine dei pii giudei, più abbondanti in quei giorni sacri; tale posizione del mendicante, ci sembra, risulti dalla duplice «lezione» del v. 50: apobalòn «gettando» (il mantello) e epibalòn «rimettendolo» (sulle spalle). Il nome di Bartimeo viene riportato in questo racconto solo da Mc (cf. Lc 18,35; Mt 20,30): quando si scriveva il II Vangelo, l’uomo doveva essere ben noto nella primitiva comunità di Gerusalemme.

 v. 47: «Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare». Dal brusio di tanta gente avrà percepito che lì in mezzo c’era proprio il famoso Gesù di Nazaret, di cui certamente aveva sentito meraviglie. Gli si desta una grande speranza, e con tutta la forza della sua voce comincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Il titolo rivolto al Rabbì di Galilea, quanto al Vangelo di Mc, lo si trova soltanto qui: evocava le attese nazionalistico-messianiche del popolo ebreo; in Mc 12,35 viene riportato come affermazione degli scribi. Ma Bartimeo l’avrà inteso in un senso più ampio, come di colui che aveva grandi poteri e portava ogni liberazione e guarigione.

      v. 48: «Molti lo rimproveravano perché tacesse». La folla cerca di zittire l’importuno, come i discepoli avrebbero voluto fare con la donna cananea (Mt 15,23) e per i bambini che andavano incontro a Gesù (Mc 10,13). Quell’uomo però non desiste: ha nel cuore una ferma fiducia nella bontà del mite Rabbì nazareno e grida più forte che può… È l’insistenza nel pregare, che tanto raccomandava il Maestro divino (Lc 11,5-9; 18,1-8). Lui infatti, mentre in simili circostanze ha cercato di imporre il silenzio alle acclamazioni degli astanti (Mc 7,36), adesso interviene per dare ascolto a quella accorata implorazione.

      v. 49: «Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Vi ha incontrato qualcosa di speciale. La stessa folla cambia atteggiamento: tutti presentono che si è dinanzi a qualcosa di nuovo, se lui si è fermato per parlare al mendicante: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».

      v. 50: «gettato via il suo mantello, balzò in piedi». L’ha compreso anche lui e si alza, abbandonando mantello e eventuali offerte dei pellegrini, per correre ormai verso la sua salvezza: la sente già nell’intimo del suo cuore! Non ha bisogno di altro.

      v. 51: «Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Ai piedi del Maestro, non grida più. Lui gli da l’opportunità di esprimere chiaramente l’oggetto della sua richiesta. Non si tratta di ottenere un aiuto qualsiasi, ma di raggiungere quel che da nessun essere puramente umano era possibile avere: la luce dei suoi occhi spenti. «Rabbunì, che io veda di nuovo!» Rabbunì («mio buon Signore») ha qualcosa di più affettuoso e vivo del semplice Rabbì, come quello pronunziato dalla Maddalena, quando riconobbe all’improvviso il suo amato Maestro (Gv 20,16): un riferimento all’insondabile pietà del Figlio di David!

      v. 52: «Va’, la tua fede ti ha salvato… e lo seguiva lungo la strada». La fede di quel povero cieco ha raggiunto il più alto grado, richiesto e sollecitato spesso dal divin Maestro: un abbandono sincero nella trascendente bontà e potenza dell’Unto di JHWH. Il quale, commosso come in casi analoghi, semplicemente risponde con una sola parola: «la tua fede ti ha salvato», conferendogli il dono più grande, che egli stesso desiderava elargire a tutti (Lc 19,9s; Gv 3,17): non la semplice guarigione di un organo corporale, ma la completa restaurazione della persona: «venite a me, e io vi ristorerò» (Mt 11,28); un nuovo rapporto di shalom, pace e armonia, con Dio e con tutto ciò che ci circonda (Mc 5,34; Lc 7,50; 17,19). «E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada» (v. 52b). Così Bartimeo non rimase più a Gerico, la lussuosa città degli Erodiadi, ad attendere l’elemosina, ma da quel giorno si mise a seguire la comunità del Maestro divino, conquistato dal suo immenso amore, verso Gerusalemme, la città della sua morte redentrice e della sua gloriosa risurrezione.

      Il cammino del cieco di Gerico verso la vera luce si presenta come un esemplare itinerario per chi dalla tristezza di un’esistenza opaca e senza avvenire vuole pervenire al traguardo della vera vita. Saper percepire la salutare presenza di chi ci passa accanto, il calore del Sole divino che ci illumina; lasciare salire verso di Lui l’anelito della propria anima, implorare incessantemente finché ci avvenga di essere toccati dall’esperienza viva del suo splendore e della sua infinita benevolenza.

 

 Meditazione

 

Marco, che ci ha accompagnato nelle domeniche di questo anno, ci fa incontrare oggi il Signore nella sua ultima tappa prima di entrare in Gerusalemme. Abbiamo visto lungo il cammino il clima nuovo, quasi di festa, che Gesù creava tra la gente delle città e dei villaggi ove pas­sava. In tanti accorrevano a lui, soprattutto i deboli, i poveri, i lebbro­si, i malati. Tutti desideravano avvicinarlo, toccarlo, parlargli; volevano da lui pace e felicità per la loro vita. E Gesù li accoglieva tutti. Ad un mondo fatto di adulti che amano nascondere la propria debolezza a se stessi e agli altri, Gesù insegna il contrario. Per gli uomini è norma­le giudicare, pretendere, rivendicare piuttosto che chiedere e doman­dare aiuto; come pure è molto più normale condannare piuttosto che perdonare. Il Signore instaura un altro clima tra gli uomini, un clima di fiducia; anche i più lontani e i più disprezzati possono avvicinarsi a lui e invocare guarigione e salvezza. Anzi, con il suo comportamento di fatto li esortava a rivolgersi a lui con fede. La richiesta fatta con fede era l’unica cosa che pretendeva. E il motivo era profondo: la preghie­ra fatta con fede apre sempre il cuore ad un modo diverso di vivere. La si apprende però solo quando si è poveri o ci si accorge di essere tali. Lo aveva capito Bartimeo che mendicava alla porta di Gerico. Come tutti i ciechi, anche lui è rivestito di debolezza. Ai ciechi non restava altro che mendicare, aggiungendo così alla cecità la dipenden­za totale dagli altri. Nei Vangeli sono come l’immagine della povertà e della debolezza.

Bartimeo, come Lazzaro, come tanti altri vicini e lontani da noi, giacciono alle porte della vita in attesa di qualche conforto. Eppure Bartimeo è esempio per ognuno di noi, esempio del credente che chie­de e che prega. Attorno a lui tutto è buio; non vede chi passa, non riconosce chi gli sta vicino, non distingue né i volti né gli atteggiamen­ti. Ma quel giorno fu diverso. Sentì il rumore della folla che si avvicina­va. E nel buio della sua vita e delle sue percezioni, intuì una presenza: ha «sentito che era Gesù Nazareno…», nota l’evangelista. Ebbe la sensazione che quel giovane profeta non era come tanti altri che gli erano passati vicino sino a quel momento. E quanti ne aveva sentiti passare in anni e anni di mendicità! A quanti aveva teso la mano, a quanti aveva chiesto aiuto, quanti aveva sentito passare vicini e poi progressivamen­te allontanarsi! E l’esperienza del non vedere, ma è anche l’esperienza dell’elemosina, dell’incontro di un attimo e poi di tutta la distanza che viene posta tra chi è ricco e chi mendica, tra chi vede e chi è cieco. Bartimeo è un uomo costretto a chiedere per l’assenza di ogni altra risorsa. È un mendicante; e non può fare altro che chiedere. Alla noti­zia di quel passaggio comincia a gridare: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». È una invocazione molto povera. Non è un parlare abile, come ad esempio fece l’uomo ricco che osservava i comandamenti sin dalla giovinezza e che si rivolse a Gesù chiamandolo «buono». Qui l’invocazione è semplice e assieme drammatica. Quel cieco non ha null’altro che il grido; è l’unico modo per superare il buio e le distan­ze che non riusciva a misurare. Nel Primo Testamento il grido è quello del povero che si rivolge a Dio per ottenere giustizia e salvezza, come Israele in Egitto (cfr. Es 2,23). Quel grido però non piaceva alla folla, tanto che tutti, «lo rimproveravano», sottolinea l’evangelista, cercando di farlo tacere. Era un urlo sconveniente, un grido scomposto e comunque esagerato, come spesso accade ai poveri; rischiava inoltre di disturbare anche quel felice incontro tra Gesù e la folla della città. In tutta la sua presunta ragionevolezza era una logica spietata; non solo lo sgridavano; volevano farlo tacere. Quel cieco non aveva nulla a che fare con la vita di quella città. Gli era permesso mendicare, ma senza scon­volgere i ritmi ordinari e abituali della città. E per quella folla compo­sta di uomini che si credevano sani e di non dover nulla a nessuno era facile incutere timore e terrore a un povero mendicante che dipende­va in tutto da loro. Ma la presenza di Gesù fece superare ogni timore. Bartimeo sentì che la sua vita poteva cambiare totalmente da quell’in­contro. E con voce ancora più forte gridò ancora: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». È la preghiera dei piccoli, dei poveri che giorno e notte, senza sosta, perché continuo è il loro bisogno, si rivolgono al Signore; è l’invocazione dei deboli che hanno ricevuto la notizia del suo passaggio e ripongono in lui la loro speranza. Gesù non è sordo al grido dei deboli. Gesù, udito quell’urlo di aiuto, si fermò. È come il buon samaritano che non passa oltre, come fecero il sacerdote e il levita, e come la folla vorrebbe che Gesù facesse. Al contrario, Gesù si fermò e rispose al grido di Bartimeo.

La risposta inizia con una chiamata: «Gesù si fermò e disse: chiama­telo! Chiamarono il cieco dicendogli: coraggio! Alzati, ti chiama!». È sempre il Signore che chiama, ma si serve di altri uomini, della loro parola. Essi si avvicinano a noi e ci incoraggiano ad incontrare Gesù, anzi ci portano a lui. Ma poi l’incontro con il Signore è sempre perso­nale, richiede un colloquio diretto, familiare, come quello di un figlio che si rivolge fiducioso al padre. Bartimeo appena sentì che Gesù vole­va vederlo, gettò via il mantello e corse verso di lui. Gettò via quel mantello che da anni lo copriva, era forse l’unico riparo contro il freddo agghiacciante degli inverni e soprattutto dei cuori induriti della folla. Non serviva più coprire la sua povertà, non aveva più biso­gno di quel riparo, perché aveva sentito che il Signore lo chiamava. Balzò in piedi e andò di corsa da Gesù. Correva anche se non vedeva; in verità «vedeva» molto più profondamente di tutta quella folla. Sentì la voce di Gesù e andò verso quella voce. Era solo una voce, ma era l’unica che finalmente lo chiamava per accoglierlo. Era diversa dal mormorio e dalle parole grosse della folla che voleva farlo tacere. Quella voce, quella parola, era per lui un nuovo punto di riferimento, a tal punto saldo, da permettergli di correre, mentre era ancora cieco, senza alcun sostegno. Bartimeo seguì quella voce e incontrò il Signore. Così accade per chiunque ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica. L’ascolto della Parola di Dio non conduce verso il vuoto, non porta verso un immaginario psicologico; l’ascolto conduce all’incontro per­sonale con il Signore. Così è avvenuto per Bartimeo. È Gesù che inizia a parlare, quasi a prolungare la chiamata che gli aveva fatto. È davvero diverso da tutti coloro che sino ad allora aveva incontrato. Gesù non getta nelle sue mani qualche spicciolo, pur necessario, per poi andare via. No, si ferma, gli parla, mostra interesse per lui e la sua condizione e gli chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Bartimeo, senza frapporre tempo e parole inutili, così come prima aveva pregato con semplicità, gli dice: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». Sa che è il momento dell’incontro, il momento del passaggio, quello che può trasformare radicalmente tutta la sua vita. Non divaga e tanto meno mente; gli chiede la cosa che più conta per lui, la vista. Potrebbe sem­brare una richiesta non nobile. Ma ciò che conta per il Signore è che il cieco si rivolga a lui con fede. Bartimeo ha riconosciuto la luce pur senza vederla. Per questo ha riavuto subito la vista. «Va’, la tua fede ti ha salvato!», gli dice Gesù. Da quel momento Bartimeo non mendica più lungo la via di Gerico, ma prende a seguire Gesù lungo le vie del mondo. Era diventato discepolo, subito, senza indugio, perché aveva cominciato a vedere.

Si conclude così il capitolo 10, questa sezione iniziata con la molti­plicazione dei pani al capitolo 6, in cui Gesù aveva rimproverato i disce­poli incapaci di riconoscerlo come il pane di vita: «Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? (8,18). Ci vollero due ciechi (8,22-26 e Bartimeo) e un sordomuto (7,31-37) perché i discepoli potessero almeno cominciare a porsi la domanda sull’ascoltare e sul vedere, per capire. Si dovrà forse ricostituire quel popolo, di cui fanno parte «il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente», che il profeta Geremia ha annunciato, per poter anche noi vedere e riconoscere la salvezza che viene dal Signore. Lui, sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, è venuto a salvarci perché tutti siamo mendicanti del suo amore, come Bartimeo.

 

L’immagine della domenica

 


O boschi e fitte selve,

piantati dalla mano dell’Amato!

O prato verdeggiante,

di bei fiori smaltato,

ditemi se qui egli è passato! 

(Giovanni della Croce, CB, st. 4)


Preghiere e racconti

Aprire gli occhi

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente chiusi

per evitare di vedere

la miseria agitarsi alla nostra porta?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente tappati

per evitare di guardare

faccia a faccia

il prossimo

che ci viene incontro?

 Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente velati

per evitare di essere abbagliati

dalla presenza di Cristo

con il suo vangelo esigente?

 Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere lo Spirito di Dio

all’opera sui molteplici cantieri

dove l’umanità si rinnova?

 Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere il seme

che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata?

 

Bellezza oltre ogni descrizione

Uno dei romanzi più noti di André Gide (1869-1951) s’intitola La sinfonia pastorale. Il libro è ambientato nella Svizzera di lingua francese negli anni Novanta (1890) e narra la storia di una complessa relazione fra un pastore protestante e Gertrude, una ragazza cieca dalla nascita.

Di particolare interesse è il modo in cui il pastore prova a comunicare a Gertrude cose come la bellezza dei prati alpini, trapuntati di fiori dai colori sgargianti, e la maestà delle montagne dalle cime innevate. Egli prova a descrivere i fiori azzurri che crescono sulla riva del fiume paragonandoli al colore del cielo, ma deve rendersi subito conto che lei non può vedere il cielo per apprezzare il paragone. In questo suo lavoro egli si sente continuamente frustrato dalla limitatezza del linguaggio che usa per far conoscere la bellezza e lo stupore della natura alla giovane cieca. Ma le parole sono il solo strumento di cui dispone. Non può che perseverare sapendo di poter comunicare solo a parole una realtà che non può mai essere completamente espressa con parole.

Allora ecco un nuovo e insperato sviluppo. Un oculista della vicina città di Losanna ritiene che la ragazza possa essere operata agli occhi in modo da ottenere la vista. Dopo tre settimane trascorse nella casa di cura, ella torna a casa, dal pastore. Adesso può vedere e sperimentare da sola le immagini che il pastore aveva cercato di comunicarle solo attraverso le parole.

“Appena ho acquistato la vista – ella disse – i miei occhi si sono aperti su un mondo più stupendo di come avrei mai potuto sognare che fosse. Sì, davvero, non mi sarei mai immaginata che la luce del giorno fosse così brillante, l’aria così limpida e il cielo così vasto”.

La realtà sorpassa di gran lunga la descrizione verbale. La pazienza del pastore e le sue goffe parole non avrebbero mai potuto descrivere adeguatamente il mondo che la ragazza non poteva vedere da sola, il mondo che chiedeva di essere sperimentato piuttosto che meramente descritto.

Per il cristiano, il mondo presente contiene indizi e segnali di un altro mondo, un mondo che possiamo cominciare a sperimentare ora, ma che conosceremo nella sua pienezza solo alla fine.

(Alister Mc Grath, Il Dio sconosciuto, Cinisello Balsamo, 2002, 35-37).

 

Accogliamo la luce e diventiamo discepoli del Signore

«Il comandamento del Signore è limpido, da luce agli occhi» (Sal 18 [19] ,9). Accogli Cristo, accogli la facoltà di vedere, accogli la tua luce perché tu conosca bene Dio e l’uomo. Il Verbo che ci ha illuminati è «più prezioso dell’oro e delle pietre preziose; desiderabile più del miele e del favo» (Sal 18 [19],11). Come può, infatti, non essere desiderabile colui che ha dato luce alla mente ottenebrata e ha aperto gli occhi dell’anima portatori di luce? […] Accogliamo la luce e diventiamo discepoli del Signore. Questo è ciò che egli ha promesso al Padre: «Racconterò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea» (Sal 21 [22] ,23). Loda e proclama tuo padre, Dio; le tue parole mi salveranno, il tuo canto mi istruirà. Fino a ora ho errato nella speranza di trovare Dio, ma poiché tu mi illumini, Signore, trovo Dio per mezzo di te, e ricevo il Padre da te, divengo tuo coerede, poiché non ti sei vergognato di avermi come fratello (cfr. Eb 2,11). Cancelliamo, dunque, cancelliamo l’oblio della verità, l’ignoranza e, rimuovendo le tenebre che ci impediscono la vista come nebbia per gli occhi, contempliamo il vero Dio, acclamandolo innanzitutto con queste parole: «Rallegrati, luce»; poiché una luce dal cielo brillò su di noi sepolti nelle tenebre e prigionieri nell’ombra di morte (cfr. Is 9,1; Mt 4,16; Lc 1,79), più pura del sole, più dolce della vita terrena. Questa luce è la vita eterna e tutto quanto partecipa di essa vive, ma la notte teme la luce e, nascondendosi per la paura, lascia il posto al giorno del Signore; l’universo è diventato luce insonne e l’occidente si è trasformato in oriente. Ecco che cosa significa la nuova creazione (cfr. Gal 6,15). Poiché il sole di giustizia (cfr. Ml 3,20), che cavalca l’universo, percorre tutto il genere umano imitando il Padre che fa sorgere il suo sole su tutti gli uomini (cfr. Mt 5,45) e su di essi sparge la rugiada della verità. Egli ha trasformato l’oriente in occidente crocifiggendo la morte e trasformandola in vita. Ha strappato l’uomo dalla rovina e l’ha stabilito nel cielo, tramutando la corruzione in incorruttibilità e trasformando la terra in cielo.

(CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Esortazione ai greci 11,114-115, in Id., Protreptico ai greci, Torino 1940, pp. 231.233.235).

 

La fede ha un senso?

Spesso nella quotidianità sperimentiamo di non poter fare affidamento sugli altri. Uno ci ha giurato eterna fiducia, e tuttavia ci lascia. Un altro sembra essere solido e avere una posizione certa, ma poi si lascia coinvolgere in scandali. I politici si orientano secondo il vento che tira. Proprio in questa situazione è importante non reagire in modo cinico, ironico o addirittura con rassegnazione. Continuano a esserci persone sulle quali si può fare davvero affidamento, che non promettono troppo, che sono sincere e contem­poraneamente fedeli. E c’è un fondamento ultimo della mia vita, sul quale posso fare affidamento: persino quando ab­bandono me stesso, perché non riesco più a sopportarmi, Dio non mi abbandona.

Per i bambini è particolarmente importante l’affidabili­tà. Per loro è importante potersi fidare e credere che il loro angelo non li abbandona, anche se i genitori li abbandona­no; che il loro angelo è con loro e li sostiene, anche là dove non riescono più a farlo loro stessi. Una fiducia così pro­fonda fa in modo che loro tengano fede a se stessi e che possano sviluppare la propria personalità. Solo una fiducia del genere dà loro solidità in mezzo a un mondo insicuro.

[…] L’esperienza mostra che nessuno può vivere senza fiducia. Persino chi è stato continuamente deluso dagli altri, desidera intensamente avere persone di cui ci si può fidare. Ha dentro di sé la sensazione di aver bisogno di questa fiducia per avere un punto fermo in questo mondo. E se gli altri lo deludono continuamente, allora cerca un altro soste­gno. Anche la fiducia in Dio normalmente ha bisogno del­l’esperienza della fiducia umana. Ma si fa anche esperien­za che la mancanza di fiducia umana ci porta a porre la nostra fiducia in Dio. Ciascuno ha in sé il desiderio inten­so di potersi fidare. E nel desiderio intenso di fiducia si pre­senta già l’inizio della fiducia in noi.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 80-81).

 

Quale sicurezza offre la fede?

Un aspetto ulteriore della fede non punta al sapere e all’interpretazione, ma all’atteggiamento. Credo a qualcuno. Fede è fiducia in una persona. Anche se questa fiducia, in ultima analisi, ritiene che Dio sia il sostegno vero e proprio della nostra vita, per molti non è possibile confidare in Dio, che appare così lontano. E tuttavia, si sentono in qualche modo sostenuti. Dietrich Bonhoeffer, nella famosa poesia composta prima di venire ucciso in campo di concentramento, ha parlato delle forze amiche che ci sostengono: “Da forze amiche meravigliosamente avvolti, attendiamo consolati quello che verrà. Dio è con noi di sera e di mattina, sarà con noi in ogni nuovo giorno”. A queste parole possono ricorrere anche coloro che hanno difficoltà a riconoscere Dio come il fondamento della loro fiducia.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 84).

 

La nascita del sole

Per molto tempo solo le stelle abitavano nell’alto dei cieli.

Il mondo portava l’abito di lutto. 

La terra camminava in solitudine in queste tenebre,

solo i vicini conversavano gli uni con gli altri,

e spesso intorpidivano o si addormentavano cadendo in sonno profondo.

Gli animali non si conoscevano, le nuvole giravano senza senso,

i fiori non vedevano l’abito e i colori degli altri fiori.

Le piogge non sapevano dove cadevano.

Un giorno molte delle stelle decisero di unirsi

per creare con i loro bagliori una grande, splendida luce.

Si misero in cammino tante stelle le une verso le altre.

Da mille direzioni, per mille strade,

mille stelle si avviarono dall’orlo delle tenebre

per dare origine a uno splendore comune

al centro del firmamento vuoto come l’abisso.

Dovettero fare un lungo viaggio

sul nero firmamento,

ma finalmente con grande felicità

tutte le mille stelle si fusero

in una grande, splendida, unica luce.

Nacque così il sole,

il focolare comune di mille stelle

e così cominciò la prima grande festa della luce.

Fu una vera festa!

La festa del primo giorno vero.

Arrivavano gli ospiti al banchetto

attorno alla grandiosa tavola rotonda della luce, mai vista prima.

Prima di tutti arrivò l’aria insieme con il firmamento vecchio

portando un manto lungo leggero.

Il terzo ospite illustre fu il mare,

le sue onde suonarono come una salva.

Poi vennero i grandi boschi, gli alberi

in mantelli verdi di foglie,

la famiglia dei fiori, silenziosi ma di bellissimi colori.

Poi gli animali: i veloci cavalli, i fedeli cani, i forti leoni…

chi potrebbe annoverare tutti?

Al culmine della festa

arrivò una coppia bella:

un giovane e una giovane,

come la coppia regale del banchetto,

benché arrivassero ultimi, si sedettero a capotavola,

gli altri invitati gioirono.

Tutti si sentivano figli del sole del mezzogiorno,

prediletti nel regno appena nato del firmamento splendido.

Ma all’improvviso un’ombra entrò

nel palazzo di cristallo del sole,

altre piccole ombre la seguirono.

All’inizio nessuno si curò di loro,

ma arrivavano sempre di più,

si mischiavano tra gli ospiti,

e ad un certo punto fece quasi buio.

Il sole neonato cominciò a spegnersi.

Gli ospiti si spaventarono, e tutti fuggirono dal banchetto. 

La giovane coppia umana rimase sola nella notte

che diventava sempre più oscura.

Ma il ragazzo non si spaventò nel suo cuore,

abbracciando il suo amore parlò al mondo:

“Non temete, mari e fiori,

non temete animali ed erbe!

Il sole non è morto, solo riposa

per sorgere domani di nuovo con una forza rinnovata.”

Ma durante questa prima notte nessuno dormiva,

né erba, né albero, né vento, né mare.

Tutti aspettarono se sarebbe stata vera la promessa del loro giovane re

sul ritorno del sole.

E quando al mattino la luce si svegliò nella sala di cristallo

del suo palazzo, la accolse un giubilo più grande del primo giorno.

Perché allora tutto il mondo seppe:

la notte è sempre solo un sogno,

dopo il sogno arriva però la splendida realtà della luce.

(János Pilinszky, poeta cattolico, molto religioso, che ha conosciuto l’esperienza dei lager, che dovette rimanere in silenzio, con il solo permesso di scrivere favole).

 

Preghiera

 Io sono venuto

in questo mondo

perché coloro

che non vedono

vedano e quelli

che vedono

diventino ciechi.

 Apri i miei occhi, Signore,

alle meraviglie del tuo amore.

Io sono cieco sulla strada.

Guariscimi: voglio vederti.

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXX DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

XXIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura:Isaia 53,10-11

Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.

      

 

v Il presente brano dell’A.T. è stato scelto come prima lettura in considerazione del Vangelo di oggi, nel quale i figli di Zebedeo vogliono mettersi al di sopra degli altri, a differenza del Figlio dell’uomo che si abbassa volontariamente. Is 53 costituisce il quarto carme del Servo sofferente di JHWH, e fa parte della seconda parte del Libro di Isaia (il cosiddetto Deuteroisaia, capitoli 40-55, databili attorno agli anni 550-530 a.C.). Dal carme sono stati scelti quei versi che esprimono la libera e volontaria umiliazione del Servo di JHWH.

     Il v. 2, letto per intero, contiene questa parte, omessa nel brano liturgico: «Non ha né apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto». In linea con questa descrizione, il Servo del Signore è paragonato ad una pianta che a motivo dell’aridità del suolo presenta l’aspetto non bello di un arbusto spuntato in mezzo al deserto.

     —Ecco perché è «reietto», tenuto lontano e in poco conto da parte degli uomini (v. 3), e lui stesso è «uomo dei dolori», soffrendo in mezzo al disprezzo, all’aridità, alla solitudine.

     — I vv. 10-11 formano una strofa del carme, nella quale vengono evidenziate due dimensioni: da una parte l’espiazione, nel senso che il Servo soffre per gli altri, per i loro peccati (v. 110); dall’altra l’esaltazione, nel senso che Dio gli darà gloria perché ha preso su di sé tale sofferenza per gli altri. I due versi costituiscono un prezioso commento o spiegazione della parola sul riscatto pagato dal Figlio dell’uomo, alla fine del Vangelo di oggi (Mc 10,15).

  

Seconda lettura: Ebrei 4,14-16

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.

 

 

v In questo brano la Lettera agli Ebrei introduce il paragone di Gesù col sommo sacerdote dell’Antica Alleanza. Paragone molto importante per i destinatari e lettori della lettera, perché a quell’epoca c’era ancora il tempio, nel quale il sommo sacerdote celebrava i riti. Del resto il sommo sacerdote era chiamato anche «Christos», unto (Lev 1,3). Sua funzione liturgica è principalmente quella del perdono dei peccati di Israele nel giorno dell’espiazione (yom hakippourim). La Lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra Cristo ed il sommo sacerdote alla luce del giorno di espiazione e del perdono dei peccati, che in esso veniva accordato a tutto il popolo.

     Gesù, attraverso la risurrezione e la glorificazione «è passato attraverso i cieli» (v. 14), vale a dire è entrato nel tempio celeste, come il sommo sacerdote entra in quello terreno nel giorno dell’espiazione. Questa è la nostra confessione (homologia), corrisponde cioè alla sostanza di quello che decidiamo di credere.

     — «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze...» (v. 15). A questo punto la Lett. agli Ebrei tocca il mysterium compassionis: l’incarnazione è, fondamentalmente, la com-passione, il soffrire di Dio con noi. Il nostro sommo sacerdote ha voluto soffrire con noi ed essere messo alla prova insieme a noi.

     — «Accostiamoci…al trono della grazia» (v. 16). Il Santo dei santi nasconde il «trono della grazia», chiamato in ebraico kapporet (cf. Rm 3,25: «hylasterion», propiziatorio), vale a dire il coperchio di oro che si trova sull’arca dell’Alleanza con i Cherubini, sui quali Dio è presente come re assiso sul trono. La presenza di Dio è soprattutto presenza di grazia. Per questo noi possiamo avvicinarci a tale trono pieni di gioia.

 

Vangelo: Marco 10,35-45

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora [Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».]

 

 

Esegesi

     Gesù ha annunziato per la terza volta la sua passione e morte ai Dodici in disparte (Mc 10,32-34), usando toni molto duri e realistici: lo condanneranno a morte, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo uccideranno. Nel vangelo odierno, ad immediato seguito di quelle dichiarazioni, i due figli di Zebedeo avanzano a Gesù un’ambiziosa domanda (vv. 35 ss): questa gli dà l’occasione di approfondire ed esplicitare il tema della passione, associando ad essa la sorte dei suoi discepoli.

     «Nella tua gloria» (v. 37). Giacomo e Giovanni, che furono tra i primi ad accettare la chiamata del Maestro, sono persuasi di avere un titolo in più per occupare i primi posti in quel regno messianico glorioso che, secondo la comune convinzione dei discepoli, Gesù va ad inaugurare a Gerusalemme. Nonostante i ripetuti annunci di Gesù, coltivano ancora questa aspettativa terrena di gloria e vogliono accaparrarsene i posti di onore (a destra e a sinistra del re). Non è da escludere che nell’atteggiamento dei figli di Zebedeo si riflettano anche tensioni della chiesa nascente.

     — Il calice, il battesimo (v. 38). In molti testi dell’Antico Testamento e del giudaismo il «calice» era metafora delle «vertigini» e sofferenze che Dio faceva provare ai peccatori (cf. Ger 25,15; Sal 11,6: 65,9 ecc.): Nella sua preghiera al Getsemani Gesù userà la medesima immagine (14,36). Lo stesso senso evoca la parola «battesimo», ossia immersione nelle onde della sofferenza (cf. Lc 12,50). Gesù coinvolge i discepoli nella sua missione di sofferenza.

     — «Per coloro per i quali è stato preparato» (v. 40). Alla risposta affermativa dei due discepoli (dovuta sempre alla loro intenzione di partecipare alla gloria, anche se attraverso le prove), il Maestro replica che essi sono sì chiamati a partecipare alla sua intronizzazione messianica, ma non in base a diritti di umana precedenza, bensì per libera e gratuita iniziativa del Padre: il verbo preparare al passivo rimanda, come spesso nei testi biblici, alla sovrana volontà di Dio.

     — «Dare la propria vita in riscatto per molti» (v. 45). Gesù prende spunto dalla «indignazione» umana degli altri discepoli (v. 41), per dichiarare lo statuto fondamentale che deve regolare i rapporti della comunità ecclesiale. Egli contesta radicalmente il modello di autorità dispotico che vige tra le genti, nel mondo pagano; e propone paradossalmente come modello di autorità due figure che sono agli antipodi: il servitore e lo schiavo. Queste due immagini, però, non sono generiche. Rappresentano concretamente la scelta di Gesù: per lui «servire» vuol dire essere fino in fondo obbediente e fedele alla volontà del Padre, sulla stessa linea del «servo del Signore» di Isaia (vedi I Lett.), che si fa solidale col peccato degli uomini. Dicendo che è venuto «per dare la sua vita in riscatto» per molti, il Cristo dichiara il carattere soteriologico della sua morte: la parola «riscatto» (in greco lytron, «mezzo per sciogliere») indicava, tra le altre realtà, il prezzo pagato per liberare uno schiavo. Accettando la sua morte come atto di amore e liberazione degli uomini dalla schiavitù del peccato, Gesù consegna alla comunità dei discepoli un modello di amore supremo, che essa è chiamata a inverare e prolungare nella vita.

 

Meditazione 

La tentazione del potere. Così potremmo riassumere il tema del brano evangelico di questa ventinovesima domenica. Marco riferisce un dialo­go tra Gesù e i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni. Siamo anco­ra sulla strada verso Gerusalemme e, per la terza volta, Gesù confida ai discepoli il destino di morte che lo aspetta al termine del cammino. I due discepoli, per nulla toccati dalle tragiche parole del maestro, e con una notevole durezza di cuore di fronte a Gesù si fanno avanti per chie­dergli i primi posti accanto a lui quando instaurerà il regno. Dopo la confessione di Pietro a Cesarea e la discussione su chi tra loro fosse il primo, probabilmente è cresciuto un clima di rivalità tra i discepoli; e questo forse spiega l’ambizione dei due fratelli nel rivendicare i primi posti. Quanto è difficile per Gesù toccare i cuori di quei dodici che pure si era scelti e curati! I discepoli sono esperti nel sottrarsi alle esi­genze dell’amore. E con un tratto di astuzia, che conosciamo bene anche noi quando si tratta di prendersi cura dei nostri affari, i due chiedono a Gesù: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». La verità è che sono davvero distanti dal pensiero e dalle preoccupazioni di Gesù, e non riescono a sintonizzarsi con lui. Non basta, infatti, stargli fisicamente vicino per comprenderlo (potrem­mo tradurre: non è sufficiente semplicemente frequentare la chiesa per comprendere Gesù e il suo Vangelo). È necessario ascoltarlo e obbedi­re giorno dopo giorno alla sua parola; e quindi seguirlo in un vero e proprio itinerario di crescita interiore. Quante volte, invece, dobbiamo constatare la nostra povertà spirituale, la nostra scarsa sapienza evange­lica! E di fronte a tante nostre pretese, anche noi potremmo sentirci dire da Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete». Spesso la distanza da Gesù non ci fa comprendere le profondità del mistero del Signore e neppure le esigenze del suo amore.

Gesù, rivolto ai due, chiede: «Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». E cerca di spiegarglielo usando due simboli, il calice e il battesimo, ben noti a chi come loro frequentavano le Sante Scritture. Ambedue i simboli sono interpretati da Gesù in rapporto alla sua morte. Il calice è il segno dell’ira di Dio, come scrive Isaia: «Svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme, che hai bevuto dalla mano del Signore il calice della sua ira» (Is 51,17); e Geremia dice: «Prendi dalla mia mano questa coppa di vino della mia ira e falla bere a tutte le nazioni alle quali ti invio» (Ger 25,15). Per Gesù è una metafora con la quale indica che egli prende su di sé il giudizio di Dio per il male compiuto nel mondo, anche a costo della morte. La stessa cosa vale per il simbolo del battesimo: «Tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati» (Sl 42,8). Le due immagini mostrano che il cammino di Gesù non è una folgorante e oleata carriera verso il potere. Semmai è il cammino dell’assunzione su di sé del male degli uomini, come disse il Battista: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). I due discepoli probabilmente neppure ascoltano le parole del maestro e tanto meno ne comprendono il senso. Del resto la Parola evangelica, per essere ascoltata e compresa, richiede un atteggiamento di ascolto e di preghiera. Ai due apostoli, come spesso anche a noi, non importa comprendere la Parola evangelica; quel che interessa è l’assicurazione del posto. E con sciocca semplificazione, i due rispondono: «Lo possiamo!». È la stessa superficiale faciloneria con cui risponderanno a Gesù al termine dell’ultima cena, mentre si avviano con lui verso l’orto degli Ulivi (Mt 26,35). Basta solo qualche ora, ed eccoli, assieme agli altri, abbandonare di corsa il Maestro per paura e lasciarlo nelle mani dei servi dei sommi sacerdoti.

La richiesta dei due figli di Zebedeo era ovvio che scatenasse l’invidia e la gelosia degli altri discepoli («cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni», nota l’evangelista). Gesù allora li chiamò ancora una volta tutti attorno a sé per una nuova lezione evangelica. Ogni volta che i discepoli non ascoltano le parole di Gesù e si lasciano guidare dai loro ragionamenti, si discostano dalla via evangelica e provocano liti e dissidi al loro stesso interno. È istintiva nei discepoli, come del resto in ogni persona, la tendenza a fare da maestri a se stessi, a divenire «adulti», ossia indipendenti e autosufficienti, sino al punto da fare a meno di tutti, persino di Gesù. È lo stile di questo mondo, che tutti conosciamo molto bene poiché lo pratichiamo con frequenza. Per il Vangelo è vero l’esatto contrario: il discepolo resta sempre alla scuola del maestro, rimane sempre uno che ascolta le parole evangeliche. Il discepolo di Gesù, anche se dovesse occupare posti di responsabilità, sia nella Chiesa che nella vita civile, resta sempre figlio del Signore, ossia discepolo che sta ai piedi di Gesù. Ecco perché Gesù raduna nuovamente i Dodici attorno a sé e li ammaestra: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così». L’istinto del potere — sembra dire Gesù — è ben radicato nel cuore degli uomini, anche in quello di chi spergiura di non esserne sfiorato. Nessuno, neppure all’interno della comunità cristiana, è immune da tale tentazione (si potrebbe dire che lo stesso Gesù subì la tentazione del potere, quando fu condotto dallo Spirito nel deserto). Non importa che si tratti del «grande» o del «piccolo» potere; tutti ne subiamo il fascino. È normale fare considera­zioni severe su coloro che hanno il potere politico, economico, cultu­rale; e talora è anche necessario farlo. Forse però è più facile fare l’esa­me di coscienza agli altri che a se stessi, in genere uomini e donne dal «piccolo potere». Non dovremmo tutti chiederci quanto spesso usiamo in modo egoistico e arrogante quella piccola fetta di potere che ci siamo ritagliati in famiglia, o a scuola, o in ufficio, o dietro uno sportel­lo, o per la strada, o nelle istituzioni ecclesiali, o comunque altrove? La scarsa riflessione in questo campo è spesso fonte di amarezze, di lotte, di invidie, di opposizioni, di crudeltà. Ai suoi discepoli Gesù continua a dire: «Tra voi però non è così» (forse sarebbe più corretto dire: «Non sia così»). Non si tratta di una crociata contro il potere, per favorire un facile umilismo che può anche essere solo indifferenza. Gesù ha avuto potere («insegnava come uno che ha autorità», scrive Matteo 7,29), e lo ha concesso anche ai discepoli («Diede loro potere sugli spiriti impu­ri», si legge in Marco 6,7). Il problema è di quale potere si parla, e comunque di come lo si esercita. È il potere dell’amore. Gesù lo spiega non solo con le parole quando afferma: «Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore», ma con la sua stessa vita. Dice di se stesso che «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Così deve essere per ogni suo discepolo.

Sia la prima che la seconda lettura ci spiegano come il potere di Gesù sia quello di un uomo che ha preso «parte alle nostre debolezze», lui che «è stato prostrato con dolori» e ci ha salvato con il dono della sua vita. È lui il Sommo Sacerdote, che ci permette di entrare in comu­nione con Dio e di imparare da lui la via del servizio: «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericor­dia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno».

 

L’immagine della domenica

 

 

Spirito Santo,

aiutami a rendere

l’ambiente del servizio

più umano e cristiano

perché aiuti tutti a ritrovarci fratelli.

(Card. Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI).

 

Preghiere e racconti

 

Comunità alternativa

«La Chiesa si sente spinta non solo a formare i suoi figli, ma a lasciarsi formare essa stessa vivendo al suo interno secondo modelli e relazioni fondate sul vangelo, secondo quelle modalità che sono capaci di esprimere una comunità alternativa. Cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementante dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco».

(Card. C.M. Martini)

 

Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date

Ti offro, Signore, il mio servizio

lo affronto serenamente con il Tuo aiuto,

per la Tua gloria, come collaborazione

all’opera creatrice del Padre

per il benessere di tutti.

Cristo, insegnami a pensare al mio servizio,

non soltanto come una fatica,

ma come occasione

per servire amando il mio prossimo

e così incontrare Te,

che mi hai redento e vegli su di me.

Spirito Santo,

aiutami a rendere l’ambiente del servizio

più umano e cristiano perché aiuti

tutti a ritrovarci fratelli.

(Card. Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI).

 

Preghiera per il servizio

Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli

che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.

Affidali a noi oggi;

dà loro il pane quotidiano

insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.

Signore, fa di me uno strumento della tua pace,

affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio,

lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia,

l’armonia dove c’è la discordia,

la verità dove c’è l’errore,

la fede dove c’è il dubbio,

la speranza dove c’è la disperazione,

la luce dove ci sono ombre,

e la gioia dove c’è la tristezza.

Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata,

di capire, e non di essere capita,

e di amare e non di essere amata,

perché dimenticando se stessi ci si ritrova,

perdonando si viene perdonati

e morendo ci si risveglia alla vita eterna.

(Madre Teresa di Calcutta)

 

Rinascere dalle ceneri del tuo dolore

Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vivere la vita che volevi. La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale. Il vero successo, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato. Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti capita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione. Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore. Non sentirti sopraffatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza. Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande degli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino. Dentro di te c’è un essere capace di ogni cosa.  Guardati allo specchio. Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune. Se impari a conoscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.  Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti. Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisioni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua. Sei parte della forza della vita stessa. Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano. Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il servizio”.

(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).

 

Non sapevano che cosa chiedevano

Marco afferma che soltanto Giacomo e Giovanni si avvicinarono al Signore e lo pregarono, perché vede che erano soprattutto loro che volevano porre quella domanda al Signore e sa che essi avevano spinto la madre a chiedere. Bisogna credere che l’affetto femminile della madre e l’animo ancora carnale dei discepoli siano stati spinti a domandare, soprattutto perché essi ricordavano le parole del Signore: «Quando il Figlio dell’uomo sederà nel luogo della sua maestà, anche voi sederete sui dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,28) e sapevano di essere amati in modo speciale dal Signore a confronto con gli altri discepoli, e più volte, insieme con Pietro, erano stati fatti partecipi di misteri che agli altri rimanevano nascosti, come ricorda il vangelo. Per questo, infatti, anche a loro, come a Pietro, era stato imposto un nome nuovo; come Pietro, che prima si chiamava Simone, per la fortezza e la stabilità della fede inespugnabile meritò il nome di Pietro, così essi furono chiamati Boanerghés, cioè figli del tuono (cfr. Mc 3,16-17), perché avevano  udito insieme con Pietro la voce gloriosa del Padre che scendeva sul  Signore (cfr. Mt 17,5), conoscevano i segreti dei misteri più che gli  altri discepoli e, cosa più essenziale, sentivano di aderire con cuore integro al Signore e di amarlo col più grande affetto. Perciò credevano che sarebbe stato possibile per loro sedergli più da vicino nel Regno, soprattutto perché vedevano che Giovanni per la singolare purezza di cuore e di corpo era tanto amato da lui da posare il capo sul suo petto durante la cena (cfr. Gv 13,23).

[…] Non sapevano che cosa chiedevano perché pensavano che ciascuno potesse scegliere a proprio arbitrio quale posto e quale ricompensa avrebbe ottenuto in dono nella vita futura e non pregavano invece il Signore di condurre a buon fine, ben meritandolo, la fiducia e la speranza che avevano, consapevoli che qualsiasi cosa di buono avessero fatto, egli li avrebbe ricompensati in misura infinitamente più grande. Certo è lodevole la loro semplicità, per cui con devota fiducia chiedevano di sedere nel Regno vicino al Signore, ma molto sarà lodata la sapiente umiltà di chi, consapevole della propria fragilità, diceva: «Ho scelto di essere disprezzato nella casa di Dio piuttosto che abitare sotto le tende dei peccatori» (Sal 83 [84],11). Non sapevano quel che chiedevano essi che domandavano al Signore i pre-mi sublimi piuttosto che la perfezione delle opere. Ma il maestro celeste, indicando che cosa anzitutto dovevano chiedere, li richiama alla via della fatica con la quale avrebbero conseguito il premio della ricompensa. Dice: «Potete voi bere il calice che io sto per bere?» (Mc 10,38). […] Che tutti i fedeli debbano seguire quest’ordine nella vita lo insegna l’Apostolo quando dice: «Se siamo diventati come una medesima pianta con lui in conformità alla sua morte, così lo saremo anche per conformità alla sua resurrezione» (Rm 6,5).

(BEDA IL VENERABILE, Omelie sui vangeli 2,21, CCL 122, pp. 336-338). 

 

Come Gesù chi vuol essere grande sia servitore

 In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo (…). «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete (…). Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti (…)».

Giovanni, non un apostolo qualunque ma il preferito, il più vicino, il più intuitivo, chiede per sé e per suo fratello i primi posti. E l’intero gruppo dei dieci immediatamente si ribella, unanime nella gelosia. È come se finora Gesù avesse parlato a vuoto: «Non sapete quello che chiedete!». Non sapete quali argini abbattete con questa fame di primeggiare, non capite la forza oscura che nasce da queste ubriacature di potere, che povero cuore ne esce. Ed ecco le parole con cui Gesù spalanca la differenza cristiana: «tra voi non sia così». I grandi della terra dominano sugli altri… Tra voi non è così! Credono di governare con la forza… non così tra voi! Chi vuole diventare grande tra voi. Una volontà di grandezza è innata nell’uomo: il non accontentarsi, il “morso del più”, il cuore inquieto.

Gesù non condanna tutto questo, non vuole nel suo regno uomini e donne incompiuti e sbiaditi, ma pienamente fioriti, regali, nobili, fieri, liberi. La santità non è una passione spenta, ma una passione convertita: chi vuole essere grande sia servitore. Si converta da “primo” a “servo”. Cosa per niente facile, perché temiamo che il servizio sia nemico della felicità, che esiga un capitale di coraggio di cui siamo privi, che sia il nome difficile, troppo difficile, dell’amore. Eppure il termine servo è la più sorprendente di tutte le autodefinizioni di Gesù: «Non sono venuto per farmi servire, ma per essere servo». Parole che ci consegnano una vertigine: servo allora è un nome di Dio; Dio è mio servitore! Vanno a pezzi le vecchie idee su Dio e sull’uomo: Dio non è il Padrone dell’universo, il Signore dei signori, il Re dei re: è il Servo di tutti! Non tiene il mondo ai suoi piedi, è inginocchiato lui ai piedi delle sue creature; non ha troni, ma cinge un asciugamano.

Come sarebbe l’umanità se ognuno avesse verso l’altro la premura umile e fattiva di Dio? Se ognuno si inchinasse non davanti al potente ma all’ultimo? Noi non abbiamo ancora pensato abbastanza a cosa significhi avere un Dio nostro servitore. Il padrone fa paura, il servo no. Cristo ci libera dalla paura delle paure: quella di Dio. Il padrone giudica e punisce, il servo non lo farà mai; non spezza la canna incrinata ma la fascia come fosse un cuore ferito. Non finisce di spegnere lo stoppino dalla fiamma smorta, ma lo lavora finché ne sgorghi di nuovo il fuoco.

Dio non pretende che siamo già luminosi, opera in noi e con noi perché lo diventiamo. Se Dio è nostro servitore, chi sarà nostro padrone? Il cristiano non ha nessun padrone, eppure è il servitore di ogni frammento di vita. E questo non come riserva di viltà, ma come prodigio di coraggio, quello di Dio in noi, di Dio tutto in tutti.

(Ermes Ronchi)

 

Il Servo del Signore

L’accostamento del testo di Isaia a quello di Marco ha come esito la rivelazione che Gesù è il Servo del Signore. Ovvero, l’obbediente alla volontà del Signore che ha donato se stesso per gli uomini vivendo la sua esistenza facendosi loro servo. La domanda di Giacomo e Giovanni (“Noi vogliamo che tu ci faccia ciò che ti chiederemo”) esprime la distorsione più frequente della preghiera cristiana: se la preghiera, come appare dal Padre nostro, porta il discepolo a fare la volontà del Signore (“sia fatta la tua volontà”: Mt 6,10), la domanda dei due discepoli va nel senso contrario. Si chiede che Dio faccia ciò che noi vogliamo. La preghiera allora non è più dialogo tra due libertà, ma imposizione umana a un Dio che non è più il Signore, ma un idolo.

Occorre che il cristiano impari a domandare, perché la domanda esaudita è quella che chiede “nel nome del Signore”: “Tutto ciò che dobbiamo chiedere a Dio e dobbiamo attendere da lui si trova in Gesù Cristo. Occorre cercare di introdurci nella vita, nelle parole, negli atti, nelle sofferenze, nella morte di Gesù, per riconoscere ciò che Dio ha promesso e realizza sempre per noi. Dio infatti non realizza tutti i nostri desideri, ma realizza le sue promesse” (Dietrich Bonhoeffer).

Con la loro incosciente richiesta, i due figli di Zebedeo dimostrano, da un lato, la loro incomprensione delle parole che Gesù ha appena pronunciato sul suo futuro di sofferenza e morte (cf. Mc 10,32-34) e, dall’altro, rivelano di vivere la comunità come finalizzata alla loro personale riuscita: essi devono ancora operare il passaggio da “la comunità per me” (“per noi”: Mc 10,35) a “io per la comunità”, e devono ancora imparare che non la comunità in quanto tale può essere il fine cui tendono, ma il Regno che va oltre la comunità stessa. La scorretta o parziale comprensione di Cristo diviene distorsione ecclesiologica. Il richiamo di Gesù alla coppa da bere e all’immersione da ricevere, cioè alla morte cruenta che lo attende, corregge la comprensione che essi hanno di lui, ma ricorda anche che la chiesa vive del suo innesto nella morte vivificante di Cristo grazie al battesimo e all’eucaristia. Innesto che le conferisce una forma altra rispetto alle istituzioni mondane: non il potere, ma il servizio è la sua logica interna.

Da Gesù Servo nasce una chiesa serva. L’iniziativa dei due fratelli suscita un conflitto all’interno della comunità: “gli altri dieci si sdegnarono con loro” (Mc 10,41). Concorrenzialità e clericalismo ante litteram sono già presenti nel gruppo dei Dodici, tanto che Gesù li convoca e li istruisce sulla logica che deve abitare le comunità cristiane, opposta a quella che vige nei poteri di questo mondo.

“Tra voi non è così”: questa parola di Gesù pone un criterio discriminante tra chiesa e non-chiesa. La prima testimonianza politica della chiesa consiste nella sua strutturazione interna, nell’organizzazione delle sue strutture di autorità e nel modo di vivere l’autorità, che dev’essere conforme a quanto vissuto da Cristo e da lui richiesto ai discepoli.

La parola di Gesù stigmatizza le logiche dei poteri mondani, ma soprattutto si rivolge alla chiesa: alla tentazione della mimesi dei meccanismi mondani, Gesù oppone la differenza cristiana fondata sul farsi servi gli uni degli altri. Se la chiesa è la testimone di Cristo Servo nella storia tra la croce e la parusia, allora la sua forma la mostra quale comunità non omologata, né asservita. Insomma, con una battuta, la chiesa non è uno Stato: “Tra voi, non è così”. Essa invece è, secondo le belle parole del Card. Carlo Maria Martini, “comunità alternativa”: “La chiesa si sente spinta non solo a formare i suoi figli, ma a lasciarsi formare essa stessa vivendo al suo interno secondo modellini relazioni fondate sul vangelo, secondo quelle modalità che sono capaci di esprimere una comunità alternativa. Cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco”.

(Luciano Manicardi)

 

Preghiera

Signore Gesù, come Giacomo e Giovanni anche noi spesso «vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiediamo». Non siamo infatti migliori dei due discepoli. Come loro abbiamo però ascoltato il tuo insegnamento e vorremmo ricevere da te la forza per attuarlo; quella forza che ha poi condotto i figli di Zebedeo a testimoniarti con la vita.

Gesù, aiutaci a comprendere l’amore che ti ha spinto a bere il calice della sofferenza al nostro posto, a immergerti nei flutti del dolore e della morte per strappare dalla morte eterna noi, peccatori. Aiutaci a contemplare nel tuo estremo abbassamento l’umiltà di Dio.

Liberaci dalla stolta presunzione di asservire gli altri a noi stessi e infondici nel cuore la carità vera, che ci farà lieti di servire ogni fratello con il dono della nostra vita.

Mite Servo sofferente, che con il tuo sacrificio di espiazione sei divenuto il vero sommo sacerdote misericordioso, tu ben conosci le infermità del nostro spirito e le pesanti catene dei nostri peccati: tu che per noi hai versato il tuo sangue, purificaci da ogni colpa. Tu che ora siedi alla destra del Padre, rendici umili servi di tutti!

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIX DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

XXVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:Sapienza 7,7-11

Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta. Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni;   nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile. 

          

 

v Il brano appartiene alla seconda parte del libro della Sapienza, là dove viene presentato Salomone, il saggio per antonomasia e la sua ricerca per la sapienza. Dopo una prima parte che metteva in luce la piccolezza di Salomone (cf. 7,1-6), il nostro brano mette in luce il valore della sapienza. L’idea madre sta qui: la sapienza è superiore a tutte le ricchezze.

     — Il v. 7 da l’intonazione perché qualifica la sapienza come dono di Dio, un bene che si chiede a Lui. Si tratta quindi di una realtà qualitativamente diversa da tutte quelle che l’uomo può acquisire da sé.

     — I vv. 8-10 fanno l’inventario dei beni solitamente ricercati: potere (v. 8), ricchezza (v. 9), salute e bellezza (v. 10). Viene utilizzata la tecnica del contrasto e della sproporzione: non è neppure ipotizzabile un raffronto tra questi beni e la sapienza, tanto questa li supera di gran lunga.

     — Il v. 11 recupera tutti i beni, come corredo della sapienza. Quindi, sembra suggerire l’autore, non viene snobbato nulla di quanto l’uomo incontra sulla terra.

     L’implicita raccomandazione – sull’esempio di Salomone che sceglie e preferisce la sapienza – è di ricercare i beni del cielo (tale è appunto la sapienza), sapendo che «tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 7,33).

 

Seconda lettura: Ebrei 4,12-13

La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.  

 

 

v Tra le ricchezze che il cristiano deve ricercare e possedere, va senz’altro annoverata la Parola di Dio. Il testo è un minuscolo ma prezioso trattato sul suo valore.

     La Parola di Dio, presentata sotto la metafora della spada (cf. Ef 6,17; Ap 1,16), è detta viva (in greco posto enfaticamente all’inizio), forse perché compie azioni importanti, vitali. È attribuita alla Parola una specie di personificazione (cf. Is 55,10ss.), che si manifesta anche nella caratteristica dell’essere efficace e tagliente. Ad esso viene attribuito un potere di discernimento che spesso la coscienza non possiede, perché intrappolata nei meandri di false rappresentazioni. La Parola di Dio svolge quindi la preziosa funzione di indagare, illuminare, orientare.

     Una vera bussola che il Signore pone sul cammino del credente e della comunità, per rendere più sicuro il suo cammino. Dono di Dio, è una ricchezza offerta agli uomini.

 

Vangelo: Marco 10,17-30

[In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».] Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».

 

  

Esegesi 

     La professione di fede di Pietro divide in due parti il Vangelo secondo Marco: se prima Gesù era impegnato ad annunciare la Buona Novella a tutti, ora, senza rinunciare ad istruire la folla, coagula il suo interesse sul gruppo dei Dodici che ha fatto l’opzione per Lui.

     Troviamo materiale eterogeneo quanto a genere letterario, perché composto da un racconto di vocazione, da un ammonimento e da una risposta all’implicita richiesta di Pietro; però comune è la tematica, quella della ricchezza, una specie di filo conduttore che rinsalda le diverse parti. In dettaglio:

     — Gesù incontra un ricco e lo chiama alla sua sequela, vv. 17-22; il racconto è animato dal movimento iniziale di correre incontro a Gesù in contrasto con quello finale di allontanamento; il primo movimento sottintende una gioia della ricerca, il secondo è accompagnato da tristezza.

     — Colloquio di Gesù con i discepoli sulla ricchezza come ostacolo per l’ingresso nel regno dei cieli; la difficoltà viene superata dalla potenza divina, vv. 23-27.

     — Problema di Pietro circa la ricompensa alla sequela e la conseguente risposta di Gesù; esiste una ricompensa immediata e una futura, vv. 28-31.

     L’insegnamento rimbalza dai discepoli a tutti gli uomini che vogliono mettersi alla sequela di Cristo; esso porta luce e orientamento e, per il cristiano, diventa norma di vita.

     Notiamo un inizio elettrizzante di uno che corre incontro a Gesù: si presagisce qualcosa di interessante. Al movimento spaziale l’evangelista Matteo aggiunge anche un movimento temporale: secondo lui si tratta di un giovane: per Marco è chiaramente un adulto perché dirà «fin dalla mia giovinezza». Oltre alla corsa, il mettersi in ginocchio davanti a Gesù, denota la stima verso il maestro di Nazaret. C’è grande aspettativa.

     — «Maestro buono… Nessuno è buono, se non Dio solo». L’appellativo, di uso raro e insolito, sembra rifiutato da Gesù. In realtà, egli aiuta a capire dove sta la vera e unica sorgente della bontà, alla quale tutti devono attingere: il Padre; ce lo rammenta sempre la liturgia: «Padre santo, fonte di ogni santità…» (Prece eucaristica II). Chi ricerca la vita eterna, deve orientarsi verso quel Dio che ha espresso la sua volontà di santità nel decalogo.

     — «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare…». Gesù cita la quintessenza dell’alleanza al Sinai: si allinea con la migliore tradizione biblica di cui afferma l’autenticità e di cui conferma la continuità. La proposta della ‘seconda tavola’, quella che contiene i doveri verso il prossimo, dimostra che qui si gioca la veridicità dell’amore a Dio.

     — La risposta piace ma non propone nulla di nuovo: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». L’uomo che sta davanti a Gesù sente il bisogno di qualcosa che vada oltre; a lui il merito di aver intuito che Gesù può indicare quel qualcosa.

     — Il salto di qualità arriva negli atteggiamenti e nei sentimenti prima ancora che nelle parole. L’evangelista Marco ha regalato all’umanità il particolare stupendo dello sguardo e dei sentimenti di Gesù: «fissò lo sguardo su di lui, lo amò». È un dettaglio di toccante tenerezza, esclusivo del secondo vangelo. La forza di quello sguardo e la carica di quell’amore spingono ad accogliere il novum che l’uomo aveva vagamente percepito in Gesù e che ora si sente proporre: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!».

     — Tutto gravita attorno a due poli che bilanciano la risposta: «Va’, vendi» e «Vieni! Seguimi!». Sono due coppie di imperativi che vivono un drammatico contrasto: movimento di allontanamento il primo, di avvicinamento il secondo. L’originalità sta nel prospettare la povertà evangelica e la sequela di Cristo, l’una come condizione dell’altra: «Il vero modo di tesorizzare presso Dio è quello di dare. Uno non ha quanto ha accumulato, bensì quanto ha donato» (S. Fausti). In ogni caso ci si deve allontanare da qualcosa per incamminarsi dietro a Qualcuno. Idee e progetti che prima si realizzavano in proprio, ora si realizzano in società, meglio, in comunione.

     — Gesù chiama quell’uomo a diventare suo discepolo; gli propone l’ideale suggestivo e arduo della sequela. Scrive Kierkegaard: «Diventare discepolo consiste nell’essere intimamente coinvolto in un drammatico e salutare confronto di contemporaneità con Cristo, invece di mantenersi nello stato di ammiratore disimpegnato». La vocazione a seguire Gesù esige un legame con la sua persona, perché Gesù non promette altro che se stesso e una rottura con il presente. Al di fuori di questa comunione saranno solo idee e progetti avventizi e sterili, destinati a vita breve e senza seguito. Il Cristo non chiede di essere sradicati o isolati, propone invece il legame e la comunione con Lui. Praticamente Gesù dice al ricco:  «Seguimi!». Lui e Lui solo è la meta dei comandamenti, la loro pienezza Gesù riprende la domanda del suo interlocutore che voleva qualcosa di più. La risposta è Gesù stesso: è Lui che fa la differenza con la risposta tradizionale, pur valida, ma insufficiente.

     — Quell’uomo ha paura dell’ignoto e preferisce l’ancoraggio al presente; perde il suo entusiasmo iniziale, smorzandosi in una tristezza che lo incupisce e lo allontana. La conclusione dell’episodio è quanto mai laconica: «Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni». Con il «se ne andò rattristato» si registra prima la tristezza che si e dipinta sul volto, all’esterno, seguita dalla motivazione «a queste parole»; si dà  poi l’analisi psicologica dello stato d’animo con quel «scuro in volto» seguito dalla seconda motivazione «possedeva infatti molti beni». La tristezza esteriore è più immediata ed è causata dalle parole di Gesù ha valore più transitorio. L’afflizione invece pesca nel profondo, intacca tutta l’esistenza e proviene dalla ricchezza alla quale l’uomo è schiavisticamente legato.

     Dalla corsa iniziale all’allontanamento finale: qui sta la miserevole vicenda di chi si arricchisce davanti agli uomini e non davanti a Dio.

     — Sussiste per tutti il pericolo della ricchezza (vv. 23-27). L’accaduto diventa occasione per un salutare monito a tutta la comunità ecclesiale. Le parole di Gesù «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!» ghiacciano l’uditorio e gettano nella costernazione i discepoli. Va ricordato che i discepoli erano cresciuti alla teologia dell’Antico Testamento che considerava la prosperità materiale come il sacramento della benedizione divina. Non si sa fin dove la predicazione profetica e la teologia dei salmi fossero riuscite a intaccare lo zoccolo duro dell’opinione popolare, del resto ampiamente accolta e propagandata dalla classe dei sadducei. Di fatto coesistevano l’ideale dei poveri di JHWH che ponevano la loro fiducia esclusivamente in Dio e la prassi dei ricchi che si ritenevano depositari della benevolenza divina perché potevano disporre di beni materiali. A Gesù spetta il non facile compito di ribaltare un pensiero comune e di profilarne un altro. Quasi incurante dello shock provocato, rincara la dose: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!». Gesù non fa sconti. Secondo lo stile orientale, l’idea viene sostenuta da un paragone: « È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». È una iperbole cioè una voluta esagerazione per far capire il messaggio (fallaci i tentativi di trasformare kamelos ‘cammello’ in kamilos ‘gomena corda di nave’, oppure di pensare ad una porticina delle mura di Gerusalemme denominata ‘cruna dell’ago’). Davanti ad una reale e consistente difficoltà, la soluzione viene dal Signore: «tutto è possibile presso Dio»; la frase, presa da Gn 18,14 (Sara e Abramo) ricorda il potere di Dio.  

     — Se quell’uomo ha fallito, i discepoli hanno lasciato tutto e seguito il Maestro, implicitamente viene chiesto che cosa toccherà loro (cf vv. 28-31). La risposta di Gesù è inaspettata e, come sempre, profonda: viene promessa una ricompensa futura, definitiva e una immediata, provvisoria. La prima è la «vita eterna», quella vita che il ricco aveva ricercato ma pure rifiutato, quella nella quale è impossibile entrare se si è ricchi. Quella provvisoria sta nel fatto che i discepoli di Cristo, rinunciando alla casa, alla famiglia e alla proprietà, ritrovano una nuova famiglia ed una casa nella comunità cristiana. Il pensiero è ben illustrato da Mc 3,34-35 dove Gesù aiuta a superare i legami familiari giuridici per ritrovare i legami della fede.

 

Meditazione 

Il capitolo 10 del Vangelo di Marco, che stiamo ascoltando nella liturgia di queste domeniche, è un susseguirsi di domande rivolte a Gesù, che si lascia interrogare. Infatti il suo vivere tra di noi, la sua parola, il suo agire, suscita domande a donne e uomini spesso sicuri di sé, che volen­tieri evitano di mettere in discussione le loro abitudini e il loro modo di vivere. «La parola di Dio – e in Gesù la Parola si è fatta carne – è viva ed efficace, più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, e scruta i sentimen­ti e i pensieri del cuore». Così abbiamo ascoltato nella lettera agli Ebrei. Ci immaginiamo dal racconto evangelico un certo entusiasmo di quel tale, che corse incontro a Gesù, certo di avere una risposta a una domanda profonda che si portava nel cuore: «Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» Aveva osservato i comandamenti fin dalla giovinezza, come prescriveva la legge. Lo afferma in risposta al Signore quasi con una punta di orgoglio, ma anche di insoddisfazione, altrimenti perché si sarebbe rivolto a Gesù? Era un uomo buono, alme­no si sentiva tale, se con tanta sicurezza dichiara l’adempimento dei comandamenti. Eppure, nel suo correre verso il Signore, nel suo domandare, emerge un bisogno e una richiesta di qualcosa di più. E il Signore «fissò lo sguardo su di lui, lo amò». È lo sguardo profondo di Gesù, che penetra al di là delle paure e delle sicurezze dell’uomo.

Con questo stesso sguardo Gesù aveva fissato Pietro nel momento del rinnegamento e della paura, quasi per ricordargli lo sguardo dell’i­nizio, quando il fratello Andrea lo aveva condotto da lui. È uno sguardo pieno di amore, con cui il Signore vuole rispondere in maniera profon­da alla domanda di quell’uomo e di ognuno di noi. Esso, come per Pietro, diventa una domanda e un invito: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo, e vieni e seguimi.» Gesù nel suo amore coglie ciò che manca alla vita di quell’uomo, ricco, ma in difetto, non realizzato, non pienamente uomo, uno che non era riuscito ancora a raggiungere la pienezza della sua vita. Non per nulla in Matteo è un giovane, quasi a dire qualcuno che ancora deve raggiungere la maturità deve realizzarsi. In Marco è semplicemente «un tale». Potrebbe essere qualsiasi di noi. In quello sguardo pieno di amore il Signore coglie la situazione di ognuno di noi e del mondo in cui viviamo: donne e uomini ricchi, sazi nel loro benessere, forse anche fedeli ai comandamenti oppure onesti, come tanti si credono, ma non pienamente umani. Gesù nel suo invito svela l’insoddisfazione ed anche, si potrebbe dire, l’immaturità di quel ricco, che si era creduto già vicino alla vita eterna. Egli sembra dire che non basta essere vicini alla vita eterna, se si vive insoddisfatti e in maniera non pienamente umana.

L’invito del Signore a quell’uomo ricco è molto chiaro. Sì, ti manca qualcosa di essenziale. Va’, vendi quello che hai, separati dai tuoi beni, lascia quello che credi il tuo tesoro, vivi la solidarietà con i poveri e avrai un tesoro nel cielo. «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e la ricchezza», aveva detto parlando alle folle (Mt 6,24). La parola di Gesù è un ammonimento e un invito prezioso per la vita di ognuno di noi, non solo dei consacrati, come talvolta lo si intende. Gesù propone ad ogni discepolo un tesoro, che non è possibile acquistare, che non si ottiene con un benessere che lascia insoddisfatti. Questo tesoro è innanzitutto nel cielo. Ma il suo possesso comincia già fin da oggi. Infatti Gesù aggiunse: «Poi vieni e seguimi». La sequela è anche separazione da qualcosa di nostro. Noi a fatica sappiamo separarci da quello che abbiamo, anzi molti vivono per possedere, spendono energie e sostanze solo per il loro interesse. La vita dei poveri, la miseria di molti, non li tocca, non li muove a compassione. Lo aveva detto Gesù poco prima nel vangelo di Marco: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso», cioè si separi da se stesso, «prenda la sua croce e mi segua». (8,34). E più avanti: «Se la tua mano, il tuo piede, tuo occhio… ti scandalizzano, tagliali È meglio entrare nella vita con una mano, un piede, un occhio soli, che con due nella Geenna». (9,43-47). Oggi si fa fatica a rinunciare a qualcosa, anzi soprattutto nella crisi abbiamo paura di perdere il benessere in cui abbiamo vissuto. Così la misura è il calcolo, la paura fa alzare muri davanti agli altri, soprattutto ai poveri. «Seguimi» è un invito a vivere in maniera pienamente umana, a diventare grandi come Gesù nell’amore, a respirare la libertà del dare gratuitamente, così come abbiamo ricevuto. Ma quel ricco, conclude con una punta di amarezza il vangelo, «a queste parole si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.» Nella paura di perdere quello che abbiamo, nell’attaccamento ai beni, crescono donne e uomini tristi, afflitti, insoddisfatti, mai lieti per quello che hanno, poco generosi e molto calcolatori, stretti di cuore. Sembra lo specchio di una grande parte del mondo in cui noi abbiamo la grazia di vivere.

Appaiono così più chiare le parole del Signore di fronte alla scelta dell’uomo ricco: «Quanto è difficile per coloro che hanno ricchezze entrare nel regno di Dio!» E i discepoli rimasero stupefatti e pieni di domande. «E chi può essere salvato?» Gesù per la seconda volta «fissò i discepoli e disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile presso Dio”». Ancora una volta lo sguardo di amore del Signore comprende il nostro smarrimento, soprattutto il senso di impossibilità, il pessimismo che domina il nostro cuore. La sua parola è un chiaro invito alla fede. Gesù ci insegna a credere, ad affidarci a Dio, a vincere la paura con la fiducia e l’ascolto. La fede fa vivere. Non solo! Quel seguimi è un invito a credere, a fidarsi, a non ascoltare le ragioni del nostro mondo ricco, rassegnato e insoddisfatto. Gesù non chiede di buttare a mare tutto quanto abbiamo: non è questo il senso della frase evangelica. La decisione che questa pagina evangelica vuole provocare in noi riguarda il primato da dare a Dio sopra ogni cosa. Gesù ci chiede di porre Dio al di sopra di tutto, anche dei beni che abbiamo, e. di considerare i poveri come nostri fratelli verso i quali siamo debitori di amore e di aiuto. Essi hanno diritto al nostro amore e al nostro aiuto. Quel che chiede il Signore, a prima vista, ha i tratti di una rinuncia e in parte lo è, ma è soprattutto una grande sapienza di vita. Ovviamente si tratta non della sapienza del mondo che spinge a rinchiudersi in se stessi e nelle cose del mondo, ma della sapienza che viene da cielo, di cui ascoltiamo dalle Sante Scritture: «La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto; non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta» (Sap 7,8-10). La risposta di Gesù alla richiesta che Pietro ha fatto a nome dei discepoli spiega concretamente le conseguenze di tale sapienza evangelica: chi abbandona tutto per seguire Gesù (ossia, chi pone Gesù al di sopra di ogni cosa) riceverà in questa vita il centuplo e, dopo la morte, la vita eterna. È l’esatto contrario di quello che nor­malmente si pensa, ossia che la vita evangelica sia innanzitutto privazio­ne. Così pensò anche l’uomo ricco. In verità, la scelta di seguire il Signore sopra ogni cosa è sommamente «conveniente», non solo per salvare la propria anima nel futuro, ma anche per gustare «cento volte» la vita su questa terra. Il brano tratto dal libro della Sapienza conclude: «Insieme a lei (la sapienza che viene dal cielo) mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile». Chi mette Dio al primo posto nella sua vita, entra a far parte della Sua «famiglia» ove trova fratelli e sorelle da amare, padri e madri da venerare, case e campi ove lavorare. Trova l’amore.

Quel seguimi conduce così i discepoli in un mondo largo, quello della famiglia di Dio, il mondo senza confini dei fratelli, delle sorelle, delle madri, dei padri, dei figli, dei campi e delle case. Qui noi già rice­viamo il centuplo, ciò che quel ricco cercava senza saperlo. Questa condizione è come un’anticipazione della vita eterna, perché è il modo di vivere di Dio, non per sé, ma in comunione, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Il Signore vuole che noi già fin da oggi gustiamo la gioia e la dolcezza di questa vita in comunione, che fa della libertà una scelta di amore, della ricchezza un dono immeritato, della vita cristiana una proposta spirituale in un mondo dominato dalle cose e dall’io. Nella Liturgia Eucaristica possiamo rendere lode e ringraziare il Signore con tutto il cuore perché ha guardato con amore a ognuno di noi e ci ha detto «seguimi». Ringraziamolo perché ci ha concesso la sapienza di una vita pienamente umana, perché guidata dalla luce del Vangelo.

 

L’immagine della domenica 

 

 

NOTTE OSCURA

 

In una notte oscura

con ansie, dal mio amore infiammata,

oh, sorte fortunata!,

uscii, né fui notata,

stando la mia casa al sonno abbandonata.

(Giovanni della Croce)

 

Preghiere e racconti

 

“Perché gli adulti si affannano tanto ad accumulare cose?”

“Pensare che la felicità dipenda dal possesso di qualcosa è un autoinganno rassicurante. Siccome la cosa importante diventa avere o non avere, la ricerca si orienta verso qualcosa che è al di fuori di noi, evitandoci la fatica di guardare nella nostra interiorità. Seguendo questo ragionamento, possiamo essere felici senza cambiare, semplicemente ottenendo questo o quello.”

“E la gente non se ne rende conto?” insistette il giovane principe, che evidentemente faceva una gran fatica a credere che l’umanità fosse così cieca.”

“Il problema, mio giovane amico, è che la nostra società ha moltiplicato a tal punto le cose da desiderare che la gente non capisce di aver sbagliato strada finché non si è accaparrata l’ultima della lista. Lo sai come si aggrappano a qualsiasi possibilità, per remota che sia, pur di non ammettere che sbagliano e devono cambiare. Il fatto è che quando finalmente mettono le mani su questa benedetta ultima cosa, hanno perso la prima. Sono come quei giocolieri che lanciano in aria sette cappelli insieme. E pensa che sono solo sette! Ma la cosa peggiore è che la gente sa solo quello che vuole sul momento, quando è vicina a raggiungere ciò che voleva. E allora si scopre che quello che ritenevano il loro obiettivo finale non lo era davvero, e così sciupano la vita in una continua ricerca infruttuosa, saltando di cosa in cosa, come se questi oggetti fossero le pietre di un fiume che non finiranno mai di attraversare. In linea generale, chi è ossessionato dal desiderio di possedere rimane intrappolato nel futuro. Non vive mai il presente e non se lo gode, perché la sua attenzione è orientata a qualcosa che sta sempre per succedere.”

(A.G. ROEMMERS, Il ritorno del giovane principe, Corbaccio, Milano, 2012, 60,61)

 

Ti mancava una cosa sola

Non sappiamo il tuo nome, ma meglio così, sei tutti noi. Eri ancor giovane, dice qualcuno, ma avevi già un passato da raccontare e una posizione ce l’avevi, economica e non solo. Eri anche una persona perbene, un bravo ragazzo, come si dice.

Vorremmo tornare a quel tuo incontro straordinario con Gesù, il giorno che passò dal tuo paese. Chissà anche tu quante volte ci sarai ritornato su, col pensiero, nella tua vita di poi, nelle notti insonni o nelle pause del giorno.

Dovevi esserne rimasto affascinato. Dovevi aver detto anche tu: “Nessuno parla come costui!”. Quel giorno, mentre stava andandosene, non hai voluto perdere l’occasione di incontrarlo. Ti sei slanciato verso di lui senza ch’egli ti cercasse (o non era forse lui quella nostalgia d’infinito che già bruciava in te?), gli sei caduto alle ginocchia, come i tuoi servi davanti a te, gli ha posto la domanda cui solo lui, ne eri certo, poteva rispondere: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Forse ne avevi sentito parlare da lui, fatto sta che tu ci credevi, che la tua storia non sarebbe finita su questa terra.

Il Maestro t’aveva rimesso, al di là di ogni infatuazione, davanti all’Unico buono. Lui dunque da amare anzitutto. E t’aveva snocciolato i comandamenti delle relazioni umane secondo Dio. Non era facile per te esservi fedele, ma ce l’avevi fatta. Non avevi ammazzato nessuno, lasciavi ad ognuno la sua donna e i suoi beni, e mai nessuno avevi danneggiato con la menzogna e l’inganno. Tuo padre e tua madre li avevi rispettati, ci mancherebbe altro. Con che gioia hai detto a Gesù: “Ho sempre obbedito a questi comandamenti”.

Gesù non ti ha guardato, semplicemente, come si guarda uno che parla; ti fissò, dice Marco, che, benché di poche parole, precisa: ti amò. Era come se volesse per primo offrirti quel più d’amore che stava per chiederti. “Una sola cosa ti manca: va’ vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”.

Non avresti mai pensato che ti chiedesse tanto. Forse un’elemosina più consistente, pensavi, una preghiera più lunga, una penitenza. Ti è mancato il fiato. In un istante hai rivisto tutto quello che avevi e quello che speravi di avere. Il frutto delle fatiche dei tuoi padri e tue a chi non ne aveva diritto? e poi… seguire Gesù: dove? con che prospettive?

Inutile chiederti com’è stato che hai scelto liberamente eppure sei rimasto triste. La conosciamo questa tristezza, questa falsa libertà. Il dramma di non volare alto per godere a bassa quota eppure rimanere infelici. L’impotenza di vedere il bene, di volerlo anche, senza riuscire a sceglierlo. Eccome, se ti capiamo.

Vorremmo però capire che cosa non ha funzionato nella tua storia, cioè nella nostra. Anche Simone e Andrea non avevano ancora capito niente di Gesù, anzi, non gli avevano neppure fatto la tua bella domanda, e forse non erano neppure osservanti come te. Eppure, subito, l’hanno seguito. Perché loro sì e tu no?

“Perché aveva molti beni”, sembra aiutarci Marco. Il mistero della ricchezza! S’attacca al cuore, alla mente, alla volontà come una zavorra. Uno apre le ali e non sa più volare. Uno prova ad amare e non dà che qualche battito. Uno prova a camminare, ma non ce la fa a trascinare tutto. Ad ascoltare, ma le orecchie sono tappate. A vedere, ma è come se non vedesse. Esigenze, esigenze, esigenze. Guai se manca una cosa, guai se non c’è l’altra.

A differenza di te che almeno te ne sei andato triste e hai misurato l’enorme nostalgia che, chissà, forse un giorno avrebbe potuto spingerti a tornare, noi invece crediamo che si può mettere insieme l’avere molto e la vita eterna, l’accumulo dei beni e la fede in Gesù Cristo. Credici, amico lontano, siamo ben più disgraziati noi. Fa’ una cosa, regalaci un po’ della tua tristezza, anzi tutta.

 

La conoscenza di sé e conoscenza di Dio

La tradizione islamica ha conservato un hadît secondo il quale chi conosce se stesso conosce il suo Signore. Un passo neotestamentario è significativo di questa ricerca concomitante di sé e di Dio. In Mc 10,17-22, «un tale», un personaggio anonimo, dunque in cerca della propria identità, corre da Gesù e si getta ai suoi piedi interrogandolo su come ottenere la vita eterna (v. 17). In questa persona (che non è «un giovane» come in Mt 19,20 e neppure «un capo» come in Lc 18,18, ma appunto solo «un tale») si coniugano dunque ricerca di Dio e ricerca di identità personale. E questa ricerca si esprime in una domanda: «Che cosa devo fare?» (v. 17). La risposta di Gesù non è estrinseca, non è rivolta verso l’esterno, non è sbilanciata sul piano del «fare», ma propone un itinerario interiore. Gesù pone una contro-domanda che conduce il suo interlocutore a interrogarsi sul movente profondo, sul perché di quella ricerca. Gesù lo fa andare al fondo di se stesso. L’itinerario che Gesù propone comprende infatti, anzitutto, la conoscenza di sé, l’ordinamento delle relazioni umane con gli altri, con le realtà esterne, con la propria storia famigliare (i comandi etici del decalogo ricordati nel v. 19). Quindi, la rivelazione della povertà profonda, della mancanza che abita il suo interlocutore («una cosa ti manca»: v. 21), non dopo però avergli apprestato lo spazio di amore al cui interno accogliere tale rivelazione e superarla grazie alla relazione con Gesù stesso (v. 21: «Gesù fissatelo lo amò e gli disse: “… vieni e seguimi”»). Conoscenza di Dio e conoscenza di sé, dice questo testo, passano attraverso l’adesione alla persona di Gesù Cristo. L’anonimo interlocutore di Gesù però rifiuta il rischio del farsi amare e di ricevere la propria identità nella relazione con un altro, e così resta senza nome, senza volto, definito solamente da ciò che ha, da ciò che possiede: «Se ne andò afflitto perché aveva molti beni» (v. 22).

(Luciano MANICARDI, La vita interiore oggi. Emergenza di un tema e sue ambiguità, Magnano, Qiqajon, 1999, 12-13).

 

Quello che non abbiamo cercato

“Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato. Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui. La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato. A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.

(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).

 

Incontrare Cristo

«Incontrare Cristo significa mettervi sulla strada dell’esperienza dell’amore, della gioia, della bellezza, della verità. Decidere di non custodire e di non approfondire il segreto dell’incontro con lui equivarrebbe a condannarsi a una vita senza senso e senza amore. Vorrei soprattutto dirvi, non abbiate paura, non abbiate timore di aprirvi a Cristo, di entrare nel suo mistero».

(Card. C.M. Martini).

 

«Non potete servire a Dio e a mammona»

Pensiamo all’episodio emblematico del giovane ricco che non riesce a staccarsi dal fasto del suo palazzo per seguire Cristo (Matteo 19,16-26). La frase paradossale che suggella quell’evento è netta: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli». Luca, che è l’evangelista dei poveri, offre un intero brano centrato sulla ricchezza «disonesta e iniqua» ( 16,1 -13). In esso ricorre al termine mammona per definire quei tesori materiali che occupano cuore e vita dell’uomo. Si tratta di un vocabolo aramaico che indica i beni concreti, ma che contiene al suo interno la stessa radice verbale della parola amen, che denota la fede.

La ricchezza diventa, quindi, un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona». Eppure questo non significa un masochismo pauperista. Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola. La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).

(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).

 

L’insegnamento di Gesù: chi vuol essere primo sia servo di tutti

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».

Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (…)

Un tale corre incontro al Signore. Corre, con un gesto bello, pieno di slancio e desiderio. Ha grandi domande e grandi attese. Vuole sapere se è vita o no la sua. E alla fine se ne andrà spento e deluso. Triste, perché ha un sogno ma non il coraggio di trasformarlo in realtà. Che cosa ha cambiato tutto? Le parole di Gesù: Vendi quello che hai, dallo ai poveri, e poi vieni. I veri beni, il vero tesoro non sono le cose ma le persone.

Per arrivarci, il percorso passa per i comandamenti, che sono i guardiani, gli angeli custodi della vita: non uccidere, non tradire, non rubare. Ma tutto questo l’ho sempre fatto. Eppure non mi basta. Che cosa mi manca ancora? Il ricco vive la beatitudine degli insoddisfatti, cui manca sempre qualcosa, e per questo possono diventare cercatori di tesori. Allora Gesù guardandolo, lo amò. Lo ama per quell’eppure, per quella inquietudine che apre futuro e che ci fa creature di domanda e di ricerca.

Una cosa ti manca, va’, vendi, dona…. Quell’uomo non ha un nome, è un tale, di cui sappiamo solo che è molto ricco. Il denaro si è mangiato il suo nome, per tutti è semplicemente il giovane ricco. Nel Vangelo altri ricchi hanno incontrato Gesù: Zaccheo, Levi, Lazzaro, Susanna, Giovanna. E hanno un nome perché il denaro non era la loro identità. Che cosa hanno fatto di diverso questi, che Gesù amava, cui si appoggiava con i dodici?

Hanno smesso di cercare sicurezza nel denaro e l’hanno impiegato per accrescere la vita attorno a sé. È questo che Gesù intende: tutto ciò che hai dallo ai poveri! Più ancora che la povertà, la condivisione. Più della sobrietà, la solidarietà. Il problema è che Dio ci ha dato le cose per servircene e gli uomini per amarli. E noi abbiamo amato le cose e ci siamo serviti degli uomini…

Quello che Gesù propone non è tanto un uomo spoglio di tutto, quanto un uomo libero e pieno di relazioni. Libero, e con cento legami. Come nella risposta a Pietro: Signore, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa avremo in cambio? Avrai in cambio una vita moltiplicata. Che si riempie di volti: avrai cento fratelli e sorelle e madri e figli…

Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Il Vangelo chiede la rinuncia, ma solo di ciò che è zavorra che impedisce il volo. Messaggio attualissimo: la scoperta che il vivere semplice e sobrio spalanca possibilità inimmaginabili. Allora capiamo che Dio è gioia, libertà e pienezza, che «il Regno verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (Vannucci). Che ogni discepolo può dire: «con gli occhi nel sole/ a ogni alba io so/ che rinunciare per te/ è uguale a fiorire» (Marcolini).

(Ermes Ronchi)

 

Ricchezza-Felicità

1. Marco narra di un tale (Mc 10,17), giovane di età secondo Matteo (Mt 19,20), notabile non più giovane secondo Luca (Lc 18,18.21), di condizione benestante: «Possedeva molti beni» (Mc 10,22), «era molto ricco» (Lc 18,23). Un possidente con un interrogativo che gli attraversa l’anima, è nell’abbondanza economica e nella stima sociale, ha ereditato l’ereditabile, eppure è inquieto e non pienamente soddisfatto.

Gli manca qualcosa, un deficit che fa di quell’uomo un essere di ricerca che con sollecitudine non teme di varcare la soglia della sua abitazione e della sua condizione per incrociare, quale mendicante di frammenti di luce, la via di un tale di nome Gesù che passava di là. Un caso che il desiderio di trovare una via d’uscita alla propria domanda ha convertito in evento, quello dell’incontro. Una prima annotazione. Solo il desiderio di altro e di incontri di senso fa dell’io murato in se stesso, nelle sue sicurezze e nelle sue paure un «homo viator», una creatura della strada capace di fiutare chi passa per via.

E’ il caso del ricco del racconto evangelico che spinto dalla brama di una parola di sale al suo interrogativo esce dai suoi confini, corre da Gesù, si inginocchia davanti a lui e lo rende partecipe del suo problema: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (Mc 10,17). Da annotare come quest’uomo di domanda e di ricerca si riveli altresì uomo di discernimento, indice dell’urgenza del saper distinguere i buoni dai cattivi maestri, una soglia non sempre facile da varcare.

E uomo di invocazione, la sua sete di conoscenza del che fare si affida a una fontana di nome Gesù detto Maestro perché sa insegnare, sa cioè trasmettere segni, parole-simboli-gesti, che sono chiavi di lettura in grado di orientare in positivo il cammino dell’uomo dentro la complessità del reale. Detto Maestro buono perché insegna ciò che è buono-bene (Mt 19,17), vale a dire Dio e la sua via, e perché testimonia con la vita ciò che insegna. In lui parola e gesto sono indissolubilmente congiunti.

2. La narrazione evangelica è davvero una «lezione magistrale» nel suo iniziare a una intelligenza semplice e profonda della figura della «soglia», nel suo dirci che il confine lo si varca quando si coniugano percezione di una mancanza, desiderio di colmarla e coraggio di attingere acqua che sgorga da presenze di saggezza, veicoli della Sapienza di Dio fatta carne in Gesù. E’ questa la prima tappa di un cammino a cui segue quella della indicazione della via da intraprendere per pervenire alla meta della vita eterna, la via del prendere in mano la propria vita e del chiedersi qual’è la ragione vera che la sostiene e la dirige.

Ragione che di fatto diventa legge al cammino dell’uomo, legge che per Gesù sono i comandamenti definiti dalla Torà, specificatamente quelli della seconda tavola che si riferiscono ai doveri verso il prossimo; precetti da leggersi alla luce dell’«amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18). In sintesi l’esodo verso la terra promessa di una vita bella e buona, umanissima quindi e sottratta al potere della morte, è la via del bene a cui si accede, suggerisce Gesù, varcando la soglia della Legge-Torà.

Alla domanda che aprendo varchi introduce nei sentieri della ricerca succede la sorpresa di un incontro che apre la porta a una parola di senso, a un esistere che trasforma il presente e dischiude al futuro. Un esserci nel bene nella lucida, amata e voluta consapevolezza che cosa buona è non uccidere l’uomo: il suo sangue, i suoi legami e il suo diritto a relazioni nella non doppiezza, nella non illusione e nell’onore (Mc 10,19), e non sono che esempi, sono il tuo limite e la tua verità.

Il volto dell’altro, che è insieme interpellazione categorica e invocazione struggente a non essere violato in sé, nei suoi affetti, nei suoi pensieri e nelle sue cose,diventa la rivelazione del tuo volto, della tua verità: divenire il custode dell’altro. Senza condizioni come testimonierà il consegnarsi in amore e libertà di Gesù a coloro che lo hanno consegnato a morte.

Una soglia, questa della custodia, attraversata dal ricco: «Maestro,tutto questo l’ho custodito fin dalla mia giovinezza» (Mc 10,20), una confessione che libera in Gesù uno sguardo d’amore nei suoi confronti tradotto in una singolarissima parola: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi! Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni» (Mc 10,21-22).

La soglia data da una chiamata personalissima, il passare oltre divenendo compagno di viaggio di un amico trovato condividendone il sogno di dedizione incondizionata di sé e di donazione totale di ciò che si ha a vantaggio del povero mondo, non è stata varcata. A motivo di un amore più grande, la ricchezza.

E un uomo chiamato a divenire senza riserve la sua verità, il perdersi per un amico e il perdere per i poveri, ciò che gli mancava per essere compiutamente se stesso, nel negarsi a questo finisce per varcare la soglia dell’oscurità e della tristezza. La luminosità e la gioia di chi si consegna all’orizzonte del dono lasciano il posto all’oscurità e alla tristezza figlie della conservazione di sé e di ricchezze murate.

3. Un capitolo attualissimo, quello del rapporto ricchezza-felicità sotteso al brano evangelico. Il ricco che ha varcato la soglia della giusta domanda, se vi sia un presente che meriti futuro e un modo di essere e di esistere che renda sensato e felice il giorno dato a vivere, giorno proteso a una fioritura che neppure la morte può interrompere, si è arrestato dinanzi alla proposta e da quel momento, le cose non saranno più come prima, entra nella tristezza, si è preclusa la felicità.

(Giancarlo Bruni)

 

Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro?

Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi. Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro. È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria. Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.

Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria. Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza. Vogliono averne sempre di più. Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia. In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro. Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso. Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri. Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri. Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità. Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri. O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano. Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.

Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro. Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo. Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli. Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente. Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità. E sono  necessari criteri etici. Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici. Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia. Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità. È necessaria soprattutto la libertà interiore.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).

 

Che cosa è tuo?

«A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro. Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso posto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riservato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti. Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi. Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sareb-be bisognoso.

Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che te li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti. Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno?

Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente. Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno. E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito.

Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur potendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra. Così commetti ingiustizia contro altrettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.

(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG 31,276B-277A).

 

Preghiera

Sono io, Signore, Maestro buono, quel tale che tu guardi negli occhi con intensità di amore. Sono io, lo so, quel tale che tu chiami a un distacco totale da se stesso.

È una sfida. Ecco, anch’io ogni giorno mi trovo davanti a questo dramma: alla possibilità di rifiutare l’amore. Se talvolta mi ritrovo stanco e solo, non è forse perché non ti so dare quanto tu mi chiedi? Se talvolta sono triste, non è forse perché tu non sei il tutto per me, non sei veramente il mio unico tesoro, il mio grande amore? Quali sono le ricchezze che mi impediscono di seguirti e di gustare con te e in te la vera sapienza che dona pace al cuore?

Tu ogni giorno mi vieni incontro sulla strada per fissarmi negli occhi, per darmi un’altra possibilità di risponderti radicalmente e di entrare nella tua gioia. Se a me questo passo da compiere sembra impossibile, donami l’umile certezza di credere che la tua mano sempre mi sorreggerà e mi guiderà là, oltre ogni confine, oltre ogni misura, dove tu mi attendi per donarmi null’altro che te stesso, unico sommo Bene.

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXVIII DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura:Genesi 2,18-24

Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.

 

 

v Il brano è stato scelto perché richiamato dal Vangelo odierno. Esso è desunto dal cosidetto racconto jahvista della creazione dell’uomo (Gen 2). Si tratta di un racconto sulle origini, che vuole cioè risalire alle condizioni fondamentali e originarie dell’esistenza umana. Prima di dare inizio alla storia degli uomini, si parla delle condizioni stesse nelle quali si svolge tale storia.

     1. Annotazioni – Il brano mette in evidenza due dimensioni essenziali dell’esistenza umana: prima dimensione, i presupposti positivi di un’esistenza felice, che Dio stesso crea e mette sul cammino dell’uomo, associandoli al suo apparire nel mondo: una natura meravigliosa (il giardino), aiuto nel lavoro (gli animali), amicizia ed amore tra uomo e donna, ecc. (Gen  2); seconda dimensione, condizioni negative, derivate dal peccato dell’uomo: vergogna davanti a Dio, rapporti conflittuali tra uomo e donna, tra fratello e fratello; sproporzione tra gli sforzi investiti nel lavoro ed i risultati ottenuti (Gen 3-4).

     — Dio parla di un male dell’uomo, che intende superare mediante la sua creazione, cioè il «male» della solitudine (v. 18). Gli uomini giungono alla pienezza del loro essere soltanto nel vivere comune. Vivere da soli è una sofferenza, è un male («non è bene che l’uomo sia solo»).

     — Gli animali costituiscono un aiuto per l’uomo, ma non si trovano al suo stesso livello (vv. 19-20). Non possono né porsi in dialogo paritetico con l’uomo, né tantomeno sostituirlo.

     —L’immagine della «costola», dalla quale è «costruita» la donna (v. 22) sta ad indicare che l’uomo e la donna sono formati dalla stessa sostanza e perciò si appartengono mutuamente. Sono parenti, non sono estranei tra loro.

     —Adamo esprime questo rapporto parentale tra lui e la donna. Le parole: «osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (v. 23) sono espressioni proverbiali, che significano appunto parentela, appartenenza.

     — L’unione tra uomo e donna, che fonda una nuova famiglia, è più forte del legame che unisce figli e genitori (v. 24).

     — Da sottolineare infine l’assoluta parità tra uomo e donna messa in chiaro dal testo biblico. L’espressione «un aiuto che gli corrisponda» non vuole significare un aiuto in senso strumentale, subordinato, bensì un completamento, senza del quale non sarebbe possibile alcuna attività umana; le parole che completano la frase «che gli corrisponda» stanno ad indicare, appunto, la corrispondenza e la parità tra i due. Sarà il peccato a trasformare questa parità in disuguaglianza (Gen 3,16). Si può dire: la parità corrisponde alla volontà originaria di Dio; la disuguaglianza è conseguenza del peccato.

 

Seconda lettura: Ebrei 2,9-11

Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli.

    

 

v Siamo all’interno dell’introduzione della Lettera agli Ebrei, che sviluppa tutta una cristologia: in primo luogo l’Autore paragona Gesù ai profeti (1,1-2) e in secondo luogo alla Sapienza personificata ed agli angeli (1,4-2,19). Gli angeli sono certo esseri celesti, ma Gesù, come uomo, è superiore a loro. Mediante questi confronti la Lettera agli Ebrei esprime la fede nella divinità di Gesù.

     Siccome Gesù si è abbassato al di sotto degli angeli, benché superiore ad essi, è stato incoronato di onore e di gloria (v. 9). Ciò corrisponde all’interpretazione cristologica del salmo 8.

     — C’è di più: Gesù non solo si è umiliato, abbassandosi al di sotto degli angeli. È andato oltre, ha addirittura sofferto la morte per tutti, e anche per questo gli è stata data la gloria. Si tratta dello stesso pensiero che troviamo nell’inno di Fil 2,6-10. Il volontario abbassamento di Gesù affrontato con la morte diventa causa della sua speciale esaltazione divina.

     — Si presenta un parallelo tra creazione e redenzione (v. 10): come il mondo creato è opera di un solo Dio («per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose»), così anche l’opera della salvezza deve essere un’opera unica.

     — Tra Colui che santifica e coloro che vengono santificati esiste una (misteriosa) comunione. La santità dell’uno si trasmette ai molti, sì che la santità abbraccia tutti. In tal modo la santità costituisce una famiglia, un legame tra fratelli e parenti («non si vergogna di chiamarli fratelli»).

     — In poche parole, la Lettera agli Ebrei mostra lo stretto rapporto di appartenenza che esiste tra Gesù Cristo, che si abbassò nella morte, e tutti gli uomini che possono aver parte alla sua gloria ed alla sua santità.

 

Vangelo: Marco 10,2-16

In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».  A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio». Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

 

 

Esegesi 

     Il vangelo odierno si inserisce esattamente agli inizi del percorso compiuto da Gesù nel territorio della Giudea (10,1) verso Gerusalemme, e cioè verso l’ora della sua passione e morte, annunciata già due volte (8,31ss.; 9,30 ss.). Le discussioni, come quella di oggi sul divorzio e poi sulla sua autorità, il tributo a Cesare, la risurrezione dei morti ed il primo comandamento segnano un crescendo, che prepara l’esplosione finale dell’ostilità contro di lui, con la decisione di metterlo a morte. Il che conferisce una tensione drammatica ad ogni dettaglio delle controversie, che non sono puramente accademiche nel magistero di Gesù. Inoltre l’aver egli varcato i confini della Giudea, sottoposta alla giurisdizione di Erode, aumenta il rischio cui vogliono esporlo i Farisei con la domanda sul divorzio. Erode ha recentemente ripudiato sua moglie, vivendo in relazione adultera con quella del fratello, per questo aspramente redarguito da Giovanni Battista (Mc 7,17-29). Con la sua risposta, Gesù o avrebbe sconfessato il Battista, che il popolo teneva in grande considerazione, oppure sarebbe incorso nel furore del re e della vendicativa Erodiade.

     «È lecito a un marito ripudiare la propria moglie?» (vv. 2-4). La legge di Mosè accordava al marito il diritto di rimandare la moglie se avesse trovato in lei «un fatto indecoroso» (Dt 24,1). Al tempo di Gesù, questo era oggetto di discussione tra due scuole rabbiniche: quella rigorista di Shammai che riconosceva legittimo motivo solo il caso di adulterio da parte della moglie, quella lassista di Hillel che ammetteva come valido qualsiasi motivo, anche il più futile. I farisei con la loro domanda «mettono alla prova» Gesù, volendo indurlo subdolamente a pronunciarsi a favore o dei rigoristi o dei lassisti, per poi accusarlo.

     «Per la durezza del vostro cuore» (vv. 5-6). Gesù non si lascia coinvolgere nelle dispute di scuola, ma si vale di due principi ermeneutici che risolvono l’apparente problema: il primo dichiara che la legge mosaica non ha valore di precetto, ma di «concessione» accordata alla «durezza di cuore» (in greco sklerokardìa), vale a dire all’incapacità umana di intendere e fare la volontà di Dio. Il secondo principio risale alla volontà originaria di Dio («all’inizio»), che si esprime nel suo progetto creatore, anteriormente al peccato e alla ribellione dell’uomo, volontà divina che nessuna legge successiva può invalidare.

     «Chi ripudia la propria moglie… e se lei, ripudiato il marito» (vv. 11-12). Donna ed uomo sono messi sullo stesso piano. Non è solo la donna colpevole di adulterio verso il marito (come si riteneva al tempo di Gesù, stando a come viene enunciata la domanda dei Farisei), ma anche il marito si rende colpevole di adulterio se rimanda la propria moglie e prende una donna sposata. I diritti sono uguali, in linea con quello che Gesù ha detto sulla volontà originaria di Dio. Chiunque li lede, uomo o donna, commette peccato di adulterio.

     «Gli presentavano dei bambini perché li toccasse» (vv. 13-16). Posta ad immediato seguito delle dichiarazioni precedenti, la scena dei bambini e le parole che Gesù rivolge ai discepoli (v. 15) assumono un significato particolare. La «logica» su cui è fondato il vincolo matrimoniale è la stessa che si richiede per entrare nel regno di Dio: i bambini sono simbolo di questa logica, che non si ostina a far valere i propri diritti o a misurare i torti degli altri, che non persegue secondi fini, né avanza pretese, ma si affida a Dio con assoluta semplicità filiale.

  

Meditazione

Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18). Dopo averlo chiamato alla vita, il desiderio di Dio chiama l’uomo alla comunione. Non nella solitudine, ma nell’incontro e nella relazione l’adam può essere davvero a immagine e somiglianza di Colui che lo ha creato e lo custodisce nell’esistenza. «Voglio fargli un aiuto», afferma più precisamente Dio. ‘Aiuto’ in ebraico è detto con un termine (‘ezer) che solitamente nel Primo Testamento ha per soggetto Dio. Dio è infatti ‘aiuto’ per l’uomo, ma la sua prossimità e il suo sostegno si rendono presenti anche mediante le relazioni che gli uomini vivono tra loro. Soprattutto in quella relazione singolare che si stabilisce tra l’uomo e la donna, dove l’alterità, non l’uguaglianza, diventa luogo di comunione. Tra noi essere umani non possiamo vivere un’alterità maggiore di quella che sussiste tra l’uomo e la donna, eppure è proprio questa differenza a essere chiamata a diventare una ‘sola carne’. «Per

questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (v. 24). È questa unità nella differenza a divenire segno dell’alleanza, cioè di quel rapporto con Dio che all’uomo è donato di accogliere nella sua esistenza. Dio è l’Altro, il Trascendente, il Creatore, eppure con l’uomo egli vuole stabilire la sua comunione, oltrepassando ogni distanza. Vivendo in una relazione d’amore e di dono reciproco, fino a divenire una sola carne, l’uomo e la donna intuiscono che tale deve essere anche la loro relazione con Dio: persino la differenza che c’è tra il Creatore e la sua creatura può essere vissuta – questo Dio promette ad Adamo donandogli Eva – non come lontananza o separazione, ma come spazio di dono, di incontro, di comunione. L’astuzia del serpente ingannerà Adamo ed Eva; mentendo li indurrà a credere il contrario. La distanza che c’è da Dio è incolmabile, Dio non la vuole riempire con il suo dono e la sua prossimità, e allora Adamo, questa è la terribile suggestione del peccato, dovrà conquistarla con le sue mani, anziché accoglierla da quelle di Dio. E il peccato comprometterà non solo la buona relazione con Dio, ma anche quella tra Adamo ed Eva. Tra loro, anziché la logica del dono, si insinuerà, a causa del peccato, quella del potere o del possesso.

     La comunione, infatti, ha i suoi criteri. Diventare una sola carne è possibile solo se si è disposti ad assumere in se stessi la logica di Dio. Il racconto della Genesi ce lo ricorda, con un linguaggio simbolico, ma nello stesso tempo suggestivo ed eloquente. Eva è creata ed è donata ad Adamo nel sonno, mentre costui dorme. Adamo non ha nessun potere su di lei. Non è lui a progettarla, a immaginarla, neppure a meritarla; la può solo accogliere come dono gratuito per la sua vita. Se può imporre il nome a tutte le altre creature del giardino, non può farlo con Eva. «La si chiamerà donna» (v. 23). Più che imporre un nome, Adamo deve riconoscerlo e riceverlo da altri. Nel simbolismo biblico dire il nome di una realtà significa poter esercitare il proprio dominio su di essa. Ma non sarà così tra Adamo ed Eva.

     Adamo non potrà dominare Eva né esserne dominato: sono l’uno davanti all’altra, nella loro reciproca uguaglianza, «osso delle mie ossa e carne della mia carne» (v. 23). Diversi, ma eguali; diversi non per dominarsi o sottomettersi, ma per essere in comunione l’uno con l’altra. Adamo dorme, ma Dio gli dona Eva togliendogli una delle costole e richiudendo la carne al suo posto (cfr. v. 21). Questa ferita è come il simbolo della vita di Adamo che deve aprirsi a sua volta al dono. Eva è un dono di Dio per Adamo, ma è un dono che passa attraverso la vita stessa di Adamo che nella ferita del suo costato viene dischiusa al dono. Ricevendo il dono di Dio Adamo riceve se stesso in modo diverso, come un donatore. La sua è una ferita aperta e richiusa, perché è entrando in questo spazio del dono che la vita di Adamo si compie pienamente. Solo in questo momento egli diviene compiutamente uomo, in una sorta di seconda nascita. «Così l’uomo nasce facendo nascere» (P. Beauchamp). La benedizione di Dio, il suo dono per la nostra vita, lo si accoglie sempre così: nello spazio di una ferita, di un’esistenza cioè che si lascia trasformare e aprire dall’azione di Dio non alla dinamica del possesso, ma a quella del dono.

     Nell’evangelo Gesù ricorda che è per la durezza del nostro cuore che Mosè scrisse la norma sul ripudio, ma non è questo il disegno originario del Padre. Un cuore duro è appunto un cuore che non sa vivere in questa logica di Dio, segnata dalla gratuità e dal dono, che consente la vera comunione tra Dio e tra di noi, e anche tra l’uomo e la donna. Più che alla stregua di un mero precetto, le parole di Gesù sono da intendersi come una promessa. A chi accoglie la logica del Regno, che è il compimento del disegno creaturale del Padre, liberato e riscattato dal peccato introdotto dalla durezza di cuore dell’uomo, è offerta una possibilità nuova. Gesù lo dirà poco più avanti, sempre in questo capitolo, ai discepoli stupiti di fronte alle sue parole sulla ricchezza. «”E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: “E chi può essere salvato?”. Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio”» (Mc 10,25-27). La radicalità richiesta al matrimonio è simile a quella richiesta alla povertà: c’è un’impossibilità che l’uomo sperimenta a motivo della durezza del proprio cuore, che però può aprirsi ad accogliere la possibilità che viene da Dio. La Legge di Mosè si è fatta carico del peccato dell’uomo offrendo un rimedio misericordioso alla durezza del suo cuore. Ma Gesù è più grande di Mosè e della sua Legge, egli ci offre non solo un rimedio, ma una possibilità nuova dentro la nostra impossibilità. L’indissolubilità del matrimonio è «l’espressione del mondo che viene: solo chi partecipa del Regno nella sequela del re (cioè Cristo) ne diventa capace» (D. Attinger). In questo modo la fedeltà dell’amore tra l’uomo e la donna diviene davvero segno trasparente di ciò che Dio congiunge (cfr. v. 9). A unire l’uomo e la donna in modo indissolubile non è tanto un atto estrinseco o giuridico di Dio, quanto la qualità del suo amore che nel Regno ci viene donata, un amore fedele, accogliente, fecondo. Da questo amore niente, neppure il peccato o la durezza del nostro cuore può separarci, come ricorda Paolo in Rm 8,35-39, e questo amore, regnando su di noi, ci consente di superare ogni possibile lontananza o separazione, vivendole nei vincoli di una più forte comunione.

     È allora significativo che, a queste parole sulla radicalità del matrimonio, Marco aggiunga subito dopo ciò che Gesù dice benedicendo i bambini che vengono a lui: «a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (v. 14-15). Negli evangeli il bambino è simbolo di chi è debole, piccolo, impotente. Non può fare affidamento sulle proprie forze, ma su ciò che ancora deve attendere e ricevere da altri. Si accoglie così il regno di Dio: come un dono da ricevere senza pretendere di conquistarlo confidando nelle nostre possibilità. Gesù accoglie i bambini e nello stesso tempo sottolinea il loro bisogno di dover accogliere. Tale è il regno di Dio: da un lato è la manifestazione di un amore che ci accoglie persino nelle nostre debolezze; dall’altro è la manifestazione di un amore che si dona gratuitamente alle nostre debolezze rendendoci capaci di ciò che altrimenti ci rimarrebbe impossibile.

     Di questo amore la Chiesa è chiamata a farsi segno anche verso i rapporti coniugali tra l’uomo e la donna. Da un lato deve annunciare una radicalità, quale l’indissolubilità del matrimonio, che in Gesù Cristo diviene possibile perché egli guarisce e scioglie la durezza del cuore umano; dall’altro deve rimanere come Gesù accogliente delle debolezze e delle impossibilità che gli uomini sperimentano, come bambini. Ma a chi è come loro appartiene il regno di Dio!

 

L’immagine della domenica

 
 

Siate uniti, ma non troppo vicini;

le colonne del tempio si ergono distanti,

e la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro.

(da Il Profeta, di Kahlil Gibran).


Preghiere e racconti

 

Dio garante dell’indissolubilità

Il matrimonio è più del vostro amore reciproco,

ha maggiore dignità e maggiore potere.

Finché siete solo voi ad amarvi,

il vostro sguardo si limita nel riquadro isolato della vostra coppia.

Entrando nel matrimonio siete invece un anello della catena di generazioni che Dio fa andare e venire e chiama al suo regno.

Nel vostro sentimento godete solo il cielo privato della vostra felicità.

Nel matrimonio invece venite collocati attivamente nel mondo e ne diventate responsabili.

Il sentimento del vostro amore appartiene a voi soli.

Il matrimonio, invece, è una investitura, un ufficio.

Per fare un re non basta che lui ne abbia voglia. Occorre che gli riconoscano l’incarico di regnare.

Così non è la voglia di amarvi che vi stabilisce come strumento di vita.

E’ il matrimonio che ve ne rende atti.

Non è il vostro amore che sostiene il matrimonio.

E’ il matrimonio che, d’ora in poi, porta sulle spalle il vostro amore.

Dio vi unisce in matrimonio: non lo fate voi, è Dio che lo fa.

Dio protegge la vostra unità indissolubile di fronte a ogni pericolo che la minaccia dall’interno e dall’esterno.

Dio è il garante dell’indissolubilità.

E’ una gioiosa certezza sapere che nessuna potenza terrena,

nessuna tentazione,

nessuna debolezza potranno sciogliere ciò che Dio ha unito.

(Dietrich Bonhoeffer)

 

Una carne sola: Dio congiunge le vite, è autore della comunione

In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma.

Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».

Alcuni farisei si avvicinano a Gesù per metterlo alla prova. La domanda è scontata: è lecito a un marito ripudiare la moglie? La risposta è facile: sì, è lecito. Ma non è questa la vera posta in gioco. Il brano mette in scena uno dei conflitti centrali del Vangelo: il cuore della persona o la legge? Gesù afferma una cosa enorme: non tutta la legge ha origine divina, talvolta essa è il riflesso di un cuore duro (per la durezza del vostro cuore Mosè diede il permesso del ripudio…).

La Bibbia non è un feticcio. E per questo Gesù, infedele alla lettera per essere fedele allo spirito, ci prende per mano e ci insegna ad usare la nostra libertà per custodire il fuoco e non per adorare la cenere! (Gustav Mahler). C’è dell’altro, più importante e più vitale di ogni norma, e sta dalle parti di Dio. A Gesù non interessa regolamentare la vita, ma ispirarla, accenderla, rinnovarla, con il sogno di Dio. Ci prende per mano e ci accompagna a respirare l’aria degli inizi: in principio, prima della durezza del cuore, non fu così.

L’uomo non separi quello che Dio ha congiunto. Dal principio Dio congiunge le vite! Questo è il suo nome: Dio-congiunge, fa incontrare le vite, le unisce, collante del mondo, legame della casa, autore della comunione. Dio è amore, e «amore è passione di unirsi all’amato» (san Tommaso). Il Nemico invece ha nome Diavolo, Separatore, la cui passione è dividere.

L’uomo non divida, cioè agisca come Dio, si impegni a custodire la tenerezza, con gesti e parole che creano comunione tra i due, che sanno unire le vite. Tutto parte dal cuore, non da una norma esterna. Chi non si impegna totalmente nelle sue relazioni d’amore ha già commesso adulterio e separazione. Il peccato è tradire il respiro degli inizi, trasgredire un sogno, il sogno di Dio.

Portavano dei bambini a Gesù… Ma i discepoli li rimproverarono. Al vedere questo, Gesù si indignò. È l’unica volta, nei Vangeli, che viene attribuito a Gesù questo verbo duro. L’indignazione è un sentimento grave e potente, proprio dei profeti davanti all’ingiustizia o all’idolatria: i bambini sono cosa sacra. A chi è come loro appartiene il regno di Dio. I bambini non sono più buoni degli adulti; non sono soltanto teneri, ma anche egocentrici, impulsivi e istintivi, però sanno aprire facilmente la porta del cuore a ogni incontro, non hanno maschere, sono spalancati verso il mondo e la vita.

I bambini sono maestri nell’arte della fiducia e dello stupore. Loro sì sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, si fidano della vita, credono nell’amore. Prendendoli fra le braccia li benediceva: perché nei loro occhi il sogno di Dio brilla, non contaminato ancora.

(Ermes Ronchi)

 

La chiamata a essere amanti come Dio ama

La parte più lunga del vangelo di questa domenica (gli ultimi quattro versetti narrano dell’incontro tra Gesù e i bambini e delle rimostranze dei discepoli) ci testimonia un confronto di Gesù con alcuni farisei, i quali lo mettono alla prova, lo tentano, cercando di sorprenderlo in errore riguardo alla tradizione dei padri, sul tema della possibilità del divorzio.

Questo annuncio evangelico è esigente, chiaro: da una parte ci scandalizza, soprattutto se conosciamo la faticosa realtà della vicenda nuziale; dall’altra, lo stesso brano può essere utilizzato come un bastone, per giudicare e condannare chi è in contraddizione con le parole chiare e piene di parrhesía pronunciate da Gesù.

Per questo, ogni volta che devo predicare su questo testo mi metto in ginocchio non solo davanti al Signore, ma anche davanti ai cristiani e alle cristiane che vivono il matrimonio, per dire loro che, certo, rileggo le parole di Gesù e le proclamo, ma senza giudicare, senza minacciare, senza l’arroganza di chi si sente immune da colpe al riguardo, memore di ciò che Gesù afferma altrove: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore” (Mt 5,28).

Chi legge queste parole di Gesù non sta dall’altra parte, in uno spazio esente dal peccato, ma innanzitutto si deve sentire solidale con quanti, nel duro mestiere del vivere e nell’ancor più duro mestiere del vivere in due nella vicenda matrimoniale, sono caduti nella contraddizione alla volontà del Signore. Non posso dunque fare altro che offrire qui alcuni semplici spunti di meditazione, eco della parola di Dio contenuta nelle sante Scritture.

Nel millennio dell’Antico Testamento la pratica del divorzio era comune in tutto il medio oriente e il mondo mediterraneo. Il divorzio era una realtà normata dal diritto privato, che lo prevedeva solo su iniziativa del marito. Il matrimonio era un contratto, neppure scritto, e dobbiamo riconoscere che nell’Antico Testamento non vi è nessuna legge sul matrimonio. Il brano del Deuteronomio a cui certamente si riferiscono i farisei (Dt 24,1-4) in verità appartiene alla casistica e non alla dottrina, perché mette a fuoco un caso particolare, e di conseguenza deve essere recepito con dei limiti ben precisi. Si legge in quel testo:

Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualcosa di vergognoso (‘erwat davar, lett.: “nudità di qualcosa”), scriva per lei un certificato di ripudio, glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa (Dt 24,1).

Viene dunque contemplato il caso in cui l’uomo trovi nella moglie “qualcosa di vergognoso”, espressione assai vaga che i rabbini interpretano in modi molto diversi; in tal caso, il marito ha la possibilità di divorziare. A certe condizioni, pertanto, il divorzio è permesso e ne è prevista la procedura, ma da questo non si può concludere che nella Torah, nella Legge di Mosè vi sia una dottrina sul matrimonio e la sua disciplina. D’altra parte, i profeti, i sapienti e gli stessi testi essenici non offrono posizioni certe e chiare che escludano il divorzio e proclamino che la Legge di Dio lo vieta.

Ma ecco che Gesù è chiamato dai farisei a esprimersi proprio su questa possibilità: “È lecito a un marito ripudiare la propria moglie?”. Egli risponde con una domanda: “Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. Ed essi a lui: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla”. È come se gli dicessero: “Questa è la Torah!”.

Gesù allora interviene in modo sorprendente: non entra nella casistica religiosa a proposito della Legge; non si mette a precisare le condizioni necessarie al ripudio, come facevano i due grandi rabbi del suo tempo, Hillel e Shammai; non si schiera dalla parte dei rigoristi né da quella dei lassisti. Nulla di tutto questo: Gesù vuole risalire alla volontà del Legislatore, di Dio. In tal modo egli ci fornisce un principio decisivo di discernimento nel leggere e interpretare la Scrittura: fare riferimento all’intenzione di Dio (e non a tradizioni umane: cf. Mc 7,8.13!), che attraverso le sua parola messa per iscritto vuole rivelarci la sua volontà.

Questa dunque la replica di Gesù ai suoi interlocutori: “Per la durezza del vostro cuore (sklerokardía) Mosè scrisse per voi questa norma. Ma nell’in-principio (be-reshit, en archê: Gen 1,1) della creazione Dio ‘li fece maschio e femmina’ (Gen 1,27); ‘per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola’ (Gen 2,24). Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”.

Gesù risale al disegno del Creatore, alla creazione dell’adam, il terrestre tratto dall’adamah, la terra (cf. Gen 2,7; 3,19), fatto maschio e femmina perché insieme i due vivano nella storia, la storia dell’amore, la storia della vita, l’uno di fronte all’altra, volto contro volto, in una reciproca responsabilità, chiamati nel loro incontro a diventare una sola realtà, una sola carne.

In questo incontro di amore c’è la chiamata a essere amanti come Dio ama, essendo lui amore (cf. 1Gv 4,8.16); in questo incontro c’è l’arte e la grazia del dono gratuito l’uno all’altra, a cominciare dal proprio corpo; c’è l’alleanza che fa sì che l’incontro sia storia nel tempo e tenda dunque all’eternità, fino alla morte, per andare anche oltre la morte.

Questa la volontà di Dio nel creare il terrestre e nel porlo nel mondo quale sua unica immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26-27). È un mistero grande, ma tanto grande che è difficile per dei terrestri fragili, deboli e peccatori viverlo in pienezza. In verità, sappiamo quanta miseria si sperimenti in questo faticoso incontro, come sia facile la contraddizione, come questo capolavoro dell’arte del vivere insieme nell’amore sia perseguibile, e mai pienamente, solo con l’aiuto della grazia, con l’efficacia del Soffio santo del Signore.

Eppure l’annuncio di Gesù permane, in tutta la sua chiarezza: “L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. Subito dopo, questa parola dura ed esigente viene spiegata da Gesù ai suoi discepoli, nella casa in cui la comunità si ritrovava. E viene spiegata con un’aggiunta straordinaria per la cultura del tempo, visto che Gesù mette sullo stesso piano la responsabilità dell’uomo e quella della donna: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”.

Certo, Mosè ha cercato di umanizzare la pratica del divorzio, imponendo al marito di percorrere una via giuridica di rispetto per la donna. Ma Gesù, proprio guardando alla durezza di cuore dei destinatari della Torah, osa andare ben oltre, mettendo in evidenza la volontà, l’intenzione del Creatore.

Del resto, lo aveva già fatto altre volte, svelando, per esempio, la volontà di Dio sul sabato e sulla sua osservanza (cf. Mc 2,23-28): qui, là, sempre Gesù si fa interprete autentico della Legge non attraverso vie legalistiche, non attraverso interpretazioni fondamentaliste, ma annunciando profeticamente la volontà di Dio a tutti, in particolare ai peccatori pubblici e agli esclusi, da lui sempre accolti, perdonati, mai condannati.

È con questo annuncio del Vangelo che si apre il sinodo sul tema della vita familiare voluto da papa Francesco. I padri sono chiamati ad ascoltare lo Spirito santo nella docilità e nell’umiltà, per ridire oggi la volontà di Dio, che può solo e sempre essere espressa alla luce della sua misericordia.

(Enzo Bianchi)

Il diverso

Il “diverso” originario è la donna nei confronti dell’uomo e l’uomo nei confronti della donna. E pertanto se il riconoscimento della diversità non è in primo luogo riconoscimento della diversità della sessualità umana, il sociale umano resta sempre esposto al rischio di discriminazioni ingiuste. Proprio perché il tutto dell’humanum è presente potenzialmente nella particolarità di ciascuna diversità, la pienezza della persona si realizza nella loro unità. L’uomo è per la donna e la donna è per l’uomo poiché solo uomo e donna dicono la verità intera della persona umana.

L’intrinseca bontà o valore dell’istituto matrimoniale consiste precisamente in questo: esprime-realizza in radice nell’unità uomo-donna l’humanum nella sua interezza. Bontà e preziosità che non si trova in nessun altra relazione sociale. Tocchiamo un punto fondamentale della vicenda umana e della sua comprensione. Provo a dirlo in modo breve e per quanto riesco semplice. All’origine, al “principio” della vicenda umana non stanno tante unità chiuse in se stesse. Sta una dualità; un rapporto: un uomo e una donna. Il dato umano originario non è l’identità, ma la relazione; la “figura” dell’incontro non è il contratto di individui originariamente estranei, ma è l’incontro nell’amore fra due persone diverse: uomo e donna.

(Cardinale Carlo Caffarra, Matrimonio e laicità dello Stato”, Congresso Teologico-Pastorale Internazionale di Valencia, 4 luglio 2006).

I cervi

Si racconta che i cervi quando vogliono recarsi al pascolo, in certe isole  lontane dalla costa,  per attraversare la lingua di mare poggiano la testa sulla schiena altrui.

Succede così che uno soltanto, quello che apre la fila, tiene alta la propria testa senza appoggiarla sugli altri; quando però egli si è stancato, si toglie dal davanti e si mette per ultimo, sicché anche lui può appoggiarsi sul compagno.

In questo modo tutti insieme portano i loro pesi e giungono alla meta desiderata: non affondano perché l’amore fa loro da nave.

(S. Agostino)

 

Due in una sola carne

Dove potrei trovare parole in grado di descrivere quel matrimonio che la chiesa unisce, che l’offerta eucaristica conferma e la benedizione sigilla, gli angeli proclamano e il Padre ratifica? Difatti nemmeno qui in terra i figli possono contrarre il matrimonio secondo le norme stabilite e secondo il diritto vigente senza il consenso paterno. Quale coppia è mai quella di due cristiani, uniti da una sola speranza, un solo desiderio, una sola disciplina, un solo servizio di Dio! Ambedue sono fratelli, uguali tutti e due in quel loro servizio. Niente li separa né nello spirito, né nella carne; al contrario, sono veramente due in una sola carne (cfr. Gen 2,24; Mt 19,6; 1Cor 6,16; Ef 5,31). E dove vi è una sola carne, lì vi è pure un solo spirito. Infatti insieme pregano, insieme si prostrano davanti a Dio, insieme osservano le prescrizioni del digiuno, a vicenda si istruiscono, a vicenda si esortano, a vicenda si riconfortano. Tutti e due si riconoscono in perfetta uguaglianza nella chiesa di Dio, in perfetta uguaglianza nel banchetto di Dio, in perfetta uguaglianza nelle prove, nelle persecuzioni, nelle consolazioni. Nessuno dei due si nasconde all’altro, nessuno si sottrae all’altro, nessuno è di peso all’altro. […] Tra loro due risuonano salmi e inni, si sfidano reciprocamente a chi canta meglio al Signore. Cristo gioisce al vedere e ascoltare queste cose e invia loro la sua pace (cfr. Gv 14,27). Là dove due sono riuniti, egli è là, presente (cfr. Mt 18,20) e là dove egli è presente, non c’è il Malvagio.

(TERTULLIANO, Alla consorte 2,8,6-8, SC 273, pp. 148-151).

 

La vita in due

Grazie, Signore

perché ci hai dato l’amore

capace di cambiare le cose.

Quando un uomo e una donna

diventano uno nel matrimonio

non appaiono più

come creature terrestri

ma sono l’immagine stessa di Dio.

Così uniti non hanno paura di niente

con la concordia, l’amore e la pace

l’uomo e la donna sono padroni

di tutte le bellezze del mondo.

 Possono vivere tranquilli

protetti dal bene che si vogliono

secondo quanto Dio ha stabilito.

 Grazie, Signore

per l’amore che ci hai regalato.

(S. Giovanni Crisostomo).

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXVII DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:Numeri 11,25-29

In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito. Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento.  Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento». Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!».

 

 

v Il c. 10 dei Numeri ha concluso la raccolta dei testi dedicati alla rivelazione del Sinai e col c. 11 riprende il viaggio faticoso e pieno di imprevisti verso la terra promessa.

     Mosè, dopo l’ennesimo lamento del popolo, scoraggiato davanti alla vastità del compito a lui affidato, si lamenta a sua volta col Signore. «Perché hai agito così male verso il tuo servo? E perché non ho trovato grazia presso di te, così che tu mi abbia messo addosso tutto il peso di questo popolo? Ho forse concepito io tutto questo popolo? L’ho forse generato

io, perché tu mi dica: portalo in collo, come una balia un lattante… Non posso io solo reggere tutto questo popolo… Ma se tu vuoi trattarmi in tal modo, deh uccidimi» (Num 11,10-12.14-15).

     È venuto il momento di non affidarsi più al solo carisma di un capo, ma di perfezionare le istituzioni per assicurare la sopravvivenza del popolo.

     Dio viene incontro alla richiesta di Mosè e gli ordina di radunare settanta anziani. Mosè allora compila la lista degli anziani e li invita intorno alla tenda del convegno.

     Siamo così al brano di oggi che si snoda in tre quadri:

1. «Il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani» (Num 11,25). Essi ricevono lo spirito di Mosè. Il loro carisma, diremmo con la parola moderna, è lo stesso dato alla loro guida. Essi hanno, per così dire, un potere delegato, che vale se esercitato insieme con Mosè. All’autore biblico, però, non interessa tanto il problema dell’istituzione di un consiglio in aiuto di Mosè, quanto quello dell’esercizio della profezia.

     Egli annota che «quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito» (v. 25). Il compito di governo e quello profetico non sono legati automaticamente.

2. «Erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento» (cf. v. 26).

     Il redattore non dice come per gli altri che «Dio prese lo spirito di Mosè». Eldad e Medad hanno direttamente da Dio senza mediazioni il dono dello spirito, che li abilita a profetizzare. Non c’è nemmeno l’annotazione, come per gli altri, che «non lo fecero più in seguito» (v. 25): essi diventano profeti e lo rimangono, anche se non hanno accolto l’incarico di aiutare Mosè nel governo del popolo.

3. Giosuè allora si fa in dovere di avvertire Mosè e gli consiglia di impedire loro di profetare. Egli non riesce a concepire un rapporto personale e libero con Dio senza la mediazione dell’istituzione e un potere che non sia un’emanazione di quello del capo (cf. v. 27-28).

     Mosè, invece, risponde dimostrando grande umiltà e grandezza d’animo: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!», (v. 29).

     Mosè, potremmo dire, è aperto a una partecipazione democratica di tutto il popolo al suo governo e, soprattutto, riconosce la libertà di Dio e sa apprezzare i suoi doni in chiunque li abbia ricevuti.

 

Seconda lettura: Giacomo 5,1-6

Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza.    

 

 

v I primi tre versetti del brano del c. 5 della lettera di Giacomo, che leggiamo oggi, sono un avvertimento ai ricchi fatto con immagini costruite per impressionare, risvegliare dall’illusione del benessere egoista e distogliere dall’ingiustizia: beni imputriditi, vestiti invasi dalle tarme, oro e argento addirittura arrugginiti! Le ricchezze si tramuteranno in «fuoco» per i proprietari, che le hanno accumulate ingiustamente e che sono insensibili ai bisogni altrui, saranno cioè causa della loro distruzione.

     Il fuoco del v. 3 fa pensare non solo a un castigo terreno, ma anche a quello escatologico (cf. ad es. Am 1,12-14:7,4; Mt 18,8; Mc 9,43.48). Siamo ormai entrati nel tempo del giudizio, ma i ricchi non se ne sono accorti: «Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!» (v. 3), «vi siete ingrassati per il giorno della strage».

     Le colpe gravissime dei ricchi, enunciate nei vv. 4-6 sono aggravate dall’essere commesse con continuità, fino all’ultimo giorno di vita, senza badare che la vita è in realtà già fuggita. In mezzo alle gozzoviglie non si sono accorti che le grida dei mietitori defraudati «sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente» (v. 4) e si sono fidati, nell’uccidere il giusto, che egli non poteva opporre resistenza (v. 6) e nessuno avrebbe preso le sue difese: la condanna di chi agisce in questo modo non può che essere definitiva.

 

Vangelo: Marco 9,38-43.45.47-48

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».

 

 

Esegesi

     L’episodio riportato nei versetti 38-39 del cap. 9 di Marco ha il suo parallelo in Lc 9,49-50, mentre non è riportato da Matteo. Del v. 38 esistono due lezioni, questa «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché (oti) non ci seguiva» assimilata a Lc 9,49 e un’altra: «abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e che (os) non era dei nostri e…». Si tratta di una sfumatura interessante per fare la storia della redazione del testo e per cogliere l’atteggiamento dei discepoli, ma che non muta la sostanza del fatto. La proibizione da parte dei discepoli è un sopruso che Gesù stigmatizza nella sua risposta «Non glielo impedite».  I discepoli non sono padroni della potenza del nome di Gesù; essa è data da Dio e solo Dio ne dispone nei tempi e nei modi che egli ha deciso. L’avvenuto miracolo attesta che chi l’ha operato ha agito con corretta intenzione: «non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me».

     Nella chiesa primitiva, secondo il racconto degli Atti (cf. 19,13), si verificavano usi distorti del nome di Gesù, ma il fallimento smaschera colui che ha tentato di appropriarsi della sua potenza in modo magico o superstizioso. Il detto ripreso da Gesù: «chi non è contro di noi è per noi» sottolinea lo spirito di apertura e di accoglienza della risposta di Gesù nei confronti dell’atteggiamento precedente dei discepoli. Non dobbiamo leggere queste parole di Gesù nella forma contraria dell’altro detto: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12,30; Lc 11,23) e così farne una bandiera per escludere. C’è infatti una enorme differenza fra il «noi» (Lc 9,50 ha addirittura «voi») e il «me», vale a dire fra il gruppo dei discepoli e Gesù stesso. È da tenere presente poi che l’espressione di Gesù «Chi non è con me è contro di me», va letta anche con il seguito: «chi non raccoglie con me disperde», che fa capire che si tratta di una constatazione, non di un giudizio. Senza Gesù i discepoli non possono far niente, ma la potenza di Dio manifestata in Gesù non è possesso esclusivo dei discepoli.

     L’accostamento fatto dalla liturgia di oggi al brano dei Numeri accentua questa interpretazione: Gesù rimprovera i discepoli, come Mosè fa con Giosuè, che vuole impedire la profezia non autorizzata. Il dono dello Spirito di Dio, la profezia, e la potenza dello Spirito che agisce vanno riconosciuti, non autorizzati dai discepoli. Anzi, come testimonia l’episodio dell’incapacità dei discepoli a guarire un indemoniato (cf. Mc 9,17s) narrato da Marco nello stesso capitolo, non è l’appartenere alla cerchia dei discepoli, che abilita a «cacciare i demoni», ma il dono di Dio e le disposizioni adatte ad accogliere questo dono.

     Il detto del versetto 41 è probabilmente inserito a questo punto per la formula «nel nome». Luca non lo riporta e Matteo lo inserisce nell’episodio della missione (Mt 10,42). I detti che seguono sono accumunati dall’espressione: «essere di intralcio» scandalizzo. Essi sembrano essere stati compilati con un intento catechetico, con formule che aiutano ad essere ritenute a memoria (cf. V. TAYLOR Marco. Commento al Vangelo messianico, Assisi 1977, 474-476).

     Le rinunce sono in vista di «entrare nella vita» zoê distinta da bios, che indica in genere nel Nuovo Testamento la vita in comunione con Dio. La Geenna era originariamente il nome di una valle ad ovest di Gerusalemme, dove venivano offerti bambini in sacrificio a Moloch (cf. 2Re 23,10; Ger 7,31; 19,5s), sconsacrata da Giosia venne adibita alla bruciatura dei rifiuti. Essa divenne in seguito simbolo di luogo di pena.

     «Essere gettato nella Geenna» in contrasto con «entrare nella vita» significa la rovina spirituale e forse anche la distruzione. La precisazione «nel fuoco inestinguibile» è fatta per rendere chiaro il simbolo della «Geenna» agli ascoltatori che non conoscevano la tradizione legata alla valle di Gerusalemme; insieme con l’aggiunta, «dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» è un riferimento a Is 66,24: «E vedranno i cadaveri degli uomini a me ribelli, che il loro verme non muore e il loro fuoco non si spegne» (cf. V. TAYLOR, o.c., 478).

 

Meditazione 

     Un brano evangelico composito, con espressioni pronunciate da Gesù in varie occasioni e qui raccolte per fornire indicazioni sulla qualità del proprio essere discepoli nella dimensione comunitaria.

     Il tema del primo avvertimento – il tono generale del testo vuole spiccatamente mettere in guardia da alcuni ‘eccessi’ – viene trattato anche nella prima lettura, tratta dal libro dei Numeri e inerente un fatto avvenuto nel corso del cammino nel deserto, mentre il popolo usciva dall’Egitto per andare verso la terra promessa. Quando una comunità si struttura e si organizza, manifesta ed evidenzia la propria volontà di crescere, di camminare lungo un itinerario di maturazione. Non è un cammino facile né immediato: richiede tempo, ascolto, conoscenza e stima reciproche, capacità di valorizzazione delle caratteristiche di ogni persona, accoglienza e sopportazione delle inevitabili fragilità, soprattutto il ‘miracolo’ di riuscire ad armonizzare, con un impiego notevole di energie, tutte le componenti della comunità stessa. La testimonianza di Paolo, riportata nei capitoli 12-14 della prima lettera ai Corinzi, è di una attualità e di una concretezza sorprendenti. Si intuisce – e lo sperimenta immediatamente chi vive in una comunità, a partire da quella familiare – che l’auspicata armonia è sempre precaria e necessita di attenta vigilanza e premurosa cura da parte di tutti i suoi membri, nessuno escluso. Ma con la grazia del Signore e tanta buona volontà si possono raggiungere buoni, addirittura ottimi risultati!

     In queste comunità si potrebbe dire che la vita funzioni tanto bene che… tutto diviene intoccabile, è tanto perfetta che non la si può più modificare in nulla. Ognuno ha il suo spazio, il suo incarico – che svolge con grande diligenza e professionalità, indipendentemente che si tratti di liturgia, carità, educazione… – e la sua azione non può essere intralciata o sostituita da nessun altro. Quello che era nato come servizio gratuito nell’ambito di una comune sequela del Signore, diviene possesso geloso e intollerante. Se qualcuno, dall’esterno, tenta di entrare nella comunità, viene sottoposto ad un processo di ‘istruzione’ per fargli riconoscere tutta e sola la positività della vita comunitaria. Figuriamoci cosa può succedere a costui se si azzarda a ipotizzare dei cambiamenti, magari a paventare delle critiche… Se giunge addirittura – non sia mai! – a fare del bene, magari dello stesso tipo di quello svolto dalla comunità, ma senza il benestare e l’autorizzazione della comunità stessa, si può arrivare all’interdizione pubblica…! (cfr. v. 38). E allora ci si accorge che non si è poi così lontani da stili e modalità sempre più spesso espressi da entità politiche, sociali, agonistiche. È vero, queste forse non si fregiano del titolo – davvero qualificativo – di comunità ma forse anche nelle prime si è un po’ smarrito il senso di questo termine. C’è chi ha scritto ‘Dio è con noi’ sulle cinture dei soldati, affermando implicitamente che non era pertanto con quanti stavano dall’altra parte della barricata: auguriamoci che queste volgari e indecenti strumentalizzazioni del nome di Dio non raggiungano anche le comunità dei credenti in Cristo.

     Ma se ciò avviene, non spaventiamoci: le forze egocentriche dell’uomo rialzano continuamente la testa e davvero la vigilanza e la revisione si impongono a tutti i livelli. Certo è che se l’efficienza – anche quella del bene – scalza il ruolo delle persone e diviene strumento per imporsi sugli altri, allora anche l’altra, severissima, parola di Gesù, riportata al v. 42 e nei versetti seguenti, «chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui che gli si mettesse una mola d’asino al collo e fosse gettato nel mare», ci risulta forse meno strana e incomprensibile. Certamente un paradosso, da non prendere alla lettera, ma, appunto, un serio avvertimento. Non c’è ‘opera di bene’ che possa calpestare con diritto qualcuno! Quando si smarrisce l’attenzione ai più fragili, esposti, poco istruiti, umili – questo il senso del termine piccoli, tali quindi non solo per età – è necessario riaprirsi alla forza vivificante del vangelo per ritrovare la grazia della salvezza, per ricordare innanzi tutto che siamo dei salvati dall’amore del Signore. Allora anche il gesto semplice e alla portata di tutti del bicchiere d’acqua offerto nel nome di Gesù (cfr. v. 41), ovvero dato nella gratuità rispettosa e attenta alla singola persona, diviene epifania del Regno, speranza di un mondo migliore già qui sulla terra.

 

L’immagine della domenica

   
  

L’albero delle parole

Un viaggiatore disse ad uno dei discepoli di un grande maestro: “Sono venuto da molto lontano per ascoltare il maestro, ma non trovo niente di straordinario nelle sue parole”. Il discepolo rispose: “Non ascoltare le sue parole. Ascolta il suo messaggio”. E quello replicò: “Come si fa?”. Rispose il discepolo: “Afferra una frase che lui dice. Scuotila bene finché tutte le parole cadano. Ciò che rimarrà infiammerà il tuo cuore”.

(Parabola orientale)

 

Preghiere e racconti

Il Dio-con-noi

«Chiunque voglia fare all’uomo d’oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell’esporre il messaggio. È questa, del resto, esigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio. Il Dio della Rivelazione, infatti, è il Dio-con-noi, il Dio che chiama e salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata ad irrompere nella storia, per rivelare a ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla» (Rdc 77).

[…]

«Dio stesso, quando si rivela personalmente, lo fa servendosi delle categorie dell’uomo. Così egli si rivela Padre, Figlio, Spirito d’amore; e si rivela supremamente nell’umanità di Gesù Cristo. Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l’uomo per conoscere Dio; bisogna amare l’uomo per amare Dio».

(RdC 122).

 

Si può essere di Cristo senza appartenere al gruppo dei Dodici

 

Un uomo, che liberava altri dal male e li restituiva alla vita, viene bloccato dai seguaci di Gesù. Giovanni si fa portavoce di una mentalità gretta, fatta di barriere e di muri, per la quale non conta la vita piena dell’uomo, il vero progetto di Gesù, ma la difesa identitaria del gruppo, il loro progetto deviato. Mettono quindi l’istituzione prima della persona, la loro idea prima dell’uomo: il malato può aspettare, la felicità può attendere. Ma la “bella notizia” di Gesù non è un nuovo sistema di pensiero, è la risposta alla fame di più grande vita. Il Vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione. Infatti Gesù sorprende i suoi: chiunque aiuta il mondo a liberarsi e fiorire è dei nostri. Semini amore, curi le piaghe del mondo, custodisci il creato? Allora sei dei nostri. Sei amico della vita? Allora sei di Cristo.

Quanti seguono il Vangelo autentico, senza neppure saperlo, perché seguono l’amore. Si può essere di Cristo, senza appartenere al gruppo dei dodici. Si può essere uomini e donne di Cristo, senza essere uomini e donne della chiesa, perché il regno di Dio è più vasto della chiesa, non coincide con nessun gruppo. Allora impariamo a godere e a ringraziare del bene, da chiunque sia fatto. Quelli non sono dei nostri. Tutti lo ripetono: gli apostoli di allora e i partiti di oggi, le chiese e le nazioni davanti ai migranti. Invece Gesù era l’uomo senza barriere, uomo senza confini, il cui progetto è uno solo: voi siete tutti fratelli. Gli esseri umani sono tutti dei nostri e noi siamo di tutti, siamo gli “amici del genere umano” (Origene).

Tante volte ci sentiamo frustrati, impotenti, il male è troppo forte. Gesù dice: tu porta il tuo bicchiere d’acqua, fidati, il peggio non prevarrà. Se tutti i miliardi di persone portassero il loro bicchiere d’acqua, quale oceano d’amore si stenderebbe a coprire il mondo. Basta un sorso d’acqua per essere di Cristo. Ma l’annuncio di Gesù si fa più coraggioso: Ti darò cento fratelli, se mi segui (Mt 19,29) e intendeva dire: cento cuori su cui riposare, ma anche cento labbra da dissetare.

Il Vangelo termina con parole dure: se la tua mano, il tuo piede, il tuo occhio ti scandalizzano, tagliali. Gesù ripete un aggettivo: il tuo occhio, la tua mano, il tuo piede. Non dare sempre la colpa del male agli altri, alla società, all’infanzia, alle circostanze. Il male si è annidato dentro di te: è nel tuo occhio, nella tua mano, nel tuo cuore. Cerca il tuo mistero d’ombra e convertilo. La soluzione non è una mano tagliata, ma una mano convertita. A offrire il suo bicchiere d’acqua.

(Ermes Ronchi)

 

“Non era dei nostri”

La tentazione del credente di impedire e porre ostacolo all’azione dello Spirito se questa si manifesta in modi e forme non corrispondenti ai suoi schemi; una visione chiusa e rigida dell’appartenenza comunitaria di contro a una visione aperta e accogliente; la gelosia come grande minaccia portata alla vita comunitaria: questi alcuni temi che legano tra loro prima lettura e vangelo.

L’atto con cui i discepoli impediscono a uno sconosciuto di cacciare demoni perché non fa parte del loro gruppo (“non era dei nostri”; letteralmente: “non ci seguiva”) mostra anzitutto la frustrazione che diventa arroganza. Incapaci di scacciare il demone che affliggeva l’epilettico (cf. Mc 9,18), i discepoli proibiscono di cacciare demoni nel nome di Gesù a un estraneo che ci riusciva, e questo solo perché “non li seguiva”.

Ma quel gesto mostra anche la pretesa del gruppo dei discepoli di detenere il monopolio della presenza del Signore e di stabilire chi può accedere al “Nome” santo e chi no. È una pretesa di dominio e di potere. Alla concezione di un’identità di gruppo chiusa ed escludente propugnata dai discepoli, si oppone la concezione aperta e inclusiva di Gesù. A coloro che dicono: “Non ci segue, dunque deve essere escluso”, si oppone Gesù che dice: “Chi non è contro di noi è per noi”. Gesù non è totalitario e non afferma che tutti debbano appartenere al gruppo dei suoi discepoli. Il Nome del Signore travalica i confini della chiesa che tale Nome confessa.

Nel nostro testo, in cui appartenenza e identità del gruppo dei discepoli appaiono in primo piano, affiora anche il problema dell’inimicizia. Ai discepoli che vedono un nemico nell’esorcista estraneo, Gesù dice: “Chi non è contro di noi, è per noi”. Il rapporto chiesa-nemico si situa all’interno di una fondamentale polarità. Da un lato, se la chiesa vive la radicalità evangelica e lo spirito delle beatitudini, non può non conoscere persecuzioni e inimicizie a causa del Nome di Cristo; dall’altro, la stessa radicalità evangelica impedisce alla chiesa di fabbricarsi dei nemici, di entrare in regime di inimicizia con gli uomini non credenti o di dar nome di nemico ad “altri”, a categorie di persone o a gruppi umani che semplicemente sono segnati da diversità o estraneità. Sul problema dell’inimicizia la chiesa gioca la sua capacità di assumere e gestire, positivamente o meno, il problema dell’alterità e della differenza al proprio interno e di fronte a sé.

La Potenza e la Presenza del Signore non sono in mano ai soli cristiani, ma sono suscitate dallo Spirito e noi “dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (GS 22). Nemmeno la chiesa può pretendere questa conoscenza, pena il ridurre Dio a idolo e il divenire occasione di scandalo, cioè inciampo e ostacolo al cammino dell’uomo verso Dio. Certamente la prima accezione delle parole di Gesù sullo scandalo è comunitaria, e intravede la possibilità che un corpo comunitario si opacizzi al punto da non essere più trasparenza della presenza di Cristo. Ma tali parole hanno anche una valenza personale: occorre vigilare sul proprio agire (mani), sul proprio comportamento (piedi) e sulle proprie relazioni (occhi) per non divenire un ostacolo alla vocazione e al cammino di fede dell’altro. Anzi, occorre il coraggio della rinuncia a ciò che può ostacolare l’ingresso nel Regno, ingresso che avviene non a partire da un di più o da un pieno, ma da un vuoto, da una mancanza, da una povertà. Abbiamo qui l’esigenza (oggi forse impopolare) di un’ascesi, di una lotta, di un duro combattimento contro le tendenze che portano l’uomo a un agire, a un comportamento e una relazionalità antievangelici. Tagliare e cavare (lett. “gettare”) non sono disumane direttive da applicarsi letteralmente, ma indicazioni realistiche di una lotta da combattere ogni giorno per purificare il proprio cuore e vivere il vangelo con maggiore libertà. C’è un perdere la vita che è essenziale per trovarla in Cristo (cf. Mc 8,35).

(Luciano Manicardi)

 

Amici e amiche di Paolo

     Ho sempre immaginato il volontariato – senza conoscerlo, naturalmente, solo la non- conoscenza favorisce la certezza – un punto di intersezione tra la vocazione mancata e la consolazione di sé. Finché ho conosciuto “amici e amiche di Paolo”. Questi giovani che lo accompagnano nelle pizzerie, nei cinema, nei negozi di dischi usati, dove acquista, a prezzo di amatore, canzoni e canti popolari di altri tempi, sono gentili, misurati discreti. In cambio non si aspettano nulla. Non si aspettano doni né ringraziamenti. E danno non solo un aiuto, ma ciò di cui gli uomini hanno più bisogno quando non la sentono mai, la simpatia.

     Paolo passa le vacanze con noi, ma non le considera vacanze. Non ho ancora capito come le consideri e non intendo approfondire. Immagino che abbia solide ragioni. Quando ancora gli si dice, dopo quindici anni di ingiunzioni, “Cammina dritto!”, che cosa gli si comunica? Un ordine, un richiamo, una esortazione, un alibi per continuare noi a sperare, una delusione, un rimprovero, una punizione?  Spesso ho notato nel suo sguardo qualcosa di diverso dalla insofferenza, una atroce noia dissimulata dalla pazienza.

     Se finalmente in vacanza si diverte con il suo gruppo di volontari, dove lo accettano con allegria, senza volerlo cambiare, dobbiamo chiederci il perché? L’imperativo occulto dell’educatore, secondo Droysen, viene compendiato da poche, silenziose, concilianti parole: “Tu devi essere come io ti voglio, perché solo così io posso avere un rapporto con te”.

     C’è da stupirsi che Paolo sia felice quando non viene più educato?

(Giuseppe PONTIGIA, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2000, 247-248).

 

Dio è presente ovunque

Non vi è altro sacramento di Dio se non il Cristo, nel quale devono essere vivificati quelli che sono morti in Adamo, poiché «come tutti muoiono in Adamo, così pure tutti ricevono la vita in Cristo» (1Cor 15,22), come abbiamo spiegato più sopra. Perciò Dio, che è ovunque presente e ovunque nella sua totalità, non abita in tutti, ma soltanto in quelli che egli fa diventare suo tempio santissimo o come suoi templi santissimi, strappandoli dal potere delle tenebre e trasferendoli nel Regno del Figlio del suo amore (cfr. Col 1,13), Regno che ha inizio con la rigenerazione. Da una parte si parla di tempio di Dio in senso sim-bolico, a proposito di quello che viene costruito dalle mani degli uomini servendosi di materiale inanimato, come era il tabernacolo fatto con legno, veli, pelli e altri simili arredi o come anche lo stesso tempio costruito dal re Salomone con pietre, legno e metalli; ma si parla di tempio di Dio anche a proposito della vera realtà figurata da quei templi. Perciò si dice: «E voi come pietre vive, siete edificati come dimora spirituale» (1Pt 2,5); per lo stesso motivo sta scritto: «Noi infatti siamo templi del Dio vivente, come dice Dio: “Abiterò in loro e camminerò con loro, e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”» (cfr. 2Cor 6,16; Lv 26,12). Non ci deve stupire che Dio compia qualche miracolo attraverso alcuni che non appartengono o non appartengono ancora al tempio [del Signore], cioè in quelli in cui non abita o non abita ancora Dio, come li compiva per mezzo di quel tale che in nome di Cristo scacciava i demoni sebbene non fosse suo discepolo; il Signore ordinò che gli si permettesse di farlo a lode del suo nome, cosa utile a molti (cfr. Mc 9,37-39). Egli afferma che molti nell’ultimo giorno gli diranno: «Abbiamo fatto molti miracoli nel tuo nome» e a costoro non risponderà: «Non vi conosco» (cfr. Mt 7,22-23) se apparterranno al tempio di Dio che egli santifica abitando in essi. Anche il centurione Cornelio, prima di essere incorporato in questo tempio mediante la rigenerazione, vide un angelo che gli era stato inviato da Dio e lo sentì dire che le sue preghiere erano state esaudite e le sue elemosine gradite (cfr. At 10,4). Dio opera queste cose o da sé, poiché è ovunque presente, o per mezzo dei suoi angeli.

(AGOSTINO DI IPPONA, Lettere 187,12,34-36, NBA XXIII, pp. 166-168).

 

Essere profeti

Il profeta, Signore, non è un depositario di verità,

ma un testimone di bene.

Non sa dire cose sublimi, ma le compie.

Annuncia la speranza nella disperazione,

la misericordia nel peccato,

l’intervento di Dio dove tutto sembra morto.

Il profeta è consapevole dei suoli limiti, delle sue debolezza,

dei suoi dubbi, delle sue incapacità, della sua inesperienza,

ma è anche sereno e coraggioso,

perché Dio lo ha scelto e amato.

 Il profeta fa la scelta di Dio,

vive la comunione intima con lui.

 Essere profeti oggi, significa passare da una pastorale di conversazione

ad una pastorale missionaria,

significa essere presenti là dove la gente

vive, lavora, soffre, gioisce.

Tu, Signore, sei il profeta per eccellenza

che dobbiamo ascoltare e accogliere.

Tua chiesa erano le piazze, le rive dei fiumi,

i monti, le strade.

 Ogni cristiano è profeta,

è la tua bocca che evangelizza,

che parla davanti agli uomini, al mondo, alla storia.

 Signore, aiutaci ad essere profeti di frontiera

là dove scorre la vita della gente.

(A. Merico)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXVI DOM TEMP ORD ANNO B