LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 52,13-53,12 Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente.
Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.
I carmi del «Servo di JHWH» segnano una svolta nel messianismo biblico.
L’affermazione monarchica aveva fatto pensare che la salvezza escatologica potesse venire da un eventuale discendente della famiglia regale (cf 2Sam 7,12-14).
La figura del re davidico compare nei salmi e nei profeti e servirà ad accendere l’immaginazione popolare verso un grande futuro, che si rivelerà ben presto illusorio.
Con l’esilio le speranza riposte nella dinastia e nel dinasta davidico vanno attenuandosi e al suo posto subentra la figura di un martire ideale che sopporta afflizioni e pene per l’intera nazione.
Una figura insolita che non farà mostra di potenza ma di umiltà e di mansuetudine; non trionferà sui nemici con la forza delle armi anzi sarà deriso umiliato, sconfitto.
Egli ritrae in concreto le sofferenze del popolo d’Israele nella sua amara esperienza dell’esilio.
Sulle rive del Chebar, in terra straniera nasce una nuova scuola di spiritualità, un nuovo modo di pensare e di impostare i rapporti con Dio e con i propri simili, i connazionali e gli altri, fatto di remissività, di abbandono e di perdono.
Occorreva farsi umili davanti a Dio come lo si era diventati davanti alle genti e con tale atteggiamento da poveri, mendichi alzare il volto verso l’alto con fiducia.
Non era importante offrire a Dio doni, quanto semmai mostrargli le proprie mani vuote e, bisognose di essere riempite dalle sue elargizioni.
I «poveri in spirito» sono nati nell’esilio e fanno sentire la loro voce in molti salmi (I salmi dei poveri) e tra di essi vi sono anche i «Carmi del servo di JHWH», l’ideale che Gesù ritiene dovere incarnare nella sua vita più che quello del discendente davidico.
Infatti respingerà le insinuazioni di grandezza, di potenze come istigazioni salamene (Mt 4,1-11), fuggirà quando vorranno farlo re (Gv 6,15), e respingerà come diabolico il suggerimento di Pietro di evitare a scansare la passione (Mt l6,23).
Perché umile e indifeso, sarà facilmente catturato e vinto, ma per questa sconfitta conseguirà la vittoria.
«Non doveva il Cristo patire è così, cioè e per questo motivo, entrare nella gloria», ricorda il misterioso viandante ai discepoli di Emmaus (Lc 24,26).
Perché si è umiliato fino alla morte di croce Dio l’ha esaltato al di sopra di ogni potestà, ribadisce l’autore dell’inno presente nella lettera agli Efesini (2,1-11).
Seconda lettura: Ebrei 4,14-16; 5,7-9 Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
[Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Il testo di Ebr 5,7-9 riassume l’esperienza del Getsemani nei termini più drammatici di tutto il nuovo Testamento.
L’autore chiama la passione di Gesù «i giorni della sua carne».
Nel linguaggio biblico il termine basar (carne) denota l’aspetto maggiormente precario più vulnerabile dell’essere umano: uno stato di «debolezza» (5,2) più che di forza, simboleggiata quest’ultima dallo «spirito».
La «carne è debole» ricorda Gesù nel Getsemani (Mt 26,41) e intendeva far riferimento anche alla condizione di panico e di ansietà che stava attraversando nel suo animo.
La passione metteva alla prova anche Gesù.
La sconfitta imminente, l’abbandono degli amici e, sembrava, anche del Padre (Mc 15,34) provocavano uno stato di insicurezza interiore che lo facevano tremare.
Per questo, l’autore parla di «preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime» per ridire il suo stato di vera, estrema angoscia.
Le semplici parole dei sinottici «passi da me questo calice» lo esprimono con maggiore concretezza e forse obiettività.
Davanti allo spettro della morte Gesù non rimane impavido, ma atterrito e non trova altro scampo che volgere il pensiero al Padre.
L’autore non ricorda che cosa egli dice ma certamente parole di comprensione e di soccorso.
La frase «Dio che poteva salvarlo da morte» lascia capire quale possa essere stato l’oggetto della sua preghiera.
La morte sopraggiungerà egualmente, ma l’autore afferma che ciò nonostante «venne esaudito».
La vera vittoria non era quella di evitare la morte, ma di saperla accettare; l’importante non era sconfiggere i nemici, ma superare le reazioni che si annidavano nel suo animo: la volontà di fuga davanti al dolore e alla croce, la possibilità di cedere e di arrendersi.
Era ciò che a Gesù stava a cuore; non di evitare ma di superare la dura prova che la missione profetica gli stava riservando.
E Gesù fu esaudito per la sua riverenza, pietà, fiducia in Dio.
Pregare è un atto di fede, ma occorre anche essere pronti ad accogliere qualsiasi risposta, sapendo che tutto ciò che Dio dispone è tutto quello che egli può dare, quello che è più opportuno per la creatura, maggiormente rispondente al suo disegno.
Gesù è stato sempre un «figlio» ubbidiente, ma ha dovuto anche apprendere a quale prezzo a volte l’ubbidienza è subordinata.
Vangelo: Giovanni 18,1-19,42 – Catturarono Gesù e lo legarono In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli.
Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli.
Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi.
Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?».
Gli risposero: «Gesù, il Nazareno».
Disse loro Gesù: «Sono io!».
Vi era con loro anche Giuda, il traditore.
Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra.
Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?».
Risposero: «Gesù, il Nazareno».
Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io.
Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato».
Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro.
Quel servo si chiamava Malco.
Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
– Lo condussero prima da Anna Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno.
Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».
Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo.
Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote.
Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta.
Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro.
E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?».
Egli rispose: «Non lo sono».
Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.
Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento.
Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto.
Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto».
Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?».
Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male.
Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».
Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.
– Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono! Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi.
Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?».
Egli lo negò e disse: «Non lo sono».
Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?».
Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.
– Il mio regno non è di questo mondo Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio.
Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua.
Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?».
Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato».
Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!».
Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno».
Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?».
Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me.
Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re.
Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?».
E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna.
Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?».
Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!».
Barabba era un brigante.
– Salve, re dei Giudei! Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare.
E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora.
Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!».
E gli davano schiaffi.
Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna».
Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora.
E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».
Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!».
Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa».
Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».
All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura.
Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?».
Ma Gesù non gli diede risposta.
Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?».
Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto.
Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».
– Via! Via! Crocifiggilo! Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà.
Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare».
Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà.
Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno.
Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!».
Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!».
Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?».
Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare».
Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.
– Lo crocifissero e con lui altri due Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo.
Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei».
Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco.
I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”».
Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».
– Si sono divisi tra loro le mie vesti I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica.
Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca».
Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte».
E i soldati fecero così.
– Ecco tuo figlio! Ecco tua madre! Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala.
Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!».
Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!».
E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.
Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete».
Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca.
Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!».
E, chinato il capo, consegnò lo spirito.
– E subito ne uscì sangue e acqua Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via.
Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui.
Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.
Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate.
Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso».
E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».
– Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù.
Pilato lo concesse.
Allora egli andò e prese il corpo di Gesù.
Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe.
Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura.
Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto.
Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.
Esegesi Il «racconto» della passione secondo Giovanni è totalmente diverso da quello dei sinottici (Mc-Mt-Lc).
Il quarto evangelista ricorda occasionalmente i patimenti di Gesù; di fatti descrive il suo cammino trionfale verso il trono della sua gloria.
Il titolo è dato già in 12,32: «quando sarò esaltato da terra trarrò tutti a me».
Nel Getsemani invece di essere prostrato dal dolore, sopraffatto dall’agonia (cf.
Mc 14,33-34) Gesù si erge contro i suoi avversari prostrandoli a terra (18,6).
In Marco è lui a cadere su se stesso sopraffatto dal dolore e dallo spavento; qui sono i suoi nemici folgorati dalla sua maestà.
Un’intera corte e le guardie dei giudei indietreggiano e finiscono a terra quando dice: «Sono io».
Gesù accetta sì il «calice» che il padre gli ha preparato ma da «Signore» più che da vittima.
Il processo davanti ad Anna (18,18-24) e a Pilato (18,28-40) è sostenuto da Gesù dignitosamente.
Sembra egli il giudice più che il reo.
Pur incatenato è sempre a testa alta di fronte agli accusatori e alle accuse.
Non ha paura di rispondere al sommo sacerdote come il reagire contro il servo che l’ha ingiustamente schiaffeggiato mentre i sinottici riferiscono solo gli scherni e gli insulti che ha ricevuto e danno più rilievo al comportamento degli avversari che all’atteggiamento di Gesù.
L’interrogatorio da parte di Pilato serve a mettere in rilievo l’innocenza di Gesù e la sua supremazia sul giudice e sugli accusatori.
Egli è la «verità» in persona e cerca di raggiungere persino lo stesso procuratore romano e quelli che l’attorniano dato che quelli a cui era prima di tutti destinata la rifiutano come rifiutano il loro re per sottostare a Cesare.
Il «re dei giudei» di cui i soldati mettono in scena una sua simbolica intronizzazione è proposto a Barabba, un rivoltoso quindi un partigiano, ma per Giovanni è semplicemente un «ladro».
La scena centrale del racconto della passione di Giovanni è quando il funzionario romano fa uscire Gesù dall’interno del pretorio, lo fa sedere su uno sgabello alla vista di tutto il popolo e pronuncia le fatidiche parole: «Ecco l’uomo!» ( 19,14).
L’evangelista nota il giorno (la «parasceve» ossia della preparazione alla Pasqua), l’ora «sesta», ossia verso le dodici) e il luogo (Lithostron).
Pilato non si rende conto di ciò che sta facendo; senza volerlo egli sta compiendo un gesto altamente profetico: emette un pronunciamento che avrebbero dovuto emettere le autorità religiose d’Israele.
In tutti i modi è un riconoscimento ufficiale della messianità di Gesù che viene più sicuramente da Dio quanto più è estraneo alle intenzioni di chi lo pronuncia.
Quando Caifa aveva proclamato che era opportuna la morte di Gesù per salvare tutta la nazione, Giovanni commenta che pronunciò una profezia a sua insaputa (11,51); la stessa cosa pensa ora, anche se non lo dice espressamente, del gesto di Pilato.
Solo così si spiega il rilievo che gli accorda.
La maggior parte degli esegeti interpretano il verbo ekathisen in senso intransitivo e quindi lo riferiscono a Pilato che si «siede» sul seggio del giudice; solo che il termine bêma (seggio) è senza articolo e sta più per «uno scanno» qualunque che per la sedia del tribuno.
In tutti i modi con questo simbolico insediamento o senza di esso è indiscutibile per Giovanni che Gesù più che processato è riconosciuto persino dal procuratore il re messianico che gli israeliti attendevano.
Non solo non c’è alcuna condanna sul suo conto, ma c’è il pubblico riconoscimento della sua reale dignità da parte della persona più impreparata a farlo, quindi è ancora più autentico.
Il viaggio di Gesù al luogo del supplizio è senza traumi; egli avanza «portandosi la croce» come uno stendardo.
Non c’è alcun cireneo ad aiutarlo; come non ci sono segni di sofferenza o di stanchezza quando è sulla croce, non riceve alcuna droga («vino e mirra», non grida, non si raccomanda al Padre ma conserva il pieno dominio di sé e il controllo della situazione.
La croce non può essere né cancellata né dimenticata, ma è più un trono, un luogo regale che un luogo di tormenti.
La scritta che Pilato ha fatto apporre al vertice lo conferma.
Gesù è il re dei giudei e già fa sentire il peso della sua autorità; da le sue ultime disposizioni; consegna alla madre il discepolo prediletto e viceversa (19,26-27); dà compimento agli ultimi oracoli profetici (la spartizione delle vesti, il sorteggiamento della tunica, il dissetamento mediante l’aceto invece che con l’acqua, come aveva predetto il Sal 69,22) e quando aveva portato tutto a compimento, attuata quindi in pieno la sua missione, come un martire ma anche come un eroe vittorioso, lascia partire il suo spirito.
La frase giovannea «consegnò lo spirito» è volutamente ambivalente.
Dietro il significato abituale, morire, ce n’è uno più recondito: trasmise lo Spirito sugli stanti, quindi dà corso alla sua attività salvifica.
Poco dopo, in occasione della trafittura del costato, l’evangelista annota che ne «uscì sangue ed acqua».
Se il sangue richiama la passione, la morte, l’acqua riporta alla promessa dello Spirito santo fatta nel giorno della festa dei tabernacoli (Gv 7,39).
«Chi ha sete venga a me e beva.
Disse questo dello Spirito che stavano per ricevere quelli che avevano creduto in lui, ma lo Spirito non veniva ancora accordato perché Gesù non era stato ancora glorificato» (ivi).
Ma ora dalla croce lo può già effondere, anche se la donazione piena, ufficiale comincia la sera di pasqua quando nel cenacolo si presenta ai suoi, alita su di loro e dice: «Ricevete lo Spirito santo» (20,22).
I corpi dei condannati a morte venivano gettati nella fossa comune dei malfattori, ma gli evangelisti si sono preoccupati di evitare a Gesù questa umiliazione e gli accordano una onorata sepoltura.
Anzi Giovanni menziona la bende, gli aromi e prima ancora la mirra recata in abbondanza da Nicodemo; la sepoltura non è affrettata, ma secondo tutte le regole giudaiche.
I sinottici parlano del sepolcro nuovo (Mt 27,60) Giovanni aggiunge che era in un «giardino», traduzione dell’ebraico gan, il luogo dove Dio aveva collocato il primo uomo dopo la creazione avvenuta nell’adamah o terra arida.
Gesù non è entrato perciò nel regno della morte, ma della vera vita; il paradiso delle origini da cui l’uomo era stato espulso si è finalmente riaperto grazie alla sua opera.
La storia stava riprendendo il corso impostale dal creatore.
Meditazione La liturgia del Venerdì santo, celebrando la passione del Signore, mette al centro dello sguardo credente la Croce, che viene svelata e mostrata.
Alla sua estensione segue l’adorazione.
Questa terminologia, per quanto tradizionale, non è del tutto esatta; può rischiare anzi di essere fuorviante.
Non si adora infatti né la Croce, né la morte di Cristo in se stessa, ma la sua persona e ciò che la sua persona crocifissa significa per noi: la rivelazione insuperabile dell’amore di Dio che ci salva.
Il racconto della Passione, che ogni anno in questo giorno ascoltiamo secondo il vangelo di Giovanni, ci offre lo sguardo giusto con cui guardare alla Croce, posta al centro di questa celebrazione liturgica.
I tre annunci della passione, che nei sinottici scandiscono il cammino di Gesù verso Gerusalemme, nel quarto vangelo sono sostituiti dai tre annunci dell’’innalzamento’ (Gv 3,14-15; 8,28; 12,32).
Il Cristo crocifisso è ‘elevato’ e la sua elevazione significa per Giovanni che gli uomini dispersi sono nuovamente riuniti, perché attratti insieme verso di lui.
Riletti in modo sintetico, questi annunci consentono di individuare almeno tre doni che Colui che è innalzato sulla Croce offre agli uomini nella sua Pasqua.
Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna: l’Innalzato comunica la vita eterna, cioè la vita stessa di Dio, il mistero di amore e di comunione che nello Spirito sussiste tra il Padre e il Figlio.
Essere attratti a lui significa perciò entrare nel mistero della vita stessa di Dio che ci vie- ne donata.
Saprete che Io Sono: l’Innalzato costituisce la piena rivelazione del volto di Dio che traspare nella carne umiliata di Gesù.
Essere attratti a lui significa perciò giungere a una conoscenza più profonda del mistero di Dio che proprio nella Pasqua si rivela.
Attirerò tutti a me: l’Innalzato consente di vincere ogni nostra dispersione, creando legami di comunione con Dio e tra di noi.
Essere attratti significa perciò entrare in comunione con il Crocifisso perché da questa fonte possano scaturire anche rapporti di riconciliazione e di amore tra di noi.
Potremmo ridire tutto ciò con un’immagine.
La liturgia mostra oggi la Croce invitandoci a contemplarla.
Fissiamo così lo sguardo sulla verticalità del Crocifisso, innalzato tra cielo e terra, con le braccia distese orizzontalmente in un ampio abbraccio.
Nell’incrocio di questa verticalità e di questa orizzontalità la Croce disegna il duplice slancio con cui Gesù ha vissuto la sua ora.
Nel movimento verticale possiamo riconoscere una caduta/abbassamento cui corrisponde un innalzamento (a essere elevato da terra è infatti proprio colui che ha accettato di cadere nella terra per morirvi come un seme, secondo Gv 12,20-33); nel movimento orizzontale c’è un dono, o una consegna di sé, cui corrisponde un’attrazione.
O meglio, più che corrispondersi, i diversi movimenti avvengono l’uno dentro l’altro.
Il Cristo è innalzato perché ha accettato di essere umiliato; il Cristo ci attrae a sé perché ha consegnato per noi la sua vita.
È questo dono di sé che diventa la vera ‘calamità’ che ci attrae, così come l’accettazione di vivere un cammino di abbassamento, di umiliazione, fino alla croce, addirittura fino agli inferi, diviene la grande ‘calamità’ che lo innalza verso l’alto e verso il Padre.
A essere elevato dalla terra è proprio il seme che vi è caduto per marcirvi.
Muore nella terra per non rimanere solo; viene elevato dalla terra per attrarre tutti a sé.
Morte e vita, umiliazione e innalzamento, solitudine e comunione costituiscono sempre un unico e indivisibile movimento.
L’unica ora di Gesù.
Il racconto della Passione secondo Giovanni ci ricorda con forza che il luogo di questa attrazione è il costato aperto, il fianco trafitto da cui sgorga sangue e acqua.
«Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19, 37).
Nei racconti sinottici è il velo del tempio a squarciarsi per significare il pieno accesso al mistero di Dio, reso possibile anche per il peccatore.
Non sussiste più separazione di sorta: siamo in comunione con Dio.
In Giovanni non quello del tempio, ma è il velo stesso della carne di Gesù a essere squarciato.
Essere attratti significa entrare nello spazio di questo costato aperto, che è lo spazio dell’amore che si consegna, dello Spirito che si effonde.
Come ha scritto von Balthasar, l’ultimo grande segno nell’evangelo di Giovanni è il cuore aperto che diviene insieme spazio di rivelazione e di comunione.
Sulla croce la rivelazione di Dio diviene un cuore aperto in cui dimorare.
Nel Cristo di Velàzquez Miguel de Unamuno commenta con questi versi il costato trafitto: Ecco la bocca che la lancia aperse perché col sangue la passione parlasse, serrata l’altra bocca.
Quando la bocca di Gesù viene serrata dalla morte è il suo costato a divenire bocca aperta, da cui esce la parola definitiva di Dio, che salva, attrae, ci consegna, crea comunione.
Giovanni scrive con precisione: «volgeranno lo sguardo verso colui che hanno trafitto».
Questo futuro ci coinvolge in prima persona.
Il testo greco ha una sfumatura da non lasciar cadere.
«Guardare verso» è detto con una preposizione che suggerisce l’idea di un guardare ‘dentro’, un ‘entrare in’.
Alcuni anni fa il Cardinale Martini, nella sua lettera pastorale Quale bellezza salverà il mondo?, suggeriva di entrare nei sentimenti del Figlio, e da qui, dal segreto della sua vita, conoscere veramente il volto del Padre.
Il cuore della esistenza di Gesù è tutto racchiuso in quel sangue e in quell’acqua che fuoriescono dal suo costato trafitto, segno di una vita che si dona totalmente per comunicare anche a noi la vita stessa di Dio, il suo Spirito, il suo amore, che rimane in noi e diviene possibilità di amarci come lui ci ha amati.
Sangue e acqua, insieme, inseparabilmente.
C’è un famoso detto di un padre del deserto, Longino, che afferma: «Da’ il sangue e prendi lo Spirito».
Dare sangue allude a ogni gesto della nostra vita in cui sappiamo far vivere in noi l’amore di Cristo, divenendo disponili al dono di noi stessi, unificando in questa logica la no-stra obbedienza, la nostra libertà, il nostro desiderio.
Solo dimorando in questo mistero, avendo in noi gli stessi sentimenti del Figlio, possiamo vedere il volto del Padre e ricevere il dono del suo Spirito.
Nel suo essere frutto della terra e del lavoro dell’uomo, della natura e della cultura, il pane esprime il bisogno, ciò che davvero è necessario per vivere.
Non a caso la parola «pane» indica cibo essenziale e non superfluo: quando diciamo che «non c’è pane», evochiamo fame e carestia, cosi come del fenomeno migratorio non c’è spiegazione più tragicamente semplice dell’evidenza che sempre gli affamati corrono verso il pane perché il pane non corre dove c’è la fame.
Una corsa, quella cui assistiamo oggi – dalle sponde meridionali a quelle settentrionali del Mediterraneo – che segue il percorso compiuto proprio dalla cultura del pane quasi cinquemila anni fa.
Pane, allora, anche come cifra della nostra capacità di condivisione, della nostra disponibilità o meno a spezzarlo perché tutti ne possano avere, pane che, secondo i racconti evangelici, basta per tutti solo quando è spezzato e condiviso.
E la civiltà del Mediterraneo ha sempre accostato al pane un altro frutto della terra e del lavoro umano: il vino.
Anche qui, il gratuito accanto all’essenziale, il dono accanto al necessario, la gioia accanto alla sostanza: il pane fa vivere, il vino dà gusto alla vita; il pane ritempra le forze, il vino rallegra il cuore; il pane fa corpo con il lavoro, il vino ne addolcisce le fatiche.
Pane e vino sulla tavola sono lì a ricordarci la grandezza dell’uomo e a interpellare la nostra sensibilità: quanta fatica e quanta speranza sono raccolti in quei due semplici alimenti, quanti volti appaiono dietro di loro! Il contadino e il mugnaio, il fornaio e il vignaiolo, e poi il bottaio e il mercante, le loro famiglie e i loro bambini, le ansie e le speranze di un anno, le grida della vendemmia e i canti della mietitura, il silenzio delle cantine e dei granai, il rumore della mola e il pigiare nei tini …
E ora sono lì, raccolti sulla nostra tavola, a narrarci la qualità della nostra umanizzazione, a interpellarci su chi siamo e su come desideriamo che sia il nostro mondo.
Forse anche per questo, come ha giustamente osservato Predrag Matvejevié, «la storia della fede e quella del pane hanno spesso strade parallele o contigue o simili».
Non a caso nell’ebraismo e nel cristianesimo il pane e il vino sono elementi essenziali della liturgia per eccellenza, il memoriale della Pasqua.
Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».
È cosi che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo.
E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.
(Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008, 42-44) Vi ho dato un esempio «Quando ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa, disse loro: Comprendete ciò che vi ho fatto?» (Gv 13,12).
È giunta l’ora di mantenere la promessa che aveva fatto al beato Pietro e che aveva differita quando a lui che si era spaventato e gli aveva detto: «Non mi laverai i piedi in eterno», il Signore aveva risposto: «Quello che io faccio, tu adesso non lo comprendi, lo comprenderai più tardi» (Gv 13,7).
[…] Ora, dunque, comincia a spiegare il significato del suo gesto, come aveva promesso dicendo: «Lo capirai più tardi».
[…] «Se dunque», dice, «io il Signore e il maestro vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda.
Vi ho dato infatti un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io» (Gv 13,14-15).
Questo, o beato Pietro, è ciò che tu non comprendevi, quando non volevi lasciarti lavare i piedi.
Egli ti promise che l’avresti compreso più tardi, quando il tuo Signore e Maestro ti spaventò affinché tu gli lasciassi lavare i tuoi piedi.
[…] Non disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo.
Poiché quando il corpo si piega fino ai piedi del fratello, anche nel cuore si accende, o se già c’era, si alimenta il sentimento di umiltà.
[…] «Vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io».
Dobbiamo forse dire che anche il fratello può purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede.
Ascoltiamo l’apostolo Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: «Confessatevi gli uni agli altri i peccati e pregate gli uni per gli altri» (Gc 5,16).
È questo l’esempio che ci ha dato il Signore.
Se colui che non ha, che ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci perdona i peccati colui che non ha niente da farsi perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione perdonare a vicenda i nostri peccati, noi che non riusciamo a vivere su questa terra senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto così significativo, quando dice: «Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io», se non quanto l’Apostolo dice in modo esplicito: «Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri; come il Signore ha perdonato a voi, fate anche voi» (Col 3,13).
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 58,24-25, NBA XXIV, pp.
1094.1098-1100) Pane della condivisione Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.
Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo.
E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).
Un giorno unico Felici coloro che mangiarono, un giorno, un giorno unico, un giorno tra tutti i giorni, felici di una gioia unica, felici coloro che mangiarono un giorno, un giorno, quel Giovedì Santo, felici coloro che mangiarono il pane del tuo corpo; te stesso consacrato da te stesso; con una consacrazione unica; un giorno che mai ricomincerà; quando tu stesso dicesti la prima messa; sul tuo stesso corpo; quando celebrasti la prima messa; quando consacrasti te stesso; quando di quel pane, davanti ai Dodici, e davanti al dodicesimo, facesti il tuo corpo; e quando di quel vino facesti il tuo sangue; quel giorno in cui fosti insieme la vittima e il sacrificatore, il medesimo la vittima e il sacrificatore, l’offerta e l’offerente, il pane e il panettiere, il vino e il coppiere; il pane e colui che dà il pane; il vino e colui che versa il vino; la carne e il sangue, il pane e il vino.
Quella volta che tu fosti il prete ed essi erano i fedeli, quella volta che tu fosti il prete che operava, che sacrificava per la prima volta.
Quella volta che tu fosti l’invenzione del prete, il primo prete a operare, a sacrificare per la prima volta.
Ed eri contemporaneamente il prete e la vittima.
Quella volta che facesti il primo sacrificio.
Che tu fosti il primo sacrificato, la prima ostia.
La prima vittima.
(Ch.
PÉGUY, I Misteri, Milano, Jaca Book, 1994, 53-54).
Giovedì Santo Gesù depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui era cinto.
Disse: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,4-5.15).
Poco prima di avviarsi per la strada della sua passione, Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli e offrì loro il suo corpo e il suo sangue come cibo e bevanda.
Questi due gesti sono intimamente uniti.
Sono ambedue un’espressione della determinazione di Dio di mostrarci la pienezza del suo amore.
Per questo, Giovanni introduce il racconto della lavanda dei piedi con queste parole: «Gesù dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).
Ma c’è una cosa ancora più sorprendente: in ambedue le occasioni, Gesù ci comanda di fare lo stesso.
Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù dice: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi» (Gv 13,15).
Dopo aver offerto se stesso come cibo e come bevanda, egli afferma: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19).
Gesù ci chiama a continuare la sua missione di rivelare il perfetto amore di Dio in questo mondo.
Ci chiama a una totale autodonazione.
Vuole che non ci teniamo niente per noi stessi.
Piuttosto, vuole che il nostro amore sia tanto pieno, tanto radicale, tanto completo quanto il suo.
Vuole che ci chiniamo a terra e ci tocchiamo a vicenda le parti che hanno più bisogno di essere lavate.
E vuole anche che ci diciamo gli uni gli altri: «Mangia di me, e bevi di me».
Con questo nutrirci a vicenda e in modo così completo, egli vuole che diventiamo un solo corpo e un solo spirito, uniti dall’amore di Dio.
(H.J.M.
NOUWEN, In cammino verso la luce).
O Signore, dove mai potrei andare? Io volgo il mio sguardo a te, o Signore.
Tu hai pronunciato parole così piene di amore.
Il tuo cuore ha parlato così chiaro.
Adesso mi vuoi far vedere ancora più chiaramente quanto mi ami.
Sapendo che il Padre tuo ha messo tutto nelle tue mani, che sei venuto da Dio e ritorni a Dio, ti togli le vesti e, preso un asciugatoio, te lo cingi alla vita, versi dell’acqua in un catino e cominci a lavare i miei piedi, e poi li asciughi con l’asciugatoio di cui ti eri cinto…
Volgi il tuo sguardo su di me con la massima tenerezza, e mi dici: «Io voglio che tu stia con me.
Voglio che tu condivida in pieno la mia vita.
Voglio che tu mi appartenga come io appartengo al Padre.
Ti voglio lavare così da renderti completamente puro, in modo che tu e io possiamo essere una sola cosa e tu possa fare agli altri ciò che io ho fatto a te».
Ti sto di nuovo guardando, o Signore.
Tu ti alzi e mi inviti alla mensa.
Mentre mangiamo, prendi il pane, reciti la benedizione e lo dai a me.
«Prendi e mangia – dici – questo è il mio corpo dato per te».
Poi prendi una coppa e dopo aver reso grazie, me la porgi, dicendo: «Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza sparso per te».
Sapendo che è giunta la tua ora di passare da questo mondo al Padre tuo, e avendomi amato, adesso mi ami fino alla fine.
Mi dai tutto ciò che hai e tutto ciò che sei.
Mi doni il tuo stesso io.
Tutto l’amore che hai per me nel tuo cuore ora diventa manifesto.
Mi lavi i piedi e poi mi dai il tuo corpo e il tuo sangue come cibo e bevanda.
O Signore, dove mai potrei andare, se non da te, per trovare l’amore che desidero tanto? (H.J.M.
NOUWEN, Da cuore a cuore).
Ogni volta Ogni volta che celebriamo l’eucaristia e riceviamo il pane e il vino, il corpo e il sangue di Gesù, la sua sofferenza e la sua morte diventano sofferenza e morte per noi.
Siamo incorporati in Gesù.
La passione diventa compassione, per noi.
Veniamo incorporati a Gesù.
Diventiamo parte del suo ‘corpo’ e in questa via quanto mai compassionevole, veniamo liberati dalla nostra più profonda solitudine.
Per mezzo dell’eucaristia riusciamo ad appartenere a Gesù nella maniera più intima a lui che ha sofferto per noi, è morto per noi ed è di nuovo risorto, così che possiamo soffrire, morire e di nuovo risorgere con lui.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane).
Preghiera Dio onnipotente ed eterno la sera prima di soffrire, il tuo figlio prediletto affidò alla chiesa il sacrifico della nuova ed eterna alleanza e istituì il convito del suo amore.
Fa’ che da questo mistero possiamo ricevere la pienezza di vita e di amore.
Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore LECTIO – ANNO B Prima lettura: Esodo 12,1-8.11-14 Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno.
Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa.
Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne.
Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto.
Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno.
In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare.
Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta.
È la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto.
Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto.
Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”.
La Pasqua è la grande solennità del calendario giudaico.
Indipendentemente dal suo significato originario si ricollegava con la liberazione egiziana, il soggiorno sinaitico, l’alleanza.
Soprattutto era il ricordo della partenza miracolosa dalla terra della schiavitù verso la libertà.
«Pasqua» significa infatti «passaggio» (Es 12,11), sia dell’angelo di JHWH nella notte dell’esodo, sia del popolo di Dio dalla servitù dei faraoni al servizio del vero Dio, sia l’ingresso d’Israele nell’alleanza con il Signore del cielo e della terra.
Ritualmente la celebrazione era legata all’immolazione dell’agnello e al banchetto conviviale dei membri della comunità che si raccoglieva per rivivere l’esperienza dei padri e riassorbirne i benefici.
Ognuno si doveva sentire come liberato personalmente dall’antica e da qualsiasi altra forma di schiavitù presente.
E tutti erano invitati a sentire la gioia della liberazione.
Il banchetto a cui tutti i gruppi di dodici persone sedevano, i cibi simbolici che venivano apprestati (l’agnello di un anno, intatto e senza macchia perché rappresentava tutto intero Israele, le erbe amare per ricordare le sofferenze sopportate, il dolce color mattone per rievocare i lavori forzati a cui furono costretti) commemorava la fine dell’esilio e la gioia della conseguita liberazione.
Un «trapasso» che doveva quasi inorgoglire tutti i membri del popolo eletto fino agli ultimi discendenti e rallegrarli dal profondo del cuore.
Essi avevano sperimentato la presenza di Dio in modo tangibile e spettacolare, una presenza e assistenza che non era venuta mai meno e costituiva il vanto e l’esultanza di ogni israelita.
Non c’è altra «grande nazione che abbia la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi», sottolinea il deuteronomista (4,7).
Israele è un popolo missionario chiamato a segnalare alle genti l’unico vero Dio creatore di tutte le cose e ad attendere la piena manifestazione della sua benevolenza (salvezza) in mezzo agli uomini, ma è caduto in un grave abbaglio quando si è ritenuto destinatario esclusivo delle «benedizioni» divine che oltre ad Abramo erano destinate a «tutte le nazioni» (Gn 12,3).
Seconda lettura: 1 Corinzi 11,23-26 Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
L’apostolo Paolo è un testimone della tradizione primitiva della Chiesa, in questo caso della «cena del Signore» che è il momento culminante della convocazione assembleare.
I cristiani (di Gerusalemme) si radunano per pregare (At 1,14), per ascoltare l’istruzione degli apostoli, prender parte all’agape e alla frazione del pane (At 2,42; 20,7,11; 27,35).
Frequentavano la liturgia del tempio e poi nelle case «spezzavano il pane prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (ivi).
È quanto fanno i cristiani di Corinto.
Anche se con certi gravi abusi anch’essi si ritrovano insieme per la condivisione del cibo con i più poveri e per la frazione del pane, solo che alcuni consumavano quello che avevano portato prima che arrivassero gli altri, gli ultimi, in genere servi o operai che non potevano lasciare il lavoro a piacimento.
Quindi oltre che eran più stanchi di tutti trovano poco o nulla per rifocillarsi.
Questa prima refezione ordinata al nutrimento del corpo era il contesto in cui si ripeteva, si commemorava l’ultima cena di Gesù con i suoi, nella stessa notte in cui stava per essere tradito, consegnato cioè nelle mani dei nemici ed essere ucciso.
Gesù compì un rito che doveva tenere desta nella memoria, quindi nella mente e nel cuore dei suoi, quello che egli aveva sopportato per il loro bene e il bene di tutti gli uomini.
Aveva costituito un «memoriale», voluto cioè ritualizzare l’atto della sua morte affinché i suoi seguaci potessero più agevolmente tenerlo presente e assumersi tutto l’onere che un tale «ricordo» comportava.
Ogni volta infatti che il cristiano si apprestava a ricevere gli alimenti, il pane e il vino, sui quali erano state ripetute le formule di benedizione: «Questo è il mio corpo (spezzato) per voi», «Questo è il calice del mio sangue (versato per voi)» intendeva compiere una commemorazione (anamnesis) e quindi un «”annunzio” della morte e risurrezione del Signore».
Alla vigilia della sua morte Gesù ha voluto lasciare ai suoi un segno permanente del suo amore.
Egli da lì a poco avrebbe finito i suoi giorni sul patibolo, ma quella morte era il prezzo della sua dedizione al volere del Padre e del suo bene ai fratelli.
Si lascerà spezzare, verserà fino alla sua ultima goccia il suo sangue ma non si arrenderà alle pressioni e angherie delle potestà terrene, ossia del potere ingiustamente costituito.
Gesù moriva martire di ubbidienza e di carità e lasciava ricapitolato il suo sacrificio nel simbolico rito dello spezzamento del pane e nel versamento del vino nel calice.
Chiunque avesse preso parte a tale banchetto commemorativo e avesse assunto gli alimenti offerti dichiarava agli astanti e più ancora a se stesso che anche lui era pronto come Gesù ad accogliere la proposta del Padre mettendo la propria vita a servizio dei fratelli fino a perderla per il loro bene.
Vangelo: Giovanni 13,1-15 Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.
Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.
Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?».
Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo».
Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!».
Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me».
Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!».
Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti».
Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono.
Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri.
Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».
Esegesi La lavanda dei piedi è la testimonianza estrema che Gesù lascia del suo amore ai discepoli e in essi a tutti gli uomini.
L’evangelista Giovanni non parla dell’autorità intesa come puro servizio, della scelta dell’ultimo posto per chi desidera porsi al primo (cf.
Mc 10,41-45; Mt 20,24-28; Lc 22,22-27), ma è l’unico a ricordare questa alta prova di umiltà che Gesù lascia ai suoi nelle ore precedenti al suo commiato.
È un gesto che vale più per il suo significato che per se stesso, per il beneficio cioè che apporta a coloro che lo ricevono.
La lavanda dei piedi era un’operazione che compiva non un comune domestico ma solo lo schiavo.
Era addirittura indegna da parte di un uomo libero.
Gesù pur definendosi «signore e maestro», anche se verosimilmente è dubbio che una tale dichiarazione sia uscita dalle sue labbra, non trova impossibile o irriverente compiere un tale atto.
Lo stupore di Pietro e dei suoi colleghi è più che plausibile.
Anche se gli altri discepoli non parlano, sentono dentro di sé lo stesso disagio.
Ma Gesù è irremovibile, non perché i dodici hanno bisogno di una particolare mondezza fisica prima della cena, ma perché debbono imparare ad assumere un particolare atteggiamento interiore davanti a Dio e ai propri fratelli.
Gesù lavando i piedi ai discepoli segnala una sua scelta e collocazione sociale, una chiara opzione messianica.
Tutti attendevano il prestigioso, potente discendente davidico, egli invece opta per l’ideale del «Servo sofferente» (Is 53) pronto agli scherni, alle derisioni, alle sofferenze al martirio.
È quanto Pietro e i suoi colleghi debbono capire e accettare.
O al seguito di un salvatore senza titolature e aureole, anzi disprezzato e vilipeso come uno schiavo o ritirarsi dalla sua sequela.
Le due strade erano inconciliabili: quella della liberazione degli uomini poveri e affranti e quella della propria esaltazione.
Se si doveva scegliere la prima era impraticabile la seconda, poiché le moltitudini fatte di gente senza dignità e onore avevano bisogno di un salvatore del loro rango, non di un altro oppressore.
Gesù sarà un messia mite ed umile di cuore (Mt 11,29), passerà senza spezzare la canna incrinata e spegnere il lucignolo fumigante, senza gridare sulle piazze (Mt 12,18-19), andrà incontro a una fine ignominiosa per difendere la causa dei peccatori, ma anche dei poveri e oppressi.
Cingersi i fianchi con un grembiule, prendere in mano un catino e mettersi a lavare i piedi dei suoi discepoli era una conferma delle scelte, dei comportamenti assunti sino allora, per questo diventava un gesto altamente significativo.
Essenziale come la morte sul legno della croce; che era oggetto di sofferenza e insieme di maledizione.
Gesù non ha assunto atteggiamenti guerrieri, né trionfalistici; è fuggito quando volevano farlo re (Gv 6,15) ed entra a Gerusalemme su un giumento invece che su un destriere e ha esortato i suoi a portare la croce più che lo scettro.
E Luca aggiunge quotidianamente (9.13).
Egli era venuto per servire e non per essere servito (Mt 20.28) per questo non trova inopportuno il gesto che compie.
Le parole conclusive esplicitano il significato e tutta la portata che l’operazione compiuta ha nella vita cristiana.
Non è una scelta e un atteggiamento che riguarda la sua persona, ma indistintamente tutti coloro che desiderano essere suoi discepoli.
«Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (v.
15).
Anche per loro valeva l’alternativa posta a Pietro o accettare un messia servo e assumere un comportamento dimesso e umile o rinunciare a proclamarsi cristiani.
Bisognava sentirsi pronti a lavare i piedi degli altri, degli amici e persino dei nemici, aggiungeranno Matteo (5,48) e Luca (6,35) senza tirarsi indietro.
La lavanda dei piedi è un gesto reale ed emblematico poiché in pratica abbraccia qualsiasi tipo di servizio, persino spiacevole e ripugnante se qualcuno ne ha bisogno.
Lavare i piedi è il sacramento fondamentale del cristiano poiché è la prova inconfondibile della sua identità e della sua conformità a Cristo.
È il segno di quella carità che rende l’uomo «figlio di Dio», «perfetto» come lui (cf.
Mt 5,48; Lc 6,35).
Meditazione Il Giovedì santo costituisce un grande portale di ingresso al Triduo pasquale della morte, sepoltura e risurrezione del Signore.
La memoria rituale della cena del Signore fornisce infatti la corretta chiave per entrare nel Triduo, suggerendo come interpretarlo e viverlo.
Celebrando il memoriale dei due gesti che Gesù pone nella vigilia della sua passione – la consegna del pane e del vino secondo la tradizione sinottica e la lavanda dei piedi secondo la tradizione giovannea – la liturgia ci introduce nell’atteggiamento stesso con cui Gesù è andato incontro alla sua morte, dandole un senso diverso, secondo la volontà del Padre e non secondo quella degli uomini.
I gesti e le parole sono differenti, ma tutti rivelano il modo con cui Gesù ha interpretato la sua morte e più ancora il significato che nella sua libertà obbediente e nel suo amore radicale – «fino alla fine» (Gv 13,1) – ha voluto conferirle.
Il racconto evangelico di Giovanni si apre con quattro versetti molto densi, che nell’originale greco costituiscono un’unica frase, nei quali per due volte risuona il verbo ‘sapere’ (vv.
1.3).
L’evangelista dischiude in tal modo un piccolo squarcio nel ‘sentire’ stesso con cui Gesù si appresta a vivere gli eventi decisivi della sua Pasqua.
Se il racconto della Passione narra quanto accadrà lungo la via della Croce, il racconto della cena svela l’atteggiamento interiore con cui Gesù ha vissuto quel cammino.
In particolare il quarto evangelo insiste sulla sua consapevolezza: egli sa che è giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre, ma sa anche che il Padre ha posto tutto nelle sue mani.
È consapevole dunque degli avvenimenti tragici che si stanno profilando davanti a lui, del destino che lo attende, di ciò che gli uomini, in primis uno dei suoi discepoli, Giuda, stanno ordendo contro la sua persona; ma è consapevole che tutto è stato messo dal Padre nelle sue mani: rimane dunque libero e signore degli eventi.
Conosce la situazione, non è lui a determinarla, sono altri a farlo; nello stesso tempo non la subisce passivamente.
Negli eventi della passione sta per manifestarsi la volontà peccaminosa degli uomini; Gesù li vivrà per trasformarli in luogo in cui si manifesterà compiutamente l’amore misericordioso del Padre.
Con i gesti che compie e le parole che pronuncia durante questa cena Gesù anticipa quello che sta per accadere e gli dona un significato nuovo e diverso attraverso la consegna di se stesso nell’amore, in obbedienza libera all’amore stesso del Padre che consegna il proprio Figlio.
Quando subito dopo lo arresteranno nel Getsemani, o nel ‘giardino’, come lo definisce Giovanni, si impossesseranno di una vita che si era già liberamente consegnata nell’amore.
Il suo è infatti un corpo offerto per noi, un sangue versato per noi e per la nostra salvezza.
Anche il gesto della lavanda dei piedi racchiude simbolicamente il medesimo significato.
Gesù inverte i ruoli: lui, il Maestro e Signore, compie il gesto dello schiavo.
Addirittura, se possibile, si pone un gradino sotto lo schiavo, perché uno schiavo ebreo mai avrebbe lavato i piedi a un altro ebreo.
Si fa schiavo e servo dei suoi discepoli, e il servizio che vive è quello di chi giunge a donare la vita per loro, in modo del tutto gratuito, perché i piedi Gesù li lava anche a Giuda, colui che sta per consegnarlo e al quale invece è Gesù stesso a consegnarsi in un amore più forte e radicale, che previene il peccato di chi lo tradisce.
I verbi con i quali l’evangelista narra che Gesù depone le vesti (v.
4) per poi riprenderle di nuovo (v.
12), in greco sono i medesimi con cui al capitolo decimo, nel cosiddetto «discorso del buon pastore», Gesù dichiara di deporre la propria vita nella morte per poi riprenderla di nuovo nella risurrezione (cfr.
Gv 10,17).
Appare chiaro che con questo gesto Gesù non solo si fa servo, ma vive il servizio di chi dona la propria vita per poi riprenderla di nuovo, affinché gli uomini possano «avere parte con lui» (v.
8).
Possano, in altri termini, divenire partecipi della sua stessa vita e di quell’amore che ne costituisce il segreto più intimo e profondo.
Il gesto della lavanda dei piedi, infatti, come anche il pane spezzato e il vino versato, sono espressione di un amore «fino alla fine».
Dovremmo tradurre meglio: «fino al compimento».
Gesù, morendo sulla croce, esclamerà «tutto è compiuto» (Gv 19,30), con il verbo greco tetélestai in cui risuona il termine télos (‘fine’, ‘compimento’) che Giovanni usa qui, in apertura del capitolo tredicesimo.
L’amore di Gesù giunge al suo compimento non solo perché giunge a donare tutto, fino all’ultimo respiro, non solo perché è un amore definitivo, ma anche perché è un amore che si «compie in noi».
Non arresta la sua corsa pri-ma di giungere a questo traguardo, che è il suo amore in noi, la nostra possibilità di amarci come lui ci ha amati.
Il compimento dell’amore di Gesù, che la lavanda dei piedi simbolicamente rivela, è il comandamento nuovo, che Gesù consegna in questa stessa cena, in versetti che la lectio liturgica omette ma che è utile richiamare alla memoria: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri.
Come io ho amato voi, così ama-tevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Il comandamento nuovo è il dono di un ‘come’, da intendersi però non nella prospettiva dell’imitazione, ma di una ‘fondazione’: sul fondamento di come io vi ho amati, ora potete amarvi gli uni gli altri.
Lo s
Categoria: La domenica
Domenica delle Palme anno B
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 50,4-7 Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a colo-ro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Si-gnore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia fac-cia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
Il brano apre il terzo dei «Canti del Servo».
Il personaggio che parla non è nominato, e non viene usata la parola «servo»; si esprime come un profeta, e presenta le caratteristiche del discepolo, docilità e fedeltà.
Alcuni commentatori lo identificano con Zorobabele, il di-scendente di Davide che aveva acceso le speranze messianiche nel post-esilio.
Le difficoltà che si oppongono alla sua missione, già presenti nel secondo canto (49,1-9), si fanno qui più concrete: gli insulti e gli oltraggi di cui il Servo è fatto segno rientrano in ciò che ci si aspettava dalla vocazione profetica (cf.
le Confessioni di Geremia).
Il testo del v.
4, è molto tormentato, alcuni vocaboli dell’ebraico sono di difficile inter-pretazione, la «lingua da discepolo» (o «discepoli», limûdîm: parola rara nell’AT) potrebbe alludere a una scuola di discepoli che accoglie una tradizione di cui il Secondo e il terzo I-saia sarebbero i continuatori.
Enigmatico anche il termine lacût, tradotto con «indirizzare (una parola)», «sostenere», o anche «rispondere» (sulla base del testo greco della Settanta), allo «sfiduciato», o «stanco» (jacef).
Il senso può essere «indirizzare una parola allo sfidu-ciato», o anche «sostenere colui che non ha più parole».
L’orecchio (v.
4 e v.
5) è anche la facoltà di intendere.
Il Servo è quindi un maestro di sapienza, fedele ascoltatore della Parola, che trasmette l’insegnamento divino ai discepoli.
I vv.
6-7 mostrano la persecuzione, conseguenza di questa docilità alla Parola.
È la con-dizione degli Israeliti, anche dopo il ritorno dall’esilio.
Il Servo oppone alla persecuzione la sua fermezza, o anche ostinazione: la «faccia dura come pietra».
La sua sicurezza viene dal-l’aiuto del Signore Dio d’Israele (nominato ben tre volte in questi quattro versetti).
Seconda lettura: Filippesi 2,6-11 Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventan-do simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pie-ghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
In un contesto parenetico, introdotto dal v.
5 — «abbiate fra voi gli stessi sentimenti che in Cristo Gesù» —, Paolo inserisce un inno di alto contenuto cristologico.
Si tratta di un te-sto prepaolino nella sostanza, che si può far risalire agli anni 50, e che ripercorre l’intero cammino di Gesù: pre-esistenza, incarnazione, vita terrena, croce, esaltazione.
Seguendo lo schema abbassamento/esaltazione, risponde alla domanda «chi è Gesù»?.
Due strofe consequenziali (vv.
6-8; 9-11, la seconda introdotta da «Per questo») espon-gono la storia di Gesù in cinque tappe, scandite da cinque verbi: tre con soggetto Gesù nel-la prima strofa, due con soggetto Dio nella seconda.
1a strofa – I tre verbi all’indicativo aoristo dicono le azioni e si riferiscono a fatti circoscritti, accompagnati da participi che ne esprimono le modalità: a) non ritenne (ouk egesato, v.
6) bottino l’essere simile a Dio, pur essendo radicato di diritto (yparchon) nella forma (morfè) divina: il ragionamento che prelude all’incarnazione è fatto nella condizione di Dio, all’interno della Trinità: la decisione di donarsi è la legge stessa dell’esistenza di Dio.
b) ma svuotò (ekénosen, v.
7) se stesso…
La rinuncia globale è scandita da una serie di parti-cipi che sottolineano la normalità dell’essere uomo: prendendo la condizione (morfe) di ser-vo, divenuto simile all’uomo, comportandosi alla maniera degli uomini.
c) Umiliò (etapeinosen, v.
8) se stesso, sottoponendosi alle modalità del vivere terreno e di-venendo obbediente (ypèkoos = colui che ascolta dal basso) fino a condividere l’esperienza del-l’uomo di fronte alla morte.
2a strofa – A queste tre tappe fa riscontro la risposta del Padre: la logica divina della dona-zione incondizionata è confermata, la croce manifesta il suo carattere rivelativo.
a) Per questo (diò kai) Dio lo esaltò (yperypsosen, v.
9).
La via dell’amore si mostra vittoriosa nella sconfitta.
b) L’esaltazione è la conseguenza, il frutto dell’amore, e tuttavia è dono: gli ha donato (echa-rìsato) un Nome al di sopra di ogni altro nome.
La storia di Gesù si risolve a gloria universale di Dio Padre: ogni ginocchio si pieghi (v.
10) e ogni lingua proclami (v.
11) Gesù Cristo Signore, a gloria (dòxa) di Dio Padre.
Alcune corrispondenze sottolineano l’antitesi: isa theò (v.
6) contrapposto a homoiòmati anthròpon (v.
7), servo (v.
7) contrapposto a Signore (v.11), svuotare-umiliare (vv.
7-8) con-trapposti a esaltare (v.
9).
Vangelo: Marco 14,1-15,47 Cercavano il modo di impadronirsi di lui per ucciderlo Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturare Gesù con un inganno per farlo morire.
Dicevano infat-ti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».
Ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso.
Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore.
Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo.
Ci fu-rono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si pote-va venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!».
Ed erano infuriati contro di lei.
Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me.
I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me.
Ella ha fatto ciò che era in suo po-tere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura.
In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».
Promisero a Giuda Iscariota di dargli denaro Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù.
Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro.
Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.
Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uo-mo con una brocca d’acqua; seguitelo.
Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei disce-poli?”.
Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come a-veva detto loro e prepararono la Pasqua.
Uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici.
Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà».
Co-minciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?».
Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto.
Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradi-to! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».
Questo è il mio corpo.
Questo è il mio sangue dell’alleanza E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo».
Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti.
E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è ver-sato per molti.
In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al gior-no in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: “Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse”.
Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea».
Pietro gli disse: «An-che se tutti si scandalizzeranno, io no!».
Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai».
Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò».
Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.
Cominciò a sentire paura e angoscia Giunsero a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego».
Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia.
Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte.
Restate qui e ve-gliate».
Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora.
E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allonta-na da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu».
Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione.
Lo spirito è pronto, ma la carne è debole».
Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole.
Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapeva-no che cosa rispondergli.
Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e ripo-satevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori.
Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».
Arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani.
Il tra-ditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arre-statelo e conducetelo via sotto buona scorta».
Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò.
Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono.
Uno dei pre-senti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio.
Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un brigante siete venuti a prendermi con spade e bastoni.
Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato.
Si compiano dunque le Scritture!».
Allora tutti lo abbandonarono e fuggi-rono.
Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo affer-rarono.
Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.
Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto? Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi.
Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco.
I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano.
Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi.
Alcuni si alzarono a testimoniare il falso contro di lui, dicendo: «Lo abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo”».
Ma nemmeno così la loro testimonianza era concorde.
Il sommo sacerdote, alzatosi in mez-zo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimonia-no costoro contro di te?».
Ma egli taceva e non rispondeva nulla.
Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?».
Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo».
Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pa-re?».
Tutti sentenziarono che era reo di morte.
Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: «Fa’ il profeta!».
E i servi lo schiaffeggiava-no.
Non conosco quest’uomo di cui parlate Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù».
Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa di-ci».
Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò.
E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro».
Ma egli di nuovo negava.
Poco dopo i presen-ti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo».
Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate».
E subito, per la seconda volta, un gallo cantò.
E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai».
E scoppiò in pianto.
Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei? E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnaro-no a Pilato.
Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?».
Ed egli rispose: «Tu lo di-ci».
I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose.
Pilato lo interrogò di nuovo di-cendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!».
Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito.
A ogni festa, egli era solito rimettere in liber-tà per loro un carcerato, a loro richiesta.
Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio.
La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere.
Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?».
Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia.
Ma i capi dei sacerdoti inci-tarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba.
Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?».
Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!».
Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?».
Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!».
Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto fla-gellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.
Intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa.
Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo.
Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!».
E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui.
Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.
Condussero Gesù al luogo del Gòlgota Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo.
Condussero Gesù al luo-go del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», e gli davano vino mescolato con mir-ra, ma egli non ne prese.
Con lui crocifissero anche due ladroni Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso.
Erano le nove del mattino quando lo crocifissero.
La scritta con il mo-tivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei».
Con lui crocifissero anche due la-droni, uno a destra e uno alla sua sinistra.
Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!».
Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e diceva-no: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!».
E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.
Gesù, dando un forte grido, spirò Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio.
Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!».
Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scende-re».
Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo.
Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Fi-glio di Dio!».
Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.
Giuseppe fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro Venuta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo.
Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe.
Egli allora, comprato un lenzuolo, lo de-pose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia.
Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro.
Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto.
Esegesi Introdotto da due versetti che svelano l’intenzione omicida di scribi e sacerdoti, tenuta nascosta per timore della folla (è un primo accenno alla Passione), la lunga lettura evange-lica di oggi è racchiusa tra due momenti — anticipo e conclusione del dramma — che ve-dono protagoniste le donne: l’unzione di Betania (14,3-9) e la presenza delle donne ai piedi della croce e al sepolcro (15,40-41.47).
Unzione di Betania (14,3-9) A differenza del testo di Giovanni la donna qui (come in Matteo) è anonima, mentre è nominato il padrone di casa, un certo Simone, e il luogo, Betania, il villaggio presso Geru-salemme dove Gesù si ritirava la notte per non essere catturato.
Comuni gli elementi es-senziali del racconto: la sottolineatura dello spreco, con l’indicazione del prezioso alaba-stro e del costosissimo profumo, oggetti di lusso che sembrano contrastare con lo stile di vita di Gesù; lo scandalo, più o meno sincero, dei discepoli, con l’accenno (forse strumenta-le?) ai poveri; la sorprendente reazione di Gesù, che accetta l’omaggio e rimprovera i di-scepoli: la donna ha compiuto una buona opera (kalòn ergon, v.
6); i poveri sono una scusa, infatti ci sarà sempre tempo per far loro del bene (v.
7); il gesto della donna ha soprattutto significato profetico, annuncia la sepoltura di Gesù (secondo accenno alla Passione, v.
8).
Il valore perenne del gesto è sancito dalla consegna alla memoria («sarà narrato in memoria di lei»: presente in Matteo, non in Giovanni).
Al terzo accenno della Passione (racconto del tradimento di Giuda, vv.
10-11) seguono i preparativi della Cena pasquale (vv.
12-16); tutto appare già predisposto, come in un dise-gno dall’alto, fin nei minimi particolari, e questa Pasqua si preannuncia già con un caratte-re di unicità.
Ultima Cena (14,17-31) Il grande quadro della Cena racchiude il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia (vv.
22-25) fra due annunci di Gesù che si corrispondono: il tradimento di Giuda (vv.
17-21), indi-cato senza nominarlo come «colui che mangia con me», e il rinnegamento di Pietro (vv.
26-31).
Quarto e quinto accenno alla Passione, quest’ultimo contiene anche un primo accenno alla resurrezione (v.
28) che passa quasi inosservato, non compreso dai discepoli.
L’istituzione dell’Eucaristia corrisponde sostanzialmente al testo di Matteo, manca però la motivazione «in remissione dei peccati» (Mt 26,28).
Diversa, com’è noto, la relazione di Luca (22,15-20) e di Paolo (1Cor 11,23-25): in Marco e Matteo l’alleanza non è chiamata «nuova».
Come in Matteo e in Luca, in Marco si parla del compimento escatologico nel Regno, e questo è detto «nuovo»: «non berrò mai più del frutto della vite…».
Getsemani e arresto (14,32-52) Il racconto appare molto tormentato quanto alla formazione.
Si possono riconoscere due tradizioni intrecciate: una cristologica, in risposta alla domanda «chi è Gesù»?; una mora-leggiante, che propone un modello di comportamento per i discepoli.
Intorno a un nucleo antichissimo — «il Figlio dell’uomo viene consegnato» (v.
41) — si svi-luppa una lettura in profondità, un racconto in cui Gesù manifesta il suo sentimento, e che fa inclusione con il culmine della Passione («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», 15,34).
Si susseguono cinque brevi discorsi di Gesù (quattro ai discepoli, quello centrale al Padre).
L’azione ha una struttura ternaria: tre volte Gesù prega, tre volte i discepoli dor-mono, tre volte Gesù va e viene.
Anche i verbi si ripetono: pregare (4x), dormire (4x), vegliare (3x).
Protagonista è Gesù, il Padre è presente nell’ombra.
Gli altri personaggi, poco più che comparse, sono in concentrazione successiva: i discepoli, i tre, Pietro; più tardi il quadro si allarga: Giuda, i Dodici, la folla.
Gesù sceglie i tre, come altre volte prima di compiere un gesto importante (cf.
5,37; 9.2).
È rappresentato totalmente dalla parte dell’uomo: si prostra (v.
35), la sua preghiera (v.
36) ha lo svolgimento classico dei salmi (invocazione, professione di fede, supplica, accetta-zione della volontà di Dio; manca il ringraziamento).
La sua tristezza è scandita da due immagini: l’ora e il calice.
L’insistenza sul sonno dei discepoli mette in luce la loro lonta-nanza e debolezza.
L’invito a pregare per non soccombere alla tentazione, rivolto non solo a Pietro, contrappone la carne e lo spirito non come due sostanze, ma come due tendenze che coinvolgono l’uomo intero: la lacerazione tra volontà e debolezza è interna al cuore dell’uomo (v.
38).
Infine, l’accettazione, con una espressione curiosa e rara: apéchei (v.
41), «basta», si trova in calce alle fatture nei papiri, con il senso di «saldato, pagato».
L’ora è venuta: il Figlio è consegnato, agli uomini e al compimento del disegno di Dio.
Tra i due imperativi: «restate qui» (v.
32) e «andiamo» (v.
42), gli altri personaggi sono immobili e pas-sivi, solo Gesù è in piena luce.
Gesù è protagonista assoluto anche nella scena dell’arresto (vv.
43-52).
Giuda crede di condurre l’azione, in realtà è una pedina, come i soldati e lo stesso discepolo che ferisce il servo del sommo sacerdote.
È Gesù che domina, mostrando di conoscere tutto da principio e che tutto si svolge secondo il progetto annunciato dalle Scritture (v.
49).
Rimane a con-clusione l’immagine del giovinetto che fugge nudo (51-52): secondo la tradizione lo stesso evangelista Marco, in realtà figura di tutti noi, nudi come Adamo ed Eva di fronte al mo-mentaneo trionfo del peccato (Gn 3,7), inermi e affidati solo alla gratuita misericordia di Dio.
Gesù davanti al sinedrio (14,53-65) Due racconti si annunciano nel primo versetto, con uno svolgimento parallelo: Gesù è portato davanti al sinedrio, Pietro si scalda al fuoco in cortile.
La prima scena si apre con l’affannosa ricerca dei falsi testimoni, confusi e contraddittori (vv.
55-59).
Segue l’interrogatorio, cui Gesù oppone prima il silenzio (v.
61), poi la citazio-ne di Dan 7,13.
La testimonianza di Gesù, a differenza di quella dei suoi avversari, è chiara e inequivocabile, e la sentenza di condanna — del resto già decisa — è immediata.
La seconda scena, contemporanea, vede snodarsi il dramma di Pietro: la prima nega-zione, il primo canto del gallo (v.
68), la seconda e la terza negazione, ancor più decisa (vv.
70-71).
Infine, il secondo canto del gallo e il pianto liberatorio di Pietro, ormai consapevole e convertito (v.
72).
Gesù davanti a Pilato (15,1 -20a) Mentre davanti al sommo sacerdote Gesù passa dal silenzio alla parola, davanti a Pila-to, dopo una prima lapidaria risposta — «Tu lo dici» (v.
2) — sceglie il silenzio.
Rimane tut-tavia protagonista della storia, colui che, contro le apparenze, conduce il gioco.
Pilato si af-fanna a cercare una via d’uscita non troppo disonorevole da quella che per lui è solo una seccatura; Barabba è un fantoccio nelle mani dei potenti; la folla, manovrata dai capi, grida senza comprendere ciò che dice.
Da tutta questa pericope (vv.
6-15) Gesù è assente, altri decidono di lui; e tuttavia si intuisce che tutto avviene secondo la sua consonanza con la volontà del Padre.
La scena seguente (vv.
16-20) lo mostra paradossalmente vincitore proprio nella massi-ma umiliazione.
Rivestito di porpora, incoronato di spine (v.
17), salutato re dei Giudei (v.
18), omaggiato per scherno (v.
19): con un procedimento di ironia tragica, appare qui ol-traggiato e torturato, e proprio così, secondo la logica della croce (sub contraria specie), ma-nifesta la sua regalità.
Crocifissione, morte, sepoltura (15,20b- 47) Il racconto si snoda sempre più drammatico, allineando con precisione i particolari.
Per aiutare il condannato viene chiamato un contadino, individuato con nome, provenienza, parentado; il luogo della crocifissione è segnalato con la denominazione aramaica e greca (vv.
21-22).
Il seguito è registrato con una preoccupazione quasi cronachistica: Gesù rifiuta il vino drogato che si dava ai condannati per renderli incoscienti; i soldati sorteggiano le sue vesti; si indicano l’ora — la terza —, l’iscrizione con il motivo della condanna, i brigan-ti compagni di sventura (vv.
23-27).
Da questo primo livello di cronaca il racconto passa a uno stile narrativo più ricco, e ri-porta i commenti sarcastici dei passanti e degli avversari.
Per l’ultima volta, si chiede inu-tilmente a Gesù un segno straordinario che renda obbligata, e quindi inutile, la fede: «scen-da ora dalla croce»! (v.
32).
Ancora una precisazione temporale: l’ora sesta, quando la terra si oscura fino all’ora nona (v.
33).
Ed ecco il grido di Gesù, riportato anche in ebraico: è l’inci-pit del salmo 22, il lamento del giusto perseguitato, che si conclude con la lode e il ringra-ziamento al Dio d’Israele.
In bocca a Gesù, il grido ha probabilmente una duplice valenza: è il lamento profondamente umano e autentico di chi appare veramente abbandonato e vede il fallimento della sua missione, nella fuga dei suoi; ma è difficile negare che ci sia l’e-co del salmo, e quindi la conferma della speranza in Dio.
Infine, con un grido, Gesù muore (v.
37), uomo fino all’ultimo: proprio qui si rivela in lui una potenza riconosciuta proprio dal testimone che sembrerebbe più lontano, il centu-rione pagano cui si deve la più alta professione di fede: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».
Dei seguaci di Gesù sono presenti qui solamente, ma in disparte, le donne, fra cui non è nemmeno nominata la madre (vv.
40-41).
Tolto dalla croce, il corpo viene avvolto in un lenzuolo e deposto in un sepolcro nuovo, in fretta perché il sabato sta per iniziare.
Le donne che osservano da lontano chiudono il racconto, e lo riapriranno, tornando alla tom-ba vuota, all’alba del primo giorno dopo il sabato (16,1).
Meditazione La proclamazione dell’evangelo della Passione ci inserisce direttamente nel clima pa-squale di questa santa settimana.
Nell’ascolto attento e partecipe di questo testo già vivia-mo, in tutta la sua ricchezza, quel mistero di morte e risurrezione che ci apprestiamo a ce-lebrare in modo più solenne nei prossimi giorni.
Il racconto di Marco è sobrio, spoglio, essenziale; i fatti sono presentati nella loro nudità in modo sconcertante.
Il ritmo della narrazione è incalzante e gli episodi si susseguono in una progressione implacabile, quasi come un gioco tragico che procede senza posa verso la sua ineluttabile conclusione.
Marco, per far emergere la sua teologia, non ha bisogno di affidarsi a lunghi discorsi, né di introdurre troppi interventi personali nel corso del testo: gli basta mettere il suo lettore «davanti allo “shock” delle immagini e dei fatti» (M.
Berder).
Il paradosso della croce è fatto risaltare in tutta la sua evidenza semplicemente dalla forza drammatica con cui vengono dispiegati i singoli avvenimenti.
Gli eventi parlano da soli per chi li sa ascoltare…
Un tratto tipico – comune ai quattro evangelisti – del racconto della Passione è lo spazio abbondante dato ai riferimenti scritturistici, in buona parte tratti dal libro dei Salmi.
Al ri-guardo, è emblematico che le rarissime volte in cui si vogliono rendere manifesti i senti-menti di Gesù si ricorra quasi esclusivamente a citazioni di salmi (al Getsèmani Gesù e-sprime la sua tristezza mortale con le parole del Sal 42-43; sulla croce grida il suo abban-dono con le parole del Sal 22).
Per le prime comunità cristiane era importante trovare un senso allo scandalo di un Messia crocifisso e questo lo si poteva fare solamente interrogando le Scritture, cercando di scorgere in esse il piano di Dio.
Come poteva lo scandalo della Croce rientrare nel disegno salvifico di Dio? La fede dei primi cristiani ha trovato luce nel-le pagine del Primo Testamento, soprattutto là dove esse svelano che spesso la riuscita di Dio passa attraverso lo scacco degli uomini da lui eletti, che il suo piano «va sempre a buon fine attraverso il fallimento» (J.
Delorme).
Così i giusti perseguitati, di cui trabocca il Salterio, diventano figure trasparenti attraverso cui guardare il dramma del Giusto perse-guitato per eccellenza.
Così anche il misterioso personaggio del Servo del Signore (di cui ci parla la prima lettura tratta dal profeta Isaia) diventa figura capace di illuminare la vicen-da dolorosa e insondabile del Figlio dell’uomo «consegnato nelle mani dei peccatori» (14,41).
Fin dai primi capitoli del suo vangelo, Marco ci aveva preparati all’eventualità di una fi-ne violenta del Maestro di Nàzaret.
Infatti, già in 3,6, dopo una guarigione operata di saba-to, si dice: «i farisei con gli erodiani tennero consiglio contro di lui per farlo morire».
Ora il momento è inesorabilmente arrivato e Gesù si avvia solo, tradito e abbandonato da tutti (cfr.
14,50!) verso il luogo in cui si consumerà la sua passione.
Egli sa a cosa sta andando incontro, eppure continua, nonostante tutto, a rendere grazie (cfr.
14,22-23), a riaffermare la sua confidenza in Dio, il suo Abbà (cfr.
14,36), a mantenere la fiducia in un al di là vittorioso (cfr.
14,9; 25.28), a confessare la sua grande speranza in un’aurora di luce, quando verrà sulle nubi del cielo «seduto alla destra della Potenza» (14,62).
L’interrogativo che affiora a più riprese nel corso del secondo vangelo («Chi è dunque Gesù?») trova qui una risposta defi-nitiva: Gesù stesso, rispondendo al sommo sacerdote che gli domandava se è il Cristo, il Fi-glio del Benedetto, dichiara: «Io lo sono!» (14,62); e sotto la croce sarà inaspettatamente un pagano a riconoscere in quell’uomo agonizzante il Figlio di Dio: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (15,32).
Possiamo dire che, proprio nell’estremo «svuotamento», nell’estrema «umiliazione», nell’estremo «abbassamento» (per usare le parole dell’inno di Fil 2,6-11) di una morte infame e maledetta, si rivela agli occhi della fede l’identità vera di Gesù.
Proprio quella morte (e quel modo di morire) fa alzare il velo sul mistero della sua persona, rende palese il segreto a lungo taciuto.
Il silenzio della croce è più eloquente di molte parole, il buio di quella morte è più luminoso di tante luci…
Ma il racconto della passione non vuol semplicemente informarci sulle ultime ore terre-ne di Gesù, esso vuole soprattutto invitarci a un coinvolgimento personale – il cammino di Gesù deve diventare il nostro cammino – e vuole anche farci riflettere sulla vicenda di al-cuni personaggi che compaiono nel corso della narrazione, con tutto il loro carico di corag-gio e di codardia, di fedeltà e di tradimento, di coerenza e di contraddizione, di amore e di odio.
È utile anche riflettere sulle motivazioni profonde del loro agire (Marco si premura di rendercene note alcune: per esempio, in 15,10, ci dice che i capi del popolo hanno con-segnato Gesù alla morte «per invidia»…).
Significative, a questo proposito, sono le due fi-gure speculari di Giuda e di Pietro.
Entrambi della cerchia dei Dodici, l’uno tradisce il Ma-estro, l’altro lo rinnega; l’uno passa dalla parte degli oppositori, l’altro rivela tutta la fragili-tà e l’inconsistenza della sequela del discepolo.
Essi, in qualche modo, non cessano di rap-presentarci, perché in Giuda riconosciamo il traditore in potenza che è in ciascuno di noi e in Pietro riconosciamo le nostre paure, le nostre debolezze, la nostra poca fede.
Ci sono però altri personaggi minori, più positivi, che, seppure fanno una breve com-parsa sulla scena, lasciano dietro di sé una scia luminosa.
La donna di Betània che, con un solo gesto, mostra di comprendere Gesù più di ogni altro discepolo (cfr.
14,3-9); il miste-rioso ragazzo che segue Gesù dopo che tutti i discepoli lo hanno abbandonato (cfr.
14,51-52); Simone di Cirene che porta la croce di Gesù come un buon discepolo (cfr.
15,21); il centurione che, unico tra i presenti, confessa la sua fede sotto la croce (cfr.
15,39); le donne che, a dispetto dei discepoli, hanno continuato a seguire Gesù e sono salite con lui sul Cal-vario (cfr.
15,40-41); Giuseppe d’Arimatea che, con coraggio e pietà, va a chiedere il corpo di Gesù per assicurargli una degna sepoltura (cfr.
15,43-46).
Figure curiose ed esemplari che, con la loro presenza e il loro atteggiamento, si fanno prossimi e solidali al Crocifisso rendendo, in certa misura, meno cupo il dramma della sua passione.
La processione e la passione Molti furono stupiti della sua gloria, simile a quella di un trionfatore vittorioso, nel momento in cui entrava in Gerusalemme, ma poco dopo, nel momento in cui affrontava la passione, il suo volto era privo di gloria e umiliato.
[…] Se dunque si considera a un tempo la processione di quest’oggi e la passione, Gesù appare sublime e glorioso da una parte e umiliato e sofferente dall’altra.
La processione fa pensare all’onore riservato ai re; la Pas-sione mostra la punizione riservata al ladrone.
Qui lo circondano gloria e onore, là «non ha né forma né bellezza» (Is 53,2).
Qui è la gioia degli uomini e il vanto del popolo, «là l’ob-brobrio degli uomini, l’oggetto di disprezzo del popolo» (Sal 21 [22], 7).
Qui lo si acclama: «Osanna al figlio di David! Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore» (Mc 11,10); là lo si proclama degno di morte e lo si deride perché si è fatto re di Israele.
Qui gli si va incontro con rami di palma; là con le loro mani lo percuotono sul volto e gli colpisco-no la testa con una canna.
Qui è colmo di lodi; là è saziato di insulti.
Qui, a gara, si ricopre la sua via con vesti altrui; là è spogliato delle proprie vesti.
Qui è accolto a Gerusalemme come il re giusto e il Salvatore (cfr.
Zc 9,9) ; là è scacciato da Gerusalemme come un crimi-nale e un impostore.
Qui siede sopra un asino, avvolto di onore; là è appeso al legno della croce, straziato dalle verghe, coperto di piaghe, abbandonato dai suoi.
[…] Fratelli, se vo-gliamo seguire la nostra guida senza vacillare tanto nei momenti felici che in quelli avver-si, contempliamolo avvolto di onore nella processione delle Palme, sottoposto agli oltraggi e alle sofferenze nella passione, ma in tale mutamento di circostanze non mutò i suoi pen-sieri.
[…] Signore Gesù, tutti ti benedicano, tu gioia e salvezza di tutti, sia che ti vedano se-duto sull’asino, sia che ti vedano sospeso al legno della croce.
Vedendoti regnare sul trono ti lodino nei secoli dei secoli.
A te lode e onore per tutti i secoli dei secoli.
(GUERRICO D’IGNY, Terzo discorso sulle Palme 2.5, SC 202, pp.
188-192.198-200) L’esempio di Gesù nel Getsèmani «Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: “Se-detevi qui, mentre io prego”.
Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia.
Gesù disse loro: “L’anima mia è triste fino alla morte.
Restate qui e ve-gliate”.
Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passas-se da lui quell’ora» (Mc 14,32-35).
[…] Che cosa significano questi sentimenti di angoscia che hanno il culmine nella tri-stezza “fino alla morte”?.
[…] Come Gesù reagisce in questa lotta per l’obbedienza della mente, il cui esito, per molti, è di fuggire, di ritirarsi, di abbandonare tutto? Reagisce restando.
Chiede ai discepoli di restare, di non fuggire, di non cambiare situa-zione, ma di affrontare la lotta.
Poi, andato un poco innanzi, si getta a terra e prega perché, se è possibile, passi da lui quell’ora.
È molto bello che Gesù affronti direttamente il male ma, a partire dalla propria debolezza, «che passasse da lui quell’ora» (Mc 14,35).
La sua è una lotta col Padre, ed egli vuole ad ogni costo che sia vittoriosa la volontà del Padre.
Infatti «diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”» (Mc 14,36).
Egli sa di volere altro, di volere che si allontani da lui quel calice, ma la parola decisiva è «ciò che vuoi tu».
È la parola ultima della fede, dell’obbedienza della mente, parola che in-terpreta Abramo, Giobbe, tutti i santi della via della fede nell’Antico Testamento.
Possiamo restare in contemplazione affettiva di Gesù nel Getsèmani e chiedergli: Che cosa dici tu a me? Come vivo io queste realtà? Suggerisco tre riflessioni conclusive.
1.
Se c’è una lotta per l’obbedienza della mente, il modello è Gesù nell’orto, Gesù orante; lui è il modello ultimo che riassume tutto il combattimento di Giobbe nella sua violenza e nella sua vittoria, il luogo migliore per rileggere l’insieme del Libro di Giobbe e coglierne lo sbocco nel disegno divino.
2.
Chi prega per non entrare in tentazione ha già vinto per metà.
Difatti Gesù supplica i suoi apostoli: «Pregate per non entrare in tentazione» e obbliga noi a ripetere questa inces-sante domanda nella preghiera domenicale: domanda di cui non sempre comprendiamo l’importanza e che spesso formuliamo a fior di labbra.
Con essa si chiede al Padre di co-gliere il carattere di lotta e di prova di tante situazioni, di non entrarci a capofitto senza capire che sono una prova, ma di affrontarle nella preghiera.
Quando ci si accorge che una certa realtà, un evento, sono una prova in cui Dio ci pone abbiamo già superato per metà la difficoltà; quando invece li si legge come destino cattivo, come malvagità della gente, della società, come ignoranza dei superiori o pigrizia di quanti ci sono affidati, è assai dif-ficile uscirne se non con discorsi razionali o con provvedimenti di tipo programmatico, che però solo in parte risolvono il problema.
Se colgo l’aspetto di prova emerge il grido: «Signore, non permettere che io cada in tentazione! Fammi comprendere che sto viven-do un momento importante della mia vita e che tu sei con me per provare la mia fede e il mio amore».
3.
La vera vittoria è – come insegnano Abramo, Giobbe e soprattutto Gesù – l’abbandono al mistero inesauribile, creativo, sorprendente di Dio che ha risorse al di là di quanto noi possiamo pensare e capire.
Non dobbiamo mai credere di essere in un vicolo cieco, perché anche quando ne abbiamo l’impressione la Trinità è talmente capace di creatività da acco-glierci; quindi il muro del resistenza, il vicolo cieco in cui ci si sente, viene scavalcato e su-perato da un abbandono che è l’atto supremo di libertà dell’uomo, l’atto in cui l’uomo per- viene a essere maggiormente se stesso, cioè creatura fatta per il dialogo con Dio e che si salva nell’affidamento totale a lui come Padre pieno di amore e di misericordia.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 99-102).
“Mai più” Madame Michel è morta stamattina.
È stata investita dal camioncino di una tintoria, vi-cino a rue du Bac.
[…] E io? Io che cosa provo? Chiacchiero dei piccoli eventi del 7 di rue de Grenelle ma non sono molto coraggiosa.
Ho paura di guardare dentro me stessa e ve-dere cosa sta succedendo.
Mi vergogno anche un po’.
Credo che in fondo io volessi morire e far soffrire Colombe, la mamma e papa solo perché ancora non avevo mai soffer-to davvero.
O meglio: soffrivo senza provare dolore, e tutti i miei bei progetti erano un lusso da ragazzina senza problemi.
La lucidità di una bambina ricca che vuole rendersi in-teressante.
Ma ora, per la prima volta, sono stata male, tanto male.
Un pugno nello stomaco, senza respiro, il cuore in poltiglia, lo stomaco completamente spappolato.
Un dolore fisico in-sopportabile.
Mi sono chiesta se mai un giorno potrò rimettermi da dolore.
Volevo urlare dal dolore.
Ma non ho urlato.
Adesso la sofferenza c’è ancora, ma non mi impedisce più di camminare o di parlare, mentre provo una sensazione di impotenza e assurdità totali.
Al-lora è proprio così? Di colpo svaniscono tutte le possibilità? Una vita piena di progetti, di discussioni appena abbozzate, di desideri ancora non esauditi si spegne in un secondo, e non rimane più niente, non c’è più niente da fare, non si può più tornare indietro? Per la prima volta in vita mia ho sperimentato il senso delle parole mai più.
Beh, è una cosa terribile.
Le pronunciamo cento volte al giorno, ma non sappiamo cosa stiamo dicen-do se non ci siamo ancora confrontati con un vero “mai più”.
In fondo ci illudiamo sempre di poter controllare ciò che accade; nulla ci sembra definitivo.
Anche se in queste ultime settimane dicevo che presto mi sarei suicidata, non so se ci credessi veramente.
Ma questa decisione mi faceva davvero provare il senso della parola “mai”? Niente affatto.
Mi faceva provare il mio potere di decidere.
E penso che, qualche istante prima di mettere fine alla mia vita, “finito per sempre” sarebbe rimasta ancora un’espressione vuota.
Ma quando qual-cuno a cui vuoi bene muore…
allora posso dire che capisci cosa significa, ed è una cosa che fa molto molto male.
È come un fuoco d’artificio che si spegne di colpo e tutto diventa ne-ro.
Mi sento sola, malata, ho la nausea e ogni movimento mi costa uno sforzo immane.
[…] Stasera, ripensandoci, con il cuore e lo stomaco in subbuglio, mi dico che forse in fondo la vita è così: molta disperazione, ma anche qualche istante di bellezza dove il tempo non è più lo stesso.
È come se le note musicali creassero un specie di parentesi temporale, una sospensione, un altrove in questo luogo, un sempre nel mai.
Sì, è proprio un sempre nel mai.
Non preoccuparti, Renée, non mi suiciderò e non darò fuoco proprio a un bel niente.
Perché d’ora in poi, per te, andrò alla ricerca dei sempre nel mai.
La bellezza, qui, in questo mondo.
(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 315-319).
Come vivere la settimana Santa La benedizione delle palme, da cui questa domenica prende il nome, e la processione che ne è seguita vogliono evocare l’ingresso in Gerusalemme di Gesù e la folla che gli va incontro festosa e acclamante.
Forse la nostra processione appare un po’ povera rispetto a ciò che dovrebbe rievocare.
L’importante, tuttavia, non è prendere in mano le palme e gli ulivi e compiere qualche pas-so, ma esprimere la volontà di iniziare un cammino.
Questa scena infatti, che vorrebbe es-sere di entusiasmo, non ha valore in sé: assume piuttosto il suo significato nell’insieme de-gli eventi successivi che culmineranno nella morte e nella risurrezione di Gesù.
Contiene perciò una domanda che è anche un invito: vuoi tu muovere i passi entrando con Gesù a Gerusalemme fino al calvario? Vuoi vedere dove finiscono i passi del tuo Dio, vuoi essere con lui là dove lui è? Solo così sarà tua la gioia di Pasqua.
Entriamo dunque con la domenica delle Palme nella Settimana santa, chiamata anche “autentica” o “grande”.
Grande perché, come dice san Giovanni Crisostomo, «in essa si sono verificati per noi beni infallibili: si è conclusa la lunga guerra, è stata estinta la morte, cancellata la maledizione, rimossa ogni barriera, soppressa la schiavitù del peccato.
In essa il Dio della pace ha pacificato ogni cosa, sia in cielo che in terra».
Sarà dunque una settimana nella quale pregheremo in particolare per la pace a Gerusa-lemme e ci interrogheremo pure sulle condizioni profonde per attuare una reale pace a Gerusalemme e nel resto del mondo.
La liturgia odierna è quindi un preludio alla Pasqua del Signore.
L’entrata in Gerusa-lemme dà il via all’ora storica di Cristo, l’ora verso la quale tende tutta la sua vita, l’ora che è al centro della storia del mondo.
Gesù stesso lo dirà poco dopo ai greci che, avendo sa-puto della sua presenza in città, chiedono di vederlo: «È venuta l’ora in cui sarà glorificato il Figlio dell’uomo» (Gv 12,23).
Gloria che risplenderà quando dalla croce attirerà tutti a sé.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 159-160).
Classe prima – Aprile
VIII unità di apprendimento: ”La festa di Pasqua” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * Gesù di Nazaret, l’Emmanuele “Dio con noi”. * Cogliere i segni cristiani della Pasqua.
OBIETTIVI FORMATIVI • Individuare i segni di vita nuova presenti nell’ambiente • Scoprire i segni della festa di Pasqua Suggerimenti operativi • Riflettere sui segni presenti nella natura che ci fanno capire il cambio di stagione: siamo in primavera! Dare spazio a ogni bambino per esprimersi e raccontare le proprie esperienze.
• Scrivere, con l’ausilio del computer, la parola primavera (con carattere grassetto in modo da poter colorare l’interno delle lettere).
Individuare, insieme ai bambini, i colori che si adattano meglio alla primavera e dare la consegna di utilizzare le tinte appena scelte per colorare la scritta.
Alla fine incollare la scritta sul quaderno e decorare la pagina con altri disegni primaverili.
• Scoprire che si sta avvicinando una festa molto importante per i cristiani e lasciare spazio ai bimbi per far emergere le loro conoscenze pregresse.
Sottolineare la differenza tra i segni cristiani e quelli solo materiali; vedere i collegamenti (ad esempio: dall’uovo segno di vita ed eternità, all’uovo di cioccolato con sorpresa).
• Riprendere il vero significato della Pasqua cristiana: la risurrezione.
Scrivere sul quaderno: “Il giorno di Pasqua i cristiani dicono con gioia: Gesù è risorto”.
Fornire a ogni bambino un’immagine del risorto (si trovano sui quaderni operativi o su molti siti internet di immagini religiose).
Raccordi con altre discipline Informatica, ed.
all’immagine, scienze, italiano.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
6: ogni bambino ha diritto di vivere.
Art.
14: ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.
Primo biennio – Aprile
VIII unità di apprendimento: ”Pasqua ebraica e cristiana” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * La festa della Pasqua. * Rilevare la continuità e la novità della Pasqua cristiana rispetto alla Pasqua ebraica.
OBIETTIVI FORMATIVI • Scoprire la Pasqua di Gesù come il centro della fede cristiana • Conoscere le tradizioni della Pasqua ebraica • Individuare somiglianze e differenze fra la Pasqua ebraica e quella cristiana Suggerimenti operativi • Ripercorrere le vicende della storia di Mosè e sottolineare la “nascita” della Pasqua ebraica.
Leggere da una Bibbia per ragazzi il racconto dell’episodio della liberazione dall’Egitto.
• Partire dalle conoscenze pregresse dei bambini sulla festa di Pasqua.
Riconoscere nell’evento della Pasqua di Gesù il centro della fede cristiana, partendo da una discussione collettiva o attuando un brain-storming.
Al termine dell’attività fissare alcune idee sul quaderno.
• Dividere la classe in gruppi e affidare a ognuno la ricerca di somiglianze e differenze fra i racconti biblici ascoltati nelle lezioni precedenti.
Individuare la continuità tra la Pasqua ebraica e quella cristiana; sottolineare il significato di “Pesàh” = passaggio.
Raccogliere le idee emerse dai vari gruppi e fissarle in uno schema sul quaderno.
Raccordi con altre discipline Italiano, storia, ed.
all’immagine, ed.
alla convivenza.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
7: Ogni bambino ha diritto ad avere un’identità.
Art.
14: Ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.
Secondo biennio – Aprile
VIII unità di apprendimento: ”La festa di Pasqua” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * I segni e i simboli del cristianesimo, anche nell’arte.
* Individuare significative espressioni d’arte cristiana, per rilevare come la fede è stata interpretata dagli artisti nel corso dei secoli.
OBIETTIVI FORMATIVI • Conoscere i luoghi dove si è svolta la Passione di Gesù • Comprendere che nel mondo sono presenti diverse espressioni culturali legate alla Pasqua Suggerimenti operativi • Iniziare con un brain storming sui luoghi dove Gesù è vissuto.
Partire da domande che sembrano banali “Dove è nato?”, “Dove è vissuto?” perché spesso i bambini stessi danno per scontato di conoscere queste informazioni, ma spesso non è così o c’è un po’ di confusione.
Fissare alcune notizie sul quaderno, in modo schematico.
• Assegnare a ogni bambino il compito di chiedere ai genitori un aiuto per ricercare, attraverso internet, informazioni e fotografie della Palestina di ieri e di oggi (Israele e i territori palestinesi).
• Organizzare il materiale ricercato in un cartellone da appendere in classe; mettere in evidenza soprattutto i luoghi della Passione, morte e risurrezione di Gesù.
Individuando quale episodio evangelico si è svolto in un determinato luogo.
• Preparare una scheda riassuntiva con alcune tradizioni pasquali diffuse nel mondo, a partire da quelle conosciute dai bambini, in particolare se in classe sono presenti alunni di altri paesi o confessioni cristiane.
Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
all’immagine, geografia, storia, ed.
alla convivenza, informatica.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
13: ogni bambino ha il diritto di imparare e di esprimersi per mezzo della scrittura e dell’arte.
Art.
14: ogni bambino ha il diritto di seguire la propria religione.
V Domenica di Quaresima
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Geremia 31,31-34 Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova.
Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore.
Oracolo del Signore.
Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.
Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.
Gesù Cristo, l’abbiamo constatato, è ormai pronto a consegnarsi al disegno del Padre, perché, come aveva in precedenza detto: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (4,34).
Tutto ciò sfocia nell’atto della stipula di una nuova alleanza, di cui ai suoi tempi il profeta Geremia aveva avvertito la necessità: «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova.
Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore.
Oracolo del Signore» (31,31-32).
Infatti Geremia aveva preso coscienza di quanto fosse difficile per il suo popolo vivere da popolo di Dio, nella fedeltà e nel rispetto della legge.
D’altra parte, egli stesso era stato rifiutato in qualità di messaggero di Dio da coloro che avrebbero dovuto ascoltarlo.
Di che cosa allora si sente la necessità? Dio pensa a dare all’alleanza, atto con cui Egli si è «legato» e fatto «soggiogare» alla fedeltà nei confronti dei discendenti d’Abramo, una forza tale da renderla «più intima dell’intimo dell’uomo».
Si tratta di una legge di cui non ci si può accontentare di vedere scritta in codici cartacei o su tavole di pietra o altro materiale, quasi a essere rassicurati sulla sua perennità, bensì di una legge posta nel cuore stesso dell’uomo: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (31,33).
Il profeta di Anatot non conosce certamente lo Spirito Santo come noi dopo la rivelazione di Gesù Cristo, benché in quanto profeta ne abbia fatto un’esperienza eccezionale.
Eppure è lo Spirito che sarà chiamato «nuova legge» e lo stesso profeta veterotestamentario ne sente come il forte desiderio di attingere a questa maggiore luce.
In fondo, anch’egli, come i Greci del Vangelo, domanda più chiarezza e si rallegra nella speranza che un giorno il cuore di ogni uomo, finalmente risanato dal limite del peccato e purificato da tutte le angosce, possa riconoscere in Dio il salvatore e il liberatore senza problemi: «Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» (31,34).
Seconda lettura: Ebrei 5,7-9 Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Il brano evangelico ci presenterà un Gesù perfettamente disposto all’obbedienza di fronte alla volontà salvifica del Padre suo e Padre nostro.
Su questo medesimo tenore si situa anche la breve pericope tratta dalla Lettera agli Ebrei.
L’autore della Lettera, infatti, non trascura di segnalare quella che è una delle componenti di ogni uomo; l’angoscia di doversi consegnare alla morte, perché da essa «nullo homo vivente può scappare», come dice Francesco d’Assisi.
Di tale angoscia fu partecipe anche Gesù e «nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7).
Questo senso di solidarietà è totale, perché ci viene prospettato in primo luogo un Gesù che prega e supplica il Padre durante la sua vita terrena, nella quale ha incontrato chissà quante volte il pallore della morte, lo squallore della miseria, la disperazione della malattia incurabile.
Inoltre, al suo supplicare egli aggiunse «grida e lacrime», in sequenza incessante, per rimarcare il grado dell’offerta della propria vita, in qualità di “sommo sacerdote” che s’immola a vantaggio dell’umanità.
E il Padre, che ha il potere di donare la vita e di riprenderla, esaudì il Figlio, in quanto gli era gradito tutto ciò che da Lui era compiuto.
Dunque, per questa sua relazione spirituale, Cristo è stato esaudito, come poi precisano i vv.
8 e 9: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».
L’offerta di Cristo, in realtà costituisce un sacrificio efficace che il Padre ha gradito, poiché la sua volontà è stata rispettata: la stessa disponibilità dimostrata da Cristo gli ha consentito di intervenire trasformandone la vita (Gesù «reso perfetto») in opera di completa mediazione della salvezza divina per quanti, sul modello del Maestro, si faranno “obbedienti”.
Vangelo: Giovanni 12,20-33 In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci.
Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù.
Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato.
In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore.
Se uno serve me, il Padre lo onorerà.
Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono.
Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato».
Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi.
Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori.
E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me».
Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Esegesi Prima di entrare nel vivo del brano, proviamo a tracciare, seguendo il racconto dell’evangelista Giovanni, le coordinate entro le quali s’inquadra il brano di questa domenica.
Nel primo versetto del capitolo 12 leggiamo: «Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti».
Gesù, infatti, a quel che dice il quarto Vangelo, si recava spesso a Gerusalemme per pregare e insegnare nel Tempio, avendo «punto d’appoggio» la casa di Lazzaro, nel villaggio di Betania, distante un paio di chilometri dalla capitale.
Durante la cena che fu consumata a casa di Lazzaro, Maria, una delle sue sorelle, compì un gesto «profetico»: l’unzione dei piedi del Maestro.
La narrazione prosegue con la descrizione di un altro atto «profetico», che coinvolse parte della folla venuta per il pellegrinaggio pasquale: «Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!» (12,12-13).
In questo contesto avviene l’incontro tra Gesù e i Greci, i quali chiedono a Filippo di essere presentati al Maestro.
Il Vangelo, però, si nota subito, purtroppo non ci dice se il dialogo tra Gesù e coloro che hanno chiesto di vederlo si sia verificato, tuttavia ci riferisce le parole pronunciate da Lui appena Andrea e Filippo lo informano della richiesta espressa da questi Greci: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato.
In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore.
Se uno serve me, il Padre lo onorerà.
Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (12,23-28a).
Dal tenore di queste parole emerge un Gesù perfettamente cosciente non solo della morte imminente (i suoi avversari hanno tramato di ucciderlo dopo Pasqua, ma Gesù li «costringerà» ad anticipare), bensì anche del fatto che la morte non costituisce affatto una sconfitta.
Anzi, Gesù adopera termini che fanno presagire, da parte sua, l’ansia di portare a compimento quella missione, affidatagli dal Padre, di cui più volte ha parlato: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16-17).
Che il Padre desideri salvare l’umanità attraverso suo Figlio Gesù è la «buona notizia» da annunciare, ossia la glorificazione da rendere manifesta mediante il mistero pasquale che Gesù è, in un certo qual senso, ansioso di adempiere, come dimostra l’espressione: «Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!».
Perciò Egli, che è il Rivelatore, allude appena a una parabola, quella del chicco di grano caduto in terra: esso produce molto frutto qualora muoia.
Detto altrimenti, soltanto l’obbedienza alla volontà salvifica del Padre si rivela feconda di «risultati» positivi, che operano la trasformazione dal chicco singolo a una spiga carica di chicchi, risorgendo da quella stessa terra in cui è morto il chicco originario.
Ad accompagnare questa parabola c’è un detto che ne ricorda di analoghi presso i Sinottici.
Il senso non è difficile: di fronte a Gesù, che muore per poi risorgere, ciascun credente viene sollecitato a valutare la vita attuale in rapporto a quella eterna.
E perdere la vita significa mettersi al servizio di Gesù, per essere là dove Lui si trova, sulla croce come nella gloria, per godere della riconoscenza del Padre.
Alla fine delle parole di Gesù si sente una «voce dal cielo».
Non ci soffermiamo molto su questo, ricordando casi analoghi nella Bibbia (ad esempio in Es 19, At 2, Ap 5, i racconti del battesimo di Gesù e la trasfigurazione), in cui la voce divina, in relazione a teofanie, risulta indescrivibile e irriferibile per gli esseri umani.
Ma tale voce è proprio rivolta alla folla e non a Gesù.
È questo il motivo per cui Egli si preoccupa subito di «interpretarla»: Gesù sa già perché è venuto nel mondo, mentre chi lo circonda non si rende conto del valore e della sostanza della sua missione.
In realtà, il compimento del mistero pasquale si caratterizza per il giudizio che esprime sul principe di questo mondo, ossia su Satana e su tutto il complesso della sua negatività.
Dal desiderio espresso dai Greci di incontrarlo, dunque, emerge la prontezza di Gesù nel dichiararsi disponibile, nonostante la sofferenza che ne seguirà, a morire, perché quel desiderio è segno di un’umanità che ha sete della salvezza e della conoscenza della verità.
Meditazione «Vogliamo vedere Gesù!» (Gv 12,21).
La domanda rivolta a Filippo da alcuni greci simpatizzanti dell’ebraismo, venuti a Gerusalemme per la Pasqua, può realmente esprimere il desiderio profondo con cui i testi della Scrittura (e in particolare i brani del quarto evangelo) hanno ritmato il nostro percorso quaresimale.
Siamo stati guidati a una progressiva scoperta del volto di Gesù e man mano il nostro cammino di fede è stato purificato e reso autentico attraverso la comprensione profonda del segno per eccellenza: la Croce.
Il vedere esprime un’attesa che trova compimento in un incontro faccia a faccia da cui scaturisce, attraverso un dialogo, una conoscenza progressiva dell’altro.
Ma per l’evangelista Giovanni, vedere è anche il verbo che indica il cammino della fede: un andare oltre le apparenze per raggiungere il mistero che esse nascondono; vedere Gesù vuol dire conoscerlo e credere in lui.
Allora diventa significativo porre questa domanda proprio alla fine del cammino quaresimale.
Si sente in questa richiesta tutto il desiderio contenuto nell’annuncio della nuova alleanza del profeta Geremia: «tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande…
poiché io perdonerò le loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» (Ger 31,34).
Riconoscere il Dio dell’alleanza, quel Dio che perdona e dimentica il peccato, nel volto di Gesù: questa è la meta del cammino quaresimale.
Ma ancora una volta ritorna l’interrogativo: quale volto di Gesù? Potremmo rispondere con le parole della lettera agli Ebrei: il volto di colui che «pur essendo Figlio imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9).
Alla contemplazione di questo volto ci apre proprio la risposta data da Gesù a quei greci e riportata in Gv 12,23-33.
In questo testo di Giovanni ritornano alcuni termini caratteristici utilizzati dal quarto vangelo per esprimere l’unico mistero di umiliazione e di gloria: l’ora (vv.
23.27-28), la glorificazione (vv.
23.28), l’essere innalzato (v.
31).
Essi orientano, in prospettiva chiaramente pasquale, il vedere Gesù e offrono un progressivo cammino di comprensione del mistero di Cristo.
E possiamo cogliere la rivelazione che Gesù fa di sé stesso e del suo destino in tre momenti.
Essi ci guidano alla comprensione di quella parola con cui Gesù inizia il suo discorso: «è venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (12,23).
E il primo momento ci lascia disorientati.
La risposta di Gesù sembra a prima vista sconcertante; sembra ignorare la domanda.
Ma in realtà va al cuore di ciò che i greci chiedono a Gesù e, rivelando anche la strada per giungere a comprendere la sua realtà più profonda, indica l’unico cammino possibile per poterlo vedere: lo vedranno quando sarà innalzato.
E Gesù esprime questa via da percorrere anzitutto con una parabola in cui chiaramente è rivelato il paradosso di questo cammino: «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (12,24).
Per vedere chi è Gesù, bisogna nascondersi come lui; scendere sotto terra e ripercorrere la parabola del chicco di grano, la parabola di una vita abbondante che passa attraverso la morte, attraverso il dono di sé (quel perdere per conservare in vista di una pienezza: cfr.
12,25).
Nella parabola del chicco la morte è la condizione perché si sprigioni tutta l’energia vitale che il seme contiene; la vita che è racchiusa nel piccolo chicco si manifesta così in una forma nuova.
E proprio l’abbondanza del frutto (produce molto frutto) diventa immagine della glorificazione, di una vita senza fine.
La seconda tappa di questa rivelazione del Volto è espressa da Giovanni attraverso la rilettura teologica di due esperienze di Gesù, narrate dai sinottici distintamente: il Getsèmani (12,27: «adesso l’anima mia è turbata…
Padre salvami da quest’ora?») e la Trasfigurazione (12,28: «venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e ancora lo glorificherò”»).
Queste due esperienze, all’apparenza paradossalmente opposte, sono la duplice rivelazione dell’unico volto di Cristo umiliato e glorioso, calato nell’esperienza delle tenebre dell’angoscia (l’umanità del Figlio dell’uomo) e inondato dalla luce divina (la gloria del Figlio di Dio).
Ma per Giovanni le due esperienze si sovrappongono: non c’è un prima e un dopo, ma l’Umiliato è il Glorioso.
Nel volto dell’uomo angosciato di fronte alla sua ora, traspare tutta la luce del Figlio prediletto perché obbediente, di colui che «nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime a Dio…
e per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (Eb 5,7).
In continuità con la voce del Padre che proclama la glorificazione del Figlio e in parallelo con la caduta del seme nella terra, si inserisce il terzo momento della rivelazione: «io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).
È la vittoria di Cristo che genera la salvezza «di tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,9).
L’essere innalzato è il movimento dal basso verso l’alto: è appunto la Croce (12,33) che dà inizio a un movimento ascensionale che va oltre la Croce stessa e giunge fino al Padre (è il senso già presente in Gv 3,14).
In questo movimento verso l’alto, viene trascinata tutta l’umanità, tutti coloro che fissano lo sguardo sul trafitto.
Attirerò tutti a me: indica una comunione profonda di destino, un cammino verso il Padre che Gesù vuole fare con il discepolo, con ogni uomo, una condivisione di vita che passa oltre la morte.
È la riconciliazione, la salvezza piena, quella possibilità che l’uomo riacquista, in Cristo, di guardare verso Dio, non nella paura, ma nella libertà dei figli.
Quei greci volevano vedere Gesù.
Ecco loro indicato il cammino e lo sguardo.
Ora il vedere per credere deve trasformarsi in un conoscere che è comunione di vita e condivisione del cammino di Gesù: «se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore» (12,26).
Dov’è Gesù? È certamente presso il Padre, e questa è anche la meta del discepolo.
Ma Gesù è anche nascosto sotto terra, come chicco che muore per portare frutto: e questo è anche il luogo e il cammino del discepolo perché «chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (12,25).
Quei greci rappresentano tutti quegli uomini e quelle donne che «crederanno senza aver veduto» (Gv 20,29) perché il loro vedere sarà un «volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto».
E così nella domanda di questi greci si apre l’orizzonte del tempo della Chiesa, dove risuona senza sosta, sulle labbra di tanti uomini e donne, lo stesso desiderio: «Vogliamo vedere Gesù».
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
La potatura «D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino.
Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento.
Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile.
Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo.
E lí, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio lí, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande.
Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).
Grande albero e piccolissimo grano «[Nella Chiesa esiste] La tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri.
E questo non è il metodo di Dio.
Per il regno di Dio vale sempre la parabola del grano di senape (cf.
Mc 4,31-32).
Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno.
Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale.
Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».
(J.
RATZINGER, La nuova evangelizzazione in Divinarum Rerum Notitia.
Studi in onore del Card.
Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).
II seme delle domande Dio mio, sono venuto con il seme delle domande! Le seminai e non fiorirono.
Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte, ma il vento non le sfoglia! Dio mio, sono Lazzaro! Piena d’aurora, la mia tomba dà al mio carro neri puledri.
Dio mio, resterò senza domanda e con risposta vedendo i rami muoversi! (F.
Garcia Lorca).
Il seme e il frutto Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra nel grembo materno e aspetta devotamente: esso comincia a lottare, un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole cresce, diventa grande e forte abbraccia con la corona verde delle sue foglie finché tutto intero splende al sole diventa gemma e fiorisce un fiore.
E nella fioritura, seme dopo seme, c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.
E tu pianti nuovamente i mille semi, e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.
Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro guida verso casa i pensieri e pensa: tutto ciò era nel primo seme.
(Christian Morgenstern).
La croce “La croce -scriveva Simone Weil- è la nostra patria…nessuna foresta porta un tale albero, con questo fiore, con queste foglie e questo seme… Se noi acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va.
In quel momento Dio non ha più niente da fare e neppure noi, se non attendere.
Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso nuziale, che gli abbiamo accordato”.
Chi mi vuoi servire mi segua «Chi mi vuoi servire mi segua» (Gv 12,26).
Che cosa significa «mi segua», se non mi imiti? «Cristo, infatti, patì per noi», dice l’apostolo Pietro, «lasciandoci un esempio, affinché seguiamo le sue orme» (1Pt 2,21).
Questo è il senso delle parole: «Chi mi vuoi servire mi segua».
E con quale frutto? con quale ricompensa? con quale premio? «E dove sono io, dice, là sarà anche il mio servo».
Amiamolo disinteressatamente e la ricompensa del nostro servizio sarà quella di essere con lui.
Come si può star bene senza di lui, o male con lui? Ascolta ciò che vien detto in maniera più chiara.
«Se uno mi serve, il Padre mio lo onorerà» (Gv 12,26).
Con quale onore, se non con quello di poter essere suo figlio? Ciò che ha detto sopra: «Dove sono io, là sarà anche il mio servo» è la spiegazione delle parole: «II Padre mio lo onorerà».
Quale maggior onore può ricevere il figlio adottivo che quello di essere là dove è il Figlio unico, non fatto uguale a lui nella divinità, ma associato a lui nell’eternità? Dobbiamo chiederci che cosa si intenda per servire Cristo, servizio al quale viene riservata una così grande ricompensa.
[…] Servono Gesù Cristo coloro che non cercano i propri interessi, ma quelli di Gesù Cristo.
«Mi segua» vuol dire: segua le mie vie, non le sue, così come altrove sta scritto: «Chi dice di essere in Cristo, deve camminare come egli ha camminato» (1Gv 2,6).
Così, ad esempio, se uno porge il pane a chi ha fame, deve farlo animato dalla misericordia, non per vanità, non deve cercare in quel gesto nient’altro che l’opera buona, senza che la sinistra sappia ciò che fa la destra (cfr.
Mt 6,3), in modo che l’opera di carità non debba essere sciupata da secondi fini.
Chi opera in questo modo, serve Cristo e giustamente sarà detto di lui: «Ogni volta che avete fatto questo a uno dei miei più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Chi compie per Cristo non solamente opere di misericordia corporali, ma qualsiasi opera buona – e qualsiasi opera è buona quando obbedisce alle parole «il fine di tutta la Legge è Cristo, a giustizia di ognuno che crede» (Rm 10,4) — egli è servo di Cristo e giungerà fino a quella grande opera di carità che consiste nel dare la propria vita per i fratelli, che equivale a darla a Cristo.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 51,11,12, NBA XXIV, pp.
1022-1024).
Io pure sarò vigna Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.
Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: « Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti.
Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo ».
E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: « I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni ».
E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».
E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.
(K.
GIBRAN, Il Profeta).
Piccolo seme Ho imparato che non muore chi lascia dietro di sé un seme se c’è qualcuno a custodire il piccolo seme verde e a crescerlo nel cuore sotto un dolore di neve e a lasciarlo crescere ancora nel sole senza tramonto dell’amore finché diventa un albero grande che da ombra e frutti e altri semi.
Signore, vorrei lasciargli un piccolo seme verde e vorrei, Signore, lasciargli la neve e il sole.
(Preghiere di Mamma e Papa, Gribaudi, Torino, 1989).
Preghiera Anche noi ti vogliamo vedere, Gesù, in quest’ora in cui, come seme, affondi nella terra del nostro dolore e germogli in turgida spiga, speranza di messe abbondante.
Tu sveli come è dolce morire per chi ama e si dona con gioia.
Perdere la vita con te e per te è trovarla.
Allora anche il pianto fiorisce in sorriso.
Nelle tue piaghe troviamo rifugio e in esse trova senso ogni umano patire.
Solo guardando te, troviamo la forza di un abbandono fidente nelle mani paterne di Dio.
Purifica gli occhi del nostro cuore, fino a che non come in uno specchio né in maniera confusa, ma in un eterno e amoroso faccia a faccia ti vedremo così come tu sei.
Amen.
IV Domenica di Quaresima (Anno B).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: 2Cronache 36,14-16.19-23 In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro in-fedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.
Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora.
Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio.
Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e die-dero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, es-sa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni».
Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pro-nunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Per-sia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra.
Egli mi ha incari-cato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda.
Chiunque di voi appar-tiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».
È Il brano che conclude la storia d’Israele scritta dal Cronista.
È una specie di grido di trionfo per la restaurazione della casa del Signore, il suo tempio.
Egli ricorda innanzi tutto la situazione degli ultimi anni di vita della città di Gerusalemme prima del 587 a.C.
al tempo del re Sedecia (vv.
14-16).
È un tempo di vera apostasia dalla religione dei padri, dal culto del vero Dio.
Si disprezza la parola di Dio annunciata dai profeti; il luogo santo, dove si adora l’unico Dio, viene profanato.
Nonostante la premura di Dio e il suo costante amore per il popolo, questi non volle convertirsi.
La situazione si fece talmente tragica che il Signore dovette intervenire.
Egli li abbandonò in mano ai babilonesi che incendiarono la città massacrarono la popo-lazione e il resto lo deportarono in esilio, lontano dalla patria.
Ma anche nelle tenebre più fitte, appare la misericordia del Signore che dona ancora una parola per mezzo del profeta Geremia, il quale annuncia il termine dell’esilio (vv.
19-21).
Nella terza parte del brano si riporta l’editto di Ciro, re di Persia, che proclamava nel 538 a.C.
la liberazione degli ebrei e l’ordine di ricostruire il tempio.
La storia del popolo, eletto da Dio, continua, perché la misericordia di Dio rimane stabile nonostante l’enormità del peccato del popolo e dei suoi capi.
Un segno di questa risurrezione del popolo è il nuovo tempio ricostruito, in cui saranno riportati i vasi sacri custoditi in Babilonia (cf.
v.
18), rendendo possibile nuovamente il culto a Dio (vv.
22-23).
Seconda lettura: Efesini 2,4-10 Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.
Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mo-strare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.
Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarse-ne.
Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.
Paolo pone la bontà di Dio all’origine della sua azione salvifica: «Dio, ricco di misericor-dia, per il grande amore con il quale ci ha amato» (v.
4).
Il luogo dove si può sperimentare ora questa misericordia è la Chiesa.
La salvezza è descritta come un passaggio dalla morte alla vita.
Questa ci viene donata «per grazia», gratuitamente, per pura bontà di Dio (vv.
5-6).
Noi siamo solidali con Cristo.
Mediante il battesimo, partecipiamo già alla sua vittoria sulla morte e abbiamo una vita nuova, ma la forza della sua risurrezione si estenderà an-che ai nostri corpi (v.
6).
Quest’opera salvifica in Gesù Cristo ha come scopo la maggior gloria di Dio.
Nell’eternità sarà manifesto ciò che già ora è realizzato (v.
7).
Dando uno sguardo al passato, Paolo annuncia il suo vangelo: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede» (v.
8).
L’uomo con le sue forze non riesce ad uscire dalle sabbie mo-bili del peccato.
Solo la mano di Dio può risollevarlo.
L’agire di Dio è del tutto gratuito (v.
9).
Le opere non sono il principio, ma il fine dell’esistenza cristiana: «Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (v.
10).
Anche le nostre «opere buone», che faremo, procedono dalla grazia e sono state «pre-parate» da Dio per facilitarne l’adempimento.
Dio ha voluto la nuova condizione perché l’uomo potesse realizzarle.
Vangelo: Giovanni 3,14-21 In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel de-serto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già sta-to condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giu-dizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie.
Chiunque infatti fa il male, odia la lu-ce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate.
Invece chi fa la ve-rità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Esegesi Con questo brano inizia la rivelazione del piano salvifico del Padre: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (vv.
14-15).
Si notino due verbi: «bisogna» e «sia innalzato».
Il primo verbo «bisogna» esprime la volontà salvifica di Dio di donarci la vita in Cristo: la croce non è un incidente di percorso.
Il secondo verbo «sia innalzato» indica appendere ad una croce, ma anche innalzare su un trono, la pienezza della regalità.
L’episodio del serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto (Nm 21,8-9) è presentato da Giovanni come segno tipico dell’innalzamento del Figlio dell’uomo e della vita eterna donata a chi guarda, vale a dire a chi crede in lui.
Segue una meditazione pasquale dell’evangelista sulla parola di Gesù, avendo anche sullo sfondo la figura di Isacco.
Contemplando Gesù innalzato sulla croce, si scopre l’amo-re sorprendente di Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (v.
16).
È un amore che si con-cretizza nel dare e nel mandare (v.
17).
Dio ama il mondo come si trova ora, lontano da lui e in pericolo di perire.
Quello che può privare gli uomini della vita, il loro grande peccato, è il rifiuto di crede-re in Gesù.
Di fronte alla sua missione si opera la discriminazione tra gli uomini, che cre-dono e si salvano, o non credono e si condannano.
Ma il kerygma di Giovanni ha proprio lo scopo di portare alla fede chi non crede.
Il giudizio è in rapporto alla rivelazione personale di Cristo.
È lui la luce: «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (v.
19).
Le tenebre sono la situazione di rifiuto di Dio e la chiusura dell’uomo schiavo del suo egoismo.
Gli uomini scelgono.
Chi si pone dalla parte della luce, sperimenta un giudizio di salvezza.
Chi invece si colloca dalla parte delle tenebre, speri-menta un giudizio di condanna: un’esistenza destinata alla perdizione, perché le sue opere sono malvagio.
La luce è una forza giudicante e a nessuno piace sentirsi rinfacciare le pro-prie opere cattive.
Ma c’è anche «chi fa la verità» (v.
21).
Questi è colui che rinnega la sua situazione di peccato, accoglie la parola di Gesù e crede in lui.
Queste sono le opere che l’uomo può compiere solo con l’aiuto di Dio (v.
21).
Meditazione Nel cammino di purificazione e di conversione che caratterizza il tempo quaresimale, la Chiesa, attraverso la liturgia, ci guida con sapiente pedagogia, non solo orientandoci verso la Pasqua di Cristo, ma anche facendoci prendere coscienza di come la logica della morte e della vita in Cristo debba entrare concretamente nella nostra esistenza quotidiana.
Tuttavia, pur non togliendo nulla alle esigenze e alla serietà della sequela, siamo sempre richiamati dalla parola di Dio a guardare oltre le fatiche e le sofferenze di un cammino che è comunque segnato da una morte, da un esodo dal luogo della schiavitù, del peccato.
Il nostro sguardo è sempre proiettato oltre, verso il luogo della vita, il luogo della luce pa-squale, il luogo di una gioiosa comunione con quel Dio che ci è stato rivelato in Gesù.
E così le tre letture di questa quarta domenica concentrano la nostra attenzione su due realtà che formano il tessuto profondo e la dinamica non solo della storia della salvezza di un popolo, Israele, ma della storia sacra di ogni credente: l’esperienza del peccato e la fedeltà di Dio alla sua alleanza.
In 2Cr 36,14-23 scopriamo come la distruzione del tempio di Ge-rusalemme e la deportazione del popolo a Babilonia non sono l’ultima parola di Dio sulla infedeltà e sulla idolatria di Israele.
Attraverso la rilettura di questi eventi drammatici, il Cronista orienta lo sguardo verso un avvenire ricco di promesse; un re pagano sarà uno strumento nelle mani di Dio per ricostruire il tempio e il popolo potrà ritornare nella terra data ai loro padri.
È la fine dell’esilio babilonese: «chiunque di voi appartiene al suo popo-lo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!» (2Cr 36,23).
Attraverso questo sguardo di spe-ranza, che ha come fondamento la fedeltà di Dio e la sua misericordia, siamo orientati a contemplare il compimento: il dono di Dio a ogni uomo nel Figlio «perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
L’uomo non può dimenticare che questo amore senza misura (Dio ha tanto amato il mondo…) è puro dono.
Paolo, a più ri-prese, insiste in Ef 2,4-10: «per grazia siete stati salvati».
Ma l’essere salvati per grazia da un Dio ricco di misericordia è molto di più di un semplice condono di peccati: la salvezza rag-giunge la sua pienezza nel nostro inserimento in Cristo mediante il battesimo, nella nostra partecipazione al mistero pasquale, che va dalla passione alla ascensione di Cristo.
Nella liturgia della Parola di questa domenica, il testo che maggiormente focalizza questa dinamica tra peccato dell’uomo e fedeltà di Dio è la pericope giovannea.
Sono alcu-ni versetti del lungo dialogo tra Gesù e Nicodemo.
È il primo dei vari incontri narrati da Giovanni, colloqui sapientemente condotti attraverso i quali viene tracciato un itinerario di progressiva scoperta del volto di Gesù e di una fede matura nella sua parola.
Per quanto riguarda la nostra pericope, si possono sottolineare tre momenti di rivelazione del volto di Cristo a cui corrisponde sempre una richiesta, una scelta da parte dell’uomo, un salto di fede.
Anzitutto è richiesto un movimento dello sguardo verso l’alto e la qualità di questo sguardo è la contemplazione: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (3,14-15).
L’esperienza di Israele nel deserto diventa paradigma interpretativo del mistero pa-squale di Gesù.
Come nel segno innalzato da Mosè nel deserto si manifestava il Dio salva-tore che interviene per guarire il suo popolo dalla ferita dell’incredulità, così nel Figlio del-l’uomo innalzato, il trafitto verso il quale si volgeranno tutte le nazioni (Gv 19,37), si rivela il dono di Dio per la salvezza del mondo.
Gesù ricorderà: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).
Per Giovanni, l’Innalzato e il Trafitto che dona sangue e acqua, che guarisce con le sue ferite, esprime il mistero di Gesù nella sua massima trasparenza.
È uno spettacolo drammatico, sconvolgente, davanti al quale l’uomo preferirebbe abbassare gli occhi, distoglierli, perché in questa visione si scopre tutto il male di cui l’uomo è capace, tutta la violenza e l’odio che possono abitare nel cuore dell’uomo.
Eppure sembra quasi necessario (bisogna) guardare senza paura questo spettacolo, lo spettacolo della Croce.
Per-ché? Perché in esso è racchiuso il segreto nella vita, della nostra vita, il segreto della sal-vezza.
E in questo spettacolo che si rivela tutta l’umanità del Figlio di Dio (chiamato qui Figlio dell’uomo), la sua totale obbedienza al Padre (bisogna), il suo amore giunto al limite estremo (cfr.
3,16 ss.).
Questa visione apre alla seconda rivelazione, espressa in Gv 3,16: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna».
La prova radicale di questo amore di Dio che guarisce le ferite morta-li dell’uomo è il dono (che passa attraverso la morte, l’essere innalzato) del Figlio (colui che è espressione trasparente dell’amore di Dio, espressione esclusiva, l’Unigenito); e il dono non è per il giudizio, ma per la salvezza.
Così l’evento della Croce (3,14) ci fa penetrare più a fondo nel mistero di Dio stesso in quanto amore (ha tanto amato).
Dunque il segreto dello spettacolo della Croce, del trafitto innalzato, che altrimenti sarebbe incomprensibile e assur-do, sta in questa parola di Gesù, in questa seconda rivelazione.
In fondo a tutto, e non solo all’evento dell’Innalzato e Trafitto, ma anche al cuore della storia, c’è questa verità che il-lumina e che apre un orizzonte senza fine: la misericordia illimitata (tanto) di Dio per il mondo, per l’uomo, per ogni creatura che aspetta la redenzione e la liberazione dal pecca-to.
E infine, ed è la terza tappa in questa progressiva scoperta del volto di Gesù, Giovanni esprime questo dono del Figlio per il mondo con una realtà simbolica che caratterizza il suo linguaggio a partire dal prologo (cfr.
Gv 1,4-5) e che, d’altra parte, rivela anche il dramma della incredulità e del rifiuto da parte dell’uomo: «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce perché le loro opere erano malvagio» (3,19).
Gesù è la luce che illumina e che evidenzia le tenebre; provoca una radicale chiarez-za sulla situazione dell’uomo, spesso falsa e mascherata dietro ad ambiguità e schemi (te-nebre).
Ma Gesù è la luce nel mondo (cfr.
anche Gv 8,12; 9, 5; 12,46) perché rivela in modo esclusivo e definitivo la realtà dell’uomo e di Dio; non c’è altro modo di vedere il volto di Dio e, alla sua luce, il volto dell’uomo.
Cosa è chiesto all’uomo? Credere (3,15.16), venire alla luce (3,20), fare la verità (3,21).
Solo attraverso questo credere noi possiamo raggiungere il segreto custodito nello spettacolo dell’Innalzato e Trafitto e comprendere il tanto amore di Dio per il mondo.
Veramente, pos-siamo allora dire, credere non è questione di adeguare l’agire di Dio alla nostra ragione ma guardare come Dio agisce nella nostra vita, nella storia, verso l’umanità.
Credere è conse-gnarsi, attraverso questo sguardo pieno di fiducia e di speranza, all’agire di Dio, a ciò che lui può fare per noi.
E proprio in Gesù ci è rivelato pienamente, senza ombra alcuna, ciò che Dio sente e vuole per noi.
Il miracolo sempre rinnovato Dio non morirà il giorno in cui non crederemo più in una divinità personale, ma sare-mo noi a morire il giorno in cui la nostra vita non sarà più pervasa dallo splendore del mi-racolo sempre rinnovato, le cui fonti sono oltre ogni ragione.
(D.
Hammarskjold) Un ragazzo miope Un tempo conoscevo un giovanotto che soffriva di una miopia grave sin dalla nascita e che, per questo motivo, riusciva a vedere solo gli oggetti a poche decine di centimetri da lui.
Quando gli insegnanti delle scuole che, via via, frequentava avvisavano i genitori, que-sti ragionavano che alla sua età loro non avevano avuto bisogno degli occhiali e che, quin-di, non ne avrebbe avuto bisogno nemmeno lui.
Così, il ragazzo era cresciuto nell’unico mondo che la sua vista ridotta gli permetteva di vedere, giungendo al punto di spiegarsi tale mondo nei termini che gli consentiva la miopia.
Ad esempio, perché gli insegnanti a scuola scrivono sulla lavagna? Non certo per gli allievi, dato che questi non riescono a leg-gere fino alla lavagna, bensì come appunti personali, come traccia da seguire durante le le-zioni.
E perché in città i cartelli con i nomi delle vie vengono affissi sulle case e sui lampio-ni così in alto che è impossibile leggerli? Perché lassù i guidatori degli autobus, dalla loro elevata posizione di guida, riescono a leggerli per i passeggeri che glielo chiedono.
Un giorno questo ragazzo, ormai diciottenne, si recò da un oculista.
Il medico lo fece sedere e gli fece provare diverse lenti correttive.
Trovate quelle più adatte, invitò il giova-ne a guardare fuori dalla finestra.
«Accidenti!», esclamò il ragazzo restando senza fiato: per la prima volta riusciva a vedere il cielo azzurro con degli sbuffi di nuvole bianche; ve-deva finalmente i volti sorridenti delle persone, i pannelli pubblicitari e i cartelli stradali.
Qualche tempo dopo, il giovane mi confidò: «Fu la seconda esperienza più bella della mia vita».
Naturalmente gli chiesi quale fosse la prima, e la sua risposta fu: «Il giorno in cui i-niziai a credere in Gesù.
Quando finalmente lo presi sul serio e vidi che Dio era veramente mio Padre, quando vidi che questo è veramente il bel mondo di Dio, quando vidi me stes-so come un figlio del cuore di Dio e quando sentii il calore del suo amore, quando vidi gli altri come miei fratelli e sorelle nella famiglia umana di nostro Padre.
Questa fu una gran-de svolta, l’esperienza più radicale e più bella di tutta la mia vita.
Fu come l’inizio di una vita nuova.
So che cosa intende san Paolo quando dice che la fede fa di noi una creatura nuova».
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 48-49).
Ciò che fa la differenza Mi chiedo unicamente se il Cristo buono ed evangelico ai cristiani basta.
E se gli basta c’è ancora bisogno di fede o non v’è più nulla da credere? Se vi è qualcosa da credere ri-tengo, però, non sia di molto diverso da quanto i cristiani hanno da sempre annunciato e quindi che il risorto vive, siede alla destra del Padre, tornerà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà mai fine.
Questo chi non crede, ma conosce il cristianesi-mo, lo sa molto bene poiché proprio in questo non crede ed è questo che fa la differenza.
Sul resto bene o male ci si accorda.
(Salvatore Natoli, Il cristianesimo di un non credente).
Credo Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero che non mi seduce con un miracolo e che non mi opprime con la sua autorità.
Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà, che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male, che non accetta compromessi, ma che benedice la follia di chi lo segue.
Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione, che non rimette a posto le cose dall’alto, che non esercita la giustizia degli uomini.
Credo in un Dio che si lascia tradire, che al mio no risponde con un bacio silenzioso, credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.
Credo in un Dio che non ho inventato io, che non soddisfa i miei bisogni, che non dice e fa quello che voglio io, un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.
Credo in un Dio vero, che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità, che si fa piccolo, debole indifeso perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.
Credo in un Dio che gioca a nascondino perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo, credo in un Dio che mi si fa vicino, che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.
Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.
(Ester Battista).
Mi chiamate Redentore Mi chiamate Redentore e non vi fate redimere.
Mi chiamate Luce e non mi vedete.
Mi chiamate Via e non mi seguite.
Mi chiamate Vita e non mi desiderate.
Mi chiamate Maestro e non mi credete.
Mi chiamate Sapienza e non m’interrogate.
Mi chiamate Signore e non mi servite.
Mi chiamate Onnipotente e non vi fidate di me.
Se un giorno non vi riconosco non vi meravigliate.
(Iscrizione nel duomo di Lubecca).
II dubbio, la verità e Cristo Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiano e lo sono fino al midollo.
Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni con-trarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace.
In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo.
Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci.
Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.
(F.
Dostoevskij).
Il lungo cammino verso casa «Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale è ricevere il perdono di Dio.
C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completa-mente nuovo.
Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie te-nebre sono troppo grandi per essere dissolte.
Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò come garzone.
Ma voglio davvero essere restituito alla piena responsabilità di figlio? Voglio davvero essere total-mente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Ho fiducia in me stesso e in una redenzione così radicale? Voglio rompere con la mia ribellione profonda-mente radicata contro Dio e arrendermi in modo così assoluto al suo amore da far emerge-re una persona nuova? Ricevere il perdono esige la volontà totale di lasciare che Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e rinnovamento.
Fin quando voglio fare anche soltanto una parte di tutto questo da solo, mi accontento di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone.
Come garzone posso ancora mantenere le distanze, ribel-larmi, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarmi della paga.
Come figlio prediletto devo rivendicare la mia piena dignità e cominciare a prepararmi a diventare io stesso il padre».
(H.J.M.
NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia, Queriniana, 2004, 78-79).
L’anima soffre e anela al Signore Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.
Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ric-chezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indiffe-renza hanno murato gli uomini vivi.
Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.
Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.
E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.
(Don Tonino Bello).
III Domenica di Quaresima (Anno B).
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Esodo 20,1-17 In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla ter-ra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me.
Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla ter-ra, né di quanto è nelle acque sotto la terra.
Non ti pro-strerai davanti a loro e non li servirai.
Perché io, il Si-gnore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta genera-zione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia im-punito chi pronuncia il suo nome invano.
Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo.
Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.
Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è ri-posato il settimo giorno.
Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
Non ucciderai.
Non commetterai a-dulterio.
Non ruberai.
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desidererai la casa del tuo prossimo.
Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asi-no, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
Il testo del Decalogo nel libro dell’Esodo è preceduto, al cap.
19, dalla grandiosa teofa-nia in cui il Signore rivela la sua presenza sul Sinai, la «montagna sacra» (19,23).
Soltanto Mosè, in rappresentanza del popolo raccoglie le «Dieci parole» che racchiudono la volontà del Signore e le riferirà agli Israeliti, che prometteranno di osservarle accettando l’alleanza (24.3).
All’inizio del cap.
20 il Decalogo è introdotto bruscamente, senza collegamento di-retto quanto precede.
Improvvisamente, Dio parla: risalta cosi l’assoluta libertà dell’inizia-tiva divina.
Il Decalogo Non deve stupire la difficoltà a individuare con sicurezza nel testo i dieci comandamen-ti come sono formulati nei catechismi.
Già nella seconda stesura (nel Deuteronomio) il De-calogo presenta qualche differenza: è poi citato con notevole libertà nei Profeti, nei Salmi, in altri scritti dell’Antico Testamento, nei Vangeli.
Basta questo a farci comprendere che la legge del Signore, benché scolpita sulle «tavole di pietra», non deriva da questo la sua so-lidità, e che non è il rispetto esteriore e formale della «lettera» che conta, ma l’accordo inte-riore del «cuore» alla parola di Dio.
Otto comandamenti su dieci hanno una forma negativa, e questa lista di divieti può ur-tare qualcuno.
Ma tutto cambia se riflettiamo che dire «cosa non bisogna fare» ci lascia molto più liberi.
Dio pone dei divieti certo; ma è vietato solo ciò che priva noi e gli altri della li-bertà; la violenza, l’assassinio, l’adulterio, il furto, la falsa testimonianza.
Per il resto, Dio non obbliga; cosa bisogna fare, è lasciato alla nostra libertà.
Dio non comanda nemmeno di essere adorato, non chiede sacrifici (cf.
Is 1,12-13; Ger 7 22): lo stesso comandamento del sabato, più che imporre una pratica religiosa, comanda di non fare qualcosa, di astenersi dal lavoro.
Note esegetiche vv.
2-3: In positivo, la prima parola del Decalogo — il 1° comandamento nella tradizio-ne dell’Ebraismo – non è precisamente un comandamento, e impegna Dio piuttosto che l’uomo.
Dio si presenta, offre le sue credenziali: non chiede di essere obbedito senza essere conosciuto.
Per questo può dire «non avrai altri dèi»: non basta confessare che Dio è uno, la Bibbia non predica un monoteismo filosofico, astratto, «numerico».
La Bibbia dice chi è Dio, raccontando quello che ha fatto per noi.
È il Dio che libera anzi il Dio che ha liberato te, oggi: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto».
Tutto il Decalo-go discende da questa affermazione iniziale, come un torrente dalla montagna.
vv.
4-6: La formulazione del divieto dell’idolatria è in stretto collegamento con il raccon-to della creazione in Gn 1.
Dio ha fatto cielo terra e mare e ciò che contengono; ha fatto l’uomo a sua immagine; ha dato all’uomo il compito di sottomettere la terra.
Nell’idolatria, l’ordine è stravolto: l’uomo adora le creature (astri, animali…) invece di dominarle, sosti-tuisce all’immagine creata da Dio immagini di idoli fatte con le sue mani.
Invece di adorare Colui che lo ha fatto, l’uomo adora la cosa che ha fatto.
Questo rovesciamento della verità – questa menzogna – è proibito, perché Dio è geloso: la gelosia dell’amore che ha scelto l’uomo e stabilito l’alleanza, amore sovrabbondante di grazia, mille volte più del castigo (v.
5b-6).
Tutti i peccati previsti nel Decalogo hanno radice nell’idolatria.
v.
7: Invano (lašawe) indica il vuoto, la falsità, anche la magia.
«Pronunciare invano il Nome» significa trattare Dio come un idolo: qualcosa di manipolabile, di cui l’uomo possa impadronirsi per strumentalizzarlo ai suoi fini.
La stessa parola è usata nell’8° comanda-mento: la falsa testimonianza contro il fratello, immagine di Dio, è grave come il falso culto a Dio.
Una pietà esteriormente corretta e ossequiente alle regole, cui non corrisponda la giustizia nei rapporti con gli altri, riduce a menzogna il Nome del Signore.
v.
8-11 : Il comandamento del sabato è la chiave di volta del Decalogo.
Come il quarto, è formulato in positivo («ricordati»); come gli altri, è anche negativo («non farai alcun lavo-ro…»); come il primo, è motivato con la creazione (nel Deuteronomio invece, con il ricordo della schiavitù in Egitto).
Non si interrompe il lavoro, banalmente, perché è bene riposarsi; ma piuttosto per imitare, quale immagine di Dio, il riposo del settimo giorno della crea-zione.
Si tratta quindi della più alta realizzazione dell’essere uomo: il sabato è un coman-damento che riguarda Dio (la «prima tavola»), ma è anche quello che con maggiore insi-stenza parla della comunità umana («né tu, né tuo figlio….»), e l’unico in cui esplicitamente sia citato lo straniero.
Il sabato è la legge più specifica che caratterizza l’identità ebraica, e insieme la più universale, perché l’ebreo è chiamato a condividere la santità del sabato con tutta la creazione, senza distinzioni di sesso, di condizione sociale (lo schiavo), di apparte-nenza etnica o religiosa (lo straniero) e perfino umana (il bestiame).
Anche qui c’è l’accen-no all’idolatria: il potere di «fare», di costruire opere (idoli) con le proprie mani, rischia di precipitare l’uomo in un delirio di onnipotenza, se non interviene la pausa del sabato a ri-condurre tutto al Creatore.
v.
12: Il quarto comandamento, come la «prima parola», rivolge l’uomo verso l’origine.
Il «padre e la madre» sono l’anello di congiunzione fra l’uomo di oggi e ciò che lo ha pre-ceduto, fino all’origine prima; attraverso padre e madre, nella tradizione ebraica e non so-lo, si trasmette la memoria dell’azione di Dio in favore del popolo, a partire dall’Esodo, e in favore dell’umanità, a partire dalla creazione.
Perciò questo comandamento è l’unico che parli di un «premio», una conseguenza positiva per l’uomo: la vita, dono di Dio dalla creazione in poi, cui l’uomo e la donna partecipano nel generare il figlio.
Adamo generò un figlio a sua immagine (Gn 5,3): il potere di generare, purificato dalla pretesa di onnipo-tenza possessiva e iscritto nell’onore (kavôd: la gloria, riservata a Dio) reso all’origine, si oppone al fare del lavoro, che deve essere interrotto nel giorno di sabato per non diventare costruzione di idoli.
vv.
13-16: Da qui, i comandamenti della «seconda tavola» che riguardano i rapporti umani.
Non uccidere, esteso a ogni forma di violenza; non commettere adulterio, perché l’amore sponsale è figura del rapporto unico fra Dio e il popolo.
Non dire falsa testimo-nianza, in parallelo con il v.
7.
v.
17: Il nono e il decimo comandamento sono nella tradizione ebraica uno solo: il Deca-logo si conclude penetrando nel segreto del cuore, dove si nasconde il desiderio.
Non è il desiderio in sé che è peccato, ma il desiderio contro giustizia: volere tutto, senza riconosce-re alcun ostacolo, nemmeno nella sfera di ciò che attiene all’altro.
Al fondo, è ancora la pre-tesa di sostituirsi a Dio, in una volontà di potenza accaparratrice che non lascia spazio al-l’amore, che non lascia vivere, che trascina inesorabilmente alla distruzione.
Seconda lettura: 1Corinzi 1,22-25 Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cerca-no sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scan-dalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.
Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
La prima lettera ai Corinzi si apre con la polemica fra l’Apostolo e gli avversari che hanno introdotto divisioni e contrasti all’interno della comunità.
Paolo difende con passio-ne sia l’unità del Vangelo di Cristo, sia la corrispondenza della sua predicazione con que-sto Vangelo.
A propria difesa, Paolo non invoca la «sapienza del discorso», ma la fedeltà alla croce di Cristo, che non deve essere «resa vana» (v.
17).
L’argomentare di Paolo proce-de con l’audace contrapposizione fra la «sapienza degli uomini» e la «stoltezza» della parola della croce (vv.
18-21).
A questa antitesi fra la parola di Dio e la parola del mondo si colle-ga il proclama di «Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (v.
23).
Note esegetiche v.
22: «Giudei» e «Greci» (o «Gentili»: v.
23) rappresentavano al tempo di Paolo le due parti dell’umanità, contrapposte non tanto dal punto di vista religioso, quanto per il modo di porsi di fronte alla realtà.
I Giudei, per credere, chiedono «segni» (semeia; miracoli, pro-digi), prove storiche su cui poggiare la loro fede; i Greci cercano «sapienza» (sofia), per esse-re razionalmente convinti.
v.
23: Un’avversativa, «noi invece…», sottolinea l’assoluta novità della predicazione di Paolo: «Cristo crocifisso», e introduce il secondo binomio: scandalo/stoltezza.
Alla «prova» chiesta dai Giudei si contrappone la «pietra d’inciampo» (skàndalon), alla razionalità dei Greci la «stoltezza della croce» (morì an).
v.
24: Il contrasto fra le due coppie di termini opposti è risolto nel cuore dell’annuncio, accolto dai «chiamati», sia Giudei che Greci: per loro la debolezza della croce mostra la po-tenza di Dio, e la stoltezza ne rivela la sapienza.
La comprensione della fede consente di leggere la realtà con occhi nuovi e di riconoscere l’azione di Dio nella dedizione incondi-zionata di Colui che «amò i suoi fino alla fine» (Gv 13,1).
Il Crocifisso è «il luogo dell’agire divino potentemente e sapientemente salvifico e tale appare agli occhi dei credenti» (G.
BARBAGLIO, La Prima Lettera ai Corinzi, EDB 1996, p.
143).
v.
25: All’opposizione stoltezza/sapienza viene accostata qui quella debolezza/forza.
Non si tratta di anteporre la sapienza di Dio a quella umana dichiarandone la superiorità, ma di una alternativa assoluta fra due contrari.
Non si tratta nemmeno di paragonare semplicemente due punti di vista opposti, che provocano visioni fra loro incompatibili.
La morte sulla croce rimane follia e il Cristo consegnato ai carnefici mostra la sua debolezza, liberamente scelta; ma sono la debolezza e la follia di chi soccombe alla violenza piuttosto che farsene complice, di chi vince l’odio con la sovrabbondanza dell’amore, di chi viene a guarire dall’interno il cuore malato dell’uomo.
In questo, la debolezza si mostra più forte della forza, e la stoltezza più sapiente della sapienza.
Vangelo: Giovanni 2,13-25 Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusa-lemme.
Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.
Allora fece una fru-sta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?».
Rispose loro Gesù: «Distrug-gete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».
Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorge-re?».
Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusa-lemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i se-gni che egli compiva, credettero nel suo nome.
Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo.
Egli infatti co-nosceva quello che c’è nell’uomo.
Esegesi La «purificazione del tempio», che i Sinottici collocano poco prima della Passione, è narrata da Giovanni all’inizio del ministero pubblico.
L’evangelista vuole così sottolineare subito sia la grande novità del messaggio di Gesù, sia la continuità ideale con la predica-zione dei profeti d’Israele.
L’episodio si inserisce chiaramente in un contesto pasquale, nel-la prima delle tre Pasque di Gesù a Gerusalemme ricordate da Giovanni.
Si distinguono due brevi scene, ciascuna seguita da un versetto di commento; a conclu-sione, un sommario storico aggiunge una riflessione sulla fede autentica.
vv.
13-16: La prima scena è la cacciata dei mercanti dal Tempio.
La notazione temporale e geografica è precisa: la Pasqua «dei Giudei», così differenziata dalla Pasqua cristiana, segnala una situazione di distacco tra la comunità cristiana e la si-nagoga, già definitiva al tempo della stesura del Vangelo.
Gesù è tuttavia un ebreo osser-vante, e da Cafarnao — posta sul lago sotto il livello del mare — «sale» a Gerusalemme, a 800 m.
di altezza.
I pellegrini che provenivano da ogni parte, non solo dalla Giudea, dovevano procurarsi in loco gli animali da offrire in sacrificio e pagare la tassa di mezzo siclo al Tempio.
Spesso però essi disponevano solo di denaro romano o di altri paesi, monete non ammesse al Tempio perché coniate con effigi pagane.
Era quindi necessaria, per lo svolgimento delle pratiche religiose, la presenza nelle vicinanze del Tempio di cambiavalute e mercanti di bestiame.
La parola qui usata (hieròn) indica il recinto sacro, esterno al Tempio vero e pro-prio e comprendente il cosiddetto «cortile dei pagani», dove era consentito l’ingresso an-che ai non israeliti.
Sembra quindi eccessiva la severità di Gesù, oltre che inconsueta ri-spetto al comportamento mite che la tradizione gli attribuisce.
Tuttavia nulla è casuale o fuori luogo nel Vangelo di Giovanni.
Il gesto di Gesù è chia-ramente simbolico, che non vuol dire romanzato o fantasioso, ma al contrario, l’atto spet-tacolare rinvia a significati profondi e ricchi di conseguenze per la vita della comunità.
Ge-sù si inserisce nella tradizione profetica e ne riprende linguaggio e atteggiamenti; il suo scopo non è scardinare il culto israelitico, ma riportarlo alla purezza originaria, impedire che l’osservanza esteriore di pratiche abituali scada nella superstizione e nel formalismo.
Le sue parole sono una citazione quasi letterale di passi dell’Antico Testamento (cf.
Zac 14,21; Sal 69,10; Ger 7,11).
Alcuni commentatori notano una sottile intenzione sociale, nella linea del profeta Amos: mentre rovescia i banchi dei cambiavalute e caccia il bestiame grosso, Gesù si mostra più paziente verso i venditori di colombe, animali offerti in sacrifi-cio dai poveri.
Notare il possessivo: «la casa del Padre mio», indizio di un rapporto unico di figliolanza tra Gesù e il Padre.
v.
17: Il versetto è il commento posteriore dell’evangelista, il ricordo interpretante che a posteriori, alla luce della Pasqua e sulla falsariga della rilettura dell’Antico Testamento, spiega il senso dell’evento.
Sono commenti tipici di Giovanni (cf.
v.
22): anche nei Sinottici è sottolineata la comprensione post-pasquale dei gesti e delle parole di Gesù, che solo alla luce della risurrezione rivelano il loro pieno significato; qui c’è in più la riflessione coscien-te, la consapevolezza che la distanza temporale dall’evento ha peso per l’ermeneutica e consente una comprensione progressiva della rivelazione.
Nella citazione del Sal 69,10 il verbo è cambiato dal presente «divora» al futuro «di-vorerà», per esplicitarne il valore di annuncio profetico della Passione.
vv.
18-21: I giudei rispondono, non tanto alle parole quanto ai gesti di Gesù.
Presen-tati da Giovanni come gli avversari di Gesù, essi tuttavia hanno ben capito che il suo com-portamento ricalca quello dei profeti, perciò gli chiedono un «segno» che ne attesti l’autori-tà.
Gesù, come spesso avviene in Giovanni, risponde in forma enigmatica.
Non rifiuta di dare il segno, ma invece di ricorrere a un prodigio come si aspettavano i giudei, propone loro una sfida che può essere letta su due livelli di senso, e che lascia quindi gli avversari davanti alla scelta tra la fede e l’incredulità.
L’imperativo «distruggete» sta per un condi-zionale, come in molti oracoli profetici; Gesù gioca sul doppio senso tra il Tempio di pietre e il Tempio del suo corpo, e lascia intendere sia il nuovo Tempio dell’era messianica, sia la sua risurrezione.
La parola usata nel v.
19 non è la stessa dei vv.
14-15; naòs è la costruzio-ne al centro del Tempio, con il Santo dei Santi, il luogo in cui abita Dio.
I giudei si fermano al primo livello, quello immediato: manca loro la fede necessaria a operare il salto di senso, per giungere al secondo livello, la spiegazione dell’evangelista nel v.
21.
v.
22: Anche i discepoli però non capiscono tutto subito: Giovanni sottolinea che solo dopo hanno capito il compimento della Scrittura.
vv.
23-25: II sommario storico distingue i diversi livelli della fede.
Molti credettero ve-dendo i segni: è già un primo passo rispetto all’incredulità dei giudei, ma non è ancora la fede autentica.
Per questo Gesù non si fida pienamente: sa che non tutti reggeranno alla prova della Passione e della morte e che non tutti sapranno leggere le Scritture.
La sua ve-nuta è anche per il giudizio, nel senso inteso qui: per svelare ciò che sta nel cuore degli uomini e porli davanti alla scelta fondamentale e sincera.
Meditazione Attraverso le dieci parole dell’alleanza, pronunciate da Dio sul Sinai (Es 20,1-17), al popo-lo di Israele era stato donato un cammino di libertà per raggiungere una pienezza di vita nell’umile servizio all’unico Signore.
La Legge diventava così un luogo privilegiato di in-contro e di comunione con Dio.
Ma per Israele in cammino verso la terra della promessa vi era un altro luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo: la tenda, segno di un Dio che scende incontro all’uomo, cammina con lui, lo accompagna, lo guida.
La pretesa di Davide di costruire una dimora stabile per il Signore, aveva trovato resistenze in Dio stes-so che, per mezzo del profeta Natan, aveva risposto al re: «Il Signore ti annuncia che farà a te una casa» (2Sam 7,11).
Dio non abita in un luogo fatto con pietre ma in una casa di carne viva, di cui egli stesso è garante della sua perennità.
Nonostante questo, Dio accettò un tempio costruito dalle mani d’uomo, luogo di unità e di identità per Israele, ma allargando nello stesso tempo i suoi confini: secondo l’annuncio dei profeti, esso doveva diventare re-altà simbolica dell’incontro tra Dio e ogni uomo, «casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7, citato in Lc 19,49, Mc 1,17 e Mt 21,13).
La promessa fatta a Davide trova il suo com-pimento in Gesù: in lui, il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi (cfr.
Gv 1,14).
In questa prospettiva deve essere compreso il gesto di Gesù al tempio di Gerusa-lemme: esso è un segno che rivela tutta la novità che si compie nella persona di Gesù, so-prattutto in relazione a uno degli aspetti costitutivi dell’esperienza religiosa di Israele, ap-punto il tempio.
In Gesù, tempio non costruito da mani d’uomo, ognuno può incontrare il vero volto di Dio e può invocarlo come Padre.
E possiamo aggiungere che, per il quarto vangelo, l’amore di Dio che ha preso ‘carne’ in Gesù si rivelerà in tutta la sua trasparenza nel momento in cui il Figlio dell’uomo sarà innalzato; lì, volgendo lo sguardo a colui che hanno trafitto (cfr.
Gv 19,37, paradossalmente a quel tempio distrutto a cui fa allusione Gesù in Gv 2,19), ogni uomo potrà incontrare il volto di compassione di Dio, quel roveto ardente che brucia senza consumarsi.
L’annuncio di Cristo crocifisso – ci ricorda Paolo – diventa «per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci…
potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,24).
Soffermandoci ora sul testo di Giovanni che riporta la cacciata dei venditori dal tempio (collocato dai sinottici al termine del ministero pubblico di Gesù, dopo l’ingresso in Geru-salemme), possiamo evidenziare alcuni aspetti presenti in questo singolare gesto di Gesù e nelle parole che lo commentano.
E l’attenzione deve essere posta non tanto sull’effetto del-l’azione di Gesù quanto piuttosto sul significato che esso racchiude e che apre alla com-prensione della persona stessa di Gesù.
Certamente, cacciando quei venditori che trasfor-mano la casa di Dio in un mercato (cfr.
2,16), Gesù compie un gesto tipicamente profetico che rimanda a un culto autentico, libero da ogni ipocrisia, un culto che parte dal cuore e si armonizza con la vita: il luogo dove l’uomo incontra Dio non può esser luogo di ingiusti-zia, di abuso, di idolatria.
Tuttavia lo sguardo del profeta va oltre, è puntato al futuro.
Leggendo il gesto di Gesù alla luce di Mal 3,1-4 e di Zc 14,21, non si afferma solo la santità della casa di Dio, ma anche l’autorità di Gesù su quel luogo: è la casa del Padre mio, il luogo di una relazione famigliare e intima.
Gesù è il Figlio che non può permettere che venga violata l’intimità profonda di questo luogo; in Gesù si manifesta lo zelo di cui parla il Sal 69,10 (testo che serve ai discepoli da interpretazione del gesto), lo zelo proprio di un figlio che si sente personalmente coinvolto a difendere il ‘luogo’ del Padre da coloro che ne at-tentato l’integrità, stravolgendone il senso.
Ma il significato di questo gesto subisce un ulteriore approfondimento alla luce delle pa-role che Gesù pronuncia in risposta alla richiesta di un segno da parte dei Giudei (la cui re-azione lascia già intravedere il dramma della passione).
L’icona del tempio assume una nuova luce ed essa emerge dal confronto tra Gesù stesso e il tempio (viene qui usato il termine naos che indica il santuario, la parte più sacra dell’edificio, il luogo simbolico in cui risiede la presenza di Dio).
Possiamo notare che in questo confronto il segno del tempio, come spazio della presenza di Dio e incontro con Lui, rimane; ma vengono sostituite le modalità e il luogo stesso.
Il richiamo alla distruzione e alla ricostruzione di questo tempio orientano a un futuro di novità, a un tempio ‘nuovo’.
Sulle labbra di Gesù questa realtà to-talmente rinnovata diventa una allusione al suo mistero di morte e risurrezione; il tempio distrutto e ricostruito è il corpo stesso di Gesù (cfr.
2,21).
È Gesù vivente il nuovo tempio, il luogo in cui si comunica con il Padre; in Gesù risuscitato dai morti, Dio è definitivamen-te presente agli uomini e gli uomini definitivamente presenti a Dio.
Come nota Léon-Dufour: «il corpo di Gesù, la sua carne, è la dimora della gloria di Dio…
In questo santua-rio, dove il Padre fa abitare il suo nome, si raduneranno tutti gli adoratori e saranno con-sumati nell’unità: tutti parteciperanno alla santità del Tempio, “perché noi verremo a loro e faremo in loro la nostra dimora”».
In questa scena notiamo infine la presenza attiva dei discepoli (presenza che manca nei sinottici), soprattutto attraverso il ricordo, dopo l’evento pasquale, delle parole e dei gesti di Gesù per comprenderne più a fondo il mistero.
In questa ‘memoria ecclesiale’ ci viene rivelata l’icona stupenda della Chiesa come luogo, tempio, in cui si rende presente e si in-contra il Padre rivelato a noi in Cristo.
Non vi è tempio, non vi è chiesa senza la presenza dei credenti.
Il racconto si apre così sul tempo della Chiesa che fa memoria del Cristo cro-cefisso e risorto nella eucaristia, luogo autentico dell’incontro tra Dio e l’uomo, in Gesù.
In questo spazio di comunione, ogni credente viene plasmato a diventare lui stesso tempio di Dio, luogo in cui dimorano, mediante lo Spirito, il Padre e il Figlio.
Come dice sant’Ago-stino: «Vuoi pregare nel tempio? Prega dentro di te; ma cerca prima di essere tempio di Dio, affinché egli possa esaudire chi prega nel suo tempio».
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
Breve apologo insegnato dal Vedanta Una vecchia leggenda indù racconta che vi fu un tempo in cui tutti gli uomini erano dèi.
Ma essi abusarono talmente della loro divinità che Brahma, il signore degli dèi, decise di togliere loro il potere divino e di nasconderlo in un posto dove sarebbe stato loro im-possibile ritrovarlo.
Il grande problema fu dunque di trovargli un nascondiglio.
Quando gli dèi minori furono convocati in Consiglio per risolvere il problema, gli pro-posero così: «Seppelliamo la divinità dell’uomo nella terra!» Ma Brahma rispose: «No, non sarà sufficiente, perché l’uomo la scaverà e la troverà…».
Allora gli dèi replicarono: «In questo caso, gettiamo la divinità nel più profondo degli oceani!» Ma Brahma rispose di nuovo: «No! Perché presto o tardi l’uomo esplorerà le pro-fondità di tutti gli oceani, ed è certo che un giorno la troverà e la riporterà in superficie…!».
E gli dèi minori conclusero: «Non sappiamo più dove nasconderla, perché non sembra esistere, sulla terra o nel mare, un posto in cui un giorno l’uomo non possa arrivare…».
Allora Brahma disse: «Ecco quello che faremmo della divinità dell’uomo: la nasconde-remo nel più profondo di se stesso, perché è il solo posto in cui non penserà mai di cerca-re…».
Da allora, l’uomo ha fatto il giro della terra, ha esplorato, scalato, si è immerso e scava-to…
alla ricerca di qualcosa che si trova in lui…
Il segreto del nostro cuore Siamo così tornati al mistero del nostro cuore, che è il centro della nostra vita e identità umana.
È nel cuore che le nostre idee, intuizioni, emozioni e decisioni più profonde hanno la loro sorgente.
Ma è anche nel cuore che spesso ci alieniamo di più da noi stessi.
Sappia-mo poco o nulla del nostro cuore.
Giriamo alla larga, come se ne avessimo paura.
Ciò che è più intimo ci spaventa di più.
Proprio dove siamo più veramente noi stessi, siamo spesso estranei a noi stessi.
È questo il lato doloroso del nostro ‘essere uomini’.
Non riusciamo a conoscere i nostri centri nascosti, e ci capita perfino di vivere e morire senza sapere chi siamo in realtà.
Se ci chiediamo perché pensiamo, sentiamo e agiamo in una data maniera, spesso non sappiamo rispondere, e dimostriamo così che siamo forestieri perfino in casa nostra.
Il mistero della vita spirituale è che Gesù vuole incontrarci nel segreto del nostro cuore, per farci conoscere il suo amore, liberarci dalle nostre paure e farci conoscere la nostra per-sonalità più profonda.
Nel segreto del nostro cuore, perciò, possiamo imparare non solo a conoscere Gesù ma anche, attraverso Gesù, a conoscere noi stessi.
Se ci rifletti su un istan-te, vedrai un’interazione tra l’amore di Dio che ti si rivela e una crescita costante nella co-noscenza che hai di te stesso.
Ogni volta che lasci penetrare l’amore di Dio più profonda-mente nel tuo cuore, perdi un po’ della tua ansietà, e ogni volta impari a conoscerti meglio e brami di essere più conosciuto dal tuo Dio che ti ama.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 75).
Il nuovo tempio per l’incontro con Dio Gesù «Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), dice il Signore.
Volgiti a Dio con tutto il tuo cuore, lasciando questo misero mondo, e l’anima tua troverà pace.
Impara a disprezzare ciò che sta fuori di te, dandoti a ciò che è interiore, e vedrai venire in te il regno di Dio.
Es-so è, appunto, «pace e letizia nello Spirito Santo» (Rm 14,17); e non e concesso ai malvagi.
Se gli avrai preparato, dentro di te, una degna dimora, Cristo verrà a te e ti offrirà il suo conforto.
Infatti ogni lode e ogni onore, che gli si possa fare, viene dall’intimo (Sal 44,14); e qui sta il suo compiacimento.
Per chi ha spirito di interiorità è frequente la visita di Cristo; e, con essa, un dolce di-scorrere, una gradita consolazione, una grande pace e una familiarità straordinariamente bella.
Via, anima fedele, prepara il tuo cuore a questo sposo, cosicché si degni di venire presso di te e di prendere dimora in te.
Egli dice infatti: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e verremo a lui e abiteremo presso di lui» (Gv 14,23).
Accogli, dunque Cristo e non far entrare in te nessun’altra cosa.
Se avrai Cristo, sarai ricco, sarai pienamente appagato.
Sarà lui a provvedere vedere e ad agire fedelmente per te.
Cristo «resta in eterno» (Gv 12,4) e sta fedelmente accanto a noi, sino alla fine.
(Imitazione di Cristo).
40 giorni nel deserto Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.
Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire.
Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo.
Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua.
Tu devi tornare nella solitudine”.
L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un conven-to?” “No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.
Angeli smemorati Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato.
Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie.
Le stelle nel firmamento brillavano dando si-gnificato all’infinito.
Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli i-stintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente.
Po-veri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stel-le ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera! “Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.
“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.
“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.
Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose: “No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso.
Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro.
Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono.
Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e pas-sano seguendo falsi dei.
Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.
Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima tro-va l’Amore.
Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi era-no … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.
E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un signi-ficato scritto nel loro cuore.
Se solo si guardassero “dentro”! Il luogo della lotta: il cuore La vita spirituale procede da un centro intimo, un organo centrale, una radice dell’esse-re umano che la Bibbia chiama “cuore”.
Nell’antropologia biblica il cuore è la sede della vi-ta psicologica e morale, dunque della vita interiore.
Luogo dell’intelligenza e della memoria, della volontà e del desiderio, dell’amore e del coraggio, come di molti altri sentimenti, il cuore è l’organo che meglio rappresenta la vita nella sua totalità: esso designa ciò che per noi è la “persona”, soprattutto la “coscienza” per-sonale.
Luogo intimo nell’uomo ma scrutato e discreto da Dio, esso è il luogo del sorgere della fede, dell’accoglienza della Parola di Dio e dei doni divini: lo Spirito santo (Galati 4,6), l’amore di Dio (Romani 5,5), la pace di Cristo la pace di Cristo (Colossesi 3,15).
Il Cri-sto stesso abita per la fede nel cuore dell’uomo (Efesini 3,17) e dal cuore sale a Dio la rispo-sta umana in forma di amore, preghiera, invocazione (Galati 4,6; Efesini 5,19; Colossesi 3,16; Marco 12,30).
Luogo dell’incontro fra Dio e uomo, il cuore è anche, secondo la Bibbia, la sede di cupidigie e di passioni: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono le in-tenzioni cattive» (Marco 7,21-23): così il cuore diviene il luogo della lotta spirituale, del combattimento interiore dove si scontrano le tendenze di peccato e l’azione della grazia di Dio.
Il cuore può indurirsi nel rifiuto di ascoltare e accogliere la Parola di Dio (Matteo 13,15; Atti 28,27), può chiudersi alla compassione (Marco 3,5), può essere incapace di com-prendere e di discernere (Marco 6,52; 8,17-21), può essere doppio, cioè insincero, menzo-gnero (Atti 8,21; Giacomo 1,8; 4,8), nutrire odio e rancore (Levitico 19,17), gelosia e invidia (Giacomo 3,14).
Prima di essere consumato esteriormente, nei gesti e nelle azioni, il pecca-to viene consumato nel cuore (cfr.
Matteo 5,28).
Si tratta allora, di far spazio allo Spirito santo perché Dio possa unificare (Salmo 86,11; Geremia 32,39), purificare (Salmo 51,12), circoncidere (Deuteronomio 10,16; 30,6), rinnovare (Ezechiele 36,26-27), ricreare (Salmo 51,12) il cuore dell’uomo.
Ecco dunque il cuore come luogo della lotta invisibile, luogo do-ve può avvenire la decisione del ritorno a Dio e l’accoglienza della grazia che rende possi-bile tale ritorno, e dove avviene anche la scelta a favore della vita e la rottura con il pecca-to.
(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale.
Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 142-143).
Un cuore chiuso Ti aspettavo, Signore, ma non sei venuto.
L’attesa è stata lunga, e solo tardi ho capito che non eri entrato perché il cuore non ti aspettava.
Avevi bussato alla porta: «Alzati, amica mia, mia bella e vieni! Perché l’inverno è passato, è cessata la pioggia, i fiori sono apparsi nei campi, la stagione del canto è tornata e si sente cantare la tortora.
Aprimi!».
Ma il cuore era chiuso, appiattito su orizzonti terreni.
Ma quando sei finalmente entrato, vincendo la mia sordità, ho capito, Signore, che il cuore si popola di idoli quando tu scompari, e che tu abiti, soltanto, dove ti si lascia entrare.
Se preghi per te soltanto, preghi per il tuo interesse.
S.
Ambrogio (Vittorio PERI, Pregare è dire sì, Elledici-Velar, 2005).
II Domenica di Quaresima (Anno B).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
La Trasfigurazione del Signore Chiesa dei Santi Giacomo e Giovanni, Milano Nella tradizione cristiana, la Trasfigurazione è sempre stata letta nella chiave del mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo e come mistero centrale anche per la vita dell’uomo, in quanto anticipo di ciò che le energie della risurrezione compiranno nella nostra carne mortale: la nostra divinizzazione.
L’umanità di Gesù è realmente il luogo vivo in cui l’uomo diventa Dio, perché, da quando il Verbo ha preso un corpo, Egli è in relazione umana con il Padre e con tutti gli uomini.
“In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9).
E Paolo aggiunge, nel versetto successivo: “Voi avete in lui parte alla sua pienezza”.
Ormai è abolita la distanza tra la materia e la divinità.
Nel corpo di Cristo, la nostra carne è in comunione con il Signore della vita, senza confusione, ne separazione.
Di ciò che il Verbo ha inaugurato con la sua incarnazione e manifestato a partire dal battesimo con i suoi miracoli, la trasfigurazione fa intravedere la pienezza: il corpo del Signore Gesù è il sacramento che dona la vita di Dio agli uomini.
Nella misura in cui la nostra umanità acconsente ad unirsi all’umanità di Gesù, partecipa della natura divina (cf 2Pt 1,4).
Cristo nelle vesti bianche rigonfie, mosse dallo Spirito, si trova inserito nella tradizionale mandorla blu scura che indica due cose: anzitutto, che Cristo si rivela come Dio dunque è inaccessibile alla nostra mente, il mistero non si può scrutare; secondariamente, che Cristo nella luce del monte Tabor è la vera luce, il vero sole, tanto da oscurare i raggi del sole cosmico.
Le tenebre del mondo, anche quelle che sommergeranno Cristo nella passione, non resistono davanti all’assolutezza della sua luce.
La trasfigurazione, in realtà, è quella degli apostoli, che per un istante hanno ricevuto la grazia di vedere l’umanità del Cristo come un corpo di luce, grazia di contemplare la gloria del Signore nascosta sotto la sua kenosis.
Dopo questa breve irruzione dell’Ottavo Giorno, è alla sua luce che bisogna riprendere la vita quotidiana.
«Per mostrare la trasformazione dei mortali assunti nella tua gloria, o Salvatore, al momento del tuo secondo e tremendo avvento, sul monte Tabor ti sei trasfigurato.
Elia e Mosè parlavano con te; tu chiamasti tre dei tuoi discepoli, ed essi vedendo, o Sovrano, la tua gloria, per il tuo fulgore restarono sbigottiti.
O tu che un tempo su costoro hai fatto brillare la tua luce, illumina le anime nostre».
(Orthros della trasfigurazione nel rito bizantino).
Il Tabor e il Getsemani Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità.
Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore.
Laggiù amore e dolore si fondono.
Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta.
La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2).
La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44).
La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani.
Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.
(Henri J.M.
NOWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 140).
L’immagine tra luce e ombra La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione.
Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili.
Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata.
La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce.
Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte.
Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata.
L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti.
Tutto il resto deve essere svelato e illuminato.
Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre.
[…] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa.
La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile.
I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.
I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori.
Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato.
Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini.
Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore.
L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati.
È piuttosto essa a illuminare.
La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori.
L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie.
Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.
L’immagine è tra la luce e l’ombra.
E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra.
In ogni caso la rivelazione non è il riflettore.
La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo.
I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce.
È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.
La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.
(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E.
AFFINATI et al., Saper sperare.
Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).
Una sola tenda Gesù condusse con lui tre suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigurò alla loro presenza per cui il suo volto divenne splendente come la viva luce del sole.
Erano dunque essi quei tali che erano presenti e che non avrebbero visto la morte prima di vedere il Signore nel suo regno.
Alla fine del mondo però tutti avranno lo splendore che il Signore mostrò in se stesso.
Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo.
Sta scritto: Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso (Fil 3,21).
Ecco, egli sul monte rifulse come il sole (Mt 17,2), ma non era ancora risorto.
Non era ancora morto ma pur nella carne era Dio e con la carne non ancora risorta, grazie al potere divino, compiva le azioni che voleva.
[…] Apparvero poi Mosè ed Elia, si misero ai fianchi del Signore e conversavano con lui.
San Pietro provava gioia in quella solitudine, era stanco della turbolenza del genere umano.
Vedeva il monte, vedeva il Signore, Mosè ed Elia.
Erano lassù solo coloro che erano a lui simili nell’aspetto.
Godeva di vivere quieto senza preoccupazioni, e felice, disse al Signore: Signore, è bello per noi starcene qui.
Perché dovremmo scendere dal monte in mezzo alle preoccupazioni e non preferiamo restare qui nella gioia? È bello per noi starcene qui.
Se vuoi, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia.
Pietro, non sapendo ancora come doveva parlare, voleva fare una separazione.
Credeva fosse bene ciò che diceva.
Ma che cosa fece il Signore? Fece scendere una nuvola dal cielo e ricoprì tutti, come se volesse dire a Pietro: «Perché vuoi fare tre tende? Eccone una sola».
Allora udirono una voce dalla nube: Questo è il mio Figlio diletto, perché non paragonassero a lui Mosè e Elia e credessero che il Signore fosse da ritenersi come uno dei profeti, mentre era il Signore dei profeti: Questo è il mio Figlio, ascoltatelo.
All’udire questa voce i discepoli caddero bocconi.
Ma il Signore si avvicinò, li rialzò ed essi non videro altro che il solo Gesù.
(AGOSTINO, Discorso 79/A, 1-2, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp.
576-578) Riconoscere Cristo Nella Bibbia ci sono pagine molto belle sulla realtà del fatto che non si può vedere Dio in volto perché si morirebbe subito, si conoscerebbe la verità, e per l’uomo la conoscenza improvvisa e totale di tutta la verità significa la morte.
C’è un passo meraviglioso, in cui Dio asseconda la richiesta di Mosè di mostrarsi e si fa vedere da lui, ma solo di spalle.
Mosè è probabilmente il patriarca, il profeta che incontra più da vicino Dio, quello col quale Lui dimostra la maggiore intimità.
Stanno insieme a lungo sul monte Sinai, al momento della consegna delle tavole della legge.
Dio vuole compiacere Mosè quanto possibile, ma non si può mostrare che di spalle, per non uccidere il suo amico.
La realtà di Dio è che si nasconde, anche nella natura.
Quando si rivela e si proclama non dice: “Io ho la verità”, ma: “Io sono la verità”, che significa tutt’altro.
Spesso è l’uomo che si rifiuta di riconoscerlo, come Ponzio Pilato, che si volta dall’altra parte, e questa è la sua vera colpa: aver incontrato Cristo e non averlo voluto riconoscere.
(Piegiorgio ODIFFREDI – Sergio VALZANI, La via lattea, Longanesi, Milano, 2008, 44-45).
Ancora e sempre sul monte di luce Cristo ci guidi perché comprendiamo il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino.
Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita.
In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti.
Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello.
Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(D.
M.
Turoldo) Lectio – Anno B Prima lettura: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18 In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.
L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici.
Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Il libro della Genesi si divide in due parti; la prima (1-11) contiene la rivelazione sulle origini del mondo e dell’umanità; la seconda (12-50) contiene le storie dei Patriarchi.
Il brano della lettura fa parte della storia di Abramo e racconta il sacrificio del suo figlio Isacco.
Aspetti di esegesi Il racconto riguarda Abramo e Isacco; esso sottolinea l’obbedienza di Abramo a Dio, pone al centro la costruzione dell’altare e ritorna a lodare la disponibilità di Abramo ad eseguire il sacrificio del proprio figlio per aderire a Dio, essergli unito e gradito.
Il testo biblico riferisce anzitutto il comando di Dio al Patriarca: «In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,1-2).
Abramo esegue il volere divino.
«Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Gn 22,9-13).
La descrizione del pellegrinaggio del patriarca con il figlio Isacco verso il monte del sacrificio è un capolavoro narrativo che non è compreso nella lettura (Gn 22,3-8).
L’interesse di questo racconto è concentrato sull’atteggiamento di Abramo in rapporto a Dio e in rapporto a Isacco.
Per Abramo il comando divino è incomprensibile: il figlio a lui donato da Dio stesso, l’unico che può condurre a quella posterità che è stata promessa, deve venire restituito a Dio in sacrificio.
All’inizio della sua storia ad Abramo era stato chiesto di separarsi dal suo passato (Gn 12,1), ora gli viene chiesto di rinunciare al futuro, all’avvenire, privandosi della discendenza.
È la prova che Dio fa di Abramo per sondarne la fiducia e la fedeltà.
Viene poi la costruzione dell’altare e la disposizione al compimento dell’immolazione, impedita dall’angelo di Dio.
«L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici.
Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gv 22,15-18).
Nel seguito della Scrittura Abramo viene più volte esaltato per questo evento.
I libri sapienziali lodano la sua forza d’animo e la sua fedeltà: «La sapienza riconobbe il giusto e lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la tenerezza per il suo figlio» (Sap 10,5).
«Abramo nella prova fu trovato fedele» (Si 44,20).
La disponibilità a donare il proprio figlio valse ad Abramo l’imputazione della giustizia: «Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare?» (Gc 1,21).
L’epistola agli Ebrei interpreta l’episodio come simbolo di risurrezione: «Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco e proprio lui che aveva ricevuto la promessa offrì il suo unico figlio del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome.
Egli pensava infatti che Dio è capace di fare risorgere anche dai morti; per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19).
In tutto il dramma delle prove di Abramo il culmine del valore si concentra nella fede di lui che lo rende disponibile ad immolare il proprio figlio Isacco per obbedienza a Dio.
La parola che gli viene rivolta come elogio a fondamento della benedizione divina: «Non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio per me» (Gv 22,16) prefigura la rivelazione che san Paolo da di Dio Padre in ordine alla nostra salvezza: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32).
Seconda lettura: Romani 8,31-34 Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! La lettera ai Romani tra il prologo (1,1-15) e l’epilogo (15,14-16,27) si divide in due parti; la prima, dottrinale, svolge l’insegnamento sulla salvezza per mezzo della fede (1,16-11,36); la seconda esorta alla coerenza della vita con l’insegnamento impartito (12,1-15,13).
Il testo della lettura si trova al termine del capitolo ottavo nel quale l’apostolo delinea la vita nello Spirito.
Aspetti di esegesi «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8.31b-34).
L’insieme è un inno di fiducia.
Inizia con: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi»; significa: dopo tutti i motivi di speranza che abbiamo addotto fin qui, quale conclusione dobbiamo trarre? La conclusione è che non abbiamo nulla da temere, poiché Dio è con noi e perciò nessuno può nuocerci realmente.
Dio ha dato il proprio Figlio per noi, e il suo Figlio si è consegnato per noi alla morte; avendoci dato il suo Figlio, non solo il Padre è disposto a darci ogni cosa, come chi avendo dato il più può dare il meno, ma con lui e in lui ha già dato tutto.
L’apostolo compie un ultimo sforzo per allontanare da noi ogni timore con una serie di domande.
Su queste non vi è interpretazione unanime tra gli studiosi.
Infatti vi sono vari modi di separare e punteggiare le frasi; il ritmo di questi versetti è discusso.
La frase finale offre il centro della nostra fede: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!»; sono le prove dell’amore di Cristo per noi; morì per giustificarci, risuscitò per associarci alla sua gloria, sta alla destra di Dio per associarci a questa sua condizione, continua a intercedere per noi come sommo sacerdote.
Tale è l’efficacia della sua carità verso di noi.
La fedeltà di Dio nei confronti di Abramo annunciata nella prima lettura è qui pienamente proclamata.
Vangelo: Marco 9,2-10 In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche.
E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati.
Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti.
Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
Esegesi Il vangelo di Marco, dopo l’inizio, che descrive la preparazione del ministero di Gesù (1,1-13), si articola in quattro parti; la prima presenta il ministero di Gesù in Galilea (1.14-7,23), la seconda descrive i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea (7,24-10,52); la terza descrive il ministero di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37), la quarta contiene il racconto della passione e delle apparizioni pasquali del Risorto (14,1-16,20).
Il brano della lettura si trova nella seconda parte, dopo il secondo racconto della moltiplicazione del pane e la professione di fede di Pietro.
È la rivelazione della trasfigurazione del Signore.
Aspetti di esegesi Questa pericope, nel secondo vangelo, è un momento culminante della rivelazione su Gesù.
Poco prima egli, che è stato dichiarato Cristo, cioè Messia da Pietro nella confessione di Cesarea (9,29), e ha risposto a tale dichiarazione dando il primo annuncio della sua passione, cioè mostrando che il suo modo di essere messia consiste nella sofferenza, nella morte e nella risurrezione, ora nella trasfigurazione compie una manifestazione della sua dignità trascendente di Figlio di Dio.
Mentre il primo vangelo fa della trasfigurazione una proclamazione di Gesù nuovo Mosè e il terzo vangelo insiste sulla preparazione alla passione vicina, il vangelo di Marco la presenta soprattutto come una epifania gloriosa del Cristo, del messia nascosto; questa scena di gloria, anche se momentanea, manifesta ciò che realmente è e ciò che sarà presto in modo definitivo Gesù che deve sperimentare l’abbassamento e l’umiliazione del servo sofferente.
Gesù sceglie tre dei Dodici: gli stessi scelti per assistere ad altri due momenti importanti: quando il Signore richiama alla vita la figlia di Giairo (Mc 5,37) e nel tempo della preghiera nell’orto degli ulivi prima dell’arresto (Mc 14,33); si tratta di Pietro, che sarà il capo degli apostoli, di Giacomo, il primo dei Dodici che darà la testimonianza del sangue (At 12,2), Giovanni, l’ultimo superstite del gruppo apostolico (Gv 21.23).
Conduce questi tre su un «alto monte», fin dall’antichità identificato con il Tabor, che si erge solitario nella pianura di Galilea (alcuni pensano al monte Hermon); e lì compie il prodigio della trasfigurazione.
La trasfigurazione è una epifania che si produce senza preparazione, all’improvviso, in un istante; Marco la indica con il verbo che significa «metamorfosi», cambiamento non soltanto esterno nelle qualità sensibili, ma nella stessa sostanza, o meglio, un cambiamento in tutte le qualità esterne con rapporto di effetto rispetto alla essenza; il miracolo consiste nel fatto che la persona divina di Gesù in quel momento partecipò la sua gloria alla sua umanità così che questa apparve gloriosa come dopo la risurrezione e la glorificazione.
Gesù rimane identico mostrandosi glorioso.
Lo splendore di Gesù è celeste.
La visione del Cristo trasfigurato lasciava intendere ai tre apostoli la sua identità divina.
I paragoni ingenui e popolari, come il particolare dato da Marco: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere le vesti così bianche» mostra la pratica impossibilità di dare una descrizione adeguata del fenomeno avvenuto davanti ai tre testimoni.
«E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4).
Mosè ed Elia che hanno ricevuto ambedue rivelazioni sul monte Sinai (Es 19,33-34; 1Re 19,9-13) rappresentano uno la legge l’altro i profeti, cioè tutta l’economia religiosa dell’antico Testamento e rendono testimonianza al Figlio di Dio che era venuto a dare perfezione alla legge e compimento alle profezie.
Essi discorrono con Gesù.
Il racconto di Luca dice l’argomento della conversazione, cioè la passione e morte del Signore qualificata come esodo (Lc 9.31).
«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati».
Pietro parla; egli è ancora sotto l’impressione della tristezza provata all’annuncio della passione; qui dichiara la sua felicità di trovarsi in quella esperienza nei confronti di Gesù ed esprime il desiderio di rendere permanente quella condizione proponendo di innalzare tre tende una per Gesù, le altre due per Mosè e per Elia apparsi nella visione in conversazione con il Signore (Mc 9,5-6).
È quasi un tentativo ingenuo di fermare Gesù sul monte nella trasfigurazione per impedirgli di compiere il suo itinerario verso la passione.
«Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7).
La nuvola luminosa è il segno della presenza e della manifestazione di Dio; la voce di Dio Padre che dichiara: questo è il mio Figlio, rivelando l’identità di Gesù; sono le stesse parole pronunciate nella teofania del battesimo che inaugurava il ministero pubblico del Signore (Mc 1,11); essa ha un prezioso complemento: «ascoltatelo»; egli infatti è il nuovo e definitivo profeta, il perfetto rivelatore del Padre.
La nuvola splendente e la voce dal cielo costituiscono il vertice della manifestazione e rivelazione.
Come la teofania avvenuta nel battesimo di Gesù inaugurava la prima fase del suo ministero, così la teofania della trasfigurazione da inizio, con il sigillo divino, al secondo periodo.
«E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,8-10).
Gesù ritorna nel suo aspetto abituale e si avvia verso Gerusalemme ove darà compimento all’opera della redenzione.
L’evento si conclude con la stessa semplicità con cui era iniziato.
I tre testimoni conservano nel loro cuore il ricordo della esperienza cui sono stati chiamati, di cui leggiamo l’eco nella seconda lettera di Pietro: «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.
Egli infatti ricevette onore e gloria da dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”.
Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).
Meditazione Come avviene per ogni cammino, anche per quello quaresimale viene tracciato un itinerario simbolico che comporta alcuni spazi significativi da attraversare o da raggiungere perché quel misterioso viaggio che la liturgia ci fa compiere possa realmente trasformare la nostra vita.
In qualche modo l’itinerario quaresimale obbedisce a una sorta di geografia spirituale: è scandito da alcuni luoghi la cui valenza coinvolge in profondità la nostra vita, collocandola appunto nello spazio dello Spirito.
Abbiamo infatti iniziato il cammino collocandoci con Gesù nel deserto, il luogo della solitudine e della verità, dove sono messi alla prova i nostri desideri più profondi e dove vengono purificati perché si trasformino nei desideri dello Spirito, nei desideri del Figlio.
E, d’altra parte, nella aridità del deserto, abbiamo contemplato proprio il volto del Figlio di Dio nella sua drammatica solidarietà con la fragilità umana.
Il passaggio nel deserto è tuttavia necessario per raggiungere un altro luogo, la città simbolica di Gerusalemme, il luogo del compimento della promessa: solo lì, sul Golgota e di fronte al sepolcro vuoto, potremo contemplare in tutta la sua trasparenza il volto di un Dio che ci ha tanto amati da donare se stesso per riscattarci dalla schiavitù del peccato.
Ma tra il deserto e Gerusalemme c’è ancora un altro luogo che ci viene donato come tappa, in cui, allo stesso tempo, viviamo un momento di riposo e ritroviamo la forza di riprendere il cammino.
Questo luogo è un monte: un luogo appartato ed elevato, dal quale si ha la grazia di raggiungere, con un unico sguardo, quella meta a cui si arriva solo con fatica, passo dopo passo, alla fine del viaggio.
È il monte della trasfigurazione in cui ci viene anticipata la gioia della luce pasquale, in cui possiamo fissare lo sguardo sullo splendore del Padre che si riflette nel volto Figlio amato ed aprirci all’ascolto della sua Parola.
Siamo introdotti a questa esperienza dal racconto dell’evangelista Marco, il quale colloca l’episodio della trasfigurazione quasi al centro della sua narrazione, all’interno di quel cammino verso Gerusalemme che Gesù compie con i suoi discepoli.
È un cammino in cui il discepolo stesso è plasmato dal Maestro ma lungo il quale si rivela anche tutta la fatica della sequela, le resistenze e le paure del discepolo di fronte al destino di Gesù.
Infatti i versetti che ci narrano l’esperienza della trasfigurazione sono collocati subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (Mc 8,31) e la reazione di Pietro (dietro la quale è nascosta la subdola logica di satana), in cui il discepolo si ribella a questa prospettiva poco degna di un Messia, cercando di impedire questo assurdo viaggio (8,32-33).
La trasfigurazione diventa allora come un dono, come uno sguardo di speranza su questo faticoso cammino.
È come una ulteriore risposta alla domanda centrale del vangelo di Marco: «Ma voi, chi dite che io sia?» (8,29).
Sul monte viene rivelato al discepolo il volto misterioso di quel Messia che cammina verso Gerusalemme.
Notiamo solo alcuni elementi del racconto.
Anzitutto, paradossalmente, questo racconto deve piuttosto essere ‘contemplato’, visto, per essere veramente ‘ascoltato’.
Marco stesso se ne rende conto: la parola umana non può narrare la gloria di Dio.
Solo il linguaggio della parola stessa di Dio, la sua forza evocativa capace di lasciarci affacciare nel mondo di Dio, può farci intuire qualcosa della doxa, della gloria, che si riflette sul volto di Gesù.
In qualche modo è appropriato il commento alla reazione di Pietro: «non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati» (9,6).
Pietro, Giacomo e Giovanni (i discepoli che ricompaiono anche nel racconto del Getsemani, Mc 14,32-42, episodio con il quale il nostro ha molte somiglianze), sono condotti da Gesù su questo alto monte, in disparte.
E lui che li prende con sé, che fa loro il dono di fermarsi in disparte, nella solitudine del monte.
Non dobbiamo mai dimenticare questo: salire sul monte e stare con Gesù non è qualcosa che può decidere il discepolo, programmarlo fissando al Signore un appuntamento in base ai propri desideri; il discepolo può solamente accogliere quell’invito che gli viene rivolto, nello stupore e nella gioia, e lasciarci condurre per mano.
Ciò che avviene sul monte è una esperienza sconvolgente (e Marco nota che i discepoli erano spaventati) : «fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (9,3).
Su questo monte tutto diventa luce, tutto diventa sguardo.
Al centro c’è un volto, il volto di Gesù: e questo volto rivela tutta la sua bellezza.
Marco tenta di descrivere questa luce: non è luce naturale, ma splendore.
È il colore delle realtà celesti ed escatologiche, è la gloria di Dio, il suo mistero che, paradossalmente, si rivela subito dopo in quella «nube che coprì (i discepoli) con la sua ombra» (9,6).
Ma ciò che sorprende nel racconto della trasfigurazione è un altro elemento che entra all’improvviso e orienta la dinamica della scena.
E l’elemento della Parola e l’atteggiamento conseguente dell’ascolto.
Gesù, nella sua trasfigurazione, non è solo: «apparve (ai discepoli) Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (9,4).
C’è un dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia: queste due figure, simbolo della Legge e dei Profeti, ci ricordano le manifestazioni del Sinai in cui Dio si è rivelato attraverso il dono della sua Parola.
E questi due grandi profeti convergono (conversavano) verso Gesù: in Gesù giungono a compimento le attese, l’alleanza, la Legge.
Gesù è la Parola piena e definitiva di Dio.
Dunque, dal Volto il discepolo è invitato a passare alla Parola.
E questo passaggio si compie attraverso l’invito stesso del Padre che orienta il discepolo all’ascolto: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7).
Per il discepolo il passaggio dal Volto alla Parola non è senza resistenze.
La contemplazione appagante di Gesù fa dire a Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia» (9,5).
L’allusione alla festa dei Tabernacoli (le tre capanne), colorata nel giudaismo post-esilico di forte messianismo, innesta nella proposta di Pietro una pretesa: quella di anticipare il compimento post-pasquale e di fissarlo.
E in fondo la tentazione di localizzare il mistero, prolungare l’istante benedetto e fissare per sempre la storia.
Ma è anche la pretesa di costruire una dimora per Dio, una dimora in cui poter abitare assieme a questo Gesù e vedere ormai tutto alla sua luce, senza più la fatica di proseguire un cammino così incerto e duro.
Ancora una volta emerge nel discepolo la protesta contro quell’annuncio così assurdo che Gesù ripeterà subito dopo (Mc 9,30-32).
Proprio nella parola del Figlio, l’amato, quel Figlio che Dio dona all’uomo (e qui è chiara l’allusione alla richiesta di Dio ad Abramo narrata in Gen 22,1-18, la prima lettura della liturgia), è possibile fare sempre questa esperienza di trasfigurazione, sempre scoprire il volto di Gesù.
Al discepolo è richiesto di riprendere il cammino con questa Parola da seguire e da ascoltare.
Il discepolo non è solo lungo la via che conduce a Gerusalemme.
Marco nota alla fine dell’episodio: «guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro» (9,8).
Con il discepolo c’è ancora Gesù; lui lo ha condotto sul monte e lui lo fa discendere continuando a camminare assieme, per guidarlo a quella meta che è anche la sua.
Il discepolo non ha nulla da temere in questo cammino.
Può far sue le parole di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31).
Veramente, alla luce del volto di Gesù e nell’ascolto della sua parola, anche il nostro volto e quello dei nostri fratelli diventano belli; anche la nostra vita, gli eventi che la compongono, anche quelli più difficili da accogliere, le nostre contraddizioni e le nostre fatiche, le cose che amiamo, i desideri più nascosti, tutto può diventare luminoso e trasfigurato: le ombre non scompaiono, ci sono, ma non spaventano più perché lo sguardo riesce a raggiungere la meta.
Veramente quel volto di luce ha la forza di illuminare ogni realtà.
I Domenica di Quaresima (Anno B).
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Genesi 9,8-15 Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra.
Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sa-rà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra».
Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni esse-re vivente che è con voi, per tutte le generazioni future.
Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra.
Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne».
L’Alleanza di Dio con Noè è una retroproiezione dell’alleanza sinaitica, fino ai primordi della storia umana, quindi con i lontani antenati del popolo ebraico.
Di fatti Noè, tramite suo figlio Sem, è il capostipite degli undici «patriarchi» postdiluviani che sfociano in A-bramo, il padre del popolo eletto e di tutti i credenti (Gn 11,10-26; Rm 4,11).
In realtà Dio aveva benedetto l’uomo fin dal primo istante della sua esistenza (Gn 1,28,31) solo che la caduta sembrava avere interrotti i loro rapporti, ma con Noè la storia ricomincia da capo.
Dio benedice Noè e la sua discendenza (cf.
Gn 9,1), depone la sua ira anche se non l’ha mai avuta e torna amico dell’uomo e di tutti gli esseri del creato.
Non fa-rà più sentire la sua collera e la sua vendetta su di loro (diluvio) anche se questi di nuovo dovessero abbandonare le vie della rettitudine e del bene.
Il Dio dell’antico Testamento scopre il suo vero volto: sembra che faccia promesse a una sola famiglia, ma le fa a tutti gli uomini poiché in quella famiglia c’è raccolta tutta la nuova umanità.
Il «segno» che ricorda il patto che Dio stabilisce con l’uomo è l’arcobaleno.
C’era anche prima della comparsa di Noè, ma d’ora in poi ricorderà agli uomini la parola di Dio, la sua bontà misericordiosa che si stenderà sul loro presente e sul loro avvenire.
Ogni volta che apparirà sarà un segno di propiziazione e di salvezza.
Seconda lettura: 1Pietro 3,18-22 Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i pec-cati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.
E nello spi-rito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigionie-re, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo.
Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovra-nità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
La I Lettera di Pietro, sebbene di carattere pastorale, non è dei più facili testi del nuovo Testamento.
Soprattutto il brano della liturgia odierna.
I cristiani debbono saper sopportare pazientemente le derisioni, le ingiurie, le persecu-zioni che vengono dai loro vecchi commilitoni (3,8-18), facendosi forti della testimonianza di Gesù che ha patito sofferenze mortali per i peccati degli altri, tra i quali una volta si tro-vavano anche loro, i destinatari dello scritto petrino.
Ma in Gesù la morte non è stata la sua fine in assoluto, ma solo della sua esistenza nella carne, cioè in una condizione di fragilità e debolezza (cf.
Mt 26,41).
Morendo non ha fatto altro che passare a una vita nuova, dominata, in contrapposizione alla precedente, dallo «spirito» perciò spirituale.
È questa condizione esistenziale che gli ha consentito di entrare «salire» nel mondo di Dio, nei cieli dove ha conseguito una sovranità che lo pone al di so-pra degli stessi Principati e delle Potenze.
Addirittura Gesù è passato alla destra di Dio, siede al suo fianco, partecipa della sua potestà giudiziaria.
Il potere di Gesù giudice, secondo l’autore, è universale, si estende a tutti gli uomini, «ai vivi e ai morti» (ivi, 4.6), ma prima della giustizia essi sono chiamati a sperimentare la sua salvezza.
A tal proposito l’autore inserisce una notizia che si trova riferita solo nel suo scritto: la visita del Cristo risorto agli spiriti che si trovavano ancora incatenati nello Sheol, nel regno dei morti, in prigione, quindi in attesa di essere liberati.
I destinatari di questa azione liberatrice non sono i giusti dell’antico Testamento, ma i contemporanei di Noè, per di più quelli che non credettero alla sua iniziativa e per tale ri-fiuto furono puniti.
Chi siano questi spiriti ai quali Gesù va ad annunziare la salvezza non e facile a deter-minarsi.
Se i «demoni», di cui parla il Libro di Enoc o gli «angeli», oppure «i figli di Dio» che si invaghirono delle figlie degli uomini di cui parla Genesi 6,1-6 rimane problematico.
Ad ogni modo sono sempre esseri impenitenti e la salvezza messianica è accordata anche a loro: persino ai «peccatori più inveterati di tutti i tempi, anche della preistoria» (Bibbia e Catechismo, Paideia, 1999, p.
163).
Vangelo: Marco 1,12-15 In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana.
Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vi-cino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Esegesi Gesù inizia la sua attività messianica con un rito preliminare, il battesimo, a cui fa se-guito un periodo di raccoglimento e di riflessione, un breve «noviziato», che termina con un pronunciamento programmatico.
Il battesimo è una scelta e una risposta determinante anche nella vita di Gesù, ma prima di mettersi all’opera ha bisogno di fare un po’ di chiarezza nel suo animo, di comprendere più a fondo il senso della chiamata che l’ha raggiunto in precedenza, di capire la maniera più opportuna di darle esecuzione.
Il deserto, quindi, la solitudine, la preghiera, l’ascolto della parola non potranno non contribuire a portare luce sulla sua situazione interiore.
Un profeta sembra che abbia una veste d’obbligo da indossare, un atteggiamento incon-fondibile da assumere, quello della severità, del rimprovero, quando non dell’asprezza, come Giovanni dava a vedere.
A prima vista le dimostrazioni di potenza sembravano ri-spondere all’agire divino più di quello della mitezza, dell’umiltà, del nascondimento, ma nella tradizione biblica aveva preso posto una figura insolita che raggiungeva il successo passando attraverso le umiliazioni e le sofferenze.
Un’immagine che a Gesù era stata fatta balenare nel battesimo e che ora nel deserto cerca di vagliare.
L’alternativa pertanto era tra il discendente davidico e il «servo di JHWH».
Il luogo di ritiro di Gesù è precisato solo vagamente.
Dall’esperienza sinaitica il «deser-to» era diventato il luogo privilegiato dell’incontro dell’uomo con Dio.
Qui Mosè aveva parlato a tu per tu con il Signore e qui i profeti avevano invitato il popolo a ritrovare o a rinnovare l’intesa con l’Altissimo (cfr.
Os 2,16-22; Gr 2,2-3; Dt 8,2; Ez 16,23).
Non per nulla Gesù «è spinto» (Matteo dice «fu condotto») nel deserto dallo Spirito.
Quindi si tratta di una prova, di un confronto, di una verifica impostagli da Dio stesso.
È un esame che egli dovrà compiere sul suo orientamento vocazionale e sull’attuazione che intende dargli.
I vangeli non fanno la cronaca di questo soggiorno di Gesù nel deserto; più sobrio di tutti è ancora Marco che ricorda appena la notizia.
In tutti i modi segnala la durata e ricor-da il combattimento spirituale che Gesù ebbe a sostenere con Satana.
Il numero «quaranta» è già convenzionale; denota soltanto un periodo di tempo appropriato per valutare una certa esperienza.
Gli israeliti sono lasciati vagare per quarant’anni nel deserto per verifica-re la loro fedeltà a JHWH (Es 16,35; Num 14,33-34); Mosè rimane con Dio sul monte per 40 giorni «senza mangiare pane e bere acqua» (Es 24,18; 34.28); Giosuè e i suoi compagni im-piegano 40 giorni per esplorare il paese di Canaan (Nm 13,25); Ezechiele giacerà sul fianco sinistro 40 giorni per scontare l’empietà d’Israele (4,6); Gesù risorto apparirà ai discepoli per lo spazio di 40 giorni (At 1,9).
Le «prove» o tentazioni che Gesù subisce nel deserto hanno la durata necessaria per ve-rificare la scelta compiuta.
Marco non lo dice chiaramente come gli altri due sinottici, ma stringe tutta la singolare esperienza di Gesù in questo soggiorno nel deserto nel verbo «peirazomenos», «per essere tentato», che la volgata traduce con un imperfetto «et tentaba-tur», si può dire iterativo, come a indicare che non fu un cimento sporadico, ma persistente per tutto il tempo trascorso nel deserto.
Se si volesse essere più precisi occorrerebbe dire che si tratta di una tentazione che durerà tutta la sua esistenza terrestre poiché la proposta divina troverà sempre reazioni contrarie, fino al Golgota.
La tentazione è una prova che gli evangelisti, in linea con la tradizione, attribuiscono al-l’Avversario del bene, a Satana.
Marco non dice di più, poiché Satana è un personaggio no-to ai suoi lettori.
Per l’uomo biblico anche il male ha un punto di partenza, un principio.
Satana è una creatura che si è ribellata a Dio e si è messa a ostacolare la realizzazione della sua opera, soprattutto la felicità dell’uomo.
Egli comparirà spesso nel nuovo Testamento, ma la sua identità o identificazione si fa sempre più problematica alla luce della nuova e-segesi.
La tentazione, ricorda Giacomo, scaturisce innanzitutto dall’intimo di ciascun uomo e raccoglie le voci del proprio egoismo in contrapposizione al piano di Dio e al bene co-mune.
Queste voci sono quelle che Gesù cerca di fare rientrare per far spazio alla proposta del padre.
Matteo dice che sono voci di facile prestigio, di spettacolarità, di potenza e di gloria, ma egli deve sapere che il percorso segnato da Dio è fatto di prestazioni scomode, onerose, umilianti.
Deve capirlo e soprattutto accettarlo.
Marco sorvola i temi della tentazione e ne segnala in anticipo la vittoria poiché menzio-na accanto a Gesù la presenza delle «fiere» e ricorda il servizio prestato dagli «angeli».
Due «dettagli» che riportano alla situazione delle origini prima del peccato quando l’uomo era in pace con le fiere e godeva dell’amicizia di Dio (cfr.
Is 11,6-9).
Il «paradiso» si poteva considerare riaperto, come Gesù segnalerà tra breve a Natanaele (cf.
Gv 1,51).
Il Cristo si scontra con il suo grande avversario ossia con le resistenze interiori che insorgono contro il cammino impostagli dallo Spirito, ma assapora già le primizie della vittoria che alla fine conseguirà.
Il secondo quadro di Mc 1,12-15 segnala l’apertura dell’attività messianica di Gesù.
Essa coincide più metodologicamente che realmente con la scomparsa di scena di Giovanni Bat-tista.
La missione di Gesù è singolare, unica; non si confonde, meno ancora si commescola con quella di alcun altro.
Egli comincia a parlare quando tutti gli altri tacciono.
Con lui si «compiono i tempi» dell’attesa ovvero della preparazione e incomincia la realizzazione della salvezza.
E solo lui è il mediatore degli uomini presso Dio.
Molti profeti l’hanno pre-ceduto ma nessuno può stargli a fianco, a fargli ombra poiché solo da lui proviene il dono di Dio.
Infatti nella scena della trasfigurazione compaiono accanto a lui Mosè ed Elia, ma dopo le parole del Padre «questi è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, a-scoltatelo» entrambi si eclissano e sulla scena rimane «Gesù solo» (Mc 9,7-8).
Il teatro della prima apparizione di Gesù contrariamente alle attese è la Galilea.
Un ri-chiamo non casuale poiché non era la terra più indicata per tali attuazioni.
I fatti non si po-tevano smentire, bisognava però confermarli e, se fosse stato possibile, apporvi l’avallo delle Scritture.
Marco si accontenta di riferire il fatto, Matteo fa appello, anche se arbitra-riamente, a un detto di Isaia (8,23-9.1).
I temi della predicazione di Gesù sono il vangelo, il regno di Dio, la conversione quale condizione per accogliere l’uno e l’altro.
Il «vangelo di Dio» è un’espressione propria di Marco e designa «la buona novella che Dio intende far pervenire agli uomini», cioè l’avve-nuta realizzazione delle sue promesse, la fine di qualsiasi malinteso e delle incomprensioni che si erano verificate nel tempo tra l’uomo e Dio e tra gli uomini tra di loro.
Il tutto equi-valeva all’instaurazione del regno di Dio.
Non è che il Signore avviava un suo particolare dominio sulla terra, sugli uomini; il suo progetto al contrario era realizzare tra gli esseri del creato una convivenza come quella che regnava ipoteticamente nel suo mondo.
Essi saranno più attenti alla sua parola e comprensivi gli uni verso gli altri.
Le condizioni per entrare nel regno di Dio, vederlo realizzato sulla terra è credere, rico-noscere cioè nella parola di Gesù una proposta che viene dall’alto e conformare ad essa la propria condotta.
La conversione non è un mutamento passeggero ma radicale; si tratta di cambiare modo di pensare e più ancora di agire; deporre le proprie aspirazioni egoistiche e acquistare quelle di Dio che sono solo desideri di bene.
Il termine greco metanoia è sinonimo di mutazione di pensiero ma più che nei riguardi della divinità nei confronti dei propri simili.
Il regno di Dio si realizza quando gli uomini tentano di capirsi e riescono ad amarsi tra di loro come li ama Dio.
Il regno porta la deno-minazione di Dio ma deve essere realizzato dagli uomini.
Meditazione Sull’ideale portale d’ingresso della Quaresima iscriviamo l’appello di Cristo: «Converti-tevi e credete al Vangelo».
Nella loro essenzialità e nella loro forza queste parole sono co-me un colpo d’artiglio che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitu-dini consolidate dell’esistenza umana.
Noi, però, vorremmo oggi fissare la nostra attenzio-ne sulla scena della tentazione di Gesù, che Marco, anziché costruire sui celebri tre gradi di Matteo e di Luca (le pietre del deserto, il monte, il pinnacolo del tempio), semplifica in quattro frasette: lo Spirito che spinge Gesù nel deserto, la tentazione dei quaranta giorni, la vita con le fiere, il servizio angelico.
Certo, nelle solitudini dei monti di Giuda si aggiravano probabilmente i lupi, si udiva il grido lacerante dello sciacallo, strisciavano serpenti velenosi.
Questi animali, però, ora so-no evocati per costruire un quadro non geografico ma simbolico.
Il dato decisivo, infatti, è che Gesù viva in mezzo ad essi in piena armonia.
Le poche parole di Marco rimandano, al-lora, ad un celebre passo messianico di Isaia.
Nei giorni del re Emmanuele «il lupo dimo-rerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, vitello e leoncello pa-scoleranno insieme e un fanciullo li guiderà; la vacca e l’orsa pascoleranno insieme, si sdraieranno insieme i loro piccoli, il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi» (11,6-8).
L’ostilità tra animali selvatici e domestici, tra belve, serpenti e uomo si cancellerà e si ricomporrà l’orizzonte paradisiaco celebrato dal capitolo secondo della Genesi col giardino dell’Eden.
Gesù inaugura, allora, il mondo sognato da Dio e descritto proprio in quella pagina della Genesi a cui abbiamo alluso.
Adamo, l’uomo del progetto creativo divino, viveva in compagnia degli animali, ad essi imponeva il nome, su di essi dominava non come un ti-ranno prepotente e presuntuoso ma come guida incaricata dal Signore.
Gesù è il nuovo e perfetto Adamo che ci ripropone il mondo paradisiaco in cui Dio, uomo, animali e cosmo si intrecciano in uno stupendo arazzo di vita, di pace, di colori e di musica.
Lo stesso orizzonte riaffiora nella prima lettura, che descrive l’alleanza di Dio con Noè, l’uomo emerso dal diluvio, segno del giudizio divino sulle prepotenze e i crimini dell’u-manità.
L’arcobaleno è il simbolo dell’arco dell’ira divina, ormai deposto e non più imbrac-ciato dal Signore, giusto giudice e vindice degli oppressi.
Le acque del nulla e della morte, d’ora innanzi, saranno bloccate da Dio, nei cieli rifulgerà lo splendore di una nuova gior-nata e sulla terra si muoverà un’umanità rinnovata.
La Quaresima diventa il tempo per ri-tessere due squarci che le nostre mani hanno prodotto.
Il primo è quello aperto all’interno della trama delle relazioni con Dio.
Il Signore si affaccia dal suo mistero celeste per offrici ancora la mano in un gesto di alleanza e di riconciliazione.
Il secondo squarcio è, in questi ultimi tempi, consumato con maggior veemenza dal-l’uomo e, quindi, più drammaticamente avvertito che non in passato: tra l’uomo egoista e prepotente e la natura non c’è più fratellanza, ma tensione e ostilità.
Non siamo più in ar-monia con “sorella Terra”.
Ritroviamo, allora, anche con essa – come ha fatto il Cristo – il dialogo e l’alleanza; ritroviamo il rispetto per la creazione e la capacità di dare origine ad uno sviluppo equilibrato delle nostre relazioni con essa.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vi-ta e Pensiero, 2008-2009.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
Quaresima! Mentre la natura, ancora immersa nel torpore dell’inverno, prepara nel segreto della terra la vitalità della primavera, tu ci chiedi di rinnovarci nel profondo del cuore e ci inviti a percorrere l’itinerario della Quaresima.
Ci inviti alla compassione, alla solidarietà verso i poveri, ai gesti della riconciliazione, della benevolenza, della misericordia.
Ci proponi di ritrovare attraverso la preghiera un rapporto autentico con te, intessuto di ascolto e di parole.
Ci offri la possibilità, attraverso la pratica del digiuno, di avvertire quella fame profonda che rischia di essere coperta dal nostro consumismo, dalla nostra ingordigia, da tante brame che attraversano la nostra esistenza.
Strada antica, quella della Quaresima, sentiero battuto da tanti altri cristiani prima di noi.
Tu ci spingi ad affrontarlo con risolutezza ed entusiasmo, con audacia e con gioia, perché è un percorso di liberazione, che ci conduce a sperimentare la forza e la bellezza della Pasqua.
Deserto «L’esperienza del deserto è stata per me dominante.
Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante.
Come il roveto ardente, essa brucia e non si consu-ma.
Brucia per se stessa, nel vuoto.
L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo a-scolto» (Edmond Jabès).
Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il de-serto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante.
Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: caravah, luogo ari-do e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chor-bah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, sen-z’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali sel-vaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi.
Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte.
Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attra-verso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio.
È in sostanza luogo di rinascita.
E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b 5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale (Ge-nesi 2,8 15).
E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,1 2).
Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia.
Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che parla).
È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,1 14); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 19 24); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rinnovare l’alle-anza nuziale…
Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semanti-ca del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino.
Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità ari-da, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione.
Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano.
«Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deuteronomio 8,2).
Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapre-so dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Ge-nesi 12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto.
Il deserto è il luogo delle ribel-lioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,11 12; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5).
Anche Gesù vivrà il deserto come no-viziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11).
Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico! Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si tra-versa.
Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù.
Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza.
E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà.
Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino.
Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione.
Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa del-l’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante.
L’uomo del deserto può così ricono-scere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria.
Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversio-ne, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3).
Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso dimi-nuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di di-minuzione del deserto.
Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.
Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e, così esso diviene ci-fra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria esperienza di Dio.
Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto.
È il deserto che è il mistero stesso di Dio».
(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità.
Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 47-51).
Soli nel deserto Per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che vede oltre.
Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo.
Non vediamo mai al di là delle no-stre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci.
Se ci accorges-simo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che sia-mo soli nel deserto, potremmo impazzire.
Quando mia madre offre degli amaretti di La-durée a madame de Broglie, non fa che raccontare a sé stessa la storia della sua vita, sgra-nocchiando il proprio sapore; quando papà beve il caffè leggendo il giornale, si contempla in uno specchio tipo autosuggestione cosciente del metodo Coué; quando Colombe parla delle conferenze di Marian, blatera davanti al riflesso di sé stessa, e quando le persone passano davanti alla portinaia, non vedono nulla perché lì non si vedono riflesse.
Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno.
(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 138-139) Il deserto Il deserto fu il luogo originario del popolo di Dio, il luogo in cui Gesù fu condotto dallo Spirito quando si ritirò nella solitudine.
Ed è anche il luogo a cui la chiesa è chiamata oggi dallo Spirito, come la donna dell’Apocalisse, la quale si ritira nel deserto in attesa che la violenza della persecuzione si attenui.
Non sto parlando in primo luogo del deserto dei monaci, ma di quello dei cristiani.
Il deserto monastico solitamente è un deserto fisico, ma la vita che il monaco vive in esso è come un sacramento del deserto di tutta la chiesa, uno speciale sacramento in cui egli esprime la propria vocazione, perché a questo è stato chia-mato e abilitato dalla grazia.
Ma anche la chiesa è in ogni tempo e nella sua interezza ad-dossata al deserto: essa vive in situazione di diaspora oggi più che mai .
Noi tutti siamo come sospinti all’indietro da tutte le domande che ci vengono poste e alle quali non sap-piamo trovare risposte immediate: siamo spinti in un deserto interiore.
Ma nel contempo, ciò costituisce anche un invito ad assumere maggiore consapevolezza della nostra profon-da povertà di comprensione, poiché in tal modo siamo ridotti a testimoniare con la sola forza dello Spirito: sarà lui a parlare in noi, non dobbiamo preparare in anticipo la nostra difesa.
(A.
Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, pp.
9-20).
«Fuggi, taci e prega» Arsenio era un romano molto colto, di dignità senatoria, che viveva alla corte dell’im-peratore Teodosio come precettore dei principi Arcadio e Onorio.
Quando era ancora a corte, l’abate Arsenio pregò Dio con queste parole: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato».
Arrivò a lui una voce che diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».
Dopo aver lasciato segretamente Roma, imbarcatesi per Alessandria e ritiratesi a vita solitaria nel deserto, Arsenio tornò, con le stesse parole, a rivolgere la preghiera: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato», e di nuovo sentì una voce che gli diceva: «Ar-senio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».
Le parole: «Fuggi, taci e prega», sintetizzano la spiritualità del deserto.
Indicano i tre modi di evitare che il mondo ci plasmi a sua immagine e sono, quindi, le tre vie alla vita nello Spirito.
(H.J.M.
NOUWEN, La via del cuore, Brescia, 1999, 14).
Preghiera Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.
È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, se-guendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.
Sono ancora così diviso! Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza.
Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.
So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me.
La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita.
Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, a-zioni che siano le tue azioni.
Non vi sono tempi o luoghi senza scelte.
E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.
Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo.
Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quan-do verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me.
Amen.
(J.M.
NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vi-ta di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).