XV Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Hanno annunciato “Signore, tieni presenti le loro minacce, e concedi ai tuoi servi di annunciare la tua Parola in tutta franchezza”.
(At 4,29) Hanno annunciato che un sapone fa primavera, hanno proclamato che un tipo di benzina t’assicura il coraggio e formidabile potenza.
Hanno gridato per le piazze e sui tetti le pseudosicurezze dell’uomo robotizzato.
Ma hanno taciuto il Verbo e nelle loro bocche si è spenta perfino la parola: la parola della vera amicizia e del cordiale saluto.
Hanno annunciato che la pace è fatta di tante uova di cioccolata, e della tredicesima, e di molte banconote, di frigoriferi colmi d’ogni bene, e di appartamenti in città con bagni di maiolica.
Ma la violenza è esplosa per le strade e dalle uova di cioccolata sono nati serpenti che celano nella coda mitra e bombe molotov.
O uomini e donne del nostro tempo, noi manchiamo di vero annuncio, perché manchiamo di conoscenza contemplativa.
Ignoriamo la parola che nasce dal Verbo di Dio perché abbiamo smarrito il silenzio, anzi ne abbiamo paura.
E lo uccidiamo perfino al mare e sui monti a colpi di radioline e transistor.
Ma invano noi edifichiamo la città se non è il Signore a costruirla con noi.
Se la sua Parola non ci penetra e non ci cambia invano attendiamo la pace da noi e dai nostri fratelli.
(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).
Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio Il Signore non solo ammaestra i Dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca.
Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo.
Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi.
Ne manda dunque due.
«Due sono meglio di uno», dice l’Ecclesiaste (Qp 4,9).
Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà.
Chi al vedere un apostolo senza bisaccia né pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti.
[…] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi.
In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero.
[…] «Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13).
Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio.
Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: «Chi è malato chiami a se i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio» (Gc 5,14).
Così l’olio serve a confortare nella sofferenza.
Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.
(TEOFILATTO, Commento al vangelo di Marco 6, PG 123,548C-549C).
Il mio sì Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato.
Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio: un posto da nessun altro occupato.
Poco importa che io sia ricco, povero disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome.
Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro.
Io ho la mia missione.
In qualche modo sono necessario ai suoi intenti tanto necessario al posto mio quanto un arcangelo al suo.
Egli non ha creato me inutilmente.
Io farò del bene, farò il suo lavoro.
Sarò un angelo di pace un predicatore della verità nel posto che egli mi ha assegnato anche senza che io lo sappia, purché io segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione.
(John Henry Newman).
Portatrici dell’amore di Cristo Cerchiamo di vivere lo spirito delle missionarie della carità fin dall’inizio, spirito di totale abbandono a Dio, di amorevole fiducia reciproca e di gioia in ogni situazione.
Se accettiamo veramente questo spirito, allora saremo sicuramente delle autentiche co-operatrici di Cristo, le portatrici del suo amore.
Questo spirito deve irraggiare dal vostro cuore sulle vostre famiglie, sul vostro vicinato, sulle vostre città, sul vostro paese, sul mondo.
Cerchiamo di aumentare sempre di più il capitale dell’amore, della cortesia, della comprensione e della pace.
Il denaro verrà, se cerchiamo anzitutto il regno di Dio: allora ci sarà dato il resto.
(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Ed.
San Paolo).
Una Chiesa missionaria «Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo della vita si apre al desiderio di con-dividere e comunicare la sua gioia, non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato agli “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio in tutta la comunità» (CVMC 46).
«La Chiesa ha bisogno soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo» (CVMC 63).
Preghiera Signore Gesù Cristo, parola del Padre a te ci rivolgiamo.
Custodisci i nostri propositi, ravviva il nostro servizio ecclesiale, sorreggi le nostre fatiche, guida i nostri passi nella ricerca delle vie più adatte per annunciare il tuo vangelo.
La nostra povertà è grande, noi non confidiamo in noi stessi, ma solo in te: incoraggiaci, assicuraci, donaci la tua benedizione.
Tu che, con il Padre e lo Spirito Santo, vivi e regni in noi nella tua Chiesa, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.
(Paolo VI).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Amos 7,12-15 In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».
Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un man-driano e coltivavo piante di sicomòro.
Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge.
Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».
Il brano — unico cenno biografico del libro — riferisce la polemica tra Amos e la classe sacerdotale, legata alla corte e al potere.
Il sacerdote Amasia accusa Amos di cospirazione contro il re, e vuole cacciarlo dal santuario di Betel, ma Amos risponde con la serena con-sapevolezza della propria fedeltà alla missione ricevuta dal Signore.
Non ci sono particolari motivi per negare un fondamento storico all’episodio, anche se non è semplice identificare l’attività e la condizione sociale del profeta nel suo luogo d’origine.
vv.
12-13 – Il discorso di Amasia è ben costruito, con un sapiente uso del parallelismo e una cadenza ritmata, anche se sono tradotti in prosa.
Evidente l’alterigie e il sarcasmo di chi si ritiene investito della funzione ufficiale di vegliare sull’istituzione regale.
Amos è chiamato «veggente» (chozeh) e non profeta (nabi’), ma questo di per sé non ha un accento spregiativo; la terminologia è varia e oscillante, specialmente per i profeti più antichi.
Si sottolinea la contrapposizione fra i due regni: Amos, originario di Giuda, svol-ge il suo ministero in Samaria, e Amasia si ritiene autorizzato a respingerlo al suo paese.
Il santuario di Betel è infatti un «tempio del regno», quasi un’istituzione politica, più che religiosa.
Ritornato nel regno del Sud, Amos potrà tranquillamente guadagnarsi da vive-re; nel Nord invece la sua attività è considerata sovversiva e pericolosa.
vv.
14-15 – Nella sua replica Amos afferma con forza la propria vocazione profetica.
Egli non è stato sempre profeta, né ha mai appartenuto alle confraternite o scuole di profeti che allora abbondavano in Palestina.
Al contrario, era un allevatore o un contadino, aveva un lavoro e forse delle proprietà che gli consentivano di vivere dignitosamente, senza dover ricorrere, come sembra insinuare Amasia, alla carità pubblica presso i santuari.
È il Signore che lo ha chiamato da dietro il gregge — come Mosè: cf.
Es 3,1 —, e alla sua vocazione non si disobbedisce: è fuori discussione quindi che Amos abbandoni la sua missione.
Qualche incertezza nell’identificare esattamente il precedente mestiere di Amos: il v.
14 sembra alludere all’allevamento di bovini, mentre il 15 parla di «gregge», quindi di ovini.
Quanto al sicomoro, la cui corteccia veniva incisa per utilizzarne i succhi, Amos sarebbe stato proprietario delle piante, da cui ricavava il foraggio per il suo bestiame.
Sia che fosse un pastore o un incisore di sicomori, sia che fosse proprietario di terre o bestiame, in ogni caso Amos viveva del suo lavoro e non era profeta prima della vocazione.
Seconda lettura: Efesini 1,3-14 Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia.
Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra.
In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.
La lettera agli Efesini, come quella ai Colossesi cui è molto vicina, fa parte delle cosid-dette deuteropaoline, attribuite a Paolo secondo l’uso antico, ma dovute a una posteriore scuola paolina.
Il brano 1,3-14, inserito tra l’indirizzo e la preghiera di ringraziamento, costituisce un blocco monolitico, quasi un prologo alla lettera.
È una benedizione, secondo la prassi litur-gica giudaica, formata da un unico periodo in cui si susseguono frasi concatenate, quasi senza pause.
Il v.
3 – la formula di benedizione — è introduttivo.
Il verbo benedire (euloghein) è ripetu-to due volte, con sensi diversi: lodare Dio (da parte nostra), beneficare il popolo (da parte di Dio).
Duplice anche il riferimento a Cristo: se ne afferma la relazione singolare con il Padre e la qualifica di Signore, e la sua opera salvifica: siamo salvati per mezzo di Cristo e in quanto incorporati a Lui nella Chiesa.
La prima parte – vv.
4-10 – descrive i contenuti della benedizione, con una serie di verbi con soggetto Dio: 1.
l’elezione e la predestinazione alla filiazione divina (vv.
4-6a) 2.
la grazia della redenzione (vv.
6b-7) 3.
la conoscenza del piano salvifico (vv.
8-10), culmine dell’azione benedicente di Dio.
Dio ha stabilito dall’eternità che Cristo sia l’amministratore dei tempi nuovi della salvez-za, e rappresenti perciò la pienezza del tempo e della storia.
«Ricapitolare» (anakephalaiosasthai) tutto in Lui significa portare all’unità tutto ciò che è frammentato e disperso, e anche sottoporre tutto il creato a Lui come capo di tutta la realtà.
La seconda parte – vv.
11-14 – descrive l’impatto storico della benedizione sulla comunità, con l’alternanza dei soggetti noi/voi: 1.
il primo «noi» indica la comunità giudeo-cristiana, in cui Paolo si identifica, e la sua modalità di accesso alla salvezza: l’elezione divina, per cui la comunità diventa proprietà di Dio, come Israele (vv.
11-12).
2.
il «voi» indica gli etno-cristiani, destinatari della lettera, e la loro modalità di appro-priazione della salvezza (v.
13).
3.
il secondo «noi» è inclusivo delle due componenti.
Lo Spirito è caparra — acconto che garantisce — della salvezza per tutti i credenti (v.
14).
È una benedizione motivata dall’esperienza e dal riconoscimento dell’iniziativa salvifi-ca di Dio, caratterizzata dall’economia trinitaria.
Vangelo: Marco 6,7-13 In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri.
E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì.
Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascol-tassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
Esegesi La pericope della missione ai Dodici appare slegata dal contesto ed è quindi difficile la sua collocazione storica nella vita di Gesù.
Marco pone l’episodio tra la predicazione a Nazaret e il martirio del Battista, e narra il ritorno dei discepoli prima della moltiplica-zione dei pani (cap.
6).
Si riconoscono molti contatti con i paralleli sinottici, Mt 10,1.5-15 e Lc 9,1-6.
Sembra che Marco desideri limitare al minimo la parte relativa all’insegnamento del ministero degli Apostoli: il contenuto della proclamazione non è infatti precisato, e il v.
12 si limita a un generico invito alla conversione.
L’importanza della missione tuttavia è fuor di dubbio, e sufficientemente testimoniata dalla relazione che ne fanno i tre evangelisti.
v.
7 – L’espressione «i Dodici» è cara a Marco.
Bene attestata nell’ambiente giudaico la pratica di lavorare in coppia (cf.
i discepoli del Battista e Paolo).
Il «potere sugli spiriti im-mondi» è indicato più avanti, quando si dice che i discepoli riescono a operare un esorci-smo (9,18).
vv.
8-9 – Le indicazioni di Gesù sull’equipaggiamento dei discepoli mostrano l’urgenza della missione: non ci si può attardare nei preparativi.
Matteo e Luca vietano, tra l’altro, anche di portare con sé un bastone, permesso invece da Marco: indizio forse dei pericoli che presentava la situazione in cui fu scritto questo vangelo.
Il senso generale è comunque quello di testimoniare distacco dai bisogni terreni e fidu-cia in Dio.
Il discepolo è libero da paure e ansietà per quanto riguarda le necessità quoti-diane della vita: i gigli del campo e gli uccelli del cielo gli sono di esempio.
vv.
10-11 – L’ospitalità ricevuta e semplicemente accettata enfatizza l’importanza e la santità della missione.
Il gesto di «scuotere la terra sotto i piedi» era compiuto dal giudeo al ritorno da una terra pagana, quasi a evitare ogni contatto tra il mondo pagano e la terra d’Israele.
Qui il gesto è rivolto, non ai pagani in quanto tali, ma a chiunque rifiuta di acco-gliere il messaggio evangelico.
L’espressione «a testimonianza per loro» va intesa come una direttiva per un cambia-mento del cuore, della mentalità: una conversione.
Il senso del termine greco non è quello di un giuramento «contro qualcuno», ma piuttosto del «mettere in guardia».
vv.
12-13 -La predicazione è appena accennata, con parole familiari in Marco.
Nuova (solo 3x nel N.T.: Lc 10,34 e Gc 5.14) è l’azione di «ungere (aleipho) con olio (elaion)» i mala-ti, cui Marco attribuisce un’efficacia miracolosa per la guarigione.
Meditazione Dopo l’insuccesso sperimentato da Gesù nella propria patria, l’evangelista Marco ci nar-ra l’invio dei Dodici in missione.
La deludente e fallimentare visita a Nàzaret non distoglie Gesù dalla sua attività missionaria; al contrario, egli sembra voler ancor più ampliare e in-tensificare il suo raggio d’azione chiamando i Dodici a collaborare alla sua opera di evan-gelizzazione.
Ciò che finora ha fatto lui solo, ora è affidato anche alle mani e alla bocca dei suoi collaboratori.
In 3,13-19, riferendo la chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici, Marco ne sottolinea i due scopi principali: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14).
Da allora i Dodici hanno sempre accompagnato Gesù, condividendo la sua vita, ascoltando il suo insegnamento e assistendo ai suoi gesti prodigiosi.
Ora è giunto il momento di porre in atto il secondo scopo indicato dal ‘programma’ apostolico: l’invio in missione.
«E prese (lett.
cominciò) a mandarli…» (v.
7).
Abbiamo qui un inizio, una nuova tappa del cammino di sequela dei Dodici.
È la prima volta, infatti, che vengono «mandati» (apostéllein) ed è significativo che solo dopo aver eseguito la loro missione sa-ranno designati con il nome di «apostoli» (apostólous, inviati, mandati: v.
30).
Quando chiama (al v.
7 ricompare, per la seconda volta, lo stesso verbo della prima chiamata: proskaleîtai, «chiama a sé»; cfr.
3,13), Gesù lo fa sempre in vista di una missione, la sua è sempre una chiamata per.
Così che la missione fa intrinsecamente parte della voca-zione apostolica, della vocazione della Chiesa e di ogni vocazione.
Non è qualcosa che si aggiunge in un secondo tempo alla sua struttura costitutiva: ne fa parte sin dall’inizio.
E ciò che va ricordato al riguardo è che Dio sceglie sempre chi vuole, indipendentemente dalle sue qualità umane e spirituali, dalla sua condizione sociale, dal suo livello di preparazione culturale.
Ne è un esempio il profeta Amos (prima lettura), semplice pastore e raccoglitore di sicomori, che il Signore un bel giorno, senza il minimo preavviso, chiama (anzi «prende») e manda a profetizzare al suo popolo (Am 7,14-15).
Anche in questo caso, nel medesimo istante in cui chiama, Dio affida una missione («Va’…»), senza lasciare al chiamato troppo tempo per meditarci sopra…
Marco è l’unico evangelista a riferire che i Dodici sono inviati «a due a due».
Certa-mente questo dato rispecchia la prassi della Chiesa primitiva (cfr.
At 8,14; 13,2; 15,2.22; ecc.) e si fonda sul fatto che, secondo la prospettiva biblica, una testimonianza ha valore solo se convalidata da almeno due testimoni (cfr.
Dt 19,15).
Ma si può vedere in questo tratto qualcosa che non è estraneo alla natura stessa del messaggio che i missionari devono portare.
Essi infatti non annunciano un sistema dottrinale o morale, ma la buona notizia del Regno, la vicinanza e la prossimità di Dio a ogni uomo, la comunione di vita che Egli vuole instaurare con tutti i suoi figli attraverso il Figlio suo.
Per questo è impor-tante vivere in prima persona questo messaggio di comunione, per evangelizzare anzi-tutto con la stessa vita e per rendere più credibile la parola che si proclama.
Due persone formano già una piccola comunità (cfr.
Mt 18,20), uno spazio cioè in cui è possibile vivere la relazione, la condivisione, il mutuo affetto e l’amore reciproco.
Quando si è in due, poi, ci si può sempre aiutare e sostenere vicendevolmente, «infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro…» (Qo 4,9-12).
E questo semplice fatto dell’andare insieme, a due a due, può essere già una ‘buona notizia’ per l’uomo di oggi, tanto afflitto dal male della solitudine e dell’isolamento…
Nelle istruzioni che Gesù dà ai Dodici al momento della loro partenza (ossia come de-vono equipaggiarsi per il viaggio e come devono comportarsi quando arrivano in un de-terminato luogo) non viene precisato né dove essi devono andare, né cosa devono dire: c’è solo questo andare in coppia, con un «potere» ricevuto per delega (quello sugli «spiriti impuri» che, in primo luogo, spetta solo a Gesù) e con un bastone, unico ‘bagaglio’ da avere con sé.
I missionari devono andare ‘nudi’ e ‘leggeri’, consci di non avere nulla da offrire se non la parola stessa di Gesù e il suo potere, necessario per affrontare coraggiosamente la stessa lotta che egli ha ingaggiato contro lo spirito del male.
Questa povertà estrema, questa sobrietà radicale, questa spoliazione assoluta che deve caratterizzare la missione non è un aspetto secondario, anzi: ne è la condizione indi-spensabile.
Perché il vangelo si annuncia anzitutto con uno stile di vita connaturale al vangelo stesso, che insegna ad affidarsi a Dio non confidando in se stessi (perché, co-munque, Lui si prende in ogni caso cura dei suoi figli più che degli uccelli del cielo e dei gigli del campo), che manifesta l’amore privilegiato di Dio per i più poveri (e quindi predilige anche i mezzi poveri), che spinge ad andare incontro a tutti senza fare discriminazioni di sorta (e quindi ad accettare con gratitudine l’ospitalità di chiunque senza cercarne una migliore).
In questo la Chiesa di ogni tempo è sempre chiamata a confrontarsi e a verificarsi.
Il discorso ai missionari si chiude con una nota ‘domestica’ e, altresì, ‘drammatica’.
Il «rimanere in una casa» (v 10) apre uno squarcio sulla dimensione intima, familiare, quoti-diana della vita.
La parola evangelica ha bisogno di incarnarsi in primo luogo lì, nel tessuto più ordinario dell’esistenza, tra le mura dove nasce e cresce l’amore, dove si imparano a vivere le relazioni, ma dove anche cominciano a sorgere le prime sofferenze, le prime incomprensioni, le prime rotture.
«Casa» dice luogo dove si abita, si dimora; così Dio vuole abitare, prendere dimora in ogni nostra casa.
Ma questa stessa «casa» può diventare luogo di rifiuto di non accoglienza.
«Se in qual-che luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero.
» (v.
11).
Sembra quasi che la parola del vangelo abbia difficoltà a trovare un terreno buono in cui porre radici tanto e sottoli-neato, nel nostro testo, il rilievo dato alla chiusura, all’opposizione.
Il rifiuto è messo in preventivo fin dall’inizio.
Ma questo non deve scoraggiare il discepolo (non è stato così anche per il suo Maestro?): egli deve solo portare a termine, con tutto l’impegno possibile, il compito affidatogli, lasciando poi a Dio il risultato.
Nella certezza che la parola di Dio possiede una forza e una efficacia che gli permetteranno comunque di portare frutto.

SS.Corpo e Sangue di Cristo anno B

«Amen» Celebrando l’eucaristia, la comunità ecclesiale partecipa al gesto di autoconsegna e di compassione di Gesù, lo rivive in sé e accetta di lasciarsi plasmare da esso, impegnandosi a trasformare i rapporti tra gli uomini in rapporti di consegna e di compassione.
L’eucaristia porta in sé la forza di cambiare in ciò che essa è coloro che la celebrano e mangiano di quell’unico pane e bevono di quel calice.
Una prospettiva che trova il suo fondamento nell’atto stesso di istituzione dell’eucaristia ed appare tipica della patristica e della grande tradizione teologica.
Basta ricordare, per tutti, uno straordinario testo di Ago-stino rivolto ai battezzati che, per la prima volta, si accostavano alla mensa eucaristica: alla mensa eucaristica: «Se voi siete il corpo e le membra di Cristo, il vostro mistero è deposto sulla tavola del Signore: voi ricevete il vostro proprio mistero! Voi rispondete “Amen” a ciò che voi siete, e con la vostra risposta sottoscrivete.
Sentite dire: “Corpus Christi, il Corpo di Cristo” e rispondete: “Amen”! Siate dunque membra del corpo di Cristo, affinché il vostro “Amen” sia vero».
(S.
AGOSTINO, Sermo 272, in PL 38, 1247).
Il nascondimento di Dio nell’eucaristia Anche in questa lettera voglio tornare per un istante sul tema dell’eucaristia, perché l’eucaristia può definirsi a buon diritto il sacramento in cui Dio si nasconde.
Che c’è di più comune di un po’ di pane e di un bicchiere di vino? Che c’è di più semplice delle parole: «Prendete e mangiate, prendete e bevete: questo è il mio corpo e sangue.
Fate questo in memoria di me»?.
Mi sono trovato spesso con degli amici intorno a una piccola tavola, ho preso del pane e del vino e ho ripetuto le parole dette da Gesù quando si congedò dai suoi discepoli.
Niente di speciale o di spettacolare, nessuna grande folla, nessun canto straordinario, nes-suna formalità.
Solo alcune persone che mangiano un pezzo di pane che non basta a sfa-marli e bevono un sorso di vino che non basta a dissetarli.
Eppure…
in questo nascondi-mento è presente Gesù risorto e si rivela l’amore di Dio.
Come Dio si fece uomo per noi nel nascondimento, così pure nel nascondimento egli si fa per noi cibo e bevanda.
Tanta gente passa vicino all’eucaristia senza curarsene, eppure l’eucaristia è il più grande avvenimento che possa accadere tra noi uomini.
Durante il mio soggiorno all’‘Arca’, in Francia, ho scoperto la stretta relazione tra il na-scondimento di Dio nell’eucaristia e il suo nascondimento nel popolo di Dio.
Mi ricordo che una volta madre Teresa mi disse che non si può vedere Dio nei poveri, se non lo si ve-de nell’eucaristia.
Quelle parole mi sembrarono allora un po’ esagerate; ma ora che ho pas-sato un anno intero con gli handicappati comincio a capirne meglio il significato.
Non è realmente possibile vedere Dio negli esseri umani, se non lo si vede nella realtà nascosta del pane che scende dal cielo.
Fra gli esseri umani puoi vedere tipi di ogni specie: angeli e demoni, santi e bruti, anime caritatevoli e malevoli maniaci del potere.
Tuttavia, è solo quando hai imparato per esperienza personale quanto Gesù si curi di te e quanto egli de-sideri essere il tuo cibo quotidiano, è solo allora che impari anche a vedere ogni cuore co-me dimora di Gesù.
Quando il tuo cuore è toccato dalla presenza di Gesù nell’eucaristia, ricevi occhi nuovi, capaci di conoscere la stessa presenza nel cuore degli altri.
I cuori si parlano fra loro.
Il Gesù che è nel nostro cuore parla al Gesù che è nel cuore dei nostri fra-telli e delle sorelle.
È questo il mistero eucaristico di cui noi facciamo parte.
Noi vogliamo vedere dei risultati e se possibile – vogliamo vederli subito.
Ma Dio opera in segreto e con pazienza divina.
Partecipando all’eucaristia riuscirai un po’ alla volta a comprendere que-sta verità.
E allora il tuo cuore potrà cominciare ad aprirsi al Dio che soffre in chi ti sta in-torno.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 78).
Parola ed eucaristia L’eucaristia, con tutta la realtà sacramentale che da essa promana, è memoria della Pa-squa di Gesù, non nel senso psicologico del ricordo, sulla misura e secondo le leggi della memoria umana, bensì nella luce della potenza dell’amore divino manifestato nella Pa-squa.
In Gesù morto e risorto Dio proclama e attua la sua amorosa volontà di vicinanza al-l’uomo, di presenza nella storia, di perdono del peccato, di vittoria sulla morte, di inizio di una vita nuova.
L’eucaristia è la concreta modalità storica con cui l’amore onnipotente di Dio, culminante nella Pasqua di Gesù, raggiunge il suo intento di rendersi realmente pre-sente e operante in ogni momento della storia umana.
L’eucaristia è presenza viva e reale di Gesù, del suo mistero, del suo sacrificio, della sua Pasqua.
Tutta la vicenda di Gesù, dall’incarnazione del Figlio preesistente alla dolorosa umiliazione del Crocifisso, alla glorificazione del Cristo risuscitato e datore dello Spirito, si ripropone a noi nell’eucaristia, in forza dell’interiore efficacia del sacrificio pasquale.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2009, 142-143).
Diventare segni di Cristo amore Lo Spirito di Cristo che ha parlato per mezzo dei profeti, e che nel Cristo morto e risor-to ha ridato al mondo la speranza dell’amore, è presente e operante nella Chiesa, che non cessa di ripresentare all’uomo d’oggi l’istanza suprema della verità e della carità [ …
].
La Chiesa, infatti, ha la missione, umile e ardente, povera e fiduciosa insieme, di ricon-ciliare con l’amore la società e di restituire l’unità al mondo.
Noi Chiesa, come comunione d’amore, come luogo della perfetta amicizia, siamo chia-mati, partendo dalla nostra povertà, fragilità, dal nostro peccato, a essere principio da cui procede la vita autentica del singolo; siamo chiamati come Chiesa – perché Gesù ci ama – a essere il noi del mondo riconciliato che ha come legge suprema, e in un certo senso unica, la carità, cioè l’amore gratuito e autentico.
Questa Chiesa, di cui siamo grati di essere membra e servitori, ci presenta Gesù, esem-pio e fonte di carità perfetta principalmente nell’eucaristia.
È Gesù nell’atto di dare la vita per te che ti viene proposto nel mistero della Cena.
O Gesù, Cristo amore, manifesta la tua presenza in mezzo a noi! Fa’ che ci accostiamo alla tua cena non come Giuda, che pensa ai suoi trenta denari: ma come Pietro che ti dice: Signore, purificami interamente! Lavami piedi, testa e tutte le membra, purifica ogni mio amore sbagliato, rendimi capace di amore vero.
Fammi, o Signore, segno di unità nella tua Chiesa; fammi strumento della tua pace nel mondo! (Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2009, 156-157).
Il mistero del corpo e del sangue Concluse le antiche feste della Pasqua che si celebravano per ricordare l’antica libera-zione dalla schiavitù d’Egitto del popolo di Dio, Cristo è passato alla nuova Pasqua e ha voluto che la chiesa la celebrasse in memoria della sua redenzione.
Al posto della carne e del sangue dell’agnello sostituì il mistero del suo corpo e del suo sangue.
[…] Egli stesso spezza il pane che porge ai discepoli per dimostrare che il suo corpo sarà in futuro spezza-to non contro la sua volontà, ma, come dice altrove, egli ha il potere di offrire la sua vita da se stesso e di riprenderla di nuovo (cfr.
Gv 10,18).
E prima di spezzare il pane, lo benedice con la grazia sicura del sacramento perché insieme con il Padre e lo Spirito santo ricolma di grazia divina la natura umana che ha assunto per sottostare alla passione.
Benedisse dunque il pane e lo spezzò perché volle sottomettersi alla morte in modo da dimostrare che in lui era veramente la potenza della divina immortalità e insegnare così che il suo corpo ben presto sarebbe risorto dalla morte.
«E preso un calice, rese grazie, lo diede loro e tutti ne bevvero» (Mc 14,23).
Nell’imminenza della passione rese grazie dopo aver preso il pane.
[…] E lui che non meritò affatto di soffrire, umilmente nella sofferenza benedisse per mostrare come deve comportarsi chiunque non soffre per propria colpa.
Infatti, nel mo-mento stesso in cui per compiere ogni giustizia si addossa il peso della nostra colpa, rende ugualmente grazie al Padre proprio per mostrare in che modo dobbiamo sottometterci alla correzione.
«E disse loro: Questo è il mio sangue della nuova alleanza, versato per molti» (Mc 14,24).
Poiché il pane rinvigorisce il corpo, mentre il vino agisce sul sangue, mistica-mente il primo si riferisce al corpo di Cristo e il secondo al suo sangue.
Ma poiché è neces-sario che noi restiamo in Cristo e Cristo in noi, il vino del Signore si mischia nei calici con l’acqua, dato che Giovanni testimonia: «Le acque sono i popoli» (Ap 17,15).
A nessuno è consentito di fare offerta di sola acqua o solo vino, come neppure di grano che non sia sta-to impastato con l’acqua per fame pane.
E questo perché non si pensi che il corpo debba essere separato dalle membra, o che Cristo abbia sopportato la passione non per amore della nostra redenzione, o che noi possiamo essere salvati e offerti al Padre senza la pas-sione di Cristo.
(BEDA IL VENERABILE, Commento al vangelo di Marco 4, COL 120, pp.
611-612).
La singolarità dell’eucaristia «Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro» (Gv 21, 18).
Questa comunione di mensa tra Gesù e i suoi, anche se non è un’eucaristia propriamente detta, riprende il vo-cabolario eucaristico del Nuovo Testamento e ci invita a riflettere sulla cena e sull’eucari-stia.
L’eucaristia, così come è accolta nella fede della Chiesa, presenta un aspetto sorpren-dente, che sconvolge l’intelligenza e commuove il cuore.
Siamo di fronte a uno di quei ge-sti abissali dell’amore di Dio, davanti ai quali l’unico atteggiamento possibile all’uomo è una resa adorante piena di sconfinata gratitudine.
L’eucaristia non è solo la modalità voluta da Gesù per rendere perennemente presente l’efficacia salvifica della Pasqua.
In essa non è presente soltanto la volontà di Gesù che istituisce un gesto di salvezza; in essa è presente semplicemente (ma quali misteri in questa semplicità!) Gesù stesso.
Nell’eucaristia Gesù dona a noi se stesso.
Solo lui può lasciare in dono a noi se stesso, perché solo lui è una cosa sola con l’amore infinito di Dio, che può fare ogni cosa.
Certo, occorre badare anche agli strumenti umani, di cui Gesù si serve.
Poiché la Pa-squa rivela e insieme celebra l’amore di Dio che attrae l’uomo a sé, troviamo plausibile che Gesù nell’ultima cena abbia valorizzato la tensione alla comunione con Dio espressa nel gesto del mangiare insieme e soprattutto abbia fatto riferimento al valore commemorativo dell’alleanza, che era proprio della liturgia pasquale veterotestamentaria.
È quindi norma-le e doveroso che la Chiesa, nel configurare concretamente la liturgia eucaristica, abbia as-sunto nel passato e debba assumere e aggiornare continuamente le espressioni celebrative provenienti dalla nativa spiritualità umana e dalla liturgia veterotestamentaria.
Ma tutto questo è percorso e oltrepassato da una novità assoluta: è tale la forza di camminare manifestata e attuata nel sacrificio della croce, che essa rende presente nell’eu-caristia il Cristo stesso nell’atto di donarsi al Padre e agli uomini per restare sempre con lo-ro.
Gesù, che già in molti modi attrae a sé la Chiesa con la forza del suo Spirito e della sua Parola, suscita nella Chiesa la volontà di obbedire al suo comando: «Fate questo in memo-ria di me» (Lc 22,19).
E quando la Chiesa, nell’umiltà e nella semplicità della sua fede, obbedisce a questo comando, Gesù, con la potenza del suo Spirito e della sua Parola, porta l’attrazione della Chiesa a sé al livello di una comunione così intensa, da diventare vera e reale presenza di lui stesso alla Chiesa: il pane e il vino diventano realmente, per quella misteriosa trasfor-mazione che è chiamata transustanziazione, il corpo dato e il sangue versato sulla croce; nei segni conviviali del mangiare, bere, festeggiare si attua la reale comunione dei credenti col Signore; le funzioni sacerdotali si svolgono non per designazione o delega umana, ma per una reale assunzione dei ministri umani nel sacerdozio di Cristo, secondo le modalità stabilite da Cristo stesso.
L’eucaristia si presenta così come la maniera sacramentale con cui il sacrificio pasquale di Gesù si rende perennemente presente nella storia, dischiudendo a ogni uomo l’accesso alla viva e reale presenza del Signore.
Si tratta di prodigi che fioriscono su quel prodigio di inesauribile amore, che è il miste-ro pasquale.
D’altra parte si potrebbe dire che si tratta della cosa più semplice: Dio, nel-l’eucaristia di Gesù, prende sul serio la propria volontà di alleanza, cioè la decisione di sta-re realmente con gli uomini, di accoglierli come figli, di attrarli nell’intimità della sua vita.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol.
II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94).
Non di solo pane vive l’uomo Che cosa voleva dire Gesù affermando che l’uomo non vivrà di solo pane? Perché usa questa espressione al futuro invece che al presente? Il Maestro ci vuole far comprendere che la vita vera, quella che attende l’uomo, non la puoi conseguire con i beni materiali.
Essi tutt’ al più permettono alla carne e al sangue di sopravvivere nel frammento di tempo pre-sente, ma senza le prospettive che si aprono sull’ eternità.
Se vuoi vivere in pienezza, oltre i limiti dello spazio e la corrosione del tempo, devi nutrirti di un altro pane, il pane della vita, che viene dal cielo e non dalla terra: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51).
Caro amico, la realtà del nostro tempo è sotto i tuoi occhi.
Guardati intorno ed esamina la tua situazione esistenziale.
Quante sono le persone che hanno fame del pane vivo che dà la vita eterna? Quanti sono quelli che sentono il bisogno di cercare Gesù e di scoprirlo nella loro vita? I beni materiali sono divenuti una droga, di cui hanno continua-mente bisogno, ma che li irretiscono nella tela che il ragno infernale tende instancabilmen-te.
Non attendere che la clessidra del tempo si sia svuotata del tutto per renderti conto del-l’inganno mortale.
(Padre Livio FANZAGA, Fa’ posto a Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 9).
Nel tuo tabernacolo Signore Gesù, c’è grande silenzio nel tuo tabernacolo.
Dov’è la tua luce? Chi sente la tua voce? Chi ode i tuoi passi? Nel tuo tabernacolo, o Signore, tutto è immobile, tutto è silenzio, tutto è mistero.
Eppure, ogni giorno la tua parola invita alla lode.
Eppure, ogni giorno, tu imbandisci una mensa per coloro che ti amano.
Davanti al tuo santo altare quanti hanno ritrovato la fede, quanti hanno riacquistato la grazia, quanti si sono votati alla tua causa! Tu solo conosci l’intima storia di innumerevoli anime che qui, dinanzi a te, hanno espresso la loro gioia, hanno versato calde lacrime, hanno ritrovato fiducia e speranza.
Nel tuo tabernacolo, o Signore, c’è pienezza di vita.
Tu parli, o Signore.
Tu ascolti, o Signore, Tu ami, o Signore.
Preghiera Signore Gesù, con gioia ci prostriamo in adorazione presso il tuo santo altare.
Con te, o Gesù, tutto è merito di vita eterna, tutto è luce che rischiara la vita, tutto aiuta a proseguire il cammino, tutto è dolcezza…
anche il dolore! Tu sei fonte copiosa di purissima gioia.
Gioia che cominciamo a gustare qui, nella valle del pianto, e che sarà piena quando ci svelerai la tua gloria: al gaudio della fede subentrerà quello della visione.
Signore Gesù, tu, pane vivo disceso dal cielo, ci basti.
Non abbiamo bisogno di altri.
Tu sei la nostra vita.
Tu sei la nostra gioia.
Tu sei il nostro tutto.
Ci affidiamo a te: nostro conforto, nostro gaudio, nostra pace.
(Paolo VI).
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Esodo 24,3-8 In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme.
Tutto il popolo rispo-se a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!».
Mosè scrisse tutte le parole del Signore.
Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele.
Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacri-fici di comunione, per il Signore.
Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare.
Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo.
Dissero: «Quanto ha detto il Si-gnore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».
Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».
Il capitolo 24 del libro dell’Esodo narra la conclusione dell’alleanza stipulata tra il Signo-re Dio e Israele con la mediazione di Mosè.
Questi, infatti, era stato più volte convocato da Dio sul monte per ricevere le “parole”, riferirle poi al popolo e ritornare da Dio per portare la risposta affermativa del popolo.
Anche questa volta troviamo Mosè che «andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme.
Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!» (24,3).
Ricevuto l’assenso da parte del popolo, Mosè diede inizio a un rito: prima costruì un al-tare con dodici stele, una per ogni tribù d’Israele (cf.
24,4), poi fece offrire da alcuni giovani olocausti e sacrifici di comunione in onore del Signore (cf.
24,5).
Infine, completò il rito co-sì: «Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare.
Quin-di prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo.
Dissero: «Quanto ha detto il Signo-re, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».
Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ec-co il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!» (24,6-8).
Attraverso questo rito Mosè vuole quindi esprimere una profonda realtà: egli è situato tra i due contraenti: il primo è Dio, che viene rappresentato dall’altare; il secondo è il po-polo, al quale viene di nuovo letto l’intero libro dell’alleanza affinché, in modo consapevo-le, possa pronunciare il suo sì.
Che cosa può unire i due contraenti, per suggellare solennemente il patto? Mosè sceglie allora il segno del sangue, il quale, versato per metà sull’altare e per l’altra metà sul popo-lo, stabilisce tra i due una ”comunione”.
Non è difficile, nelle parole del versetto 8, ricono-scere l’analogia con il sangue di un’altra vittima, ben più importante di quegli animali sa-crificati.
Infatti, Gesù Cristo, sull’altare della croce, versa il proprio sangue con cui viene aspersa l’umanità per ritrovare, finalmente la pace e la riconciliazione con il Padre (cf.
Col 1,19-20).
Il sangue, tra l’altro indica anche un rapporto di “parentela”, che ci viene guada-gnato da Gesù Cristo.
In virtù di questo sangue, allora, non siamo «più stranieri né ospiti, ma siamo concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19), addirittura figli di adozione di un Padre eccezionale, che per farci entrare nella sua famiglia non ha esitato di mandare sulla croce il suo Figlio Unigenito.
Seconda lettura: Ebrei 9,11-15 Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione.
Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.
Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscien-za dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente? Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle tra-sgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che so-no stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.
Su questa linea si trova anche lo stupendo brano della Lettera agli Ebrei.
L’autore, in poche battute, evidenzia i due grandi mezzi con i quali Cristo entra nel santuario.
Egli, ve-nuto in mezzo all’umanità in qualità di sommo sacerdote dei beni futuri per il fatto che ci ha ottenuto la redenzione eterna, entrò nel santuario «attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione.
Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue» (9,11-12).
Ma occorre chiarire bene a che cosa si riferisca l’autore con i termini ‘tenda” e “santua-rio”.
Infatti, la tenda, più grande e perfetta, non può essere paragonata con la tenda che Mosè eresse nel deserto per custodire l’arca dell’alleanza, perché designa un’altra realtà, che era ben nota ai primi cristiani.
Inoltre essa va intesa in rapporto all’altro mezzo ossia al sangue, e alle ulteriori qualificazioni, su cui bisogna fare delle precisazioni: quando si dice che la tenda è «non costruita da mano di uomo» ci si collega con Mc 14,58, dove i falsi te-stimoni, durante il processo, accusarono Gesù dicendo: «Noi lo abbiamo udito mentre di-ceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo».
Benché tale affermazione si trovi in una deposizione di falsi testimoni, il suo tenore orienta chiaramente a capire che non è questo che l’evangelista considera falso, poiché un confronto con Gv 2,19 conferma che Gesù ha realmente afferma-to tale “profezia”.
La tenda è, quindi, il corpo glorioso di Cristo, nuova creazione realizzata in tre giorni per mezzo dell’effusione del suo sangue.
La tenda, che è il corpo glorioso di Cristo, consente all’umanità aspersa dal sangue di lui, di entrare in contatto, o meglio in comunione, con il santuario, ossia con la santità e la trascendenza di Dio Padre.
Cristo ha, in altre parole, portato a compimento ciò che nel-l’Antico Testamento era desiderato ma impossibile da realizzare.
D’altronde, se Dio si ac-contentava di considerare efficaci i sacrifici animali, come non doveva reputare “definiti-vo” quello di suo Figlio? «Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?» (9,13-14).
In forza di tutto questo, Cristo può ben essere considerato «mediatore di una nuova al-leanza, perché, essendo ormai intervenuta la sua morte per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa» (9,15).
Vangelo: Marco 14,12-16.22-26 Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pa-squa, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo.
Là dove entrerà, dite al padrone di ca-sa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”.
Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, en-trati in città, trovarono come aveva detto loro e prepara-rono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Pren-dete, questo è il mio corpo».
Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti.
E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti.
In verità io vi dico che non berrò mai più del frut-to della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel re-gno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli U-livi.
Esegesi Il brano evangelico proposto in quest’anno liturgico ci riconduce immediatamente al contesto insieme semplice e solenne della Pasqua.
Così infatti inizia Marco: «Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?» (14,12).
La Pasqua rappresentava la festa più importante dell’anno liturgico ebraico: con essa il popolo d’Israele si ricollega ancora oggi all’evento salvifico vissuto con Mosè e ricorda la liberazione dalla schiavitù in Egitto, em-blema di liberazione da ogni qualsivoglia forma di schiavitù e dipendenza, sia materiale che spirituale.
Fondamentale risulta il patto che viene stipulato: Dio consegna la Legge e s’impegna a essere il Dio d’Israele, svolgendo anche la funzione di padre, di soccorritore, di giudice e medico, di ispiratore e difensore.
Da parte sua, Israele promette fedeltà, cioè di eseguire tutto ciò che il Signore comanda.
Tale alleanza viene suggellata attraverso il san-gue di animali quali vittime offerte in sacrificio, come poi vedremo nella prima lettura.
Alla festa di Pasqua ne fu associata un’altra, pur importante, tanto da divenire un tut-t’uno, ossia la festa degli Azzimi.
Quest’ultima era connessa all’usanza primaverile agrico-la di iniziare l’anno nuovo con il primo raccolto dell’orzo.
Perciò tale inizio veniva espresso con l’eliminazione del vecchio lievito (durante la settimana degli azzimi gli alimenti fatti con il lievito vecchio devono sparire, perché si mangia pane non lievitato in attesa del lie-vito nuovo alla fine della festa).
Il tutto confluisce nella cena pasquale, quando si mangia il pane azzimo, unitamente all’agnello, maschio, senza difetto e nato nell’anno (cf.
Es 12,5), secondo l’usanza dei pastori per la loro festa di primavera.
Con questi cibi, che indicano il rinnovarsi della vita nella tradizione pastorale e in quella agricola, Israele rammenta che la propria origine è legata all’azione salvifica e liberatrice di Dio.
Il momento in cui i discepoli pongono a Gesù la domanda circa la preparazione della cena pasquale è quello dell’inizio della settimana degli Azzimi, il giorno in cui i sacerdoti, nel tempio, di pomeriggio, immolavano gli agnelli che sarebbero poi stati consumati a Pa-squa.
Marco, però, mostra che Gesù aveva già pensato al luogo della cena e, addirittura, indica ai discepoli pure a chi devono rivolgersi appena entrati in città: «Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo.
Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”.
Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua» (14,13-16).
La pericope letta non comprende i versetti che ci presentano lo smascheramento di Giuda (vv.
17-21), per cui si passa subito al racconto dell’istituzione.
Non è certo facile commentare in poco spazio il racconto dell’istituzione dell’eucaristia, perciò è preferibile soffermarsi sul senso del sangue in rapporto all’alleanza, argomento poi da completare con la trattazione delle altre letture bibliche.
Che cosa sia il sangue per l’uomo biblico viene chiarito da Lv 17,11.14: «Poiché la vita della carne è nel sangue.
Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vo-stre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita […]; perché la vita di ogni essere viven-te è il suo sangue, in quanto sua vita; perciò ho ordinato agli Israeliti: Non mangerete san-gue di alcuna specie di essere vivente, perché il sangue è la vita d’ogni carne; chiunque ne mangerà sarà eliminato».
Esso è dunque un elemento vitale, necessario all’uomo per la sua vita biologica della quale, in qualche modo, segna anche il limite, la peribilità.
Difatti, quando tra i giudei si voleva alludere alla fragilità della condizione umana, si usava spes-so la formula basar wadam (carne e sangue), come Gesù stesso fece in Mt 16,17.
Ma il san-gue è anche elemento di trasmissione di vita da un essere a un altro.
Se il sangue è legato inscindibilmente alla vita e alla sua trasmissione, l’espressione “versare il sangue”, invece, ha il significato di “uccidere”.
Tenendo presente tutto ciò, noi ci orientiamo alla contemplazione di Gesù crocifisso, che non ha rifiutato di “versare il sangue”, ossia di venire ucciso per noi, perché egli sape-va bene che dal suo sangue sparso scaturisce l’espiazione e la vita per chi confida in Lui: «E disse loro: Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti » (14,24).
Egli, dunque, è libero e sovrano nel suo donarsi a nostro favore, non solo attraverso una morte violenta, che manifesta tutto il livore dei suoi avversari, bensì anche con l’atto di imbandire una mensa con il pane-corpo e il vino-sangue, a sostegno della nostra cronica debolezza.
È il banchetto eucaristico, il quale, mentre ci fa ricordare la tragica morte del Giusto per eccel-lenza, ci restituisce la gioia di “proclamare” la sua risurrezione, per cui egli è presente e vi-vo in mezzo a noi, sostenendo con fedeltà, il peso dell’alleanza.
Meditazione Sullo sfondo dell’ultima cena di Gesù si stende idealmente la grande scena dell’alleanza al Sinai.
Nella cornice aspra e solitaria di quel monte del dialogo tra Dio e Israele si compie un rito, solennemente descritto dal capitolo 24 dell’Esodo.
Il sangue è il simbolo della vita, l’altare è il segno della presenza di Dio, il popolo è tutto attorno all’altare come un’unica comunità spirituale.
Il sangue sacrificale è versato da Mosè sull’altare e sul popolo, quindi su Dio e sull’uomo.
Un patto di sangue lega ormai il Signore e Israele in una relazione di intimità e di amore.
È proprio a quelle parole che Gesù rimanda nell’ultima sera della sua vita terrena, quando nella «grande sala con i tappeti» del Cenacolo celebra la cena pasqua-le coi suoi discepoli.
Il rito pasquale giudaico entrava nel vivo con la benedizione del pane nuovo azzimo, cioè senza lievito (Esodo 12-13).
«Sii lodato tu, Signore, Dio nostro, re del mondo, che hai fatto nascere pane dalla terra»; così si esprimeva l’antica benedizione del pane.
A quel punto il capofamiglia spezzava la focaccia azzima e la offriva ai commensali in segno di comunione e di benedizione.
Gesù, pur seguendo il rituale, ne offre all’improvviso un si-gnificato sorprendente e inedito.
Decisive, infatti, sono le parole della sua “benedizione del pane”: «Prendete, questo è il mio corpo», che nel linguaggio semitico significano sempli-cemente e paradossalmente: «Questo sono io stesso».
Spezzando quel pane e offrendolo ai commensali Cristo stabiliva con loro un legame di comunione profonda, facendo sì che es-si entrassero nella sua stessa vita, nella sua morte e nella sua gloria.
Nel rito giudaico, alla consumazione del pane azzimo e dell’agnello pasquale seguiva la benedizione solenne del calice, che spesso veniva anche inghirlandato.
Anche a questo punto Gesù imprime al rituale una svolta con le parole del suo “ringraziamento” (in greco il termine è “eucaristia”): «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per mol-ti».
È qui che riecheggiano le parole di Mosè al Sinai: il vino della Pasqua è ora il sangue di Cristo e il sangue di Cristo crea l’alleanza piena e perfetta tra Dio e l’uomo.
È un «sangue versato per molti», espressione orientale per indicare che è il sangue di una persona sacri-ficata per salvare tutti gli uomini.
Gesù indirizza infine ai suoi discepoli un ultimo messaggio che si affaccia sul suo futuro: egli annunzia che, dopo la cena eucaristica e la pausa buia della morte, berrà il calice del vino nuovo nel regno di Dio.
È il banchetto della perfezione celeste cantato da Isaia, du-rante il quale si «eliminerà la morte per sempre e il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto» (25,8; vedi Apocalisse 21,4).
La cena eucaristica che noi oggi celebriamo nella so-lennità del Corpo e del Sangue del Signore è, quindi, una pregustazione di un’intimità senza incrinature e senza frontiere con Dio.
È per questo che l’eucaristia domenicale è ce-lebrata sempre «nell’attesa della venuta» gloriosa del Cristo.
L’eucaristia è espressione del-la presente vicinanza di Dio al suo popolo, che pellegrina in mezzo alle oscurità della sto-ria, ma è anche squarcio di luce verso la speranza che il dolore e la morte saranno espulsi dalla storia.
Quando celebriamo l’eucaristia dovremmo scoprire un bagliore del senso ul-timo della vita nostra e dell’umanità, anche se attorno – come in quella sera – calano le te-nebre della morte, si consuma il tradimento.

Domenica della SS. Trinità anno B

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Deuteronomio 4,32-34.39-40 Mosè parlò al popolo dicendo: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi? Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro.
Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».
La pericope conclude il primo dei tre grandi discorsi di Mosè che costituiscono il libro del Deuteronomio, la «seconda Legge».
Siamo nella pianura di Moab, alle porte della Terra promessa, e Mosè ricapitola per il popolo sempre riottoso la storia meravigliosa della liberazione dall’Egitto, con l’esortazione ripetuta a osservare la Legge, non per paura dei castighi o per sottomissione a un Dio tiranno, ma per risposta d’amore a un’elezione d’amore.
In questi versetti, si ribadisce l’unicità di Dio e del popolo che Egli si è scelto, non per merito degli Israeliti ma per amore gratuito.
Il motivo classico dell’elezione di Israele e della sua particolarità (vv.
32-38) è parallelo a quello dell’unicità del Dio di Israele (v.
39).
vv.
32-34 – Una serie di domande retoriche, che si ricollegano a quelle con cui il discorso di Mosè si era aperto (4, 7-8), riassume le grandi opere di Dio, dalla creazione (v.
32) alla teofania di Sinai (v.
33) fino ai prodigi e ai miracoli dell’Esodo (v.
34).
Nel confronto con gli altri popoli, che seguono altri dèi, è affermata la grandezza del Dio d’Israele; e insieme la familiarità di Dio con il suo popolo, che può ascoltarne la voce e restare in vita (cf.
Es 24,11).
L’espressione «con mano potente e braccio teso» (v.
34), che rappresenta Dio alla guida del popolo nell’attraversamento del mare e del deserto, riprende la tipologia regale egiziana; ve ne è traccia anche nelle lettere di El-Amarna.
vv.
39-40 – Sono espressioni caratteristiche del Deuteronomio.
La proclamazione del monoteismo (v.
39) corrisponde allo Shemà Israel (Deut 6,4: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno»); l’incentivo materiale per incoraggiare l’osservanza della Legge (v.
40 «perché sii felice…») riecheggia i motivi della letteratura sapienziale.
Seconda lettura: Romani 8,14-17 Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio.
E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio.
E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Il brano prosegue nella spiegazione dei frutti dello Spirito, iniziata con Rm 8,1-11: lo Spirito non solo da la vita nuova, ma rende figli adottivi e eredi di Dio.
Appare qui per la prima volta nella lettera il tema dell’adozione.
«Spirito che rende figli adottivi» (pneuma yiothesì as) è un termine sconosciuto alla traduzione dei LXX, e non proviene quindi a Paolo dall’Antico Testamento, ma piuttosto dal linguaggio giuridico del mondo greco-romano.
In Israele infatti l’istituto dell’adozione non era pratica abituale tranne rari casi riguardanti schiavi o mèmbri della famiglia.
Il concetto di figliolanza divina è tuttavia uno sviluppo dell’idea veterotestamentaria dell’elezione di Israele (cf.
Deut 4,34), che viene chiamato più volte «il mio primogenito» (cf.
Es 4,22; Is 1,2; Ger 3.19-22; 31,9; Os 11,1) anche se sempre come entità collettiva di popolo e non come singolo individuo credente.
Per Paolo, il dono dello Spirito inserisce nella famiglia di Dio, è quindi alla base dell’adozione, costituisce propriamente la figliolanza.
v.
14 – «guidati dallo Spirito di Dio»: si tratta di ciò che i teologi chiameranno la «grazia preveniente», l’influenza attiva dello Spirito nella vita cristiana.
vv.
15-16- Introdotti da gar (infatti), questi due versetti spiegano il v 14.
I cristiani non hanno ricevuto uno spirito da schiavi, ma da figli: Paolo gioca sul senso della parola pneuma, che indica sia lo Spirito di Dio sia il nostro spirito.
L’affermazione fondamentale di questo passo è siamo figli di Dio.
Anche l’espressione aramaica Abbà, come modo di rivolgersi a Dio, è assente dall’Antico Testamento, dove la relazione filiale (cf.
Deut 14 1) è sempre corporativa e non individuale, se si eccettua l’invocazione di Sl 89,27 (Sap 2,16 è in un contesto descrittivo).
Qui viene subito tradotta (Abbà ho patèr), in quanto Paolo si rivolge a una comunità di cristiani provenienti dai Gentili.
v.
17 – Vengono ora le conseguenze escatologiche di questa condizione, ovvero l’eredità che assimila al Cristo, partecipi della sua passione e della sua gloria.
Ritornano qui i verbi caratteristici in Paolo composti con la particella syn (con).
Vangelo: Matteo 28,16-20 In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono.
Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra.
Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato.
Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Esegesi I versetti conclusivi del Vangelo di Matteo rivolgono lo sguardo alla continuazione dell’opera nella comunità cristiana, rendendo esplicito il mandato missionario all’esterno di Israele, altrove solo accennato.
v.
16 – L’apertura alle genti era già indicata nel v.
7: «vi precede in Galilea».
Il ritorno dei discepoli in Gallica, determinato forse anche dalla necessità di allontanarsi da Gerusalemme per non essere arrestati subito dopo la Crocifissione, assume un significato teologico visto come obbedienza all’invito di Gesù, e un valore simbolico in rapporto alla missione.
La Galilea infatti, abitata in prevalenza da pagani, rappresenta «i popoli» del v.
19.
Già vi si era ritirato Gesù dopo l’arresto di Giovanni, e da lì aveva cominciato la sua predicazione (Mt 4, 12-17; cf.
anche Is 8, 23: «la Galilea delle Nazioni», Gelil haggoîm).
Gli Undici si recano dunque all’appuntamento, su un monte che è difficile identificare: il monte delle Beatitudini? il Tabor? Anche qui prevale il valore simbolico del «monte», collegato spesso nell’Antico come nel Nuovo Testamento a teofanie o rivelazioni.
v.
17 – La prostrazione (prosekynesan, latino adoraverunt) manifesta il riconoscimento della divinità di Gesù, una fede post-pasquale matura, che presuppone una comunità già consapevole e strutturata, e probabilmente un’epoca posteriore.
L’affermazione infatti è subito mitigata dalla seguente: «alcuni però dubitavano», che ci riporta all’esperienza immediata delle apparizioni del Risorto: cfr.
Mc 16, 8.11.13; Lc 24,37; Giov 21,12).
vv.
18-19 – Gesù si identifica con il «Figlio dell’Uomo» del libro di Daniele (Dan 7, 13-14), cui viene attribuito un potere eterno e universale: «tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano».
Da questo potere universale discende la missione universale degli Apostoli: limitata a Israele nei giorni del suo ministero terreno (cf.
15, 24), ora la predicazione della parola di Gesù è estesa a tutti i popoli.
Segue il comando specifico di «battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», presente solo qui in forma così definita e completa.
Il battesimo indica l’atto di iniziazione nella comunità cristiana, e presuppone significati presenti anche altrove nel Nuovo Testamento: la purificazione con l’acqua e il pentimento (cf.
il battesimo di Giovanni Battista), ma anche il perdono e la professione di fede in Gesù come Messia e Signore.
Più che una formula liturgica (che si precisa più tardi) si tratta qui di una descrizione di ciò che il battesimo opera nel neofita: l’espressione «nel nome…» descrive l’entrata in comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito.
Il concetto di Dio Trinità è antico quanto la comunità cristiana, quale la conosciamo dagli scritti del Nuovo Testamento: cf.
1Cor 12, 4-6; 2Cor 13,13; 1Pt 1,2; 1Giov 3,23-24.
Questo naturalmente lascia impregiudicata la delicata questione di quanto si possa retroproiettare alla comunità immediatamente post-pasquale una consapevolezza trinitaria formulata secondo la mentalità post-nicena.
v.
20 – Il comando dato già ai discepoli di proclamare l’avvento del Regno (10,7) e guarire gli infermi (10,1.8) è completato, ora che Gesù non svolge più il suo ministero in mezzo a noi, da quello di «insegnare».
Il passo appartiene agli stadi più recenti della tradizione, quando il ritardo della parusia richiedeva anche un’assicurazione e un conforto per i discepoli rimasti in attesa: «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (cf.
18,20).
La fine tante volte annunciata (cf.
13,39.49; 24,3) non è evidentemente più sentita così vicina.
Meditazione La Bibbia, pur affermando che Dio è sempre Altro e Oltre il nostro pensiero, si presenta come “rivelazione”, cioè come uno squarcio nel velo di silenzio che nasconde il mistero divino.
La rivelazione cristiana apre ulteriori orizzonti in questa luce invalicabile, che «l’uomo non può vedere continuando a restare in vita», come si ripete spesso nell’Antico Testamento.
Appare, così accanto al Padre, il Figlio inviato nel mondo e lo Spirito vivificatore, e nel nome della Trinità noi apriamo questa e ogni altra liturgia, concludiamo ogni preghiera ed è benedetta ogni persona e cosa.
Due sono i testi dell’odierna liturgia che esaltano questa rivelazione nuova del mistero divino.
Il primo è tratto dal capitolo ottavo della lettera ai Romani, il vertice del pensiero paolino ove con un suggestivo contrappunto l’apostolo presenta due “spiriti”.
C’è innanzitutto lo spirito dell’uomo, cioè il principio del suo esistere, del suo operare, del suo amare e del suo peccare, della sua libertà e della sua schiavitù.
Ma c’è anche uno Spirito di Dio, principio del suo amore e della sua comunicazione all’uomo.
Ebbene, questo Spirito divino penetra nello spirito dell’uomo, lo invade come un vento che tutto avvolge e permea.
La creatura che accoglie e si lascia conquistare da questo Spirito viene trasformata da figlio dell’uomo in figlio di Dio, diventa membro della sua famiglia, è ufficialmente dichiarato coerede del primogenito di Dio, il Cristo.
Paolo, quindi, proclama una vera e propria ammissione dell’uomo all’interno della vita divina.
Questo ingresso avviene attraverso il battesimo, visto come radice dell’intera vicenda cristiana, e attraverso l’ascolto obbediente della Parola.
È ciò che è lapidariamente formulato nella scena finale del Vangelo di Matteo che oggi domina la nostra liturgia.
In Gallica non si danno solo appuntamento il Cristo risorto e gli Undici, ma il mistero di Dio e quello della Chiesa.
Da un lato, infatti, il Cristo glorioso appare nello splendore più puro della sua divinità; egli è per eccellenza “superiore” e trascendente rispetto a tutta la realtà creata: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra».
Davanti a lui l’uomo si prostra in adorazione.
La sua presenza non è come quella di una persona terrena.
È una presenza che dev’essere scoperta attraverso la via della fede, ed è per questo che conosce anche l’esitazione, l’oscurità, il dubbio.
D’altra parte, però, Cristo è vicino, è «con noi tutti i giorni» e in tutte le epoche storiche.
Soprattutto è operante all’interno della Chiesa a cui comunica la sua Parola e la sua grazia salvifica.
Infatti alla Chiesa egli affida il compito di annunziare all’umanità «tutto ciò che egli ha comandato», coinvolgendo ogni uomo nella salvezza: l’«ammaestrate» della versione del Vangelo, che oggi leggiamo, nell’originale suona meglio come un «fare discepoli» i popoli.
Per la Bibbia, quindi, il mistero infinito di Dio non respinge ma accoglie in sé i nostri piccoli misteri, immergendoli nella sua luce infinita.
Non dobbiamo, perciò, considerare Dio solo come oggetto di discussione filosofica e teologica, non dobbiamo solo parlare in modo distaccato e freddo di Dio e della Trinità.
Dobbiamo anche parlare a Dio in un dialogo di intimità e di vita che lui stesso ha inaugurato.

Domenica di Pantecoste anno B

La Pentecoste La struttura dell’icona ricorda l’Ultima Cena: allora gli apostoli si stringevano intorno a Gesù per accogliere il suo testamento, ora si raccolgono intorno a Maria per perseverare nella preghiera, in attesa dello Spirito Paraclito.
La scena si svolge nella stessa stanza che vide Cristo istituire l’Eucaristia, la «camera alta» di Sion.
La comunione di quanti credono in Cristo è custodita dalla sollecita premura di Maria, beata perché per prima ha creduto all’adempimento della parola del Signore (cf Lc 1, 45).
La Madre di Dio e degli uomini, che ha conosciuto la potenza dello Spirito nell’Annunciazione, rassicura gli apostoli turbati per il forte vento che si abbatte gagliardo e che riempie tutta la casa dove si trovano.
Le lingue di fuoco che appaiono, che si dividono e che si posano su ciascuno di loro non provocano nessun incendio, ma illuminano le loro menti e accendono nei loro cuori il fuoco dell’Amore.
In questa Chiesa nascente, lo Spirito Santo riveste di forza gli apostoli, ricorda loro tutte le parole di Cristo e li rende testimoni del Vangelo sino agli estremi confini della terra.
Maria, nuovamente visitata dalla fecondità dello Spirito Santo, diviene Madre della Chiesa, rifugio mirabile dei discepoli che invocano la sua materna protezione.
Vieni Spirito Santo.
Vento impetuoso, fuoco che divora, ma anche brezza leggera, scintilla di luce.
Vieni in me.
Parola potente, ma anche lieve sussurro.
Vieni in me.
Fresca cascata, ma anche rivolo d’acqua che estingue l’arsura…
Dammi occhi nuovi, dammi ali di libertà, dammi trasparenza di vita, dammi tenerezza e audacia e attenderò con te, nella speranza, il nuovo Giorno.
(Domenica GHIDOTTI, Icone per pregare.
40 immagini di un’iconografa, Milano, Ancora, 2003, 54-55).
Aprirci al “di più” Il dono che il Signore vuol farci e che da sempre ci ha fatto con il suo Spirito è di capire che l’uomo si realizza andando oltre se stesso, che si realizza donandosi.
Dio non esiste se non nella relazione di donazione del Padre al Figlio, e non è pensabile al di fuori dello Spirito che è effervescenza continua di amore.
Egli è fuoco che brucia sen-za consumare, è al di là del mistero stesso del fuoco, pur essendo fuoco.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 54).
Sii un vero amico Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno.
L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale.
Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio.
L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte.
In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte.
Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami.
È questo il centro del messaggio di Gesù.
Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata.
Al contrario, è cresciuta.
È questo il significato dell’invio dello Spirito.
Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’ami-cizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte.
È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro.
Sai dall’esperienza quanto questo sia reale.
Coloro che hai amato profondamen-te e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze re-ali.
Osa amare ed essere un vero amico.
L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condur-rà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.
(H.J.M.
NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).
“Noi abbiamo suonato il flauto e voi non avete danzato” E’ il 14 luglio.
Tutti si apprestano a danzare.
Dappertutto il mondo, dopo anni dopo mesi, danza.
Ondate di guerra, ondate di ballo.
C’è proprio molto rumore.
La gente seria è a letto.
I religiosi dicono il mattutino di sant’Enrico, re.
Ed io, penso all’altro re.
Al re David che danzava davanti all’Arca.
Perché se ci sono molti santi che non amano danzare, ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare, tanto erano felici di vivere: Santa Teresa con le sue nacchere, San Giovanni della Croce con un Bambino Gesù tra le braccia, e san Francesco, davanti al papa.
Se noi fossimo contenti di te, Signore, non potremmo resistere a questo bisogno di danzare che irrompe nel mondo, e indovineremmo facilmente quale danza ti piace farci danzare facendo i passi che la tua Provvidenza ha segnato.
Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da condottiero, di conoscerti con aria da professore, di raggiungerti con regole sportive, di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato.
Un giorno in cui avevi un po’ voglia d’altro hai inventato san Francesco, e ne hai fatto il tuo giullare.
Lascia che noi inventiamo qualcosa per essere gente allegra che danza la propria vita con te.
(…) Per essere un buon danzatore, con Te come con tutti, non occorre sapere dove la danza conduce.
Basta seguire, essere gioioso, essere leggero, e soprattutto non essere rigido.
Non occorre chiederti spiegazioni sui passi che ti piace fare.
Bisogna essere come un prolungamento, vivo ed agile, di te.
E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l’orchestra scandisce.
(…) Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito, e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica; dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza, che la tua Santa Volontà è di una inconcepibile fantasia, e che non c’è monotonia e noia se non per le anime vecchie, che fanno tappezzeria nel ballo gioioso del tuo amore.
Signore, vieni a invitarci.
(…) Se certe arie sono spesso in minore, non ti diremo che sono tristi; se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo che sono logoranti.
E se qualcuno ci urta, la prenderemo in ridere; sapendo bene che questo capita sempre quando si danza.
Signore, insegnaci il posto che tiene, nel romanzo eterno avviato fra te e noi, il ballo singolare della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni; in essa quel che tu permetti da suoni strani nella serenità di quel che tu vuoi.
Insegnaci a indossare ogni giorno la nostra condizione umana come un vestito da ballo che ci farà amare da te, tutti i suoi dettagli come indispensabili gioielli.
Facci vivere la nostra vita, non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato, non come un match dove tutto è difficile, non come un teorema rompicapo, ma come una festa senza fine in cui l’incontro con te si rinnova, come un ballo, come una danza, fra le braccia della tua grazia, nella musica universale dell’amore.
Signore, vieni a invitarci.
(MADELEINE DELBRÉL, La danza dell’obbedienza, in Noi delle strade, Torino, Gribaudi, 1988, 86-89.
Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo La solennità di questo giorno ci riempie di gioia non soltanto perché riconosciamo la sua importanza, ma anche perché assaporiamo la sua dolcezza.
Ciò che essa fa risaltare è l’amore.
Ora, non vi è nel linguaggio umano una parola più dolce a udirsi, un sentimento più delizioso da coltivare.
Quest’amore non è altro che la bontà di Dio, la sua benevolenza, il suo amore.
O piuttosto, Dio in persona è la bontà, la benevolenza, l’amore.
E questa bon-tà si identifica al suo Spirito, che è esso stesso Dio.
[…] E secondo il disegno di Dio, in prin-cipio, lo Spirito di Dio ha riempito l’universo, «dispiegando la sua forza da un confine al-l’altro del mondo e governando ogni cosa con dolcezza» (Sap 8,1).
Ma per quanto riguarda la sua opera di santificazione, è a partire da questo giorno di Pentecoste che lo Spirito del Signore ha riempito l’universo.
Poiché è oggi che questo dolce Spirito è stato inviato dal Padre e dal Figlio per santificare ogni creatura secondo un nuovo disegno, un modo nuo-vo, una manifestazione nuova della sua potenza e della sua forza.
Certo, in precedenza «lo Spirito non era stato ancora dato, perché Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7,39).
[…] Ma oggi, discendendo dalla dimora celeste, lo Spirito si è dato ai mortali con tutta la sua ricchezza, la sua fecondità.
Così questa rugiada divina si stende su tutta la terra, nella diversità dei suoi doni spirituali.
Ed è giusto che la pienezza delle sue ricchezze sia discesa dall’alto dei cieli per noi, perché pochi giorni prima, grazie alla generosità della nostra ter-ra, il cielo aveva ricevuto il Signore.
La nostra terra non ha mai prodotto nulla di più dolce, di più piacevole, di più delizioso, di più santo.
[…] «Lo Spirito di Cristo riempie l’universo, lui che tiene insieme tutti gli esseri, sente tutte le voci» (Sap 1,7).
Ovunque lo Spirito agi-sce, ovunque lo Spirito prende la parola.
Certamente prima dell’Ascensione lo Spirito fu dato ai discepoli, quando il Signore disse loro: «Ricevete lo Spirito santo» ( Gv 20,23).
Ma in nessun modo, prima di Pentecoste, non si udì la voce dello Spirito santo, non si vide ri-splendere la sua potenza.
E i discepoli di Cristo non giunsero a conoscerlo; non erano stati ancora riconfermati, la paura li obbligava ancora a nascondersi in una stanza a porte chiu-se.
Ma a partire da quel giorno, «la voce del Signore domina le acque, il Dio della gloria scatena il tuono, la voce del Signore spezza i cedri e tutti gridano: Gloria!» (cfr.
Sal 28 [29] , 3.5.9).
(AELREDO DI RIEVAULX, Omelia sulla settuplice voce dello Spirito 1, in Sermones inediti, a cura di di C.H.
Talbot, Roma 1952 pp.
112-114).
Preghiera allo Spirito Santo Spirito Santo, eterno Amore, che sei dolce Luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore; Tu ci guidi qual mano di una mamma; ma se Tu ci lasci non più d’un passo solo avanzeremo! Tu sei lo spazio che l’essere mio circonda e in cui si cela.
Se m’abbandoni cado nell’abisso del nulla, da dove all’esser mi chiamasti.
Tu a me vicino più di me stessa, più intimo dell’intimo mio.
Eppur nessun Ti tocca o Ti comprende e d’ogni nome infrangi le catene.
Spirito Santo, eterno Amore.
(Edit Stein [S.
Teresa Benedetta della Croce]).
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 2,1-11 Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nel-lo stesso luogo.
Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbat-te impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano.
Apparvero loro lingue come di fuo-co, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spiri-to Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo.
A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua.
Erano stupiti e, fuori di sé per la meravi-glia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai cia-scuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abi-tanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Ro-mani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
In questo brano degli Atti degli Apostoli sono presentati i due propulsori dello svilup-po della chiesa: lo Spirito e la Parola.
La parola dell’apostolo arriva, provoca la fede e con-verte, perché è stata preceduta dallo Spirito, che solo apre l’orecchio all’ascolto.
Al tempo di Gesù la Pentecoste, o festa delle settimane — antica festa agricola (offerta del-le messi), celebrata sette settimane dopo la pasqua (cf.
Lv 23,15-21) — aveva assunto anche il senso di commemorazione dell’alleanza del Signore e di celebrazione della legge mosai-ca.
Poiché il giorno inizia la sera del giorno prima, l’espressione «stava compiendosi il giorno di Pentecoste» indica la mattinata inoltrata che conclude il periodo della festività.
Ma essa indica anche una realtà più profonda: il «giorno» atteso dai profeti sta per finire; la storia è al suo giro di boa, perché il vero Israele incomincia a separarsi dal giudaismo incredulo.
La scena descritta nel testo ricalca la teofania del Sinai (Es 19,16-22): l’antica alleanza è sostituita dalla nuova alleanza.
Tuoni, lampi, rumore di tromba, fumo indicano la presen-za del Signore nel Sinai e la «discesa» dello Spirito sugli apostoli.
L’antica legge diventa «nuova» per la presenza dello Spirito, che non solo istruisce ma anche dà la forza di compiere quello che la legge richiede.
Il «fuoco» che purifica e illumina (cf.
Is 6,6), indica una trasformazione interiore nei di-scepoli di Gesù, i quali, da poveri e incolti pescatori, diventano annunciatori del vangelo: il messaggio più sconvolgente che gli uomini possano sentire (At 1,8).
La presenza di tutte le nazioni a Gerusalemme ha un significato più profetico che stori-co: la Chiesa oltrepassa i confini del giudaismo; ad essa tutti possono accedere per speri-mentare i frutti della Nuova Alleanza promessa non solo per Israele, ma per tutti.
Il miracolo delle lingue può essere una semplice glossolalia (gesti simbolici tradotti da un interprete in un linguaggio comprensibile) o un apprendimento (o una traduzione si-multanea) di nuove lingue (così si potrebbe comprendere come i presenti sentano parlare le loro lingue).
Ma Luca potrebbe essere stato influenzato dalla tradizione giudaica secon-do la quale nel Sinai la voce di Dio si era divisa in 70 lingue, perché la capissero tutte le 70 nazioni della terra: con il dono dello Spirito la Chiesa si apre all’evangelizzazione di tutte le nazioni del mondo.
Seconda lettura: Galati 5,16-25 Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il deside-rio della carne.
La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desi-deri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quel-lo che vorreste.
Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.
Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idola-tria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubria-chezze, orge e cose del genere.
Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho det-to: chi le compie non erediterà il regno di Dio.
Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge.
Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la car-ne con le sue passioni e i suoi desideri.
Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.
La figliolanza abramitica, o divina, non è possibile senza lo Spirito.
È solo lo Spirito che fa di un uomo della carne, un uomo dello Spirito.
L’uomo della carne è l’uomo schiavo dei propri vizi: fornicazione, impurità, libertinaggio (disordini sessuali), idolatria, stregoneria (corruzione del culto), inimicizia, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidia (peccati contro la comunità), ubriachezza, orge (disordini dei sensi), e cose del genere (l’e-lenco è solo indicativo).
L’uomo vorrebbe compiere la legge, che porta alla vita, ma non ha in se stesso la forza di compierla, e si trova a fare quello che non vuole (v.
17): gli è impedi-to l’esercizio della vera libertà, quella di amare rinnegando se stesso per perdersi nell’altro.
In questa battaglia contro l’uomo della carne che vorrebbe tornare a prevalere nella vita del cristiano, s’inserisce lo Spirito Santo.
La sua presenza è indicata dai frutti: il punto d’ar-rivo dell’attività vivente dello Spirito, che sollecita la nostra libera cooperazione.
Essi sono: amore, gioia, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (V.
22).
Sono gli atteggiamenti dell’uomo nuovo, liberato dalle sue paure e dal suo egoismo, in grado di amare gratuitamente.
La comunità, in questa battaglia, può anche dire di no alla forza liberante dello Spirito, e ricadere nelle antiche opere della carne.
Vangelo: Giovanni 15,26-27; 16,12-15 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimo-nianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parle-rà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.
Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo an-nuncerà».
Esegesi I due brani del vangelo sono tratti dal secondo discorso d’addio di Gesù durante la cena pasquale.
Gesù parla della testimonianza che i suoi discepoli daranno nel contesto della persecuzione.
Essi non saranno mai soli, perché egli manderà il Consolatore, o meglio il Difensore, che procede dal Padre.
La forza necessaria, infatti, per testimoniare la verità su Cristo durante il giudizio verrà dallo Spirito di verità, che in modo silenzioso continua l’o-pera di Gesù che è la Verità.
Lo Spirito ricorderà loro quel che hanno visto e udito fin da principio.
La testimonianza oculare non basta per comprendere Gesù.
È solo lo Spirito che dona gli occhi della fede per capire chi veramente egli sia: «per il momento non siete capaci di portarne il peso» (16,12).
Lo Spirito è una guida «a tutta la verità» (16.13): Gesù è la verità, ma è anche la «via», che conduce alla verità.
Lo Spirito dopo la risurrezione sarà il maestro interiore che li accom-pagnerà alla comprensione sempre più profonda di Gesù.
Anche i vangeli sono stati scritti sotto la guida di questo Spirito, e così pure la comprensione del loro significato nelle co-munità del futuro avverrà sotto l’azione dello Spirito.
Come Gesù ci ha detto tutto quello che ha udito dal Padre, così anche lo Spirito non dà del suo, ma di quello che riceve da Gesù (v.
13b).
Egli rivela e glorifica Gesù, mettendo in evidenza la sua natura trascendente (v.
14): questa è anche l’opera d’ogni discepolo dopo la Pasqua.
Meditazione Attraverso una lunga e simbolica attesa di cinquanta giorni, la liturgia prepara i creden-ti a vivere quel giorno di dono e di pienezza che è la Pentecoste, il giorno in cui il Signore Gesù porta a compimento la missione che il Padre gli ha affidato, facendo dono all’umani-tà del suo Spirito affinché tutto il mondo possa entrare nella novità della vita divina (cfr.
il racconto di At 2,1-11).
Gesù stesso, con la sua parola, prepara il discepolo in questo tempo di attesa: gli fa comprendere che, nella vita di chi si pone alla sequela di Cristo, ciò che da forza, freschezza, passione, vivacità a ogni parola, a ogni gesto, è proprio quello Spirito che abita in lui, quello Spirito che è stato il segreto stesso della vita di Gesù (cfr.
Gal 5,16-25 e Gv 15,26-27).
E la dimensione del dono emerge con forza nelle letture che la liturgia di questo giorno ci propone.
Nel racconto redatto da Luca e riportato in At 2,1-11, l’esperienza della Pentecoste viene descritta attraverso allusioni bibliche che richiamano l’evento del Sinai (cfr.
in particolare gli elementi descrittivi che caratterizzano la teofania del Sinai, come il fragore che viene dal cielo, il vento che si abbatte impetuoso, il fuoco) e la stessa comunità dei discepoli radunata «tutta insieme nello stesso luogo» (2,1) ricorda il popolo di Israele accampato davanti al monte (cfr.
Es 19,2, una delle letture proposte per la messa vigilare).
Di qui deriva un pri-mo aspetto del dono che la comunità dei credenti riceve a Pentecoste: «l’invio dello Spirito – annota J.
Dupont – si sostituisce alla promulgazione della Legge; l’alleanza che era fon-data sulla legge mosaica viene rimpiazzata da una nuova alleanza, basata sulla presenza e sull’azione dello Spirito nei cuori.
Tale alleanza non è più legata all’obbedienza a coman-damenti imposti dal di fuori, ma ad una trasformazione intima operata dallo Spirito che ispira, a coloro che l’hanno ricevuto, un atteggiamento filiale nei riguardi di Dio».
Ma questa intima comunione tra Dio e l’uomo che si realizza mediante lo Spirito del Ri-sorto investe anche le relazioni: crea una comunità che è la Chiesa.
Il dono dello Spirito è un dono che suscita unità e comunione tra gli uomini.
E Luca sottolinea il carattere univer-sale della koinonia inaugurata dallo Spirito.
Viene capovolta la pretesa di Babele (Gen 11,1-9, prima lettura della messa vespertina della vigilia): ciò che l’uomo non può realizzare nella logica di una conquista autonoma, cioè l’unità delle lingue, viene compiuta come do-no da Dio, mediante lo Spirito che apre alla comprensione dell’altro nella diversità dei lin-guaggi.
Nella Pentecoste, dunque, ci viene rivelato ciò che unisce gli uomini: non è il ‘no-me’ che essi si danno annullando ogni alterità nella pretesa di una unità puramente uma-na, ma lo Spirito (il volto della relazione intradivina) che viene donato.
L’unità che scaturi-sce da questo dono, allora, non è nella riduzione a una sola lingua, ma nella comprensione della parola dello Spirito nella diversità e nella unicità di ciascuna lingua.
E inoltre, a Pentecoste, sotto il simbolo del vento gagliardo che all’improvviso investe il luogo ove erano riuniti i discepoli di Gesù e si trasforma in fuoco che si posa su ciascuno di loro, la comunità dei credenti riceve in dono quella forza che gli permetterà, lungo la storia e in ogni luogo, di essere testimone dell’evangelo e portatrice della Pasqua di Cristo.
È come se in quel giorno a quel primo seme di Chiesa, attraverso lo Spirito, venisse donato un vento e un fuoco inestinguibili, tali da percorrere senza sosta ogni epoca e ogni luogo e tali da rendere possibile annunciare, comprendere e vivere l’evangelo.
Si può capire allora, proprio attraverso questa immagine, ciò che lo Spirito Santo compie nella Chiesa e in noi credenti: ci abilita ad essere testimoni dell’evangelo, ci dà la forza di annunciare la parola di Gesù, ci rende capaci di comunione e di unità.
Ed è l’aspetto che emerge nella pericope del vangelo di Giovanni.
In un contesto di per-secuzione, il discepolo fa esperienza certamente di una conformazione al destino del suo Signore: «se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20).
Tuttavia sente il peso di portare una testimonianza che a volte sembra al di là delle sue forze.
Gesù allora promette la presenza dello Spirito il quale si rivela come «il Paraclito […] lo Spirito di verità che procede dal Padre» (15,26).
Egli diventa il testimone interiore del discepolo, colui che ha la forza di convincere il cuore del discepolo della verità della parola di Gesù, quasi ‘di-fendere’ Gesù nel cuore del discepolo e di rendere trasparente la testimonianza del disce-polo di fronte al mondo, facendo comprendere la bellezza della testimonianza data al no-me di Gesù.
Solo lo Spirito può fare del discepolo un testimone.
Ma in Gv 16,12-13 ci viene anche ricordato che solo lo Spirito può fare da ‘esegeta’ della parola di Gesù, da guida nel cammino di comprensione di questa parola a volte così diffi-cile da ‘portare’.
È lo Spirito di verità, poiché «non parla da se stesso, ma dice tutto ciò che ha udito e annuncia le cose future» (cfr.
16,13).
Mediante lo Spirito, la comunità dei disce-poli viene condotta nel cuore stesso del mistero di Gesù; lo Spirito guida «verso e dentro la pienezza della verità» (tale è il senso della espressione odegesei eis del v.l3).
E questo cam-mino guidato dallo Spirito è, nello stesso tempo, un cammino di fedeltà e di novità, di memoria e di rinnovamento.
Senza lo Spirito, la parola stessa di Gesù resta estranea al nostro cuore, come qualcosa di duro, di impossibile da capire e da accogliere nella propria vita.
Solo lo Spirito ha la for-za di inciderla nel nostro cuore e di nasconderla come seme che feconda la nostra esisten-za, ricreandola, aprendo vie nuove, rendendoci veramente liberi.
Solo lo Spirito, ci ricorda Gesù, può introdurci alla verità tutta intera: alla verità della parola di Dio, ma anche alla verità della nostra vita, del nostro cuore, alla verità dell’altro.
E infine, mediante lo Spirito, questa parola di verità si trasforma in vita.
E come ci ri-corda l’apostolo Paolo, il dono dello Spirito fa maturare nella nostra esistenza, nel nostro agire, il frutto dello Spirito (cfr.
Gal 5,22).
«Camminate secondo lo Spirito…
lasciatevi guida-re dallo Spirito» (Gal 5,16.18): questo è l’invito di Paolo.
Ed è un modo di vivere nella logi-ca del dono e della novità: significa affidare il nostro cuore con i suoi desideri alla guida dello Spirito, camminare con il ritmo che lui ci indica; significa vivere nell’ascolto dello Spirito, il quale, conoscendo le profondità del nostro cuore, sa trarre fuori da esso ogni de-siderio di bene e, irrobustendolo con la sua potenza, mettendolo in sintonia con il cuore stesso di Dio (con ciò che lui desidera per noi), lo fa diventare un frutto di vita.
Vivere se-condo lo Spirito, secondo i suoi desideri, è trasformare la propria vita in un terreno fecon-do in cui germogliano i semi che sono già nascosti nel nostro cuore (i nostri desideri) di-ventando frutto dello Spirito.
Paolo ci dice, tra l’altro, che c’è un solo frutto da portare e, in qualche modo, tutti i nostri desideri devono convogliare in quel frutto.
Questo frutto è l’amore, l’agape, il riflesso della carità di Dio in Gesù che si rivela nella nostra vita.
Il dono dello Spirito è la carità.
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.
RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II.
Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007 – Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54 – C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Ascensione del Signore Gesù Anno B

Il cielo Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in al-to”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezio-namento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il qua-le si muove la fede.
Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappre-senta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.
Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esi-stenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie.
Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico.
Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere del-l’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K.
Rahner, La risurrezione della carne, p.
459).
L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.
In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione.
(Joseph Ratzinger/BENEDETTO XVI, Imparare ad amare.
Il cammino di una famiglia cri-stiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).
L’ascensione di Gesù e la nostra ascensione Quando nel rito liturgico dell’eucaristia siamo invitati a «innalzare i nostri cuori», ri-spondiamo: «Sono rivolti al Signore», a quel Signore che è asceso in alto, a colui che non è più qui, ma che è risorto, è apparso agli apostoli ed è scomparso dalla vista.
Sempre, ma specialmente in questo giorno nel quale commemoriamo la sua risurrezione e la sua a-scensione, noi siamo spinti ad ascendere in spirito come il Salvatore, che ha vinto la morte e ha aperto il regno del cielo a tutti i credenti.
Molti uomini però non ascoltano il richiamo della liturgia; essi sono impediti, anzi pos-seduti, assorbiti dal mondo, e non possono elevarsi perché non hanno ali.
La preghiera e il digiuno sono stati definiti le ali dell’anima, e quelli che non pregano e non digiunano, non possono seguire il Cristo.
Non possono innalzare a lui i cuori.
Non hanno il tesoro in alto, ma il loro tesoro, il loro cuore e le loro facoltà sono sulla terra; la terra è la loro eredità e non il cielo.
[…] Al contrario le anime sante prendono una via diversa; esse sono risorte con Cristo e sono come persone salite su una montagna e ora si riposano sulla cima.
Tutto è rumore e frastuono, nebbia e tenebra ai suoi piedi; ma sulla vetta tutto è così calmo, cosi tranquillo e sereno, così puro e chiaro, così luminoso e celeste che per loro è come se il tu-multo della valle non risuonasse al di sotto, e le ombre e le tenebre non ci fossero.
(John Henry Newman).
«Rimanete saldi nella fede» Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!».
L’esortazione rac-chiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cri-sto, è rivolta a ciascuno di noi.
La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni.
Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo.
Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile.
Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza.
Un consenso a ta-le limitazione della ragione non si concede facilmente.
Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affi-darsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo.
È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.
Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8).
Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca.
Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammet-tono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante.
Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini.
È lui ad assegnarci una missione.
Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura…
Allora essi partirono e predicarono dapper-tutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).
[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricolle-gandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qual-siasi altra epoca avete bisogno di questa forza.
Dovete essere forti della forza della speran-za, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dove-te essere forti dell’amore, che è più forte della morte…
Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabili-re…
il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialo-go con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n.
4).
Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esi-stenza.
Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia.
Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di ve-rità e di pace.
Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, te-stimoniate che Dio è amore.
Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come suc-cessore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia.
E ricordatevi an-che di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande pre-decessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo.
Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen! (BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J.
RATZIN-GER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II.
Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).
Abbiamo creduto in lui e ne aspettiamo il ritorno Fratelli, noi crediamo in quel Gesù che non hanno creduto i nostri occhi.
A noi Gesù lo hanno annunciato coloro che lo hanno veduto, l’hanno stretto con le loro mani, hanno udito le parole uscite dalla sua bocca.
Essi, affinché tutti gli uomini accettassero le sue pa-role, furono inviati da lui; non osarono andare di loro iniziativa.
Dove furono mandati? L’avete sentito dalla lettura del Vangelo: «Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura che è sotto il cielo» (Mc 16,15).
I discepoli furono dunque inviati in ogni parte del mondo, con la testimonianza di prodigi e segni miracolosi perché gli uomini credessero che essi riferi-vano cose da loro stessi viste.
Noi abbiamo creduto in colui che non abbiamo visto con i nostri occhi e ne aspettiamo il ritorno.
Chiunque lo aspetta con fede, sarà ripieno di gioia, quando ritornerà.
[…] Restiamo dunque fedeli alla sua parola, perché non proviamo confu-sione quando ritornerà.
Egli infatti nel vangelo a quelli che avevano creduto in lui dice: «Se rimarrete nelle mie parole, sarete veramente miei discepoli» (Gv8,31).
E quasi gli chie-dessero: Con quale vantaggio? «Voi conoscete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).
Attualmente la nostra salvezza è oggetto di speranza, perché ancora non è stata realizzata; ancora non possediamo ciò che è stato promesso e tuttavia ne speriamo la futura realizza-zione.
Colui che ha fatto questa promessa è fedele; egli non ti inganna: tocca a te unica-mente non mancargli di fiducia, ma attendere la realizzazione delle sue promesse.
La veri-tà non conosce inganni.
Non voler esser tu il bugiardo, altra cosa professando e altra fa-cendo; conserva la fede e lui manterrà fede alla sua promessa.
Se non avrai conservato la fede, sarai stato tu a defraudarti, non certo chi ti ha fatto la promessa.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento all’epistola di san Giovanni 4,2, NBA XXIV, pp.
1708-1709).
Sii un vero amico Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno.
L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale.
Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio.
L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte.
In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte.
Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami.
È questo il centro del messaggio di Gesù.
Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata.
Al contrario, è cresciuta.
È questo il significato dell’invio dello Spirito.
Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’ami-cizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte.
È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro.
Sai dall’esperienza quanto questo sia reale.
Coloro che hai amato profondamen-te e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze re-ali.
Osa amare ed essere un vero amico.
L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condur-rà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.
(H.J.M.
NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).
«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo»(At 1,11).
[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.
La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste.
Prima la realtà ter-rena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione.
L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla.
E, do-po aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr.
Gn 1,26-27).
Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità.
Sappia-mo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannan-do in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferen-za e la morte.
Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del ge-nere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza.
“Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo.
Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambi-to di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura.
Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolez-za che prima o poi questo cammino giungerà al termine.
Ed è allora che nasce la riflessio-ne: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo? In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?».
Leggiamo che quando gli apo-stoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo».
Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10).
Sta-vano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, croci-fisso e risorto, che veniva sollevato in alto.
Non sappiamo se si resero conto in quel mo-mento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, in-finito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo.
Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo.
Per noi, tuttavia, quell’even-to di duemila anni fa è ben leggibile.
Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio.
Siamo chia-mati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione.
Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.
(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J.
RATZIN-GER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II.
Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).
Preghiera Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore.
Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…
Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre.
Allora potremo fin d’ora gustare la viva spe-ranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:   – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.
RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II.
Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007 – Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54 – C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 1,1-11 Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e inse-gnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio.
Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ri-costituirai il regno per Israele?».
Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardava-no, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi.
Essi stavano fissando il cie-lo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
Se il Vangelo di Marco è molto rapido ed essenziale nel parlarci dell’ascensione di Gesù al cielo, il libro degli Atti tenta di «descrivercela» quasi visivamente nella seconda parte del brano oggi propostoci (At 1,6-11).
Stando al racconto di Luca, sembra che si tratti dell’ultima «cristofania», concessa da Gesù agli Apostoli, i quali peraltro si dimostrano ancora impreparati alla comprensione del mistero di Cristo: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (v.
6).
Pur dopo la risurrezione, essi pensano terrenisticamente! Gesù supera la loro incom-prensione, rimandando alla discesa dello Spirito la piena illuminazione del suo mistero ed anche della loro missione in ordine a quel mistero: «Non spetta a voi conoscere tempi o mo-menti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (1,7-8).
Come si vede, anche qui siamo davanti ad un mandato «missionario»,di tipo universali-stico: si parte, com’era ovvio e doveroso, dalla patria stessa di Gesù, per arrivare «fino agli estremi confini della terra».
Il libro degli Atti, conforme a questo comando di Gesù ci illu-strerà successivamente le varie tappe di questa evangelizzazione, che Paolo porterà perfi-no a Roma, nel cuore cioè dell’immenso impero che dominava tutto il mondo allora cono-sciuto.
Anche qui la «forza» per adempiere questo compito immane non viene garantita dalle deboli ed impari risorse umane dei discepoli, ma dalla irruzione e dalla continua assisten-za dello Spirito.
Nel capitolo 2 del libro degli Atti, infatti, Luca ci descriverà la impetuosa discesa dello Spirito e la sua potenza di «trasformazione» dell’anima e dei sentimenti degli Apostoli: da timidi ed impauriti com’erano, diventeranno intrepidi e inarrestabili annun-ciatori e testimoni del Risorto.
È ancora Cristo che «opera insieme a loro»: non direttamen-te, ma mediante lo Spirito che egli invierà da parte del Padre (cf.
At 2,32-33).
Dopo aver dato loro il suo «mandato» missionario, Gesù «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (At 1,9).
Abbiamo già detto della tristezza degli Apostoli nel vedersi «sottrarre» il Risorto.
Quello che conta, però, non è la sua presenza fisica, ma la convinzio-ne di fede che egli sarà sempre con i suoi, con la potenza dello Spirito, sino al momento del suo «ritorno» glorioso, come proclamano i due misteriosi personaggi «in vesti candide»: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).
In questo intervallo di tempo, che è già durato più da 2000 anni e non sappiamo per niente quanto durerà ancora, tocca ai suoi discepoli, cioè alla sua Chiesa, allargare gli «spazi» della sua signoria, rendergli testimonianza, facendolo conoscere ed amare da tutti gli uomini.
È così che il suo «regno» si stabilisce anche lungo la storia, fra gli uomini, per mezzo di altri uomini.
È a livello di queste considerazioni che possiamo comprendere la «indispensabilità» della Chiesa nel mondo, in attesa del «ritorno» glorioso di Cristo: anzi, proprio per «pre-parare» e predisporre tutti e tutto, anche il convivere sociale, a quell’incontro con il Signo-re dell’universo, essa è destinata! Seconda lettura: Efesini 4,1-13 Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera de-gna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sop-portandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la spe-ranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo.
Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tut-ti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo.
Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini».
Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.
Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a com-piere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.
A proposito della Chiesa, perché compia la sua missione di testimonianza nel mondo, anzi di rappresentanza «vicaria» di Cristo, e in tal modo anticipare addirittura la venuta del «regno», dice delle cose stupende il brano della lettera agli Efesini, oggi proposta alla nostra considerazione.
Due mi sembrano le idee di fondo che guidano il testo, troppo ricco per entrare nei suoi dettagli esegetici.
La prima è quella della «unità» di quel «corpo» meraviglioso che è la Chiesa: in essa, proprio per questa esigenza fondamentale, ci deve essere circolazione di «amore», che si manifesta nell’umiltà e nella capacità di «sopportazione» reciproca, allo scopo di «conserva-re l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3).
Ci sono troppi motivi di «unione» che obbligano i cristiani a fare «comunione» fra di lo-ro.
Una Chiesa «divisa» non rende buona testimonianza né a Cristo, né allo Spirito, che è essenzialmente «Spirito di amore»! E perciò è destinata ad essere fatalmente inerte, se non controproducente.
«Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo…» (4,4-5).
La seconda idea, che viene espressa in questo testo e non è per niente antitetica alla prima, è che nella Chiesa, pur nella più rigorosa «unità», c’è una «molteplicità» di «doni», di «carismi» o di «ministeri» che dir si voglia, che permettono, anzi esigono, che tutti dia-no il loro contributo per la crescita armonica di quell’unico «corpo», di cui tutti siamo «membra».
E la cosa che più sorprende è che proprio il Cristo, «asceso al di sopra di tutti i cieli» (4,10), ha voluto concedere questi «doni» alla sua Chiesa: essi, pertanto, non sono tanto delle acquisizioni nostre, che nascono da «prediposizioni» di natura e perciò da rivendica-re a tutti i costi, quanto «doni» che vengono dall’alto, da esercitare perciò con grande senso di «responsabilità» per il bene di tutti.
«A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secon-do la misura del dono di Cristo» (4,7).
Si noti l’espressione «a ciascuno di noi»: perciò ogni battezzato non può non avere uno spazio nella Chiesa! A modo di esemplificazione, vengono poi ricordati alcuni «ministeri» tra i più fonda-mentali nella Chiesa: «Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad al-tri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e del-la conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (4,11-13).
Come si vede, i «ministeri» qui ricordati non sono dati per esercitare un «dominio» nel-la Chiesa, come talvolta, da qualcuno si è pensato o si potrebbe pensare, ma un «servizio» di crescita comune.
Il traguardo per tutti, siano essi apostoli, o profeti, o pastori, o qualsia-si altra cosa, è quello di «crescere» e far «crescere» fino a raggiungere «la misura della pie-nezza di Cristo» (4,13).
Il che è tremendamente impegnativo per tutti.
Vangelo: Marco 16,15-20 In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato.
Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderan-no in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporran-no le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i se-gni che la accompagnavano.
Esegesi Come è risaputo da tutti, questa parte «conclusiva» del Vangelo di Marco (16,9-20) è stata aggiunta successivamente da qualche autore che non conosciamo.
Non è che Marco ignorasse questi eventi: è che egli ha voluto chiudere il suo Vangelo con lo «stupore» delle donne davanti al sepolcro vuoto e all’annuncio che Gesù è stato risuscitato da morte (Mc 16,6-8).
Ed è proprio questo «stupore» che dovrà accompagnare sempre i credenti nel Si-gnore risorto! Comunque, tutto questo non crea per noi alcun problema, perché siamo davanti ad un testo egualmente «ispirato» e come tale riconosciuto dalla Chiesa.
Cerchiamo perciò di metterne in evidenza il ricco e molteplice contenuto.
Si tratta dell’ultima «cristofania» del Risorto ai suoi Apostoli ai quali viene affidato un mandato «missionario» universale.
Abbiamo detto sopra che l’ascensione al cielo non era l’abbondono di Gesù, ma solo un suo «momentaneo» allontanamento.
Nel frattempo gli Apostoli avrebbero dovuto prolun-garne l’opera di salvezza, annunciando il suo «Vangelo» ad ogni creatura.
Perciò essi ven-gono rivestiti di un compito di rappresentanza «vicaria» del Cristo, da realizzare ed esten-dere per tutto l’arco della storia.
È attraverso degli uomini che Cristo verrà ormai «annun-ciato» ad altri uomini! È questo il suo mandato «testamentario»: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (16,15-16).
Due cose sono da sottolineare in questo «comando» del Signore.
Prima di tutto la sua «universalità»: è «in tutto il mondo» che vengono inviati gli Apostoli; il Vangelo deve es-sere predicato «ad ogni creatura», senza escludere nessuna razza umana, in qualunque parte della terra essa abiti.
In secondo luogo, si esige l’accoglienza, per «fede», del dono del «Vangelo», congiunto con il rito del «battesimo», che anche simbolicamente significa la rinascita a vita nuova, come un autentico «lavaggio» dalle sozzure della vita precedente.
Dunque «fede» e «battesimo», intimamente congiunti e vissuti dai cristiani, sono le «vie» che portano alla salvezza.
E se così sarà e i cristiani vivranno in tal modo, potranno compiere anche «gesti» stra-ordinari, così come capiterà agli Apostoli che parlano «nuove lingue» il giorno di Penteco-ste, proprio in ordine all’annuncio del Vangelo (At 2,4,11); oppure a Paolo che, morso da una vipera, la getta a terra senza riceverne alcun male (At 28,3-5), e altri fatti simili che si sono verificati, e continuano a verificarsi, lungo la storia.
Ed effettivamente il Vangelo di Marco si chiude con l’affermazione che tutto questo è avvenuto: «Allora essi partirono e pre-dicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (16,20).
Ma si tratterà solo di «segni» che possono solo testimoniare che la «salvezza» procurata dal Vangelo è «totale», includente, oltre l’anima, anche il nostro corpo sofferente.
Per l’autore però è importante affermare che tutto ciò avviene come frutto della «perdu-rante» azione di Cristo che, pur salendo al cielo, non ha abbandonato la sua Chiesa e gli annunciatori del suo Vangelo, ma «opera insieme a loro» proprio in virtù del «potere» che gli deriva dall’essersi assiso «alla destra» del Padre: «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio» (16,19).
Meditazione Il passo evangelico che la liturgia fa proclamare in questa festa è tratto dalla cosiddetta «conclusione canonica» del racconto di Marco, un epilogo aggiunto da un redattore poste-riore per dare seguito alla finale troppo brusca e insolita dello scritto originario, che termi-nava con il v.
8.
Questo secondo finale ci presenta un rapido sommario dei racconti di ap-parizione del Risorto chiuso dalla breve menzione dell’ascensione al cielo di Gesù e della successiva missione universale dei discepoli.
Dopo l’apparizione a Maria di Magdala (vv.
9-11) e a due discepoli in cammino (vv.
12-13), il Risorto appare agli Undici (v.
14).
Prima però di affidare loro il compito missionario dell’annuncio evangelico «a ogni creatura» (v.
15), è da notare che Gesù li rimprovera severamente «per la loro incredulità e durezza di cuore» (v.
14b).
Ritorna, alla fine, un tema caratteristico della narrazione marciana che at-traversa da cima a fondo tutto il libro: l’incredulità dei discepoli.
E ritorna con insistenza, a più riprese, come un ritornello martellante (cfr.
vv.
11.13.14.16).
Ma è proprio in questo contesto che emerge, per contrasto, tutta l’ostinata fedeltà del Signore che non esita ad affi-dare sua missione a dei discepoli rivelatisi quantomeno inaffidabili.
Il vangelo è messo così in fragili mani di uomini increduli e titubanti affinché compia la sua corsa fino agli estremi confini del mondo.
È singolare il fatto che destinataria della missione evangelizzatrice non è solamente l’u-manità intera ma «tutta la creazione» (così recita letteralmente il v.
15).
C’è qui una dimen-sione cosmica che non va sottaciuta: tutto l’universo creato è coinvolto in quel dinamismo di salvezza scaturito dalla Pasqua di Gesù e deve anch’esso ricevere la Buona Novella che rinnova e trasfigura ogni cosa.
Paolo non dirà forse che anche la creazione attende con im-pazienza la sua liberazione e redenzione (cfr.
Rm 8,19 ss.)? «Chi crederà…
chi non crederà…» (v.
16).
Tutto si gioca tra fede e incredulità, tra acco-glienza e rifiuto del vangelo, che rimane l’unico oggetto della predicazione apostolica.
Già all’inizio del suo ministero Gesù invitava alla conversione e alla fede dinanzi all’avvicinar-si del Regno (cfr.
Mc 1,15), ora, da Risorto, rilancia il suo appello perché il dono incompa-rabile del vangelo non vada inutilmente sprecato.
I segni che accompagnano «quelli che credono» – e dunque non solo i missionari – sono conferme della Parola annunciata e ac-colta nella fede.
Essi vengono compiuti nel nome di Gesù (cfr.
v.
17), cosicché ciò che mani-festano non è tanto la potenza e la grandezza dei credenti quanto la potenza divina che a-gisce per mezzo dello stesso Signore («e il Signore confermava la Parola con i segni che la accompagnavano»: v.
20).
«Dopo aver parlato loro…» (v.
19).
Gesù ha ormai detto tutto e il Padre lo può «elevare», «assumere» in cielo (il verbo usato, analambáno, esprime un passivo divino) e intronizzarlo alla sua destra.
Un solo versetto basta all’autore per descrivere la scena dell’ascensione: quel «cielo» che si era «squarciato» al momento del battesimo (cfr.
Mc 1,10) ora accoglie di nuovo Colui che era disceso sulla terra per compiere fino in fondo la volontà del Padre.
Se c’è un’elevazione, un’ascesa, è perché prima c’era stata una discesa, un abbassamento (cfr.
Ef 4,9-10, II lettura).
E in questo duplice movimento di discesa e salita si consuma tutta la vi-cenda terrena del Figlio di Dio.
D’ora innanzi non esiste più separazione tra terra e cielo: se la terra è salita al cielo (con il corpo umano glorificato di Gesù), il cielo è disceso sulla terra (con lo Spirito Santo che il Figlio dal Padre ci ha mandato).
«Sulla terra viene sparso un seme celeste e Colui che ritorna presso il Padre stabilisce d’ora in poi, nella sua qualità di Capo di una Chiesa ancora terrena, un vincolo inscindibile tra la terra e il cielo» (H.U.
von Balthasar).
In questa prospettiva il «cielo» non può più essere inteso come simbolo di lon-tananza, di distacco, di estraneità del Signore nei confronti di quanti ancora vivono e lot-tano su questa terra; al contrario: è proprio per essere salito al cielo, cioè presso Dio, che Gesù può essere presente nei suoi discepoli in maniera del tutto nuova e radicalmente più profonda.
Infatti, subito dopo aver detto che Gesù risorto «sedette alla destra di Dio» (v.
19), il testo prosegue: «…
e il Signore agiva insieme con loro (synergoûntos)» (v.
20).
Questa «sinergia», questo «lavoro» divino e insieme umano, è precisamente l’opera dello Spirito Santo, il vero protagonista – non nominato – della missione.
Per concludere ci si può chiedere: se non è la tomba vuota la mèta del nostro cammino («Non è qui»: Mc 16,6), né il cielo il luogo verso cui fissare il nostro sguardo («Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?»: At 1,11), dove cercare allora il Risorto? Perché molti sono ancora il luoghi ‘sbagliati’ in cui si smarrisce la nostra ricerca…

VI domenica di Pasqua

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54 – C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 10,25-27.34-35.44-48 Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio.
Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anche io sono un uomo!».
Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa pre-ferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».
Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola.
E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito San-to; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorifi-care Dio.
Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battez-zati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?».
E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo.
Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.
Il brano che leggiamo risulta da tre piccoli ritagli di quel grande affresco che è il cap.
10 degli Atti.
Consigliamo di rileggere tutto il cap.
10 nella sua interezza.
Siamo ad un mo-mento decisivo del cammino missionario della Chiesa primitiva: la conversione di Corne-lio assume dimensione emblematica dell’apertura della predicazione al mondo pagano.
— «Si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio» (v.
25).
Di fronte ai prodigi e ad un essere su-periore che si ritiene celeste, il mondo pagano reagisce con atteggiamento di adorazione.
Così capita anche a Paolo e Barnaba, a seguito di un miracolo, a Listra (At 14,11-15).
— «Alzati…» (v.
26).
La predicazione cristiana è sempre attenta ad evitare l’equivoco che si può creare sulla persona degli apostoli, chiarendo che non sono esseri celesti e superiori, ma uomini come gli altri.
Coerente con tale chiarimento, Pietro conversa con il centurione con familiarità, allargando l’incontro con le molte persone che sono in quella casa (v.
27).
— «Dio non fa preferenze di persone» (vv.
34-35).
È l’inizio del discorso di Pietro: non è sol-tanto citazione dell’AT (vedi Dt 10,17; Sp 6,8; Sir 35,5), ma ammirata constatazione che tro-va riscontro nei fatti che Pietro sta vivendo: il privilegio di ricevere la parola di Dio non appartiene più esclusivamente al popolo ebraico.
È l’inizio del cammino universale della predicazione cristiana, dell’annuncio della salvezza.
— «Accoglie chi lo teme e pratica la giustizia» (v.
35).
Allargata a tutti i popoli, la misericor-dia di Dio non esige che due disposizioni negli uomini ai quali si rivolge: a) timore e ri-spetto intimo di Dio riconosciuto come unico e onorato nella propria coscienza; b) pratica della giustizia, ossia di una profonda onestà nei doveri naturali.
— «Lo Spirito Santo discese sopra tutti…» (vv.
44-48).
Il racconto che segue è indicato come la «pentecoste dei pagani».
Lo stesso Pietro sottolinea che «questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo» (v.
47).
Questi pagani, senza seguire le usanze giudaiche, e senza alcuna particolare preparazione, ricevono lo Spirito Santo: ciò dimostra — come rileva l’apostolo Pietro — che sono già pronti per ricevere il battesimo (v.
47).
L’effetto carismatico, prodotto nei pagani dalla discesa dello Spirito Santo, è simile a quello ricevuto dagli apostoli nella prima pentecoste: consiste nel fatto di esprimersi in lingue nuove e nel lodare Dio in modo e-statico (v.
46).
In entrambi gli aspetti è da vedere la unificazione della famiglia umana nel dono delle lingue e della preghiera, questa volta anche nel mondo pagano.
Seconda lettura: 1Giovanni 4,7-10 Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio.
Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha man-dato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui.
In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha man-dato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
In uno sviluppo parenetico (cioè di carattere prevalentemente esortativo) pressocché parallelo a quello della II Lett.
di domenica scorsa, la Prima Epistola di Giovanni insiste sulla necessità, per i cristiani, di avere una fede autentica ed un vero amore (4,7;5,4), con la probabile intenzione di stigmatizzare l’insorgere di alcune eresie nella chiesa primitiva.
Senza vero amore non c’è vera fede, e viceversa.
Il brano di oggi si colloca esattamente al-l’inizio di tale sviluppo.
Tre le affermazioni fondamentali contenute nella nostra lettura: — Prima: Dio non è conoscibile se non attraverso la via dell’amore (vv.
7-8).
Perché? Dio è amore, in senso operativo, cioè ogni sua attività è mossa da amore.
Ne derivano due con-seguenze che si possono esprimere in termini positivi e negativi: solo chi ama è nato da Dio (v.
7), solo chi ama i fratelli «conosce», cioè mostra di avere un’esperienza vera e pro-fonda di Dio.
Di fatto, l’assenza di amore rende impossibile ogni comunicazione e comu-nione con Dio (v.
8).
Per S.
Agostino la conoscenza dello stesso mistero trinitario non av-viene se non attraverso un movimento di amore.
— Seconda: non c’è prova più evidente che Dio è mosso da amore, che il fatto della ve-nuta del Figlio Unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui (v.
9).
«Unigenito»: questo titolo attribuito al Figlio ha due valenze: a) è sinonimo di amato, dilet-to, oggetto di amore unico, e in tal caso sottolinea la grandezza del dono di Dio, mandan-dolo nel mondo; b) sottolinea l’unicità del Figlio di Dio come rivelatore del Padre; egli è l’unico che veramente possa rivelarci il volto del Padre: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio…» (Mt 11,27).
— Terza: caratteristica dell’amore divino è che previene l’amore dell’uomo; non aspetta di essere amato per amore.
Non siamo stati noi ad amare Dio, (v.
10) anzi noi abbiamo tradito il suo amore col peccato.
Ma egli ha preso per prima l’iniziativa e ha mandato il suo Figlio in funzione di espiare, cioè offrire il sacrificio, per i nostri peccati.
Vangelo: Giovanni 15,9-17 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Pa-dre ha amato me, anche io ho amato voi.
Rimanete nel mio amore.
Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.
Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli al-tri come io ho amato voi.
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici.
Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando.
Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda.
Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Esegesi Il brano evangelico odierno costituisce l’immediato seguito del vangelo di domenica scorsa (vv.
1-8), ed in certo senso ne è l’illustrazione in termini parenetici.
Il brano è costi-tuito grosso modo da due sezioni che fanno capo a due parole-chiave: la parola «amore» e la parola «amici».
Chiariamo il senso di queste due parole fondamentali su cui il nostro brano è costruito: «amore» e «amico»: — amore (in gr.
agapō) a differenza di altri verbi che implicano reciprocità e scambio, se si appli-ca a Dio, indica un movimento di amore assolutamente gratuito e illimitato (vedi II Lettura).
La fonte è divina e eterna: come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi (v.
9), comunicandosi agli uomini nel tempo.
Abbiamo così una serie di anelli che costituiscono tutti essenzial-mente il senso dell’agape cristiano: Padre-Figlio-discepoli e discepoli tra loro.
La compara-zione: rimanete nel mio amore, come io rimango nell’amore del Padre (cf.
v.
10) non indica solo un rapporto esemplare o di imitazione.
Il come indica la natura e il fondamento stesso dell’amore cristiano, che sgorga ed è alimentato dall’amore trinitario.
Perciò l’espressione «nel mio amore», pur potendosi intendere nel senso dell’amore dei discepoli per Gesù, è pe-rò più coerente intenderlo come amore di Gesù per i discepoli.
Concepito così, tale amore va fino al sacrificio di sé, come lo è stato per quello di Gesù (v.
13); — amicizia, amico (in gr.
philos).
Nei rapporti umani, l’amicizia si stabilisce tra due per-sone che sono sullo stesso piano.
Questo è vero per l’amicizia di Gesù per i discepoli, se si tiene però conto che è lui ad elevarci dal livello di schiavi (doulos) a quello di amici.
La dif-ferenza, come spiega il Signore, va capita nella prospettiva della comunicazione: tra servo e padrone non c’è comunicazione, perché abitualmente il padrone non fa sapere, e quindi non comunica al servo quello che fa e perché lo fa (v.
15).
Gesù invece comunica e rivela ai discepoli quello che ha «udito» dal Padre, cioè li rende partecipi della sua relazione intima e filiale col Padre (v.
15).
Inoltre, sul piano dell’amicizia umana, ognuno è e si sente autore delle scelte che fa, e non stabilisce le finalità che l’altro deve raggiungere.
Nell’amicizia con Gesù non è così: non i discepoli hanno scelto lui, ma lui ha scelto loro — elevandoli al suo livello — con iniziati-va gratuita e sovrana (v.
16), e li ha scelti con un preciso scopo: assegnare loro una missio-ne (portare frutto) stabile e duratura (v.
16).
Meditazione Nei cosiddetti «Discorsi di addio» (Gv 13-17), che la liturgia ci fa leggere in queste do-meniche del tempo pasquale, Gesù con insistenza invita i discepoli a rimanere in lui, nella sua Parola, nel suo amore.
Sembra che nell’imminenza della sua passione, la ragione del turbamento di Gesù non sia tanto il destino che lo attende, e che peraltro egli vive nella prospettiva del ritorno al Padre (cfr.
ad esempio Gv 13,1; 16,28), quanto il turbamento stes-so che gli eventi produrranno sui suoi discepoli.
«Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Pa-dre è con me» (Gv 16,32).
Il rischio a cui i discepoli vengono esposti dall’ora di Gesù è la dispersione; Gesù vivrà la sua ora per trasformare la dispersione in una nuova e più stabi-le comunione.
«Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32), come il chicco di grano che muore per non rimanere solo, ma per produrre molto frutto (cfr.
12,24).
Uno dei frutti che nella sua morte il chicco produce è proprio il comandamento nuovo del quale Gesù parla nel brano evangelico di oggi, e che è al centro anche della se-conda lettura tratta dalla prima lettera di san Giovanni apostolo.
«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12).
Che l’amore sia un comandamento probabilmente ci sorprende non poco.
Sia-mo ormai abituati a una concezione dell’amore alla stregua del «va’ dove ti porta il cuore», dimenticando che l’amore non è solo movimento spontaneo del desiderio, ma insepara-bilmente un impegno consapevole e responsabile della libertà.
C’è poi una seconda diffi-coltà, forse più grave della prima, che non ci consente di capire bene la parola di Gesù: in-tendere il comandamento solo alla stregua di un ordine da eseguire, di una parola da os-servare esteriormente.
Più ampia e vitale è la prospettiva del Signore e per comprenderla appieno non dobbiamo dimenticare il suo orizzonte pasquale.
L’amore di cui qui si parla è infatti l’amore più grande di chi dona la vita per i propri amici.
Ed è proprio questo amore più grande che consente di vivere il comandamento più grande, quello dell’amore per Dio e per il prossimo (cfr.
Mt 22,33-40 e par.).
Gesù dona la vita ai suoi amici non semplicemente perché lo sono già, ma per renderli tali.
Ancora una volta ribadisce che il suo è l’amore di chi muore per non rimanere solo, ma per farci passare dall’inimicizia all’amicizia, dalla so-litudine alla comunione.
«Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fat-to conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (15,15-16).
Proprio donando la sua vita per noi Gesù ci sceglie, ci trasforma donandoci un nome nuovo, quello di ‘amici’, e ci con-sente di portare frutto: un frutto analogo a quello che lui stesso produce attraverso il suo morire nella terra, il frutto cioè di chi sa rimanere in questo amore che gratuitamente ha ri-cevuto (non voi avete scelto me, mai io ho scelto voi) e lo rende fecondo nella reciprocità delle relazioni (che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati).
Gesù ci rende amici non chiamandoci più servi perché ci fa conoscere tutto ciò che ha udito dal Padre, ci fa conoscere Dio e il suo mistero, diversamente dal servo che «non sa quello che fa il suo padrone» (v.
15).
Come ascoltiamo nella seconda lettura, «chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio.
Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,7- 8).
Ciò che ci consente di passare dalla servitù all’amicizia, dalla schiavitù alla figliolanza, è proprio conoscere il Padre e il suo amore.
Gesù ci rende parte-cipi di quanto lui stesso ha udito dal Padre, in altri termini della relazione che sussiste tra lui e il Padre: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi.
Rimanete nel mio amo-re.
Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,9-10).
L’amore gratuito di Dio, che ci precede e che Gesù ci fa conoscere donando la sua vita per noi, fonda la nostra possibilità di amarci, vincendo in noi il male e il peccato.
«In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (lGv 4,10).
Questa è la particolarità del comandamento di Gesù: è ‘nuovo’ non solo a motivo del suo contenuto, ma della sua stessa dinamica.
Non è un ordine da eseguire o una parola cui obbedire.
Piuttosto è una parola cui prestare fede.
È un comandamento come consegna di sé: non comanda di fare qualcosa, ma di accogliere ciò che Gesù ha fatto per noi, donando la vita per i suoi amici.
Gesù muore nell’amore e il comandamento viene dato perché i di-scepoli possano rimanere in questo amore, accogliendo e custodendo nella loro vita la sua efficacia.
«Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (v.
10).
Osserva-re il comandamento non esige di fare qualcosa, ma di accogliere, custodire e rimanere in ciò che Gesù ha già fatto per noi: rimanete nel mio amore, egli ci dice, in quell’amore in cui io ho consegnato la mia vita perché anche voi possiate consegnarvi gli uni gli altri, vincen-do la vostra solitudine e dispersione, il vostro turbamento e la vostra paura.
La missione del discepolo consisterà allora anzitutto nel rimanere in questo amore e nel testimoniarlo: tale infatti è il frutto che egli, andando, deve portare (v.
16).
In questa luce diviene allora eloquente la conclusione della prima lettura, da Atti 10.
Pietro, dopo aver annunciato Gesù Cristo e impartito il battesimo, accetta l’invito di rimanere alcuni giorni nella casa di Cornelio, un pagano, superando così le rigide norme di purità della Legge mosaica.
Questo rimanere nella stessa casa è il sigillo dell’opera evangelizzatrice: rivela in-fatti che il vangelo donato e accolto crea relazioni nuove, consentendo di rimanere nel co-mandamento nuovo, frutto della Pasqua di Gesù.
Abitare nella casa dell’amore Questa è una singolare metafora dell’amore.
L’amore non è soltanto un sentimento passeggero.
È uno spazio in cui si può rimanere.
Gesù, tuttavia, indica anche la condizione per rimanere nell’amore: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,10).
Non possiamo godere da soli dell’amore di Dio.
Dobbiamo continuare a farlo scorrere verso gli altri.
Altrimenti ristagna.
E allora lo spazio d’amore, in cui si può abitare tanto bene, crolla.
L’amore di Gesù non prende, come fa spesso il nostro, ma dà.
È puro dono.
A un amo-re del genere, che lascia liberi e si dona, che muore per noi e scorre senza confini per noi, aneliamo nel profondo del nostro cuore.
Di fronte al Cristo crocifisso percepiamo che siamo incapaci di vero amore.
Il nostro amore si mescola spesso al desiderio di avere l’altro tutto per noi, di riuscire a possederlo.
Vogliamo tenerlo stretto, in modo che non ci lasci mai più.
E non ci accorgiamo di come gli togliamo la possibilità di evolversi, di diventare interamente se stesso.
Spesso vogliamo essere noi a plasmare la persona amata e comprimerla nella forma che ci sembra amabile.
Il gesto della croce esprime il contrario: ci lascia liberi, ci invita a farci abbracciare, ma ci lascia anche andare, affinché possiamo percorrere in libertà il nostro cammino.
(Anselm Grün, Apri il tuo cuore all’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 19-20).
Rimanete nel mio amore «Rimanete nel mio amore» (Gv 15,10).
In che modo ci rimarremo? Ascolta quanto segue: «Se osservate i miei comandamenti», dice il Signore, «rimarrete nel mio amore» (i-bi).
È l’amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l’osservare i comandamenti che fa nascere l’amore? Ma chi può mettere in dubbio che l’amore precede l’osservare i coman-damenti? Chi non ama non ha motivo di osservare i comandamenti.
Dicendo: «Se osserve-rete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», il Signore non vuole indicare l’origine dell’amore, ma la prova.
Come se dicesse: Non crediate di poter rimanere nel mio amore se non osservate i miei comandamenti; potrete rimanervi solo se li osserverete.
Questa sarà la prova che rimanete nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti.
Nessuno quindi si illuda di amare il Signore, se non osserva i suoi comandamenti, perché lo amiamo in quan-to osserviamo i suoi comandamenti, e quanto meno li osserviamo tanto meno lo amiamo.
Anche se dalle parole: «Rimanete nel mio amore» non appare chiaro di quale amore egli stia parlando, se di quello con cui amiamo lui o di quello con cui egli ama noi, possiamo però dedurlo dalla frase precedente.
Egli aveva detto: «Anch’io ho amato voi», e subito dopo ha aggiunto: «Rimanete nel mio amore».
Si tratta dunque dell’amore che egli nutre per noi.
E allora che cosa significa: «Rimanete nel mio amore», se non: rimanete nella mia grazia? E che cosa significa: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amo-re», se non che voi potete avere la certezza di essere nel mio amore, cioè nell’amore che io vi porto, se osserverete i miei comandamenti? Non siamo dunque noi che prima osservia-mo i comandamenti di modo che egli venga ad amarci, ma il contrario: se egli non ci a-masse, noi non potremmo osservare i suoi comandamenti.
Questa è la grazia che è stata rivelata agli umili, mentre è rimasta nascosta ai superbi.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 82,3, NBA XXIV, p.
1248).
Credo Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero che non mi seduce con un miracolo e che non mi opprime con la sua autorità.
Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà, che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male, che non accetta compromessi, ma che benedice la follia di chi lo segue.
Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione, che non rimette a posto le cose dall’alto, che non esercita la giustizia degli uomini.
Credo in un Dio che si lascia tradire, che al mio no risponde con un bacio silenzioso, credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.
Credo in un Dio che non ho inventato io, che non soddisfa i miei bisogni, che non dice e fa quello che voglio io, un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.
Credo in un Dio vero, che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità, che si fa piccolo, debole indifeso perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.
Credo in un Dio che gioca a nascondino perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo, credo in un Dio che mi si fa vicino, che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.
Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.
(Ester Battista).
Da’ gratuitamente «Il tuo amore, in quanto viene da Dio, è permanente.
Puoi reclamare il carattere per-manente del tuo amore come un dono di Dio.
E puoi dare questo amore permanente agli altri.
Quando gli altri cessano di amarti, non devi cessare di amarli.
A livello umano, i cambiamenti possono essere necessari, ma a livello del divino tu puoi rimanere fedele al tuo amore.
Un giorno sarai libero di dare un amore gratuito, un amore che non chiede niente in cambio.
Un giorno sarai anche libero di ricevere un amore gratuito.
Spesso l’amore ti viene offerto, ma tu non lo riconosci.
Lo metti da parte perché rimani fissato nell’idea di ricever-lo dalla medesima persona alla quale l’hai dato.
Il grande paradosso dell’amore è che proprio quando hai rivendicato il fatto che sei il diletto figlio di Dio, hai posto dei confini al tuo amore, e quindi hai contenuto i tuoi biso-gni, è allora che cominci a crescere nella libertà di dare gratuitamente».
(H.J.M.
NOUWEN, La voce dell’amore, Queriniana, Brescia.
2005, 27-28).
L’amore Noi delle strade siamo certissimi di poter amare Dio sin quando avrà voglia di essere amato da noi.
Non pensiamo che l’amore sia una cosa che brilla, ma una cosa che consu-ma; pensiamo che fare tutte le piccole cose per Dio ce lo fa amare altrettanto che il compie-re grandi azioni.
D’altra parte pensiamo di essere molto male informati sulla misura dei nostri atti.
Non sappiamo che due cose: la prima, che tutto quello che facciamo non può essere che piccolo; la seconda, che tutto ciò che fa Dio è grande.
Questo ci rende tranquilli di fronte all’azione.
Sappiamo che ogni nostro lavoro consiste nel non gesticolare sotto la grazia, nel non scegliere le cose da fare, e che Dio agirà per nostro mezzo.
Non c’è niente di difficile per Dio, e chi teme la difficoltà si crede capace di agire.
Poiché troviamo nell’amo-re un’occupazione sufficiente, non abbiamo cercato il tempo per classificare gli atti in pre-ghiere e in azioni.
Troviamo che la preghiera è un’azione e l’azione una preghiera; ci sem-bra che l’azione veramente amorosa è tutta piena di luce.
Ci sembra che di fronte ad essa l’anima è come una notte tutta protesa verso la luce che sta per venire.
E quando la luce si fa – il volere di Dio chiaramente compreso – ecco l’anima viverla con dolcezza piena, con pacatezza piena, guardando Dio animarsi e agire in essa.
Ci sembra che l’azione sia anche una preghiera d’implorazione.
Non ci sembra che l’azione c’inchiodi nel nostro terreno di lavoro, di apostolato o di vita.
Al contrario, ci sembra che l’azione perfettamente compiuta là dove ci viene reclamata innesta noi in tutta la Chiesa, ci diffonde in tutto il suo corpo, ci fa disponibili in essa.
I nostri passi camminano in una strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero.
E’ per questo che i nostri piccoli atti, nei quali non sappiamo distinguere fra azione e preghiera, uniscono così perfettamente l’amore di Dio e l’amore dei nostri fratelli.
Il fatto di abbandonarci alla volontà di Dio ci consegna nello stesso istante alla Chiesa che da questa volontà medesima è resa costantemente salvatrice e madre di grazia.
Ciascun at-to docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio in una grande libertà di spi-rito.
Allora la vita è una festa.
Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso.
Non importa che cosa dobbia-mo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica.
Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina.
Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella per il suo Dio.
Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci.
Un’informazione? …eccola: è Dio che viene ad amarci.
E’ l’ora di metterci a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci.
Lasciamolo fare.
(Madeleine Delbrêl).
Parlami d’Amore Amore supera l’amore, mio caro.
L’amore è volo d’uccello nel cielo infinito.
Ma il volo dell’uccello è più che il volteggiare in aria di un esserino di carne, più che le sue ali inna-morate, corteggiate dal vento, è più che l’indicibile gioia quando muoiono i battiti delle ali e il corpo in pace plana nella luce.
L’amore è canto di violino che canta il canto del mondo.
Ma il canto del violino è più che il legno e l’archetto, inerti e solitari, più che le note in abi-to da sera che danzano sulla partitura, e più che le dita dell’artista che corrono sulle corde.
L’amore è luce, per le strade umane.
Ma la luce che si dà è più che carezza mattutina che apre gli occhi notturni, più che raggi di fuoco che riscaldano i corpi, e più che mille pen-nelli d seta che colorano i volti.
L’amore è fiume d’argento che scorre verso il mare.
Ma il fiume vivo, che indugia o che si affretta, è più che il suo letto accogliente, scrigno che non trattiene, più che l’acqua che si arrossa allo sguardo del tramonto, e più che l’uomo sulla riva che getta l’esca e ne estrae i frutti.
L’amore è veliero che sulle acque fende le onde.
Ma la corsa del veliero è più che la prora sedotta che penetra il mare, che si offre o i dibatte, più che le vele frementi sotto il tocco della brezza o gli schiaffi del vento, è più che le mani del marinaio afferrate al timone, mentre instancabile insegue la sua selvaggina.
…l’Amore supera l’amore.
L’Amore è soffio infinito, che viene da un altrove e vola verso l’altrove.
L’amore è mente d’uomo che conosce e riconosce il soffio, è libertà d’uomo che tutto si volge verso di Lui.
L’amore è consenso dell’uomo al soffio che invita, è cuore dell’uomo che si apre per accoglierlo e donarLo, è corpo dell’uomo che si raccoglie, disponibile, per-ché da Lui abitato, da Lui invaso prenda il volo verso gli altri, verso…
l’altro, e perché infi-ne ciò che era lontano si ricongiunga e si accordi ciò che era separato diventi uno e che dal-l’uno sgorghi una nuova vita.
(Michel Quoist).
La mia vocazione Nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore…
la mia voca-zione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore.
( Santa Teresa di Gesù Bambino).
Una luce splende alla mia anima Che ti amo Signore, non ho alcun dubbio; ne sono certo.
Con la tua parola hai toccato il mio cuore, e io ho cominciato ad amarti.
Ma che cosa amo amandoti? Non una bellezza corporea né una grazia transitoria; non lo splendore di una luce così cara a questi miei occhi; non dolci melodie di svariate cantilene; non un profumo di fiori, di unguenti e di aromi; non manna né miele, non membra invitanti ad amplessi carnali.
Amando il mio Dio, non amo queste cose.
E tuttavia nell’amare lui amo una certa luce, una voce, un profumo, un cibo ed un amplesso che sono la luce, la voce, il profumo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce che nessun fluire di secoli può portar via, dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere, dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire, dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare.
Tutto questo io amo quando amo il mio Dio.
(S.
Agostino)

V Domenica dopo Pasqua anno A

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 9,26-31 In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo.
Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù.
Così egli poté stare con loro e andava e ve-niva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore.
Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo.
Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresce-va di numero.
Il capitolo 9 degli Atti degli Apostoli segna una svolta molto importante nella storia della prima comunità cristiana: con la conversione di Saulo (vv.
1-19), l’inizio della sua predica-zione (vv.
20-31) e l’orientamento di Pietro verso il mondo pagano (vv.
32-43; e.
10), si pre-para il terreno all’espansione della predicazione apostolica verso le nazioni pagane.
La no-stra lettura è un elemento di coesione in questo insieme di fatti, in quanto descrive il difficile e delicato inserimento di Paolo nella comunità degli apostoli.
Anche se in certo contrasto con l’esperienza narrata dallo stesso Paolo in Gal 1,18-24, la presentazione lucana del viaggio di Saulo a Gerusalemme obbedisce ad un preciso intento: sottolineare vigorosamente il contatto di Paolo col collegio apostolico, così da legittimare la predicazione successiva dell’Apostolo.
— Da questo punto di vista è di grande peso esegetico il v.
28: «andava e veniva in Gerusa-lemme» indica la familiarità piena che si è stabilita tra lui, Paolo, e gli altri apostoli; attinge da questa comunione la parrēsía (coraggio di parlare francamente, cf.
il greco: parrēsia = zò-menos, v.
28), discutendo liberamente anche con gli ex-correlegionari, gli ebrei «ellenisti», cioè di lingua e cultura greca.
— «Ma questi tentavano di ucciderlo» (v.
29).
È il secondo complotto tramato dai Giudei per eliminare questo loro correlegionario che ha «tradito» la sua fede, diventando cristiano.
— «La Chiesa era dunque in pace» (v.
31).
Opportuno sommario, per mostrare lo stato di pa-ce interna (accordo e comunione) ed esterna (fine della persecuzione con la conversione di Saulo).
La Chiesa è organismo vivo che cresce e cammina, non per forza naturale, ma per due fattori fondamentali; cammina nel timore di Dio, in obbedienza e docilità al Signore; si moltiplica grazie al «conforto», ossia all’assistenza attiva e fecondante dello Spirito Santo.
Seconda lettura: 1 Giovanni 3,18-24 Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri.
Dio è più grande del nostro cuore e conosce o-gni cosa.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Questo è il suo coman-damento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato.
Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui.
In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
Nella I Epistola di Giovanni, che si può considerare come un’enciclica destinata alle chie-se dell’Asia su cui incombe la minaccia di eresie e lacerazioni interne, si discernono alcune parti parenetiche (dove prevalgono le esortazioni) e altre parti dottrinali (dove abbondano indicazioni dogmatiche).
La nostra lettura si colloca di una sezione parenetica, che esorta cioè a «nascere da Dio» compiendo opere di giustizia (2,28-3,24).
Data la struttura circolare, con numerosi ritorni, del nostro brano, basterà chiarire solo alcuni termini-chiave: «verità», «cuore», «comandamento».
a) «Verità», in senso semitico e giovanneo, indica propriamente la salda rivelazione di Dio Amore con fatti e «nella verità» (v.
18); significa pertanto, amare con opere (e non solo a pa-role) e in conformità a quanto Dio in Gesù Cristo ha rivelato di se stesso.
«Siamo dalla veri-tà» (v.
19) vuole dire: veniamo da Dio, rivelato a noi da Gesù Cristo.
b) «Cuore» è sinonimo di coscienza, oltre che centro delle decisioni dell’uomo.
Dire che «il nostro cuore ci rimprovera» o «non ci rimprovera» (vv.
20-21) significa che riceviamo o non riceviamo l’approvazione della nostra coscienza.
Ma il giudizio di Dio è ben al di là di tale approvazione («è più grande del nostro cuore»).
Tale superiorità sottolinea la grandezza imperscrutabile dell’amore di Dio.
c) «Il comandamento», nella letteratura giovannea, è quello per autonomasia dato da Ge-sù ai discepoli: amarsi gli uni gli altri (Gv 15,12) come lui ci ha amati.
Qui il «comandamen-to» (o anche al plurale «i comandamenti») ha un duplice aspetto; a) credere «nel nome», cioè nella persona stessa di Gesù Cristo, Figlio di Dio, e come tale confessarlo; b) amarci gli uni gli altri perché è lui che ci ha dato tale comandamento, e non a motivo di un amore ge-nerico o sentimentale.
Tale comandamento è talmente fondamentale per la nostra vita di credenti, da essere il presupposto necessario perché si realizzi l’inabitazione di Dio nel credente.
Fede, amore, inabitazione di Dio sono tre aspetti indissociabili del comandamen-to di Gesù.
Vangelo: Giovanni 15,1-8 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore.
Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.
Voi siete già pu-ri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi.
Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me.
Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.
Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fat-to.
In questo è glorificato il Padre mio: che portiate mol-to frutto e diventiate miei discepoli».
Esegesi Siamo nell’ampio contesto dei discorsi di addio ambientati nell’intima cena (Gv 13,1-35).
In forma circolare, tali discorsi, che rappresentano il testamento spirituale del Signore, in-sistono su due fondamentali temi, quello della fede e dell’amore, atteggiamenti essenziali della vita dei discepoli di Gesù.
Il brano odierno rappresenta un significativo sviluppo all’interno dei discorsi di addio.
Esso va collocato nell’insieme del cap.
15, nel quale si cela una forte tensione tra due poli: da una parte, l’amore a Gesù e i suoi frutti (vv.
1-17), dall’altra, l’odio del mondo e la te-stimonianza del Paraclito (vv.
18 ss.).
— «Io sono la vite vera» (vv.
1.5).
Le parole introdotte da Io sono contengono un’autorivela-zione come quando nel libro dell’Esodo JHWH rivela il proprio nome (Es 3,14).
In riferi-mento al mistero di Cristo, la sua identità è caratterizzata dall’aggettivo «vera».
Vite vera, in due sensi: a) in Gesù Cristo si realizzano in misura totale e piena quello che la vite natu-rale esprime; b) Israele, vigna di Dio, aveva tradito le attese di Dio (cf.
Is 5,1-7; Ger 2,21); Gesù invece le realizza in pieno perciò è la vera vite.
— «Il Padre mio è l’agricoltore» (vv.
1-2), l’autorivelazione si estende anche al Padre, al rap-porto di profonda unione che Gesù-vite ha con il Padre da una parte, e al rapporto vitale che lega i tralci (i discepoli) all’azione sovrana e gratuita del Padre, dall’altra.
— Due principalmente, gli aspetti di questa azione del Padre: a) in senso positivo, egli monda, o purifica, quei tralci che già portano frutto, perché — co-me dalla potatura — ne risulti un impulso di vitalità e di fertilità (v.
2); le iniziative del Padre, anche se appaiono dolorose, hanno come fine una crescita ed una promozione e non una mortificazione della vita; b) in senso negativo, il castigo e l’eliminazione dei tralci che, non portando frutto, si oppon-gono alle premure del Padre e alla vita donata da Gesù: questi tralci sono tolti (v.
2), gettati via, raccolti, gettati nel fuoco, bruciati (v.
6).
Dietro queste immagini si intravede la cura e-strema di Dio nel preservare l’opera salvifica del Figlio da ogni ambiguità e compromesso col male.
— Rimanete in me come io in voi (v.
4).
Questa reciproca immanenza non significa che Gesù e i credenti siano sullo stesso piano.
In ogni caso precede l’azione di Gesù-vite (come io in voi), che eleva e rende possibile l’unione dei discepoli con lui («rimanete in me»).
— Sono da precisare due aspetti di questo «rimanere»: da una parte esso indica un rapporto di fede (le mie parole rimangono in voi, chiedete, ecc.); dall’altra, è condizione essenziale per vivere e portare frutto di salvezza (v.
5).
La salvezza non dipende soltanto dalla libera ade-sione dell’uomo e degli apporti — sia pur generosi — della sua azione: procede dalla vita che riceviamo da Dio, come la linfa vitale che nutre i tralci, e li mette in condizione di por-tare frutti.
Meditazione Gli evangeli presentano Gesù come appartenente alla categoria lavorativa degli artigia-ni; professione: falegname.
Eppure, se non altro per la quantità di immagini agricole che ricorrono nella sua predicazione, viene da pensare che il figlio del carpentiere avesse una predilezione per l’attività dei campi.
Anche lui una vocazione ‘costretta’ per ragioni fami-liari? Quale che sia la verità storica, il brano evangelico odierno ci presenta una formidabile similitudine agricola-esistenziale, che riesce a comunicarci moltissimo dell’esperienza spi-rituale di Gesù: la vite.
Nel Primo Testamento l’immagine, associata a quella della vigna, ricorre frequentemente per descrivere il rapporto esistente tra Dio e il suo popolo (cfr.
Os 10,1; Sal 79; Is 5,1-5; Ger 2,21; Ez 19,10-14…), sia nella bellezza di un’armonia e di una cura premurosa che nell’ingratitudine dei vignaioli verso il padrone e nella bassa qualità dei frutti.
Il testo di Giovanni focalizza l’attenzione su di un’unica pianta, quella vite che Gesù sceglie come icona per se stesso.
Malgrado ciò, il ‘mancato contadino’ di Nazareth non atti-ra l’attenzione su di sé ed evidenzia invece il legame con il Padre e i discepoli, indicati ri-spettivamente come il vignaiolo e i tralci (vv.
1.5).
E il primo aspetto che si coglie ed emer-ge con prepotenza dal testo è proprio che Gesù non riesce a pensarsi senza il Padre: la sua è un’esistenza in comunione.
Il primo pensiero va, con riconoscenza, a chi lo ha inviato, da cui si sente amato, nutrito e custodito profondamente! Ma senza soluzione di continuità, Gesù parla immediatamente anche dei discepoli.
Se è stretto il rapporto tra vite e vignaio-lo, come si potrebbe definire quello tra vite e tralci? Dove inizia uno e dove finiscono gli altri? Sono inscindibili, è impossibile stabilire un confine netto e preciso.
Se è pertanto vero che Gesù non riesce a pensarsi senza il Padre, è ancor più vero per quel che riguarda il rapporto con i discepoli! La vite è pianta estremamente rigogliosa, con una forza vitale esuberante: si potrebbe dire che non può contenere l’energia di cui è portatrice! Non porta frutto immediatamente, a volte chiede anni di attesa perché possa ‘figliare’ grappoli di qualità.
Nello scorrere del tempo ciò che rischia di degenerarsi, di scadere è proprio la circolazione della linfa – fuor di metafora, la parola di Gesù (cfr.
v.
3) – verso le parti più periferiche della pianta.
Non che la vite non ne produca più; no: la Parola mantiene la sua forza inalterata nel succedersi delle stagioni.
Può invece avvenire che i tralci, i discepoli, desiderino splendere di luce propria, distanziarsi dalla fonte originaria, ricercare altre fonti di nutrimento.
I risultati so-no immediati: mancanza dei frutti, dei rigogliosi acini e tristissima morte…
«Chi non rima-ne in me viene gettato via, si secca: lo raccolgono, lo gettano nel fuoco, lo bruciano» (v.
6).
Tutta la parte centrale del nostro brano è quindi un’accorata supplica affinché non venga interrotto il vincolo nutritivo, essenziale proprio come il cibo, tra vite e tralci, tra Gesù e discepoli.
«Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così an-che voi se non rimanete in me» (v.
4).
A una prima impressione, queste parole di Gesù po-trebbero apparire una umiliante forma di autoritarismo, addirittura di schiavismo: «Senza di me non potete far nulla» (v.
5).
In fondo, un modo per mantenere le persone in uno sta-to di dipendenza e infantilismo deprimente.
Invece è sorprendente l’umiltà di questa vite: riceve la vita dal Padre, non la trattiene – questo è l’amore puro: ricevere senza nulla inca-merare! – e comunica questa stessa vita ai tralci, che hanno la possibilità e la gioia di vede-re fiorire la propria esistenza e, ancor più, di nutrire, di dare la vita a loro volta! Il ‘merito’ viene lasciato tutto ai tralci! Accade quel che spesso succede nelle squadre di calcio: se la squadra vince, sono bravi i giocatori, se la squadra perde, la colpa è dell’allenatore…
Que-sto è lo stile di Gesù, che rifugge da ogni ‘glorificazione’ ma non può esimersi dall’attestare il proprio ruolo discreto eppur fondamentale: ne va della vita dei suoi discepoli! Tutt’al più la gloria può essere imputata al vignaiolo, al Padre…
(cfr.
v.
8).
Ma lui è nella gioia quando i suoi figli «rimangono e portano frutto» (v.
5).
Chi rimane, chi non rompe il legame, chi continua ad ascoltare la Parola di vita entrerà in un rapporto così profondo con il Padre da riuscire a penetrare nel mistero della sua vo-lontà e in essa trovare gioia.
Effettivamente, quando si conosce il desiderio dell’amato, lo si riempie di gioia domandandogli di poter collaborare alla realizzazione dei suoi stessi de-sideri: come potrebbe costui rifiutarsi, negare aiuto? «Chiedete quel che volete e vi sarà da-to» (v.
7).
Il desiderio del discepolo coincide con quello del Padre.
Ma per arrivare a tal punto bisogna entrare anche nel mistero della potatura dei tralci, dal momento che per po-tersi rinnovare viene chiesto di recidere quanto si distanzia dal piano di Dio.
Il nostro bra-no, allora, se è un’esortazione alla fedeltà e alla sapienza, se aiuta a visualizzare simboli-camente il compimento felice dell’esistenza dei discepoli, ricorda come la vita passa attra-verso la potatura della Pasqua, sulla scia del cammino di Gesù, per dare «più frutto» (v 2).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54 – C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
Io sarò vigna Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.
Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: «Dallo stesso potere che ti abbat-te io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, conse-gnerà me in mani più potenti.
Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo».
E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: «I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio re-spiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni».
E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custo-dito in vasi eterni ».
E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.
(K.
GIBRAN, Il Profeta).
Curare la vigna è come curare la vita Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, al-l’andata come al ritorno, dovevo camminare mezz’ora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche.
Cosi ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle.
La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno sco-stato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.
D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ri-bellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persi-no il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino.
Eppure, anche in questa stagione mor-ta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di pota-tura che richiede un affinato discernimento.
Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per a-vere il meglio possibile.
Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo ar-rossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro oc-chi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fe-condo.
E li, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio li, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande.
Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della sta-gione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi par-lando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).
Senza di me non potete far nulla Il Signore prosegue: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me» (Gv 15,4).
[…] Chi si illude di poter por-tare frutto da sé stesso, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo non è cristiano.
Ecco in quale profondo abisso siete precipitati.
Ma con-siderate ancor più attentamente ciò che aggiunge e afferma la Verità: «Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5).
Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce «molto frutto», non dice: perché senza di me potete fare poco, ma: «senza di me non potete far nulla».
Tanto il poco che il molto, non si può comunque farlo senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla.
Anche quando il tralcio produce poco frutto, infatti, il viticoltore lo monda affin-ché produca di più; tuttavia se il tralcio non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto.
[…] «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7).
Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i cristiani se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere rimanendo nel Salvatore, se non ciò che tende alla salvezza? […] Le parole del Signore rimangono in noi, quando facciamo tutto quanto egli ha ordinato e desideria-mo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma non si trovano realizzate nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attin-ge vita dalla radice.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 81,2-4, NBA XXIV, pp.
1240-1244).
Solo Gesù può liberarmi totalmente Nel Nuovo Testamento la presenza di Gesù con le sue parole e i suoi gesti diviene una fonte inesauribile d’ispirazione per la preghiera: è Gesù che mi si accosta e m’interpella.
Gesù è il Buon Pastore alla ricerca della pecora smarrita, e io lo seguo.
Gesù è la vigna; Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati perché io possa dare buoni frutti.
Alla moltiplicazione dei pani, è Gesù che m’invita a offrirgli la mia povertà – cinque pani e due pesci – perché egli se ne serva per compiere meraviglie.
Alla pesca miracolosa, è Gesù che mi chiede una fiducia assoluta nella sua parola più che nei miei mezzi umani.
In occasione di numerose guarigioni, Gesù mi rammenta che lui solo può liberarmi totalmente.
(Jean -Jacques Gareau).
Aumenta la nostra fede «Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un do-no elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5).
Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro deci-sione, ma credevano di riceverla in dono da Dio.
Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insuf-ficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32).
Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24).
I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non spe-ravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro.
E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidia-no del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita di-chiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può por-tare frutti spirituali.
Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e di-scende dal Padre della luce” (Gc 1,17).
(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp.
160-161).
Preghiera O Padre, celeste vignaiolo che hai piantato sulla nostra terra la tua vite scelta – il santo germoglio della stirpe di David – e compi il tuo lavoro in ogni stagione.
Fa’ che accettiamo le potature di primavera, anche se, teneri tralci, gemiamo trasudan-do lacrime sotto i colpi decisi delle tue cesoie.
Vieni pure a mondarci nel culmine della stagione estiva, perché i viticci superflui non sottraggano linfa vitale al grappolo che deve maturare.
Frutto della nostra vita sia l’amore, quel «più grande amore» che dal tuo cuore, attraverso il cuore di Cristo, con flusso inesauribile si riversa in noi.
E tutti gli uomini, fratelli nostri nel tuo nome, ne siano ricolmati, con spirito di dolcezza, di gioia e di pace.

VI Domenica di Pasqua Anno B

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 4,8-12 In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risusci-tato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.
Questo Ge-sù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo.
In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».
Il testo è il terzo discorso cristologico «di» Pietro negli Atti (cf.
2,14-36; 3,12-26).
Egli sta parlando proprio negli atri del Tempio (portico di Salomone) dopo aver ridato, «nel nome di Gesù il Nazareno» la salute a uno storpio.
Nonostante la sua fine ignominiosa sulla croce, Gesù è risuscitato dai morti.
Pietro e Giovanni si arrogavano un diritto, quello di parlare dentro il recinto sacro, che non avevano, facendo pure affermazioni false, almeno dubbie, sulla risurrezione di un condannato a morte.
Per questo le autorità intervengono: «i sacerdoti, il capitano del tem-pio, i sadducei» (4,1).
Questi ultimi fanno parte del partito dominante, ma intervengono soprattutto perché offesi nelle loro convinzioni dottrinali.
Essi non ammettevano la risur-rezione dei morti (cf.
At 23,8; Mt 22,23).
I due apostoli sono messi in prigione e il processo è rimandato al giorno dopo, debbono rispondere del loro potere taumaturgico.
In genere i prodigi si operavano in nome di Dio, ma ci si poteva avvalere anche di forze avverse a lui.
Gesù era stato accusato di compiere i miracoli in virtù di Beelzebub; potevano essere im-postori anche i suoi discepoli.
La risposta di Pietro, forse meglio la prima apologetica cristiana, è apodittica; il loro po-tere viene da Gesù.
Il «nome» è un ebraismo che sta per la persona.
«Quell’uomo» (2,22) pertanto che essi avevano crocifisso è in grado di operare ancora; vuol dire che è tuttora vivo; è uscito dal regno dei morti; è passato nel mondo della vita, ossia di Dio.
È infatti alla «sua destra» ed è «stato costituito Signore e Cristo», aveva affermato poco prima davanti al popolo (2,24,33,36).
Pietro e Giovanni sono, a detta delle stesse autorità, dei semplici «illetterati», non pos-sono conoscere segrete arti magiche, perciò la guarigione del paralitico non può non essere attribuita che a una potenza superiore che parte sempre da Dio.
Questa era quindi una ri-prova delle rivendicazioni di Gesù.
La sua sconfitta era stata solo apparente.
Egli opera ancora nella storia anche se solo tramite i suoi discepoli.
Il coraggio dei due illetterati che polemizzano con le stesse autorità giudaiche è al di sopra di ogni supposizione.
Occorre che gli interlocutori cambino il loro giudizio su Gesù di Nazaret: invece che un malfattore debbono considerarlo il loro salvatore.
Egli solo è la pietra angolare su cui grava la nuova comunità dei credenti.
Se non si accetta questo rife-rimento e questa subordinazione non si arriva a Dio.
Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-2 Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
L’autore della I lettera di Giovanni richiama un aspetto essenziale dell’identità cristiana, la filiazione da Dio.
Egli non è un teologo e ancor meno un filosofo bensì una guida spiri-tuale che deduce la «filiazione divina» del cristiano dalla comunione di vita e dall’identità di comportamento che riesce ad avere con il Signore.
La «conoscenza» di Dio, è detto al cap.
2,1, quindi il rapporto intimo con lui (senso bi-blico di conoscere), non dipende dalla comprensione della sua realtà ultima, ma dall’ade-guazione dei propri comportamenti con i suoi.
È l’agire come Dio agisce — cioè con quella stessa rettitudine, santità, perfezione — che rivela la somiglianza, la «connaturalità» con lui.
«Da questo sappiamo di conoscerlo (di amarlo), se osserviamo i suoi comandamenti» (2,3).
E aggiunge: «Da ciò conosciamo di essere in lui» (2,5).
Concludendo ribadisce: «Chi dice di dimorare in lui (in Dio) deve comportarsi come lui (Gesù Cristo) si è comportato» (2,5-6).
In fondo vivere cristianamente è ripercorrere fino alla perfezione il cammino di Gesù il quale in tutto ha cercato di attuare il volere del Padre.
Ma il cristiano deve rimanere in comunione con Dio e in unione con Cristo non solo intenzionalmente ma realmente, fa-cendo propria la testimonianza di Cristo che è l’esplicitazione ultima della volontà di Dio.
«Se voi conoscete che egli è giusto anche chi opera la giustizia è da lui (Dio) generato» (2,29).
È l’agire che rivela l’intima natura dell’uomo, in questo caso del cristiano.
Se ci si com-porta come Dio che sa compiere solo il bene a tutti anche a quelli che non lo meritano, si da non solo a vedere ma realmente si dimostra che si hanno i suoi stessi sentimenti, la sua stessa bontà e santità.
«Figlio di Dio» è un appellativo onorifico ma anche oneroso, poiché comporta una scelta operativa che deve mantenersi sulla stessa linea di quella di Dio.
La filiazione è un dono di Dio ma è anche risposta dell’uomo che ha saputo accogliere le mo-zioni dello Spirito e si è lasciato guidare da esse nella sua vita.
Il cristiano che sa fare il bene a chi ne ha bisogno, sino ad amare pure chi lo odia, è vero figlio di Dio perché compie ciò che Dio stesso realizza nel corso del tempo e della storia.
Vangelo: Giovanni 10,11-18 In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore.
Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.
Il mercena-rio – che non è pastore e al quale le pecore non apparten-gono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, co-nosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.
E ho altre pecore che non provengono da que-sto recinto: anche quelle io devo guidare.
Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.
Nessuno me la toglie: io la do da me stesso.
Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo.
Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Esegesi La pericope (Gv 10,11-18) illustra il comportamento di Gesù verso gli uomini.
Esso si contrappone a quello delle guide giudaiche, ma l’evangelista pensa anche a quelle di certe comunità cristiane.
Il confronto che compare altre volte nel libro (cf.
2,13ss; 8,31 ss) inizia al termine del capitolo IX.
Gesù sta parlando con un gruppo di farisei definiti ciechi non per nascita, ma volontari, perché, pur vedendo le opere che il Cristo compie, rifiutano di comprenderne la portata, come dimostra la reazione davanti al miracolo dell’uomo a cui è stata ridonata la vista (9,14).
Non solo non vogliono vedere ma pretendono di imporre come verità la loro men-zogna.
Ritorna il detto: gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce (3,19).
I dirigenti d’Israele sono guide cieche, ma più ancora sono «briganti e ladri» (10,1).
Essi si sono introdotti nell’«atrio», (aulè), il recinto sacro, il tempio, non attraverso la porta, le-gittimamente quindi, ma fraudolentemente, peggio, rubando e uccidendo le persone giu-ste e innocenti che vi si frapponevano.
I ladri sono chiamati tali perché saltano i muri; il vero pastore passa attraverso la porta: è noto al portiere e alle pecore, può chiamarle e condurle al pascolo.
Affinché non ci siano equivoci, l’evangelista scopre l’identità del pastore: «Io sono», proclama solennemente Gesù; ma non uno qualunque, bensì «il pastore per eccellenza» (ho kalòs).
L’espressione dice di più di «buon pastore».
Egli solo realizza l’oracolo di Ez 34,23 («Susciterò per loro un pastore che li pascerà, David mio servo; egli li condurrà al pascolo; sarà il loro pastore»).
Il re-pastore che Israele attende è, nonostante le apparenze e la sua provenienza da un oscuro villaggio della Galilea (Gv 1,42), Gesù il nazareno.
Nella storia d’Israele si sono susseguiti molti pastori, forse anche buoni, ma nessuno merita tale appellativo quanto Gesù, perché nessuno ha svolto compiti pari ai suoi e so-prattutto con la dedizione eguale alla sua.
La specificità del vero pastore è vivere e operare per il bene del gregge, non per la propria esaltazione o per interesse.
In realtà il vero pa-store è a servizio delle pecore e non permette che queste siano a servizio della sua persona (cf.
Ez 34,10).
Il suo contrario è il mandriano che lavora per la mercede, senza affezione e nemmeno tanta attenzione alla sicurezza delle pecore, che pure ha in custodia.
Quelli che prima erano «guide cieche», «briganti e ladri», sono ora designati come «mercenari».
Essi che uccidevano e distruggevano ora lasciano sbranare le pecore dai «lu-pi» che sono in fondo i loro alleati poiché compiono le loro stesse operazioni, disperdere le pecore invece che proteggerle.
Il ragionamento giovanneo avanza, com’è risaputo, per «circoli concentrici».
L’evangeli-sta ha detto il suo pensiero fin dall’inizio del capitolo, ne ha enunciato il tema al v.
11 ; ma vi torna sopra ripetutamente aggiungendovi ulteriori precisazioni.
Gesù è il pastore vero, ideale, perché assolve il suo mandato non tanto per dovere, quanto con dedizione e amore.
Egli infatti ama le pecore che gli sono state affidate.
Il verbo «conoscere» nel linguaggio biblico non è semplice percezione mentale, ma relazione affettiva e fattiva.
È sinonimo di volontà di bene; è amare.
«Nessuno conosce il padre se non il figlio», afferma Gesù nel comma giovanneo di Mt 11,27; nessuno cioè lo ama quanto lui ed è da lui riamato.
Allo stesso modo Gesù dedica le sue energie, e alla fine la sua stessa vita, per le persone alle quali è stato inviato.
Il rapporto che lo lega a Dio è lo stesso che lo porta agli uomini, per questo si tratta di un riferimento autentico, sincero, vero.
«Quel giorno conoscerete, cioè sperimenterete, che io sono nel padre mio; voi in me ed io in voi», affermerà più avanti e-gli stesso (Gv 14,20).
Con Dio non si può fingere quindi non ci può essere inganno nell’a-more di Gesù per l’uomo.
Esso è senza limiti, senza restrizioni, totale, poiché non si arresta neanche davanti al pericolo della vita.
Gesù infatti ha sostenuto la causa dei suoi «fratelli» (cf.
Gv 20,17) contro il potere delle guide cieche, affrontando ladri e banditi con il rischio di rimanere vittima delle loro aggressioni.
Non solo.
Il pericolo né l’ha fatto recedere dai suoi compiti, né ha ristretto l’ambito delle sue operazioni.
Egli più che fermarsi alle pecore perdute della casa d’Israele (Mt 10,6), ri-volge i suoi messaggi e le sue attenzioni a tutti coloro che incontra nel suo cammino, den-tro e fuori i confini della Palestina.
La sua luce si irradia su «ogni uomo» (Gv 1,6), non solo sugli israeliti.
La comunità cristiana è senza frontiere, universale.
I privilegi d’Israele sono caduti una volta per sempre.
Il velo del tempio, direbbe Matteo, è stato strappato da capo a fondo e non può essere più ricucito (27,51).
I seguaci di Gesù, i nuovi credenti, provengono dalle fila del giudaismo, dall’interno del recinto sacro (atrio), ma anche dalle nazioni, poiché pure ad esse appartiene la salvezza.
L’unità di tutti i credenti non sarà più fondata sulla dipendenza a istituti o istituzioni sa-cre, ma dalla comunione che gli uomini avranno tra di loro e con Cristo.
La «voce» di Gesù che tutti egualmente ascolteranno si identifica innanzitutto con le sue proposte, ma anche con il calore con cui le comunica, l’amore con cui le accompagna.
Coloro che l’ascoltano ne rimarranno per questo conquistati e coinvolti, diventando suoi discepoli.
L’ultima ripresa del discorso, il «circolo» conclusivo, allarga ancora una volta il tema i-niziale.
Gesù è stato investito dallo Spirito di Dio per una missione tra gli uomini (Gv 1,32), in concreto ha avvertito in sé i riflessi che l’amore di Dio ha per le sue creature predi-lette e gli ha dato piena accoglienza, non tanto per la sua realizzazione o glorificazione, quanto per il loro bene.
Il dare se stesso è perdere la propria vita, ma non è perdersi, poi-ché la vita data per amore diventa un guadagno (cf.
Fil 1,21; 3,7), un ricupero centuplicato di quanto si è dato (Mt 19,29).
L’amore è libera donazione.
Per questo ciò che Gesù ha compiuto è frutto di una sua personale decisione; nessuno l’ha obbligato, tanto meno costretto; ha fatto solo quello che lo Spirito gli ha suggerito e quello che lui ha «liberamente» voluto.
L’amore di Dio è stato liberamente accolto e liberamente sono state accettate le sue richieste.
Per questo l’opera di Gesù è stata una risposta di amore.
 Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo «Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e of-fro la vita per le pecore» (10,14s).
In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto.
La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore.
La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre.
I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù.
Allora po-tremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro.
Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.
Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo.
Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione em-pirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo.
L’uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio.
Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.
La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comu-nione della conoscenza e dell’amore di Dio.
Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinita-rio.
L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre.
«La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità.
Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre.
Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».
(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).
Gesù, il buon pastore Chi è Gesù? Gesù è il buon pastore.
Siamo invitati dallo stesso Signore a pensarlo così: una figura estremamente amabile, dolce, vicina.
E noi possiamo attribuire soltanto al Si-gnore l’esprimersi con bontà infinita.
Presentandosi in tale aspetto, egli ripete l’invito del pastore: disegna cioè un rapporto che sa di tenerezza e di prodigio.
Conosce le sue peco-relle, e le chiama per nome.
Poiché noi siamo del suo gregge, è agevole la possibilità di corrispondenza che antecede il nostro stesso ricorso a lui.
Egli ci conosce e ci nomina; si avvicina a ciascuno di noi e desidera farci pervenire a una relazione affettuosa, filiale con lui.
La bontà del Signore si palesa qui in maniera su-blime, ineffabile […].
Il Cristo che portiamo all’umanità è il «Figlio dell’uomo», come lui stesso si è chiamato.
È il primogenito, il prototipo della nuova umanità, è il Fratello, il Compagno, l’Amico per eccellenza.
Solo di lui si può dire con piena verità che «conosceva tutto quanto c’è nell’uo-mo» (Gv 2,25).
È l’inviato da Dio, non per condannare il mondo, ma per salvarlo.
È il buon pastore dell’umanità.
Non c’è valore umano che non abbia rispettato, innalzato e riscattato.
Non c’è sofferenza umana che non abbia compresa, condivisa e valorizzata.
Non c’è biso-gno umano – fatta eccezione delle imperfezioni umane – che non abbia assunto e provato lui stesso e proposto alla inventiva e alla generosità degli altri uomini come oggetto della loro sollecitudine e del loro amore, per così dire come condizione della loro salvezza.
(PAOLO VI, Discorso del 28 aprile 1968).
Il Pastore ucciso come pecora Volgiamo gli occhi al nostro pastore, il Cristo.
Vediamo il suo amore che con la sua mi-tezza vince l’indolenza delle pecore.
Gioisce delle pecore che lo circondano, cerca quelle che si smarriscono.
Non rifiuta di percorrere monti e foreste, attraversa precipizi, è accanto a quella che vagabonda e se la trova affaticata, non la odia a motivo del suo comportamen-to, ma è mosso a compassione dal suo patire e, presala sulle spalle, cura la fatica della pe-cora con la propria fatica.
E gioisce della propria fatica, perché ha trovato le pecore e gua-risce le loro fatiche.
«Chi se ha cento pecore e ne ha perduta una, non lascia le novantano-ve nel deserto e non va a cercare la perduta finché la trova?» (Lc 15,4).
La perdita di una sola pecora turba la gioia di quelle al sicuro, e la tristezza di una sola minaccia la gioia di tutte.
[…] Ma se il pastore «la trova, la prende sulle sue spalle con gioia» (Gv 10,11) «ed, en-trato nella casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (Lc 15,6)».
[…] «Io sono il buon pastore.
Il buon pastore depone la propria vita per le pecore» (Gv 10,11).
Pilato ha visto questo pastore, gli ebrei lo hanno visto, condotto alla croce per il suo gregge, come annunciava il coro dei profeti: «Come un agnello è condotto al macello, co-me pecora muta davanti ai tosatori, non ha aperto la sua bocca» (Is 53,7).
Il Pastore è ucciso come pecora per le pecore, non oppone resistenza al patire, non fugge il giudizio, non re-spinge quelli che lo mettono in croce.
Non ha subito la passione, ma volontariamente ha accolto la morte per le pecore.
«Ho il potere di dare la mia vita e di riprenderla di nuovo» (Gv 10,18).
Distrugge la passione con la sua passione, la morte con la sua morte; con la sua tomba apre le tombe, smuove i chiavistelli degli inferi.
La morte ha potere fino a quando Cristo ha accolto la morte; fino ad allora i sepolcri sono chiusi pesantemente e la prigionia non ha soluzione, fino a quando il Pastore scende e annuncia alle pecore in potere della morte la liberazione.
Appare agli inferi e dà l’ordine di uscire.
Appare e rinnova l’appello alla vita.
«Il buon pastore dà la vita per le pecore»; così cerca di essere amato dalle pecore.
Ama Cristo chi ascolta attentamente la sua voce.
(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia 26, PG 85,304A-308A).
Il prete piccolo e grande Un prete dev’essere contemporaneamente piccolo e grande, nobile di spirito come di sangue reale, semplice e naturale come di ceppo contadino, una sorgente di santificazione, un peccatore che Dio ha perdonato, un servitore per i timidi e i deboli, che non s’abbassa davanti ai potenti ma si curva davanti ai poveri, discepolo del suo Signore, capo del suo gregge, un mendicante dalle mani largamente aperte, una madre per confortare i malati, con la saggezza dell’età e la fiducia d’un bambino, teso verso l’alto, i piedi sulla terra, fatto per la gioia, esperto del soffrire, lontano da ogni invidia, lungimirante, che parla con franchezza, un amico della pace, un nemico dell’inerzia, fedele per sempre…
Così differente da me! (Anonimo).
Salmo 23 O Dio, che hai regalato al mondo e alle chiese tanti buoni pastori, tante donne e tanti uomini che vivono la loro funzione come servizio di amore, noi Ti ringraziamo per la testimonian-za che ci hai dato mediante Gesù, il buon pastore.
Ma, soprattutto, noi ci rivolgiamo a Te sapendo che le Scritture fanno di Te non solo il pastore buono ed amorevole, ma l’unico pastore a cui possiamo affidare le nostre esisten-ze.
Così ti preghiamo: Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome.
Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo.
Il mio calice trabocca.
Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni.
Grande è il tuo amore, o Dio! Tu vuoi aver bisogno di uomini per farti conoscere agli uomini, e così leghi la tua azione e la tua parola divine all’agire e al parlare di persone né perfette né migliori degli altri.
Grande è il tuo amore, o Dio! Non hai timore della nostra fragilità e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo, perché fosse nostra la tua vita che guarisce ogni male.
Grande è il tuo amore, o Dio! Ancora rinnovi la tua alleanza grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita, a chi pronuncia le parole del perdono, a chi fa risuonare annunci di vangelo, a chi si fa servo dei fratelli, testimoni del tuo amore infinito che rendono visibile il Regno.
Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone non vengano mai meno!  Tra le similitudini presenti nel quarto vangelo e attraverso le quali ci viene rivelato il mistero di Cristo, certamente quella del pastore buono (alla lettera o kalòs, «quello bello») comunica una ricchezza di sfumature sorprendenti.
È una immagine che si radica su di una lunga tradizione biblica e, nello stesso tempo, si muove all’interno di un contesto fa-miliare, quotidiano, almeno per una società nomade come era quella ebraica.
Collocata nel periodo pasquale (la quarta domenica è detta appunto del Buon Pastore), la pericope di Gv 10,1-18 ci offre una sintesi illuminante del mistero di morte e resurrezione di Cristo: Gesù è il pastore buono perché «da la propria vita per le pecore» (10,11); lui «ha il potere di dar-la e il potere di riprenderla di nuovo» (10,18).
Concludendo il suo scritto, l’autore della let-tera agli Ebrei riprende questa immagine in prospettiva pasquale: «il Dio della pace, che ha ricondotto dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di una alleanza eterna, il Signore nostro Gesù, vi renda perfetti in ogni bene» (Eb 13,20).
Anzitutto, ciò che desta stupore nella modalità con cui Gesù si autopresenta attraverso l’immagine del pastore, è l’esclusività di questo ruolo: io sono (espressione che introduce altre immagini giovannee).
Gesù è l’unico pastore veramente buono, anzi è il pastore, colui che annunciavano i profeti.
Infatti nei testi di Is 40,11, Ez 34,1-18, Ger 23,1-4, il Pastore è il Dio provvidente che guida la storia umana, che è attento alle sorti dell’uomo per trarlo fuori da un regno di tenebre e condurlo in un luogo di luce e di pace (cfr.
anche il Sal23); è il Dio che guida il suo popolo, che non sopporta pastori che pascono se stessi, non si cu-rano del gregge e lo disperdono; è il Dio che raduna con il suo braccio il gregge e che «por-ta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11).
Queste stupen-de immagini usate dai profeti per esprimere la grandezza e la tenerezza dell’amore di Dio, la conoscenza reciproca e la comunione di vita tra Dio e il suo popolo, trovano il loro com-pimento in colui che si definisce il pastore bello.
Parlando davanti al sinedrio, Pietro, defi-nendo Gesù la pietra d’angolo, potrà dire: «in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12).
Notiamo inoltre che l’aggettivo kalòs, «bello», esprime proprio la qualità di questo pastore, qualità che risponde pienamente alla sua funzione.
E dove sta la bellezza di questo pasto-re? Dove sta la sua bontà? Potremmo dire, semplicemente, nel dono di sé.
Giovanni svi-luppa questa caratteristica del pastore attraverso varie sfumature e tutte mettono il pastore in relazione con le pecore: la comunione di vita e la conoscenza reciproca, il dono della vi-ta, l’unità del gregge.
Anzitutto Gesù è il pastore che «dona la vita per le pecore» (10,11; alla lettera: pone la vita, la mette a repentaglio per qualcun altro).
E questo l’impegno radicale del pastore buono, il gesto della sua dedizione incondizionata, potremmo quasi dire il livello dell’agape di Dio.
«Gesù – come nota Léon-Dufour – non si aggrappa alla sua propria vita, egli non la riduce a una cosa posseduta, ma se ne espropria incessantemente.
La morte non è soltanto di fronte a lui, essa è dentro, è familiare».
Ed è un dono che è insieme libertà e obbedienza: «io la do da me stesso…
questo comando l’ho ricevuto dal Padre mio» (10,18).
Apparente-mente paradossale, questo rapporto tra libertà e obbedienza esprime in profondità la per-fetta unità di azione tra il Padre e il Figlio, la piena comunione (è la stessa prospettiva che domina l’intero racconto della passione, sino al «tutto è compiuto» pronunciato sulla cro-ce).
Ma Gesù è il pastore che «conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui» (10,14).
Il dono di sé del pastore bello esprime e attua quella profonda relazione di conoscenza che esiste tra lui e le sue pecore.
È una conoscenza di amore, personale, irrepetibile; essa permette di penetrare il mistero di ognuno (cfr.
10,3), di riconoscersi reciprocamente attraverso il tim-bro della voce (cfr.
10,4).
Ma questa conoscenza ha un modello e una fonte: è la comunione di vita, quel rapporto di totale appartenenza tra Gesù e il Padre (cfr.
10,19).
E infine Gesù è il pastore buono perché il suo amore non è selettivo e discriminante.
Anzi è sen-za confini: «ho altre pecore che non provengono da questo recinto; anche quelle io devo guidare» (10,16).
Il gregge che il pastore buono guida non ha un numero chiuso: è aperto, in esso non ci sono distinzioni.
Nel cuore di questo pastore buono abita un’unica preoccu-pazione: salvare ogni pecora, ricondurla all’unità dal luogo della dispersione.
Il dono della vita di Gesù ha dunque come obbiettivo e risultato effettivo la raccolta nell’unità dei di-spersi (cfr.
Gv 11,52): «diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (10,16).
Contemplando questa icona giovannea, viene quasi spontaneo reagire con le parole di 1Gv 3,1: «vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per esser chiamati figli di Dio e lo siamo realmente».
Questa intima relazione tra il pastore bello – Gesù, il Figlio – e le pecore – noi, i discepoli – è la via che ci conduce nel cuore stesso di Dio: ci rende figli nel Figlio.
Ora sta a noi seguire questo pastore buono, accorgersi, nei momenti di smarrimento, del suo sguardo pieno di compassione che ci raccoglie nell’unità; sta a noi imparare a ricono-scere la sua voce, ascoltando ogni giorno la sua parola che chiama alla vita; sta a noi la-sciarci docilmente condurre per il giusto cammino (cfr.
Sal 23) lì dove è preparata una mensa, lì dove c’è il pane e il vino della condivisione.
La sua voce chiama alla vita, cioè ci chiama a uscire da ogni luogo di morte.
Colui che «ci guida per il giusto cammino» ci con-duce fuori, cioè ci fa crescere, ci educa, ci apre orizzonti sempre nuovi; ci strappa a ogni si-tuazione che rischia di chiuderci in noi stessi, in un luogo infecondo e sterile; ci porta al luogo della vita e di una vita data in abbondanza.

III Domenica di Pasqua Anno B

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
Sulle tracce di Gesù II punto cruciale di questo cammino sta nel riconoscere che il Gesù risorto, che compie i desideri dell’uomo, è ancora il Gesù crocifisso, che ha affidato al Padre il compimento dei propri desideri.
Ha uniformato la propria volontà alla volontà del Padre.
Ha accettato di perdere la propria vita sulla croce, per compiere la missione di proclamare all’uomo pecca-tore e separato da Dio che il Padre non lo abbandona al fallimento, non lo rifiuta anche se è rifiutato; anzi gli dona il proprio Figlio, per mostrare che neppure il peccato impedisce a Dio di amare l’uomo e di attirarlo a sé in un gesto di perdono, che vince il peccato e la morte.
Tutto questo è implicitamente contenuto nel grido del discepolo prediletto, che rompe il silenzio del mattino: «E il Signore» (Gv 21,7).
Questa espressione, infatti, rievoca le pro-fessioni di fede della Chiesa primitiva.
Gesù, che si è umiliato nella morte, in obbedienza al Padre e per amore degli uomini, è stato glorificato dal Padre ed è stato proclamato Si-gnore, cioè colui che reca pienamente in sé la forza d’amore e di salvezza che è propria di Dio stesso.
Gesù manifesta la sua capacità e volontà di comunicare agli uomini l’amore salvifico del Padre anche attraverso un gesto simbolico.
Egli mangia con i discepoli.
L’umile, quotidiano gesto del mangiare è ricco di potenzialità espressive.
Può prestarsi a esprimere la comunicazione di beni sempre più grandi e misteriosi, che approfondiscono il bene fisico del cibo e il bene psicologico della conversazione, scambiati durante il pasto comune.
Gesù assume questo gesto umano e lo carica di prodigiose potenzialità.
Il pasto descrit-to nel cap.
21 di Giovanni non risulta essere un convito propriamente eucaristico.
Rievoca però il convito di Jahvè col popolo degli ultimi tempi, annunciato nell’Antico Testamento.
Si ricollega ai conviti messianici fatti da Gesù con i discepoli o con le folle.
Allude all’ulti-ma cena o ad altri conviti di Gesù risorto, che hanno caratteri più propriamente e chiara-mente eucaristici e comportano quindi il trapasso del generico simbolismo conviviale nella reale comunione col Signore, che si rende presente trasformando il pane e il vino nella vita e misteriosa realtà del corpo donato e del sangue versato.
(C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsa-mo, San Paolo, 2009, 258-259).
E’ il Signore! E’ l’acclamazione pasquale, è una parola che contiene tutto.
Il Signore è Colui che possiede la tua vita e te la vuole far vivere al centuplo; Colui che ha un progetto per te, che ti conduce a esprimere pienamente te stesso; Colui che è la somma di tutte le cose desiderabili; Colui che chiarisce, dipana, ordina, purifica, soddisfa tutti i tuoi desideri più profondi.
E’ il Signore della vita, della storia, della mia vicenda personale.
E’ il Signore della mia famiglia, della scuola, della società.
E’ Colui nel quale tutto trova il senso.
E’ Colui che è capace di dare a tutto un progetto ed una prospettiva.
(dagli Scritti del Card.
C.M.
Martini).
Aprire gli occhi Chi aprirà i nostri occhi ostinatamente chiusi per evitare di vedere la miseria agitarsi alla nostra porta? Chi aprirà i nostri occhi ostinatamente tappati per evitare di guardare faccia a faccia il prossimo che ci viene incontro? Chi aprirà i nostri occhi ostinatamente velati per evitare di essere abbagliati dalla presenza di Cristo con il suo vangelo esigente? Chi aprirà i nostri occhi per riconoscere lo Spirito di Dio all’opera sui molteplici cantieri dove l’umanità si rinnova? Chi aprirà i nostri occhi per riconoscere il seme che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata? La pace sia con voi! Di ritorno dagli inferi, Cristo per donare la pace al mondo esclama: «La pace sia con voi! I discepoli parlavano ancora, quando Gesù stette in mezzo a loro e disse loro: La pace sia con voi!».
Giustamente dice: «con voi», perché la terra si era già consolidata, il giorno era ritornato, il sole aveva ripreso il suo splendore e il mondo aveva ritrovato il suo ordine e la coesione.
Ma presso i discepoli la guerra infuriava ancora; fede e mancanza di fede si combattevano violentemente.
Il turbamento della passione non aveva scosso il loro cuore quanto la terra; credulità e incredulità devastavano il loro animo con una guerra senza tregua; schiere di pensieri assediavano la loro mente e sotto i colpi della disperazione e della speranza il loro cuore si spezzava, nonostante la sua forza.
I sentimenti e i pensieri dei discepoli erano divisi tra gli innumerevoli miracoli che rivelano Cristo e le molteplici umiliazioni della sua morte, tra i segni della sua divinità e le debolezze della carne, tra l’orrore della sua morte e le grazie della sua vita.
Ora il loro spirito veniva portato in cielo, ora le loro anime ricadevano a terra; e nel loro cuore in cui infuriava la tempesta non tro-vavano alcun porto tranquillo, nessun luogo di pace.
Al veder questo, Cristo che scruta i cuori, che comanda ai venti, governa le tempeste e con un semplice segno muta la tempe-sta in un cielo sereno, li conferma con la sua pace, dicendo: «La pace sia con voi! Sono io; non temete.
Sono io, il morto e sepolto.
Sono io.
Per me Dio, per voi uomo.
Sono io.
Non uno spirito rivestito di un corpo, ma verità stessa fatta uomo.
Sono io.
Sono io, vivente tra i morti, celeste al cuore degli inferi.
Sono io, che la morte ha fuggito, che gli inferi hanno temuto.
Gli inferi mi hanno proclamato Dio, nel loro spavento.
Non temere Pietro, che mi hai rinnegato, ne tu, Giovanni, che sei fuggito, ne tutti voi che mi avete abbandonato, che avete pensato a tradirmi, che non credete ancora in me, anche se mi vedete.
Non temete, sono io.
Sono io, vi ho chiamati per grazia, vi ho scelti perdonandovi, vi ho sostenuto con la mia compassione, vi ho portato nel mio amore e oggi vi accolgo per mia sola bontà, per-ché il Padre non vede più il male quando accoglie suo figlio».
(PIETRO CRISOLOGO, Discorso 81, PL 52, 428A-D).
Andremo alla casa del Signore Mi rallegrai quando mi dissero: «Andremo alla casa del Signore».
E ora i nostri piedi sono nell’interno delle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme costruita come città, in sé ben compatta! Là salivano le tribù, le tribù del Signore, secondo il precetto dato a Israele di lodarvi il nome del Signore.
Sì, là s’ergevano i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide.
Augurate la pace a Gerusalemme: vivano in prosperità quanti ti amano! Sia pace fra le tue mura, prosperità fra i tuoi palazzi.
Per amore dei miei fratelli e amici dirò: Sia pace in te! Per amore della casa del Signore, nostro Dio, chiederò: Sia bene per te! (Salmo 121).
L’anima soffre e anela al Signore Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.
Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ric-chezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indiffe-renza hanno murato gli uomini vivi.
Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.
Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.
E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.
(Don Tonino Bello).
Preghiera O Signore, Signore risorto, luce del mondo, a te sia ogni onore e gloria! Questo giorno, così pieno della tua presenza, della tua gioia, della tua pace, è davvero il tuo giorno! Sono appena rientrato da una passeggiata attraverso l’oscurità dei boschi.
Era freddo e ventoso, ma tutto parlava di te.
Ogni cosa: le nuvole, gli alberi, l’erba umida, la valle con le sue luci lontane, il rumore del vento.
Parlavano tutti della tua risurrezione: tutti mi rende-vano consapevole che ogni cosa è davvero buona.
In te tutto è creato buono e da te tutta la creazione è rinnovata e portata a una gloria persino più grande di quella posseduta al principio.
Camminando nell’oscurità dei boschi alla fine di questa giornata piena di intima gioia, ti ho sentito chiamare Maria Maddalena per nome e dalla riva del lago ti ho sentito gridare ai tuoi amici di gettare le reti.
Ti ho anche visto entrare nella sala con la porta serrata dove i tuoi discepoli erano radunati pieni di paura.
Ti ho visto apparire sul monte così come nei dintorni del villaggio.
Quanto sono veramente intimi questi eventi: sono come favori spe-ciali fatti a cari amici.
Non sono stati fatti per impressionare o sopraffare qualcuno, ma semplicemente per mostrare che il tuo amore è più forte della morte.
O Signore, ora so che è nel silenzio, in un momento tranquillo, in un angolo dimentica-to che tu m’incontrerai, mi chiamerai per nome e mi dirai una parola di pace.
E nell’ora della maggiore quiete che tu diventi per me il Signore risorto.
O Signore, sono così riconoscente per tutto quello che mi hai dato nella settimana tra-scorsa! Rimani con me nei giorni che verranno.
Benedici tutti quelli che soffrono in questo mondo e dona pace alla tua gente, che hai tanto amato da dare la vita per lei.
Amen.
(J.M.
NOUWEN, Preghiere dal silenzio, in ID., La sola cosa necessaria Vivere una vita di pre-ghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 242-243).
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 3,13-15.17-19 In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete con-segnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassi-no.
Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo te-stimoni.
Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi.
Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire.
Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».
Questo brano fa parte della catechesi su Gesù che Pietro rivolge ai suoi uditori di origi-ne ebraica.
L’autore degli Atti degli apostoli ha raccolto questa catechesi in una serie di «discorsi» e li ha collocati nella prima parte della sua opera (capitoli 2-4).
È importante sot-tolineare gli elementi che caratterizzano questa catechesi.
Innanzitutto emerge la continuità tra l’agire di Dio nell’Antico Testamento e ora nella risurrezione di Gesù: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri pa-dri ha glorificato il suo servo Gesù».
La risurrezione di Gesù non va considerata come un cor-po estraneo nella Bibbia.
Essa si inserisce pienamente nel progetto di salvezza che Dio ha pensato per l’uomo, un progetto che passa misteriosamente attraverso la croce e culmina nella gloria della Pasqua.
Questo progetto era già anticipato nei «Canti del Servo sofferen-te del Signore» (vedi Is 42; 49; 52-53), nei quali si delineava chiaramente la «logica» di Dio: il Servo sofferente sarebbe divenuto il Messia glorificato, grazie all’intervento decisivo di JHWH.
Ai suoi uditori, che conoscevano bene la Bibbia, Pietro propone questa «logica», ricorrendo alla stessa terminologia di Isaia: «Dio ha glorificato il suo Servo Gesù».
L’entrare in questa «logica» esige però un cambiamento di mentalità e una conversione nei confronti di Gesù.
L’espressione «io so che voi avete agito per ignoranza» vuole sottolinea-re quanto sia difficile comprendere la vita, la morte e la risurrezione di Gesù nella «logica» che è propria di Dio.
Il termine «ignoranza» (in greco, àghnoia) indica la difficoltà di com-prendere in questo modo tutta la vicenda di Gesù.
Questa «ignoranza» è da collocare alla base del processo condotto contro Gesù: «Voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato…
avete rinnegato il Santo e il Giusto…
Avete ucciso l’autore della vita».
Infatti nessuno era stato in grado di comprendere il progetto di salvezza di Dio, che doveva passare attraverso la cro-ce e la sofferenza.
Solo dopo la risurrezione di Gesù, gli apostoli vengono illuminati e comprendono in pienezza l’agire di Dio.
La predicazione di Pietro e degli altri apostoli, te-stimoni della misteriosa «logica» di Dio, offre la possibilità di convertirsi al progetto di Di-o, portato a compimento da Gesù in un modo e in una forma che la mentalità degli uomini non è riuscita a comprendere.
Seconda lettura: 1Giovanni 2,1-5 Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha pecca-to, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto.
È lui la vittima di e-spiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.
Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti.
Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità.
Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfet-to.
Questo breve brano presenta una nuova esortazione per il cristiano, che è quella di os-servare i comandamenti.
Precedentemente l’autore aveva esortato i destinatari del suo scritto a pentirsi dei peccati e a riconoscerli davanti a Dio, per entrare nella pienezza della salvezza offerta da Gesù.
A queste esortazioni seguiranno quelle di guardarsi dal «mon-do» (inteso come tutto ciò che si oppone al vangelo) e dagli «anticristi» (il riferimento è ad alcune eresie che già hanno preso piede nella comunità cristiana a cui scrive Giovanni).
«Abbiamo un Paràclito presso il Padre»: il termine greco paràkletos («avvocato», «interces-sore», «consolatore») è caratteristico di Giovanni, che lo riferisce allo Spirito Santo (vedi i seguenti testi del suo vangelo: 14,16.26; 15,26; 16,7) e, in questo passo della prima lettera, a Gesù.
Esso designa una persona amica, che sta vicino a chi è accusato e condotto in tribu-nale (il verbo greco parakalèo significa anche: «chiamare accanto») e ne sostiene le ragioni o ne mitiga la sentenza, qualora questa risultasse sfavorevole.
«Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo»: il verbo «conoscere» va inteso nel suo significato globale, come è usato nella Bibbia.
Questo è il verbo che signi-fica sapere chi è Dio e ciò che egli vuole.
Significa conoscere il modo di porsi di Dio nei confronti dell’uomo e significa l’imitazione di questo stesso comportamento di Dio da par-te dell’uomo.
Non è quindi un verbo puramente astratto, teorico, ma è un verbo con una forte accentuazione pratica ed etica.
Il richiamo all’osservanza dei comandamenti è motivato dal fatto che l’eresia gnostica — sviluppatasi all’epoca di questo scritto — sosteneva che la salvezza dell’uomo era possibile solo attraverso la conoscenza teorica di Dio (ma senza alcuna implicanza etica).
Questa co-noscenza — chiamata con il termine greco ghnòsis — portava a considerare il corpo del-l’uomo, con le sue passioni e i suoi peccati, come irrilevante nel conseguimento della sal-vezza.
Ciò significava un totale disinteresse per la morale, che per il cristiano non è tanto un insieme di leggi o di divieti, quanto piuttosto la conoscenza della volontà di Dio e il conformarsi ad essa, compiendola ogni giorno.
Infatti per il cristiano non vi può essere se-parazione tra anima e corpo, tra conoscenza di Dio e pratica cristiana, tra religione e mora-le, tra vangelo e vita quotidiana.
Vangelo: Luca 24,35-48 In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Un-dici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano ri-conosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Ge-sù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!».
Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma.
Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho».
Di-cendo questo, mostrò loro le mani e i piedi.
Ma poiché per la gioia non credevano an-cora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?».
Gli of-frirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi».
Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Ge-rusalemme.
Di questo voi siete testimoni».
Esegesi Il brano proposto conclude l’episodio che ha come protagonisti i due discepoli di Em-maus, e contiene un nuovo racconto di apparizioni, che gli esegeti chiamano «apparizione di riconoscimento».
Mediante alcuni segni/gesti che Gesù compie — come il mangiare, il lasciarsi toccare, il mostrare le mani e i piedi —, egli vuole eliminare negli apostoli il so-spetto che si tratti della visione dello spirito di un morto («un fantasma»), vanificando così l’esperienza più vera della Pasqua.
Per i cristiani che provenivano dall’ambiente greco, infatti, era comune credenza che lo spirito vivesse separato dal corpo dopo la morte.
Era perciò necessario precisare che Gesù risorto non è uno spirito senza corpo e che non appartiene più al regno dei morti, come gli spiriti.
Per questo, nel racconto di apparizione, si insiste sul vedere, mangiare, toccare.
Ma anche l’ambiente ebraico incontrava grandi difficoltà nel comprendere e nell’accetta-re la risurrezione di Gesù.
Accettarla significava, infatti, che ormai si era davanti all’inter-vento definitivo di JHWH nella storia, che erano iniziati gli ultimi tempi e che ormai erano giunti il mondo nuovo, il Regno di Dio e la risurrezione finale e definitiva, promessa dai profeti (vedi Ezechiele).
Per questo l’evangelista colloca l’evento della Pasqua di Gesù nel-l’insieme delle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il ter-zo giorno».
«Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma»: lo spavento ha origine dal fat-to che Gesù appare all’improvviso.
Il termine «fantasma» traduce il greco pneuma («spiri-to»).
Secondo la concezione greca, dopo la morte lo spirito era separato dal corpo e non si riuniva più ad esso.
Nella concezione cristiana, invece, corpo e spirito costituiscono la per-sona, e la risurrezione fa di questo nostro corpo non un fantasma, ma un corpo «glorioso», «glorificato», come quello di Gesù.
«Lo prese e lo mangiò davanti a loro»: con questa frase, più che insistere sulla realtà incon-fondibile del corpo di Gesù, l’evangelista vuole evidenziare la vittoria di Gesù sulla morte, simboleggiata dalla rinnovata partecipazione alla mensa con i suoi discepoli, come avve-niva prima della morte.
L’espressione «davanti a loro» (in greco, enòpion autòn) si potrebbe tradurre anche: «a mensa con loro».
È un’espressione che ricorre anche in Lc 13,26: «Ab-biamo mangiato e bevuto in tua presenza (in greco, enòpion sou, «alla tua mensa»)» e pro-babilmente con essa si vuole esprimere la continuità tra il Gesù prima della Pasqua e il Ge-sù risorto.
«Nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi »: è la suddivisione di tutta la Bibbia secondo il canone ebraico.
È curioso, qui il rilievo dato ai Salmi, dal momento che la Bibbia ebraica chiama la terza parte della Scrittura, con il termine generico «Gli Scritti».
Probabilmente i Salmi vengono nominati perché costituiscono la parte più abbondante degli «Scritti».
Non va neppure dimenticato che nel Nuovo Testamento i Salmi vengono citati con frequenza sia nei vangeli sia negli Atti degli apostoli come profezie della risurrezione di Gesù.
Meditazione «Ma non mi riconosci?».
È capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di trovarsi dinanzi a qualcuno che chiede di essere identificato come quel tale compagno di scuola, di lavoro, di una qualche avven-tura estiva o invernale, di un’esperienza vissuta assieme in un tempo ormai trascorso…
Prima di indagare mediante domande di approfondimento e prima di metter mano a do-cumenti probanti, cosa abbiamo fatto per verificare l’ipotesi? Abbiamo guardato con atten-zione il volto del nostro interlocutore, ovviamente! È curioso che nel brano evangelico odierno Gesù chieda di essere riconosciuto…
dalle mani e dai piedi! Ora, né Gesù né l’evangelista Luca erano dei burloni.
Questa sorprenden-te espressione del Risorto ci aiuta invece…
a non sentirci più sfortunati dei contemporanei di Gesù: se i suoi discepoli, che hanno vissuto con lui per anni, non lo hanno riconosciuto guardandolo in faccia, perché noi ci ostiniamo a sostenere che ci sarebbe più facile credere se lo avessimo visto ‘in carne e ossa’? L’invito di Gesù mira piuttosto a calibrare la nostra fede a un livello più profondo e ‘democratico’: ognuno di noi può dire con autenticità e au-torevolezza che il Signore è risorto solo se accettiamo che egli sia anche…
il Crocifisso! Ec-co perché invita a guardare le mani e i piedi, dove sono – e restano! – impressi i segni, le ci-catrici della sua morte orrenda e ingiusta.
Il mistero della ‘fìnitudine’ divina, iniziato con il Natale, trova qui la sua massima espressione.
Per condividere fino in fondo la nostra con-dizione umana, il ‘tutto’ sta e rimane in un ‘frammento spezzato, crocifisso’.
Ma la ‘credibi-lità’ di Gesù sta proprio nel non aver voluto fare il dio ‘ovvio’, giocare ad un dio ‘scontato’, che mantiene le distanze e le distinzioni…
Se gli Undici erano «sconvolti e pieni di paura» (v.
37) non è soltanto perché credevano di «vedere un fantasma» (vv.
37,39) ma probabilmente perché temevano di essere ripresi – e non poco! – a causa della loro assenza sotto la croce di Gesù.
Era pertanto difficile affron-tare questo sorprendente incontro con il loro maestro nel clima della ipotizzata ‘rimpatria-ta’ di cui sopra si diceva…
E invece non c’è nulla di tutto ciò nelle parole di Gesù che Luca ci riporta.
Emerge piuttosto la ferma volontà di voler farsi vicino ai suoi discepoli, di con-solare il loro dolore, illuminare la loro delusione, apprezzando la loro disponibilità a ritro-varsi ancora insieme per dare ascolto a Pietro e ai due sconosciuti provenienti da Emmaus; soprattutto, per offrire loro la pace, pienezza di tutti i doni messianici.
In verità, seppur più lievemente rispetto a Cleopa e al suo compagno (cfr.
vv.
24,25), Gesù ‘rimprovera’ i presenti, affermando con vigore che la sua morte in croce non è stato ‘un incidente di percorso’ da dimenticare quanto prima…
Rammenta loro che avrebbero potuto ricordare le parole del Primo Testamento, in tutte le sue parti, in cui non veniva vi-sto come contradditorio l’aspetto penoso e quello vittorioso: il percorso del Messia non era pensato come precluso alla prova, al rifiuto, all’ostilità, alla sofferenza, non era affatto pro-fetizzato come una celeste cavalcata trionfale.
Se è vero che ogni uomo cresce, matura e si appropria della sua umanità attraverso queste esperienze, perché le si sarebbe dovute e-scludere dall’esistenza di Gesù? Come avrebbe potuto costui innalzare, rialzare la vita del- l’uomo se non l’avesse assunta in pienezza? C’è effettivamente da «non riuscire a credere ed essere stupefatti per la grande gioia» (v.
41 )! Lo sguardo deve essere stato addirittura trasognato quando Gesù ha incaricato questi uomini frastornati e impauriti di aiutare ogni uomo a interpretare la propria esistenza alla luce di quella vicenda che si era appena conclusa e li aveva così impressionati.
Allora an-che l’incarico di testimoniare a tutte le genti questa solidarietà umile, ma tenace e liberante, non sarà stato fonte di timore ma stupita riconoscenza, annuncio di benevolenza gratuita e generosa, esigente educazione alla maturità a misura di Cristo: era nata la Chiesa!

Pasqua di Resurrezione anno B

Il sole di giustizia Il sole di giustizia scomparso da tre giorni si leva oggi e illumina tutta la creazione: Cristo nella tomba da tre giorni ed esistente da prima dei secoli.
È germogliato come una vigna e riempie di gioia tutta la terra abitata.
Volgiamo i nostri occhi alla luce senza tra-monto e lasciamoci riempire della gioia di questa luce.
Le porte degli inferi sono spezzate da Cristo, i morti si levano come dal sonno; è risorto il Cristo, resurrezione dei morti, e ha destato Adamo.
È risorto Cristo, resurrezione di tutti, e ha liberato Eva dalla maledizione.
È risorto Cristo, la resurrezione, e ha trasfigurato in bellezza ciò che era privo di bellezza e di splendore.
Il Signore si è risvegliato come dal sonno e ha confuso i suoi nemici calpe-standoli sotto i piedi.
Cristo è risorto e ha dato gioia a tutta la creazione; è risorto e la pri-gione degli inferi è stata svuotata; è risorto e ha trasformato il corruttibile in incorruttibile.
Cristo è risorto e ha ristabilito Adamo nell’antica dignità dell’immortalità.
Chiunque è una nuova creatura in Cristo sia rinnovato dalla resurrezione.
[…] La chiesa che è in Cristo diventa oggi un cielo nuovo, cielo più bello di quello che vediamo.
Non ha bisogno della luce di un sole che tramonta ogni sera, perché ha per luce quel Sole che il sole della terra ha temuto quando lo ha visto sospeso alla croce.
Di questo sole il pro-feta ha detto: «Si leva il sole di giustizia per quelli che temono il Signore» (Ml 3,20).
(EPIFANIO DI CIPRO, Omelia sulla santa resurrezione di Cristo, PG 43,465A-C Cantiamo: Alleluia! Bisogna che «questo corpo corruttibile» – non un altro – «si rivesta di incorruttibilità, e questo corpo mortale» – non un altro – «si rivesta di immortalità.
Allora s’avvererà la paro-la della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria».
Cantiamo: Alleluia! «Allora si av-vererà la parola della Scrittura», parola di gente non più in lotta, ma in trionfo: «La morte è stata inghiottita nella vittoria».
Cantiamo: Alleluia! «Dov’è, o morte, il tuo pungi-glione?».
Cantiamo: Alleluia! (cfr.
1Cor 15,53-55).
[…] Cantiamo «Alleluia» anche adesso, sebbene in mezzo a pericoli e a prove che ci provengono sia dagli altri sia da noi stessi.
Di-ce l’Apostolo: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre for-ze» (1Cor 10,13).
Anche adesso, dunque, cantiamo «Alleluia».
L’uomo resta ancora preda del peccato, ma Dio è fedele.
E non si dice che Dio non permetterà che siate tentati, ma: «Non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze; al contrario, insieme con la tentazione, vi farà trovare una via d’uscita perché possiate reggere».
Sei in balìa della ten-tazione, ma Dio ti farà trovare una via per uscirne e non perire nella tentazione.
[…] Oh! Felice alleluia quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena sicurezza, senza alcun avversario! Lassù non ci saranno nemici, non si temerà la perdita degli amici.
Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente tribolata, là da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speran-za, lassù nella realtà; qui in via, lassù in patria.
Cantiamo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere la gioia del riposo, ma per procurarci un sollievo nella fatica.
Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia.
Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, nella retta fede, in una vita buona.
(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 256,2-3, NBA XXXII/2, pp.
816-818).
Imparare a riconoscere Gesù Qualche volta noi ci crogioliamo un po’, ci lamentiamo col Signore, che non si manife-sta in maniera chiara, che non ci dice come fare.
Adagio adagio, però, si capisce che il Si-gnore vuole che noi cerchiamo, che cresciamo in questa ricerca.
Noi diventiamo veri ricer-catori di Dio cercando la sua volontà, cercandola in questa Chiesa, in questo mondo, in questa società, in queste situazioni difficili, crescendo nel dialogo, nella pazienza, nella sopportazione, nell’ascolto.
Così cresciamo.
Se no saremmo degli automi; se ogni mattina ci risvegliassimo col pro-gramma già fatto da Dio, allora non ci sarebbe più problema.
Invece siamo degli operatori attivi e cresciamo responsabilmente nel Regno di Dio, ricercando umilmente la sua volontà e purificandoci in questa ricerca.
Ciò vale anche per la ricerca di Dio in se stesso, che è cre-scita purificante, faticosa, e se molti arrivano a non credere in Dio, non è perché abbiano più o meno argomenti di noi, ma perché si sono stancati di cercarlo, cioè hanno finito di fare il vero mestiere di uomo che è mettersi di fronte alla verità.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 57-58).
Pasqua è…   Credere che anche i ladroni possono andare in Paradiso.
Dico ladroni perché mi pare che aggiungere “buoni” sia pleonastico.
È credere che in tre giorni possono accadere cose che non sono accadute in trenta secoli.
È credere che i soldi non comprano mai nessuno e se lo comprano è per distruggerlo.
È credere che anche gli amici veri possono tradire altri amici veri.
La causa: troppa si-curezza nel reputarsi “veri”.
È accettare di iscrivere il dolore dentro la storia della nostra vita, accettarlo come com-pagno.
C’è un dolore che annulla l’uomo e c’è un dolore che annulla gli errori dell’uomo.
È uscire dalla metropoli e percorrere i sentieri oltre le mura: sentieri di silenzio, faticosi, scoscesi, puliti, stretti.
È credersi Giuda e Pietro, cireneo e soldato, Pilato e Maddalena, sepolcro e giardino, terremoto e sindone, legno e sangue, mors e alleluja.
È smettere di farsi parola per incominciare a farsi pane, vino, mensa, cenacolo, fuoco, amore.
È incontrarsi con il giardiniere e scoprirlo Cristo; incontrarsi con un viandante e sco-prirlo Cristo; incontrarsi con i vecchi compagni e scoprirli Cristo; incontrarsi con i pescato-ri e …mangiare con Cristo.
È asciguarsi il volto pieno di lacrime e …meravigliarsi che dalle lacrime possano nasce-re …le risurrezioni.
(Antonio Mazzi).
Andate presto, andate a dire… Voi che l’avete intuito per grazia correte su tutte le piazze a svelare il grande segreto di Dio.
Andate a dire che la notte è passata.
Andate a dire che per tutto c’è un senso.
Andate a dire che l’inverno è fecondo.
Andate a dire che il sangue è un lavacro.
Andate a dire che il pianto è rugiada.
Andate a dire che ogni stilla è una stella.
Andate a dire: le piaghe risanano.
Andate a dire: per aspera ad astra.
Andate a dire: per crucem ad lucem.
Voi, che lo avete intuito per grazia, correte di porta in porta a svelare il grande segreto di Dio.
Andate a dire che il deserto fiorisce.
Andate a dire che l’Amore ha ormai vinto.
Andate a dire che la gioia non è sogno.
Andate a dire che la festa è già pronta.
Andate a dire che il bello è anche vero.
Andate a dire che è a portata di mano.
Andate a dire che è qui, Pasqua nostra.
Andate a dire che la storia ha uno sbocco.
Andate a dire: liberate, lottate.
Andate a dire che ogni impegno è un culto.
Voi, che lo avete intuito per grazia, correte, correte per tutta la terra a svelare il grande segreto di Dio.
Andate a dire che ogni croce è un trono.
Andate a dire che ogni tomba è una culla.
Andate a dire che il dolore è salvezza.
Andate a dire che il povero è in testa.
Andate a dire che il mondo ha un futuro.
Andate a dire che il cosmo è un tempio.
Andate a dire che ogni bimbo sorride.
Andate a dire che è possibile l’uomo.
Andate a dire, voi tribolati.
Andate a dire, voi torturati.
Andate a dire, voi ammalati.
Andate a dire, voi perseguitati.
Andate a dire, voi prostrati.
Andate a dire, voi disperati.
Andate a dire, comunque sofferenti.
Andate a dire, offerenti-sorridenti.
Andate a dire su tutte le piazze.
Andate a dire di porta in porta.
Andate a dire in fondo alle strade.
Andate a dire per tutta la terra.
Andate a dire gridandolo agli astri.
Andate a dire che la gioia ha un volto.
Proprio quello sfigurato dalla morte.
Proprio quello trasfigurato nella Pasqua.
Oggi, proprio ora, qui andate a dire.
Andate a dire.
Ed è subito pace.
Perché è subito Pasqua.
(Sabino Palumbieri, Via Paschalis, Elledici, 2000, pp.
28-29) Quelli che fanno suonare le campane Qualche mese fa, concludendo la visita pastorale in una parrocchia della mia diocesi, l’ultimo giorno andai in una scuola materna.
C’erano tantissimi bambini di tre o quattro anni che si affollavano stupiti intorno a me: non mi conoscevano, mi vedevano come un personaggio esotico.
La maestra chiese: “Bambini, sapete chi è il vescovo?”.
Tutti diedero delle risposte.
Uno disse: “E’ quello che porta il cappello lungo in testa”; un altro, chissà per quale associazione di immagini, disse una cosa bellissima che a me piacque tanto: “il Vescovo è quello che fa suonare le campane”.
Forse mi aveva visto in processione, al suo paese, in qualche festa accompagnata dal tripudio delle campane.
Il vescovo come colui che fa suonare le campane: è una definizione bellissima, forse poco teologica ma profon-damente umana.
Sarebbe bello che i vostri fedeli, i vostri amici, coloro che vi conoscono, potessero dare di voi una definizione così.
Sarebbe bello che la gente dicesse di tutti noi che siamo “quelli che fanno suonare le campane”: le campane della gioia di Pasqua, le campane della speranza.
(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).
I macigni rotolati Ricorrerò alla suggestione del macigno che la mattina di Pasqua le donne, giunte nel-l’orto, videro rimosso dal sepolcro.
Ognuno di noi ha il suo macigno.
Una pietra enorme, messa all’imboccatura dell’anima, che non lascia filtrare l’ossigeno, che opprime in una morsa di gelo, che blocca ogni lama di luce, che impedisce la comunicazione con l’altro.
E’ il macigno della solitudine, della miseria, della malattia, dell’odio, della disperazione, del peccato.
Siamo tombe alienate.
Ognuna col suo sigillo di morte.
Pasqua, allora, sia per tutti il rotolare del macigno, la fine degli incubi, l’inizio della luce, la primavera di rapporti nuovi, e se ognuno di noi, uscito dal suo sepolcro, si adopererà per rimuovere il macigno del sepolcro accanto, si ripeterà finalmente il miracolo del terremoto che contrassegnò la prima Pasqua di cristo.
Pasqua è la festa dei macigni rotolati.
E’ la festa del terremoto.
(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).
L’affidamento dell’uomo a Dio Nella Pasqua Gesù, da un lato, rivela il mistero dell’amore di Dio per l’uomo; dall’altro, celebra e attua nel modo umanamente più perfetto l’amore, l’obbedienza, l’affidamento dell’uomo a Dio.
L’aspetto singolare, eccezionale, unico del sacrificio pasquale è che la ri-velazione e la celebrazione – attuazione sono una sola cosa, così come nell’essere di Gesù, Dio e l’uomo, pur rimanendo distinti, diventano una sola cosa.
La Pasqua di Gesù, proprio perché è quella manifestazione-celebrazione dell’amore di Dio ora descritta, tende a raggiungere ogni uomo, sia per manifestargli l’amore di Dio, per annunciargli che il suo peccato è perdonato, per dargli speranza di vita e di gioia oltre la sofferenza e la morte, sia per attrarre ogni uomo nello stesso movimento di celebrazione del mistero, di adorazione di Dio, di conformazione alla volontà del Padre che ha animato tutta la vita di Gesù suggellata nella Pasqua.
L’eucaristia è appunto la modalità istituita da Gesù nell’ultima cena per attuare questa intrinseca intenzione salvifica della Pasqua.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol.
II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94).
Questo giorno fatto dal Signore penetra tutte le cose In questo giorno, per opera della risurrezione di Cristo gli inferi aperti restituiscono i morti, la terra rinnovata fa germogliare risorti, il cielo dischiuso accoglie chi sale.
Il ladro-ne sale in paradiso (cfr.
Lc 23,43), i corpi dei santi entrano nella città santa (cfr.
Mt 27,53), i morti ritornano tra i vivi (cfr.
Mt 27,52) e in certo senso tutti gli elementi alla risurrezione di Cristo progrediscono e si innalzano.
Gli inferi rinviano in alto quanti racchiudono, la terra invia al cielo quelli che li ha sepolti, il cielo presenta al Signore quelli che accoglie e, con una sola operazione, la passione del Salvatore innalza dal profondo, solleva dalla terra e colloca nell’alto dei cieli.
La risurrezione di Cristo è infatti vita per i morti, perdono per i peccatori, gloria per i santi.
Il santo David invita dunque ogni creatura a festeggiare la ri-surrezione di Cristo, poiché dice che bisogna esultare in questo giorno fatto dal Signore e rallegrarsi [Sal 117 (118) ,24].
[…] Questo giorno fatto dal Signore penetra tutte le cose, con-tiene il cielo, abbraccia la terra e gli inferi.
La luce di Cristo infatti non è fermata da pareti, non è divisa da elementi, non è oscurata dalle tenebre.
La luce di Cristo, voglio dire, è giorno senza notte, giorno senza fine, splende in ogni luogo, si irradia ovunque, non viene meno in alcun luogo.
Che questo giorno sia Cristo lo dice l’Apostolo: «La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13,12).
La notte è avanzata, è detto e non si dice che segue il giorno; questo affinché tu capisca che al sopraggiungere della luce di Cristo le tenebre del Diviso-re sono messe in fuga e non giunge l’oscurità dei peccati e un perenne splendore scaccia le nebbie del passato, arresta il male che cerca di farsi spazio.
La Scrittura attesta che questo giorno, cioè il Cristo, illumina cielo, terra e gli inferi.
Che risplenda sopra la terra lo dice Giovanni: «Era la vera luce, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1,9).
Che risplenda negli inferi, lo dice il profeta: «Una luce è sorta per quelli che sedevano nel-l’ombra di morte» (Is 9,2).
Che questo giorno duri in eterno nei cieli, lo dice David: «Stabi-lirò per sempre la sua discendenza e il suo trono come i giorni del cielo» [Sal 88 (89),30].
(MASSIMO DI TORINO, Discorsi 53,1-2, Scrittori dell’area santambrosiana, pp.
250-252).
Auguri di Pasqua Fa’ di me, Signore, un arcobaleno di bene, di speranza e di pace.
Un arcobaleno che per nessun motivo annunci ingannevoli bontà, speranze vane e false immagini di pace.
Un arcobaleno sospeso da Te nel cielo, che annunci il tuo amore di Padre, la risurrezione del tuo Figlio, la meravigliosa azione del tuo Spirito Santo.
(H.
Camera).
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 10,34a.37-43 In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sa-pete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti colo-ro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui.
E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme.
Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai mor-ti.
E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimo-niare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costitui-to da Dio.
A lui tutti i profeti danno questa testimonian-za: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».
Il brano di oggi inizia con le prime parole del versetto 34 del capitolo 10 e continua col versetto 37 fino al 43, togliendo le parole di Pietro dal loro contesto.
Pietro sta parlando a Cornelio ai suoi congiunti e amici intimi (At 10,24), che lo avevano mandato a chiamare, per ispirazione divina.
Pietro risponde prontamente all’invito, per-ché, per grazia divina, ha capito che i disegni di Dio sulle persone non corrispondono agli schemi umani e che «chi teme e pratica la giustizia è a lui accetto» (At 10,35).
Si tratta quindi di un discorso a dei pagani, ai quali viene annunciato il Cristo morto e risorto, nucleo essenziale della predicazione apostolica.
La missione di Gesù comincia a partire dal battesimo di Giovanni ed è compiuta in Giudea a partire dalla Galilea.
L’autore degli Atti pone la Galilea come una regione della Giudea, che viene intesa come tutto il territorio abitato dagli ebrei.
Politicamente Galilea e Giudea erano separate, pur facendo parte entrambe della provincia romana.
Dio è protagonista della vicenda di Gesù.
Dio stesso ha consacrato (echrisen) in Spirito Santo Gesù (At 10,38 cf.
Is 61,l; Mt 3,16; Lc 4,18).
La parola greca «consacrare» richiama l’appellativo «Cristo» unto, messia in ebraico.
La potenza dello Spirito conferito da Dio fa sì che Gesù passi «beneficando e risanando» (At 10,38).
Più che le parole di Gesù importano i suoi gesti, che rivelano che Dio è con lui.
Gli apostoli e i discepoli, che devono annunciare Gesù morto e risorto, sono investiti del dovere della testimonianza «di tutte le cose da lui compiute» (At 10,39).
«Essi lo uccisero, appendendolo alla croce».
La versione usata dalla liturgia sembra dare per scontato che gli uccisori di Gesù sono stati i giudei, mentre i responsabili ultimi della sua morte erano i capi romani, i soli che potevano comminare la pena di morte, come Cor-nelio, che era un centurione romano, ben sapeva.
E i Romani non avevano nessuna inten-zione di derogare alle loro prerogative o il loro potere; essi avevano tutta la forza per deci-dere anche contro il parere dei giudei.
Per amore di quieto vivere e per una certa intelli-genza politica, essi cercavano la collaborazione in loco; essi lasciavano una certa libertà al Sinedrio, a patto naturalmente che non fosse di intralcio, ma servisse da intermediario fra il potere e il popolo.
È molto importante aver presente la reale situazione storica, per non ricadere anche involontariamente nell’assurda denuncia dei giudei «deicidi», denunciata apertamente come erronea dalla chiesa cattolica a partire dal concilio Vaticano II (cf.
Nostra Aetate n.
4 e relativi documenti di applicazione della commissione pontificia per i rapporti religiosi con gli ebrei del Segretariato per l’unità dei cristiani — ora consiglio pontificio — Orientamenti …e sussidi).
Dio ha risuscitato Gesù il terzo giorno ed è sua volontà che non apparisse a tutto il po-polo, ma solo ad alcuni testimoni particolari, da lui stesso scelti (At 10,41).
A questi pochi è stato concesso di mangiare e bere con lui, dopo la risurrezione dei morti.
Essi e coloro che credono sulla loro parola formano la catena della tradizione e, di generazione in genera-zione, predicano la sua risurrezione.
«Vi ho trasmesso, quello che ho ricevuto, dice Paolo, che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e fu risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e poi ai dodici…
(1 Cor 15,3,5).
Gesù è costituito, grazie alla sua risurrezione e glorificazione, «giudee dei vivi e dei morti».
Coloro a cui egli è apparso dopo la risurrezione hanno il dovere di predicarlo.
A questo annuncio si riallaccia la predicazione della conversione (cf.
Mc 1,15) a cui sono invi-tati coloro che crederanno nel suo nome e che in suo nome riceveranno per dono di Dio la remissione dei peccati.
«A lui tutti i profeti danno questa testimonianza» (At 20,43): si fa un breve accenno all’ar-gomento della testimonianza profetica, che però non viene svolto, trattandosi di un udito-rio pagano.
Tuttavia è sintomatico che non venga omessa del tutto la menzione della con-tinuità tra l’Antico Testamento e il Nuovo, assicurata dalle predizioni profetiche» (CARLO MARIA MARTINI, Nuovissima versione della Bibbia, 37, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 199510 174, n.
17).
Seconda lettura: Colossesi 3,1-4 Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifesta-to, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
I versetti che leggiamo oggi danno inizio alla parte parenetica della lettera.
I cristiani col battesimo (Col 2,11-13,20) sono «risorti con Cristo», sono rinati a vita nuova, devono quindi vivere secondo questa nuova situazione.
«Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù» (Col 3,1).
Queste cose sono le virtù con-trarie ai vizi, che vengono enumerati dopo (Col 3,5-6.9).
I cristiani, infatti, sono già risorti col Cristo e sono là dove egli è, ma in modo nascosto; la loro gloria, come quella del Cristo si manifesterà nel giorno della rivelazione definitiva.
Per ora vale l’esortazione a manife-stare questa gloria attraverso una vita di rettitudine e di carità (Col 3,12-14).
Vangelo: Giovanni 20,1-9 Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e an-dò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal se-polcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recaro-no al sepolcro.
Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.
Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma av-volto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro di-scepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.
Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Esegesi Gli evangelisti sinottici parlano delle donne che si recano al sepolcro di buon mattino per compiere i riti sul cadavere di Gesù; Giovanni incentra l’attenzione su una donna par-ticolare: Maria di Magdala.
Ella trova la pietra rimossa e ne deduce che il corpo è stato tra-fugato e corre ad avvertire Pietro e il discepolo prediletto, che la tradizione identifica con l’evangelista Giovanni.
Questi si portano immediatamente al sepolcro, al quale giunge per primo il discepolo più giovane.
Egli da uno sguardo fugace all’interno, vede le bende abbandonate, ma, per deferenza verso il più anziano, non entra e lo aspetta sulla soglia.
Pietro entra nella cella mortuaria e vede le bende e il sudario «avvolto» a parte.
Il vangelo di Giovanni non parla delle sue reazioni.
Luca (24,12) dice che tornò indietro pieno di stupore (thaumazo in greco, verbo che indica grande perplessità).
«Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8).
Che cosa vide? non è il vedere di Tommaso (Gv 21,29), ma il vedere interiore.
Egli di fronte al sepolcro vuoto non pensa, come la Maddalena, che hanno trafugato il cadavere o non sospende il giudizio come Pietro, ma crede sulla Parola di Gesù, a sua volta fondata sulla tradizione delle Scritture ebraiche.
Il frutto della comprensione delle Scritture è il credere; non, però, un frutto «automatico», ma dono dello Spirito, che raggiunge le perso-ne in modo misterioso ed è accolto da ciascuno in maniera diversa.
Anche la Maddalena e Pietro avevano avuto comunanza con Gesù e conoscevano le Scritture, ma a loro non basta ancora per credere dinanzi al sepolcro vuoto.
Essi «non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,9).
Meditazione Può sorprendere la scelta della liturgia di interrompere la lettura dell’evangelo secondo Giovanni al v.
9.
In tal modo, in questa domenica di Pasqua non viene proclamato il rac-conto di una manifestazione personale del Risorto.
Eppure il capitolo 20 di Giovanni de-scriverà nei versetti seguenti alcuni di questi incontri: dapprima la manifestazione a Maria di Màgdala, poi quella ai discepoli nel Cenacolo, infine, otto giorni dopo, ancora nel Cena-colo, il riconoscimento da parte dell’incredulo Tommaso.
Tuttavia, nel brano scelto per questa domenica di Risurrezione, il Signore ancora non si rivela e non viene ricono-sciuto.
Nonostante questa reticenza, la scena, avvolta ancora in una misteriosa penombra (è già mattino, ma ancora buio, v.
1), inizia a essere rischiarata dalla fede del discepolo che Gesù amava (v.
2), il quale «vide e credette» (v.
8).
Basta davvero poco alla fede e all’amore di questo discepolo per giungere a credere.
Egli gode già della beatitudine di coloro che «non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29).
O meglio, credono perché sanno vedere dei segni e interpretarli nella luce delle Scritture, come ricorderà la finale di questo capitolo, che con ogni probabilità è anche la conclusione della redazione più antica del quarto vangelo: «Ge-sù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro.
Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e per-ché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,30-31).
Per credere e avere vita nel nome di Gesù occorre riconoscere dei ‘segni’ che sono ‘scrit-ti’, dunque mediati e interpretati da una parola, oltre che dalla fede di coloro che ce li han-no consegnati attraverso la loro testimonianza.
La disponibilità a interpretare dei segni nella luce delle Scritture, come pure, circolarmente, ad ascoltare le Scritture lasciando che siano interrogate dai segni, conduce alla fede.
Tale è anche l’esperienza del Discepolo ama-to: vede alcuni segni, che da soli però non sono sufficienti ad accendere la fede nella risur-rezione; occorre anche ascoltare e comprendere la Scrittura (v.
9).
D’altro canto, si com-prende davvero la Scrittura quando le si consente di interpretare i segni e di farceli leggere in modo nuovo.
Quelli che in primo momento potevano sembrare nient’altro che la testi-monianza di un’assenza o di un trafugamento, sono al contrario l’annuncio di una presen-za definitiva, che nulla e nessuno potrà più eliminare dall’orizzonte della nostra esperien-za.
Non un trafugamento, ma un dono.
«Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto», grida la disperazione di Maria di Màgdala.
Anche lei do-vrà giungere a vedere e a credere che Gesù non è stato portato via, ma ci è stato donato in modo nuovo e definitivo.
Ora è ‘posto’ nella sua vera dimora: la comunione di vita con il Padre e con tutti i suoi fratelli.
Là potrà essere di nuovo incontrato e riconosciuto, non per trattenerlo per sé, ma per accoglierlo e testimoniarlo come dono di perdono, di riconcilia-zione, di vita per tutti.
Non soltanto un sepolcro di morte, ma nessun altro ‘posto’ potrà ora rinchiudere il Risorto, che è consegnato a tutti, come il Vivente e il Signore di ogni cre-atura che in lui trova vita, senso, libertà.
Iniziamo così a intuire la bellezza e la profondità della scelta operata dalla liturgia della parola in questa domenica.
Anche noi, insieme a Maria, a Pietro, al Discepolo amato, sia-mo condotti a vedere alcuni segni e ad ascoltare alcune parole affinché possiamo aprirci alla fede e riconoscere la presenza del Vivente in mezzo a noi.
Il vangelo non ci racconta un incontro, ci offre però una traccia preziosa per giungere a una relazione personale con il Risorto.
L’incontro che non viene narrato dischiude così lo spazio per il nostro incontro personale.
Come giungere dunque, insieme al Discepolo amato, a vedere e a credere? Occorre anzitutto mantenere vivo un legame di amore con il Signore, una memoria gra-ta della sua parola e dei suo gesti, della rivelazione del volto di Dio e del volto dell’uomo che egli ci ha offerto nella concretezza della sua vita e della sua storia.
Il verbo ‘correre’ ri-torna con frequenza nel racconto: corre Maria, corrono soprattutto Pietro e l’altro discepo-lo.
Non è solo la sorpresa, la curiosità o l’incapacità di comprendere a farli correre; più an-cora è il legame d’amore che, nonostante la morte, continua ad attrarli verso il loro Signo-re.
Sperimentano un’assenza, a motivo di quel corpo privo di vita che sanno rinchiuso in un sepolcro di morte, ma non viene meno la loro appartenenza a quell’uomo e alla sua sto-ria.
Che sia proprio l’amore e non altro a farli correre, l’evangelista ce lo ri-corda mostran-do che è il Discepolo amato a correre più veloce e a giungere prima di Pietro.
Giunti al sepolcro la prima cosa che si scorge è la pietra ribaltata.
Più che una tomba vuota, vedono un sepolcro ‘aperto’.
Il termine greco che Giovanni usa per designare il se-polcro – mnemeion – deriva dal verbo mimnesko, «ricordare».
È un memoriale, ma ora ‘aper-to’.
Anziché custodire un passato, si apre al futuro.
Ben oltre il legame del ricordo, d’ora in poi dovrà essere una relazione viva e personale a unire i discepoli al loro Signore.
Ne po-tranno riconoscere il volto e penetrare appieno l’identità solo comprendendo che egli è co-lui che apre i sepolcri, che vince la morte, che garantisce un futuro di speran-za.
Le sue pa-role, i suoi gesti, la sua vicenda storica potranno essere ora ricordati in modo del tutto di-verso; non semplicemente come una sapienza umana o religiosa, ma come la promessa di una vita che ci viene donata in modo definitivo, senza che nulla più ce la possa sottrarre, senza che niente possa più separarci dal Vivente! Entrando in quel sepolcro, come fanno Pietro e Giovanni, non si trova più un corpo pri-vo di vita, ma i teli e il sudario che lo avevano avvolto, senza poterlo imprigionare per sempre nella loro morsa senza speranza.
Non solo in quel sepolcro, ma ogni volta che una persona entrerà nel mistero della morte, incontrerà ora, grazie al dono del Risorto, dei teli e un sudario dai quali sarà liberata, che potrà lasciare lì, senza rimanerne avvin-ghiata per sempre.
Certo, in prima battuta quei panni piegati testimoniano che il corpo di Gesù è assente dal sepolcro non perché trafugato, come in un primo momento aveva pensato Maria.
Non si può portare via un corpo e lasciare ben piegata la sindone che lo avvolgeva.
Annunciano però un mistero più profondo, che solo una fede alimentata dall’amore e illuminata dall’a-scolto delle Scritture giunge a vedere.
Ogni vero discepolo ama, vede, ascolta le Scritture e crede.
«La Scrittura da un corpo al Risorto.
Origene l’aveva compreso quando aveva indi-viduato quattro incorporazioni del Logos: in Gesù di Nazaret, nella Scrittura, nell’eucari-stia e nella Chiesa.
Scomparso il corpo di Gesù di Nazaret, il corpo della Scrittura intervie-ne per primo a conferirgli il suo contenuto intelligibile e simbolico per la fede» (Y.
Simo-ens).
Siamo anche noi sollecitati a vivere questo cammino: amare e cercare il Signore, anche quando sembra farsi assente; mantenere vivo il legame con lui attraverso il ricordo delle sue parole e dei suoi gesti; lasciarci attrarre e condurre in una fedele appartenenza; aprire il ricordo e trasformarlo nell’attualità di una presenza; ascoltare le Scritture per interpreta-re i segni dello Spirito nella nostra vita e della nostra storia.
Vivendo una ricerca nutrita di questi atteggiamenti dischiuderemo lo spazio perché il Risorto stesso possa venire, incon-trarci personalmente, chiamarci per nome.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica   – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.