XXXII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Preghiere e Racconti   L’offerta della vedova Nell’attesa dell’ora, il Figlio dell’uomo non agisce quasi più.
Si limita a guardar passare la gente: gli scribi in lunghe vesti riveriti per tutto in grazia delle loro interminabili preghiere, i fedeli che gettano i loro doni nella cassa delle offerte.
Appoggiato a una colonna, nel recinto del Tempio, Gesù si inquieta, si fa beffe dei Farisei, e al tempo stesso s’intenerisce per una vedova che offre a Dio la sua stessa indigenza.
Che vale un’elemosina che non ci priva di nulla? Forse, noi non abbiamo mai dato nulla.
(E.
MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950, 123-124).
Essere dono Ognuno è chiamato ad essere dio.
Ma essere dio non vuol dire  avere tutto, servirsi di ogni cosa  e di ogni uomo; non vuol dire essere un “potente” per opprimere gli altri.
Essere dio vuol dire  essere un potente che dona agli altri il suo potere; vuol dire dare un senso di eternità a ciò che ci circonda, dare speranza ai disperati, gioia a chi piange, luce a chi non vede…Vuol dire indicare Dio a chi crede che Dio non esista.
(O.
OLIVIERO, L’amore ha già vinto.
Pensieri e lettere spirituali (1977-2005), Milano 2005, 22).
Il mendicante e il re Si racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto.
In tal modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo con una cortesia.
Si narra ancora di un mendicante che un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato.
Con sua meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo l’elemosina.
Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare.
Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato in pepita d’oro.
Si rammaricò.
Se avesse donato tutto il suo riso, sarebbe diventato ricco.
Si privò di tutto quanto aveva per vivere «Chi usa misericordia verso il povero, presta a interesse al Signore» (Pr 19,17).
[…] Colui che presta denaro ai poveri del Signore, attende dal Signore la ricompensa della vita eterna.
Del resto, anche il beato apostolo Paolo nel suo insegnamento attesta che, tra le preoccupazioni di tutte le chiese, quella che lui ha per i poveri non è di certo la più piccola.
Dice infatti: «Soltanto ricordiamoci dei poveri, cosa che mi sono preoccupato di fare» (Gal 2,10); e in un altro passo esclama: «Niente abbiamo portato venendo in questo mondo, e niente possiamo portar via» (1Tm 6,7); e ancora: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (2Cor4,7).
[…] Ricordiamoci anche di quella vedova che, nella sua sollecitudine per i poveri, trascurando se stessa, si privò di tutto quello che aveva per vivere, memore soltanto della vita futura, come attesta il Giudice stesso, il quale dice che altri danno del loro superfluo, essa invece, che forse era più bisognosa di molti anche tra i poveri, pur possedendo solo due monete, fu in verità più ricca nell’animo di tutti quanti i ricchi, e rivolta ai soli doni della bontà divina, avara del solo tesoro celeste, donò tutto quello che possedeva, perché tutto ciò che si raccoglie sulla terra alla terra deve tornare.
Essa gettò nel tesoro del tempio quello che aveva per possedere ciò che non aveva ancora visto; vi gettò i beni destinati alla corruzione per procurarsi quelli immortali.
Quella povera donna non disprezzò il giudizio disposto e ordinato da Dio per essere accolti da lui quando ritornerà.
Per questo colui che tutto dispone e il Giudice del mondo anticipò la sua sentenza e lodò nel Vangelo la donna che avrebbe incoronata nel giudizio.
[…] Rendiamo dunque al Signore i suoi doni; restituiamoli a lui che li riceve nella persona di ogni povero; diamoli, dico, con gioia per riceverli di nuovo da lui con esultanza, come egli stesso afferma.
(PAOLINO DA NOLA, Lettere 34,2-4, PL 61,345C.346A-C).
La pietra preziosa «Una volta, un monaco mentre era in viaggio trovò una pietra preziosa e la prese con sé.  Un giorno incontra un viaggiatore e, quando aprì la borsa per condividere con lui le sue provviste, il viaggiatore vide la pietra e gliela chiese.
Il monaco gliela diede immediatamente.
Il viaggiatore partì, pieno di gioia per l’inaspettato dono della pietra preziosa che sarebbe stata sufficiente a garantirgli il benessere e la sicurezza per il resto della vita.
Ma pochi giorni dopo tornò indietro alla ricerca del monaco e, trovatolo, gli restituì la pietra dicendogli: “ora dammi qualcosa di più prezioso di questa pietra, qualcosa di pari valore.
Dammi ciò che ti ha reso capace di donarmela”» (Anthony de Mello).
Le persone sono doni Qualche tempo fa, ho ricevuto un articolo non firmato intitolato Le persone sono doni.
Vorrei parafrasarne alcuni passi come segue: «Le persone sono doni di Dio che mi vengono fatti.
Sono già avvolti in una carta a volte bella, a volte meno attraente.
Alcuni vengono strapazzati durante l’invio postale; altri, invece, sono recapitati con riguardo per espresso; alcuni sono avvolti alla bell’ e meglio e sono facili da aprire, altri sono chiusi saldamente.
Ma il dono non è l’involucro ed è importante rendersene conto.
È così facile sbagliarsi al riguardo, e giudicare il contenuto dall’involucro esteriore.
Talvolta, il dono si apre con grande facilità; altre volte, c’è bisogno dell’aiuto altrui.
Forse ciò è dovuto al fatto che gli altri hanno paura; forse in precedenza sono stati feriti e non vogliono esserlo ancora; o, forse, in passato sono stati aperti e poi abbandonati.
Può darsi che adesso si sentano più una “cosa” che “persone”.
Io sono una persona: come chiunque altro, anch’io sono un dono.
Dio ha infuso in me una bontà che è solo mia.
E tuttavia, a volte, ho paura di guardare dentro il mio involucro: forse temo di essere deluso; forse non mi fido del mio contenuto; o forse non ho mai accettato veramente il dono che io stesso costituisco.
Ogni incontro e ogni condivisione con le persone è uno scambio di doni.
Il mio dono sono io; il tuo dono sei tu.
Siamo doni vicendevoli».
(J.
POWELL, Parlami di te.
So ascoltare il tuo Cuore, Milano, Gribaudi, 2005, 24-25).
I valorosi sono sempre tenaci? “I valorosi sono sempre tenaci?”.
Dal cielo, il Signore sorride contento, perché era ciò che Egli voleva: che ciascuno avesse nelle proprie mani la responsabilità della propria vita.
In fin dei conti aveva dato ai propri figli il più grande di tutti i doni: la capacità di scegliere e di decidere i propri atti.
Soltanto gli uomini e le donne segnati nel cuore dalla fiamma sacra avevano coraggio di affrontarLo.
E soltanto questi conoscevano il cammino per tornare al Suo amore, giacché capivano finalmente che la tragedia non era una punizione, ma una sfida.
Elia rivide a uno a uno tutti i suoi passi: dal momento in cui aveva lasciato la falegnameria, aveva accettato la propria missione senza discutere.
Anche se fosse stata vera, e lui pensava che lo fosse, Elia non aveva mai avuto l’opportunità di vedere che cosa accadeva nei cammini che aveva rifiutato di percorrere.
Perché aveva paura di perdere la fede, la dedizione, la volontà.
Riteneva che fosse molto rischioso sperimentare il cammino delle persone comuni: alla fine avrebbe potuto anche abituarsi e amare ciò che vedeva.
Non capiva che anche lui era una persona come tutte le altre, anche se udiva gli angeli e riceveva di tanto in tanto qualche ordine da Dio: era talmente convinto di sapere ciò che voleva da essersi comportato proprio come coloro che non avevano mai preso una decisione importante nella vita.
Era sfuggito al dubbio.
Alla sconfitta.
Ai momenti di indecisione.
Ma il Signore era generoso, e lo aveva condotto nell’abisso dell’inevitabile per dimostrargli che l’uomo deve scegliere, e non accettare, il proprio destino.
(Paulo COELHO, Monte Cinque, Bompiani, Milano, 1998, 206-207).
Preghiera Signore Gesù, che da ricco che eri ti sei fatto povero per arricchirci con la tua povertà, aumenta la nostra fede! È sempre molto poco ciò che abbiamo da offrirti, ma tu aiutaci a consegnarlo senza esitazione nelle tue mani.
Tu sei il Tesoro del Padre e il Tesoro dell’umanità: in te si riversa la pienezza della divinità, eppure tu attendi ancora, da noi, l’obolo di ciò che siamo, perfino del nostro peccato.
Crediamo che tu puoi trasformare la nostra miseria in beatitudine per molti, ma tu insegnaci la generosità e l’abbandono confidente dei poveri in spirito! Vogliamo accettare la sfida della tua parola e donarti tutto, anche il necessario per l’oggi e il domani: tu stesso fin d’ora sei la Vita per noi.
              * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
    Lectio – Anno B   Prima lettura: 1Re 17,10-16          In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta.
Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna.
La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere».
Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane».
Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto.
Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”».
Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni.
La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.
           Dopo l’annuncio della siccità (v.
1) e la chiamata da parte di Dio con il ritiro al torrente Cherit (vv.
2-7), ora Elia deve spostarsi a Sarepta, circa 15 km a sud di Sidone, sulla costa fenicia, terra dalla quale proveniva Gezabele, nemica dichiarata di JHWH e dunque di Elia stesso.
In quel territorio Elia non si trova più sotto la giurisdizione di Acab.
L’ordine può essere stato dato da Dio a motivo della persecuzione, che ormai potrebbe essere aperta (cf.
18,10).
Proprio una vedova, che già per il suo stato sociale era condannata agli stenti, viene individuata come sostegno del profeta.
Umanamente questo è paradossale, ma è sempre Dio a garantire la vita al di là delle umane risorse e aspettative.
     Nell’antico vicino oriente le vedove erano riconoscibili per l’abito da lutto che esse indossavano, segno permanente della loro incompletezza dopo la perdita dello sposo (cf.
Gn 38,13; Gdt 10,3).
Entrato in città, Elia ne scorge una che raccoglie la legna destinata a cuocere le ultime poche risorse che sono rimaste per lei e suo figlio: un pugno di farina e una goccia d’olio.
La vedova a cui Elia è inviato è sul lastrico, rassegnata ormai alla morte e alla cui alternativa non vede esonerato neanche il proprio figlio.
     La donna esaudisce prontamente il desiderio di Elia in merito alla sete, come del resto prevede il grande senso di ospitalità orientale, ma recrimina per la richiesta di cibo.
Il fatto che la donna invochi JHWH nella sua risposta ad Elia può dipendere dal fatto di avere riconosciuto in lui un ebreo sia per l’abbigliamento che per la pronuncia.
Secondo l’uso orientale la donna giura per la divinità dell’ospite.
Il giuramento rivela che quanto viene asserito dalla donna è vero ed importante.
     Alla comprensibile protesta della donna Elia risponde non trascurando i suoi legittimi bisogni, ma invitandola a farli precedere da un atto di fede attraverso l’oracolo che egli pronuncia.
Il contenuto delle parole di Elia non sono semplicemente un rovesciamento di prospettiva di futuro che aveva la vedova, la quale si sentiva ormai alla fine, ma anche una indicazione chiara di colui che offrirà la soluzione.
L’oracolo profetico è chiaramente forgiato sulla fede monoteista israelitica secondo la quale JHWH è l’unico Signore del creato dal quale la pioggia dipende.
Vi è qui un chiaro atteggiamento polemico verso il culto forestiero di cui Gezabele era promotrice e che riconosceva in Baal il dio della fecondità, manifestata appunto nei riguardi della terra con la pioggia.
     Colui che regola i cicli naturali, che detiene il controllo delle riserve celesti (Gb 38,22-30) ha certamente potere anche sulla dispensa della vedova.
Essa si fida della parola di Elia e il miracolo si compie.
Attraverso il suo profeta Dio stesso si è presentato a quella diseredata non per toglierle il poco che le era rimasto, ma per aggiungere vita e speranza.
     A causa di questo episodio Elia viene considerato nella pietà giudaica il patrono dei casi impossibili.
  Seconda lettura: Ebrei 9,24-28          Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore.
E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso.
E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
       Già il v.
11 del nostro capitolo aveva parlato del santuario non fatto da mani di uomo.
Ora, riprendendo la liturgia del giorno dell’espiazione, si parla ancora del rapporto simbolico che intercorre tra il tempio di Gerusalemme, imponente costruzione umana, e il santuario celeste.
In 8,2 l’autore aveva già trattato di questo simbolo molto lontano dalla realtà che esso rappresenta, dal momento che il vero santuario in cui Cristo è entrato è il cielo stesso.
Lì Gesù si trova direttamente di fronte al Padre e diventa il nostro avvocato, come veniva ricordato nel passaggio della scorsa domenica in 7,25.
     Ritornando alla liturgia dello jom kippur, cioè del giorno della espiazione, Gesù viene paragonato al sommo sacerdote, ma per istituire un contrasto.
Mentre il primo doveva annualmente «comparire», in modo solenne per indicare l’entrata del gran sacerdote nella parte più sacra del tempio, il santo dei santi, per Gesù non è così.
Egli non ha bisogno di reiterare la sua offerta, perché per la purificazione dal peccato non si serve del sangue di terzi, che nel caso del sommo sacerdote era addirittura di animale, sangue di cui idealmente veniva rivestito e dal quale veniva protetto nel suo accesso al Santo dei santi; sangue che non era in grado di purificare dai peccati.
Per questo il sacrificio, anche se svolto con la maggiore solennità, aveva una scadenza annuale che già in se stessa era dichiarazione di limitatezza.
     Il v.
26 si apre con un ragionamento che procede per assurdo, per condurre alla comprensione della efficacia di quanto è stato compiuto da Cristo.
Se fossero valsi per Lui i criteri che regolavano l’espiazione nell’antico culto, egli avrebbe dovuto accompagnare tutta la storia umana, fin dalle sue origini, con il sacrificio.
Infatti la storia degli uomini è storia di peccatori e di miserie.
Al contrario, una sola volta, nella pienezza dei tempi, cioè nel momento stabilito dal Padre, Gesù è «apparso» prima nel tempo, dimensione in cui si commettono i peccati, e, dopo aver consumato in esso il sacrificio di se stesso, è «apparso» nel santuario celeste rivestito del proprio sangue che lo qualifica come efficace espiatore ed intercessore.
È pertanto sul sangue stesso di Gesù che si basa l’assoluta validità del suo sacrificio e dunque la sua non reiterabilità.
     Nei vv.
27-28 vi è un nuovo confronto tra Gesù e l’esperienza umana.
Per l’uomo dopo la morte viene il giudizio, per Gesù invece vi sarà una seconda «apparizione».
Il tratto più interessante di questi versetti è il modo in cui viene presentata la parusia, perché certamente di essa parla l’autore quando dice che Cristo «apparirà una seconda volta».
Il ritorno finale viene descritto rifacendosi ancora alla liturgia del giorno della espiazione.
Quando il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi tutto il popolo rimaneva fuori in attesa di lui che uscendo avrebbe portato il perdono divino.
Così nel suo ritorno finale Cristo uscirà come vero sommo ed eterno sacerdote dal santuario celeste per portare la salvezza a coloro che lo attendono.
Prevale qui un aspetto positivo della venuta finale descritta come il compimento dell’attesa della sospirata, completa assoluzione.
        Vangelo: Marco 12,38-44          In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti.
Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere.
Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete.
Tanti ricchi ne gettavano molte.
Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.
Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo.
Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
    Esegesi      Il brano evangelico è diviso in due sezioni.
La prima è costituita dai vv.
38-40 che contengono l’ultimo insegnamento impartito da Gesù nel capitolo 12 di Marco.
La seconda, introdotta da un cambiamento di luogo, occupa i vv.
41-44 con la vedova additata ad esempio di vera pietà.
     Uno sguardo d’insieme alla tradizione sinottica ci avvertirebbe che l’atteggiamento polemico di Gesù verso gli scribi fu forte e non raro; basterebbe ricordare il capitolo 23 di Matteo.
La comunità primitiva si preoccupò subito di conservare memoria degli insegnamenti di Gesù in questa materia per ricavare anche da essi uno stile nuovo di vita al suo interno.
Il vangelo di Marco ha conservato poco materiale a questo proposito, e la parte che ci tocca leggere in questa domenica è la più polemica.
Gli scribi vengono presi di mira a causa della loro preoccupazione per l’esteriorità.
Probabilmente la loro condizione di studiosi e di esperti del testo sacro era manifestata nell’abbigliamento da un mantello apposito che essi si ponevano sulle spalle.
Altri segni di distinzione ai quali erano particolarmente attaccati erano gli atti di omaggio e di riguardo che venivano loro riservati in pubblico, innanzitutto nelle piazze, dove un gran numero di persone potevano assistere agli atti di deferenza che ricevevano.
Anche nelle case private, in occasione di banchetti, e persino nei luoghi di culto, le sinagoghe, desideravano essere in rilievo occupando i primi posti.
L’ultima apostrofe che Gesù riserva loro riguarda la vita di pietà vissuta in pubblico come atto di esibizionismo religioso.
     Staccata dal piano esteriore è la loro avidità che prende di mira le persone meno tutelate: le vedove.
Professionalmente gli scribi offrivano la loro consulenza in materia legale, il che equivaleva in una società e cultura come quella giudaica, ad una competenza religiosa perché tutto veniva regolato alla luce della Thorà.
Essi però erano esosi per le loro prestazioni persino con i meno abbienti.
Le parole con le quali Gesù conclude le considerazioni a loro riguardo sono assai dure.
All’affermazione alla quale essi tanto tengono per il presente farà seguito una condanna più pesante di quella riservata al popolo.
Forse si può notare qui una fine ironia: a queste persone esasperatamente preoccupate di primeggiare sarà data loro la possibilità di farlo persino nella dimensione definitiva, ma in un modo negativo.
     La seconda sessione del nostro brano (vv.
41-44) narra un episodio che si svolge in un ambiente specifico del grande complesso del tempio.
Si tratta di un corridoio dell’atrio, luogo in cui anche le donne potevano recarsi.
In questo corridoio vi erano tredici urne nelle quali venivano deposte le offerte dei devoti.
Ad introdurre il denaro nel contenitore era un sacerdote al quale l’offerente indicava lo scopo di quanto consegnava.
Le urne si distinguevano proprio anche per la speciale destinazione data all’offerta e dunque all’uso che ne sarebbe stato fatto.
Anche in questo ambiente non manca l’ostentazione che fa da legame narrativo con la sezione precedente: i ricchi gettano molto danaro.
Proprio questo filo conduttore ci porta a scoprire che la pericope liturgica si gioca sul contrasto.
     All’esteriorità e all’avidità di cui si è parlato si contrappone la generosità e la pochezza della vedova.
Di proposito viene detto che la somma in suo possesso è cost

La preghiera fragile dei vecchi vicini a Dio

Pubblichiamo un’anticipazione di “Qualcosa di così personale.
Meditazioni sulla preghiera” del cardinale Martini Ho ben 82 anni di vita e la malattia di Parkison e gli acciacchi dell’età si fanno sentire.
Ma probabilmente, per quanto riguarda la preghiera, sono ancora a metà del guado.
Sento che la mia preghiera dovrebbe trasformarsi, ma non so bene in che modo, e sento anche una certa resistenza a compiere un salto decisivo.
So che posso dire come Isacco: «Io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte» (Gen 27,2), ma di questo non ho ancora tratto le conclusioni.
Cerco comunque di chiarirmi le idee riflettendo un po’ sull’argomento.
Mi pare che si possa parlare in due modi della preghiera dell’anziano.
Si può considerare l’anziano nella sua crescente debolezza e fragilità, secondo la descrizione metaforica (ed elegante) del Qohèlet: «Ricordati del tuo Creatore / nei giorni della tua giovinezza / prima che vengano i giorni tristi / e giungano gli anni di cui dovrai dire: non ci trovo alcun gusto.
/ Prima che si oscurino il sole, / la luna, la luce e le stelle / e tornino ancora le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa / e si curveranno i gagliardi / e cesseranno di lavorare le donne che macinano, / perché rimaste poche / e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre / e si chiuderanno i battenti sulla strada: / quando si abbasserà il rumore della mola / e si attenuerà il cinguettio degli uccelli / e si affievoliranno tutti i toni del canto» (12,1-4.
Ma anche fino al verso 8).
In questo caso il tema sarà la preghiera (qui evocata dalle parole «Ricordati del tuo Creatore») di colui che è debole e fragile, di colui che sente il peso della fatica fisica e mentale e si stanca facilmente.
La salute e l’età non consentono più di dedicare alla preghiera i tempi lunghi di una volta: si sonnecchia facilmente e ci si appisola.
Mi pare quindi sia necessario imparare a utilizzare al meglio il poco tempo di preghiera di cui si è in grado di disporre.
Non riuscendo più a dedicare alla preghiera lo stesso tempo di quando si avevano più energie, e sentendola spesso come un po’ distante e poco consolante, è possibile che il proprio spirito venga catturato da un certo senso di scoraggiamento.
Allora la tentazione sarà di accorciare ulteriormente i tempi da consacrare alla preghiera, limitandosi allo strettamente necessario.
Tuttavia questo accorciare i tempi dell’orazione potrebbe essere molto pericoloso.
Infatti la preghiera, per dare qualche conforto, deve essere di norma un po’ prolungata.
Se si restringe il tempo, anche le consolazioni sorgeranno con maggiore difficoltà e si creerà una sorta di circolo vizioso, che porterà a pregare sempre meno.
Ma la preghiera dell’anziano potrebbe anche essere considerata la preghiera di qualcuno che ha raggiunto una certa sintesi interiore tra messaggio cristiano e vita, tra fede e quotidianità.
Quali saranno allora le caratteristiche di questa preghiera? Non è facile stabilirlo in astratto e aprioristicamente: occorrerebbe piuttosto riflettere sull’esperienza dei santi, in particolare dei santi anziani.
Perciò bisognerebbe dedicare, con pazienza, un po’ di tempo alla ricerca.
Anzitutto nella Bibbia.
In molti Salmi si parla apertamente dell’anziano e della sua condizione con espressioni molto significative e suggestive.
Ad esempio: «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio; non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane» (Sal 36,25).
Si veda anche l’esortazione del Salmo 148,12: «I vecchi insieme ai bambini lodino il nome del Signore».
La Scrittura ci offre anche preghiere tipiche di un anziano.
La più nota è la preghiera dell’anziano Simeone al tempio quando prende tra le sue deboli braccia il piccolo Gesù: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Lc 2,29 ss.).
La ricerca dovrebbe allargarsi ai Padri apostolici, come Ignazio e Policarpo, quindi ai Padri del deserto e ai grandi oranti di tutti i secoli.
Non essendo qui possibile percorrere una tale via analitica, mi limiterò ad alcune riflessioni generali, aiutato anche dalla testimonianza di qualche confratello più anziano di me.
Mi chiederò, cioè, quali potrebbero essere alcune caratteristiche positive nella preghiera di un anziano.
Mi pare che possano emergere tre aspetti: un’insistenza sulla preghiera di ringraziamento; uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza; infine una forma di preghiera più contemplativa e affettiva, una prevalenza della preghiera vocale sulla preghiera mentale.
Sul primo di questi tre punti riporto la testimonianza di un confratello: «Riguardo ai contenuti della mia preghiera in questi anni di vecchiaia – ho 85 anni – si distingue la preghiera di ringraziamento.
Si sono sviluppati due motivi per ringraziare Dio: anzitutto per avermi concesso un tempo in cui mi posso dedicare (vorrei quasi dire “a tempo pieno”) a prepararmi alla morte.
E ciò non è dato a tutti.
In secondo luogo per avermi mantenuto finora nel pieno dominio delle risorse mentali e, largamente, anche di quelle fisiche».
Là dove invece non c’è questo vigore fisico e/o mentale la preghiera si colorerà soprattutto di pazienza e di abbandono nelle mani di Dio, sull’esempio di Gesù che muore dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
È così che i Salmi ci insegnano a pregare: «Tu salvi dai nemici chi si affida alla tua destra» (Sal 16,7); «Mi affido alle tue mani: tu mi riscatti, Signore, Dio fedele» (Sal 30,6); «Lo salverò, perché a me si è affidato» (Sal 90,14).
Chi ha raggiunto una certa età è anche nelle condizioni di volgere uno sguardo sintetico sulla propria vita, riconoscendo i doni di Dio, pur attraverso le inevitabili sofferenze.
Veniamo quindi invitati a una lettura sapienziale della nostra storia e di quella del mondo da noi conosciuto.
E beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente in confronto con quelli passati! La terza caratteristica della preghiera dell’anziano dovrebbe essere un crescere della preghiera vocale (e quindi una diminuzione della preghiera mentale) insieme a un inizio di semplice contemplazione che esprime con mezzi molto poveri la propria dedizione al Signore.
Diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione dell’anziano.
Ma contemporaneamente bisogna aver cura di aumentare la preghiera vocale.
Anche se un po’ assonnata o distratta, essa è comunque un mezzo per avvicinarci al Dio vivente.
Sarebbe ideale arrivare a contemplare molto semplicemente il Signore che ci guarda con amore, oppure pensare a Gesù che ha bisogno di noi per rendere piena la sua lode al Padre.
Ma qui sarà lo Spirito Santo che si farà nostro maestro interiore.
A noi non resterà che seguirlo docilmente.
in “la Repubblica” del 31 ottobre 2009

TUTTI I SANTI (Anno B)

Preghiere e Racconti La santità è sempre giovane «Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”.
“Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri.
Beati voi!”.
E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità.
Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio.
Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita.
Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.
“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana.
È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio.
Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore.
Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo.
(…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente.
E la santità non è questione di età.
La santità è vivere nello Spirito Santo”.
Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza.
Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.
(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).
Ciò che ho scritto di noi Ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia è la mia nostalgia cresciuta sul ramo inaccessibile è la mia sete tirata su dal pozzo dei miei sogni è il disegno tracciato su un raggio di sole ciò che ho scritto di noi è tutta verità è la tua grazia cesta colma di frutti rovesciata sull’erba è la tua assenza quando divento l’ultima luce all’ultimo angolo della via è la mia gelosia quando corro di notte fra i treni con gli occhi bendati è la mia felicità fiume soleggiato che irrompe sulle dighe ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia ciò che ho scritto di noi è tutta verità.
(Nazim Hikmet) Le beatitudini bibliche Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali.
È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città.
Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono.
Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati.
Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo.
La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza.
A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità.
E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.
Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili.
Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana.
Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.
Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).
Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.
(A.
MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato, 1992, 542s.).
  Il paese della felicità Se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, partiremmo comunque subito.
Perché sarebbe in ogni caso più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.
(Thorkild Hansen)   Perché dovrei aiutare soprattutto i deboli? Friedrich Nietzsche ha rimproverato al cristianesimo di glorificare la dimensione della debolezza e di condannare la dimensione della forza.
Il cristianesimo sarebbe diventato, quindi, una religione dei gretti, nella quale la forza non ha posto e dalla quale le personalità forti si sentono respinte.
Anche se Nietzsche esagera nella sua critica al cristianesimo, ha sottolineato tuttavia un aspetto importante: il cristianesimo non può diventare una religione della debolezza, altrimenti alla lunga non può dispiegare nessuna forza in questo mondo.
San Benedetto lo sapeva.
Ammonisce l’abate a trattare i confratelli in modo tale che i forti vengano sollecitati e i deboli non vengano umiliati.
Questa è per me una regola fondamentale e saggia.
I forti hanno bisogno di una sfida per crescere e mettere i loro punti forti al servizio della comunità.
Una comunità che glorifichi i deboli può togliere il respiro anche ai forti.
In questo modo danneggerebbe se stessa.
C’è bisogno di un buon equilibrio fra forti e deboli.
Entrambi dovrebbero essere sfidati e dovrebbero poter vivere nella comunità in modo tale da crescere in essa.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 145).
Posso vivere basandomi sui valori e tuttavia avere successo? I valori ci conferiscono valore e dignità.
La vita di chi fa attenzione ai valori nella sua sfera personale acquisterà valore.
Chi non si orienta più ai valori perde il rispetto per se stesso e per gli altri.
La sua vita avrà sempre meno valore.
Lo tirerà giù.
La parola “valore” viene dal latino valere, che significa “essere forte e sano”.
I valori ci danno, quindi, una forza interiore.
Rendono sana la nostra vita.
Se costruisco sui valori, quello che creo con la mia vita avrà un fondamento solido.
Non crollerà con facilità, come si può osservare con le persone che costruiscono la loro casa di vita sulla sabbia delle loro illusioni o delle immagini ingannevoli.
Alla lunga può resistere solo chi costruisce la sua casa su un terreno solido.
E tale terreno solido sono i valori o gli atteggiamenti fondati sui valori, le virtù note fin dall’antichità: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e gli atteggiamenti cristiani come la fede, la speranza e la carità.
Solo che rende giustizia alla propria essenza e chi rimane fedele con coraggio a quello che è importante per lui, chi accetta la propria dimensione e non segue continuamente esigenze smisurate, solo chi è saggio e valuta correttamente la situazione concreta, potrà vivere bene a lungo.
E a lungo termine avrà anche successo nella vita.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 149).
Preghiera Signore Gesù Cristo, custodisci questi giovani nel tuo amore.
Fa’ che odano la tua voce e credano a ciò che tu dici, poiché tu solo hai parole di vita eterna.
Insegna loro come professare la propria fede, come donare il proprio amore, come comunicare la propria speranza agli altri.
Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo, in un mondo che ha tanto bisogno della tua grazia che salva.
Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini, perché siano sale della terra e luce del mondo all’inizio del terzo millennio cristiano.
Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida questi giovani uomini e giovani donne del ventunesimo secolo.
Tienili tutti stretti al tuo materno cuore.
Amen.
(Preghiera del Papa, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).
  Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
   Lectio – Anno B   Prima lettura: Apocalisse 7,2-4.9-14          Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente.
E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».
E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele.
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua.
Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani.
E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli.
Amen».
Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?».
Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai».
E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».
       Davvero il santo è merce rara, come qualcuno va pessimisticamente dicendo? La prima lettura risponde abbattendo statistiche tendenti al ribasso.
     Dopo la solenne scenografia celeste (cf.
cap.
4) e la migliore comprensione del senso della vita e della storia grazie all’intervento dell’Agnello (cf.
cap.
5), inizia la progressiva apertura dei sette sigilli che rendevano finora inaccessibile il libro (cf.
cap.
6).
La storia è striata di sangue e di sofferenza, ma non affidata ad un cieco destino di morte.
Coloro che stanno dalla parte di Dio e dell’Agnello non sono risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, sono però risparmiati dalla distruzione totale e dall’annientamento.
La loro vita non cade nell’oblio, perché accolta e trasfigurata.
     Tre tappe scandiscono il brano: il sigillo impresso al gruppo dei 144.000 (vv.
2-4), il gruppo internazionale dei salvati (vv.
9-12) e la loro identità (vv.
13-14).
All’inizio viene ritardato l’intervento punitivo dei 4 angeli, per permettere a un quinto di segnare il numero degli eletti.
Rielaborando una scena del profeta Ezechiele (cf.
Ez 8-10), l’autore proclama la salvezza che raggiunge il resto di Israele, computato in 144.000, cioè 12.000 per tribù (elencate nei vv.
5-8, tralasciati dal testo liturgico).
Il numero, più qualitativo che quantitativo, viene dal prodotto di 12 (numero delle tribù di Israele), per 12 (numero degli apostoli, continuatori dell’antico popolo ma anche fondamento del nuovo), per 1.000 (numero di grandezza divina); esso designa una grande quantità di salvati provenienti dal giudaismo.
(Per alcuni autori — per esempio Prigent — si tratterebbe dei cristiani nella loro totalità; Ap 14,3 ripropone il numero e parla di «i redenti della terra»).
     Distinto dal precedente si pone un altro gruppo, questa volta internazionale, impossibile a quantificarsi perché «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare».
Alcune precisazioni valgono per una loro prima identificazione (cf.
v.
9: stanno in piedi, perché sono vivi come l’Agnello con il quale sono posti in relazione (gli stanno davanti), indossano vesti bianche (colore che li accomuna al mondo del divino e in modo particolare alla risurrezione di Cristo) e reggono delle palme (segno che condividono con Lui la vittoria sul male e godono della pienezza della vita); in seguito saranno identificati con maggior precisione.
Di loro viene riferito il canto celebrativo che accomuna Dio e Agnello, segno evidente di una perfetta comunione esistente tra i due esseri, cui viene attribuito il merito della salvezza.
Alla celebrazione si associa praticamente tutta la corte celeste in una dossologia che comprende 7 titoli (numero della pienezza).
Infine, l’espediente della domanda del vegliardo, elemento tipico del genere letterario apocalittico, favorisce la piena decodificazione dei salvati: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v.
14).
I salvati sono pertanto coloro che traggono origine (ieri, oggi e sempre) dalla morte redentrice di Gesù (la «grande tribolazione»).
Sono i santi che partecipano ora alla liturgia celeste, condividendo una vita di piena comunione, dopo aver partecipato, durante la vita mortale, alla passione di Cristo.
  Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3         Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.
       La santità è amore.
La lettera che celebra l’amore di Dio e dell’uomo ci propone la fonte dell’amore e, di conseguenza, la fonte della santità.
     I vv.
1-2 sono il canto entusiastico della comunità che si scopre già fin d’ora figlia del Padre che sta nei cieli: «quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!».
Il testo non parla di Cristo, ma di lui hanno trattato i due capitoli precedenti e non si dà amore del Padre se non in Cristo.
Il legame a lui stacca e isola la comunità dal mondo, qui inteso come la realtà negativa che si oppone a Dio; il mondo è principio di non-amore, di non-santità.
Esiste quindi una incompatibilità radicale, perché i credenti sono abilitati ad una dignità di figli che li nobilita.
L’amore divino è realtà che previene e che investe l’uomo, recandogli un dono inatteso e impensabile.
Dio è sorgente dell’amore e quindi di ogni santità che è nell’uomo il riflesso di Dio.
Se i vv.
1-2 suscitano e alimentano la nostalgia della santità, ad un impegno personalizzato sollecita il versetto successivo.
     Infatti, proprio alla possibilità di rendere efficace tale riflesso, pensa il v.
3 che completa il quadro indicando l’impegno della comunità per rispondere al dono divino.
Così dalla contemplazione stupita ed ammirata di quello che Dio è e fa, si passa alla collaborazione dell’uomo che accoglie responsabilmente il dono.
Uno strumento privilegiato di accoglienza è la continua purificazione, atteggiamento di conversione necessario per lasciarsi invadere da Dio: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (v.
3).
Al gloriarsi della propria dignità di figli ricevuta in dono, segue l’adeguamento che è lo sforzo continuo fatto di piccole trasformazioni.
Conversione è l’imperativo affidato all’uomo, dopo che gli è stato comunicato l’indicativo (realtà) della sua condizione di figlio: «purificare se stesso» vuole dire rendersi pronti alla sequela di Cristo, andare con lui incontro al Padre.
Adottato questo principio di vita, si capisce il seguito, non registrato dalla lettura odierna, del cristiano che non pecca, ovviamente perché si sviluppa in lui quel «germe divino» (v.
9) che è il principio di santità, la vita stessa di Dio, che lo rende figlio nel Figlio.
  Vangelo: Matteo 5,1-12a          In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli.
Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
    Esegesi      Il brano delle beatitudini elettrizza la odierna liturgia della parola.
Esso inaugura il discorso del monte, il primo dei cinque grandi discorsi che strutturano il vangelo di Matteo.
È la prima parte del primo discorso, cioè l’intonazione di tutte le parole di Gesù.
Si comprende subito l’importanza attribuita dall’evangelista a questo proclama, chiamato senza troppa enfasi la magna charta, del cristianesimo.
Lo potremmo quindi intendere come il suo manifesto, la sua carta costituzionale.
E come in ogni stato la Costituzione è l’elemento sorgivo e strutturante delle varie componenti, una stella polare cui fare sempre riferimento, così il brano delle beatitudini caratterizza lo statuto cristiano.
Il richiamo ad esso dovrà essere continuo e costante per non smarrire mai la bussola della propria identità.
L’evangelista Matteo prepara il lettore con una concentrazione di particolari: è sulla montagna che Gesù presenta il suo pensiero, esattamente come Mosè aveva ricevuto le disposizioni divine sul monte Sinai; Gesù si pone a sedere assumendo l’atteggiamento dell’autorità che legifera; attorno sta il gruppo dei discepoli che non ricevono una informazione o una comunicazione, ma un insegnamento che dovrà poi trasformarsi in vita vissuta (cf.
Mt 5,1.2).
     Se già la presentazione era solenne, l’impressione di maestosa autorevolezza promana ora dal messaggio, ritmato da una serie di «beati».
Il termine ‘felice’ ‘beato’ (makàrios in greco, da cui il nome proprio Macario e il termine ‘macarismo’ per indicare la beatitudine o felicità) si trova 50 volte nel NT, ma collegato in forma litania compare solo nel nostro brano e nel passo parallelo di Luca che crea il contrasto tra 4 beatitudini e 4 guai (cf.
Lc 6,20-26).
Proclamando le beatitudini, Gesù riprende in parte lo stile dell’AT: sono dichiarati felici gli uomini che vivono secondo le regole dettate dalla sapienza (cf.
Sir 25,7-10); nei salmi è proclamato beato l’uomo che teme (= ama) il Signore, dimostrando tale amore con l’osservanza della sua volontà espressa nella sua legge (cf.
Sal 128,1; 1,1).
Difficilmente si trovano due beatitudini insieme e mai sono ad esse associati i guai come nella combinazione di Luca.
     Nel giudaismo di poco anteriore a Gesù è dato trovare, come nel nostro caso, la presenza di una sequenza di beatitudini e anche la loro combinazione con i ‘guai’: questi si spiegano forse per la viva speranza dei tempi ultimi.
Sempre in tale contesto si incontra il discorso diretto («voi»), sconosciuto all’AT e presente in Mt 5,11.
A differenza dell’AT, non ci sono frasi secondarie che specificano le beatitudini.
     Pur con qualche somiglianza letteraria con l’AT e con il giudaismo, possiamo affermare l’originalità della presentazione di Matteo.
Troviamo infatti due gruppi di quattro beatitudini che si corrispondono anche nel numero delle parole.
Nel primo gruppo si presenta per lo più una condizione di sofferenza, nel secondo un determinato comportamento.
I vv.
11-12 sono diversi: in essi compare il discorso diretto e forse sono una rielaborazione redazionale in forma di beatitudine di un detto di Gesù.
Dobbiamo senz’altro riconoscere la novità assoluta e senza precedenti del contenuto.
Diversamente dalla prospettiva della letteratura sapienziale che additava una salvezza futura e terrena.
Gesù annuncia una salvezza presente e senza restrizioni: tutti hanno accesso alla felicità, a condizione che siano legati a lui.
Sganciati da lui, le beatitudini non hanno senso.
È lui ad inserire coloro che lo seguono nella condizione di cittadini del regno, di figli di Dio.
     Le beatitudini sono piccole frasi che si intrecciano come una litania per proclamare una felicità davvero strana: «Beati i poveri in spirito…
beati gli afflitti…».
Dopo averle ascoltate, non sarà difficile essere presi da uno shock.
Proclamare la felicità dei poveri, degli affamati, dei perseguitati sembra una evidente e sconcertante falsità che cozza contro la più elementare esperienza.
Sarebbe come dichiarare che la loro disgrazia vale una benedizione: da qui alla mistificazione il passo è breve, perché sembra una buona soluzione per mantenere le cose allo stato di fissità, senza tentarne un miglioramento.
L’accusa di conservatorismo arriva subito e facilmente.
Si potrebbe aggiungere pure la volontà di sottrarre l’uomo alle responsabilità e agli impegni che lo ancorano al presente.
Così, ad una prima reazione, il proclama delle beatitudini diventa il manifesto di una mortificante sclerosi che certo non onora Dio e che impoverisce l’uomo.
Sotto la bandiera di un sublime ideale si fa passare un ordine invertito di valori umani.
     Che cosa possiamo rispondere?      Le beatitudini sono proclamate da Gesù che annuncia solo quello che vive.
Sarebbe sorprendente che un uomo che tutti riconoscono di una inimitabile coerenza abbia iniziato la sua predicazione (così in Matteo) con un clamoroso bluff.
Le beatitudini sono il prisma che rinfrange non solo l’attitudine, ma anche i veri atteggiamenti di Lui.
     La prima cosa da sapere e da imparare consiste nella convinzione che la felicità attinge al mondo interiore.
La felicità nasce dall’anima stessa; non si trova per strada, non si compra né si vende.
Essa è un’attitudine interiore che risveglia un comportamento visibile.
Le beatitudini sono un appello a cambiare vita e prima ancora a modificare sensibilmente la propria mentalità.
E questo avviene orientandosi verso Dio: ecco la realtà del «regno dei cieli» che apre la prima e la più importante delle beatitudini; ecco il passivo divino «saranno consolati» che andrebbe reso meglio «Dio li consolerà», mostrando anche nella traduzione che la fonte della consolazione è Dio stesso.
Così di seguito, tutto rimanda a Dio.
     La forza sta tutta qui: Gesù annuncia quello che egli vive.
In lui si riscontra identità tra messaggio e messaggero, tra il dire, l’agire e l’essere.
Il segreto dell’efficacia della sua missione sta nella totale identificazione col messaggio che annuncia: egli proclama la ‘buona novella’ non solo con quello che dice o fa, ma con quello che è.
Ed egli è in perfetta comunione con il Padre, di cui esegue pienamente la volontà.
Allora anche le difficoltà (o disgrazie) che accompagnano e segnano inesorabilmente la vita di ogni uomo, assumono un significato diverso prendono senso perché integrate in una vita che parte da Dio e che a Lui arriva.
Questa è la santità.
       Meditaz

XXIX Domenica del tempo ordinario (anno B).

Comunità alternativa «La Chiesa si sente spinta non solo a formare i suoi figli, ma a lasciarsi formare essa stessa vivendo al suo interno secondo modelli e relazioni fondate sul vangelo, secondo quelle modalità che sono capaci di esprimere una comunità alternativa.
Cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, espri-ma la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementante dalla mutua accettazio-ne e dal perdono reciproco».
(Card.
C.M.
Martini) Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date Ti offro, Signore, il mio servizio lo affronto serenamente con il Tuo aiuto, per la Tua gloria, come collaborazione all’opera creatrice del Padre per il benessere di tutti.
Cristo, insegnami a pensare al mio servizio, non soltanto come una fatica, ma come occasione per servire amando il mio prossimo e così incontrare Te, che mi hai redento e vegli su di me.
Spirito Santo, aiutami a rendere l’ambiente del servizio più umano e cristiano perché aiuti tutti a ritrovarci fratelli.
(Card.
Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI).
Preghiera per il servizio Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.
Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.
Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dubbio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza.
Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritrova, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.
(Madre Teresa di Calcutta) Rinascere dalle ceneri del tuo dolore Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vi-vere la vita che volevi.
La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale.
Il vero suc-cesso, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato.
Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti ca-pita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione.
Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore.
Non sentirti sopraf-fatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza.
Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande de-gli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino.
Dentro di te c’è un es-sere capace di ogni cosa.
Guardati allo specchio.
Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune.
Se impari a co-noscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.
Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti.
Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisio-ni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua.
Sei parte della forza della vita stessa.
Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano.
Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il ser-vizio”.
(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).
Non sapevano che cosa chiedevano Marco afferma che soltanto Giacomo e Giovanni si avvicinarono al Signore e lo prega-rono, perché vede che erano soprattutto loro che volevano porre quella domanda al Signo-re e sa che essi avevano spinto la madre a chiedere.
Bisogna credere che l’affetto femminile della madre e l’animo ancora carnale dei discepoli siano stati spinti a domandare, soprat-tutto perché essi ricordavano le parole del Signore: «Quando il Figlio dell’uomo sederà nel luogo della sua maestà, anche voi sederete sui dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,28) e sapevano di essere amati in modo speciale dal Signore a confronto con gli altri discepoli, e più volte, insieme con Pietro, erano stati fatti partecipi di misteri che agli altri rimanevano nascosti, come ricorda il vangelo.
Per questo, infatti, anche a loro, come a Pietro, era stato imposto un nome nuovo; come Pietro, che prima si chiamava Si-mone, per la fortezza e la stabilità della fede inespugnabile meritò il nome di Pietro, così essi furono chiamati Boanerghés, cioè figli del tuono (cfr.
Mc 3,16-17), perché avevano u-dito insieme con Pietro la voce gloriosa del Padre che scendeva sul Signore (cfr.
Mt 17,5), conoscevano i segreti dei misteri più che gli altri discepoli e, cosa più essenziale, sentiva-no di aderire con cuore integro al Signore e di amarlo col più grande affetto.
Perciò crede-vano che sarebbe stato possibile per loro sedergli più da vicino nel Regno, soprattutto per-ché vedevano che Giovanni per la singolare purezza di cuore e di corpo era tanto amato da lui da posare il capo sul suo petto durante la cena (cfr.
Gv 13,23).
[…] Non sapevano che cosa chiedevano perché pensavano che ciascuno potesse sce-gliere a proprio arbitrio quale posto e quale ricompensa avrebbe ottenuto in dono nella vi-ta futura e non pregavano invece il Signore di condurre a buon fine, ben meritandolo, la fiducia e la speranza che avevano, consapevoli che qualsiasi cosa di buono avessero fatto, egli li avrebbe ricompensati in misura infinitamente più grande.
Certo è lodevole la loro semplicità, per cui con devota fiducia chiedevano di sedere nel Regno vicino al Signore, ma molto sarà lodata la sapiente umiltà di chi, consapevole della propria fragilità, diceva: «Ho scelto di essere disprezzato nella casa di Dio piuttosto che abitare sotto le tende dei peccatori» (Sal 83 [84],11).
Non sapevano quel che chiedevano essi che domandavano al Signore i pre-mi sublimi piuttosto che la perfezione delle opere.
Ma il maestro celeste, in-dicando che cosa anzitutto dovevano chiedere, li richiama alla via della fatica con la quale avrebbero conseguito il premio della ricompensa.
Dice: «Potete voi bere il calice che io sto per bere?» (Mc 10,38).
[…] Che tutti i fedeli debbano seguire quest’ordine nella vita lo inse-gna l’Apostolo quando dice: «Se siamo diventati come una medesima pianta con lui in conformità alla sua morte, così lo saremo anche per conformità alla sua resurrezione» (Rm 6,5).
(BEDA IL VENERABILE, Omelie sui vangeli 2,21, CCL 122, pp.
336-338).
Preghiera Signore Gesù, come Giacomo e Giovanni anche noi spesso «vogliamo che tu ci faccia quel-lo che ti chiediamo».
Non siamo infatti migliori dei due discepoli.
Come loro abbiamo però ascoltato il tuo insegnamento e vorremmo ricevere da te la forza per attuarlo; quella forza che ha poi condotto i figli di Zebedeo a testimoniarti con la vita.
Gesù, aiutaci a comprendere l’amore che ti ha spinto a bere il calice della sofferenza al nostro posto, a immergerti nei flutti del dolore e della morte per strappare dalla morte e-terna noi, peccatori.
Aiutaci a contemplare nel tuo estremo abbassamento l’umiltà di Dio.
Liberaci dalla stolta presunzione di asservire gli altri a noi stessi e infondici nel cuore la carità vera, che ci farà lieti di servire ogni fratello con il dono della nostra vita.
Mite Servo sofferente, che con il tuo sacrificio di espiazione sei divenuto il vero sommo sacerdote misericordioso, tu ben conosci le infermità del nostro spirito e le pesanti catene dei nostri peccati: tu che per noi hai versato il tuo sangue, purificaci da ogni colpa.
Tu che ora siedi alla destra del Padre, rendici umili servi di tutti!  Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica   – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 53,10-11 Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la vo-lontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la lu-ce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Il presente brano dell’A.T.
è stato scelto come prima lettura in considerazione del Van-gelo di oggi, nel quale i figli di Zebedeo vogliono mettersi al di sopra degli altri, a diffe-renza del Figlio dell’uomo che si abbassa volontariamente.
Is 53 costituisce il quarto carme del Servo sofferente di JHWH, e fa parte della seconda parte del Libro di Isaia (il cosiddet-to Deuteroisaia, capitoli 40-55, databili attorno agli anni 550-530 a.C.).
Dal carme sono stati scelti quei versi che esprimono la libera e volontaria umiliazione del Servo di JHWH.
Il v.
2, letto per intero, contiene questa parte, omessa nel brano liturgico: «Non ha né apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui dilet-to».
In linea con questa descrizione, il Servo del Signore è paragonato ad una pianta che a motivo dell’aridità del suolo presenta l’aspetto non bello di un arbusto spuntato in mezzo al deserto.
—Ecco perché è «reietto», tenuto lontano e in poco conto da parte degli uomini (v.
3), e lui stesso è «uomo dei dolori», soffrendo in mezzo al disprezzo, all’aridità, alla solitudine.
— I vv.
10-11 formano una strofa del carme, nella quale vengono evidenziate due di-mensioni: da una parte l’espiazione, nel senso che il Servo soffre per gli altri, per i loro peccati (v.
110); dall’altra l’esaltazione, nel senso che Dio gli darà gloria perché ha preso su di sé tale sofferenza per gli altri.
I due versi costituiscono un prezioso commento o spiega-zione della parola sul riscatto pagato dal Figlio dell’uomo, alla fine del Vangelo di oggi (Mc 10,15).
Seconda lettura: Ebrei 4,14-16 Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non ab-biamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
In questo brano la Lettera agli Ebrei introduce il paragone di Gesù col sommo sacerdote dell’Antica Alleanza.
Paragone molto importante per i destinatari e lettori della lettera, perché a quell’epoca c’era ancora il tempio, nel quale il sommo sacerdote celebrava i riti.
Del resto il sommo sacerdote era chiamato anche «Christos», unto (Lev 1,3).
Sua funzione liturgica è principalmente quella del perdono dei peccati di Israele nel giorno dell’espia-zione (yom hakippourim).
La Lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra Cristo ed il som-mo sacerdote alla luce del giorno di espiazione e del perdono dei peccati, che in esso veni-va accordato a tutto il popolo.
Gesù, attraverso la risurrezione e la glorificazione «è passato attraverso i cieli» (v.
14), vale a dire è entrato nel tempio celeste, come il sommo sacerdote entra in quello terreno nel giorno dell’espiazione.
Questa è la nostra confessione (homologia), corrisponde cioè alla so-stanza di quello che decidiamo di credere.
— «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze…» (v.
15).
A questo punto la Lett.
agli Ebrei tocca il mysterium compassionis: l’incarnazione è, fon-damentalmente, la com-passione, il soffrire di Dio con noi.
Il nostro sommo sacerdote ha voluto soffrire con noi ed essere messo alla prova insieme a noi.
— «Accostiamoci…al trono della grazia» (v.
16).
Il Santo dei santi nasconde il «trono della grazia», chiamato in ebraico kapporet (cf.
Rm 3,25: «hilasterion», propiziatorio), vale a dire il coperchio di oro che si trova sull’arca dell’Alleanza con i Cherubini, sui quali Dio è presen-te come re assiso sul trono.
La presenza di Dio è soprattutto presenza di grazia.
Per questo noi possiamo avvicinarci a tale trono pieni di gioia.
Vangelo: Marco 10,35-45 In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Gio-vanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo».
Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?».
Gli rispo-sero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete.
Pote-te bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel bat-tesimo in cui io sono battezzato?».
Gli risposero: «Lo pos-siamo».
E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati.
Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni.
Allora [Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i go-vernanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono.
Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti.
Anche il Figlio del-l’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per ser-vire e dare la propria vita in riscatto per molti».] Esegesi Gesù ha annunziato per la terza volta la sua passione e morte ai Dodici in disparte (Mc 10,32-34), usando toni molto duri e realistici: lo condanneranno a morte, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo uccideranno.
Nel vangelo odierno, ad immediato seguito di quelle dichiarazioni, i due figli di Zebedeo avanzano a Gesù un’ambiziosa domanda (vv.
35 ss): questa gli dà l’occasione di approfondire ed esplicitare il tema della passione, asso-ciando ad essa la sorte dei suoi discepoli.
«Nella tua gloria» (v.
37).
Giacomo e Giovanni, che furono tra i primi ad accettare la chiamata del Maestro, sono persuasi di avere un titolo in più per occupare i primi posti in quel regno messianico glorioso che, secondo la comune convinzione dei discepoli, Gesù va ad inaugurare a Gerusalemme.
Nonostante i ripetuti annunci di Gesù, coltivano ancora questa aspettativa terrena di gloria e vogliono accaparrarsene i posti di onore (a destra e a sinistra del re).
Non è da escludere che nell’atteggiamento dei figli di Zebedeo si riflettano anche tensioni della chiesa nascente.
— Il calice, il battesimo (v.
38).
In molti testi dell’Antico Testamento e del giudaismo il «calice» era metafora delle «vertigini» e sofferenze che Dio faceva provare ai peccatori (cf.
Ger 25,15; Sal 11,6: 65,9 ecc.): Nella sua preghiera al Getsemani Gesù userà la medesima immagine (14,36).
Lo stesso senso evoca la parola «battesimo», ossia immersione nelle on-de della sofferenza (cf.
Le 12,50).
Gesù coinvolge i discepoli nella sua missione di sofferen-za.
— «Per coloro per i quali è stato preparato» (v.
40).
Alla risposta affermativa dei due disce-poli (dovuta sempre alla loro intenzione di partecipare alla gloria, anche se attraverso le prove), il Maestro replica che essi sono sì chiamati a partecipare alla sua intronizzazione messianica, ma non in base a diritti di umana precedenza, bensì per libera e gratuita inizia-tiva del Padre: il verbo preparare al passivo rimanda, come spesso nei testi biblici, alla so-vrana volontà di Dio.
— «Dare la propria vita in riscatto per molti» (v.
45).
Gesù prende spunto dalla «indigna-zione» umana degli altri discepoli (v.
41), per dichiarare lo statuto fondamentale che deve regolare i rapporti della comunità ecclesiale.
Egli contesta radicalmente il modello di auto-rità dispotico che vige tra le genti, nel mondo pagano; e propone paradossalmente come modello di autorità due figure che sono agli antipodi: il servitore e lo schiavo.
Queste due immagini, però, non sono generiche.
Rappresentano concretamente la scelta di Gesù: per lui «servire» vuol dire essere fino in fondo obbediente e fedele alla volontà del Padre, sulla stessa linea del «servo del Signore» di Isaia (vedi I Lett.), che si fa solidale col peccato degli uomini.
Dicendo che è venuto «per dare la sua vita in riscatto» per molti, il Cristo dichiara il carattere soteriologico della sua morte: la parola «riscatto» (in greco lytron, «mezzo per sciogliere») indicava, tra le altre realtà, il prezzo pagato per liberare uno schiavo.
Accet-tando la sua morte come atto di amore e liberazione degli uomini dalla schiavitù del pec-cato, Gesù consegna alla comunità dei discepoli un modello di amore supremo, che essa è chiamata a inverare e prolungare nella vita.
Meditazione Tra le resistenze che il discepolo incontra nel suo cammino di sequela del Signore Gesù, una in particolare emerge con forza nei capitoli centrali del racconto di Marco: è la resi-stenza alla logica della diakonia, logica che anima in profondità la via di Gesù e attraverso la quale il Figlio rivela la sua obbedienza al Padre e il suo amore senza limiti per gli uomi-ni.
Per ben due volte Gesù deve ritornare sul tema del servizio per educare i discepoli ri-luttanti a questa prospettiva e affascinati maggiormente dalla ricerca e dalla conquista di un primo posto da cui poter emergere e dominare sugli altri (cfr.
Mc 9,33.35 e 10,42-45).
E questo intervento di Gesù sul servizio, che mira a correggere la tentazione in cui i discepoli si lasciano facilmente coinvolgere avviene significativamente dopo il secondo e il terzo annuncio della passione, morte e risurrezione (cfr.
Mc 9,30-32 e 10 32-34); il discepolo fati-ca ad accogliere questa parola dura, fatica ad andare al di là di un paradosso che tuttavia apre lo sguardo sul mistero del dono del Figlio dell’uomo, sul mistero di Colui che «non e venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (10, 45).
In fondo il discepolo rimane estraneo alla stessa Scrittura che già aveva tratteggiato il volto di questo umile Servo che attraversa l’esperienza della sofferenza e del disprezzo per apri-re agli uomini il cammino della vita.
Questo «uomo dei dolori», come dice il Deutero-Isaia (prima lettura), la cui esistenza assurda e segnata dalla sofferenza sembra una contraddi-zione di una umanità amata da Dio è in realtà il cammino che Dio stesso sceglie per rivela-re tutta la sua solidarietà con l’uomo; anzi attraverso questa umiliante via crucis questo mi-sterioso servo, in cui «si compie la volontà del Signore», diventa offerta «in sacrificio di ri-parazione».
Ecco perché il Deutero-Isaia, con quello sguardo profetico che va al di là di una drammatica vicenda di dolore, può annunciare: «dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza…
il giusto mio servo giustificherà molti, egli si ad-dosserà le loro iniquità» (Is 53,11).
Non è forse questo il cammino che Gesù prospetta ai di-scepoli nel secondo annuncio della passione? Ma il cuore del discepolo è altrove; non può accogliere questa parola, chiuso nella sua incomprensione e nella sua paura.
Ecco perché Marco nota: «Camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti» (10,32).
Proprio in questo contesto di ‘lontananza’ tra Gesù e i discepoli, che pur stanno cammi-nando con lui, si colloca la sorprendente domanda dei figli di Zebedeo.
Essa rivela quale è la logica che stanno inseguendo questi due discepoli: essi vogliono (è la pretesa del potere) che Gesù favorisca la loro sete di carriera: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (10,37).
Dunque, con una disinvoltura che irrita gli altri dieci discepoli, Giacomo e Giovanni domandano di avere i primi posti, di essere i primi ministri nel regno istaurato dal Messia glorioso.
Nella loro richiesta emerge ancora una volta il rifiuto alla sequela della croce: vi è la paura di guardare in faccia quella realtà u-manamente scandalosa e incomprensibile che segna il passaggio attraverso cui Gesù rea-lizza il dono della sua vita.
E proprio su questo passaggio Gesù insiste nella sua risposta ai discepoli: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete e nel battesimo in cui io sono battezza-to anche voi sarete battezzati…» (10,39).
Prendere parte alla gloria di questo Messia umilia-to è possibile solo condividendo come lui l’esperienza della pasqua, rimanendo come lui solidale all’uomo peccatore nell’obbedienza al Padre che ha scelto questa via per rivelare la sua misericordia e per liberare l’uomo dalla morte.
E con forza, le due immagini del calice che deve essere bevuto (immagine che ritorna al Getsèmani: cfr.
Mc 14,36) e delle acque in cui è necessario immergersi esprimono sia il cammino di umiliazione e di morte che Gesù sta percorrendo, sia la piena condivisione della realtà umana che il Figlio di Dio si assume totalmente in comunione con il volere del Padre.
Questa è la tensione che anima la via di Gesù e questo è ciò che deve importare al discepolo, scelto «per stare con lui» (Mc 3,15).
Tutto il resto è libera azione del Padre: sarà lui a scegliere chi far sedere alla destra e alla sinistra di questo Messia umanamente poco glorioso: «Con lui crocefissero anche due la-droni, uno a destra e uno alla sua sinistra» (15,27).
Ciò che Gesù dice ai figli di Zebedeo, si trasforma in una parola rivolta a tutta la comu-nità.
In fondo, la tentazione di questi due discepoli è la tentazione di tutta la comunità dei discepoli.
La logica del potere (espressa da questa smaccata richiesta) fa scattare una ten-sione tra gli altri, i quali «avendo sentito, cominciarono ad indignarsi» (10,41); una indi-gnazione che, purtroppo, maschera lo stesso desiderio di un primo posto.
Nella comunità dei discepoli (la Chiesa) c’è il rischio che si instauri la stessa logica di dominio che caratte-rizza le relazioni in prospettiva ‘mondana’ (siano esse politiche, economiche, sociali e an-che religiose).
La comunità dei discepoli non ha altre vie da seguire se non quella di Gesù.
E qui Gesù ripropone nuovamente il suo cammino e il suo esser in mezzo ai discepoli at-traverso l’icona del servo: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servi-re e dare la propria vita in riscatto per molti» (10, 45).
La comunità dei discepoli si trova sempre di fronte a queste due possibilità: o seguire la logica del mondo o seguire con umil-tà il cammino della diakonia, il cammino del dono di sé, la via di Gesù (quel Messia che po-co dopo entrerà in Gerusalemme a dorso di un puledro d’asina: cfr.
Mc 11,1-10).
La prima strada è chiara («voi sapete…»): è quella percorsa da chi domina, da chi esercita un potere, illudendosi di avere così l’autorità e il diritto di farsi chiamare capo.
Ma è una via di op-pressione e non di reale dono e servizio, poiché non libera, non fa maturare e crescere l’al-tro (non è una reale auctoritas).
Il cammino di Gesù permette di realizzare autenticamente il desiderio che il discepolo, e ogni uomo custodisce nel cuore: ‘esser grande’ cioè realizza-re pienamente la propria umanità.
La via che Gesù propone è l’anti-potere per eccellenza: «Chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (10,44).
Colui che è senza ruolo e senza prestigio, lo schiavo, colui che ha il coraggio di mettersi ai piedi dei fratelli e di di-minuire perché l’altro possa crescere, colui che veramente serve i fratelli donando sé stesso e la sua vita, questi è veramente grande, è il primo, esercita una reale autorità.
E in questa prospettiva l’autorità nella comunità dei discepoli diventa luogo di rivelazione in cui deve trasparire maggiormente la logica della Croce e solo in questa logica l’autorità trova giusti-ficazione.
La parola di Gesù non può essere ridotta ad un vaga esortazione all’umiltà; essa è, di fatto, criterio di discernimento per lo stile di ogni comunità cristiana, della Chiesa di ogni tempo.
Relazioni tra discepoli, strutture e ministeri, stili di vita e di annuncio, tutto nella comunità deve confrontarsi con questa parola.
Perché Gesù lo dice chiaramente: «Tra voi non è così…» (10,43).
Tra i discepoli non ci può essere spazio per la logica del potere; la vita di una comunità cristiana deve essere l’alternativa vivificante a questo cammino di morte a cui conduce la sete del potere, il luogo in cui al centro c’è la vita e la persona di Gesù (è la misteriosa forza dei due sacramenti che fanno la Chiesa, il battesimo e l’eucaristia), il luogo in cui si rivela il dono che conduce alla salvezza.
Questo è il cuore della sequela che ogni discepolo deve vivere e, in primo luogo, colui che tra i fratelli è chiamato ad esser servo della comunione.

XXVIII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

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LECTIO – ANNO B Prima lettura: Sapienza 7,7-11 Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento.
L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.
Il brano appartiene alla seconda parte del libro della Sapienza, là dove viene presentato Salomone, il saggio per antonomasia e la sua ricerca per la sapienza.
Dopo una prima parte che metteva in luce la piccolezza di Salomone (cf.
7,1-6), il nostro brano mette in luce il valore della sapienza.
L’idea madre sta qui: la sapienza è superiore a tutte le ricchezze.
— Il v.
7 da l’intonazione perché qualifica la sapienza come dono di Dio, un bene che si chiede a Lui.
Si tratta quindi di una realtà qualitativamente diversa da tutte quelle che l’uomo può acquisire da sé.
— I vv.
8-10 fanno l’inventario dei beni solitamente ricercati: potere (v.
8), ricchezza (v.
9), salute e bellezza (v.
10).
Viene utilizzata la tecnica del contrasto e della sproporzione: non è neppure ipotizzabile un raffronto tra questi beni e la sapienza, tanto questa li supe-ra di gran lunga.
— Il v.
11 recupera tutti i beni, come corredo della sapienza.
Quindi, sembra suggerire l’autore, non viene snobbato nulla di quanto l’uomo incontra sulla terra.
L’implicita raccomandazione – sull’esempio di Salomone che sceglie e preferisce la sa-pienza – è di ricercare i beni del cielo (tale è appunto la sapienza), sapendo che «tutte que-ste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 7,33).
Seconda lettura: Ebrei 4,12-13 La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.
Tra le ricchezze che il cristiano deve ricercare e possedere, va senz’altro annoverata la Parola di Dio.
Il testo è un minuscolo ma prezioso trattato sul suo valore.
La Parola di Dio, presentata sotto la metafora della spada (cf.
Ef 6,17; Ap 1,16), è detta viva (in greco posto enfaticamente all’inizio), forse perché compie azioni importanti, vitali.
È attribuita alla Parola una specie di personificazione (cf.
Is 55,10ss.), che si manifesta anche nella caratteristica dell’essere efficace e tagliente.
Ad esso viene attribuito un potere di discernimento che spesso la coscienza non possiede, perché intrappolata nei meandri di false rappresentazioni.
La Parola di Dio svolge quindi la preziosa funzione di indagare, illuminare, orientare.
Una vera bussola che il Signore pone sul cammino del credente e della comunità, per rendere più sicuro il suo cammino.
Dono di Dio, è una ricchezza offerta agli uomini.
Vangelo: Marco 10,17-30 [In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?».
Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.
Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza».
Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!».
Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!».
I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?».
Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».] Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito».
Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».
Esegesi La professione di fede di Pietro divide in due parti il Vangelo secondo Marco: se prima Gesù era impegnato ad annunciare la Buona Novella a tutti, ora, senza rinunciare ad istru-ire la folla, coagula il suo interesse sul gruppo dei Dodici che ha fatto l’opzione per Lui.
Troviamo materiale eterogeneo quanto a genere letterario, perché composto da un rac-conto di vocazione, da un ammonimento e da una risposta all’implicita richiesta di Pietro; però comune è la tematica, quella della ricchezza, una specie di filo conduttore che rinsal-da le diverse parti.
In dettaglio: — Gesù incontra un ricco e lo chiama alla sua sequela, vv.
17-22; il racconto è animato dal movimento iniziale di correre incontro a Gesù in contrasto con quello finale di allonta-namento; il primo movimento sottintende una gioia della ricerca, il secondo è accompa-gnato da tristezza.
— Colloquio di Gesù con i discepoli sulla ricchezza come ostacolo per l’ingresso nel re-gno dei cieli; la difficoltà viene superata dalla potenza divina, vv.
23-27.
— Problema di Pietro circa la ricompensa alla sequela e la conseguente risposta di Gesù; esiste una ricompensa immediata e una futura, vv.
28-31.
L’insegnamento rimbalza dai discepoli a tutti gli uomini che vogliono mettersi alla se-quela di Cristo; esso porta luce e orientamento e, per il cristiano, diventa norma di vita.
Notiamo un inizio elettrizzante di uno che corre incontro a Gesù: si presagisce qualcosa di interessante.
Al movimento spaziale l’evangelista Matteo aggiunge anche un movimen-to temporale: secondo lui si tratta di un giovane: per Marco è chiaramente un adulto per-ché dirà «fin dalla mia giovinezza».
Oltre alla corsa, il mettersi in ginocchio davanti a Gesù, denota la stima verso il maestro di Nazaret.
C’è grande aspettativa.
— «Maestro buono…
Nessuno è buono, se non Dio solo».
L’appellativo, di uso raro e insolito, sembra rifiutato da Gesù.
In realtà, egli aiuta a capire dove sta la vera e unica sorgente della bontà, alla quale tutti devono attingere: il Padre; ce lo rammenta sempre la liturgia: «Padre santo, fonte di ogni santità…» (Prece eucaristica II).
Chi ricerca la vita eterna, deve orientarsi verso quel Dio che ha espresso la sua volontà di santità nel decalogo.
— «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare…».
Gesù cita la quintessenza dell’al-leanza al Sinai: si allinea con la migliore tradizione biblica di cui afferma l’autenticità e di cui conferma la continuità.
La proposta della ‘seconda tavola’, quella che contiene i doveri verso il prossimo, dimostra che qui si gioca la veridicità dell’amore a Dio.
— La risposta piace ma non propone nulla di nuovo: «Maestro, tutte queste cose le ho os-servate fin dalla mia giovinezza».
L’uomo che sta davanti a Gesù sente il bisogno di qualcosa che vada oltre; a lui il merito di aver intuito che Gesù può indicare quel qualcosa.
— Il salto di qualità arriva negli atteggiamenti e nei sentimenti prima ancora che nelle parole.
L’evangelista Marco ha regalato all’umanità il particolare stupendo dello sguardo e dei sentimenti di Gesù: «fissò lo sguardo su di lui, lo amò».
È un dettaglio di toccante tenerez-za, esclusivo del secondo vangelo.
La forza di quello sguardo e la carica di quell’amore spingono ad accogliere il novum che l’uomo aveva vagamente percepito in Gesù e che ora si sente proporre: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un te-soro in cielo; e vieni! Seguimi!».
— Tutto gravita attorno a due poli che bilanciano la risposta: «Va’, vendi» e «Vieni! Se-guimi!».
Sono due coppie di imperativi che vivono un drammatico contrasto: movimento di allontanamento il primo, di avvicinamento il secondo.
L’originalità sta nel prospettare la povertà evangelica e la sequela di Cristo, l’una come condizione dell’altra: «Il vero modo di tesorizzare presso Dio è quello di dare.
Uno non ha quanto ha accumulato, bensì quanto ha donato» (S.
Fausti).
In ogni caso ci si deve allontanare da qualcosa per incamminarsi dietro a Qualcuno.
Idee e progetti che prima si realizzavano in proprio, ora si realizzano in società, meglio, in comunione.
— Gesù chiama quell’uomo a diventare suo discepolo; gli propone l’ideale suggestivo e arduo della sequela.
Scrive Kirkegaard: «Diventare discepolo consiste nell’essere intima-mente coinvolto in un drammatico e salutare confronto di contemporaneità con Cristo, in-vece di mantenersi nello stato di ammiratore disimpegnato».
La vocazione a seguire Gesù esige un legame con la sua persona, perché Gesù non promette altro che se stesso e una rottura con il presente.
Al di fuori di questa comunione saranno solo idee e progetti avventizi e sterili, destinati a vita breve e senza seguito.
Il Cristo non chiede di essere sradicati o isolati, propone invece il legame e la comunione con Lui.
Praticamente Gesù dice al ricco: «Seguimi!».
Lui e Lui solo è la meta dei comandamenti, la loro pienezza Gesù riprende la domanda del suo interlocutore che voleva qualcosa di più.
La risposta è Gesù stesso: è Lui che fa la differenza con la risposta tradizionale, pur valida, ma insufficiente.
— Quell’uomo ha paura dell’ignoto e preferisce l’ancoraggio al presente; perde il suo entusiasmo iniziale, smorzandosi in una tristezza che lo incupisce e lo allontana.
La con-clusione dell’episodio è quanto mai laconica: «Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni».
Con il «se ne andò rattristato» si registra prima la tristezza che si e dipinta sul volto, all’esterno, seguita dalla motivazione «a queste parole»; si dà poi l’analisi psicologica dello stato d’animo con quel «scuro in volto» seguito dalla seconda motivazione «possedeva infatti molti beni».
La tristezza esteriore è più immediata ed è causata dalle parole di Gesù ha valore più transitorio.
L’afflizione invece pesca nel profondo, intacca tutta l’esistenza e proviene dalla ricchezza alla quale l’uomo è schiavisticamente legato.
Dalla corsa iniziale all’allontanamento finale: qui sta la miserevole vicenda di chi si ar-ricchisce davanti agli uomini e non davanti a Dio.
— Sussiste per tutti il pericolo della ricchezza (vv.
23-27).
L’accaduto diventa occasione per un salutare monito a tutta la comunità ecclesiale.
Le parole di Gesù «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!» ghiacciano l’uditorio e gettano nella costernazione i discepoli.
Va ricordato che i discepoli erano cresciuti alla teologia dell’Antico Testamento che considerava la prosperità materiale come il sacramento della benedizione divina.
Non si sa fin dove la predicazione profetica e la teologia dei salmi fossero riuscite a intaccare lo zoccolo duro dell’opinione popolare, del resto ampiamente accolta e propagandata dalla classe dei sadducei.
Di fatto coesistevano l’ideale dei poveri di JHWH che ponevano la loro fiducia esclusivamente in Dio e la prassi dei ricchi che si ritenevano depositari della benevolenza divina perché potevano disporre di beni materiali.
A Gesù spetta il non facile compito di ribaltare un pensiero comune e di profilarne un altro.
Quasi incurante dello shock provocato, rincara la dose: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!».
Gesù non fa sconti.
Secondo lo stile orientale, l’idea viene sostenuta da un paragone: « È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
È una iperbole cioè una voluta esagerazione per far capire il messaggio (fallaci i tentativi di trasformare kamelos ‘cammello’ in kamilos ‘gomena corda di nave’, oppure di pensare ad una porticina delle mura di Gerusalemme denominata ‘cruna dell’ago’).
Davanti ad una reale e consistente difficoltà, la soluzione viene dal Signore: «tutto è possibile presso Dio»; la frase, presa da Gn 18,14 (Sara e Abramo) ricorda il potere di Dio.
— Se quell’uomo ha fallito, i discepoli hanno lasciato tutto e seguito il Maestro, implicitamente viene chiesto che cosa toccherà loro (cf vv.
28-31).
La risposta di Gesù è inaspettata e, come sempre, profonda: viene promessa una ricompensa futura, definitiva e una immediata, provvisoria.
La prima è la «vita eterna», quella vita che il ricco aveva ricercato ma pure rifiutato, quella nella quale è impossibile entrare se si è ricchi.
Quella provvisoria sta nel fatto che i discepoli di Cristo, rinunciando alla casa, alla famiglia e alla proprietà, ritrovano una nuova famiglia ed una casa nella comunità cristiana.
Il pensiero è ben illustrato da Mc 3,34-35 dove Gesù aiuta a superare i legami familiari giuridici per ritrovare i legami della fede.
Meditazione La sezione centrale del vangelo di Marco (i capitoli 8-10) presenta un tema dominante, quello della sequela, plasticamente raffigurato dalla via che sale a Gerusalemme percorsa da Gesù con i suoi discepoli.
Su questa strada avviene un incontro: un uomo ricco si avvi-cina a Gesù e lo interroga.
E proprio attraverso il dialogo che si intesse tra quest’uomo e Gesù, attraverso la desolante conclusione a cui giunge il cammino di ricerca di quel ricco, attraverso le reazioni dei discepoli, spettatori attoniti di questo episodio, Marco ci offre alcune sfumature che caratterizzano le esigenze della sequela: le condizioni per «avere in eredità la vita eterna» (10,17); la scoperta di quel ‘Maestro buono’ che può insegnare e fare dono della vita; la scelta di seguire questo maestro e le condizioni per essere suo discepolo; il discernimento sui beni terreni e il rapporto tra ricchezza e sequela.
E certamente quest’ultimo aspetto sembra catturare l’attenzione di quell’uomo ricco che, con tanto entusiasmo, era corso da Gesù ponendogli quell’interrogativo esistenziale, l’interrogativo sulla vita vera, la vita ‘senza fine’.
A partire da questa domanda rivolta a quel ‘Maestro buono’ (cfr.
10,17-18) e dalle successive risposte, l’uomo ricco è posto di fronte ad alcune scelte: dove sta la vera vita? I beni terreni possono assicurare la vita? Scegliere la vita o scegliere i beni? Possedere ricchezze o lasciarle per seguire quel ‘Maestro buono’? È dunque necessario un discernimento e questo deve illuminare il rapporto con le ricchezze materiali e la loro relazione con ciò che veramente può dare valore a una esistenza.
In sé la ricchezza non è un male; anzi, nel linguaggio biblico, è segno di benedizione di Dio.
Ma resta pur sempre una realtà ambigua, soprattutto quando cattura il cuore dell’uomo, rendendolo estraneo a Dio, in quanto crea una sorta di dimenticanza nei suoi riguardi e provoca attorno a sé ingiustizia sociale e avidità (si pensi alle parabole del ricco stolto e del ricco gaudente in Lc 12,13.21 e 16,19-31).
Soprattutto di fronte alla vita elargita da Dio, ogni ricchezza materiale assume un valore diverso.
Come suggerisce il testo del libro della Sapienza (prima lettura), una vita illuminata dalla saggezza che viene da Dio non può essere paragonata con nessun bene materiale: «tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento» (Sap 7,9).
Il discernimento per giungere a una scelta ‘sapienziale’ della vita può esser illuminato solo dall’incontro con la parola di Dio, quella parola che – come dice la lettera agli Ebrei (seconda lettura) – «è viva, efficace, più tagliente di ogni spada a doppio taglio» e «che discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).
E proprio sulla strada che conduce a Gerusalemme, quell’uomo ricco è chiamato a fare questa scelta, in un confronto con la parola di Dio, con quel maestro buono che dona la vita.
Soffermiamoci su alcuni elementi che caratterizzano la dinamica di questo incontro.
Notiamo anzitutto come all’incontro con Gesù, quell’uomo è condotto a partire da una ricerca personale, una ricerca sincera e motivata: «gli corse incontro…e gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità al vita eterna?”» (Mc 10,17).
La risposta di Gesù rimanda il ricco semplicemente alla parola di Dio, alla via dei comandamenti (e in particolare quelli che evidenziano le relazioni con il prossimo).
Ed è appunto il cammino a cui quest’uomo ha cercato di essere fedele «fin dalla giovinezza» (10,20).
Ma attraverso la risposta di Gesù, la ricerca di quest’uomo deve aprirsi a un salto di qualità, a un incontro.
Si è rivolto a Gesù, l’ha chiamato ‘Maestro buono’ e ora deve prendere coscienza di ciò che cerca veramente e chi è colui al quale ha rivolto la sua domanda: «perché mi chiami buono?» (10,18).
Per avere «in eredità la vita eterna» (10,17, questo è ciò che aveva chiesto l’uomo ricco a Gesù), è necessario compiere una scelta.
E la scelta per quell’uomo è essere discepolo del ‘Maestro buono’, seguire colui che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).
«Una cosa sola ti manca…» (10,21): a quell’uomo non basta essere un giusto (osservare i comandamenti) per avere la vita; deve diventare un discepolo di colui che dona la vita.
Questa è la radicalità della chiamata che Gesù rivolge a quel ricco.
E la radicalità dell’appello è caratterizzata anzitutto dallo sguardo che Gesù rivolge a quell’uomo: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò…» (10,21).
Prima di chiamare alla sequela, Gesù ama colui che invita ad essere suo discepolo.
E per quell’uomo, desideroso di fare qualcosa per possedere la vita, anzitutto è richiesto di accogliere un amore gratuito.
Sta qui la radicalità: nella sequela non si è protagonisti, ma si accoglie la gratuità di un dono, l’amore di Cristo.
Ma la scelta di seguire Gesù è radicale anche perché richiede un abbandono di ciò che fino a quel momento ha catturato la vita di quell’uomo, le ricchezze: «Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (10,21).
Per seguire Gesù è ri-chiesta una libertà da ciò che ostacola questo cammino; è necessario fare un vuoto, ma che deve esser però riempito da un tesoro vero, l’amore di Cristo e l’amore per Cristo.
A questo punto per quell’uomo si pone il discernimento: che cosa è più importante? Che cosa o chi preferire? E la risposta data dall’uomo ricco è purtroppo un fallimento.
L’incontro si conclude con una scelta mancata, una ricerca e un desiderio di vita frustrati.
Dalla gioia iniziale che aveva portato quell’uomo a correre incontro a Gesù, alla tristezza finale di un cuore incapace di scegliere tra la Vita e le cose che compongono la vita, ma che di fatto non la contengono.
E Marco sembra insistere su questa tristezza: «A queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato…» (10,22).
È la tristezza di un cuore che non riesce a liberarsi e che la parola di Gesù ha fatto emergere (cfr.
Eb 4,12-13); è la tristezza di una ricerca fallita.
«Se ne andò»: è proprio il contrario della sequela.
Ma lo sguardo e la parola che Gesù rivolge ai discepoli sconcertati da ciò che avevano visto, è come un’ultima apertura per comprendere cosa significa seguire Gesù.
In fondo, ricorda Gesù ai discepoli, un ricco non può entrare nel regno di Dio: «Quanto è difficile entrare nel regno di Dio!» (10,24).
E subito aggiunge: è «impossibile agli uomini» (10,27).
Nella prospettiva umana, seguire Gesù, accettare le condizioni di questa sequela, lasciare ciò che ostacola la sequela, è assurdo e impossibile (l’immagine della cruna dell’ago e del cammello).
A meno che l’uomo si affidi radicalmente alla potenza dell’amore di Dio, si af-fidi, in qualche modo, allo sguardo di amore di Gesù.
Allora essere discepolo è possibile per ogni uomo, anche per un ricco (come è capitato a Zaccheo: cfr.
Lc 19,1-10), perché «tut-to è possibile a Dio» (10,27).
Diventare discepoli o entrare nel Regno, non è frutto dell’abilità e degli sforzi umani: è un dono della potenza salvifica di Dio.
A Lui è necessario affidarsi ed accogliere quella parola e quello sguardo di amore (cfr.
10,21) che rendono libero l’uomo e lo cambiano.
Ti mancava una cosa sola Non sappiamo il tuo nome, ma meglio così, sei tutti noi.
Eri ancor giovane, dice qual-cuno, ma avevi già un passato da raccontare e una posizione ce l’avevi, economica e non solo.
Eri anche una persona perbene, un bravo ragazzo, come si dice.
Vorremmo tornare a quel tuo incontro straordinario con Gesù, il giorno che passò dal tuo paese.
Chissà anche tu quante volte ci sarai ritornato su, col pensiero, nella tua vita di poi, nelle notti insonni o nelle pause del giorno.
Dovevi esserne rimasto affascinato.
Dovevi aver detto anche tu: “Nessuno parla come costui!”.
Quel giorno, mentre stava andandosene, non hai voluto perdere l’occasione di incontrarlo.
Ti sei slanciato verso di lui senza ch’egli ti cercasse (o non era forse lui quella nostalgia d’infinito che già bruciava in te?), gli sei caduto alle ginocchia, come i tuoi servi davanti a te, gli ha posto la domanda cui solo lui, ne eri certo, poteva rispondere: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”.
Forse ne avevi sentito parlare da lui, fatto sta che tu ci credevi, che la tua storia non sarebbe finita su questa terra.
Il Maestro t’aveva rimesso, al di là di ogni infatuazione, davanti all’Unico buono.
Lui dunque da amare anzitutto.
E t’aveva snocciolato i comandamenti delle relazioni umane secondo Dio.
Non era facile per te esservi fedele, ma ce l’avevi fatta.
Non avevi ammazza-to nessuno, lasciavi ad ognuno la sua donna e i suoi beni, e mai nessuno avevi danneggia-to con la menzogna e l’inganno.
Tuo padre e tua madre li avevi rispettati, ci mancherebbe altro.
Con che gioia hai detto a Gesù: “Ho sempre obbedito a questi comandamenti”.
Gesù non ti ha guardato, semplicemente, come si guarda uno che parla; ti fissò, dice Marco, che, benché di poche parole, precisa: ti amò.
Era come se volesse per primo offrirti quel più d’amore che stava per chiederti.
“Una sola cosa ti manca: va’ vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”.
Non avresti mai pensato che ti chiedesse tanto.
Forse un’elemosina più consistente, pensavi, una preghiera più lunga, una penitenza.
Ti è mancato il fiato.
In un istante hai ri-visto tutto quello che avevi e quello che speravi di avere.
Il frutto delle fatiche dei tuoi pa-dri e tue a chi non ne aveva diritto? e poi… seguire Gesù: dove? con che prospettive? Inutile chiederti com’è stato che hai scelto liberamente eppure sei rimasto triste.
La co-nosciamo questa tristezza, questa falsa libertà.
Il dramma di non volare alto per godere a bassa quota eppure rimanere infelici.
L’impotenza di vedere il bene, di volerlo anche, sen-za riuscire a sceglierlo.
Eccome, se ti capiamo.
Vorremmo però capire che cosa non ha funzionato nella tua storia, cioè nella nostra.
Anche Simone e Andrea non avevano ancora capito niente di Gesù, anzi, non gli avevano neppure fatto la tua bella domanda, e forse non erano neppure osservanti come te.
Eppu-re, subito, l’hanno seguito.
Perché loro sì e tu no? “Perché aveva molti beni”, sembra aiutarci Marco.
Il mistero della ricchezza! S’attacca al cuore, alla mente, alla volontà come una zavorra.
Uno apre le ali e non sa più volare.
Uno prova ad amare e non dà che qualche battito.
Uno prova a camminare, ma non ce la fa a trascinare tutto.
Ad ascoltare, ma le orecchie sono tappate.
A vedere, ma è come se non vedesse.
Esigenze, esigenze, esigenze.
Guai se manca una cosa, guai se non c’è l’altra.
A differenza di te che almeno te ne sei andato triste e hai misurato l’enorme nostalgia che, chissà, forse un giorno avrebbe potuto spingerti a tornare, noi invece crediamo che si può mettere insieme l’avere molto e la vita eterna, l’accumulo dei beni e la fede in Gesù Cristo.
Credici, amico lontano, siamo ben più disgraziati noi.
Fa’ una cosa, regalaci un po’ della tua tristezza, anzi tutta.
La conoscenza di sé e conoscenza di Dio La tradizione islamica ha conservato un hadît secondo il quale chi conosce se stesso co-nosce il suo Signore.
Un passo neotestamentario è significativo di questa ricerca concomi-tante di sé e di Dio.
In Mc 10,17-22, «un tale», un personaggio anonimo, dunque in cerca della propria identità, corre da Gesù e si getta ai suoi piedi interrogandolo su come ottenere la vita eterna (v.
17).
In questa persona (che non è «un giovane» come in Mt 19,20 e neppure «un capo» come in Lc 18,18, ma appunto solo «un tale») si coniugano dunque ricerca di Dio e ricerca di identità personale.
E questa ricerca si esprime in una domanda: «Che cosa devo fare?» (v.
17).
La risposta di Gesù non è estrinseca, non è rivolta verso l’esterno, non è sbilanciata sul piano del «fare», ma propone un itinerario interiore.
Gesù pone una contro-domanda che conduce il suo interlocutore a interrogarsi sul movente profondo, sul perché di quella ricerca.
Gesù lo fa andare al fondo di se stesso.
L’itinerario che Gesù propone comprende infatti, anzitutto, la conoscenza di sé, l’ordinamento delle relazioni umane con gli altri, con le realtà esterne, con la propria storia famigliare (i comandi etici del decalogo ricordati nel v.
19).
Quindi, la rivelazione della povertà profonda, della mancanza che abita il suo interlocutore («una cosa ti manca»: v.
21), non dopo però avergli apprestato lo spazio di amore al cui interno accogliere tale rivelazione e superarla grazie alla relazione con Gesù stesso (v.
21: «Gesù fissatelo lo amò e gli disse: “…
vieni e seguimi”»).
Conoscenza di Dio e conoscenza di sé, dice questo testo, passano attraverso l’adesione alla persona di Gesù Cristo.
L’anonimo interlocutore di Gesù però rifiuta il rischio del farsi amare e di ricevere la propria identità nella relazione con un altro, e così resta senza nome, senza volto, definito solamente da ciò che ha, da ciò che possiede: «Se ne andò afflitto perché aveva molti beni» (v.
22).
(Luciano MANICARDI, La vita interiore oggi.
Emergenza di un tema e sue ambiguità, Ma-gnano, Qiqajon, 1999, 12-13).
Quello che non abbiamo cercato “Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato.
Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui.
La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato.
A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.
(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).
Incontrare Cristo «Incontrare Cristo significa mettervi sulla strada dell’esperienza dell’amore, della gioia, della bellezza, della verità.
Decidere di non custodire e di non approfondire il segreto dell’incontro con lui equivarrebbe a condannarsi a una vita senza senso e senza amore.
Vorrei soprattutto dirvi, non abbiate paura, non abbiate timore di aprirvi a Cristo, di entrare nel suo mistero».
(Card.
C.M.
Martini).
«Non potete servire a Dio e a mammona» Pensiamo all’episodio emblematico del giovane ricco che non riesce a staccarsi dal fasto del suo palazzo per seguire Cristo (Matteo 19,16-26).
La frase paradossale che suggella quell’evento è netta: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli».
Luca, che è l’evangelista dei poveri, offre un intero brano centrato sulla ricchezza «disonesta e iniqua» ( 16,1 -13).
In esso ricorre al termine mammona per definire quei tesori materiali che occupano cuore e vita dell’uomo.
Si tratta di un vocabolo aramaico che indica i beni concreti, ma che contiene al suo interno la stessa radice verbale della parola amen, che denota la fede.
La ricchezza diventa, quindi, un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona».
Eppure questo non significa un masochismo pauperista.
Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola.
La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).
(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).
Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro? Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi.
Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro.
È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria.
Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.
Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria.
Ci sono persone che non ne han-no mai abbastanza.
Vogliono averne sempre di più.
Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia.
In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro.
Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso.
Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri.
Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri.
Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità.
Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri.
O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano.
Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.
Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro.
Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo.
Uno accetta più rischi, l’altro me-no, perché preferisce dormire sonni tranquilli.
Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente.
Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avi-dità.
E sono necessari criteri etici.
Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici.
Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia.
Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità.
È necessaria soprattutto la libertà interiore.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).
Che cosa è tuo? «A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro.
Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso po-sto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riser-vato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti.
Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi.
Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sareb-be bisognoso.
Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che te li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti.
Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno? Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente.
Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno.
E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito.
Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur po-tendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra.
Così commetti ingiustizia contro al-trettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.
(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG 31,276B-277A).
Preghiera Sono io, Signore, Maestro buono, quel tale che tu guardi negli occhi con intensità di amore.
Sono io, lo so, quel tale che tu chiami a un distacco totale da se stesso.
È una sfida.
Ecco, anch’io ogni giorno mi trovo davanti a questo dramma: alla possibilità di rifiutare l’amore.
Se talvolta mi ritrovo stanco e solo, non è forse perché non ti so dare quanto tu mi chiedi? Se talvolta sono triste, non è forse perché tu non sei il tutto per me, non sei veramente il mio unico tesoro, il mio grande amore? Quali sono le ricchezze che mi impediscono di seguirti e di gustare con te e in te la vera sapienza che dona pace al cuore? Tu ogni giorno mi vieni incontro sulla strada per fissarmi negli occhi, per darmi un’al-tra possibilità di risponderti radicalmente e di entrare nella tua gioia.
Se a me questo passo da compiere sembra impossibile, donami l’umile certezza di credere che la tua mano sempre mi sorreggerà e mi guiderà là, oltre ogni confine, oltre ogni misura, dove tu mi attendi per donarmi null’altro che te stesso, unico sommo Bene.
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica   – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

XXVII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Genesi 2,18-24 Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda».
Allora il Signore Dio pla-smò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccel-li del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse.
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costo-le e richiuse la carne al suo posto.
Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne.
La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta».
Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica car-ne.
Il brano è stato scelto perché richiamato dal Vangelo odierno.
Esso è desunto dal cosi-detto racconto javista della creazione dell’uomo (Gen 2).
Si tratta di un racconto sulle origi-ni, che vuole cioè risalire alle condizioni fondamentali e originarie dell’esistenza umana.
Prima di dare inizio alla storia degli uomini, si parla delle condizioni stesse nelle quali si svolge tale storia.
1.
Annotazioni – Il brano mette in evidenza due dimensioni essenziali dell’esistenza u-mana: prima dimensione, i presupposti positivi di un’esistenza felice, che Dio stesso crea e mette sul cammino dell’uomo, associandoli al suo apparire nel mondo: una natura mera-vigliosa (il giardino), aiuto nel lavoro (gli animali), amicizia ed amore tra uomo e donna, ecc.
(Gen 2); seconda dimensione, condizioni negative, derivate dal peccato dell’uomo: ver-gogna davanti a Dio, rapporti conflittuali tra uomo e donna, tra fratello e fratello; spropor-zione tra gli sforzi investiti nel lavoro ed i risultati ottenuti (Gen 3-4).
— Dio parla di un male dell’uomo, che intende superare mediante la sua creazione, cioè il «male» della solitudine (v.
18).
Gli uomini giungono alla pienezza del loro essere soltanto nel vivere comune.
Vivere da soli è una sofferenza, è un male («non è bene che l’uomo sia so-lo»).
— Gli animali costituiscono un aiuto per l’uomo, ma non si trovano al suo stesso livello (vv.
19-20).
Non possono né porsi in dialogo paritetico con l’uomo, né tantomeno sostituir-lo.
—L’immagine della «costola», dalla quale è «costruita» la donna (v.
22) sta ad indicare che l’uomo e la donna sono formati dalla stessa sostanza e perciò si appartengono mutua-mente.
Sono parenti, non sono estranei tra loro.
—Adamo esprime questo rapporto parentale tra lui e la donna.
Le parole: «osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (v.
23) sono espressioni proverbiali, che significano appunto pa-rentela, appartenenza.
— L’unione tra uomo e donna, che fonda una nuova famiglia, è più forte del legame che unisce figli e genitori (v.
24).
— Da sottolineare infine l’assoluta parità tra uomo e donna messa in chiaro dal testo bi-blico.
L’espressione «un aiuto che gli corrisponda» non vuole significare un aiuto in senso strumentale, subordinato, bensì un completamento, senza del quale non sarebbe possibile alcuna attività umana; le parole che completano la frase «che gli corrisponda» stanno ad in-dicare, appunto, la corrispondenza e la parità tra i due.
Sarà il peccato a trasformare que-sta parità in disuguaglianza (Gen 3,16).
Si può dire: la parità corrisponde alla volontà ori-ginaria di Dio; la disuguaglianza è conseguenza del peccato.
Seconda lettura: Ebrei 2,9-11 Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli ange-li, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che condu-ce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.
Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratel-li.
Siamo all’interno dell’introduzione della Lettera agli Ebrei, che sviluppa tutta una cri-stologia: in primo luogo l’Autore paragona Gesù ai profeti (1,1-2) e in secondo luogo alla Sapienza personificata ed agli angeli (1,4-2,19).
Gli angeli sono certo esseri celesti, ma Ge-sù, come uomo, è superiore a loro.
Mediante questi confronti la Lettera agli Ebrei esprime la fede nella divinità di Gesù.
Siccome Gesù si è abbassato al di sotto degli angeli, benché superiore ad essi, è stato in-coronato di onore e di gloria (v.
9).
Ciò corrisponde all’interpretazione cristologica del salmo 8.
— C’è di più: Gesù non solo si è umiliato, abbassandosi al di sotto degli angeli.
È andato oltre, ha addirittura sofferto la morte per tutti, e anche per questo gli è stata data la gloria.
Si tratta dello stesso pensiero che troviamo nell’inno di Fil 2,6-10.
Il volontario abbassa-mento di Gesù affrontato con la morte diventa causa della sua speciale esaltazione divina.
— Si presenta un parallelo tra creazione e redenzione (v.
10): come il mondo creato è o-pera di un solo Dio («per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose»), così anche l’opera della salvezza deve essere un’opera unica.
— Tra Colui che santifica e coloro che vengono santificati esiste una (misteriosa) comu-nione.
La santità dell’uno si trasmette ai molti, sì che la santità abbraccia tutti.
In tal modo la santità costituisce una famiglia, un legame tra fratelli e parenti («non si vergogna di chia-marli fratelli»).
— In poche parole, la Lettera agli Ebrei mostra lo stretto rapporto di appartenenza che esiste tra Gesù Cristo, che si abbassò nella morte, e tutti gli uomini che possono aver parte alla sua gloria ed alla sua santità.
Vangelo: Marco 10,2-16 In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie.
Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordina-to Mosè?».
Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ri-pudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma.
Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola.
Così non sono più due, ma una sola carne.
Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento.
E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulte-rio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un al-tro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono.
Gesù, al vedere que-sto, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio.
In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso».
E, pren-dendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.
Esegesi Il vangelo odierno si inserisce esattamente agli inizi del percorso compiuto da Gesù nel territorio della Giudea (10,1) verso Gerusalemme, e cioè verso l’ora della sua passione e morte, annunciata già due volte (8,31ss.; 9,30 ss.).
Le discussioni, come quella di oggi sul divorzio e poi sulla sua autorità, il tributo a Cesare, la risurrezione dei morti ed il primo comandamento segnano un crescendo, che prepara l’esplosione finale dell’ostilità contro di lui, con la decisione di metterlo a morte.
Il che conferisce una tensione drammatica ad ogni dettaglio delle controversie, che non sono puramente accademiche nel magistero di Ge-sù.
Inoltre l’aver egli varcato i confini della Giudea, sottoposta alla giurisdizione di Erode, aumenta il rischio cui vogliono esporlo i Farisei con la domanda sul divorzio.
Erode ha re-centemente ripudiato sua moglie, vivendo in relazione adultera con quella del fratello, per questo aspramente redarguito da Giovanni Battista (Mc 7,17-29).
Con la sua risposta, Gesù o avrebbe sconfessato il Battista, che il popolo teneva in grande considerazione, oppure sa-rebbe incorso nel furore del re e della vendicativa Erodiade.
«È lecito a un marito ripudiare la propria moglie?» (vv.
2-4).
La legge di Mosè accordava al marito il diritto di rimandare la moglie se avesse trovato in lei «un fatto indecoroso» (Dt 24,1).
Al tempo di Gesù, questo era oggetto di discussione tra due scuole rabbiniche: quel-la rigorista di Shammai che riconosceva legittimo motivo solo il caso di adulterio da parte della moglie, quella lassista di Hillel che ammetteva come valido qualsiasi motivo, anche il più futile.
I farisei con la loro domanda «mettono alla prova» Gesù, volendo indurlo sub-dolamente a pronunciarsi a favore o dei rigoristi o dei lassisti, per poi accusarlo.
«Per la durezza del vostro cuore» (vv.
5-6).
Gesù non si lascia coinvolgere nelle dispute di scuola, ma si vale di due principi ermeneutici che risolvono l’apparente problema: il primo dichiara che la legge mosaica non ha valore di precetto, ma di «concessione» accordata alla «durezza di cuore» (in greco sklerokardìa), vale a dire all’incapacità umana di intendere e fare la volontà di Dio.
Il secondo principio risale alla volontà originaria di Dio («all’ini-zio»), che si esprime nel suo progetto creatore, anteriormente al peccato e alla ribellione dell’uomo, volontà divina che nessuna legge successiva può invalidare.
«Chi ripudia la propria moglie… e se lei, ripudiato il marito» (vv.
11-12).
Donna ed uomo so-no messi sullo stesso piano.
Non è solo la donna colpevole di adulterio verso il marito (come si riteneva al tempo di Gesù, stando a come viene enunciata la domanda dei Fari-sei), ma anche il marito si rende colpevole di adulterio se rimanda la propria moglie e prende una donna sposata.
I diritti sono uguali, in linea con quello che Gesù ha detto sulla volontà originaria di Dio.
Chiunque li lede, uomo o donna, commette peccato di adulterio.
«Gli presentavano dei bambini perché li toccasse» (vv.
13-16).
Posta ad immediato seguito delle dichiarazioni precedenti, la scena dei bambini e le parole che Gesù rivolge ai discepo-li (v.
15) assumono un significato particolare.
La «logica» su cui è fondato il vincolo ma-trimoniale è la stessa che si richiede per entrare nel regno di Dio: i bambini sono simbolo di questa logica, che non si ostina a far valere i propri diritti o a misurare i torti degli altri, che non persegue secondi fini, né avanza pretese, ma si affida a Dio con assoluta semplici-tà filiale.
Meditazione «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18).
Dopo averlo chiamato alla vita, il desiderio di Dio chiama l’uomo alla comunione.
Non nella solitudine, ma nell’incontro e nella relazione l’adam può essere davvero a immagine e somiglianza di Colui che lo ha creato e lo custodisce nell’esistenza.
«Voglio fargli un aiuto», afferma più precisamente Dio.
‘Aiuto’ in ebraico è detto con un termine (‘ezer) che solita-mente nel Primo Testamento ha per soggetto Dio.
Dio è infatti ‘aiuto’ per l’uomo, ma la sua prossimità e il suo sostegno si rendono presenti anche mediante le relazioni che gli uomini vivono tra loro.
Soprattutto in quella relazione singolare che si stabilisce tra l’uomo e la donna, dove l’alterità, non l’uguaglianza, diventa luogo di comunione.
Tra noi essere u-mani non possiamo vivere un’alterità maggiore di quella che sussiste tra l’uomo e la don-na, eppure è proprio questa differenza a essere chiamata a diventare una ‘sola carne’.
«Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’u-nica carne» (v.
24).
È questa unità nella differenza a divenire segno dell’alleanza, cioè di quel rapporto con Dio che all’uomo è donato di accogliere nella sua esistenza.
Dio è l’Al-tro, il Trascendente, il Creatore, eppure con l’uomo egli vuole stabilire la sua comunione, oltrepassando ogni distanza.
Vivendo in una relazione d’amore e di dono reciproco, fino a divenire una sola carne, l’uomo e la donna intuiscono che tale deve essere anche la loro re-lazione con Dio: persino la differenza che c’è tra il Creatore e la sua creatura può essere vissuta – questo Dio promette ad Adamo donandogli Eva – non come lontananza o separa-zione, ma come spazio di dono, di incontro, di comunione.
L’astuzia del serpente inganne-rà Adamo ed Eva; mentendo li indurrà a credere il contrario.
La distanza che c’è da Dio è incolmabile, Dio non la vuole riempire con il suo dono e la sua prossimità, e allora Adamo, questa è la terribile suggestione del peccato, dovrà conquistarla con le sue mani, anziché accoglierla da quelle di Dio.
E il peccato comprometterà non solo la buona relazione con Dio, ma anche quella tra Adamo ed Eva.
Tra loro, anziché la logica del dono, si insinuerà, a causa del peccato, quella del potere o del possesso.
La comunione, infatti, ha i suoi criteri.
Diventare una sola carne è possibile solo se si è disposti ad assumere in se stessi la logica di Dio.
Il racconto della Genesi ce lo ricorda, con un linguaggio simbolico, ma nello stesso tempo suggestivo ed eloquente.
Eva è creata ed è donata ad Adamo nel sonno, mentre costui dorme.
Adamo non ha nessun potere su di lei.
Non è lui a progettarla, a immaginarla, neppure a meritarla; la può solo accogliere come dono gratuito per la sua vita.
Se può imporre il nome a tutte le altre creature del giardino, non può farlo con Eva.
«La si chiamerà donna» (v.
23).
Più che imporre un nome, Adamo deve riconoscerlo e riceverlo da altri.
Nel simbolismo biblico dire il nome di una realtà si-gnifica poter esercitare il proprio dominio su di essa.
Ma non sarà così tra Adamo ed Eva.
Adamo non potrà dominare Eva né esserne dominato: sono l’uno davanti all’altra, nella loro reciproca uguaglianza, «osso delle mie ossa e carne della mia carne» (v.
23).
Diversi, ma eguali; diversi non per dominarsi o sottomettersi, ma per essere in comunione l’uno con l’altra.
Adamo dorme, ma Dio gli dona Eva togliendogli una delle costole e richiuden-do la carne al suo posto (cfr.
v.
21).
Questa ferita è come il simbolo della vita di Adamo che deve aprirsi a sua volta al dono.
Eva è un dono di Dio per Adamo, ma è un dono che passa attraverso la vita stessa di Adamo che nella ferita del suo costato viene dischiusa al dono.
Ricevendo il dono di Dio Adamo riceve se stesso in modo diverso, come un donatore.
La sua è una ferita aperta e richiusa, perché è entrando in questo spazio del dono che la vita di Adamo si compie pienamente.
Solo in questo momento egli diviene compiutamente uomo, in una sorta di seconda nascita.
«Così l’uomo nasce facendo nascere» (P.
Beau-champ).
La benedizione di Dio, il suo dono per la nostra vita, lo si accoglie sempre così: nello spazio di una ferita, di un’esistenza cioè che si lascia trasformare e aprire dall’azione di Dio non alla dinamica del possesso, ma a quella del dono.
Nell’evangelo Gesù ricorda che è per la durezza del nostro cuore che Mosè scrisse la norma sul ripudio, ma non è questo il disegno originario del Padre.
Un cuore duro è ap-punto un cuore che non sa vivere in questa logica di Dio, segnata dalla gratuità e dal dono, che consente la vera comunione tra Dio e tra di noi, e anche tra l’uomo e la donna.
Più che alla stregua di un mero precetto, le parole di Gesù sono da intendersi come una promessa.
A chi accoglie la logica del Regno, che è il compimento del disegno creaturale del Padre, liberato e riscattato dal peccato introdotto dalla durezza di cuore dell’uomo, è offerta una possibilità nuova.
Gesù lo dirà poco più avanti, sempre in questo capitolo, ai discepoli stupiti di fronte alle sue parole sulla ricchezza.
«”E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.
Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: “E chi può essere salvato?”.
Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio”» (Mc 10,25-27).
La radicalità richiesta al matrimonio è simile a quella richiesta alla povertà: c’è un’impossibilità che l’uomo spe-rimenta a motivo della durezza del proprio cuore, che però può aprirsi ad accogliere la possibilità che viene da Dio.
La Legge di Mosè si è fatta carico del peccato dell’uomo of-frendo un rimedio misericordioso alla durezza del suo cuore.
Ma Gesù è più grande di Mosè e della sua Legge, egli ci offre non solo un rimedio, ma una possibilità nuova dentro la nostra impossibilità.
L’indissolubilità del matrimonio è «l’espressione del mondo che viene: solo chi partecipa del Regno nella sequela del re (cioè Cristo) ne diventa capace» (D.
Attinger).
In questo modo la fedeltà dell’amore tra l’uomo e la donna diviene davvero se-gno trasparente di ciò che Dio congiunge (cfr.
v.
9).
A unire l’uomo e la donna in modo in-dissolubile non è tanto un atto estrinseco o giuridico di Dio, quanto la qualità del suo amo-re che nel Regno ci viene donata, un amore fedele, accogliente, fecondo.
Da questo amore niente, neppure il peccato o la durezza del nostro cuore può separarci, come ricorda Paolo in Rm 8,35-39, e questo amore, regnando su di noi, ci consente di superare ogni possibile lontananza o separazione, vivendole nei vincoli di una più forte comunione.
È allora significativo che, a queste parole sulla radicalità del matrimonio, Marco ag-giunga subito dopo ciò che Gesù dice benedicendo i bambini che vengono a lui: «a chi è come loro appartiene il regno di Dio.
In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (v.
14-15).
Negli evangeli il bambino è simbolo di chi è debole, piccolo, impotente.
Non può fare affidamento sulle proprie forze, ma su ciò che ancora deve attendere e ricevere da altri.
Si accoglie così il regno di Dio: co-me un dono da ricevere senza pretendere di conquistarlo confidando nelle nostre possibili-tà.
Gesù accoglie i bambini e nello stesso tempo sottolinea il loro bisogno di dover acco-gliere.
Tale è il regno di Dio: da un lato è la manifestazione di un amore che ci accoglie persino nelle nostre debolezze; dall’altro è la manifestazione di un amore che si dona gra-tuitamente alle nostre debolezze rendendoci capaci di ciò che altrimenti ci rimarrebbe im-possibile.
Di questo amore la Chiesa è chiamata a farsi segno anche verso i rapporti coniugali tra l’uomo e la donna.
Da un lato deve annunciare una radicalità, quale l’indissolubilità del matrimonio, che in Gesù Cristo diviene possibile perché egli guarisce e scioglie la durezza del cuore umano; dall’altro deve rimanere come Gesù accogliente delle debolezze e delle impossibilità che gli uomini sperimentano, come bambini.
Ma a chi è come loro appartiene il regno di Dio! Dio garante dell’indissolubilità Il matrimonio è più del vostro amore reciproco, ha maggiore dignità e maggiore potere.
Finché siete solo voi ad amarvi, il vostro sguardo si limita nel riquadro isolato della vostra coppia.
Entrando nel matrimonio siete invece un anello della catena di generazioni che Dio fa andare e venire e chiama al suo regno.
Nel vostro sentimento godete solo il cielo privato della vostra felicità.
Nel matrimonio invece venite collocati attivamente nel mondo e ne diventate respon-sabili.
Il sentimento del vostro amore appartiene a voi soli.
Il matrimonio, invece, è una investitura, un ufficio.
Per fare un re non basta che lui ne abbia voglia.
Occorre che gli riconoscano l’incarico di regnare.
Così non è la voglia di amarvi che vi stabilisce come strumento di vita.
E’ il matrimonio che ve ne rende atti.
Non è il vostro amore che sostiene il matrimonio.
E’ il matrimonio che, d’ora in poi, porta sulle spalle il vostro amore.
Dio vi unisce in matrimonio: non lo fate voi, è Dio che lo fa.
Dio protegge la vostra unità indissolubile di fronte a ogni pericolo che la minaccia dall’interno e dall’esterno.
Dio è il garante dell’indissolubilità.
E’ una gioiosa certezza sapere che nessuna potenza terrena, nessuna tentazione, nessuna debolezza potranno sciogliere ciò che Dio ha unito.
(Dietrich Bonhoeffer) Il diverso Il “diverso” originario è la donna nei confronti dell’uomo e l’uomo nei confronti della donna.
E pertanto se il riconoscimento della diversità non è in primo luogo riconoscimento della diversità della sessualità umana, il sociale umano resta sempre esposto al rischio di discriminazioni ingiuste.
Proprio perché il tutto dell’humanum è presente potenzialmente nella particolarità di ciascuna diversità, la pienezza della persona si realizza nella loro uni-tà.
L’uomo è per la donna e la donna è per l’uomo poiché solo uomo e donna dicono la ve-rità intera della persona umana.
L’intrinseca bontà o valore dell’istituto matrimoniale consiste precisamente in questo: esprime-realizza in radice nell’unità uomo-donna l’humanum nella sua interezza.
Bontà e preziosità che non si trova in nessun altra relazione sociale.
Tocchiamo un punto fonda-mentale della vicenda umana e della sua comprensione.
Provo a dirlo in modo breve e per quanto riesco semplice.
All’origine, al “principio” della vicenda umana non stanno tante unità chiuse in se stesse.
Sta una dualità; un rapporto: un uomo e una donna.
Il dato uma-no originario non è l’identità, ma la relazione; la “figura” dell’incontro non è il contratto di individui originariamente estranei, ma è l’incontro nell’amore fra due persone diverse: uomo e donna.
(Cardinale Carlo Caffarra, “Matrimonio e laicità dello Stato”, Congresso Telogico-Pastorale Internazionale di Valencia, 4 luglio 2006).
I cervi Si racconta che i cervi quando vogliono recarsi al pascolo, in certe isole lontane dalla costa, per attraversare la lingua di mare poggiano la testa sulla schiena altrui.
Succede così che uno soltanto, quello che apre la fila, tiene alta la propria testa senza appoggiarla sugli altri; quando però egli si è stancato, si toglie dal davanti e si mette per ultimo, sicché anche lui può appoggiarsi sul compagno.
In questo modo tutti insieme portano i loro pesi e giungono alla meta desiderata: non affondano perché l’amore fa loro da nave.
(S.
Agostino) Due in una sola carne Dove potrei trovare parole in grado di descrivere quel matrimonio che la chiesa unisce, che l’offerta eucaristica conferma e la benedizione sigilla, gli angeli proclamano e il Padre ratifica? Difatti nemmeno qui in terra i figli possono contrarre il matrimonio secondo le norme stabilite e secondo il diritto vigente senza il consenso paterno.
Quale coppia è mai quella di due cristiani, uniti da una sola speranza, un solo desiderio, una sola disciplina, un solo servizio di Dio! Ambedue sono fratelli, uguali tutti e due in quel loro servizio.
Niente li separa né nello spirito, né nella carne; al contrario, sono veramente due in una so-la carne (cfr.
Gen 2,24; Mt 19,6; 1Cor 6,16; Ef 5,31).
E dove vi è una sola carne, lì vi è pure un solo spirito.
Infatti insieme pregano, insieme si prostrano davanti a Dio, insieme osser-vano le prescrizioni del digiuno, a vicenda si istruiscono, a vicenda si esortano, a vicenda si riconfortano.
Tutti e due si riconoscono in perfetta uguaglianza nella chiesa di Dio, in perfetta uguaglianza nel banchetto di Dio, in perfetta uguaglianza nelle prove, nelle perse-cuzioni, nelle consolazioni.
Nessuno dei due si nasconde all’altro, nessuno si sottrae all’al-tro, nessuno è di peso all’altro.
[…] Tra loro due risuonano salmi e inni, si sfidano recipro-camente a chi canta meglio al Signore.
Cristo gioisce al vedere e ascoltare queste cose e in-via loro la sua pace (cfr.
Gv 14,27).
Là dove due sono riuniti, egli è là, presente (cfr.
Mt 18,20) e là dove egli è presente, non c’è il Malvagio.
(TERTULLIANO, Alla consorte 2,8,6-8, SC 273, pp.
148-151).
La vita in due Grazie, Signore perché ci hai dato l’amore capace di cambiare le cose.
Quando un uomo e una donna diventano uno nel matrimonio non appaiono più come creature terrestri ma sono l’immagine stessa di Dio.
Così uniti non hanno paura di niente con la concordia, l’amore e la pace l’uomo e la donna sono padroni di tutte le bellezze del mondo.
Possono vivere tranquilli protetti dal bene che si vogliono secondo quanto Dio ha stabilito.
Grazie, Signore per l’amore che ci hai regalato.
(S.
Giovanni Crisostomo).

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LIBERTà

libertà da……………………………………
libertà per……………………………………
libertà con………………………………….

XVII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: 2Re 4,42-44 In quei giorni, da Baal Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia.
Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente».
Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?».
Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente.
Poi-ché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”».
Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.
Il brano fa parte del ciclo di Eliseo (2Re 2,1-9,10; 13,14-21), del quale si narrano l’inter-vento negli affari politici del tempo, il ruolo da lui svolto nella rivolta di Iehu e i prodigi, fra cui questo della moltiplicazione delle primizie offerte all’uomo di Dio.
Il possidente terriero proveniente da Baal Salisa (l’attuale Ketr-Tilt distante 26 km a o-vest di Galgala), porta, secondo le prescrizioni di Levitico 23,17-18 («Porterete dai luoghi do-ve abiterete due pani per offerta con rito di agitazione, i quali saranno di due decimi di efa di fior di farina e li farete cuocere lievitati; sono le primizie in onore del Signore»), «il pane di primizia», fatto cioè con il raccolto dell’anno e destinato a Dio.
Con la sua offerta esso vuole onorare l’uomo di Dio, che dal contesto risulta essere chiaramente Eliseo.
La pietà del profeta verso la folla che soffre la fame a causa della carestia (v.
38) spinge Eliseo a dividere generosamente l’offerta con i cento discepoli dei profeti che lo seguiva-no.
La quantità è sufficiente solo per venti dei presenti.
L’obiezione del servo è motivata: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?» (v.
43a).
Ma più forte della ragione umana è la fede del profeta nell’intervento di Dio: «Dallo da mangiare alla gente.
Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”» (v.
43b).
Dio non delude chi confida nel suo nome e dona ai suoi eletti più di quanto sia necessa-rio: «Dallo da mangiare alla gente.
Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avan-zare» (v.
44).
Seconda lettura: Efesini 4,1-6 Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo.
Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
Questo brano della lettera agli Efesini presenta un discorso parenetico che ha per contenuto l’esortazione all’unità per mezzo dell’amore.
Quello di Paolo è un premuroso incoraggiamento.
È Paolo stesso, infatti, che invita in prima persona, presentandosi non solo come «l’Apostolo di Cristo», ma anche come «prigioniero a motivo del Signore».
Per effetto della sua esperienza di sofferenza ha acquistato una sapienza delle cose divine e quindi può esortare i membri della comunità a una vita che corrisponda alla beneficenza divina.
La condotta corrispondente si attua soltanto se i membri della Chiesa, rinunciando alla superbia, si lasciano guidare dall’umiltà collaborando col prossimo.
Accanto all’umiltà si trova la mansuetudine o mitezza che consiste in un comportamen-to pacifico e paziente, dolce e amichevole che trae origine dal timore di Dio e dall’amore.
All’umile mansuetudine si accompagna la magnanimità, dono dello Spirito, che è sop-portazione paziente e longanime del prossimo e che sgorga dalla carità.
Paolo completa e precisa il suo pensiero esortando i fedeli a sopportarsi nell’amore che avviene quando si perdonano reciprocamente, mantenendo e custodendo la pace.
Ciò che i cristiani devono custodire, però, non è stato prodotto da essi, né deve essere da essi acquisito, ma è stato loro concesso e devono semplicemente custodirlo.
Ciò che devono custodire è l’unità dello spirito: il pneuma (lo spirito), infatti, è la forza che produce e conserva l’unità.
Chi è anche solo pigro nel custodire l’unità tiene una condotta indegna della sua vocazione, dimostrando di mancare di umiltà e mansuetudine, di pazienza e magnanimità, di libertà d’amore.
L’unità si custodisce nel vincolo della pace, nella pace alla quale i fedeli sono stati am-messi quando hanno accolto la chiamata di Dio.
L’esortazione a custodire l’unità è fondata e giustificata dal fatto che uno è il corpo, uno lo spirito ed unica anche la speranza.
Non custodire l’unità dell’unico corpo significherebbe negare l’unità dell’unico spirito, ledere la nuova natura in cui i credenti vivono dal momento del battesimo.
Significherebbe negare l’unità dell’unico Signore, della sola fede, del solo battesimo.
Dall’unica Chiesa, attraverso l’unico Signore, lo sguardo dell’Apostolo giunge all’unico Dio, che è il supremo e più intimo fondamento dell’unità.
In definitiva l’unità si fonda sul fatto che nei cristiani abita l’unico Dio.
Vangelo: Giovanni 6,1-15 In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi.
Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli.
Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?».
Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere.
Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?».
Rispose Gesù: «Fateli sedere».
C’era molta erba in quel luogo.
Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto».
Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!».
Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.
Esegesi Con una indicazione generica di tempo (v.
1: «Dopo questi fatti»), l’evangelista racconta un trasferimento di Gesù all’altra riva del lago di Galilea, cioè a quella orientale, e lo colloca lontano dalla città santa.
Da dove venga la folla, che compare improvvisamente (v.
2: «…
e lo seguiva una grande folla »), qui non è detto.
Di un seguito di tanta gente non si fa mai parola nel Vangelo di Giovanni.
Le folle inizialmente seguono Gesù per i segni che egli compie sugli infermi, ma ora partecipano al prodigio straordinario della moltipli-cazione dei pani.
Tuttavia, il giorno seguente, rifiuteranno la rivelazione del Figlio di Dio e non lo riconosceranno (6,26ss).
Il monte (v.
3: «Gesù salì sul monte»), su cui Gesù si reca con i suoi discepoli, non è una montagna qualsiasi, ma il monte della Galilea.
Monte teologico e punto fondamentale di interesse per i Sinottici che vi collocano i fatti più importanti della vita di Gesù.
L’inte-resse di Giovanni è anch’esso teologico e non geografico e segue la tradizione biblica che presenta Dio che si rivela sul monte (il Sinai).
Anche l’annotazione sull’imminenza della Pasqua ha un significato teologico e corri-sponde pienamente allo stile dell’evangelista che inquadra i vari episodi della vita di Ge-sù nelle principali feste giudaiche (2,13; 7,2; 11,15).
C’è però molto di più: Gv 6,4 sembra, infatti, porre la moltiplicazione dei pani sotto il segno della pasqua cristiana, l’Eucaristia.
L’esplicitazione che la pasqua è la festa dei giudei sembra insinuare che al tempo dell’e-vangelista si celebrava un’altra pasqua (quella cristiana), riattualizzata nel sacramento dell’Eucaristia.
Giovanni non si sofferma a sottolineare la compassione di Gesù per la folla.
A differen-za dei Sinottici, è Gesù che rivolge a Filippo la domanda per metterlo alla prova (v.
5: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?») e non i discepoli.
Un acquisto rilevante di pane, quanto si sarebbe potuto comprare con un denaro (il salario giornaliero di un operaio), sarebbe stato ugualmente insufficiente.
Lo sforzo umano, infatti, anche se generoso, è sempre insufficiente a saziare, mentre l’intervento del Verbo incarnato appaga non solo i bisogni dei presenti, ma di tutto il mondo, come insinua la raccolta dei dodici pezzi avanzati.
L’informazione data da Andrea sul ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci è pro-pria del quarto vangelo: solo Giovanni scrive che i pani erano d’orzo, per indicare che si tratta di cibo dei poveri e per rievocare l’analogo prodigio operato dal profeta Eliseo (2Re 4,42-44).
Giovanni (ma anche i Sinottici) sottolinea che sul posto c’era molta erba tipico della pri-mavera in Palestina.
Questa osservazione concorda con quella di 6,4 sulla vicinanza della Pasqua.
Il numero dei commensali, come la menzione dei gesti del Maestro, fanno parte della tradizione comune e sono riferiti allo stesso modo dai Sinottici.
Le particolarità più rilevanti del quarto vangelo si trovano nell’uso del verbo euchari-stéin (rendere grazie) che sostituisce eulogéin (benedire) dei Sinottici, nella presenza del participio anakéimenois (seduti) e nella distribuzione dei pani fatta da Gesù in persona.
Nella moltiplicazione dei pesci adopera òpsos invece di ichthys.
Anche l’ordine di radunare i pezzi avanzati è proprio di Giovanni.
I Sinottici, infatti, non riportano questo ordine del Maestro.
L’annotazione finale, sui dodici cesti di pezzi avanzati, dopo che le cinquemila persone si erano saziate, sottolinea per contrasto l’abbondanza e la ricchezza del dono di Gesù, co-me avviene alle nozze di Cana per il vino (Gv 2,1-11).
Gv 6,14 descrive la reazione della folla dinanzi al prodigio straordinario e ricorda l’en-tusiasmo del popolo ebreo in attesa del Messia.
Il Maestro è riconosciuto come il profeta atteso per la fine dei tempi dalla folla sfamata, ma il passo finale ci fa capire che l’entusia-smo messianico della folla è di carattere politico (6,15).
La folla vuole rapire Gesù per far-lo re, ma siccome la sua regalità è fraintesa dalla folla egli fugge sul monte (6,15), per sottrarsi al loro sguardo.
Meditazione «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (v.
9).
Effettivamente, davanti ad una folla di cinquemila uomini – senza contare le donne e i bambini – chi non si porrebbe una simile domanda? Che chiede, peraltro, risoluzione pressoché immediata! Ma, a ben pensarci, a ogni livello, da quello economico a quello educativo, da quello religioso a quello relazionale, chi si sente certo di poter offrire a ognuno ciò che gli è necessario per una crescita sana e completa? Chi non si sente inadeguato dinanzi al compito di diventare adulto, a qualunque epoca, situazione, cultura appartenga? Questa cruda constatazione non è conferma del detto ‘mal comune, mezzo gaudio’, ma forse ci aiuta a relativizzare le affermazioni spavalde di chi, magari politico, assicura la risoluzione di ogni problema in scioltezza…
Ma torniamo al nostro brano, che ci pone drammaticamente dinanzi alla dimensione più essenziale della nostra stessa sussistenza: il cibo.
Il pane, evidente immagine simbolica dell’elemento più elementare e necessario per la nostra vita, non c’è.
O almeno, non c’è per tutti.
La nostra superficialità e la nostra ricchezza occidentale ci permettono di riuscire a dimenticare che ogni giorno nel mondo migliaia di persone muoiono di fame e di sete.
Le ragioni sono molteplici e il vangelo non è un testo di strategia socio-politico-economica (anche se questa dimensione non è esclusa).
Eppure ci può aiutare ad affrontare in modo più corretto la totalità della nostra – e altrui – vita.
Si può, ad esempio, osservare che se cinque pani e due pesci non sono praticamente nulla per un’immensa folla come quella che Gesù aveva raccolto attorno a sé, è altrettanto vero che sono tanti per una sola persona.
Perché i beni essenziali sono nelle mani di pochi, di pochissimi? Una riflessione sulla nostra sobrietà e sulla nostra volontà di condivisione di quei beni che per essenza non possono diventare strumento di ricatto e di schiavitù ver-so altre persone meno fortunate di noi – perché solo di fortuna si tratta: che merito c’è nell’essere nato in una zona del mondo piuttosto che in un’altra? – si impone.
Ma poi, ci poniamo questa domanda – «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (v 5) – oppure resta un optional per ‘anime belle’? Quale prezzo siamo disposti a pagare perché vi sia oggettivamente una migliore giustizia per tutti? Non a caso la domanda viene posta da Gesù.
Il racconto di questo grande segno, riportato – unico caso nei vangeli, segno che effettivamente il fatto è storico e ha stupito non poco – anche da Matteo, Marco e Luca, ci svela impietosamente quale fu il suggerimento dato dai discepoli al Signore: «Congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare» (Mt 14,15).
Detto altrimenti, ‘si arrangino’! Cosa fa allora Gesù? Innanzi tutto non fa un discorso: di ottimi e unanimemente condi-visi principi morali e spirituali.
Non lo fa nemmeno per prendere tempo.
O meglio, il di-scorso lo tara, bellissimo e profondo, il più lungo mai riportato nei vangeli, capace di far interrogare tutti i presenti sul senso di quanto appena avvenuto (cfr.
vv.
22-59).
Ma, ap-punto, lo farà solo dopo aver agito, solo dopo aver preso a cuore questa impellente urgenza alimentare.
E per prima cosa fa sedere i presenti (cfr v.
10), li mette comodi: c’è un desiderio e uno stile di qualità dietro questo particolare.
Non si vuole ‘fare la carità’ – intendendo quest’espressione nel peggior modo possibile, ovvero mantenendo ben evidenti le distanze tra chi dona e chi riceve esasperando l’umiliazione degli indigenti – ma raggiungere una relazionalità accogliente, attenta, umana.
Successivamente si parte da quello che si possiede, da quanto – seppur pochissimo che sia – viene messo a disposizione di Gesù.
La rinuncia a trattenere solo per sé, con il rischio che tolga al possessore la propria sicurezza, è una forza inestimabile di condivisione.
E Gesù ringrazia, il Padre e – certamente – anche l’offerente.
E nelle mani di Gesù avviene la possibilità che ognuno trovi nutrimento sufficiente, anzi abbondante (cfr.
vv.
11-13).
Era già successo nei tempi antichi, quando un altro ragazzo, Davide, offrendo anch’egli la disponibilità a giocare tutta la sua vita e affidandosi alla forza di Dio, aveva vinto Golia con una fionda e qualche ciottolo di fiume (cfr.
1Sam 17).
Solo Gesù è in grado di colmare la nostra fame e sete di vita, di una vita piena.
Lui de-sidera nutrire la nostra esistenza, essere il cibo che rende bella e giusta la nostra vita.
Ma lo vuole per tutti, proprio tutti.
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Sofferenza Se qualche volta la nostra povera gente è morta di fame, ciò non è avvenuto perché Dio non si è preso cura di loro, ma perché voi ed io non abbiamo dato, perché non siamo stati uno strumento di amore nelle sue mani per far giungere loro il pane e il vestito ne-cessario, perché non abbiamo riconosciuto Cristo quand’egli è venuto, ancora una volta, miseramente travestito nei panni dell’uomo affamato, dell’uomo solo, del bambino senza casa e alla ricerca di un tetto.
Dio ha identificato se stesso con l’affamato, l’infermo, l’ignudo, il senza tetto; fame non solo di pane, ma anche di amore, di cure, di considerazione da parte di qualcuno; nudità non solo di abiti, ma anche di quella compassione che veramente pochi sentono per l’individuo anonimo; mancanza di tetto non solo per il fatto di non possedere un riparo di pietra, bensì per non aver nessuno da poter chiamare proprio caro.
(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1998, 28-29).
Questi è davvero il profeta Furono riempite dodici ceste.
Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale.
Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentir-ne parlare, rimaniamo freddi.
Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo.
Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede.
Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi.
Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: «Beati quelli che non vedono e credono» (Gv 20,29).
Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire.
Ci siamo così veramente sa-ziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo.
Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? «Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta» (Gv 6,14).
[…] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: «Susciterò per loro un profeta simile a te» (Dt 18,18).
Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà.
E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli.
Lo stesso Signore dice di se stesso: «Un profeta non riceve onore nella sua patria» ( Gv 4,44).
Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta.
Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli.
Egli stesso è detto angelo del grande consiglio.
E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr.
Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 24,6-7, NBA XXIV, pp.
564-566).
Il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro «Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».
È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo.
E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua ma-terialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.
Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.
Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo.
E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).
Offerta la mondo Noi cittadini e cittadine del mondo, gente del cammino, gente che cerca, eredi del legato di antiche tradizioni, vogliamo proclamare: – che la vita umana è, per se stessa, una meraviglia; che la natura è la nostra madre e il nostro focolare, e che dev’essere amata e preservata; – che la pace dev’essere costruita con sforzo, con la giustizia, col perdono e la generosità; – che la diversità di culture è una grande ricchezza e non un ostacolo; – che il mondo ci si presenta come un tesoro se lo viviamo in profondità, e le religioni vogliono essere dei cammini verso tale profondità; – che, nella loro ricerca, le religioni trovano forza e senso nell’apertura al Mistero inafferrabile; – che fare comunità ci aiuta in questa esperienza; – che le religioni possono essere un punto di accesso alla pace interiore, all’armonia con se stesso e col mondo, ciò che si traduce in uno sguardo ammirato, gioioso e grato; – che noi che apparteniamo a diverse tradizioni religiose vogliamo dialogare tra di noi; – che vogliamo condividere con tutti la lotta per fare un mondo migliore, per risolvere i gravi problemi dell’umanità: la fame e la povertà, la guerra e la violenza, la distruzione dell’ambiente naturale, la mancanza di accesso ad un’esperienza profonda di vita, la mancanza di rispetto per la libertà e la differenza; – e che vogliamo condividere con tutti i frutti della nostra ricerca delle aspirazioni più alte dell’essere umano, nel rispetto più radicale di ciò che ciascuno è e col proposito di poter vivere tutti insieme una vita degna di essere vissuta.
(Testo elaborato dalle diverse tradizioni religiose radunate per il IV Parlamento delle Religioni del Mondo, a Barcellona nel 2004).
Rese grazie per insegnarci a rendere grazie Il fatto che Gesù sollevasse gli occhi e vedesse venire la moltitudine è segno della compassione divina, perché egli è solito andare incontro con il dono della misericordia celeste a tutti quelli che desiderano venire a lui.
E perché non si perdano nel cercarlo, è solito aprire la luce del suo spirito a coloro che corrono a lui.
Che gli occhi di Gesù indichino spiritualmente i doni dello Spirito, lo testimonia Giovanni nell’Apocalisse; costui, parlando di Gesù simbolicamente, dice: «Vidi un agnello che stava in piedi, come sgozzato, con sette corna e sette occhi, che sono gli spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6).
[…] Il Signore diede i pani e i pesci ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla.
Il mistero dell’umana salvezza iniziò a narrarlo il Signore e dai suoi ascoltatori è stato confermato fino a noi.
Spezzò i cinque pani e i due pesci e li distribuì ai discepoli quando svelò loro il senso per comprendere ciò che su di lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (cfr.
Lc 24,44-45).
I discepoli li offrirono alla folla quando «predicarono dovunque con l’aiuto del Signore, che confermava la parola coi miracoli che l’accompagnavano» (Mc 16,20).
[…] E non bisogna trascurare che quando fu sul punto di rifocillare la folla, Gesù rese grazie.
Rese grazie per insegnare anche a noi a rendere sempre grazie per i doni celesti che riceviamo e per mostrarci quanto egli stesso gioisce dei nostri progressi, della nostra rigenerazione spirituale.
[…] Saziata la moltitudine, Gesù comandò ai discepoli di raccogliere gli avanzi perché non andassero perduti.
«Li raccolsero e riempirono dodici canestri di avanzi» (cfr.
Mc 6,43).
Poiché con il numero dodici si è soliti indicare la somma della perfezione, con i dodici canestri pieni di avanzi si intende tutto il coro dei dottori spirituali, ai quali viene ordinato di radunare, meditare, consegnare allo scritto e conservare per uso proprio e del popolo i passi oscuri delle Scritture che il popolo da sé non riesce a comprendere.
Così hanno fatto gli apostoli e gli evangelisti inserendo nelle loro opere non poche citazioni della Legge e dei Profeti da loro interpretate in modo spirituale.
Così hanno fatto alcuni loro discepoli, maestri della chiesa su tutta la terra studiando accuratamente interi libri dell’Antico Testamento, e anche se sono strati disprezzati dagli uomini, sono ricchi del pane della grazia celeste.
(BEDA IL VENERABILE, Omelie sul vangelo 2,2, CCL 122, pp.
195-198).
Preghiera Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.
Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà.
Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre.
Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di es-sere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza.
Tu mi ripeti, Gesù, che pro-prio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.
Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.