II Domenica dopo Natale anno C

II DOMENICA DI NATALE   Lectio Anno c     Prima lettura: Siracide 24,1-4.8-12, neo-vulg.24,1-4.12-16             La sapienza fa il proprio elogio, in Dio trova il proprio vanto, in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria.
Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca, dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria, in mezzo al suo popolo viene esaltata, nella santa assemblea viene ammirata, nella moltitudine degli eletti trova la sua lode e tra i benedetti è benedetta, mentre dice: «Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele, affonda le tue radici tra i miei eletti” .
      Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato, per tutta l’eternità non verrò meno.
Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono stabilita in Sion.
Nella città che egli ama mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio potere.
Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità, nell’assemblea dei santi ho preso dimora».
       v Il capitolo 24 del Siracide è un poema con protagonista la sapienza, che presenta se stessa, come in Proverbi 8.
    Nel brano che leggiamo oggi la presentazione è su due piani: la terra e il cielo.
La sapienza loda se stessa e si glorifica (kauchaomai) in mezzo al suo popolo e nell’assemblea dell’Altissimo.
I verbi greci sono al futuro uno di questi: kauchesetai è uguale sia in mezzo al popolo che nell’assemblea dell’Altissimo.
L’autopresentazione su due piani è tipica di una certa letteratura del medio giudaismo, che personalizza la Sapienza e la Legge, che il Siracide identifica come un’unica realtà, e ne pone la preesistenza presso Dio, prima della creazione del mondo.
    La Sapienza può lodare se stessa, perché è uscita «dalla bocca dell’Altissimo».
L’origine della sapienza è da Dio e il suo insegnamento viene da Lui.
    È da Dio che la Sapienza riceve il mandato in mezzo ad Israele.
Essa partecipa della potenza divina, è una mediatrice privilegiata, che partecipa direttamente di alcune qualità dell’Altissimo.
Le immagini per dire il suo essere vicina a Dio e nello stesso tempo in Israele riprendono quelle dell’Esodo: «ho ricoperto come nube la terra…
il mio trono era una colonna di nubi» (Sir 24,3-4; cf Es 13 21-22; 14,19-20; 33,9-11; 40,38).                La Sapienza cerca un luogo fra tutti i popoli, come dimora; il creatore le comanda: «fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele».
      L’immagine della tenda rimanda di nuovo ad Esodo, come la nube (cf.
Es 25,8-9; 26,1-37).
Nella tenda la sapienza diventa «sacerdote di Dio», e in questa veste si stabilisce in «Gerusalemme» (Sir 24,11 cf 1Re 8,10-13; Is 6,1-4, la città amata (cf.
Sal 50,2).
Israele, popolo glorioso, eredità del Signore (Sir 24,12 cf.
Deut 32,9; Zac 2,16) diventa dimora privilegiata della «sapienza» divina.
La Sofia (sapienza in greco) acquista i tratti della shekinà ebraica, vale a dire l’immanenza di Dio nel suo popolo, di cui condivide le sorti.
  Seconda lettura: Efesini 1,3-6.15-18           Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
Perciò anch’io [Paolo], avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi.
    v «Benedetto sia il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione…» (Ef l,3).
Innalzare un inno di benedizione a Dio per i doni che ci ha concesso è tipico della tradizione ebraica seguita anche da Luca che mette in bocca a Maria il «Magnificat» e a Zaccaria un inno dall’inizio molto simile a questo: «Benedetto il Signore Dio di Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo» (Lc 1,68).
     Il verbo greco eulogeo, che traduciamo con benedire, significa nella letteratura extrabiblica: dire bene di qualcuno, sinonimo di ringraziare glorificare, cantare gli elogi.
Nel LXX e nel NT è usato nel senso del verbo ebraico, barak che ricorre sia per Dio che benedice, sia per l’uomo che canta le lodi di Dio.
     Il Padre del nostro Signore Gesù Cristo è il Dio di Israele, che si può benedire, perché egli stesso ha preso l’iniziativa di benedire.
L’inno paolino è costruito su questa circolarità: da Dio agli uomini in Cristo e dagli uomini in Cristo a Dio.
     L’iniziativa divina è sottolineata con forza; la scelta di farci diventare «figli» nel «figlio» e la conseguente possibilità di «essere puri e immacolati al cospetto di Dio» è atto di pura grazia divina.
Come Cristo è in Dio preesistente alla creazione, così noi siamo scelti da lui «prima della creazione del mondo».
Tutto quello che siamo, tutto quanto compiamo dipende dal beneplacito (eudokía) della volontà divina.
    Il termine greco eudokía è lontano da qualsiasi idea di arbitrarietà; esso veicola l’idea del piacere e del desiderio buoni.
Dio è per così dire «affettivamente» coinvolto nella scelta degli uomini e delle donne, che nel Figlio Gesù diventano figli e figlie adottive.
Il Dio biblico non è un Dio distaccato, ma un Dio, se così si può dire, che si compiace, gioisce, è geloso, si adira, si pente…
Egli è infinitamente superiore alle creature, ma si china su di loro con lo sguardo amoroso e compiacente di un padre e una madre.
Consci di questa vicinanza e resi figli in Cristo eleviamo il nostro inno di benedizione «a lode dello splendore della sua grazia» (Ef 1,6).
    L’inno prosegue fino al v.
14, ma la liturgia ne sospende la lettura alla prima strofa e la riprende al v.
15 fino al 18, nei quali Paolo esprime le motivazioni che lo inducono ad elevare continui ringraziamenti e suppliche al Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria.
Egli ringrazia per la fede e l’amore verso «tutti i santi» (i cristiani) dei destinatari della sua lettera.
Egli invoca per loro lo spirito di sapienza e di rivelazione, che li renda capaci di una sempre maggiore conoscenza di Dio.
  Vangelo: Giovanni 1,1-18         In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
       Esegesi      «In principio» richiama l’inizio di tutte le Scritture (bereshit, greco ev archè Gen 1,1, Gv 1,1) e fa da inclusione ai primi due versetti del prologo di Giovanni, che formano così una strofa.
L’accostamento alle Scritture continua con l’insistenza di Giovanni sui termini luce e tenebre (Gv 1,4-5 – Gen 12-5).
Il «principio» di cui parla Giovanni allude sicuramente all’inizio delle Scritture, ma allude a una dimensione ancora più profonda di quella a cui si riferisce la Genesi, perché si pone prima dell’inizio del creare di Dio.
«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio».
Il titolo «il Verbo» (o logos) per indicare la persona di Gesù è usato in forma assoluta solo nel prologo e con delle specificazioni solo nella letteratura giovannea (Il Verbo della vita in 1Gv 1,1 e il Verbo di Dio in Ap 19,13).
     Gli esegeti non sono d’accordo sull’origine di questo titolo.
Il contenuto teologico del Logos giovanneo è molto vicino alla riflessione giudaica sulla Sapienza, che è presentata come mediatrice della creazione e della salvezza (Pv 8,22; Sap 9,1; Sir 24,1-7).
La terminologia sapienziale era già in uso nella chiesa primitiva (cf.
Mt 11,19; 1Co 1,30), ma Giovanni evita il termine «Sapienza» e sceglie «Logos».
     L’esclusione di sapienza è dettata, dicono alcuni studiosi di Giovanni, prima di tutto dal fatto che si tratta di un termine femminile che sarebbe suonato male in ambiente ellenistico, dove invece era corrente il termine Logos, diffuso anche in ambiente giudeo-ellenistico attraverso l’opera di Filone Alessandrino, che presenta il Logos come mediatore della creazione e della salvezza, una specie di causa esemplare del mondo (cf.
G.
Segalla, Giovanni, Nuovissima Versione della Bibbia Paoline, p.
141).
     La riscoperta del termine Sofia come titolo cristologico è recente e frutto della riflessione femminista e può, se non usato in maniera acritica ed esclusiva, aiutare a scoprire gli attributi per così dire «femminili» di Dio, presentati dalle Scritture.
     Il «Verbo era presso Dio»: il greco esprime la vicinanza a Dio del Verbo con una preposizione pros che non indica la posizione statica di vicinanza, ma l’orientamento verso.
Il «Verbo era Dio» è il punto di arrivo delle tre affermazioni sul Verbo, che portano a contemplare il mistero intradivino.
     Il Verbo era rivolto verso Dio, il suo sguardo e la sua vita erano tutte intradivine, ma Giovanni, affermando che «il mondo è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,3; cf.
Gn 1,1; Col 1,15-16; Eb 1,2-3), spezza la «circolarità» intradivina per orientare lo sguardo di Dio, anzi la sua parola, verso l’altro da sé.
Il Verbo di Dio diviene così la parola creatrice (Gn  1,1.3.6.9.14.20.24.26; Sal 33,6-9), cioè parola capace di uscire dalla fecondità di Dio per dare vita al mondo.
     Il primo capitolo di Giovanni ricorre all’immagine della luce e delle tenebre (collegata dalla Genesi all’origine del mondo) anche per «attualizzare» drammaticamente nel tempo le «opere del principio».
Luce e tenebre divengono infatti il luogo dell’accoglimento o, all’opposto, il luogo del rifiuto (Gv 1,5.10)».
(Piero Stefanini, Sia santificato il tuo nome.
Commento ai Vangeli della domenica.
Anno A, p.
44).
     Il Verbo deve fare i conti con il rifiuto, perché è una «luce» particolare, che non abbaglia, ma lascia alle «tenebre» la possibilità di non scomparire; fuor di metafora il Verbo si rivela come vita e rivela il Padre (Gv 1,18), ma in modo da lasciare la libertà di accoglierlo o di rifiutarlo.
     La risposta deve essere libera, perché il risultato dell’accoglienza è diventare «figli di Dio» (Gv 1,12-13; cf 1Gv 5,13; Ga 3,26).
Per questo il Verbo «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
     Dentro al quadro di accoglimento e rifiuto fatto in termini generali, l’evangelista richiama la figura di Giovanni il Battista, come modello di accoglienza della luce, che si è rivelata ed è venuta nel mondo.
Egli ha accolto il mandato di Dio ed è diventato testimone della luce (Gv 1,6- 8.15; cf.
Mt 3,1; Mc 1,4.7; Lc 1,13-17.57-80).
  Meditazione      Torniamo in questa domenica a fissare lo sguardo sul mistero dell’incarnazione aiutati dal Prologo di Giovanni, che la liturgia, dopo averlo proclamato nella Messa del giorno di Natale, ci fa ascoltare anche oggi, questa volta alla luce della Sapienza di Dio, come viene descritta dal Siracide (prima lettura).
Di fatto, il capitolo 24 del Siracide, insieme al capitolo 8 del libro dei Proverbi, costituiscono il principale punto di riferimento antico-testamentario per l’inno con cui si apre il Quarto Vangelo.
     L’origine della Sapienza è in Dio; creata fin dal principio, rimane in eterno.
Dopo aver riempito di sé l’intera creazione, dall’alto dei cieli fino agli abissi della terra, ha fissato la sua tenda in Israele, ha posto le sue radici nella storia di questo popolo.
Presente nel cosmo e nella storia, rivela il mistero di Dio, mostrandone tanto la trascendenza quanto la prossimità alle vicende degli uomini.
Colei che ha la sua dimora lassù, e il suo trono su una colonna di nubi, è la stessa Sapienza che abita in Gerusalemme, e pone la sua tenda tra le tende degli uomini.
Dio è il Trascendente e il Prossimo, l’Altro e il Somigliante, lo Straniero e il Vicino.
La sua Parola discende dall’alto dei cieli e nello stesso tempo sale dall’esperienza storica dei figli dell’uomo.
     Secondo la tradizione giudaica, la rivelazione fondamentale di Dio, la Torah contenuta nei cinque libri di Mosè (il nostro Pentateuco, dalla Genesi al Deuteronomio), trova il suo commento e la sua interpretazione nei Profeti e negli Scritti sapienziali.
La Profezia è spesso paragonata alla manna del deserto, un pane che discende dal cielo; la Sapienza all’acqua che sgorga dalla roccia, dalla terra.
C’è una parola di Dio che viene dall’alto e che possiamo ascoltare perché c’è un profeta che ce l’annuncia in suo nome, così come c’è una parola di Dio che sale e matura dal di dentro dell’esperienza umana, e che possiamo riconoscere a condizione di saper rileggere con sapienza e discernimento la nostra vita e la nostra storia.
     Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo prega per gli Efesini, chiedendo che «il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui» (v.
18).
Possiamo forse intendere così queste parole: abbiamo bisogno dello spirito di rivelazione, che ci consenta di ascoltare e comprendere ciò che Dio ci rivela dall’alto, e che spesso rimane indeducibile dall’esperienza che viviamo.
È allora indispensabile un annuncio profetico, una parola che ci colpisce e ci sorprende, che ci dona uno sguardo diverso su noi, sugli altri, sulla realtà nel suo insieme e su tutto ciò che accade.
La rivelazione di Dio è sempre un’illuminazione, che consente a una luce diversa di abitare nei nostri occhi e nel nostro sguardo.
Nello stesso tempo, abbiamo bisogno di uno spirito di sapienza, che ci permetta di discernere quei segni di Dio nascosti nelle pieghe ordinarie della nostra vita.
Per vivere e per credere necessitiamo sia della manna che scende dal cielo, sia dell’acqua che sgorga dalla roccia.
     In Gesù di Nazaret queste due linee, quella discendente della manna e quella ascendente dell’acqua, si incontrano e si unificano.
Non per nulla spesso i testi del Nuovo Testamento ce lo presentano come l’ultimo e definitivo profeta, ma anche come la sapienza incarnata.
Un solo esempio fra i tanti: all’inizio del vangelo di Matteo, nel suo primo grande discorso, «Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli.
Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: beati…» (Mt 5,1-2).
Gesù sale su ‘il monte’ (con l’articolo, non è un monte qualsiasi) come il nuovo Mosè, e si mette a parlare, ma più esattamente il testo greco narra che ‘aprì la sua bocca’, con un tipico modo di dire sapienziale.
Nella grande proclamazione delle beatitudini, segno della prossimità del Regno, Gesù parla come il compimento insuperabile di tutta la Profezia e di tutta la Sapienza di Israele, e la sua parola non abolisce, ma porta a compimento la Torah di Mosè.
     Su questi aspetti insiste anche il prologo giovanneo.
Gesù è il Figlio Unigenito, colui che dal principio è rivolto verso il seno del Padre; solo lui lo conosce e può rivelarcelo.
Non possiamo fare a meno della sua rivelazione per conoscere in verità il volto di Dio.
Non ci è dato di giungervi per altre vie, che presumano di poter fare a meno di lui e della sua parola, della sua persona, della sua storia.
È lui la vera manna, il pane vero che discende dal cielo per dare la vita al mondo (cfr.
Gv 6).
     Nello stesso tempo, come fa la Sapienza descritta dal Siracide, Gesù pone la sua tenda in mezzo a noi.
Anche se traduciamo «venne ad abitare in mezzo a noi» (v.
14), il testo greco evoca espressamente questo suo attendarsi tra noi.
Non solo tra noi, ma in noi, perché ora la tenda di Dio è la carne di un uomo.
Ed è proprio nella debolezza, nella fragilità, nella mortalità di questa carne (sarx in greco), che noi possiamo contemplare tutta la gloria di Dio.
Anche la carne dell’uomo, ciò che nell’uomo appartiene maggiormente alla terra, dalla terra viene e alla terra ritorna, diventa luogo epifanico di Dio.
Non solo l’acqua sgorga dalla roccia, ma potremmo dire simbolicamente che la roccia stessa diviene acqua.
E Gesù, se è manna che scende dal cielo, per Giovanni è anche roccia, pozzo che può donare alla nostra vita l’acqua vera che ci disseta in eterno (cfr.
Gv 4).
Innalzato sulla Croce e percosso dal colpo di lancia, così come Mosè aveva percosso la roccia, Gesù dona alla nostra sete l’acqua viva nel suo Spirito e nel suo sangue.
     È lui la luce vera, quella che illumina ogni uomo (cfr.
Gv 1,9).
Non solo per orientare il nostro cammino, ma per consentirci di riconoscere anche nella nostra carne i segni discreti della presenza gloriosa di Dio in noi.
     In principio era il Verbo, scrive Giovanni, era il Logos, la Parola.
Al principio di tutto, nel disegno originario di Dio, c’è il desiderio di comunicarsi, di rivelarsi, di dialogare.
E Dio sa ricorrere a molteplici linguaggi per entrare in relazione con noi: il linguaggio della storia e quello della natura, il linguaggio profetico della rivelazione e quello più universale della sapienza, il linguaggio della memoria e quello dell’attesa.
Che ci sia davvero donato, come prega Paolo, uno spirito di rivelazione e uno spirito di sapienza, perché possiamo imparare ad ascoltare e a capire questi molteplici modi con cui Dio parla e si rivela, e impariamo a nostra volta a parlarli per divenire, come Giovanni, testimoni credibili della luce vera che viene nel mondo, illumina ogni uomo, senza esclusioni o restrizioni di sorta, e non è vinta, neppure quando pare che le tenebre siano incapaci di accoglierla.
    Preghiere e Racconti IN MEZZO A NOI «Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi».
(Ef 1, 18)   «Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.
A quanti però l’hanno accolto, ha dato il potere Di diventare figli di Dio».
(Gv 1, 11-12)   Dobbiamo rimeditare il mistero del Natale in termini forse meno emotivi e più sapienziali.
Vengono adoperati, infatti, testi biblici pacati e solenni, frutto essi stessi di elaborate sedimentazioni tecnologiche teologiche.
Sembra quasi che la chiesa, preoccupata che le feste natalizie abbiano preso una piega un tantino più allegra del dovuto, voglia provocarci a supplementi di riflessione, a scavi interiori e a più esigenti prese di posizione.
Non possiamo, ovviamente, consumare tutte le vivande che ci vengono approntate sulla tavola della Parola.
C’è ne sono in abbondanza come non mai: non per nulla siamo ancora nel clima del Natale! Faremo perciò una selezione, resa obbligatoria dall’esigenza di dovercene andare con un forte tema generatore nella mente, che non ci lasci disorientati in mezzo a tanta ricchezza e ci nutra per l’intera settimana.
Svilupperemo, allora, questo messaggio: «Gente, Dio ha posto la sua tenda in mezzo a noi.
Siamo liberi di accoglierlo o di rifiutarlo.
Se lo accogliamo, però, la vita finalmente acquisterà senso per tutti!».
  Dio ha posto la sua tenda in mezzo a noi   È un messaggio che, se non ci fa trasalire più, è perché non scorre sulle coordinate del coinvolgimento esistenziale, della carica emotiva e dell’intuizione del dono.
Diciamocelo con franchezza: quello della coabitazione, anzi della «inabitazione» di Dio tra gli uomini, è un annuncio spento per molti cristiani.
Se una comunità di sieropositivi si insedia tra i palazzi dei ricchi, si scatena il rifiuto.
Un centro di accoglienza per tossicodipendenti provoca reazioni per chi vi abita accanto.
Quando una famiglia di marocchini viene ad abitare in un condominio, spesso è tutto il palazzo che si ribella.
Quando gli zingari impiantano i carrozzoni nelle adiacenze di ville appartenenti a persone «perbene», è un’iradiddio generale.
Per il verso contrario, si fa a gara per accaparrarsi, accanto alle proprie abitazioni i servizi più importanti; si specula al limite della illegalità pur di avere un impianto che valorizzi la zona dove si abita.
A chi chiede l’indirizzo di casa si aggiunge con fierezza che a pochi metri di distanza c’è la villa di Gianni Morandi o il residence di Maradona.
Ma la notizia che Dio diventa nostro coinquilino non ci fa organizzare ne cortei di protesta né i fuochi d’artificio per la gioia.
Perché questa apatia? Come ricogliere lo stupore dell’annuncio che Dio «ha posto la sua tenda in mezzo a noi»? Oggi è il momento buono per far comprendere tutto lo spessore di questa notizia che rasenta l’assurdo, anzi lo sorpassa.
  Liberi di accoglierlo o di rifiutarlo   Ecco che all’improvviso siamo posti con le spalle al muro, nella crocifissione della scelta più radicale della nostra vita: accogliere o rifiutare che Dio collochi la sua «tenda in mezzo a noi».
Stringi stringi, è il vero «caso serio» dell’esistenza.
Che fare di fronte a questa provocazione? Denunciare Gesù come abusivo? Aizzargli contro il malumore popolare perché disturba la quiete pubblica? Rimetterlo in croce o metterlo in ridicolo? Far finta di niente, tanto prima o poi si stancherà e andrà via? Oppure accoglierlo con i segni della festa e sperimentare con lui i misteri gaudiosi, gloriosi e dolorosi della vita? Oggi, di fronte al macigno che ci ruzzola addosso le parole di Giovanni: «Venne tra la sua gente, ma i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,11) tutto ci è permesso fuorché rimanere neutrali.
  Se lo si accoglie, la vita acquisterà senso A quanti lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio».
È in questa accoglienza che si gioca il senso del vivere.
Più che senso, è meglio dire sapienza.
Cioè sapore, gusto.
Il sale nella minestra: quello che manca oggi.
Se Maria presenziasse con Gesù, come un giorno in Cana di Galilea, ai nostri banchetti, non direbbe più: «Figlio, non hanno più vino» (Gv 2,3), ma direbbe: «Figlio, non hanno più sale».
Si recupera a questo punto tutto il messaggio sulla sapienza.
Essa è un dono che Dio manda sulla terra perché, «dopo aver officiato nella tenda santa davanti a lui», venga finalmente a fare compagnia agli uomini e «fissi la tenda in Giacobbe» (Sir 24,8).
Di questo senso, di questo orientamento decisivo, di questo intimo significato delle cose, di questo profondo perché, oggi sentiamo tutti un incredibile bisogno.
 Scoprire, sotto lo scorrere dei grani del tempo, il filo nascosto che articola i giorni, senza frantumarli in monadi chiuse.
Leggere, sotto la scorza degli avvenimenti, tristi o luttuosi, la tensione ultima che li lega al Regno.
Udire la voce segreta che geme nell’universo, sofferente per i travagli del parto.
Intuire che i frammenti di gioia che si sperimentano quaggiù fanno parte di un mare di felicità, in cui un giorno faremo tutti naufragio.
Percepire che il nostro vuoto può essere riempito solo «dalla sua pienezza» (Gv 1, 16).
È così grande il dono, che san Paolo sente il bisogno di chiedere per tutti da Dio questo «spirito di sapienza» (Et 1, 17).
A noi non resta che augurarci che «possa egli davvero illuminare gli occhi della nostra mente per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati».
Se le cose stanno così, benvenuta «tenda di Dio in mezzo a noi» !   (Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 91-96).
È Natale É Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano; ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare un altro; ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza.
È Natale ogni volta che permetti al Signore di amare gli altri  attraverso di te.
Preghiamo di essere capaci di accogliere Gesù a Natale non nella fredda mangiatoia del nostro cuore, ma in un cuore pieno di amore e di umiltà, un cuore caldo di amore reciproco.
(Madre Teresa di Calcutta) Il giovane e il vecchio C’era una volta un uomo seduto all’ingresso di una città….
un giovane si avvicinò e gli chiese: –     “sono nuovo di qui, com’è la gente che abita in questa città?”  Il vecchio rispose: –     “dimmi, com’era la gente nella città da dove vieni?” –     “egoista e cattiva, ed è perciò che ero contento di andare via” –     “Troverai la stessa gente anche qui”  rispose il vecchio.
Qualche tempo dopo, un altro giovane si avvicinò e fece la stessa domanda: –    “sono appena arrivato, dimmi com’è la gente di questa città?”.
Il vecchio rispose allo stesso modo: –     “dimmi, ragazzo, com’era  la gente della città da dove vieni?” –     “era gente buona, accogliente, benevola e onesta.
Ho molti amici là e ho fatto fatica a lasciarli”.
–     “Troverai la stessa gente anche qui”   – rispose il vecchio.
Un mercante che aveva ascoltato le due conversazioni, appena il secondo giovane si allontanò, rimproverò il vecchio: –     “come puoi dare risposte così diverse alla stessa domanda posta da due persone?” Il vecchio rispose: “figlio mio, ognuno porta il proprio universo nel cuore: Non importa da dove provenga: colui che non ha trovato nulla di buono nel passato, non troverà niente neanche qui.
Inoltre colui che aveva amici nell’altra città, troverà qui amici leali e fedeli.
Perché, vedi, le persone sono nei nostri confronti ciò che noi troviamo in loro”.
  Preghiera al padre della verità, della sapienza e della felicità “O Dio, creatore dell’universo, concedimi prima di tutto che io ti preghi bene, quindi che mi renda degno di essere esaudito, e infine di ottenere da te la redenzione.
O Dio, per la cui potenza tutte le cose che da sé non sarebbero, si muovono verso l’essere; o Dio, che non permetti che cessi d’essere neanche quella realtà i cui elementi hanno in sé le condizioni di distruggersi a vicenda; o Dio, che hai creato dal nulla questo mondo, di cui gli occhi di tutti avvertono l’alta armonia; o Dio, che non fai il male ma lo permetti perché non avvenga il male peggiore; o Dio, che manifesti a pochi, i quali si rivolgono a ciò che veramente è, che il male non è reale; o Dio, per la cui potenza l’universo, nonostante la parte non adatta al fine, egualmente lo raggiunge; o Dio, dal quale la dissimilitudine non produce l’estrema dissoluzione, poiché le cose peggiori si armonizzano con le migliori; o Dio, che sei amato da ogni essere che può amare, ne sia esso cosciente o no; o Dio, nel quale sono tutte le cose, ma che la deformità esistente nell’universo non rende deforme, né il male meno perfetto, né l’errore meno vero; o Dio, che hai voluto che soltanto gli spiriti puri conoscessero il vero; o Dio, padre della verità, padre della sapienza, padre della vera e somma vita, padre della felicità, padre del buono e del bello, padre della luce intelligibile, padre del nostro risveglio e della nostra illuminazione, padre del pegno che ci ammonisce di tornare a te! Te invoco, Dio verità, fondamento, principio e ordinatore della verità di tutti gli esseri che sono veri; o Dio sapienza, fondamento, principio e ordinatore della sapienza di tutti gli esseri che posseggono sapienza, o Dio vera e somma vita, fondamento, principio e ordinatore della vita degli esseri che hanno vera e somma vita; Dio beatitudine, fondamento, principio e ordinatore della beatitudine di tutti gli esseri che sono beati; o Dio bene e bellezza, fondamento, principio e ordinatore del bene e della bellezza di tutti gli esseri che sono buoni e belli; o Dio luce intelligibile, fondamento, principio e ordinatore della luce intelligibile di tutti gli esseri che partecipano alla luce intelligibile; o Dio, il cui regno è tutto il mondo che è nascosto al senso; o Dio, dal cui regno deriva la legge per i regni della natura; o Dio, dal quale allontanarsi è cadere, verso cui voltarsi è risorgere, nel quale rimanere è avere sicurezza; o Dio, dal quale uscire è morire, al quale avviarsi è tornare a vivere, nel quale abitare è vivere; o Dio, che non si smarrisce se non si è ingannati, che non si cerca se non si è chiamati, che non si trova se non si è purificati; o Dio, che abbandonare è andare in rovina, a cui tendere è amare, che vedere è possedere; o Dio, al quale ci stimola la fede, ci innalza la speranza, ci unisce la carità; o Dio, per mezzo del quale trionfiamo dell’avversario: ti scongiuro! O Dio, che abbiamo accolto per non soggiacere a morte totale; o Dio, da cui siamo stimolati alla vigilanza; o Dio, col cui aiuto sappiamo distinguere il bene dal male; o Dio, col cui aiuto fuggiamo il male e operiamo il bene; o Dio, col cui aiuto non cediamo ai perturbamenti; o Dio, col cui aiuto siamo soggetti con rettitudine al potere e con rettitudine l’esercitiamo; o Dio, col cui aiuto apprendiamo che sono anche di altri le cose che una volta reputavamo nostre e sono anche nostre le cose che una volta reputavamo di altri; o Dio, col cui aiuto non ci attacchiamo agli adescamenti e irretimenti delle passioni; o Dio, col cui aiuto la soggezione al plurimo non ci toglie l’essere uno; o Dio, col cui aiuto il nostro essere migliore non è soggetto al peggiore; o Dio, col cui aiuto la morte è annullata nella vittoria; o Dio, che ci volgi verso di te; o Dio, che ci spogli di ciò che non è e ci rivesti di ciò che è; o Dio, che ci rendi degni di essere esauditi; o Dio, che ci unisci; o Dio, che ci induci alla verità piena; o Dio, che ci manifesti la pienezza del bene e non ci rendi incapaci di seguirlo né permetti che altri lo faccia; o Dio, che ci richiami sulla vita; o Dio, che ci accompagni alla porta; o Dio, che fai sì che si apra a coloro che picchiano; o Dio, che ci dai il pane della vita; o Dio, che ci asseti di quella bevanda, sorbendo la quale non avremo più sete; o Dio, che accusi il mondo sul peccato, la giustizia e il giudizio; o Dio, col cui aiuto non siamo influenzati da coloro che non credono; o Dio, col cui aiuto riproviamo coloro i quali affermano che le anime non possiedono alcun merito dinanzi a te; o Dio, col cui aiuto non diveniamo adoratori degli elementi inetti e impotenti; o Dio, che ci purifichi e ci prepari ai premi divini: viemmi incontro benevolo! In qualsiasi modo io possa averti pensato, il Dio uno sei tu, e tu vieni in mio aiuto, una eterna e vera essenza, dove non ci sono discordia, oscurità, cangiamento, bisogno, morte, ma somma concordia, somma chiarezza, somma costanza e durata, somma pienezza, somma vita; dove nulla manca, nulla ridonda, dove colui che genera e colui che è generato sono una medesima cosa; Dio, cui sono soggette tutte le cose prive di autosufficienza, cui obbedisce ogni anima buona; per le cui leggi ruotano i poli, le stelle compiono le loro orbite, il sole rinnova il giorno, la luna mitiga la notte, e tutto il mondo, mediante le successioni e i ritorni dei tempi, conserva, per quanto la materia sensibile lo comporta, la grande uniformità dei fenomeni, attraverso i giorni con l’alternarsi del giorno e della notte, attraverso i mesi con le lunazioni, attraverso gli anni con i ritorni di primavera, estate, autunno e inverno, attraverso i lustri col compimento del corso solare, attraverso i secoli col ritorno delle stelle alle loro origini; o Dio, per le cui leggi esistenti per tutta la durata della realtà non si permette che il movimento difforme delle cose mutevoli sia turbato, ma che venga ripetuto, sempre secondo uniformità, nella dimensione rotante dei tempi; per le cui leggi è libera la scelta dell’anima e sono stati stabiliti premi per i buoni e pene per i cattivi con leggi fisse e universali; o Dio, da cui provengono a noi tutti i beni e sono allontanati tutti i mali; o Dio, sopra del quale, fuori del quale e senza il quale non c’è nulla; o Dio, sotto il quale è il tutto, nel quale è il tutto, col quale è il tutto; che hai fatto l’uomo a tua immagine e somiglianza, il che può comprendere chi conosce te stesso: ascolta, ascolta, ascolta me, mio Dio, mio Signore, mio re, mio padre, mio fattore, mia speranza, mia realtà, mio onore, mia casa, mia patria, mia salvezza, mia luce, mia vita; ascolta, ascolta, ascolta me nella maniera tua, soltanto a pochi ben nota!” (Agostino, Soliloqui, 1,1.2-4)     * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
 

Natale del Signore Gesù (anno C)

NATALE DEL SIGNORE   Lectio Anno c     Prima lettura: Isaia 52,7-10          Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.
    v Il nostro brano, appartenente al così detto secondo Isaia, immagina di descrivere la gioia entusiasta del popolo esiliato, che ascolta un divino messaggero, annunziante che l’esilio è finito e Dio è tornato nella santa città, dimostrandosi salvatore potente.
La nostra liturgia interpreta il brano in chiave messianica.
                                                                      Seconda lettura: Ebrei 1,1-6          Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente.
Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».
    v L’introduzione della anonima lettera agli Ebrei si armonizza assai bene con la lettura evangelica.
Anch’essa infatti sembra volerci svelare la misteriosa identità di Gesù Cristo.
Prima di tutto, ci è detto egli è il Figlio di Dio ed è venuto nel mondo per parlarci (come si vede, anche questo testo è vicino a definire Gesù Cristo Verbo di Dio), in qualità di creatore e signore (in quanto erede) di tutte le cose (vv.
1-2).
In secondo luogo, di questo Figlio di Dio, del quale si magnifica ancora la potenza della parola, è detto che, avendo realizzato la purificazione del mondo è assiso alla destra di Dio, superando in dignità gli stessi angeli (vv.
3-6).
  Vangelo: Giovanni 1,1-18          In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
    Esegesi      I primi 18 versetti del c.
I del quarto vangelo contengono certamente una composizione poetica, che non segue le norme della metrica greca, ma le cadenze e le regole della poesia semitica, basata su vari tipi di parallelismo e antitesi cadenzati.
Nella composizione poetica sono però inseriti dei brani in prosa di tipo narrativo o esplicativo.
Le due inserzioni narrative riguardano la testimonianza storica resa da Giovanni Battista al Verbo di Dio: vv.
6-8 e v.
15.
L’inserzione esplicativa del v.
13 sembra ampliare la descrizione dei figli di Dio del v.
12; quella del v.
17 commenta l’accenno alla grazia, fatta nel verso precedente, ricordando che questa è propria di Gesù Cristo, così come la legge è propria di Mosè; il v.
18 fa certamente da conclusione all’intero inno e potrebbe anche farne parte.
È probabile che l’inno a Gesù come Verbo (cioè parola) di Dio esistesse, nelle comunità formatesi attorno all’apostolo Giovanni, come inno liturgico e che il redattore del quarto vangelo lo abbia utilizzato, così come pare abbia fatto Paolo in Fil 2,5ss e in Col l,12ss e altri agiografi in altri libri del Nuovo Testamento.
     La ricchezza delle idee espresse nell’inno, velate per di più dal linguaggio allusivo e fluttuante che è proprio della poesia, non ci consente di farne qui l’intera analisi.
Ci contentiamo di sottolineare i motivi che lo hanno fatto scegliere come lettura evangelica della terza Messa di Natale.
     Ci sono due problemi che la primitiva predicazione cristiana ha dovuto affrontare e che tutt’ora sono ineludibili: il primo è quello della identità personale di Gesù Cristo (chi è costui?); il secondo è quello del rifiuto opposto a Gesù Cristo e al suo vangelo, a cominciare dal suo stesso popolo.
Ambedue i problemi li hanno tenuti presenti i nostri quattro vangeli e, in particolare, i vangeli dell’infanzia di Matteo e Luca.
Si ha l’impressione che il prologo del vangelo di Giovanni voglia rispondere soprattutto a questi due problemi.
     Risponde al primo problema la denominazione di Gesù Cristo come Verbo, ossia Parola di Dio: in quanto Parola di Dio egli appartiene all’area di Dio ed è al di fuori o al di sopra del tempo, in principio (vv.
1-2); l’intera creazione dipende da lui, perché è opera sua (v.
3) e, in particolare da lui deriva la vita, che è lo splendore della creazione ed è in se stessa rivelazione o manifestazione di Dio, vale a dire luce degli uomini (v.
4), contrastata ma non vinta dalle tenebre, cioè dall’ignoranza e dal peccato degli uomini (v.
5): finalmente, questo verbo di Dio, preannunciato dalla testimonianza dell’inviato divino Giovanni Battista (vv.
6-5), si fece carne e prese la sua dimora fra gli uomini, rivelando a loro la gloria del Padre (v.
14).
Questa è la densa e articolata risposta data al problema della identità di Gesù.
     Il secondo problema, quello del rifiuto patito da Gesù nella sua stessa patria, non riceve una spiegazione semplicistica, ma è svelato in tutta la sua dimensione cosmica e universale: esso va riportato cioè al rifiuto che sempre le tenebre hanno opposto alla luce (vv.
5.10-11).
Più che fare infiniti discorsi sull’argomento, occorre vedere ciò che accade a quelli che accolgono il Verbo di Dio fatto uomo: diventano figli di Dio e vengono riempiti dalla grazia, cioè dall’amore del Padre (vv.
12.16).
  Meditazione      «Un giorno santo è spuntato per noi…
oggi una splendida luce è discesa sulla terra».
Il canto al vangelo di questa eucaristia bene ci introduce nello spirito di questo giorno, giorno reso santo da quella «splendida luce» che ha illuminato la notte oscura dell’umanità e ora brilla nella pienezza del suo fulgore.
Il prologo del vangelo di Giovanni (Gv 1,1-18), che con felice intuizione la Chiesa fa proclamare nella Messa del giorno, descrive l’itinerario di questa «luce» che dalle ‘origini’ e dalle ‘altezze’ di Dio ‘scende’ nel mondo per rischiarare le sue tenebre e ridonargli nuova vita.
Là infatti dove arriva la luce, la vita può diffondersi e rifiorire; al contrario, dove tutto è avvolto dal buio, c’è solo il deserto e la morte.
All’inizio della creazione, quando «la terra era informe e deserta» e in essa tutto era ancora tenebra, la prima realtà che Dio fece sorgere dalla potenza della sua parola fu proprio la luce: «Dio disse: “Sia la luce!”.
E la luce fu» (Gen 1,1-3).
La vita prende avvio dalla luce e la luce, a sua volta, simboleggia la vita nel suo dilatarsi e crescere, prendendo forma e colore: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv l,4).
     Il tema della luce attraversa tutto il quarto vangelo e costituisce uno dei motivi fondamentali dell’intera narrazione, costruita appunto sul dualismo e sul contrasto luce/tenebre.
Gesù stesso, durante il suo ministero, non esiterà a dichiarare: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
Ma il motivo della luce è strettamente legato anche a tutta la tematica del ‘vedere’: senza luce è infatti preclusa ogni possibilità di visione delle realtà di questo mondo (il buio rende tutti in qualche modo ‘ciechi’).
La prima lettura e il salmo responsoriale insistono sul fatto che «la salvezza del nostro Dio» giunta a noi in questi giorni ultimi (cfr.
Eb 1,2) è stata veduta da «tutti i confini della terra» (Is 52,10; Sal 97,3).
Allo stesso modo l’evangelista Giovanni, al culmine del suo prologo, dove con poche e incisive parole narra il momento cruciale e irripetibile dell’incarnazione del Verbo («E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»), introduce il ‘noi’ della comunità credente proprio con l’azione del ‘vedere’: «e noi abbiamo contemplato la sua gloria» (Gv 1,14).
Nessuno può vedere Dio, dice tutta la Scrittura, e Giovanni dal canto suo ripete: «Dio nessuno lo ha mai visto», ma, aggiunge subito: «il Figlio unigenito…
è lui che lo ha rivelato» (v.
18).
Noi vediamo «la gloria di Dio» nella «carne» dell’uomo Gesù, nell’umanità fragile e debole che il Verbo ha assunto venendo in questo mondo.
Ancora una volta, il contrasto si fa stridente: la carne, questa realtà caduca e mortale (erba che secca e fiore che appassisce, dicono i profeti: cfr.
Is 40,6-7) diventa epifania di Dio, luogo che irradia lo splendore della sua gloria (cfr.
Eb 1,3).
     La celebrazione del Natale non cessa di accrescere il nostro stupore mostrandoci che quel «bambino nato per noi» (antifona d’ingresso, che riprende Is 9,5) non è altro che il Verbo di Dio, la Parola eterna che è divenuta carne, la Salvezza che tutti i popoli attendevano di vedere.
È in questo piccolo e inerme bambino che «il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni» (Is 52,10), come ci dice il profeta Isaia con un’immagine plastica e incisiva.
‘Snudare il braccio’ vuol dire mostrare tutta la propria forza e potenza, esibire la propria grandezza nella capacità di compiere prodigi che non temono confronti.
Certamente, sentire proclamare questa parola con lo sguardo ancorato al presepe di Betlemme, a quel bimbo «avvolto in fasce che giace nella mangiatoia», non può non suscitare in noi una sorta di meraviglia confusa, di grato smarrimento, di pensoso palpitare del cuore…
     Nel prologo della lettera agli Ebrei (seconda lettura) ci imbattiamo nella solenne affermazione che «Dio ha parlato a noi nel Figlio» (Eb 1,2).
Se «in principio» (Gen 1,1; cfr.
Gv 1,1) Dio aveva già fatto risuonare la sua parola creatrice e, nel corso del tempo, aveva continuato a parlare «molte volte e in diversi modi» attraverso i profeti (Eb 1,1), è soltanto ora, «in questi giorni», che dice la sua parola ultima e definitiva nel suo Figlio amato.
Gesù è la Parola, «il Verbo», attraverso cui Dio dice veramente e fino in fondo se stesso.
Se Dio non ha mai smesso di parlare – cioè di comunicarsi attraverso il fragile mezzo della parola, mai imposta e sempre esposta al possibile rifiuto -, è però negli ultimi tempi che la sua parola acquista una nuova e più radicale dimensione, assumendo tutto lo spessore e la concretezza della ‘carne’.
È a questa carne che Dio affida il suo incontenibile desiderio di comunicazione e di comunione con l’uomo, prendendo su di sé il rischio di una condivisione piena e totale della nostra condizione umana.
Forse è a questo che allude la colletta di questa eucaristia quando dice che «in modo mirabile ci hai creati a tua immagine, e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti…».
Il «modo» di parlare nella carne del Figlio diventa «più mirabile» del modo con cui la parola potente di Dio ha creato l’uomo e il mondo intero.
Ed è solamente per questa via, segnatamente (o mirabilmente) ‘carnale’, che a noi è data la possibilità di accogliere fino in fondo questa parola, ricevendo così in dono la grazia di «diventare figli di Dio» (Gv 1,12).
  Preghiere e Racconti Quella volta che Francesco… Amico, questo Natale del Signore voglio vederlo!».
Così disse, all’inizio del dicembre 1223, Francesco di Assisi all’amico Giovanni Velita, un possidente di terreni collinosi a Greccio, presso Rieti.
E il Santo spiegò all’amico cosa intendesse per “vedere” il Natale.
Nacque, da quel’intesa, il presepio com’è conosciuto nella cultura cristiana, nella pietà e nell’arte dei paesi latini.
Francesco è un credente dal cuore di fanciullo e dalla fervida e festosa fantasia.
La sua fede “vede” ciò che crede, ma le mancava l’“oggetto” da vedere nella figura e nella forma concreta; il Poverello, in quel secolo di ferro e di fuoco, ma anche di grandi santi, poeti e profeti della fede, non era soddisfatto di una “lacuna” costante nella rappresentazione della nascita del Figlio di Dio.
Conosceva, grazie ai suoi pellegrinaggi a Roma, la Natività nei mosaici delle grandi basiliche, ma non gli bastava.
In quei sublimi cicli pittorici, il Figlio di Dio pur avvolto in fasce, è quasi sempre raffigurato come un principe, dalla faccia seria, senza splendore d’innocenza e d’infanzia.
Francesco deve aver coltivato a lungo la speranza di “vedere” realmente la presenza di Cristo neonato, e ha cercato un’immagine viva del Bambino di Betlemme, fatta di carne, di uno sguardo, un gemito, un sorriso.
Il discorso di Francesco a Giovanni Velita non è riferito certo alla lettera, ma il senso è preciso: “Preparami, per questo Natale del Signore, una grotta, della paglia, un asino, un bue, dei pastori e una mangiatoia, vuota però.
La cornice è nostra, ma la presenza è soltanto quella che a lui piacerà mostrarci.
E un sacerdote celebri, nella notte, il sacrificio eucaristico.
A tutto il resto penserà il Signore”.
Giovanni Velita obbedisce felice.
La collina boscosa, nella notte, si riempie di gente, di canti, di grida di bambini, di animali, pecore e agnelli.
Dopo aver proclamato il Vangelo, Francesco parla alla gente stupefatta, curiosa, trepida davanti a quella mangiatoia vuota.
La voce del Poverello trema, raccontano i suoi biografi: sembra un belato d’agnello e ogni volta che pronuncia il nome di Gesù, si commuove fino alle lacrime.
Alla consacrazione, nella mangiatoia si manifesta la presenza di un bambino vivo.
Sta lì, e dorme, come quello di Betlemme, come tutti i bambini della terra.
Chi è? Chi l’ha posto in quel luogo? Da dove è venuto? Dove sono Maria e Giuseppe? Francesco non ha bisogno di dare risposte.
Ha già detto tutto: “Stanotte la carne dell’uomo è stata glorificata per sempre.
Il Figlio di Dio l’ha assunta, vi è nato un uomo come noi, per restarci accanto fino alla fine del tempo.
E il nostro Signore povero, figlio di Maria.
Adoriamolo”.
Si piega sulla mangiatoia e solleva tra le braccia il bambino, per mostrarlo alla gente incredula e felice.
Poi le fiaccole, i fuochi e le voci si spengono.
Ma nella teologia e nel folclore, nella pietà e nell’arte, quel rito strano e a suo modo inaudito, resterà per sempre indelebile.
Francesco con questo semplice rito, ha ricreato il Natale di Betlemme e ha “inventato” il presepio.
Ha messo in circolo, nell’arte di tutti i secoli, “il volto” di Cristo bambino, annullando la “maschera” di un Dio giudice severo e senza pietà.
Il Santo di Assisi, da profeta e poeta dell’innocenza, con il Presepio di Greccio ha riacceso e fortificato la “memoria” della natività di Betlemme, dalla quale la cristianità può recuperare innocenza e coraggio, fedeltà ed amore.
È il senso stimolante di due versi di Thomas Merton: «E finalmente io apprendo d’essere nato — oramai non più in Francia — ma a Betlemme».
(Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
  Trovato neonato in una stalla   Trovato neonato in una stalla: polizia e servizi sociali indagano «Arrestati un falegname e una minorenne».
  Betlemme, Giudea   L’allarme è scattato nelle prime ore del mattino, grazie alla segnalazione di un comune cittadino che aveva scoperto una famiglia accampata in una stalla.
Al loro arrivo gli agenti di polizia, accompagnati da assistenti sociali, si sono trovati di fronte ad un neonato avvolto in uno scialle e depositato in una mangiatoia dalla madre, tale Maria H.
di Nazareth, appena quattordicenne.
Al tentativo della polizia e degli operatori sociali di far salire la madre e il bambino sui mezzi blindati delle forze dell’ordine, un uomo, successivamente identificato come Giuseppe H.
di Nazareth, ha opposto resistenza, spalleggiato da alcuni pastori e tre stranieri presenti sul posto.
Sia Giuseppe H.
che i tre stranieri, risultati sprovvisti di documenti di identificazione e permesso di soggiorno, sono stati tratti in arresto.
Il Ministero degli Interni e la Guardia di Finanza stanno indagando per scoprire il Paese di provenienza dei tre clandestini.
Secondo fonti di polizia i tre potrebbero essere degli spacciatori internazionali, dato che erano in possesso di un ingente quantitativo d’oro e di sostanze presumibilmente illecite.
Nel corso del primo interrogatorio in questura gli arrestati hanno riferito di agire in nome di Dio, per cui non si escludono legami con Al Quaeda.
Le sostanze chimiche rinvenute sono state inviate al laboratorio per le analisi.
La polizia mantiene uno stretto riserbo sul luogo in cui è stato portato il neonato.
Si prevedono indagini lunghe e difficili.
Un breve comunicato stampa dei servizi sociali, diffuso in mattinata, si limita a rilevare che il padre del bambino è un adulto di mezza età, mentre la madre è ancora adolescente.
Gli operatori si sono messi in contatto con le autorità di Nazareth per scoprire quale sia il rapporto tra i due.
Nel frattempo Maria H.
è stata ricoverata presso l’ospedale di Betlemme e sottoposta a visite cliniche e psichiatriche.
Sul suo capo pende l’accusa di maltrattamento e tentativo di abbandono di minore.
  (Dario Guerini, in <http://www.facebook.com/notes/dario-guerini/buon-natale/190558089997>, 10 dicembre 2009).
    «Sia questo per voi il segno; troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2, 12).
Fissiamo l’attenzione su alcuni punti.
 I pastori Un primo spunto di riflessione è offerto proprio dai destinatari del messaggio dell’angelo del Natale: i pastori.
Essi vengono privilegiati da questa primizia di annuncio non tanto perché poveri – come sempre abbiamo pensato -, quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati com’erano a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l’altrui.
Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione.
Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi, figli fedeli della casa paterna: Dio non richiede credenziali ne affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta.
Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l’unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c’è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto risuonano in chiesa le voci della piazza, accanto al gregoriano? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della confraternita a cui apparteniamo, della sacrestia che frequentiamo?   L’angelo del Natale Un secondo spunto viene offerto dal messaggio.
Contiene una promessa, indicata da un verbo di movimento: «Troverete» (Lc 2,12).
Il trovare presuppone una ricerca, un cammino, un esodo.
Per i pastori si trattò solo di abbandonare i fuochi del bivacco e le capanne di fronde erette a difesa dalle intemperie.
Per noi le partenze sono molto più laceranti: ci viene chiesto di abbandonare i recinti delle nostre sicurezze, i calcoli delle nostre prudenze, il patrimonio culturale di cui siamo solerti conservatori.
È un viaggio lungo e faticoso, quasi un salto nel buio.
Si tratta infatti di ripercorrere, a ritroso, secoli e secoli di storia; di rileggere, con occhi diversi, le varie tappe della civiltà, per ritrovare le origini del cristianesimo nella grotta di Betlemme.
E non è detto che la meta della nostra ricerca sia un Dio glorioso.
Ci vengono garantiti solo dei segni: un bambino, le fasce, la mangiatoia: i segni della debolezza, del nascimento e della povertà di Dio.
Un bambino inerme.
Simbolo di chi non può vantare alcuna prestazione.
Di chi può solo mostrare, piangendo, la propria indigenza.
A questo punto il discorso sulla debolezza di i Dio, più che assumere le cadenze del moralismo (tale, cioè, da spingerci ad amare i deboli, gli indifesi, i non garantiti), dovrebbe stimolare la riflessione teologica sul perché Dio ha deciso di spiazzare tutti manifestando la sua gloria nei segni del non-potere, della non-violenza.
  La veste del bambino Le fasce sono simbolo del nascondimento di Dio, velano la sua presenza perché la sua luce non ciechi i nostri occhi.
Saranno ritrovate nel sepolcro, per terra, quando lui, il Signore, avrà sconfitto la morte e dichiarato abolite tutte le croci.
Ma da quando Maria le ha utilizzate per la prima volta quella notte, suo Figlio non ha mai smesso di riutilizzarle.
Ancora oggi continua a giacere avvolto in fasce.
Qui, se per poco ci mettiamo a «sbendare», le coperte s’infittiscono paurosamente: migliaia di volti spauriti a cui nessuno ha mai sorriso; membra sofferenti che nessuno ha accarezzato; lacrime mai asciugate; solitudini mai riempite; porte a cui mai nessuno ha bussato.
E si potrebbe continuare all’infinito, in un interminabile rosario di sofferenze.
È qui che Dio continua a vivere da clandestino.
A noi il compito di cercarlo; di cominciare a bazzicare certi ambienti non troppo piacevoli; di lasciarci ferire dall’oppressione dei poveri, prima di cantare le nenie natalizie davanti al presepio.
Guardare oltre le fasce, riconoscere un volto, trovare trasparenze perdute, coltivare sogni innocenti: non è un andare incontro alla felicità?   La culla del neonato La mangiatoia è il simbolo della povertà di tutti i tempi; vertice, insieme alla croce, della carriera rovesciata di Dio che non trova posto quaggiù.
È inutile cercarlo nei prestigiosi palazzi del potere dove si decidono le sorti dell’umanità: non è lì.
È vicino di tenda dei senza-casa, dei senza-patria, di tutti coloro che la nostra durezza di cuore classifica come intrusi, estranei, abusivi.
La mangiatoia è però anche il simbolo del nostro rifiuto «È venuto nella sua casa, ma i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1, 11).
È l’epigrafe della nostra non accoglienza.
La greppia di Betlemme interpella, in ultima analisi, la nostra libertà.
Gesù non compie mai violazioni di domicilio: bussa e chiede ospitalità in punta di piedi.
Possiamo chiudergli la porta in faccia.
Possiamo, cioè, condannarlo alla mangiatoia: che è un atteggiamento gravissimo nei confronti di Dio.
Sì, è molto meno grave condannare alla croce, che condannare alla mangiatoia.
Se però gli apriremo con cordialità la nostra casa e non rifiuteremo la sua inquietante presenza ha da offrirci qualcosa di straordinario: il senso della vita, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la gioia del servizio, lo stupore della vera libertà, la voglia dell’impegno.
Lui solo può restituire al nostro cuore, indurito dalle amarezze e dalle delusioni, rigogli di nuova speranza.
  (Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 79-84).
Che cosa significa “tempo compiuto” o “vita compiuta”       I mistici hanno riflettuto su questo concetto della pienezza del tempo.
Per Meister Eckhart il tempo è stato compiuto con l’incarnazione di Dio.
Il tempo è il luogo nel quale l’uomo diviene uno con Dio.
Se siamo uno con il Dio eterno, allora il tempo è compiuto.
Agostino riprende l’espressione di san Paolo della pienezza del tempo: “Ma quando giunse la pienezza del tempo, apparve anche colui che voleva liberarci dal tempo.
Infatti, liberati dal tempo, dovremmo giungere a quella eternità dove non c’è nessun tempo”.
Per Paolo la pienezza del tempo consiste nel fatto che Dio ha inviato suo Figlio nel mondo (Gal 4,4).
In Gesù è uno Dio e uomo, tempo ed eternità.
Se siamo in Cristo, prendiamo parte a Dio e alla sua pienezza, alla sua eternità.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2008, 185).
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
 

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe (Anno C).

Preghiere e Racconti La casa di Nazaret “La casa di Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del vangelo.
Qui si impara a osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio, tanto semplice, umile e bella.
Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo.
Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato.
Qui, a questa scuola certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del vangelo e diventare discepoli del Cristo.
Non lasceremo questo luogo senza aver raccolto, quasi furtivamente alcuni brevi ammonimenti dalla casa di Nazaret.
In primo luogo essa ci insegna il silenzio.
Oh! Silenzio di Nazaret, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri.
Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l’interiorità della vita, la preghiera che Dio solo vede nel segreto.
Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia.
Nazaret ci ricordi cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile.
Ci faccia vedere com’è dolce e insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale.
Infine impariamo la lezione del lavoro.
Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo, ma redentrice della fatica umana” (Paolo VI, Discorso a Nazaret, 5 gennaio 1965).
  La mamma è qui «Il bambino amato sente che ha qualcosa di bello, di valido, e che esiste per qualcuno perché si sente scelto.
Il bambino si sente scelto solamente quando c’ è una figura femminile affettivamente disponibile, gratuita, permanente, che vive per lui.
Non si può essere madre e padri a ore.
Ogni bambino svegliandosi ha bisogno di vedere il volto della madre che gli sorride e andando a letto vuole il bacio della buona notte, la benedizione di papà e mamma e quando ritorna a casa da scuola ha il desiderio di sentirsi rispondere “la mamma è qui”.
(Oreste BENZI, Per la Famiglia.
La coppia oggi tra libertà dell’uomo e mistero di Dio, Rimini, Guaraldi, 1992, 73).
La Sacra Famiglia Tre Persone e un amato esse sono tutte e tre: in esse un solo amore, un amante le rendeva; l’amato tale amante ove ognuna d’esse vive; perché l’essere che hanno delle tre ognuna tiene e ciascuna d’esse ama chi tal essere possiede.
  Questo esser è ciascuna, questo solo le congiunge in un nodo sì ineffabile che ridire non si può; infinito è per tal modo quell’amore che le unisce, che in tre è un solo amore, lor sostanza essa si dice; e l’amor quanto più uno tanto più amor produce.
  (Giovanni della Croce).
  La famiglia, icona della Trinità Il Signore benedica tutti i vostri progetti, miei cari fratelli.
Il Signore vi dia la gioia di vivere anche l’esperienza parrocchiale in termini di famiglia.
Prendiamo come modello la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito che si amano, in cui la luce gira dall’uno all’altro, l’amore, la vita, il sangue è sempre lo stesso rigeneratore dal Padre al Figlio allo Spirito, e si vogliono bene.
Il Padre il Figlio e lo Spirito hanno spezzato questo circuito un giorno e hanno voluto inserire pure noi, fratelli di Gesù.
Tutti quanti noi.
Quindi invece che tre lampade, ci siamo tutti quanti noi in questo circuito per cui e la parrocchia e le vostre famiglie prendano a modello la Santissima Trinità.
Difatti la vostra famiglia dovrebbe essere l’icona della Trinità.
La parrocchia, la chiesa dovrebbe essere l’icona della Trinità.
Signore, fammi finire di parlare, ma soprattutto configgi nella mente di tutti questi miei fratelli il bisogno di vivere questa esperienza grande, unica che adesso stiamo sperimentando in modo frammentario, diviso, doloroso, quello della comunione, perché la comunione reca dolore anche, tant’è che quando si spezza, tu ne soffri.
Quando si rompe un’amicizia, si piange.
Quando si rompe una famiglia, ci sono i segni della distruzione.
La comunione adesso è dolorosa, è costosa, è faticosa anche quella più bella, anche quella fra madre e figlio; è contaminata dalla sofferenza.
Un giorno, Signore, questa comunione la vivremo in pienezza.
Saremo tutt’uno con te.
Ti preghiamo, Signore, su questa terra così arida, fa’ che tutti noi possiamo già spargere la semente di quella comunione irreversibile, che un giorno vivremo con te.
(Don Tonino Bello)   Preghiera dinanzi al presepe       Signore Gesù, noi ti vediamo bambino  e crediamo che tu sei il Figlio di Dio e il nostro Salvatore.
Con Maria,con gli angeli e con i pastori noi ti adoriamo.
Ti sei fatto povero per farci ricchi con la tua povertà: concedi a noi di non dimenticarci mai dei poveri e di tutti coloro che soffrono.
Proteggi la nostra famiglia, benedici i nostri piccoli doni, che abbiamo offerto e ricevuto, imitando il tuo amore.
Fa che regni sempre tra noi questo senso di amore che rende più felice la vita.
Dona un Buon Natale a tutti, o Gesù, perché tutti si accorgano che tu oggi sei venuto a portare al mondo la gioia.
  Preghiera per la famiglia O Padre del cielo, fa’ che nella nostra famiglia imitiamo le stesse virtù e lo stesso amore della Santa famiglia di Nazareth, perché, riuniti insieme nella tua casa, possiamo un giorno godere la gioia eterna.
Per Cristo nostro Signore.
Amen.
(Paolo VI)   * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
   SANTA  FAMIGLIA   Lectio Anno c     Prima lettura: 1Samuele 1,20-22.24-28          Al finir dell’anno Anna concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuèle, «perché – diceva – al Signore l’ho richiesto».
Quando poi Elkanà andò con tutta la famiglia a offrire il sacrificio di ogni anno al Signore e a soddisfare il suo voto, Anna non andò, perché disse al marito: «Non verrò, finché il bambino non sia svezzato e io possa condurlo a vedere il volto del Signore; poi resterà là per sempre».
Dopo averlo svezzato, lo portò con sé, con un giovenco di tre anni, un’efa di farina e un otre di vino, e lo introdusse nel tempio del Signore a Silo: era ancora un fanciullo.
Immolato il giovenco, presentarono il fanciullo a Eli e lei disse: «Perdona, mio signore.
Per la tua vita, mio signore, io sono quella donna che era stata qui presso di te a pregare il Signore.
Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto.
Anch’io lascio che il Signore lo richieda: per tutti i giorni della sua vita egli è richiesto per il Signore».
E si prostrarono là davanti al Signore.
       v L’esperienza di Anna è quella di una maternità sofferta.
La donna è sterile e viene nel santuario di Silo a chiedere a Dio la grazia di un figlio (1Sam 1,9-19).
Il sacerdote che osserva il fervore della sua preghiera si sente autorizzato a darle una risposta rassicuratrice: «Va in pace e il Dio d’Israele ascolti la domanda che gli hai fatto» (1,17).
     Secondo l’attesa nasce il bambino desiderato.
Ma c’è ora da adempiere  l’impegno preso al momento della desolazione.
«Io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita», aveva detto nel dolore (1,11).
Il piccolo Samuele è il figlio della promessa, come il suo stesso nome ricorda «Il Signore ha ascoltato».
    Ora che il bambino è in qualche modo autosufficiente, Anna compie il suo pellegrinaggio verso il santuario di Silo per presentarsi alla faccia del Signore.
E per ricevere sicura udienza offre prima un sacrificio di propiziazione e quindi presenta il bambino per offrirlo al servizio del luogo sacro…
     «Il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto.
Anch’io lascio che il Signore lo richieda» (1,27-28).
Non è un baratto, ma una coerenza del proprio credo.
Se JHWH dona deve anche ricevere.
    È la logica che ha guidato a suo tempo i passi di Abramo, il padre dei credenti.
Pure lui aveva ricevuto miracolosamente un figlio e cede senza discutere alle richieste di chi glielo aveva accordato, ma la prontezza, quindi la sua fede, è il presupposto per riaverlo nuovamente (Gn 22).
    Samuele è consegnato al Signore e rimarrà nel santuario di Silo alla scuola del gran sacerdote Eli; non ritornerà a Ramataim, nelle montagne di Efraim, con i genitori, ma diventerà presto la guida spirituale di tutto Israele.
«Da Dan a Bersheba», da un estremo all’altro del paese, tutto il popolo seppe «che era stato costituito profeta del Signore» (1Sam 3,20).
Iddio non si era lasciato vincere in generosità.
    E la madre che aveva pianto per la sua sterilità, per la carenza, di un figlio, ora che l’ha perso donandolo al Signore non è afflitta ma, piena di esultanza, intona un canto di gioia e di ringraziamento che sarà l’anticipo del Magnificat di Maria (2,1-10; cf.
Lc 1,46-55).
  Seconda lettura: 1Giovanni 3,1-2.21-24          Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato.
Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui.
In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
    v Le «Lettere» di Giovanni fanno parte di quelle chiamate «cattoliche» dirette cioè non a una singola chiesa, ma a una cerchia più ampia di credenti, in pratica alle comunità cristiane di Asia che registrano nel loro interno i primi attriti e le prime divisioni.
    La condizione del cristiano, secondo l’autore della lettera, è unica, poiché in virtù della sua fede e della rigenerazione battesimale è passato realmente in uno stato di vita nuova che è quello dei figli di Dio.
    Il discorso non è propriamente teologico, ma pratico e soprattutto pastorale.
Il «figlio» è colui che è generato dal seno del padre (cf.
Gv 1,13.18) non tanto un prodotto della sua potenza.
Tra le cose, gli esseri e l’uomo c’è per l’autore biblico, davanti a Dio, una grande differenza, poiché solo l’uomo è a sua immagine e somiglianza (cf.
Gn 1,26).
    Il nuovo Testamento fa un passo avanti e stabilisce tra Dio e l’uomo una relazionalità, quasi una parentela che induce il primo a chiamarsi «padre» e il secondo a dirsi «figlio».
È  sempre un linguaggio analogico, mutuato cioè dal mondo degli uomini dove la relazione più intima e più cara che esiste tra persone è quella tra i genitori e i figli.
    Il cristiano è colui che ha accettato la testimonianza di Gesù Cristo, vive secondo le sue proposte, soprattutto si prova ad amare i suoi simili, persino i nemici.
Egli vive secondo una perfezione che solo Dio possiede.
«Se così farete, perdonate cioè anche a quelli che non lo meritano, sarete perfetti come il Padre vostro che è nei cieli» ricordano Matteo e Luca (5,43-48; 6,36:23,34).
     La lettera di Giovanni richiama questa dignità del cristiano che può far propri gli atteggiamenti e i sentimenti di Dio.
Non si tratta di un titolo accademico, di una onorificenza gratuita, ma di una promozione che nasce sì dalla fede in Cristo, soprattutto però dall’assunzione dei suoi insegnamenti a programma di vita.
È l’essere veramente cristiani, cioè il tentativo di imitare il grado di carità di Gesù Cristo che rende un uomo figlio di Dio.
    Il passo centrale di tutta la lettera è sempre 1,3-7, soprattutto la frase «Dio è luce in cui non ci sono tenebre; se camminiamo nella luce come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri».
    La filiazione divina si rivela nel grado di capacità di accoglienza degli uomini, cioè nel grado di amore verso i fratelli.
La comunione con Dio, la dimora in lui, la paternità e la filiazione, temi della lettera, si identificano alla fine con l’imitazione di Cristo, con l’amore degli uni verso gli altri.
    Non sono tanto i sentimenti quanto i comportamenti che rivelano la dignità del cristiano.
  Vangelo: Luca 2,41-52          I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua.
Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa.
Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.
Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava.
E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».
Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso.
Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore.
E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
       Esegesi      Luca conclude, con il brano 2,41-52, il racconto dell’infanzia di Gesù.
Dopo il dittico degli annunzi (1,5-55) e delle nascite (1,57-2,20) in cui la persona e la missione di Gesù ha il suo risalto soprattutto nel confronto con la figura di Giovanni (simbolo dell’antica alleanza), quella di Maria (la comunità dei credenti) e con Elisabetta (la sinagoga) seguono due quadri che si possono chiamare delle «ascensioni di Gesù al tempio di Gerusalemme», che costituiscono o meglio anticipano l’apoteosi del Cristo nel luogo dell’antico culto e davanti ai dottori d’Israele che rimangono confusi e ammirati davanti alla sapienza del nuovo rabbi che ormai ha eclissato la loro autorità.
     La storia non era andata così, ma l’evangelista non racconta ciò che era realmente accaduto, ma che avrebbe dovuto o dovrebbe accadere: Israele si convertirà e riconoscerà il messia che Dio ha inviato al suo popolo e nello stesso tempo alle genti (Lc 2,32).
     Il testo di Lc 2,41-52 (come quello di Lc 2,21-40) sotto le parvenze di una cronaca e una pagina di alta teologia o se si vuole di profonda cristologia.
Il figlio del falegname di cui i nazaretani conoscono i familiari, la madre, le sorelle, i fratelli e che per questo rifiutano di ascoltare è il maestro di sapienza, il salvatore di tutti gli uomini      Il racconto di Lc 2,41-52 ha l’aria di un episodio, ma il messaggio supera la sua portata aneddotica; bisogna seguire la sua trama, ma senza perdere di vista le alte intenzioni dell’autore.
    Il pellegrinaggio della S.
Famiglia a Gerusalemme è l’occasione o il pretesto della visita di Gesù al tempio.
    L’evangelista descrive la fase iniziale della manifestazione di Gesù ma sembra che pensi soprattutto all’ultima, quella che compirà pure in occasione della pasqua.
     La separazione di Gesù dai genitori, lo smarrimento può apparire inverosimile, ma è soprattutto misterioso.
Segnala la strada di Cristo che è solitaria.
Gesù è accompagnato dai genitori nella sua infanzia, ma quando deve dar compimento alla sua missione è solo.
Neanche gli apostoli gli sono di grande aiuto, piuttosto di intralcio.
Essi l’abbandonano anche nell’ora del Getsemani che si conclude con la condanna capitale.
     Giuseppe e Maria sono persone reali e simboliche; sono i genitori di Gesù, ma anche i prototipi della comunità credente.
Essi si preoccupano del figlio; lo ricercano, lo ritrovano e si preoccupano di capire le ragioni del suo comportamento.
     La domanda «Figlio, perché ci hai fatto questo?» riassume secoli di teologia.
In altri tempi si dirà: «Cur Deus homo?» (Perché Dio si è fatto uomo?) oppure: «Perché la croce?».
La morte di Cristo è il problema che ha fatto perdere l’orientazione agli apostoli, ha atterrito Paolo e rende perplessi quanti si provano a riflettervi sopra.
«Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», dice Maria coinvolgendo nella sua angoscia lo sposo e l’intera comunità.
     I «tre» giorni della sparizione possono contenere un’allusione ai tre giorni della sepoltura, della scomparsa di Gesù dallo sguardo dei suoi fratelli e quindi possono contenere un richiamo alla sua passione e morte.
     La risposta alla domanda di Maria e di quanti ella rappresenta non è una spiegazione ma un invito ad accettare le disposizioni che vengono dall’alto anche se non si comprendono.
Al «Figlio, perché ci hai fatto questo?» segue un «Perché mi cercavate?».
Ogni ricerca sulle scelte di Gesù sfocia in un bivio oltre il quale non è possibile indagare.
C’è un imperativo, un dovere a cui occorre solo sottostare.
     La strada della salvezza è segnata da colui che l’ha decisa; ne ha stabiliti i percorsi e le modalità di attuazione; l’uomo deve solo seguirli.
È quanto Gesù confessa alla madre e a quanti condividono le sue perplessità.
     «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
Egli è, come tutti, «nato da donna», ma è anche «figlio» cioè un prediletto di Dio, un suo particolare inviato, incaricato di una speciale missione in mezzo agli uomini che è quella di richiamarli alla loro vera origine, al rapporto familiare o filiale che hanno con Dio.
     L’appellativo «padre» rivolto a Dio è quello che tutti debbono far proprio al posto di altri più solenni (Signore, altissimo, onnipotente) ma meno opportuni.
Gesù tenterà innanzitutto di rinnovare i rapporti dell’uomo con Dio, sottraendolo alla subordinazione e introducendolo nel cuore della sua famiglia.
Una «profanazione» che gli costerà la vita, ma egli non può deflettere da quel «dovere» che segna tutta la sua esistenza: sempre incompreso, sempre frainteso, persino dai propri intimi che vengono a prenderlo perché lo credono fuori di sé (Mc 3,21).
     La strada di Dio non è la strada degli uomini, per accettarla bisogna rinunciare a capire; occorre solo credere.
È quanto Maria sembra suggerire.
L’evangelista nota che «essi non compresero» (2,50) ma non aggiunge che per questo non credettero, come invece asserisce Giovanni a proposito dei «fratelli» (Gv 7,5) o fa capire parlando dei suoi avversari.
     Maria e Giuseppe non compresero, ma anche questa volta riflettono sulle cose udite, le confrontano con altre nel tentativo di riuscire se non a capirle a poterle far proprie, cioè ad accettarle, a credere (cf.
Lc 2 19).
     La prima parte del quadro è offuscato dall’ombra della separazione ma la seconda e mondata dalla luce del ritrovamento e del trionfo (2 46-47).
Sono messe a confronto tra di loro le due fasi della vita di Gesù: quella terrestre che si chiude sulla croce e nella tomba e quella gloriosa che si apre con la vittoria sui nemici e sulla morte (risurrezione).
     La scena di Gesù in mezzo ai dottori è nuova, più che storica è soprattutto simbolica, profetica.
Di fatto Gesù aveva finito la sua esistenza ignominiosamente, con una disfatta, ma è stata una sconfitta che si e trasformata in vittoria.
«Presto vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza», aveva detto Gesù ai sinedriti che stavano con-dannandolo (Mc 14,62).
     Il profeta che pochi avevano ascoltato e che pochissimi avevano accettato può parlare ora dal luogo più sacro della terra, accanto alla sede dell’unico e vero Dio e dove le più venerande autorità d’Israele avevano le loro cattedre.
Esse sembrano scomparse e quelli che erano i maestri indiscussi della parola di Dio sono se non ai piedi al fianco del nuovo rabbi.
È lui che fa loro le domande e in qualche modo orienta le loro risposte.
Anche se sembra un ascoltatore, nella mente dell’evangelista è il dottore che ha preso il posto di Mosè ed Elia e dà prova della sua indiscussa autorità (cf.
LC 9,36).
     Quelli che erano stati i più agguerriti avversari di Gesù, appunto gli scribi, i farisei e i dottori della legge, pendono ora dalle sue labbra e quello che è più sorprendente, invece che dall’ira sono pervasi dallo stupore e dalla gioia.
     La situazione si è rovesciata.
L’umile profeta galileo è diventato il maestro che Parla dai cortili del tempio, il luogo ufficiale degli interpreti della Legge, e ad ascoltarlo sono le classi dirigenti, i maestri d’Israele proprio quelli che l’avevano rifiutato e fatto condannare a morte.
     È una proiezione profetica e un auspicio che Luca ha davanti ai suoi occhi e propone ai suoi lettori.
Mentre racconta la prima esistenza di Gesù guarda con ottimismo al futuro della salvezza cristiana e soprattutto al suo rapporto con l’antico Israele.
  Meditazione      Celebriamo oggi la festa della Santa Famiglia di Nazaret.
Anche se normalmente questa piccola comunità viene ritenuta ‘straordinaria’ e non confrontabile con le nostre ordinarie esperienze famigliari, il racconto evangelico odierno può forse farci rivedere tale giudizio, mostrandoci come la vicenda di Giuseppe, Maria e Gesù sia molto più vicina, ‘simpatica’ e addirittura imitabile da una qualsiasi famiglia che voglia davvero far crescere tutti i suoi membri.
     Il brano, riportato dal solo Luca, apre uno squarcio nel silenzio dei trent’anni trascorsi da Gesù in famiglia.
Ci narra una vicenda svoltasi, significativamente, nell’anno in cui Gesù giunge alla maturità religiosa: a dodici anni, infatti, si diviene bar mitzwa, figlio del comandamento, e si è tenuti all’ascolto operoso della parola di Dio.
     In modo esplicitamente ricercato o accogliendo le sollecitazioni della vita, tutti noi abbiamo vissuto degli avvenimenti simbolici che hanno segnato alcune tappe, alcune svolte fondamentali della nostra esistenza: dal non dormire più nella camera dei genitori al ricevere le chiavi di casa, dalla scelta della scuola e del lavoro al primo viaggio in solitudine, dalla ricerca di una autentica amicizia alla prima preghiera fatta liberamente, senza la necessità di compiacere alcuno…
Sono ‘riti’ che si imprimono nella carne, nella memoria profonda di ognuno e ai quali vale la pena talvolta ritornare per ripercorrere il nostro cammino, ritrovando vigore nuovo.
     Queste esperienze presentano e richiedono sempre dei tratti comuni: curiosità esistenziale, ricerca di novità, coraggio di staccarsi dalle relazioni ordinarie, perseveranza…
Ci si potrà dirigere verso qualcosa di proibito o di sconsigliato, di rischioso o di illecito ma anche verso qualcosa di ambito e raccomandato, di consigliato e suggerito.
Potrà essere l’ambito affettivo o quello lavorativo, quello religioso o quello avventuroso…
Comunque sia, lo si farà da soli! A modo proprio.
E difficilmente lo si potrà esprimere e raccontare, giustificare, in modo convenzionale: ma questo può essere garanzia di autenticità.
Quale genitore, seppur nel dolore del distacco, del taglio del ‘cordone ombelicale’, non ha la sua più grande soddisfazione nel vedere i propri figli camminare autonomamente, alla ricerca della verità e dell’autenticità? Non è forse gioia grande osservare nei figli il desiderio di superare le convenzioni per intraprendere un cammino di ricerca personale, la ‘propria via’? Ogni genitore conosce questo passaggio, sa che deve vigilare su di esso con prudenza.
Eppure capita spessissimo che si verifica un’incapacità di leggere e capire le vicende dei propri figli.
Come anche i loro linguaggi e messaggi: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (2,49).
     La famiglia di Nazaret non si sottrae a questa esperienza.
L’angoscia (cfr.
2,48) che arriva a investire Maria e Giuseppe cozza violentemente contro la decisa autonomia – non è una scappatella adolescenziale! – rivendicata con intensità da Gesù.
E scoppia l’incomprensione…
     Come quindi si diceva sopra: niente di nuovo sotto il sole! Oggi come allora.
Un’esperienza di fatica, di frustrazione reciproca ma anche qualcosa di necessario, di liberante.
La festa vera di una famiglia sta proprio nel veder sorgere al proprio interno una personalità adulta, nell’accompagnare la sua crescita con rispetto e discrezione – «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (2,51) -, nel ritrovare la dimensione fondamentale di coppia senza ridursi a quella di genitore, nell’accogliere gli stimoli nuovi immessi dai nuovi linguaggi.
A questo proposito, il nostro testo ci consegna le prime parole di Gesù riportate dal terzo evangelista e sono una formidabile sfida e verifica del nostro cammino di fede: «Perché mi cercavate?» (2,51).
     C’è dunque un mistero di morte e risurrezione dentro ogni famiglia e il nostro brano vi allude ripetutamente: Gesù viene ritrovato nel tempio dopo tre giorni (cfr.
2,46; 24,46); non si comprende la ragione di questa separazione (cfr.
2,48; 24,14); lo si ritrova dove non ci si aspettava (cfr.
2,46; 24,31).
Pasqua in famiglia!  

IV Domenica di Avvento

IV DOMENICA DI AVVENTO   Lectio Anno c     Prima lettura: Michea 5,1-4a          Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me  colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti.
Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele.
Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio.
Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra.
Egli stesso sarà la pace!».
    v Il profeta Michea è un contemporaneo di Isaia (VIII secolo).
In questo passo egli dedica la sua attenzione non a Gerusalemme, ma a Betlemme, la città che ha dato i natali a Davide.
A distanza di anni i discendenti di Davide non hanno ancora assolto alla loro missione.
Occorre che venga un discendente particolare che darà origine a un nuovo inizio.
Da Betlemme infatti verrà il Salvatore, discendente di Davide.
     Il testo profetico non è esplicito, però lo diventa alla luce del NT e anche del vangelo odierno.
Il sussultare di Giovanni nel seno di sua madre alla presenza di un altro feto, si capisce se pensiamo alla identità di Gesù.
Egli viene profeticamente celebrato nella prima lettura.
     Il testo di Michea è un celeberrimo vaticinio messianico.
Il messia è il centro ideale e soggetto logico, anche se non sempre grammaticale.
Di Lui si esalta la patria, Betlemme/Efrata (dal nome di un clan di Efratei che si era stanziato a Betlemme): una modesta borgata assurge al ruolo di protagonista perché da essa «uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele» (v.
1).
     I tempi non sono ancora maturi e, in attesa del grande evento, Israele sarà ancora alla mercé dei suoi nemici (cf.
v.
2).
Tra la profezia di Michea e la sua realizzazione si colloca la speranza, autentico motore della storia di Israele.
     La figura del Messia è caratterizzata come il pastore che «pascerà con la forza del Signore»: affiora un tema a largo spettro biblico (cf.
Ez 34; Gv 10).
La espressione «con la maestà del nome del Signore, suo Dio» suona un po’ barocca, ma serve all’autore a far capire che Dio si impegna personalmente; per noi è facile leggere tra le righe la divinità del Messia (cf.
v.
3).
     Il v.
4 conclude l’oracolo profetico e ne riassume il significato: la pax davidica fu effettivamente vissuta nei primi anni del regno di Salomone.
Ora la storia freme verso il futuro e colui che nascerà porterà la vera pace, lui chiamato «principe della pace» (Is 9,8).
  Seconda: Ebrei 10,5-10          Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”».
Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà».
Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo.
Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.
       v La Bibbia ha sempre di mira una visione ‘olistica’ della realtà: la sola prospettiva biologica non basta a garantire la grandezza della vita.
Che a colui che doveva nascere fossero riconosciuti indiscussi segni di grandezza morale, lo avevano detto bene le due precedenti letture: sia la muta testimonianza di Giovanni o quella esplicita di Elisabetta, sia il messag-gio della profezia di Michea.
La presente lettura ha il merito di interpretare la piena consapevolezza del Messia e il suo totale ingaggio a favore dell’umanità.
     La lettera agli Ebrei parla della morte di Gesù servendosi del linguaggio cultuale dell’AT.
Gli ordinamenti cultuali antichi avevano funzione preparatoria e quindi transitoria.
Non era ancora giunto quanto Dio desiderava.
Poi arriva Cristo con l’offerta della sua vita.
L’Autore trova un prezioso parallelo nel Sal 40 che egli cita nel testo greco dei LXX.
     La pienezza della vita viene raggiunta con il dono della medesima, perché solo allora si tocca il vertice dell’amore di Dio («Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà») e dell’amore del prossimo («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» Gv 15,13).
    Vangelo: Luca 1,39-45          In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta.
Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.
E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
       Esegesi      Troviamo ora insieme due donne, Elisabetta e Maria, che in precedenza Luca aveva presentato separatamente.
Se un filo di soprannaturale comunione le legava già prima, in quanto parte attiva del progetto amoroso di Dio, ora hanno l’opportunità di incontrarsi e di comunicare.
     Il brano si compone di due parti, introdotte da un quadro di riferimento cronologico-geografico: dopo l’evento dell’annunciazione, Maria si trasferisce dal nord (Nazaret) al sud (città di Giuda) (cf.
v.
39).
In tale contesto si colloca dapprima l’incontro delle due madri (vv.
40-45), quindi la preghiera di Maria, il Magnificat, nata in quell’occasione e per quell’occasione (vv.
45-48; in realtà continua fino al v.
55, ma il testo liturgico si interrompe prima).
Dal confronto delle due parti, vediamo che la prima è dominata dalla parola di Elisabetta, mentre la seconda dalla parola di Maria.
Due madri che, ciascuna a proprio modo, cantano un inno alla vita.
     Dopo la stupenda esperienza di Nazaret che la promuoveva a ruolo di ‘Madre di Dio’, Maria non appare una creatura beata in se stessa, isolata nella sua intimità divina, bensì un essere corporeo, fatto di concretezza, di sensibilità e di disponibilità.
Ella lascia la mistica tranquillità della sua casa e si mette in strada.
Non viene detto espressamente il motivo del viaggio; tutto lascia pensare che la causa sia da ricercare nell’annuncio angelico: Maria era stata informata che la parente Elisabetta era al sesto mese di gravidanza (cf.
v.
37).
Il fatto che ella si fermerà tre mesi, giusto il tempo perché il bambino possa nascere, permette di concludere che effettivamente Maria intenda recare aiuto alla futura mamma.
Ella si muove e va là dove la chiama l’urgenza di un bisogno.
«In fretta» esprime la sollecitudine di recare il giovanile aiuto all’anziana parente.
L’amore al prossimo, anche in questo caso, testimonia l’autenticità dell’amore a Dio.
     Non sono fornite indicazioni geografiche, se non un generico «verso la regione montuosa, in una città di Giuda».
Una tradizione del VI secolo identifica il luogo con Ein Karem, la cui scelta è forse dovuta alla bucolica serenità del luogo e al fatto di essere equidistante da Gerusalemme e da Betlemme.
A noi interessa rilevare lo spostamento da Nazaret, al nord, verso la Giudea, al sud, con un percorso di circa 150 Km che richiedeva circa tre giorni di cammino.
Da questo cammino, non privo di fatica e di disagi, verrà la possibilità di un incontro e quindi della lode.
Cammino, incontro e lode sono quindi i tre segmenti che costruiscono l’armonia di questo racconto.
     Maria si mette in cammino.
Grazie a lei anche Gesù, prima ancora di nascere, è in movimento verso gli altri, profetico anticipo della sua missione itinerante che intende portare a tutti la parola che aiuta e che salva.
Luca utilizza l’episodio per mettere alla luce quanto si era compiuto nell’intimità di Nazaret, che solo con il dialogo con un’interlocutrice poteva lasciare la sua segretezza e la sua dimensione individuale.
     La prima scena è dominata da Elisabetta e dalle sue parole; non va dimenticato che queste si sprigionano dal suo animo quando sono sollecitate da Maria.
Due eventi causano e spiegano tali parole.
Il primo, apparentemente ordinario, è l’ingresso di Maria nella casa di Zaccaria con il conseguente saluto rivolto a Elisabetta.
È una felice ‘provocazione’.
Il saluto origina il secondo evento, il sussulto del bambino di Elisabetta che sembra riconoscere la voce di Maria e, più ancora, sembra relazionarsi a colui che ella porta in grembo.
     L’incontro delle due madri è l’occasione per l’incontro dei due figli che portano in grembo, Giovanni e Gesù.
Su di loro riposa lo spessore teologico del brano.
Si instaura ancora a livello di feto quella dipendenza gerarchica, un misto di servizio incondizionato e di gioia piena, che caratterizzerà la vita di Giovanni.
Egli testimonierà: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo: Ora questa mia gioia è compiuta.
Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,29-30).
Al presente c’è una percezione che si riverbera in un sussulto di gioia.
Le due madri sono ‘arche sante’, ‘ostensori sacri’ di due esseri destinati l’uno a tratteggiare la via, l’altro ad essere lui stesso via.
La scena, pur dominata dalle due madri, ha il suo fulcro nella percezione che Giovanni ha di Gesù e nell’implicito riconoscimento della sua grandezza.
     Effettivamente le parole di Elisabetta documentano che lo spessore teologico attraversa i ‘concepiti’ più che le madri: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (vv.
42-43).
Con una espressione semitica che equivale a un superlativo («fra le donne»), Maria viene celebrata per la sua funzione o carisma (essere «Madre del mio Signore») e per la sua adesione incondizionata a tale vocazione.
A lei vengono riservate una benedizione («benedetta tu») e una beatitudine («beata»).
     La benedizione è una formula tipica dell’AT, dove il verbo ebraico barak e il sostantivo derivato berakah si trovano ben 398 volte.
Secondo diversi studiosi, la radice ebraica brkh è collegata a berekh (= ginocchio) creando il nesso tra la benedizione e l’inginocchiarsi, tipico atto di adorazione e di omaggio alla divinità.
Nella Bibbia le benedizioni si dividono in ‘ascendenti’ quando celebrano Dio per qualche intervento (cf.
Sal 41,14) e ‘discendenti’ quando si invoca la potenza di Dio su qualcuno o su qualcosa (cf.
Nm 6,24-27) o quando è lo stesso Dio a benedire (cf.
Gn 1,28).
La benedizione è un dono che ha rapporto con la vita; possiamo affermare che la ricchezza fondamentale della benedizione è quella della vita e della fecondità: questo vale tanto per la terra, quanto per le persone (cf.
Dt 28,1-14).
Lo vediamo bene nel nostro passo, quando alla benedizione per Maria viene affiancata quella per il figlio: «e benedetto il frutto del tuo grembo!».
Maria viene celebrata proprio per la sua maternità.
Così la benedizione viene da Dio e a Lui ritorna ora sotto forma di invocazione e di preghiera; è un riconoscere quello che Lui ha fatto.
     La beatitudine del v.
45 la prima del vangelo di Luca, certifica l’adesione di Maria alla volontà divina.
Ella quindi non è solo destinataria privilegiata di un arcano disegno che la rende benedetta, ma pure persona responsabile che accetta e aderisce.
Maria non è una creatura che sa, ma una creatura che crede, perché si è aggrappata ad una parola nuda che ella ha rivestito di amore.
Ora Elisabetta le riconosce questo amore, espresso con «ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto», e la celebra come la prima di tutte le donne.
Maria va da Elisabetta per un servizio domestico, Elisabetta le restituisce il servizio liturgico della lode, riconoscendola benedetta come madre e beata come credente.
     Il ‘cantico di Elisabetta’ (cf.
vv.
42-45), dono dello Spirito, pubblicizza per il lettore e per il credente il mistero che Maria pensava affidato alla segretezza della sua intimità.
Non esiste rapporto autentico con Dio che non abbia la possibilità di diventare ‘pubblico’: questo è il concetto fondamentale di carisma e Maria ha in primis il carisma di essere la «madre del mio Signore», come le riconosce la parente.
L’incontro di due madri in attesa, diventa l’incontro del frutto che hanno in grembo; Giovanni percepisce la presenza del suo Signore ed esulta, esprimendo con il suo sussultare la gioia a contatto con la salvezza, che Maria potrà formalizzare nel canto che segue.
  Meditazione      «Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto» (Lc 1,78).
Così aveva profetato Zaccaria nel suo cantico di lode per la nascita prodigiosa del figlio Giovanni.
Ora la visita di Dio si fa prossima; il suo volto si sta intessendo nel grembo di una vergine, Maria; colui che è chiamato «profeta dell’Altissimo», colui che andrà «innanzi al Signore a preparargli le strade» (Lc 1,76), già ne riconosce la presenza e ancora nel seno della madre, Elisabetta, esulta di gioia messianica.
La liturgia della IV domenica di Avvento ci orienta ormai al cuore del mistero: Dio non solo visita il suo popolo, ma sceglie di dimorare stabilmente in mezzo ad esso.
L’irruzione di Dio nella storia dell’umanità ha sempre qualcosa di inatteso e ogni visita di Dio opera una sorta di capovolgimento dei criteri e delle attese dell’uomo.
E così Dio sceglie uno sconosciuto villaggio della Palestina, Betlemme, «così piccolo per essere tra i villaggi di Giuda» per rivelare «colui che deve essere il dominatore di Israele», colui che «pascerà con la forza del Signore», colui che «sarà la pace» (cfr.
Mi 5,1-4).
Lo sguardo di Dio si posa, con infinita gratuità, su una povera ragazza di Nazaret, Maria; sarà lei a dare un corpo e un volto umano all’Emmanuele.
In Maria, il Figlio di Dio può dire: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato» (Eb 10, 5; citazione del Sal 40,7-9).
E così, fedele al suo amore per i piccoli, Dio rivela i primi frutti della sua visita all’umanità nell’incontro tra due donne che portano nel loro grembo la vita e che si accolgono l’un l’altra riconoscendo reciprocamente ciò che Dio ha operato in ciascuna di loro.
Maria ed Elisabetta, custodi del dono di Dio, diventano l’icona dell’umanità visitata dalla misericordia di Dio.
Attraverso il racconto di Luca, cerchiamo allora di cogliere la qualità di questo incontro e i frutti che da esso scaturiscono.                                               Anzitutto dobbiamo riconoscere che l’incontro tra Maria ed Elisabetta è una esperienza della forza della parola di Dio che agisce nella vita di chi sa accoglierla.
Elisabetta dirà a Maria: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,45).
È questa la prima beatitudine: credere nell’efficacia della parola di Dio, poggiare la propria vita sulla fedeltà di Dio alla sua promessa come su di una roccia.
È ciò che permette al Signore di vivere ‘oggi’ nel credente che lo ascolta.
A chi proclamava la beatitudine e la gioia della maternità di Maria, Gesù risponderà proprio con questa prima e fondamentale beatitudine: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,28).
Ed è per questo che Maria ed Elisabetta non possono fare altro che rileggere tutta la loro esperienza alla luce della parola di Dio che permette una comprensione profonda dei segni di cui sono protagoniste, segni in cui si riconosce l’onnipotenza di Dio.
Ogni parola e ogni gesto di questo incontro portano impresso il sigillo della Scrittura trasformandosi così nell’abbraccio tra la Prima e la Seconda Alleanza, tra la promessa e il compimento.
Davvero solo la parola di Dio può permetterci di riconoscere quando il Signore ci visita e quali frutti ci porta.
               Alla luce della Scrittura, allora noi possiamo cogliere più in profondità il senso di questo incontro.
Esso non è solamente la commozione tra due donne per la gioia della loro maternità così straordinaria e singolare.
Il saluto di Maria (aspasmon, termine che ritorna tre volte) provoca qualcosa di speciale: in Elisabetta che «fu colmata di Spirito Santo» (v.
41) e nel bambino che portava in sé, che «ha sussultato di gioia nel suo grembo» (v.
44).
Lo Spinto santo e la gioia sono due doni tipicamente messianici segni della presenza e dell’incontro con il Signore che visita il suo popolo, doni che Maria ha riconosciuto in se con l’annuncio dell’angelo (cfr.
1, 28.35) e che ora comunica ad Elisabetta (quasi una eco di quella Parola da cui tutto ha avuto inizio e da cui tutto proviene).
Ed è significativo che lo spazio in cui questi doni sono comunicati è l’ascolto: «appena…
ebbe udito il saluto di Maria…
appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi…» (vv.
41.44).
È l’ascolto il luogo in cui si riconosce la presenza del Signore e in cui si accoglie la sua parola; e riconoscere la voce di Dio produce gioia e comunica lo Spirito.
Ci soffermiamo allora su questi due doni che scaturiscono dalla visita di Dio, di quel Dio portato nel grembo di Maria, come nell’arca dell’Alleanza, ad Elisabetta (che riconosce in Maria «la madre del mio Signore», v.
43).
            Alla presenza di Maria e alla voce del suo saluto, Elisabetta «fu colmata di Spirito Santo» (v.
42).
Colei che è «piena di grazia» e sulla quale lo Spirito Santo è sceso, diventa pneumatofora, portatrice di Spirito, capace di comunicare ad altri lo Spirito di Dio.
Ed è lo Spirito, accolto da Elisabetta attraverso l’ascolto della voce di Maria, a permettere di riconoscere la presenza di Dio in questo incontro.
Sembra quasi che Luca abbia voluto anticipare la Pentecoste, che narrerà poi in At 2,1-4 (in cui sarà ancora presente Maria insieme agli apostoli nella camera alta: At 1,13-14).
Elisabetta e Giovanni passano così dall’economia della legge a quella dello Spirito, quasi formando un nucleo iniziale di Chiesa.
                 La potenza dello Spirito Santo, comunicato da Maria, investe anche Giovanni nel grembo di sua madre e lo fa trasalire, saltare e danzare di gioia (vv.
41.44; chiara è l’allusione alla danza di Davide di fronte all’arca in 2Sam 6,14-16).
La gioia, di fatto, investe tutta la scena.
È una gioia ‘viscerale’, profonda, che, attraverso il dono dello Spirito, sgorga dal riconoscimento di una promessa attesa da secoli e che finalmente trova il suo compimento.
Ed è una gioia tanto più intensa quanto più lunga era stata l’attesa; una gioia vissuta dapprima nell’esultanza delle viscere e poi celebrata dal cuore e dalle labbra delle due donne.
In questa gioia, i Padri (in particolare Origene) hanno anche voluto sottolineare l’incontro e il riconoscimento dei due figli ancora nel grembo materno: colui che cammina davanti al Messia ne riconosce la presenza e lo testimonia, lo annuncia (euangelion) non con la voce di chi grida nel deserto, ma con la gioia comunicativa del bambino.
Giovanni prenderà coscienza di questa gioia quando dirà: «L’amico dello sposo, che è presente e lo ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo.
Ora questa mia gioia è piena» (Gv 3,29).
       La semplice gioia di un bambino non ancora nato e comunicata dalle labbra della madre compie il suo corso trovando spazio nel cuore di Maria.
E diventa un canto, il Magnificat.
E in esso Maria riconosce la verità di tutto ciò che Elisabetta e il suo bambino le hanno detto.
Davvero il Signore l’ha visitata, l’ha riempita di Spirito Santo e di gioia: «Il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (1, 48).
             Come Maria, il credente che ha saputo riconoscere la visita di Dio nella sua vita attraverso quella parola che ha cercato di ascoltare, custodire, mettere in pratica, diventa missionario: capace di annunciare e comunicare il dono di Dio.
E il dono di Dio è la gioia nello Spirito Santo, la lieta notizia che è Gesù.
  Preghiere e Racconti   Andiamo fino a Betlem Andiamo fino a Betlem, come i pastori.
L’importante è muoversi.
Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro.
E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso.
Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi dell’onnipotenza di Dio.
Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove egli continua a vivere in clandestinità.
A noi il compito di cercarlo.
E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.
Mettiamoci in cammino, senza paura.
Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte, e illuminato di stelle.
E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.
(don Tonino Bello)   C’era una volta un lupo C’era una volta un lupo che viveva nei dintorni di Betlemme.
I pastori lo temevano e vegliavano l’intera notte per salvare le loro greggi.
C’era sempre qualcuno di sentinella, così il lupo era ogni volta più affamato, scaltro e arrabbiato.
Una strana notte, piena di suoni e luci, mise in subbuglio i campi dei pastori.
L’eco di un meraviglioso canto di angeli era appena svanito nell’aria.
Era nato un bambino, un piccino, un batuffolo rosa, roba da niente.
Il lupo si meravigliò che quei rozzi pastori fossero corsi tutti a vedere un bambino.
“Quante smancerie per un cucciolo d’uomo” pensò il lupo.
Ma incuriosito e soprattutto affamato com’era, li seguì nell’ombra a passi felpati.
Quando li vide entrare in una stalla si fermò nell’ombra e attese.
I pastori portarono dei doni, salutarono l’uomo e la donna, si inchinarono deferenti verso il bambino e poi se ne andarono.
L’uomo e la donna stanchi per le fatiche e le incredibili sorprese della giornata si addormentarono.
Furtivo come sempre, il lupo scivolò nella stalla.
Nessuno avvertì la sua presenza.
Solo il bambino.
Spalancò gli occhioni e guardò l’affilato muso che, passo dopo passo, guardingo, ma inesorabile si avvicinava sempre più.
Il lupo aveva le fauci socchiuse e la lingua fiammeggiante.
Gli occhi erano due fessure crudeli.
Il bambino però non sembrava spaventato.
“Un vero bocconcino” pensò il lupo.
Il suo fiato caldo sfiorò il bambino.
Contrasse i muscoli e si preparò ad azzannare la tenera preda.
In quel momento una mano del bambino, come un piccolo fiore delicato, sfiorò il suo muso in una affettuosa carezza.
Per la prima volta nella vita qualcuno accarezzò il suo ispido e arruffato pelo, e con una voce, che il lupo non aveva mai udito, il bambino disse: “Ti voglio bene, lupo”.
Allora accadde qualcosa di incredibile, nella buia stalla di Betlemme.
La pelle del lupo si lacerò e cadde a terra come un vestito vecchio.
Sotto, apparve un uomo.
Un uomo vero, in carne e ossa.
L’uomo cadde in ginocchio e baciò le mani del bambino e silenziosamente lo pregò.
Poi l’uomo che era stato un lupo uscì dalla stalla a testa alta, e andò per il mondo ad annunciare a tutti: “È nato un bambino divino che può donarvi la vera libertà! Il Messia è arrivato! Egli vi cambierà!”.
La venuta del Signore Noi aspettiamo il giorno anniversario della nascita di Cristo: il nostro spirito dovrebbe come slanciarsi, pazzo di gioia, incontro al Cristo che viene, tutto teso in avanti con un ardore impaziente, quasi incapace di contenersi e di sopportare ritardo…
Chiedo per voi, fratelli, che il Signore, prima di apparire al mondo intero, venga a visitarvi nel vostro intimo.
Questa venuta del Signore, sebbene nascosta, è magnifica, e getta l’anima che contempla nello stupore dolcissimo dell’adorazione.
Lo sanno bene coloro che ne hanno fatto l’esperienza; e piaccia a Dio che quelli che non l’hanno fatta ne provino il desiderio! (GUERRICO D’IGNY, Sermoni per l’avvento del Signore, II, 2-4).
  Quando Dio spera… …non è per lo spazio d’una notte che Dio spera contro speranza.
  Mendicante sconosciuto, instancabilmente percorri i lidi delle notti umane, ombra tra le ombre innumerevoli dei senza speranza.
Nella tua bocca muta si spengono i singhiozzi, ma tu vorresti gridare, anche tu, perché questo grido se ne vada, come un’eco diversa,                       come un richiamo nuovo, a confondersi con il lamento crescente, con le grida degli assetati di luce con il terribile silenzio dei pianti soffocati, e non resta che aprirsi al vuoto dei marosi grigi, all’alba che si accende non veduta.
Sul lido delle notti umane, sei il Dio senza voce.
Poiché la tua Parola fu detta in un giorno del tempo.
L’ hai pronunciata tutta,                             l’hai gridata sino alla fine, sino all’ultimo respiro del tuo Figlio.
Ma quando fu compiuta la tua Parola nella sua pienezza, per te, Dio, venne il tempo della speranza nuda, della speranza muta, della speranza contro ogni speranza.
  Preghiera della quarta domenica di Avvento Dio eterno, Dio sempre nuovo, inafferrabile, Dio di alleanza, Dio di libertà, dove adorarti? dove cercarti? dove attenderti? dove si annuncia la tua venuta? La tua Parola ci rassicuri, o Padre degli uomini, Dio della promessa, ora e sempre.
  Presenza imprevedibile, Dio di lunga pazienza, Signore dell’impossibile, noi non sappiamo ne l’ora ne il luogo della tua venuta.
Ma, sicuri che il tuo amore ci è dato per scoprire, per svelare, per generare, non cessiamo di pregarti: il tuo Spirito ci guidi alle opere del Regno, all’incontro con il tuo Figlio Gesù Cristo, nostro fratello e nostro Signore, per sempre.
(Nicole Berthet).
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
   

III Domenica di Avvento anno C

III DOMENICA DI AVVENTO   Lectio Anno c     Prima lettura: Sofonia 3,14-18          Rallègrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico.
Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura.
In quel giorno si dirà a Gerusalemme: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia».
    v  La prima lettura dà il là di intonazione alla liturgia odierna, invitando alla gioia.
Letta in connessione con il Vangelo, la ragione sta nella venuta del Messia, quella storica che riviviamo nel Natale, quella teologica che si attua nella vita veramente cristiana di ogni credente.
     Due minuscole unità compongono il presente brano: un invito alla gioia (vv.
14-15) e una parola di consolazione (vv.
16-18).
Le due parti hanno un comune fondamento, dato dalla presenza di Dio.
Egli non si mostra più giudice, ma amore.
Egli è ciò che il suo Nome esprime: JHWH, il Dio verace, il Dio presente, il Dio salvatore.
Per contestualizzare il brano e capire la sua esplosione festosa, occorre sapere che su Gerusalemme si era abbattuto minaccioso il giudizio divino.
I nemici erano lo strumento nelle mani della divina giustizia per mostrare la scissione avvenuta tra Dio e il suo popolo.
Ora, grazie anche alla predicazione profetica, era venuta una salutare reazione da parte del popolo, pronto alla conversione.
Il profeta gli annuncia: «Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico» (v.
75).
In termini più positivi, il Signore sta in mezzo al suo popolo, segno di una comunione ritrovata.
L’alleanza ha ripreso a palpitare, respirando con i due polmoni, quello di Dio e quello del popolo.
Qui sta primariamente la fonte della gioia, affidata al giubileo del v.
14, di cui risuona una eco nell’annuncio dell’angelo a Maria (cf.
Lc 1,28: da tradurre con «rallegrati» e non con il bolso «ti saluto»).
   L’idea del Dio in mezzo al suo popolo anima pure il brano consolatorio (vv.
16-18).
«In quel giorno» rimanda ad una situazione non facilmente definibile nel tempo, ma non per questo ipotetica.
Il suo carattere escatologico la colloca tra i grandi interventi di Dio, che prenderanno piena forma nel NT.
Dio ha sospeso il giudizio di condanna contro il suo popolo traditore: egli lo vuole salvare, solo in forza dell’incommensurabile amore verso di esso.
Lui si presenta re di Israele, e pure domina su tutti i popoli della terra.
Non si è ancora totalmente manifestata la sua potenza regale, ma l’imminente manifestazione della salvezza diventa segno, inizio e condizione di una signoria completa.
    Anche se il presente risulta difficile, chi ripone la propria fiducia nella potenza di Dio salvatore non deve temere nulla.
Di più, può contare sull’amore di Dio che rinnova e che invita alla festa (cf.
v.
18).
  Seconda: Filippesi 4,4-7          Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti.
La vostra amabilità sia nota a tutti.
Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.  E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.
       v Il brano si trova nella parte conclusiva della lettera, quando è il momento delle ultime raccomandazioni, e contiene cinque frizzanti imperativi.
La scelta liturgica si spiega per il binomio gioia-vicinanza del Signore: l’invito alla gioia e l’esortazione a compiere il bene verso tutti sono motivati da Paolo con la frase che il Signore è vicino.
    Il discorso si allarga dai singoli (cf.
i precedenti vv.
2-3) alla comunità.
Questa riceve l’esortazione alla gioia, tema che attraversa tutta la lettera.
Mentre prima erano individuati motivi concreti che causavano la gioia (cf.
1,18; 2,17-18), ora l’appello è generale e insistito.
La gioia ha tre aspetti: una radice interiore, un’espressione esterna e una causa ben precisa.
La radice è il Signore: sempre si tratta di gioia in Lui («rallegratevi nel Signore»), per distinguerla nettamente da realtà che portano lo stesso nome ma che hanno contenuto diverso: qui Paolo si preoccupa di bloccare le imitazioni.
La gioia che invade l’intimo dell’individuo e della comunità, investe pure l’esterno, tutti gli altri, sotto forma di «affabilità».
Infine viene indicata la causa, consistente nell’avvicinarsi del Signore.
Questa precisazione orienta e determina il contenuto della gioia cristiana; è la presenza di Cristo che garantisce e assicura una condizione di benessere per sé e per gli altri: «L’attesa della parusia è per l’apostolo un motivo parenetico centrale» (J.
Ernst).
    La vicinanza del Signore, già reale presenza per molti aspetti, funge da deterrente contro ansie incontrollate: chi lascia operare nella propria vita la semplice parola ‘il Signore è vicino’, esperimenta già ora la pace di Dio.
Paolo non pensa tanto alla pace tra gli uomini, ma alla calma interiore del cuore, che ha il suo fondamento nelle promesse di Dio.
Il cri-stiano che organizza la propria esistenza alla luce di Cristo, non si lascia irretire da lacci che frenano il suo impegno o che smorzano la sua serenità di fondo.
Anche sotto questo punto si comprende il precedente invito alla gioia.
Paolo non fa mistero circa le reali e spesso dure difficoltà dell’esistenza cristiana ed è già stato chiaro, alludendo fin dall’inizio alle sue catene (cf.
1,13).
Ma è altrettanto convinto che non giova lasciarsi prendere da ansiose inquietudini (cf.
in greco il verbo merimnao, lo stesso di Mt 6,25.31.34) che bloccano e rendono improduttivi; positivamente, tutto prende senso e valore nella comunione con Cristo/Dio di cui la «pace» del v.
7 è la sacramentalizzazione.
La fiducia in Dio si concretizza nel manifestare a Lui la nostra situazione, attraverso «preghiere, suppliche e ringraziamenti».
Non è certo un ‘far conoscere’ qualcosa che non sa, ma è il modo per l’uomo di mantenere il filo diretto con Dio, nel dialogo di amore, nel sereno abbandono alla Sua volontà, nella fiduciosa attesa davanti a Lui.
Colui che è capace di pregare e di ringraziare depone il suo affanno in Dio.
    Potrebbero sembrare belle parole di circostanza, se non venissero dalla vita stessa di Paolo che ha dimostrato di leggere tutto, persecuzione compresa, con gli occhi illuminati dalla luce della Provvidenza (cf.
1,15-20).
Paolo si trova in prigione quando scrive la presente lettera.
Egli pensa alla sua comunità di Filippi e pensa altresì a Cristo che ha sempre riempito la sua vita.
Egli pensa al ritorno di Cristo, mediante la morte che può giungere da un momento all’altro.
Paolo ha detto il suo sì anche a questa situazione estrema e rimane un uomo felice pur nella catena e nella incertezza del suo futuro.
L’incontro con Cristo trasforma in aurora di vita quello che, umanamente parlando, ha il sapore crepuscolare del fallimento o della repentina conclusione.
  Vangelo: Luca 3,10-18        In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?».
Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?».
Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?».
Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali.
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.
       Esegesi      Nei versetti che precedono il nostro brano avevamo assistito a un vigoroso appello alla conversione, non privo di toni forti, tipici della personalità e del messaggio del Battista.
Ora il tono in parte si smorza, senza perdere vigore, e trapassa nella consolante esortazione che tutti possono concorrere a preparare degnamente la venuta del Messia.
    Il brano ha un marcato carattere esortativo.
Distinguiamo una prima parte (vv.
10-14), in cui Giovanni sollecita tre gruppi a comportarsi correttamente, da una seconda (vv.
15-17), con la testimonianza che il Precursore dà su Gesù, esortando implicitamente a seguirlo.
Il v.
18 mantiene una funzione conclusiva e sembra pure un passaggio del testimone da Giovanni a Gesù, grazie al verbo ‘evangelizzare’ («annunciava la buona novella»).
    Giovanni svolge una duplice attività: predica e battezza.
La prima è funzionale alla seconda, in quanto le sue parole devono portare le persone al pentimento.
Segno visibile di quella volontà di cambiare vita è l’acqua che i pellegrini ricevono dal Battista.
Non si tratta certo di battesimo in senso cristiano, ma comunque di ‘battesimo’, se prendiamo la parola nel suo significato etimologico di ‘immersione’.
Il battesimo-sacramento sarà possibile solo dopo la morte e risurrezione di Gesù; per il momento ci si prepara ricevendo il battesimo di Giovanni.
Esso è molto più di un semplice gesto esteriore perché implica la buona volontà di migliorare la propria esistenza alla luce della predicazione.
Non basta una decisione interiore di cambiar vita: occorre vedere anche all’esterno la novità.
Da qui l’esigenza di assumere comportamenti concreti che si indirizzano secondo le indicazioni del Battista che ha il primario compito di «dare al suo popolo la conoscenza della salvezza» (Lc 1,77).
    Nella esemplificazione dei comportamenti da tenere, passiamo a un nuovo registro dove impressiona il calore di una comprensione che apre le porte a tutti.
Non è certo ‘indulgenza’ del predicatore, ma coerenza con il messaggio che egli annuncia: un messaggio che vuole raggiungere tutti indistintamente, superando le antiche barriere che creavano steccati e divisioni: non solo tra popolo eletto e altre nazioni, ma pure all’interno degli stessi ebrei.
Incontriamo una pacata istruzione che ha tutta l’aria di essere un minicatechismo oppure un vademecum di teologia e di saggezza, di comprensione e di incoraggiamento.
Luca lascia trasparire anche qui la sua sensibilità universalista («le folle interrogavano Giovanni») Se ha una preferenza, questa va tutta per gli emarginati.
    Infatti mette sul palcoscenico del suo interesse le categorie che noi diremmo ‘a rischio’: odiati esattori di tasse che collaboravano con l’occupante romano e che spesso calcavano la mano sulla povera gente diventando autentici strozzini (cf.
5,30; 19,7), oppure soldati mercenari che facevano il gioco dei potenti.
La salvezza non ha ‘colore’ o ‘tessera di appartenenza’ come qualcuno amava, e qualche volta anche oggi ama, far credere.
La salvezza è dono di Dio, quindi espressione della gratuità del suo amore che, in quanto tale, non ha ‘corsie privilegiate’.
Tutti sono potenziali destinatari di tale dono e lo saranno effettivamente nella misura in cui si apriranno nella disponibilità della loro vita.
È a questa apertura che punta Giovanni, invitando e sollecitando tutti.
I segni di rinnovamento vertono esclusivamente sull’amore al prossimo: la gente deve imparare a condividere, i pubblicani a praticare la giustizia, i soldati a trattare con umanità.
     Oltre alla universalità, altro dato interessante per entrare nella sfera della salvezza è la normalità.
Non sono richiesti miracoli né atteggiamenti di eccezione per fruire del dono della salvezza: solo il corretto esercizio della propria professione.
È come dire che le persone si santificano nel tessuto della loro storia quotidiana, facendo bene quello che devono.
Viene valorizzata al massimo una ‘sana laicità’ intendendo per laicità l’inserimento nel tessuto della storia.
A meno che si tratti di un’attività manifestamente disonesta (per esempio il furto o la prostituzione), tutte le professioni hanno una dignità che va onorata con il proprio impegno.
Giovanni non richiede a nessuno di cambiare mestiere, esige piuttosto di vivere bene la propria vocazione.
Ottima preparazione per attendere degnamente il Messia.
     Di Lui Giovanni parla con vigore, alzando le note nel rigo della sua testimonianza.
Compito di Giovanni è solo preparatorio, preparare «un popolo ben disposto» (Lc 1,17).
Egli prepara la strada a chi viene dopo di lui, al Messia.
Egli si dimostra ben vaccinato contro il virus da protagonismo e dichiara apertamente di non essere il Messia.
Questi gode di una dignità che non ha confronto.
Essa viene espressa negativamente con la distinzione tra i due, e positivamente per il contenuto della missione di Gesù.
La distanza abissale che separa Giovanni dal Messia viene affidata dapprima all’immagine dello sciogliere i lacci dei sandali.
Era questo il compito riservato abitualmente allo schiavo.
Giovanni non si ritiene nemmeno degno di essere lo schiavo del Messia.
Quindi la sostanza arriva nei versetti successivi che conservano un colorito palestinese e aprono a una prospettiva escatologica.
Prendendo lo spunto dalla pratica del contadino che sull’aia utilizzava il ventilabro (attrezzo di legno a forma di pala con il quale si gettava in aria il grano: questo, più pesante, cadeva a terra e la pula era portata via dal vento) per separare il grano dalla pula, Giovanni presenta Gesù come ‘il giudizio di Dio’, colui che distingue e che determina.
In termini semplificati: è Gesù l’elemento discriminante e decisivo, colui per il quale occorre impegnarsi se si vuole raggiungere la salvezza; il rifiuto di Gesù equivale al rifiuto della salvezza.
  Meditazione      Nel nostro cammino di attesa dell’avvento del Signore Gesù, siamo ancora accompagnati, in questa terza domenica, dalla figura di Giovanni il Battista e dalla sua parola.
Quest’uomo austero e senza compromessi, che ha scelto il deserto arido come sua dimora perché si rivelasse in tutta sua forza l’unica parola che è capace di rendere feconda la vita dell’uomo, continua a parlare anche a noi, ad invitarci a preparare nelle nostre esistenze, nel nostro cuore, la via del Signore perché possiamo vedere la sua salvezza.
Afferrato dalla parola di Dio che è scesa su di lui nel deserto per consacrarlo ad esser profeta del Messia, Giovanni ha sentito con forza tutta la radicalità e l’urgenza di una scelta che sia unicamente per il Signore.
E con toni forti e taglienti l’ha proclamata perché ogni uomo potesse prenderne coscienza: la parola infuocata che esce dalle labbra del Battista mette a confronto l’uomo con l’imminente giudizio di Dio e non lascia spazio a compromessi e ipocrisie.
A coloro che andavano a fasi battezzare, Giovanni dice: «Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque frutti degni della conversione…
La scure è posta alla radice degli alberi, perciò ogni albero che non da buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Lc 3,7-9).
Dio è ‘Colui che viene’, colui che è immediatamente ‘vicino’ e che chiama l’uomo all’ultima presa di coscienza seria e responsabile.
Di fronte a Lui non c’è possibilità di scampo, né in un rito rassicurante (il battesimo) , né nella presunzione di possedere già la salvezza («non cominciate a dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre…»: cfr.
8).
Non è possibile mascherarsi dietro un rito, svuotandolo del suo contenuto; il battesimo ricevuto, per inverarsi, deve avere come conseguenza un mutamento di vita.
     L’attesa del Messia che Giovanni annuncia è infuocata e certamente ciascuno sente il timore di incontrare il volto di giustizia di Colui che viene a portare la salvezza.
La radicalità di questa parola profetica, d’altra parte, contrasta con l’annuncio di gioia che questa terza domenica di Avvento ci invita ad accogliere (e forse per questo i vv.
7-9 di Lc 3 sono stati omessi nella lettura liturgica).
Le parole di consolazione che risuonano nell’annuncio del profeta Sofonia aprono il cuore di Gerusalemme alla gioia, accogliendo il Signore che viene: «…il tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» (Sof 3,17).
E anche per Paolo l’imminente venuta del Signore non può produrre altro che gioia nel cuore del credente: «Siate sempre lieti nel Signore…
Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5).
La testimonianza del Battista è così estranea a questa gioia? Quale salvezza attendeva il Battista? Che cosa pensava del Messia? Si è sbagliato? Giovanni non si è sbagliato: il Messia che ha annunciato è quello atteso, ma ogni venuta del Signore ha sempre qualcosa di imprevisto.
Giovanni era chiamato a preparare la via e dunque il suo compito era quello di richiamare l’uomo alla sua responsabilità, alla urgenza e alla serietà di una reale conversione.
E anche se l’annuncio del Precursore è veramente carico di minaccia, la meta ultima non è il castigo, bensì l’insistente richiamo alla conversione che deve concretizzarsi nei frutti degni (v.
8).
Questo è il compito di Giovanni.
Sarebbe toccato poi al Signore Gesù rivelare tutta la gioia che scaturisce dalla compassione e dal perdono di Dio per coloro che riconoscono il loro bisogno di salvezza, per i piccoli e i poveri, per gli affaticati e gli oppressi, per i pubblicani e le prostitute.
E il volto di Dio che Gesù ha annunciato non è in contrasto con quello che Giovanni proclamava nel deserto; semplicemente è un volto altro, al di là e sopra ogni giustizia.
È il volto della misericordia.
Giovanni, nel profondo della sua esistenza così simile al deserto nel quale dimorava, ha avuto la grazia di intravedere, come da lontano, questo volto.
A quest’uomo così essenziale, tale visione è bastata per riempire di gioia la sua vita (cfr.
Gv 3,29) e comprendere che la parola di Dio è certamente giudizio, ma è soprattutto e prima di tutto evangelo, annuncio pieno di gioia.
E lo vediamo proprio nei versetti di Luca che seguono l’invito alla conversione (vv.
10-15).
Giovanni nel deserto predica una conversione, e lo fa con toni infuocati.
Ma tutta il suo annuncio diventa consolazione e gioiosa notizia.
Tutto è riportato alla bellezza dell’evangelo, tutto è in relazione con quella gioiosa parola di salvezza che è Gesù.
E anzitutto Giovanni orienta tutta la sua vita a quell’unica parola che salva.
La sua persona non ha importanza e la sua voce è solo prestata all’unica parola che dona salvezza: «Viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali» (v.
16).
Il tono di Giovanni allora diventa umile, pacato, pieno dello Spirito consolatore: è come un fratello maggiore che ci prende per mano e ci guida a Gesù: è lui che è il più forte, è lui l’Agnello che prende su di sé il peccato del mondo, è lui che può perdonare.
Si potrebbero porre sulle labbra di Giovanni le parole di Sofonia: «Non temere Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te…» (Sof 3, 16-17).
     E coloro che, forse un po’ spaventati dalle parole dure uscite dalla bocca di Giovanni, domandano: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?» (v.
12), si sentono rivolgere una risposta profondamente semplice ed evangelica, che indica loro un cammino possibile, quotidiano, di conversione.
Giovanni non invita gli uomini a fuggire nel deserto, a rivestirsi di peli di cammello e a nutrirsi di miele selvatico e di locuste.
L’itinerario proposto dal Battista per portare frutti degni di conversione è nella linea dei profeti: il luogo della conversione è la vita in cui deve prendere forma la parola di Dio.
La solidarietà e la condivisione, la giustizia e la lealtà sono i frutti degni che maturano in una vita che ha accolto seriamente la parola di Dio.
In fondo, ciò che Giovanni propone a coloro che domandano – «che cosa dobbiamo fare?» (vv.
10.12.14) – è semplicemente calare la gioia del vangelo, la misericordia e il perdono di Dio, il suo amore, nei gesti che ogni giorno ognuno è chiamato a compiere, nel lavoro che è chiamato a svolgere, nei rapporti che deve intessere, nel mondo in cui vive.
Ognuno vedrà la salvezza di Dio se la sua vita, nelle dimensioni più semplice e quotidiane, si convertirà alla novità e alla gioia che il Messia dona con la sua venuta.
     E, in fondo, così è anche vissuto Giovanni il Battista, quest’uomo così austero e senza compromessi.
La gioia è diventata il tono profondo della sua vita.
Anche se il suo volto e la sua parola erano dure e infuocate, il suo cuore viveva costantemente immerso nella gioia.
Anzi la gioia è stato il frutto maturo della sua vita radicalmente donata e affidata alla parola di Dio, una vita per questo essenziale, dura e allo stesso tempo umile e gioiosa.
Da una parte l’umiltà di Giovanni è quasi drammatica; ma proprio per questo riesce già a camminare nella luce della gioia evangelica.
E questa umiltà trasforma la violenza e la du-rezza del suo linguaggio in consolazione ed evangelo: «Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo» (v.
18).
Quella gioia a cui oggi anche la liturgia ci invita, è stata, a dispetto di tutto, la vocazione di Giovanni.
         Preghiere e Racconti   Domenica gaudete Questa domenica, la terza del tempo di Avvento, è detta “Domenica gaudete”, “siate lieti”, perché l’antifona d’ingresso della Santa Messa riprende un’espressione di san Paolo nella Lettera ai Filippesi che così dice: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti”.
E subito dopo aggiunge la motivazione: “Il Signore è vicino” (Fil 4,4-5).
Ecco la ragione della gioia.
Ma che cosa significa che “il Signore è vicino”? In che senso dobbiamo intendere questa “vicinanza” di Dio? L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, pensa evidentemente al ritorno di Cristo, e li invita a rallegrarsi perché esso è sicuro.
Tuttavia, lo stesso san Paolo, nella sua Lettera ai Tessalonicesi, avverte che nessuno può conoscere il momento della venuta del Signore (cfr 1 Ts 5,1-2) e mette in guardia da ogni allarmismo, quasi che il ritorno di Cristo fosse imminente (cfr 2 Ts 2,1-2).
Così, già allora, la Chiesa, illuminata dallo Spirito Santo, comprendeva sempre meglio che la “vicinanza” di Dio non è una questione di spazio e di tempo, bensì una questione di amore: l’amore avvicina! Il prossimo Natale verrà a ricordarci questa verità fondamentale della nostra fede e, dinanzi al Presepe, potremo assaporare la letizia cristiana, contemplando nel neonato Gesù il volto del Dio che per amore si è fatto a noi vicino.
In questa luce, è per me un vero piacere rinnovare la bella tradizione della benedizione dei “Bambinelli”, le statuette di Gesù Bambino da deporre nel presepe.
Mi rivolgo in particolare a voi, cari ragazzi e ragazze di Roma, venuti stamattina con i vostri “Bambinelli”, che ora benedico.
Vi invito a unirvi a me seguendo attentamente questa preghiera: Dio, nostro Padre, tu hai tanto amato gli uomini da mandare a noi il tuo unico Figlio Gesù, nato dalla Vergine Maria, per salvarci e ricondurci a te.
Ti preghiamo, perché con la tua benedizione queste immagini di Gesù, che sta per venire tra noi, siano, nelle nostre case, segno della tua presenza e del tuo amore.
Padre buono, dona la tua benedizione anche a noi, ai nostri genitori, alle nostre famiglie e ai nostri amici.
Apri il nostro cuore, affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia, fare sempre ciò che egli chiede e vederlo in tutti quelli che hanno bisogno del nostro amore.
Te lo chiediamo nel nome di Gesù, tuo amato Figlio, che viene per dare al mondo la pace.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
Amen.
(Le parole del Papa, Benedetto XVI, alla recita dell’Angelus, 14-XII-2008).    Il Vangelo della gioia «Il Signore è fedele per sempre rende giustizia agli oppressi, da il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge lo straniero».
(Sal 145)   C’è una splendida invocazione con la quale chiediamo al Padre di poter accogliere, riconoscenti, il Vangelo della gioia.
Viene così indicato il tema che, con modulazioni diverse, percorre con tale insistenza i testi biblici da indurre ad enumerare i termini che appartengono alla famiglia di «santa letizia», e che risuonano continui nella liturgia.
«Rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4, 4.5).
Se l’invito alla gioia oggi è perentorio come non mai, non meno chiare sono le indicazioni che ci vengono offerte affinché si possa accogliere fruttuosamente il Vangelo della gioia.
Rischiando forse la semplificazione, potremmo individuare le condizioni di fondo, per esserne destinatari sicuri, in questi tre atteggiamenti: umiltà, fedeltà, utopia.
Se poi le categorie astratte ci risultano difficili, possiamo dire che la gioia del Natale viene accordata agli umili, agli uomini fedeli e ai sognatori.
  Umiltà Qualche finezza etimologica non guasta.
E allora è utile capire che la parola letizia ha la stessa radice di letame.
II verbo latino laetare, infatti, significa fecondare, concimare, rendere fertile.
Letame è, appunto, lo strame che rende ubertosa la terra.
E letizia è quel sentimento di ricchezza interiore che deriva dal rigoglio spirituale.
Così come lieto è un aggettivo il cui significato originario è fecondo, cioè fertile, rigoglioso.
Sembra fuori posto osservare che certi messaggi del cielo si insinuano perfino nelle radici delle parole? E appare davvero esibizione di bravura far notare che, se nei versetti dei salmi si dice «ascoltino gli umili e si rallegrino», l’abbinamento tra umiltà (espressa dal letame) e letizia non è proprio puramente casuale? E può definirsi esercitazione sterile quella che sottolinea le tante connessioni tra i poveri e il lieto annunzio che viene ad essi portato? E può essere giudicato fuori tema il riferimento a Maria, protagonista silenziosa, la quale ha dato la spiegazione di tanta esultanza in Dio suo salvatore proprio nell’umiltà della sua serva? (Lc 1, 47.48).
Ed è indugio sui versanti del moralismo facile il richiamo alla necessità di fare il vuoto dentro di sé, per farsi ricolmare di beni dal Signore? Del resto tutta quella turba di indigenti che affollano i testi biblici e che sono soccorsi da Dio e che gioiscono per liberazioni raggiunte, non ci dice forse che l’umiltà è la condizione indispensabile perché le speranze di salvezza si tramutino in realtà?   Fedeltà La gioia cristiana deriva da due fontane.
La prima è la certezza che Dio è fedele e non viene meno alle sue promesse.
Se egli ha assicurato il suo aiuto, si può star certi che non si tira più indietro.
Il nostro, insomma, è un Dio di parola.
«Il Signore è fedele per sempre»: è il grande attacco del salmo 145 il quale prosegue enumerando emblematicamente le categorie degli umili che confidano in Dio e che non resteranno delusi: dagli oppressi agli orfani, dagli affamati alle vedove, dai carcerati agli stranieri.
«Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.
Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio! Non temete, ecco il vostro Dio: giunge la ricompensa divina”».
È il profeta Isaia (35, 3) che esorta i poveri, soprattutto nei momenti dello sconforto, a fare assegnamento sulla fedeltà del Signore.
La gioia non tarderà ad irrompere.
La seconda fontana di gioia è la fedeltà che noi dobbiamo conservare nei confronti del Signore, fino a quando egli tornerà: «Siate pazienti fino alla venuta del Signore».
Una pazienza che significa perseveranza, fiducia incrollabile e perdurante, capacità di superare la prova, attitudine alla tenacia anche nelle avversità, forza che non si affievolisce, tempra non scalfibile nel tempo.
A questo punto, non è male riflettere se alle radici di tante nostre tristezze non ci siano forse dei processi patologici di infedeltà, nonostante le mille professioni di fede, e se, di fronte a un Dio di parola, non dovremmo rivedere seriamente certe nostre strutture comportamentali, connotate dal tradimento cronico e dalla slealtà sistematica.
  Utopia «Fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35, 10).
È la più osata battuta di Isaia.
La più incredibile.
Messa al termine di una pagina intrisa di sogni, vibra al limite dell’allucinazione: steppe che fioriscono come narcisi, deserti che risuonano di canzoni, zoppi che saltano come cervi, muti che esplodono negli urli della gioia.
Ma si tratta di intemperanze dovute a un particolare genere letterario, e che, quindi, vanno prosciugate di un abbondante tasso di assurdo perché diventino più assimilabili alle nostre logiche terra terra? O sono, invece, i primi segnali di quel mondo altro, il più vero, il cui avvento, nonostante i nostri sospiri liturgici, facciamo ancora fatica ad affrettare perché, omologati ai canoni del più gelido realismo, non percepiamo quanto sia umbratile la cosiddetta concretezza delle nostre esperienze? O sono il banco di prova del nostro gioioso abbandono alla Parola, superato felicemente il quale, Gesù ci giudicherà destinatari di quella beatitudine che è risuonata nel Vangelo: «Beato colui che non si scandalizza di me»? (Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 67-72) Porto una responsabilità       Anche se come singolo non posso ottenere che tutto vada per il meglio, posso portare il mio contributo perché qualche cosa in questo mondo migliori.
Non posso sottrarmi alla responsabilità con la scusa che gli altri dominano il mondo.
Ognuno lascia una traccia in questo mondo con la sua vita.  E da queste tracce il mondo viene plasmato.
Ho la responsabilità di lasciare là dove vivo un traccia buona e feconda.
Posso e devo contribuire perché  il mondo intorno a me diventi migliore, perché in me e attraverso di me il bene diventi visibile in questo mondo.
Non posso lasciare questo compito ad altri.
Devo cominciare da me.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 140).
Preghiera Mi sorprende anche quest’anno la tua promessa, Signore: mentre sono in cammino con la Chiesa, per prepararmi al natale, sentire che sei tu ad aprirmi una strada per la conversione.
Mi apri una strada raggiungendomi con la tua Parola: mentre io la ascolto spesso stancamente e senza entusiasmo, tu mi ricordi che l’incontro con essa è più forte della potenza degli imperi e dei grandi di questo mondo e che trasforma anche la mia vita in storia di salvezza.
Insegnami ad ascoltare, insegnami il silenzio.
Mi apri una strada promettendo di abbattere monti e colmare valli.
Se non fosse perché lo dici tu, sarei tentato di pensare che si tratti per me di una battaglia persa in partenza: che io non smetta, Signore, di lottare contro le montagne dell’orgoglio, dell’ira, dei vizi e non mi spaventi per le lacune della mia risposta poco generosa.
Mi apri una strada indicandomi i tanti deserti che trovo intorno a me e gli spazi vuoti che la nostra carità non sa mai colmare: che io possa, Signore, fare la mia parte, senza scoraggiarmi per il tanto che non posso e non so fare.
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
   

Immacolata Concezione anno C

Preghiere e Racconti Il mistero dell’Immacolata Concezione di Maria, che oggi solennemente celebriamo, ci ricorda due verità fondamentali della nostra fede: il peccato originale innanzitutto, e poi la vittoria su di esso della grazia di Cristo, vittoria che risplende in modo sublime in Maria Santissima.
L’esistenza di quello che la Chiesa chiama “peccato originale” è purtroppo di un’evidenza schiacciante, se solo guardiamo intorno a noi e prima di tutto dentro di noi.
L’esperienza del male è infatti così consistente, da imporsi da sé e da suscitare in noi la domanda: da dove proviene? Specialmente per un credente, l’interrogativo è ancora più profondo: se Dio, che è Bontà assoluta, ha creato tutto, da dove viene il male? Le prime pagine della Bibbia (Gn 1-3) rispondono proprio a questa domanda fondamentale, che interpella ogni generazione umana, con il racconto della creazione e della caduta dei progenitori: Dio ha creato tutto per l’esistenza, in particolare ha creato l’essere umano a propria immagine; non ha creato la morte, ma questa è entrata nel mondo per invidia del diavolo (cfr Sap 1,13-14; 2,23-24) il quale, ribellatosi a Dio, ha attirato nell’inganno anche gli uomini, inducendoli alla ribellione.
E’ il dramma della libertà, che Dio accetta fino in fondo per amore, promettendo però che ci sarà un figlio di donna che schiaccerà la testa all’antico serpente (Gn 3,15).
Fin dal principio, dunque, “l’eterno consiglio”  come direbbe Dante  ha un “termine fisso” (Paradiso, XXXIII, 3): la Donna predestinata a diventare madre del Redentore, madre di Colui che si è umiliato fino all’estremo per ricondurre noi alla nostra originaria dignità.
Questa Donna, agli occhi di Dio, ha da sempre un volto e un nome: “piena di grazia” (Lc 1,28), come la chiamò l’Angelo visitandola a Nazareth.
E’ la nuova Eva, sposa del nuovo Adamo, destinata ad essere madre di tutti i redenti.
Così scriveva sant’Andrea di Creta: “La Theotókos Maria, il comune rifugio di tutti i cristiani, è stata la prima ad essere liberata dalla primitiva caduta dei nostri progenitori” (Omelia IV sulla Natività, PG 97, 880 A).
E la liturgia odierna afferma che Dio ha “preparato una degna dimora per il suo Figlio e, in previsione della morte di Lui, l’ha preservata da ogni macchia di peccato” (Orazione Colletta).
Carissimi, in Maria Immacolata, noi contempliamo il riflesso della Bellezza che salva il mondo: la bellezza di Dio che risplende sul volto di Cristo.
In Maria questa bellezza è totalmente pura, umile, libera da ogni superbia e presunzione.
Così la Vergine si è mostrata a santa Bernadette, 150 anni or sono, a Lourdes, e così è venerata in tanti santuari.
Oggi pomeriggio, secondo la tradizione, anch’io Le renderò omaggio presso il monumento a Lei dedicato in Piazza di Spagna.
(LE PAROLE DEL PAPA, BENDETTO XVI, ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 08.12.2008).
  Maria, donna gestante «Rimase con lei circa tre mesi.
Poi tornò a casa sua».
Il vangelo stavolta non dice se vi tornò «in fretta», come fu per il viaggio di andata.
Ma c’è da supporlo.
Da Nazaret era quasi scappata di corsa, senza salutare nessuno.
Quell’incredibile chiamata di Dio l’aveva sconvolta.
Era come se, improvvisamente, all’interno della sua casetta si fosse spalancato un cratere e lei vi camminasse sul ciglio in preda alle vertigini.
E allora, per non precipitare nell’abisso, si era aggrappata alla montagna.
Ma ora bisognava tornare.
Quei tre mesi di altura le erano bastati per placare i tumulti interiori.
Vicino a Elisabetta aveva portato a compimento il noviziato di una gestazione di cui cominciava lentamente a dipanare il segreto.
Ora bisognava scendere in pianura e affrontare i problemi terra terra a cui va incontro ogni donna in attesa.
Con qualche complicazione in più.
Come dirglielo a Giuseppe? E alle compagne con cui aveva condiviso fino a poco tempo prima i suoi sogni di ragazza innamorata, come avrebbe spiegato il mistero che le era scoppiato nel grembo? Che avrebbero detto in paese? Sì, anche a Nazaret voleva giungere in fretta.
Perciò accelerava l’andatura, quasi danzando sui sassi.
Oltretutto, su quei sentieri di campagna, vi si sentiva sospinta come dal vento, di cui, però, le foglie degli ulivi e i pampini delle viti non lasciavano percepire la brezza, nell’immota calura dell’estate di Palestina.
Per placare il batticuore, che pure tre mesi prima non aveva provato in salita, si sedette sull’erba.
Solo allora si accorse che il ventre le si era curvato come una vela.
E capì per la prima volta che quella vela non si issava sul suo fragile scafo di donna, ma sulla grande nave del mondo per condurla verso spiagge lontane.
Non fece in tempo a rientrare in casa, che Giuseppe, senza chiederle neppure che rendesse più esaurienti le spiegazioni fornitegli dall’angelo, se la portò subito con se.
Ed era contento di starle vicino.
Ne spiava i bisogni.
Ne capiva le ansie.
Ne interpretava le improvvise stanchezze.
Ne assecondava i preparativi per un natale che ormai doveva tardare.
Una notte, lei gli disse: «Senti, Giuseppe, si muove».
Lui, allora, le posò sul grembo la mano, leggera come battito di palpebra, e rabbrividì di felicità.
Maria non fu estranea alle tribolazioni a cui è assoggettata ogni comune gestante.
Anzi, era come se si concentrassero in lei le speranze, sì, ma anche le paure di tutte le donne in attesa.
Che ne sarà di questo frutto, non ancora maturo, che mi porto nel seno? Gli vorrà bene la gente? Sarà contento di esistere? E quanto peserà su di me il versetto della Genesi: «Partorirai i figli nel dolore»? Cento domande senza risposta.
Cento presagi di luce.
Ma anche cento inquietudini.
Che si intrecciavano attorno a lei quando le parenti, la sera, restavano a farle compagnia fino a tardi.
Lei ascoltava senza turbarsi.
E sorrideva ogni volta che qualcuna mormorava: «Scommetto che sarà femmina».
  Santa Maria, donna gestante, creatura dolcissima che nel tuo corpo di vergine hai offerto all’Eterno la pista d’atterraggio nel tempo, scrigno di tenerezza entro cui è venuto a rinchiudersi Colui che i cieli non riescono a contenere, noi non potremo mai sapere con quali parole gli rispondevi, mentre te lo sentivi balzare sotto il cuore, quasi volesse intrecciare anzi tempo colloqui d’amore con te.
Forse in quei momenti ti sarai posta la domanda se fossi tu a donargli i battiti, o fosse lui a prestarti i suoi.
Vigilie trepide di sogni, le tue.
Mentre al telaio, risonante di spole, gli preparavi con mani veloci pannolini di lana, gli tessevi lentamente, nel silenzio del grembo, una tunica di carne.
Chi sa quante volte avrai avuto il presentimento che quella tunica, un giorno, gliel’avrebbero lacerata.
Ti sfiorava allora un fremito di mestizia, ma poi riprendevi a sorridere pensando che tra non molto le donne di Nazaret, venendoti a trovare dopo il parto, avrebbero detto: «Rassomiglia tutto a sua madre».
Santa Maria, donna gestante, fontana attraverso cui, dalle falde dei colli eterni, è giunta fino a noi l’acqua della vita, aiutaci ad accogliere come dono ogni creatura che si affaccia a questo mondo.
Non c’è ragione che giustifichi il rifiuto.
Non c’è violenza che legittimi violenza.
Non c’è programma che non possa saltare di fronte al miracolo di una vita che germoglia.
Mettiti, ti preghiamo, accanto a Marilena, che, a quarant’anni, si dispera perché non sa accettare una maternità indesiderata.
Sostieni Rosaria, che non sa come affrontare la gente, dopo che lui se n’è andato, lasciandola col suo destino di ragazza madre.
Suggerisci parole di perdono a Lucia, che, dopo quel gesto folle, non sa darsi pace e intride ogni notte il cuscino con lacrime di pentimento.
Riempi di gioia la casa di Antonietta e Marco, la quale non risuonerà mai di vagiti, e di’ ad essi che l’indefettibilità del loro reciproco amore è già una creatura che basta a riempire tutta l’esistenza.
Santa Maria, donna gestante, grazie perché, se Gesù l’hai portato nel grembo nove mesi, noi, ci stai portando tutta la vita.
Donaci le tue fattezze.
Modellaci sul tuo volto.
Trasfondici i lineamenti del tuo spirito.
Perché, quando giungerà per noi il dies natalis, se le porte del cielo ci si spalancheranno dinanzi senza fatica sarà solo per questa nostra, sia pur pallida, somiglianza con te.
(Don Tonino Bello, Maria , donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 132000, 25-27)  IMMACOLATA CONCEZIONE   Lectio Anno c     Prima lettura: Genesi 3,9-15.20          [Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero,] il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?».
Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».
Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».
Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato».
Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?».
Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita.
Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».  L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.
       Poiché oggi è ammesso da tutti che i primi capitoli della Genesi non ci forniscono una cronaca di avvenimenti, ma contengono una professione di fede circa i rapporti dell’uomo e della sua storia con Dio, dobbiamo cercare di cogliere il messaggio religioso contenuto nella nostra lettura.
Essa contiene soprattutto l’annunzio di una prospettiva di salvezza per l’umanità rappresentata dalla prima coppia umana.
L’annunzio è preceduto da un dialogo in cui Dio mette in evidenza l’effetto distruttore del peccato (la rottura del vincolo di dipendenza da Dio, suggerita dal serpente, che prometteva di far diventare gli uomini come Dio, se si fossero ribellati alle sue leggi): perdita del rapporto amicale con Dio, inizio della diffidenza reciproca tra l’uomo e la donna, ingresso della fatica e del dolore nella vita umana, necessità di lottare sempre contro l’insidia perenne del peccato.
L’annunzio apre la prospettiva che, nel futuro, il seme dell’uomo avrebbe sconfitto il seme del serpente.
Il sentimento cristiano, guidato da una interpretazione libera di questo testo documentata dalla Volgata, ha capito che, in questa prospettiva di futura vittoria, un posto speciale spettava a Maria.
  Seconda lettura: Efesini 1,3-6.11-12          Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
    La nostra seconda lettura utilizza una parte della prosa lirica elevata a Dio in onore di Gesù Cristo, con cui si apre la lettera agli Efesini (1,3-14).
Sulla sua scelta per questa liturgia ha forse pesato la presenza del termine immacolati, che ricorre nel v.
4.
Il senso principale del brano è che Dio merita la nostra lode e il ringraziamento perché egli per primo ci ha ricolmati di ogni sorta di benedizioni valide per sempre, avendo suscitato per noi il suo Figlio Gesù Cristo, da noi riconosciuto come Signore.
Più in particolare, Dio va lodato e ringraziato perché, mediante la persona di Gesù Cristo, noi siamo stati chiamati alla santità (cioè a essere santi e immacolati), con un decreto che precede la fondazione del mondo.
Senza che ne avessimo alcun diritto naturale, per poter realizzare la nostra chiamata alla santità, Dio ci ha regalato l’adozione a suoi figli, per i meriti di Gesù Cristo.
Tutto questo, già per se stesso, può essere inteso come un inno di lode che celebra l’attività salvifica di Dio.
Da aggiungere è anche che, avendo posto in Cristo tutta la nostra speranza, sappiamo che erediteremo la totalità delle divine promesse.
Come si vede, al centro della nostra lettura c’è che tutti noi cristiani siamo chiamati alla santità, cioè a essere santi e immacolati, a partecipare quindi al modello di esistenza che ha qualificato Maria santissima come immacolata.
        Vangelo: Luca 1,26-38        In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe.
La vergine si chiamava Maria.
Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo.
L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio.
Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù.
Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?».
Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra.
Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio.
Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».
E l’angelo si allontanò da lei.
       Esegesi     Tra i testi del Nuovo Testamento che ci parlano di Maria, la madre del Salvatore, il racconto dell’Annunciazione di Gesù è certamente il più ricco di teologia, sicché ad esso si è sempre ispirato lo speciale settore dell’approfondimento teologico che è detto mariologia.
Cerchiamo di cogliere questa ricchezza, partendo dall’analisi esegetica dei singoli versetti.
Nei vv.
26-27, l’evangelista stabilisce un rapporto di netta continuità tra il già descritto annuncio della nascita del precursore (Lc l,5ss) e la scena che si accinge a descrivere: ogni singolo avvenimento della storia della salvezza si inquadra perfettamente in un disegno generale concepito e realizzato da Dio.
In questo disegno si fronteggiano la grandezza insondabile di Dio, che manda come suo messaggero l’angelo Gabriele (un personaggio a cui nel libro di Daniele era stata affidata una missione riguardante gli avvenimenti messianici), e la piccolezza apparentemente insignificante di Nazareth di Galilea e di una oscura fanciulla che si chiama Maria, promessa sposa di un certo Giuseppe (solo in quest’ultimo personaggio c’è un barlume di riconosciuta nobiltà, perché discende dalla cosa di Davide).
Di Maria è qui sottolineato per ben due volte lo stato di verginità.
Per Giuseppe è richiamata la sua appartenenza alla cosa di Davide, da cui doveva venire il Messia.
— Nel v.
28, il saluto dell’angelo, chàire, non è un semplice sinonimo del comune shalom (pace), ma sembra voglia evocare l’accenno alla gioia messianica a cui nei profeti è invitata la figlia di Sion (che significa la nazione ebraica), nell’imminenza dei tempi messianici (Sof 3.14; Gl 2,21.23; Zac 9.9).
Il titolo kecharitoméne, con cui Maria è gratificata dall’angelo, non ha certamente il senso di un gentile appellativo (equivalente a una bella fanciulla!), ma sembra si voglia riferire alla missione che a lei Dio vuole affidare e si può ben tradurre: trasformata dal favore divino; la traduzione della Volgata, piena di grazia, rende giustizia alla densità teologica del vocabolo e ha indotto il popolo cristiano a trovare qui incluso un accenno alla verità dell’immacolata concezione.
A quella stessa missione sembra debba riferirsi la frase il Signore è con tè; era questa infatti la formula con cui si dava incoraggiamento, nei libri dell’Antico Testamento, ai personaggi scelti da Dio per una qualche missione speciale (Isacco, in Gn 26,3.24; Giacobbe in Gn 28,15; Mosè, in Es 3,12; Gedeone, in Gdc 6,12; ecc.).
— Nel v.
29, il turbamento di Maria, diversamente da quanto è detto per Zaccaria in 1,12, non deriva dalla visione dell’angelo, ma dal senso delle sue parole: Maria dimostra così la sua iniziale consapevolezza di trovarsi davanti a qualcosa di misterioso.
— Nei vv.
30-31, l’angelo, dopo averle rivolto un incoraggiamento, rivela a Maria la missione che Dio vuole affidarle: con parole che richiamano alla mente il testo di Is 7,14, le è detto che essa dovrà dare alla luce un figlio del quale Dio stesso ha già stabilito il nome.
L’importanza di questo figlio è già oscuramente accennata nell’implicito riferimento al testo di Isaia e nel fatto che il suo nome è direttamente scelto da Dio.
— Nei vv.
32-33, è dichiarata apertamente la straordinaria identità del futuro figlio di Maria.
Questo figlio è descritto con chiaro riferimento al testo di 2Sam 7,8-16: da lì sono presi i termini grande…
figlio (di Dio) …cosa…
regno (i Davide) …regno senza fine.
Il figlio di Maria è qui qualificato come il Messia atteso dai Giudei, ma già il senso delle parole adoperate in ambiente giudaico sembra dilatarsi per accogliere la nuova prospettiva cristiana.
— I vv.
34-35 difficilmente potrebbero spiegarsi, se si intendessero come battute stenografiche di un dialogo tra l’angelo e Maria.
Sono però chiarissimi nel trasmetterci il messaggio rivelato che il figlio di Maria è stato concepito verginalmente, cioè senza il contributo di un padre terreno, e che questo stesso figlio di Maria è propriamente figlio di Dio fin dalla sua origine, cioè non in conseguenza della sua elezione alla dignità messianica, ma, grazie alla potenza creatrice dello Spirito Santo, fin dal momento della sua prodigiosa concezione.
— Nei vv.
36-37, l’angelo conferma l’eccezionalità dell’avvenimento annunziato, fornendo un segno capace di renderlo credibile: rivela a Maria la notizia ancora sconosciuta da tutti, che la sterile Elisabetta è diventata feconda nella sua vecchiaia, a dimostrazione che nulla è impossibile a Dio.
— Nel v.
38, che conclude il racconto, l’evangelista ci fa capire che Maria ha pienamente inteso l’alta missione che le è stata affidata, al punto che mette sulle sue labbra parole evocanti alte personalità dell’Antica Alleanza (Abramo, Mosè, Davide, il misterioso Servo di JHWH), che avevano meritato il titolo onorifico di servi del Signore.
Proclamandosi serva di Dio, Maria è ben lontana dall’esprimere una semplice rassegnazione a oscuri disegni divini, dichiara piuttosto di essere gioiosamente pronta a collaborare alla imminente salvezza del mondo portata dal suo figlio Gesù.
Dall’esame analitico dei singoli versetti emerge la conclusione che il racconto di Luca ha come scopo principale quello di rivelarci l’identità messianica del figlio di Maria, che però è anche, a titolo specialissimo, figlio di Dio sin dalla sua concezione.
In secondo luogo, il racconto ci parla della missione affidata a Maria, sottolineando soprattutto due cose: che l’iniziativa di quanto dovrà accadere appartiene esclusivamente a Dio; che lo stesso Dio ha reso Maria idonea all’assolvimento del compito affidatele mediante la pienezza di grazia.
In questa pienezza, il popolo cristiano ha sentito che doveva starci anche l’Immacolata Concezione.
  Meditazione      La liturgia della Parola di questa solennità ci offre nel versetto al salmo responsoriale (Sal 97) una particolare angolatura contemplativa per accostare il mistero celebrato: «Abbiamo contemplato o Dio le meraviglie del tuo amore».
L’atteggiamento suscitato da questa parola ci invita a rileggere i testi della Scrittura, e in particolare il racconto di Lc 1,26-38, collocandoci in uno spazio di meraviglia, che nello stesso tempo è spazio di silenzio, di sguardo, di riconoscenza, di gioia.
Di fronte a Colui che «ha compiuto meraviglie…
ha fatto conoscere la sua salvezza.
..
si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa di Israele» (Sal 97,1-3), il credente non può che stupirsi e con questo atteggiamento accostarsi a quel momento misterioso della storia di salvezza che rivela e porta a compimento il dise-gno di amore di Dio su tutta l’umanità.
Abbracciando con un solo sguardo tutta la storia che Dio ha intessuto fin dall’eternità con ogni uomo, Paolo ci ricorda che questo disegno di amore ha un punto d’arrivo, una meta: essere in Cristo, poiché in Lui siamo stati «scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci ad essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo» (Ef 1,4-5).
Ma la fedeltà di Dio a questo progetto di gratuità trova una conferma ‘storica’ in un evento che è come promessa, speranza e anticipazione di ciò che Lui vuole realizzare per ogni uomo «secondo il disegno d’amore della sua volontà» (Ef 1,5).
È l’evento che si realizza in una ragazza di Nazaret, Maria, che dal messaggero di Dio è salutata con queste inaudite parole: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,28).
In questa donna trovano così spazio gioia, sovrabbondanza e totalità di grazia, presenza di un Dio che salva e usa misericordia.
E tutto questo è adombrato in un silenzioso dialogo tra quel Dio che si rivela nella sua Parola e quella umile donna che fa spazio, in un ascolto di fede radicale, a quella Parola che finalmente in lei può prendere un volto.
Noi conosciamo qualcosa di questo miste-rioso incontro nel racconto dell’evangelista Luca.
Forse ciò che ci viene trasmesso da questa narrazione è troppo poco per decifrare un mistero, ma sicuramente è molto per lasciarci stupire da esso.
     E un primo tratto di questo racconto che in noi desta meraviglia, è il fatto che Dio dialoga con Maria.
«Maria non è la semplice destinataria passiva della rivelazione riguardante il Figlio.
Il suo è un ruolo attivo, di partner, nel contesto immediato, partner dell’angelo del Signore, ma, in realtà, partner di Dio stesso, che ha voluto far dipender la realizzazione del suo progetto dal libero consenso che Egli sollecitava dalla sua fede» (J.
Dupont).
Maria dialoga con l’angelo, intervenendo per capire e per maturare nell’adesione a ciò che le viene detto.
La forza di questa parola dia-logica, che apre allo sguardo di Maria il mistero di un Dio che sceglie di parlare all’uomo, coinvolge completamente questa donna e, entrando in lei, si trasforma in carne: «Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38).
     Ma è sorprendete il fatto che anche all’inizio della storia della salvezza, quella storia drammaticamente segnata da una rottura (cfr.
Gen 3,1-16), permanga intatto un dialogo tra Dio e l’uomo.
E nelle parole che Dio rivolge al primo uomo e alla prima donna rimangono misteriosamente uniti la sofferenza di una fiducia tradita e il desiderio di continuare ‘diversamente’ una relazione di amore e di alleanza.
È come se Dio, in questo dialogo, guardasse molto lontano, ad un compimento: «Io porrò inimicizia – dice al serpente – tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,15).
                E la liturgia, nella sua sapiente lettura della storia sacra, accosta, proprio per questa festa, questi due dialoghi ‘originari’: il dialogo tra Dio e il primo uomo, dialogo profondamente segnato dal dramma del rifiuto, e il dialogo tra l’angelo e una donna, Maria, nell’orizzonte di un cammino carico di novità e di pienezza.
E si rimane colpiti dalle risonanze tra questi due dialoghi, pur lontani e diversi, ma racchiusi ambedue dalla nostalgia di un Dio che cerca nell’uomo un volto in cui riflettere tutta la sua bellezza e la sua misericordia, che non si rassegna a perdere la sua creatura più preziosa, che gli va incontro con volto amico.
Questa parola che Dio rivolge all’uomo è l’unica che può strappare l’uomo dal nulla, creandolo e chiamandolo alla vita, ed è l’unica che può rompere il silenzio e il mutismo in cui l’umanità si è racchiusa, ridando ad essa la possibilità di un dialogo.
«Dove sei?» (Gen 3,9): ecco la parola rivolta all’uomo dopo che egli ha distolto il volto dal suo Dio.
E solo Dio può porre questa domanda che certamente brucia come una ferita nel cuore dell’uomo che la ode, ma che permette all’uomo di riprender quel cammino, faticoso e doloroso, alla ricerca del volto di Dio.
«Dove sei?»: Quale è il luogo in cui l’uomo ha scelto di abitare nella sua libertà? Dove lo ha condotto il suo cammino, la sua pretesa di possedere, di usurpare il luogo in cui solo Dio può abitare? «Cerca Dio – ammonisce un anziano monaco del deserto – ma non cercare dove dimora».
L’uomo ha cercato il volto di Dio, si è collocato con umiltà davanti al suo sguardo, ha accettato che Dio solo potesse dargli un luogo dove dimorare, oppure ha preteso di invadere la dimora stessa di Dio, sostituirsi a lui nel suo luogo santo? «Dove sei?…
Ho udito la tua voce nel giardino: avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto» (Gen 3,10).
La risposta di Adamo è la risposta dell’uomo, dell’umanità, che non sa più dove si trova: ha cacciato Dio dalla sua dimora, si è messo al suo posto e ora è senza fissa dimora, fugge, non riesce più a collocarsi e a leggersi in uno spazio donato (quel simbolico giardino in cui tutto gli era offerto gratuitamente).
Il suo disagio, la sua fragilità e il suo smarrimento di fronte ad un luogo che sente di aver violato, si trasformano in paura.
Sente quel passo di Dio che si avvicina come minaccioso, ingombrante, oppressivo, come il passo di un conquistatore che viene a riprendere il luogo del suo possesso.
E quel luogo, in cui l’uomo abitava con Dio, quel luogo di Dio in cui l’uomo era chiamato ad entrare per pura grazia, e non per diritto e possesso, da spazio di prossimità e comunione, si trasforma in abisso di lontananza, pieno di incognite e di angoscia.
L’unico luogo in cui l’uomo sente di poter ricevere sollievo è quello in cui può nascondere il suo volto, la sua nudità.
L’uomo ha perso la sua vicinanza con Dio, ma ha anche perso la vicinanza con se stesso.
Il volto di Dio riflesso nel suo stesso volto provoca all’uomo l’angoscia del fallimento e della fine: «Ho avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto» (v.
10).
     «Dove sei?».
Questa domanda rivolta da Dio al primo uomo e alla prima donna è come una eco che attraversa tutta la storia dell’umanità, risuonando nel cuore di ciascuno.
Con essa Dio misteriosamente continua a chiamare l’uomo a sé, suscitandogli il desiderio e la nostalgia di un ritorno.
Finché, in una casa della Galilea, questa domanda riceve finalmente la risposta che Dio si attendeva: «Dove sei?» […] «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38).
La risposta di Maria è la riposta di una umanità libera, che ha accolto radicalmente la sua nudità e l’ha collocata davanti a Colui che ha la delicatezza di avvolgere con il suo sguardo di compassione tutto ciò che l’uomo sente come fragilità e debolezza (cfr.
Lc 1,48).
     «Dove sei?…
Eccomi…»: è la risposta di chi non teme più nulla, di chi, disarmato, si presenta davanti a Colui al quale nulla è impossibile (cfr.
Lc 1,37); la risposta di chi accetta un cammino di obbedienza a quella parola che, sola, conosce il mistero dell’uomo e che richiede la radicalità della fede.
-Eccomi- è la risposta dell’uomo che getta tutte le maschere dietro le quali vuol nascondere il suo volto e si scopre vero davanti a Colui che è prossimità: «il Signore è con te» (1,28).
     «Dove sei?».
La risposta di Adamo è quella dell’uomo che fugge e si nasconde da Dio, dell’uomo che si nascondono di fronte a se stesso ed alla sua responsabilità; la risposta di Maria è quella di chi accetta di stare vicino a Dio così come si è, assumendo in pieno la propria libertà, sapendo che tutta la propria esistenza è oggetto di pura grazia; e stando vicino a Dio, in questo luogo, e non altrove, scopre la misura di quella pace che annulla ogni timore ed angoscia, la misura di quel passo leggero che come soffio trasforma e rende nuova ogni creatura.
Maria non ha paura del passo di Dio; sa che esso ha il ritmo dello Spirito, il ritmo dell’amore.
     «Dove sei?…
Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto».
      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
   

I Domenica di Avvento anno C

Preghiere e Racconti   Dio ci dona il suo tempo Iniziamo oggi, con la prima Domenica di Avvento, un nuovo Anno liturgico.
Questo fatto ci invita a riflettere sulla dimensione del tempo, che esercita sempre su di noi un grande fascino.
Tutti diciamo che “ci manca il tempo”, perché il ritmo della vita quotidiana è diventato per tutti frenetico.
Anche a tale riguardo la Chiesa ha una “buona notizia” da portare: Dio ci dona il suo tempo.
Noi abbiamo sempre poco tempo; specialmente per il Signore non sappiamo o, talvolta, non vogliamo trovarlo.
Ebbene, Dio ha tempo per noi! Questa è la prima cosa che l’inizio di un anno liturgico ci fa riscoprire con meraviglia sempre nuova.
Sì: Dio ci dona il suo tempo, perché è entrato nella storia con la sua parola e le sue opere di salvezza, per aprirla all’eterno, per farla diventare storia di alleanza.
In questa prospettiva, il tempo è già in se stesso un segno fondamentale dell’amore di Dio: un dono che l’uomo, come ogni altra cosa, è in grado di valorizzare o, al contrario, di sciupare; di cogliere nel suo significato, o di trascurare con ottusa superficialità.
Tre poi sono i grandi “cardini” del tempo, che scandiscono la storia della salvezza: all’inizio la creazione, al centro l’incarnazione-redenzione e al termine la “parusia”, la venuta finale che comprende anche il giudizio universale.
Questi tre momenti però non sono da intendersi semplicemente in successione cronologica.
Infatti, la creazione è sì all’origine di tutto, ma è anche continua e si attua lungo l’intero arco del divenire cosmico, fino alla fine dei tempi.
Così pure l’incarnazione-redenzione, se è avvenuta in un determinato momento storico, il periodo del passaggio di Gesù sulla terra, tuttavia estende il suo raggio d’azione a tutto il tempo precedente e a tutto quello seguente.
E a loro volta l’ultima venuta e il giudizio finale, che proprio nella Croce di Cristo hanno avuto un decisivo anticipo, esercitano il loro influsso sulla condotta degli uomini di ogni epoca.
Il tempo liturgico dell’Avvento celebra la venuta di Dio, nei suoi due momenti: dapprima ci invita a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto uomo per la nostra salvezza.
Ma il Signore viene continuamente nella nostra vita.
Quanto mai opportuno è quindi l’appello di Gesù, che in questa prima Domenica ci viene riproposto con forza: “Vegliate!” (Mc 13,33.35.37).
E’ rivolto ai discepoli, ma anche “a tutti”, perché ciascuno, nell’ora che solo Dio conosce, sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza.
Questo comporta un giusto distacco dai beni terreni, un sincero pentimento dei propri errori, una carità operosa verso il prossimo e soprattutto un umile e fiducioso affidamento alle mani di Dio, nostro Padre tenero e misericordioso.
Icona dell’Avvento è la Vergine Maria, la Madre di Gesù.
InvochiamoLa perché aiuti anche noi a diventare un prolungamento di umanità per il Signore che viene.
  Maria, vergine dell’attesa Se andiamo alla ricerca di un motivo esemplare che possa ispirare i nostri passi, e dare agilità alle cadenze del nostro cammino in questo periodo che ci separa dal Natale, dobbiamo assolutamente rifarci alla Madonna.
Lei è la Vergine dell’attesa, la Vergine dell’Avvento, la Madre dell’attesa.
Lo sapete che nel Vangelo, prima ancora che ci venga detto il suo nome, viene riferito un fremito d’attesa che ardeva nella sua anima? San Luca, prima ancora di dirci che «il suo nome era Maria» (Lc 1, 26), ci dice un’altra cosa: «In quel tempo l’angelo Gabriele venne mandato ad una ragazza promessa sposa ad un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide» (Lc 1, 26-27).
«Promessa sposa», cioè fidanzata! Noi sappiamo che la parola fidanzata viene vissuta da ogni donna come un preludio di tenerezze misteriose, di attese.
Fidanzata è colei che attende.
Anche Maria ha atteso; era in attesa, in ascolto: ma di chi? Di lui, di Giuseppe! Era in ascolto del frusciare dei suoi sandali sulla polvere, la sera, quando lui, profumato di vernice e di resina dei legni che trattava con le mani, andava da lei e le parlava dei suoi sogni.
Maria viene presentata come la donna che attende.
Fidanzata, cioè.
Solo dopo ci viene detto il suo nome.
L’attesa è la prima pennellata con cui san Luca dipinge Maria, ma è anche l’ultima.
E infatti sempre san Luca il pittore che, negli Atti degli apostoli, dipinge l’ultimo tratto con cui Maria si congeda dalla Scrittura.
Anche qui Maria è in attesa, al piano superiore, insieme con gli apostoli; in attesa dello Spirito (At 1, 13-14); anche qui è in ascolto di lui, in attesa del suo frusciare: prima dei sandali di Giuseppe, adesso dell’ala dello Spirito Santo, profumato di santità e di sogni.
Attendeva che sarebbe sceso sugli apostoli, sulla chiesa nascente per indicarle il tracciato della sua missione.
  Maria, Vergine e Madre dell’attesa Vedete allora che Maria, nel Vangelo, si presenta come la Vergine dell’attesa e si congeda dalla Scrittura come la Madre dell’attesa: si presenta in attesa di Giuseppe, si congeda in attesa dello Spirito.
Vergine in attesa, all’inizio.
Madre in attesa, alla fine.
E nell’arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l’altra cosi divina, cento altre attese struggenti.
L’attesa di lui, per nove lunghissimi mesi.
L’attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele.
L’attesa del giorno, l’unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più.
L’attesa dell’«ora»: l’unica per la quale non avrebbe saputo frenare l’impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini.
L’attesa dell’ultimo rantolo dell’unigenito inchiodato sul legno.
L’attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia.
Attendere: infinito del verbo amare.
Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all’infinito.
  Con la lampada accesa E noi oggi di che cosa parliamo se non di Avvento, di attesa? Voi promettete fede al Signore e con i vostri sospiri, con i vostri sentimenti, con le vostre attese, ricevete le tenerezze misteriose che vi riserva: vigilanti, così come si vive il periodo del fidanzamento, con il tripudio interiore.
Un giorno le nozze dell’Agnello le celebreremo tutti quanti.
Saremo tutti invitati, tutti protagonisti.
Verrà questo giorno! Nei tempi gelidi che stiamo vivendo, nell’appannamento dei nostri entusiasmi e nella tristezza dei nostri peccati, non possiamo sentirci mancare il coraggio, al punto da non annunciarvi queste cose con forza, per quanto possano sembrare lontane, utopiche.
No, non sono utopie, sono invece i luoghi dove noi realizzeremo veramente la nostra felicità, il nostro bene.
Questo vi annunciamo oggi! Le ragazze che sono davanti a me, sono anche un po’ l’icona di quello che dovremmo essere: con l’abito bianco, con la lampada accesa, in attesa; disponibili non soltanto a tenere la lampada accesa, ma anche a conservare una riserva sufficiente di olio nei recipienti, al punto che quando qualcuno ci rivolge quella preghiera così implorante e così umana che dice: «Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono!», noi possiamo rispondere non come le vergini prudenti: «No, perché non basta ne a noi ne a voi» (Mt 25, 9), ma: «Sì, vogliamo correre il rischio che non basti ne a noi ne a voi».
A voi che oggi non fuggite per la tangente dell’irreale, ma fate una scelta di concretezza, vorrei dire: «Amate il mondo e siate disponibili a dare l’olio alle lampade del mondo, perché anche il mondo possa attendere e possa vivere l’attesa».
La vera tristezza Oggi non si attende più.
La vera tristezza non è quando ti ritiri a casa la sera e non sei atteso da nessuno, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita.
E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio.
Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita.
E ormai i giochi sono fatti.
E nessun’anima viva verrà a bussare alla tua porta.
E non ci saranno più ne soprassalti di gioia per una buona notizia, ne trasalimenti di stupore per una improvvisata.
E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto, non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere.
La vita, allora, scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco.
Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere.
Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle attese.
E forse è vero.
Oggi abbiamo preso, invece, una direzione un tantino barbara: il nostro vissuto ci sta conducendo a non aspettare più, a non avere neppure il fremito di quelle attese che ci riempivano la vita un tempo: quando, non so, aspettavi profumi di mosti, o il cigolare dei frantoi o il grembo di tua madre che si incurvava sotto il peso di una nuova vita, o i profumi dei pampini, degli ulivi, o il profumo di spigo, di mele cotogne.
Forse sto scappando anch’io per le tangenti del sogno, però – dite la verità – è così standardizzata la nostra vita, è così incastrata nei diagrammi cartesiani che c’imprigionano e ci stringono all’angolo, che non sappiamo più aspettare.
Intuiamo tutti che abbiamo una vita prefabbricata, per cui ci lasciamo vivere, invece di vivere.
Una «pro-vocazione» Oggi l’Avvento c’impegna invece a prendere la storia in mano, a mettere le mani sul timone della storia attraverso la preghiera, l’impegno e starei per dire anche l’indignazione: indignatevi un po’, fratelli e sorelle! Indignatevi, perché abbiamo perso questa capacità; anche noi sacerdoti, anche noi vescovi, non ci sappiamo più indignare per tanti soprusi, tante ingiustizie, tante violenze…
Tutto quello che viviamo ora, qui, non è solo una simbologia.
Vorrei dirvi, cari fratelli, che questi ragazzi, Antonio e Stefano e poi Barbara e Francesca e Lorella e Miriam, devono diventare per noi una provocazione, uno scrupolo, una spina di inappagamento, messa nel fianco della nostra vita, un’icona, una «pro-vocazione», una chiamata da parte di chi sta un po’ più avanti.
Con i gesti anche paradossali delle scelte audaci, ci stimolano ad essere uomini dell’attesa come Maria; ci spingono a non diffidare mai dei sogni, per essere capaci sempre di annunciare al mondo rovesciamenti da troni e innalzamenti dello stereo, come Maria, donna dell’attesa, che ha aspettato questa ricollocazione sui troni della giustizia per tutti coloro che, invece, vivono nel fetore delle stalle e nel sopruso degli egemoni, che schiacciano sempre la gente.
Attesa, attesa, ma di che? Che cosa aspettiamo? Aspettiamo prima di tutto un cambio per noi, per la nostra vita spirituale, interiore, e poi avvertiamo che stiamo camminando su speroni pericolosi, su rocce che possono farci ruzzolare da un momento all’altro.
Forse abbiamo assunto un modo non proprio allineato alla logica delle beatitudini.
Attesa quindi di rinnovamento per noi, attesa di rinnovamento per la storia dell’umanità.
Attesa di cambi interiori della nostra mentalità: non siamo ancora capaci di pronunciare una parola forte per dire che la guerra è iniqua, che ogni guerra è iniqua! Ancora ci stiamo trastullando con i concetti della guerra giusta o ingiusta, o della difesa…
Abbiamo nelle mani il Vangelo della non violenza attiva, il codice del perdono, ma siamo ancora cristiani irresoluti, che camminano secondo le logiche della prudenza carnale e non della prudenza dello Spirito.
Siamo gente che riesce a dormire con molta tranquillità, pur sapendo che nel mondo ci sono tante sofferenze.
Sopportiamo facilmente che, all’interno della nostra città, col freddo che fa, le stazioni siano assediate da terzomondiali o da persone che vivono allo sbando, che non hanno più progetti.
Macché fidanzamento, che sogni, che attese di sandali, che profumi di vernice o di santità! Molta gente odora soltanto della tristezza dei propri sudari.
Fratelli e sorelle, vergini fidanzate, provocate questa gente! Oggi ci sono tante fotografie per voi, tanti lampeggiamenti di flash; sarebbe molto bello che ognuno di voi, con il suo obiettivo allargato, imprimesse la provocazione di un’attesa di cieli nuovi e terre nuove.
Anche tu, Stefano, che ti accingi ad entrare nel consesso presbiterale; e tu, Antonio, che ci sei già entrato, che sei già lettore e annunci la parola di Dio e da oggi tocchi anche le patene, le pissidi: tocchi quello che sarà il corpo vivente del Signore.
Questo contatto con i vasi sacri, col grano fatto pane, con l’uva fatta vino, ti mette in rapporto con il cosmo, con questa realtà materiale, toccabile, perché il regno di Dio viene costruito non con i fumi delle nostre utopie ma con le pietre che vengono scavate nelle cave della storia, della terra.
Scommetto che anche il pane che si mangia nel cielo è intriso delle acque della nostra terra e del grano che viene prodotto dai nostri campi! Buona attesa, dunque.
Il Signore ci dia la grazia di essere continuamente allerta, in attesa di qualcuno che arrivi, che irrompa nelle nostre case e ci dia da portare un lieto annuncio! (Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 45-54).
  Amare la prima venuta, desiderare la seconda Fratelli carissimi, dovete sapere che questo tempo beato che noi chiamiamo «Avvento del Signore» evoca due realtà e, dunque, duplice deve essere la nostra gioia, poiché duplice è anche il guadagno che ci deve portare.
Questo tempo evoca le due venute del nostro Signore: quella dolcissima venuta in cui il più bello dei figli dell’uomo (Sal 44 [45], 3), il desiderato da tutte le genti (Ag 2,7 Vg), vale a dire il Figlio di Dio, si manifestò visibilmente nella carne a questo mondo, lui a lungo atteso e desiderato ardentemente da tutti i padri; ciò avvenne quando egli venne in questo mondo a salvare i peccatori.
Ma questo tempo evoca anche l’altra venuta che dobbiamo aspettare con una solida speranza e che dobbiamo ricordare spesso tra le lacrime, il momento, cioè, in cui il nostro Signore, che dapprima era venuto nascosto nella carne, verrà manifestamente nella sua gloria, come canta il salmo: Dio verrà manifestamente (Sal 49 [50], 3), cioè il giorno del giudizio, quando verrà manifestamente per giudicare […].
Giustamente la chiesa ha voluto che in questo tempo si leggessero le parole dei santi padri e si ricordasse il desiderio di quelli che vissero prima della venuta del Signore.
Non celebriamo questo loro desiderio per un solo giorno, ma per un tempo abbastanza lungo, poiché di solito quando desideriamo e amiamo molto qualcosa, se accade che essa viene differita per un qualche tempo, ci sembra più dolce ancora quando giunge.
Seguiamo, dunque, fratelli carissimi, gli esempi dei santi padri, proviamo il loro stesso desiderio, e infiammiamo i nostri cuori con l’amore e il desiderio di Cristo.
Dovete sapere che è stata stabilita la celebrazione di questo tempo per rinnovare in noi il desiderio che gli antichi santi padri avevano riguardo alla prima venuta del Signore nostro e dal loro esempio impariamo a nutrire un grande desiderio della sua seconda venuta.
Dobbiamo pensare a quante cose buone ha fatto il Signore nostro nella sua prima venuta e a quelle ancor più grandi che farà nella seconda e con tale pensiero dobbiamo amare molto la sua prima venuta e desiderare molto la seconda.
(AELREDO DI RIEVAULX, Discorsi 1, PL 195,209A-210B).
Questo mondo è un luogo buono? Nell’antico Testamento la Bibbia parla del mondo come della creazione buona di Dio e come del mondo dell’uomo, un mondo che Dio tiene in mano e che trasformerà nel suo mondo definitivo.
Tuttavia già l’Antico Testamento sa che il mondo è incrinato, che in esso è presente il peccato, che esistono l’odio e la discordia.
Secondo il punto di vista pessimistico del Qohelet, il mondo si muove in un circolo di delusione e di oppressione.
I profeti interpretano il mondo a partire dalla sua fragilità, ma annunciano contemporaneamente un mondo rinnovato da Dio, un mondo colmo di giustizia e di pace.
Anche nel Nuovo Testamento incontriamo questa doppia concezione.
Paolo e Giovanni interpretano il mondo in modo piuttosto negativo.
Per Giovanni, il mondo si è rifiutato di credere in Gesù.
È, quindi, un mondo che rimane buio, non illuminato.
Parla di “questo” mondo, che si chiude di fronte a Dio.
Ma contro questo mondo chiuso la fede vuole erigere un mondo opposto, nel quale Dio governa e illumina ogni cosa, nel quale l’amore di Dio permea ogni cosa.
Per Paolo, il mondo è connotato soprattutto dal peccato.
Ed è solo un mondo temporaneo, che il cristiano deve sopportare fino a quando Cristo presenterà il nuovo mondo.
Il mondo è il luogo in cui viviamo.
In esso riconosciamo la bellezza della creazione.
Ma contemporaneamente il mondo è il luogo in cui ci dovremmo affermare.
Dovremmo vivere nel mondo, senza lasciarci condizionare dal mondo.
Viviamo piuttosto nel mondo come coloro che hanno la loro vera origine in Dio e che, quindi, plasmano e organizzano il mondo in modo tale che diventi degno di essere vissuto per tutti.
Abbiamo una responsabilità verso questo mondo.
Non possiamo sfruttarlo, ma dovremmo averne cura in modo tale che anche le generazioni future possano vivere bene in esso.
Se il mondo sia un luogo buono è, quindi, una domanda rivolta a noi stessi.
Infatti, se sia un luogo buono per le generazioni che ci seguiranno dipende, non da ultimo, dal modo in cui lo lasceremo a loro.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2008, 181-182).
  Preghiera (prima domenica)   Signore del giorno e della notte, Dio del cielo e della terra, si avvicina l’ora della tua venuta.
Non lasciarci intorpidire in un’attesa sonnolenta.
Desta i nostri cuori alla Parola che non cessi di rivolgerci attraverso i secoli dei secoli.
  Padrone dello spazio e del tempo, nostro Dio, nostro Padre, non lasciarci riaddormentare: rendici attenti all’occasione di salvezza che ci offri, a questi segni incipienti del Regno del tuo Figlio che vive presso di te e tra noi ora e sempre.
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
         Lectio Anno c     Prima lettura: Genesi 33,14-16          Ecco, verranno giorni – oràcolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda.
In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra.
In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia.
    v Il messaggio della prima lettura è più che un annuncio di calda speranza.
La sua funzione è di completare la prospettiva escatologica del Vangelo e di richiamare anche il dato storico dell’incarnazione.
Per noi che leggiamo la profezia di Geremia, le sue parole non sono più un semplice annuncio al futuro («verranno giorni…
realizzerò…
farò germo-gliare…»), ma la documentazione di un futuro che è diventato il presente della storia della salvezza.
La Parola di Dio documenta che le promesse divine trovano un compimento e tale compimento è Cristo.
Non sarà difficile la lettura cristologica di questo passo di Geremia.
     Leggiamo di fatto in filigrana il passaggio dall’AT al NT: quello che poteva riferirsi a Davide e alla sua dinastia, appartiene in modo inequivocabile a Gesù di Nazaret, il più illustre discendente di Davide.
L’oracolo rivela quindi un manifesto carattere messianico.
     Il brano si trova nel contesto di un messaggio di consolazione e riprende l’oracolo di 23,5-6.
Esso si compone dell’impegno di Dio a realizzare le sue promesse al popolo nel suo insieme (Israele e Giuda) e ciò avviene mediante la nascita di uno che, discendente da Davide, porterà la «salvezza».                                         Il termine chiave che ritorna tre volte è «giustizia».
Isaia aveva dato a un bambino che doveva nascere il nome profetico di ‘Emmanuele’ (Dio con noi), Geremia quello di ‘Signore nostra giustizia’.
In entrambi i casi si tratta di uno che avrà uno speciale rapporto con Dio, in quanto effettivamente realizzerà, e pienamente, la volontà divina, la ‘giustizia’.
Il testo messianico prepara gli animi ad accogliere Gesù di Nazaret, colui che il NT ci dirà totalmente in comunione con Dio, da essere Lui stesso Dio in quanto Figlio.
     La lettura nel suo insieme invita a coltivare la speranza, virtù non facilmente reperibile nel nostro mondo.
Deve essere una speranza ‘teologale’, in quanto innervata nelle promesse divine e vissuta come gioiosa attesa dal popolo di Dio.
In questo senso dà senso anche al tempo liturgico che stiamo vivendo.
  Seconda: 1Tessalonicesi 3,12-4,2          Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.
Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più.
Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.
    v La speranza e l’attesa si coniugano felicemente con l’impegno: si va incontro al Signore nell’esercizio sereno e quotidiano dei propri doveri sociali e cristiani.
Tra tutti eccelle quello dell’amore.
     Il brano comprende i versetti conclusivi della prima parte della lettera (capp.
1-3) e quelli iniziali della seconda (capp.
4-5).
I versetti 12-13 creano un’atmosfera soffusa di preghiera e contengono due richieste per la comunità.                                         Nella prima Paolo domanda a Dio di appianare le difficoltà perché possa giungere a Tessalonica.
È un desiderio, una sorta di augurio, bene espresso in greco dal modo ottativo che ha appunto questa sfumatura.
Paolo non programma se non in comunione con la volontà divina che tutto dirige.
E come precedentemente era stato Satana a bloccare il cammino verso la comunità (cf.
2,18), così ora solo Dio può concedere il raggiungimento dell’agognata meta.
Il desiderio di Paolo rimane comunque aperto alle disposizioni della imperscrutabile volontà divina.
È come se egli dicesse: «se, come, quando Dio vorrà».
È giusto e doveroso che il missionario in servizio al Vangelo faccia dei progetti, ma è altrettanto vero che deve essere disposto a ribaltarli quando la divina Provvidenza ne proponga altri.
     La seconda richiesta di preghiera tocca il cuore stesso della vita comunitaria.
Paolo chiede un amore sovrabbondante, trabocchevole, perché poco amore non è ancora amore.
La pienezza di amore riguarda sia l’interno, la comunità stessa, sia l’esterno, ‘rappresentato da quel «tutti» (v.
12) che abbatte inesorabilmente ogni frontiera ed ogni steccato divisorio.
Solo un amore ‘a tutto campo’ permette di andare serenamente incontro al Signore.
La preghiera si conclude con questa prospettiva escatologica, quasi a ricordare che solo da una visuale completa si capisce meglio la realtà.
     Con una festosa immagine di luce termina la prima parte della lettera.
Con 4,1 siamo in presenza di una nuova parte della lettera, come indicano chiaramente il contenuto ricco di esortazioni e il vocabolario corrispondente.
     Incontro al Signore si va insieme, guidati da coloro che hanno una più matura esperienza di fede.
Paolo è per la comunità di Tessalonica il padre spirituale, il maestro, il fratello e l’amico.
Dato questo sottofondo, può impartire direttive del tipo «avete appreso da noi come comportarvi» (v.
1).
Potrebbe sembrare presuntuoso da parte di Paolo presentarsi come modello, se non si conosce la situazione storica in cui operava.
In un tempo in cui non esistevano testi scritti né tradizioni orali poiché la comunità era da poco fondata,  l’unico riferimento concreto era l’apostolo con il suo insegnamento e comportamento.
Egli non solo ha predicato il Vangelo, ma pure ha insegnato a incarnarlo nella vita quotidiana.
Per questo motivo si offre a modello.
Paolo sarebbe veramente presuntuoso se si ritenesse l’unico punto di riferimento, ma sa bene di essere solo una specie di specchio che riflette il Cristo; la formula completa compare in 1Cor 11,1: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo».
     La richiesta, di conseguenza, non disturba più il lettore, anzi, gli mostra una dimensione inedita dell’autorità, quella di proporsi agli altri quale esempio da imitare perché tutti insieme si possa «piacere a Dio».
Ravvisiamo in questa espressione un principio fondamentale dell’agire morale che consiste nella sintonia con la volontà divina (cf.
la «giustizia» della prima lettura).
     Quando Paolo impartisce importanti direttive, svolge un ruolo profetico perché agisce da portavoce di Gesù Cristo; al pari della parola annunciata che era recepita come «Parola di Dio» (2,13), così ora le indicazioni comportamentali vengono «da parte del Signore Gesù» (v.
2).
Paolo ha appreso dal Signore, vive la sua fede e la trasmette sotto forma di testimonianza.
Egli va così incontro al Signore e sollecita a fare altrettanto.
  Vangelo: Luca 21,25-28.34-36          In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra.
Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra.
Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
    Esegesi      Il brano è composto da due spezzoni (vv.
25-28: disastri cosmici e manifestazione gloriosa del Figlio dell’uomo; vv.
34-36: richiesta di vigilanza) del cosiddetto ‘discorso escatologico’, cioè che riguarda le ‘cose ultime’ (ta eschata in greco significa le realtà ultime, chiamate anche, alla latina, ‘novissimi’).
     Il discorso si colora con tratti apocalittici.
Il termine ‘apocalittico’ indica la rivelazione (dal greco apokalyptein: togliere il velo, rivelare) del giudizio divino, del mistero e della persona di Gesù.
Può indicare un modo particolare di esprimersi caratterizzato dalla rivelazione di segreti riguardanti la fine dei tempi e il corso della storia.
Poiché la descrizione è spesso affidata a un linguaggio cifrato ricco di visioni e di simboli non raramente terrificanti, nel modo di esprimersi comune ‘apocalittico’ è divenuto sinonimo di ‘catastrofico’.
Le espressioni devono essere capite nel loro significato, senza dimenticare la natura e gli artifici del linguaggio profetico apocalittico.
Si tratta di un modo di comunicare, più che di una precisa descrizione di eventi futuri.
L’accenno agli sconvolgimenti cosmici e alle ‘guerre mondiali’ sono pezzi d’obbligo negli annunci profetici e rappresentavano le immagini più catastrofiche che la fantasia dell’uomo antico avesse a disposizione.
             La distruzione ha effetto di trasformazione.
A differenza del linguaggio popolare che intende ‘apocalittico’ solo come distruzione e basta, il mondo biblico intende la distruzione come il primo passo perché possa sorgere qualcosa di nuovo.
È come l’abbattimento di una casa per costruirne una nuova.
L’espressione «Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte» prepara ed è condizione perché si verifichi la novità che segue.
     Infatti tutto il magma di angoscia e di negatività che precede (cf.
anche la parte non registrata dal testo liturgico, per esempio i vv.
10-24), prepara ed è funzionale al grande annuncio dei vv.
27-28, cuore teologico del brano e principio ispiratore della odierna liturgia della Parola.
Dopo aver ripreso un testo biblico di distruzione, quasi a voler cancellare un universo corrotto, si offre allo sguardo degli eletti la figura vittoriosa di Cristo: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria» (v.
27).
Nel buio della negatività si accende la luce radiosa del Figlio dell’uomo che si manifesta «con grande potenza e gloria».
È possibile una duplice lettura: quella legata al contesto del brano, di chiara matrice escatologica, e quella legata al tempo liturgico dell’Avvento che riattualizza la venuta storica di Gesù.
     È un momento di grande gioia, non esplicitamente espressa, ma inclusa nelle due espressioni «risollevatevi e alzate il capo» e «la vostra liberazione è vicina».
La venuta di Cristo trasforma radicalmente la storia, imprimendole il marchio positivo della novità da lui apportata.
Con Lui e grazie a Lui nulla è perduto, tutto è sapientemente trasformato.
Del giu-dizio e della sorte degli empi non si parla.
Il discorso non culmina in una visione di giudizio, bensì in una consolante promessa per gli eletti.
Si è smarrito il tono apocalittico, spesso tenebrosi e lugubre, e si è fatto spazio al tono del vangelo, lieta novella per tutti gli uomini.
     All’azione di Cristo deve seguire l’impegno dei cristiani, richiamato dai vv.
34-36, il secondo spezzone del brano liturgico.
Al fine di non edulcorare una realtà che rimane comunque difficile e per non lasciare gli uomini in una neghittosa attesa, il discorso vibra nella parte conclusiva sulle note dell’esortazione.
Poiché la venuta di Cristo è il fatto conclusivo della storia, in quanto costituisce il termine del tempo e l’inizio definitivo dell’eternità, occorre essere saggi e vivere in operosa attesa.
La saggezza sta proprio nel saper riconoscere i segni del tempo finale.
L’impegno potrebbe essere riassunto nel duplice imperativo «Vegliate in ogni momento pregando».
La venuta di Cristo non ci deve trovare distratti da mille cose inutili o, peggio, nocive.
Vegliare è il modo storico di rispondere alla prima venuta di Gesù, la sua incarnazione.
È un vegliare fatto di serena attività che rifugge dall’ansia nevrotica del futuro come pure da una dissennata irresponsabilità.
È una attività in comunione con il divino, reso manifesto da quel «pregando» che Luca ama inserire con insistenza nel suo Vangelo e che anche qui mette ‘in più’ rispetto alla sua probabile fonte, il Vangelo di Marco.
  Meditazione      I temi che caratterizzano la liturgia della Parola di questa prima domenica di Avvento si intrecciano simbolicamente con la prospettiva suggerita ai credenti dai testi scritturistici presentati nelle ultime domeniche del tempo ordinario.
La visione che si apre al nostro sguardo è ancora quella del tempo e della storia colti nella loro fase finale, in relazione con il compimento della promessa di Dio, quella promessa di bene fondata sulla fedeltà del Signore al popolo di Israele…
e gratuitamente estesa ad ogni uomo: «Ecco verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele…
In quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto…» (Ger 33,14-15).
Sono tempi e giorni, come ci ricorda il profeta Geremia, che verranno, e che dunque devono essere attesi nella pazienza e nella speranza, sapendo discernere fin d’ora i segni della salvezza veniente.
La prospettiva che apre lo sguardo credente sugli ultimi tempi offre così una qualità singolare alla storia che l’uomo è chiamato a vivere, plasmando quegli atteggiamenti che ci permettono di camminare sul crinale del già e non ancora: la vigilanza, l’attenzione ai segni, la pazienza, il discernimento.
È soprattutto la pericope di Luca ad aiutarci a focalizzare questa visione di fede sulla storia e sul suo compimento.
     Pur rifacendosi al ricco immaginario apocalittico fornito dalla tradizione giudaica, la prospettiva del discorso escatologico di Gesù riportato in Luca non sembra eccessivamente preoccupata di fornire elementi di identificazione o criteri precisi di discernimento che permettano di intravedere l’approssimarsi del compimento della storia.
Ciò che deve stare a cuore al discepolo è piuttosto il modo con cui si è chiamati a vivere in questa storia da credenti, tenendo sempre lo sguardo volto al compimento.
Il credente può sempre cadere in due trappole: o la tentazione di una impazienza che tende ad anticipare il compimento o la rassegnazione di chi non aspetta più nulla, disimpegnandosi nella storia.
Gli imperativi del discernimento (Lc 21,29-33), dell’attenzione (vv.
34-35) e della vigilanza orante (v.
36) sono un antidoto ad ogni pretesa o delusione di fronte al tempo, al suo scorrere e alle sue contraddizioni, e permettono di essere umilmente radicati e impegnati in questa storia nell’attesa di un compimento che è solo nelle mani di Dio.
Si potrebbe dire che la qualità della presenza del credente nella storia è data, secondo il testo di Luca, da due movimenti.
Il primo è caratterizzato dalla pazienza che permette di resistere nel tempo dell’attesa e custodire il cuore della propria vita da ciò che lo minaccia, radicati nella fedeltà di Dio alle sue promesse: «con la vostra pazienza (en te upomone) salverete la vostra vita» (Lc 21,19).
Questo è l’atteggiamento che caratterizza il tempo della Chiesa, ponendo i credenti in continua tensione verso il Signore e impegnandoli a testimoniare nella storia il desiderio dell’incontro con il Veniente.
Il secondo movimento, quasi contrapposto alla apparente staticità di una paziente attesa, si esprime in una sorta di liberazione, di ripresa di vita, di gioia: allora vedranno il Figlio dell’uomo venire…
risollevatevi ed alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (vv 27-28).
Di fronte agli eventi che annunciano un disfacimento di questo tempo e di questo mondo e che, generando angoscia e disperazione, rendono l’uomo incapace di guardare in faccia la storia per comprenderne il senso, colui che ha atteso il Figlio dell’uomo intuisce che tutto ciò che sta avvenendo orienta all’incontro.
Il credente è chiamato a guardare con libertà e parresia, fiducia e desiderio il Volto del suo Signore che è vicino, anzi è invitato a scorgerlo già negli avvenimenti.
Il tempo della pazienza è terminato; può alzarsi e riprendere la pozione dell’uomo libero.
Ma ciò che permette il passaggio dalla pazienza alla liberazione, ciò che permette di comprendere questa storia è l’incontro con un Volto: il Volto di colui che «viene su una nube con grande potenza e gloria» (v.
27).
È il Volto del crocifisso e risorto, del trafitto verso il quale ogni uomo è chiamato a volgere lo sguardo (cfr.
Gv 19, 37), a rivelare il senso e il compimento della storia, di ogni storia: la storia, ogni storia è sanata e salvata dalle ferite di Colui che viene sulle nubi con grande potenza e gloria.
È questa la promessa di bene e il germoglio giusto scorti da lontano dal profeta Geremia.
     «Con la vostra pazienza salverete la vostra vita […] risollevatevi e alzate il capo…
per comparire davanti al Figlio dell’uomo» (vv.
19.28.36).
In queste espressioni del testo di Luca possiamo inoltre scorgere la dinamica della speranza, il faticoso cammino interiore che trasforma la vita del credente in spazio aperto, pronto all’incontro con il Veniente.
È tuttavia necessario percorrere queste tappe per radicare la speranza nella propria vita, trasformarla in stile che da spessore alle relazioni e strappa l’esistenza al ripiegamento su di sé.
Colui che dispera, si nega, perde la sua coesione interiore, abdica alla vita; il disperato è colui che non alza il capo, cioè non sa assumere la dignità propria dell’uomo.
Nella parola di Gesù, invece, abbiamo tre volti della speranza, tre spazi che in progressione aprono all’incontro con il volto di colui che è la nostra speranza.
Anzitutto la speranza permette di discernere la verità del tempo dell’attesa.
È nella pazienza (nel senso etimologico del termine greco, «stare sotto un peso») che l’uomo può custodire integra e vera la propria vita; ma è la speranza a rendere l’attesa paziente tempo di discernimento, durante il quale, nonostante le contraddizioni (i colpi che tendono a spostarci e a far cambiare posizione), è possibile mettere a fuoco ciò che è veramente essenziale («le mie parole non passeranno»: v.
33).
Chi sa dimorare nella pazienza, custodendo vigile la speranza, ha la forza di riprendere la posizione eretta, vincendo così ogni tentazione di ripiegamento.
E questo è possibile perché all’orizzonte della propria esistenza, della storia (nonostante i segni contrari) scorge l’approssimarsi di ‘Colui che viene’.
Se si è conservato sempre vigile lo sguardo del cuore sul volto luminoso del Risorto, allora si saprà riconoscerlo quando egli viene a liberarci.
Infine, il frutto della speranza è la parresia, la piena fiducia, lo stare faccia a faccia con il Signore: lo sguardo del figlio che non ha più paura e sta in piedi, da persona pienamente liberata, davanti al suo Signore.
     «Vegliate in ogni momento pregando…» (v.
36).
Speranza e vigilanza diventano così i due percorsi essenziali su cui il credente cammina nel tempo.
La speranza rende vigile la nostra vita, custodisce agile il nostro cuore, ravvivando in esso il continuo desiderio dell’incontro con il Veniente.
E la vigilanza orante accresce in noi la speranza, nutrendo di essa ogni nostro desiderio.
Un cuore non abitato dalla speranza e dalla vigilanza diventa pesante, ingombro di tante presenze che lo stordiscono.
     E infine non si deve dimenticare che gli imperativi della pazienza, della vigilanza e della speranza assumono un orizzonte ecclesiale.
Non sono rivolti semplicemente al singolo discepolo, ma alla comunità dei discepoli, alla Chiesa.
E sulla qualità di testimonianza offerta da questi imperativi, la Chiesa gioca l’autenticità della sua presenza nel tempo e nella storia.
Una Chiesa che sa attendere è una Chiesa viva: sa vivere in coscienza l’unicità e l’irripetibilità del tempo in cui è inserita; è capace di andare al di là di quello che fa, meno preoccupata di riempire con le sue opere gli spazi che la storia gli offre, quanto piuttosto preoccupata a far calare in essa il senso di una incompiutezza, di una speranza, di un cammino verso quella pienezza nell’incontro con il Veniente.
«Ogni Chiesa deve lottare contro la tentazione di assolutizzare ciò che compie – ricorda Giovanni Paolo II nella Orientale Lumen 8 – e quindi di autocelebrarsi o abbandonarsi alla tristezza.
Ma il tempo è di Dio, e tutto ciò che si realizza non si identifica mai con la pienezza del Regno, che è sempre dono gratuito…
».
    

XXXIII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Daniele 7,13-14 Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui.
Gli furono dati potere, glo-ria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.
La visione del Figlio dell’uomo in Dn 7,13ss chiude la prima visione apocalittica del no-stro libro.
La si trova al centro del c.
7 e poi alla fine della spiegazione dei simboli (7,26s).
Nella prima parte, sotto lo sguardo profetico del veggente, si svolge la paurosa attività del-le 4 bestie simboliche, che salgono dalle acque del mare mosse dai 4 venti.
Esse rappresen-tano 4 famosi re, che dalle descrizioni sembrano identificarsi con l’impero babilonese («ter-ribile leone dal cuore d’oro»), con l’impero medo («orso che divora Babilonia»), con il per-siano («leopardo» dalle 4 teste di reganti), con il greco («mostro dai denti di ferro, che tutto stritola» assieme al tiranno che combatte contro i Santi di Dio, probabilmente l’empio An-tioco IV del 168 a.C.
persecutore dei pii Giudei).
Si trattava di eventi del passato collegati alla situazione contemporanea, visti secondo la nota concezione apocalittica: l’agitarsi delle acque primordiali, da cui provengono le forze del male, sotto il vigile controllo della ruah, lo spirito di JHWH, come in Genesi 1,1-2; go-vernanti e imperi si muovono quali strumenti dell’onnipotente Dio d’Israele.
Lo dimostra l’improvvisa apparizione di un Vegliardo che, circondato da miriadi di es-seri celesti, siede sul trono a giudicare le 4 bestie, togliendo loro ogni potere e condannan-dole alla morte.
A questo punto irrompe la scena del nuovo sovrano dei popoli.
v.
13: «ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo».
Il personaggio viene dall’alto, e non più dagli abissi dell’oceano; è un essere dalle sembianze umane, non ben definite, superiori a quelle di un semplice mortale; non più sotto il simbolo di bestie mo-struose e feroci…
Egli è come l’angelo-principe di una grande nazione (10,13).
v.
14: «Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano».
A lui sono affidati i poteri regali su tutte le nazioni della terra: un regno che non vedrà mai il tramonto.
Nella prospettiva del messianismo escatologico reale rappresenta l’intervento definitivo del Dio d’Israele sulle vicende della storia, proiettato in un futuro indeterminato (l’escaton), l’’ahar, il seguito degli anni nella forma di un governo collettivo, consegnato al «resto santo» del popolo prediletto, i Santi dell’Altissimo.
Non si esplicita se esso sarà di tipo terreno o spirituale.
Si dichiara però che sia il rappresentante ideale (il figlio dell’uo-mo), sia la sua sovranità vengono dall’alto, proprio come la piccola pietra che si stacca dal monte e annienta le potenze del male (Dn 2,45).
Vi si intravede la figura personale di un Inviato dal Signore Onnipotente, già delineato negli scritti dell’epoca giudaico-maccabeica (Parabole di Enoc, del 95 circa a.C.): considera-to come «Re celeste, assise presso la gloria divina, che dovrà un giorno rendersi manifesto, quale giudice del cielo e della terra, dei vivi e dei morti».
È il Messia del giudizio universa-le, che in Mt 25,31 ss assegnerà a ogni uomo la sorte eterna in base al comandamento del sincero amore fraterno, e dirà l’ultima parola su tutta la storia dell’umanità: «gli rispose Gesù: Anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo» (Mt 26,64).
Seconda lettura: Apocalisse 1,5-8 Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli.
Amen.
Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto.
Sì, Amen! Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente! Siamo all’inizio della grande rivelazione profetico-apocalittica di Giovanni.
Dopo il bre-ve prologo (1,1-3) in cui si presenta il tema di tutta l’opera: — esposizione dei mirabili e-venti prossimi ad accadere, così come l’autore li ha appresi da Cristo, a utilità di chi legge e ascolta —, si entra immediatamente in dialogo con le 7 chiese della cristianità d’Asia, a cui saranno indirizzate le 7 epistole (cc.
2-3), dettate dal Figlio dell’uomo, il Vivente in eterno, apparso a Giovanni in estasi (1,9-17).
Il veggente si introduce con un saluto ai destinatari e con l’augurio di «grazia e pace» da parte di Colui che è, era e viene (il Padre divino), dei 7 Spiriti che stanno davanti al suo trono (Lo Spirito, cioè, con i suoi 7 doni, che da Lui proviene), e di Cristo Gesù.
Di questi in particolare vengono esaltate le eccelse prerogative in 3a persona (vv.
6-7) e più diretta-mente in 1a persona (v.
8).
v.
5a: «Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra».
Son i titoli della grandezza di Gesù, visto nel suo ruolo di rivelatore supremo delle realtà divine («testimone fedele»), protagonista della storia salvifica (il «primo» a risorgere), do-minatore delle vicende umane (signore dei signori).
vv.
5b-6: «A Colui che ci ama e ci ha liberati…
a lui la gloria e la potenza».
Al richiamo di quei titoli sgorga dal cuore del profeta una elevata dossologia: — egli è colui che per amore ci ha lavati nel suo sangue, purificandoci dai nostri peccati e facendo di noi (ormai uniti vi-talmente a Lui) una comunità sacerdotale di fronte al resto dell’umanità, per la lode di Dio suo Padre; a Lui si renda ogni onore e gloria per sempre…
v.
7: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà».
Egli è il maestoso Personaggio, già contemplato da Daniele e annunziato dallo stesso Maestro divino nel processo di Caifa (MC 14,62), a cui è conferito ogni potere in cielo e in terra, dinanzi al quale compariranno un giorno tutte le genti, anche coloro che lo hanno trafitto, perché ne siano giudicati (Zc 12,9).
v.
8: «Io sono l’Alga e l’Omega…
Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!».
Ora parla lo stesso Gesù: — Egli non è il trasumanato eroe esaltato dalle mitologie orientali, ma Colui che è Principio e Fine di tutte le cose, Alfa e Omega cioè Colui che comprende e supera tutto ciò che esiste o è pensabile, che è (JHWH), che era ab aeterno, che viene in ogni epoca e si presenta sempre a nuovo nelle sue manifestazioni e nelle sue gesta, mai pienamente definibile dalla mente umana; centro e ragione d’essere di tutti gli avvenimenti che segui-ranno, meta gloriosa dell’umanità e dell’universo! —.
Vangelo: Giovanni 18,33b-37 In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?».
Pilato disse: «Sono forse io Giu-deo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me.
Che cosa hai fat-to?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re.
Per questo io sono nato e per questo sono ve-nuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Esegesi Il tratto di Gv 18,33-38a è la parte centrale del processo di Gesù dinanzi a Pilato (18,28-19,16).
I capi dei Giudei che hanno deciso per conto loro di mandare a morte Gesù lo han-no condotto presso il tribunale del procuratore romano, perché sia lui a pronunziare la sentenza definitiva, quale detentore supremo del jus gladii (il diritto di vita e di morte sui sudditi di Roma).
Dopo aver essi dichiarato che il Rabbì di Galilea, secondo il loro giudi-zio, era un trasgressore della legge e reo di morte.
Pilato rientra nel pretorio per interroga-re Gesù e rendersi personalmente conto della colpevolezza di Gesù (18,28-33): era nel suo diritto.
Qui l’evangelista Giovanni riporta il luminoso dialogo tra il Maestro divino e il rappre-sentante della potenza pagana.
Il discepolo vi ha impresso qualche barlume della sua in-tima comprensione del Cristo: ne ha fatto l’epifania della sua Regalità divina.
v.
33: «Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» L’interrogatorio comincia con la chiara accusa dei capi giudei: Gesù avrebbe preteso di essere uno dei seducenti Messia, preten-dente alla guida del suo popolo (Lc 23,3).
«Gesù il nazareno, il re dei Giudei»: sarà il titolo posto sulla croce per ordine dello stesso Pilato (19,19).
v.
34: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?» Gesù, prima di rispondere, vuole chiarificare in che senso il governante di Roma intendeva quel titolo: nel senso del popolo giudaico che aspettava la venuta di un Messia, leader religioso inviato dall’alto, ovvero nel senso di un condottiero politico liberatore dal giogo straniero, come poteva immaginarlo un romano? Pilato parlava secondo la concezione degli ebrei, o secondo la propria mentalità?…
Il procuratore respinge quasi con sdegno la prima ipotesi.
Non gli in-teressava proprio nulla delle credenze di quella gente: «Sono forse io Giudeo?».
A lui preme sapere se davvero quell’imputato ha commesso le gravi trasgressioni per cui i suoi conna-zionali lo hanno sottoposto al suo giudizio! E conclude: «che cosa hai fatto»? (v.
35).
v.
36: «Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo».
Il divin Maestro ora può parlare liberamente e illustrare la sua reale posizione di fronte al tribunale di Roma.
Egli poteva rassicurare il rappresentante dell’impero, dicendo di non aver fatto nulla, né contro l’ordi-ne sociale, né contro l’autorità dei Cesari accettata dal suo popolo (Lc 20,20-26), ma ha pre-ferito attirare l’attenzione di quell’uomo a qualcosa di più profondo e convincente: la carat-teristica incontrovertibile della sua Persona, quella che Giovanni ha già molte volte sotto-lineato nel suo racconto: la trascendenza del messaggio di Cristo.
Egli promuove un regno che non appartiene all’ordinamento di questo mondo visibile (8,23), poggiato sulla forza delle armi e del consenso popolare.
Il governatore lo può ben constatare: non c’è alcun suo fautore che lo difenda contro le ingiuste accuse dei suoi av-versari (18,8.11).
v.
37: «Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re».
Al-l’insinuazione, sembra un po’ ironica di Pilato: «e allora saresti Re, tu?» «tu così solo e im-provviso?» (trad.
ad litt.
dal greco), il divino accusato prosegue: — Io sono realmente Re, nel senso che ti ho indicato, e sono venuto al mondo per testimoniare quel che ho visto e conosco (3,13; 8,23; 19,35): la realtà di un altro mondo, una realtà soprasensibile, che supe-ra tutte le cose e le concezioni di quaggiù; realtà percepibile da chi è pronto ad accettare la Verità.
Chi infatti è aperto alla verità riconosce la mia voce (10,3) e mi segue (3,31-36; 1 Gv 19,18-20).
Il mio sarà così un regno nuovo, senza violenza e soprusi di alcun genere, basato solo sulla libera accoglienza del Trascendente, che è presso di ognuno e si rivela attraverso la mia parola (8,26).
Siamo al centro di tutta la Rivelazione del Verbo divino fattosi uomo, così come si pre-senta nel quarto Vangelo: il Verbo che risplende tra le tenebre e manifesta a tutti la verità dell’Amore infinito del Creatore, e aggrega, chiunque vi aderisce, alla sua stessa vitalità e-terna e consostanziale col Padre; si rimane nel mondo, ma non si è più di questo mondo (17,11.16).
Pilato, tuttavia, è ancora lontano da quella verità, e se ne esce con una battuta: «ma co-s’è la verità?» (18,38a).
Meditazione L’anno liturgico si conclude ponendo davanti ai nostri occhi la visione di Gesù Cristo nelle vesti di un re.
Un re certamente singolare: che possiede sì un regno, ma tanto disso-migliante dai regni di questo mondo (vangelo) ; che esercita la sua regalità su tutti i popoli (prima lettura), ma nella forma di un «Agnello immolato» (Ap 5,12: antifona d’ingresso) che dall’alto del suo trono regale (la croce!) attira misteriosamente a sé ogni uomo, «anche quelli che lo trafissero» (Ap 1,7: seconda lettura).
Forse la festa di Cristo Re rischia oggi di venire mal compresa e mal interpretata: è facile infatti immaginare la regalità di Cristo alla stregua di quella che esibiscono i potenti del mondo.
Ma se ci atteniamo a ciò che i testi biblici ci dicono, ecco allora che essa assume tutta un’altra luce e un altro colore.
Non dimentichiamo poi che Gesù è apparso davanti agli uomini in vesti regali proprio alla vigilia della sua morte, appunto per togliere ogni fraintendimento sul modo in cui intendeva la sua regalità su questa terra.
L’ampio spazio dato al racconto del processo di Gesù davanti a Pilato nel quarto evan-gelo (da solo occupa più di un terzo dell’intera narrazione della passione) e la cura, lettera-ria e teologica, con cui è costruito, sono già un segno evidente dell’importanza che l’evan-gelista vi attribuisce.
Sette piccole scene compongono il racconto, che si snoda in un’alter-nanza continua tra spazi interni (pretorio) e spazi esterni (cortile), con Pilato che entra ed esce senza posa per parlare rispettivamente con Gesù e con i Giudei.
Tra Gesù e i Giudei c’è ormai una separazione definitiva, non c’è più comunicazione, non c’è più dialogo, il si-lenzio si fa totale.
Sembra quasi che Gesù non abbia più nulla da dire al suo popolo (e so-prattutto ai suoi capi religiosi): ha già detto tutto quello che doveva.
Ora non gli resta che presentarsi davanti a loro nelle vesti di un «re da burla» (B.
Maggioni), deriso, oltraggiato, umiliato e – apparentemente – sconfitto (cfr.
19,1-3: la scena degli oltraggi).
Ma proprio in questa umiliazione e in questa sconfitta risplende ancor più luminosa quella verità che non ha bisogno di ragioni per farsi valere: chiede solo di essere riconosciuta e accolta da un cuore libero da ogni falsità e ipocrisia…
Il testo di Gv 18,33-37 costituisce la seconda delle sette scene che scandiscono il processo romano nella visione giovannea.
Abbiamo qui il primo colloquio tra Pilato e Gesù.
Dopo essere stato fuori a discutere con i Giudei, Pilato rientra nel pretorio, chiama Gesù e, senza troppi preamboli, comincia l’interrogatorio: «Sei tu il re dei Giudei?» (v.
33).
La tematica della regalità è così posta subito al centro del dialogo e tutto si gioca sulla comprensione della vera natura della regalità rivendicata da Gesù.
Pilato formula la sua prima domanda in un tono di ironia mista a disprezzo e incredulità (come se dicesse: «E questo qui sarebbe un re?!»).
Ma Gesù, con una controdomanda, obbliga in qualche modo Pilato a uscire allo scoperto, a non nascondersi dietro opinioni altrui, a rivelare le sue vere intenzioni: «Dici questo da te…» (v.
34).
Pilato rifiuta di prendere posizione nei riguardi di Gesù, non vuole lasciarsi coinvolgere personalmente in una questione che ritiene non rilevante per lui,e cerca di venire subito al sodo: «Che cosa hai fatto?» (v.
35).
Poco prima i Giudei, conse-gnando Gesù, avevano riferito a Pilato che era un «malfattore» (v.
30), cioè «uno che fa il male».
Dovremmo lasciarci interrogare a lungo intorno a questa semplice – ma fondamen-tale – domanda: cosa mai ha fatto Gesù durante la sua breve esistenza terrena? La legge giudica i ‘fatti’, ma i fatti sono passibili di travisamenti o, se non altro, possono essere letti almeno secondo due prospettive: secondo le apparenze o secondo la fede.
Se letta dal punto di vista di Dio, la storia di Gesù rivela significati inediti e abissali che l’uomo non è in grado di comprendere se non accetta di «rinascere dall’alto» (Gv 3,3).
Che cosa «ha fatto» preci-samente, Gesù lo confessa poco più avanti, sul finire del colloquio: egli è venuto nel mon-do «per dare testimonianza alla verità» (v.
37).
Tutta la sua missione è riassunta in questa testimonianza data alla verità.
Gesù è re (lui stesso lo dichiara al v.
37: «Io sono re») in quanto testimone e servitore della verità.
La sua regalità è completamente a servizio della verità, di quella verità di Dio che viene prima di ogni altra cosa, anche prima della propria perso-na.
Tutto il contrario di ciò che fanno i sovrani del mondo, che non esitano a fare della re-galità un baluardo a difesa del proprio potere, dei propri interessi, a fare della menzogna uno strumento ordinario del proprio governo, sottomettendo spesso la verità (che è il bene supremo) alle esigenze della cosiddetta ‘ragion di stato’.
Ma il regno di Gesù ‘funziona’ secondo altri criteri, secondo criteri che vengono da al-trove, da un mondo ‘altro’, non da questo (cfr.
v.
36).
La verità che questo regno vuol cu-stodire e servire non ha bisogno di essere difesa con la forza: essa sa ‘difendersi’ da sola con la forza stessa della sua luce che illumina tutti, sia coloro che da essa si lasciano rag-giungere che coloro che da essa rifuggono.
Certamente, quello di Gesù è un regno sconcer-tante, che non ha bisogno di guardie che combattono per il suo re ma solo di due braccia che sanno distendersi sulla croce, in un vulnerabile abbraccio che mostra la verità di un amore che accoglie tutti.
La parola conclusiva del dialogo («chiunque è dalla verità ascolta la mia voce»), oltre che sottolineare la condizione necessaria per entrare nella logica di questa originale regali-tà (stare dalla parte della verità), getta una luce anche sul modo concreto con cui Gesù eser-cita il suo potere regale.
Il Signore infatti regna su di noi unicamente attraverso l’ascolto della sua voce: nessun altro strumento di ‘potere’ egli vuole utilizzare se non quello della sua parola.
Nel rispetto pieno della nostra libertà, perché una «voce» non si impone e vive in ogni istante la fragilità e il rischio di essere accolta o rifiutata…
La Verità e le verità «Credo che la nostra maturità umana dipende dalla capacità di unificare noi stessi e il nostro sguardo sulla realtà.
Altrimenti rischiamo di rimanere preda di un molteplice illu-sorio, di verità, libertà, parole…» Esercizio non facile in una società multiculturale come quella in cui viviamo, dove si incrociano esperienze, tradizioni e religioni diverse e dove chi parla di una sola verità ri-schia di essere o di apparire un integralista.
«Senza dubbio questo rischio c’è – ammette don Ignazio -, ma la verità di cui parlo io è la verità dell’indicibile.
Quando la verità è dici-bile c’è molta difficoltà a definirla come l’unica verità.
La verità unica è quella che parla a tutti e quando non riesce a farlo bisogna essere prudenti a definirla l’unica vera verità.
Quando diciamo che la parola è una noi siamo convinti di appartenere a questa verità, ma questa verità non ci appartiene, perché è molto più grande di noi e non possiamo gestirla né possiamo avere con essa un rapporto ideologico.
Noi apparteniamo alla verità e all’infinito, ma l’infinito non ci appartiene».
(Dal libro di Enzo Romeo, I solitari di Dio.
Separati da tutto, uniti a tutti, Catanzaro/Roma, Rubbettino/Rai-Eri, 2005, 10).
Dio-verità Chi ha superato la paura della morte, non ha ancora vinto tutti gli altri timori.
Alcuni non temono la morte, ma hanno paura dei piccoli mali della vita.
Alcuni non temono la morte, ma temono la morte delle persone care.
Chi cerca la Verità, deve vincere tutti questi timori e altri ancora: bisogna essere pronti a sacrificare tutto per la Verità.
La verità non si può sacrificare per nessuna ragione.
La verità è come un grande albero, che più lo si colti-va, più da frutti.
Colui che cerca la verità dovrebbe essere più umile della polvere.
Se conoscessimo la verità intera, che bisogno ci sarebbe di cercarla? Possedere la cono-scenza perfetta della verità è possedere Dio.
Poiché la verità è Dio.
Dal momento che non conosciamo la verità totale, dobbiamo sentirci impegnati in una ricerca incessante, e que-sto è il più grande privilegio e il più grande dovere dell’uomo.
Dio-verità va incontro a quelli che lo cercano.
Sono un umile cercatore della verità, e in questa ricerca ripongo la massima fiducia nei miei compagni per poter conoscere i miei er-rori.
Sono fedele soltanto alla verità e non devo ubbidienza a nessuno salvo che alla verità.
Tutta la verità, non semplicemente le idee vere, ma i visi autentici, i dipinti o le canzoni autentiche sono sommamente belli.
Volete sapere quali siano le caratteristiche di un uomo che desideri realizzare la Verità che è Dio? Deve essere completamente libero dall’ira e dalla lussuria, dall’avidità e dall’attaccamento, dall’orgoglio e dal timore.
Voi ed io siamo una cosa sola.
Non posso farvi del male senza ferirmi.
Io sono il servo di musulmani, cri-stiani, persi, ebrei, come lo sono degli indù.
E un servo non ha bisogno di prestigio, ma di amore.
L’amore è il rovescio della moneta, il cui diritto è la verità.
(Mahatma Gandhi).
Ho cercato la verità, amando Ho cercato la verità, con l’Innominato di Manzoni.
Ho cercato la verità tra le lettere di don Milani.
Ho cercato la verità, curiosando nella vita di Gandhi.
Ho cercato la verità, nelle Confessioni di sant’Agostino.
Ho cercato la verità nelle prediche di don Mazzolari.
Ho cercato la verità, piangendo con Giobbe sul letamaio.
Ho cercato la verità, fuggendo da casa, con la mia parte di eredità, come il Figliol Prodigo.
Ho cercato la verità, nelle poesie di Tagore.
Ho cercato la verità, nei pensieri di Pascal.
Ho cercato la verità, nei fioretti di san Francesco.
Ho cercato la verità, nell’Allegretto della settima di Beethoven.
Ho cercato la verità, vagando stralunato.
Ho cercato la verità, negli occhi incavati e ormai vitrei di Brambilla, morto di Aids tra le mie braccia.
Ho cercato la verità, nei rosari che la mia santa madre recitava per me, prete molto diverso dal prete che teneva nella sua testa.
Ho cercato la verità, nel Parco Lambro, negli anni ottanta, assistendo giovani in overdose.
Ho cercato la verità, nei commenti biblici, stupendi, del mio cardinale di Milano.
Ho cercato la verità, nei viaggi del pellegrino Wojtyla.
Ho cercato la verità, nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.
Ho cercato la verità, nelle storie degli ultimi e dei diseredati.
Ho cercato… talvolta nell’affanno, tal’altra nella pazienza; talvolta nella confusione, tal’altra nel silenzio.
Una notte inginocchiato nella mia cameretta, recitavo Compieta.
Ho sentito battere al mio cuore.
Ho detto: avanti.
Ero assonnato e stanco.
Solo dopo qualche minuto mi sono accorto chi era.
«Sono la fede! So che mi hai cercato per tanto tempo…lo sai bene anche tu, che la fede non si cerca dove non è…perché la fede è LUI…e LUI è… l’irruzione, la gratuità, la meraviglia… Lui è quello che ha detto: «Cercate la verità, amando».
Smetti di cercare.
Aspetta perché arriverà.
Sono venuto a dirtelo.
Accendi la lampada e spegni i ragionamenti nella tua testa.
Perché LUI entra dal cuore.
È l’unica porta che può riceverlo».
(Don Antonio MAZZI, Preghiere di un prete di strada).
Imparare a riconoscere Gesù Qualche volta noi ci crogioliamo un po’, ci lamentiamo col Signore, che non si manife-sta in maniera chiara, che non ci dice come fare.
Adagio adagio, però, si capisce che il Si-gnore vuole che noi cerchiamo, che cresciamo in questa ricerca.
Noi diventiamo veri ricer-catori di Dio cercando la sua volontà, cercandola in questa Chiesa, in questo mondo, in questa società, in queste situazioni difficili, crescendo nel dialogo, nella pazienza, nella sopportazione, nell’ascolto.
Così cresciamo.
Se no saremmo degli automi; se ogni mattina ci risvegliassimo col pro-gramma già fatto da Dio, allora non ci sarebbe più problema.
Invece siamo degli operatori attivi e cresciamo responsabilmente nel Regno di Dio, ricercando umilmente la sua volontà e purificandoci in questa ricerca.
Ciò vale anche per la ricerca di Dio in se stesso, che è cre-scita purificante, faticosa, e se molti arrivano a non credere in Dio, non è perché abbiano più o meno argomenti di noi, ma perché si sono stancati di cercarlo, cioè hanno finito di fare il vero mestiere di uomo che è mettersi di fronte alla verità.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 57-58).
Il mio Regno non è di questo mondo Ascoltate, giudei e gentili; ascoltate circoncisi, ascoltate incirconcisi; ascoltate, regni tut-ti della terra: «Io non intralcio la vostra sovranità in questo mondo.
Il mio Regno non è di questo mondo (Gv 18,36)».
Non lasciatevi prendere dal vano timore da cui fu colto Erode il Grande, quando gli fu annunciato che era nato Cristo e, nell’intento di far morire Gesù, uccise così tanti bambini (cfr.
Mt 2,3.16).
«Il mio Regno non è di questo mondo», dice Gesù.
Che volete di più? Venite nel Regno che non è di questo mondo; venite con fede e non vo-gliate diventare crudeli per la paura! È vero che in una profezia Cristo, parlando di Dio suo Padre, dice: «Da lui io sono stato costituito re sopra Sion, il suo monte santo» (Sal 2,6), ma quella Sion e quel monte non sono di questo mondo.
Che cos’è il Regno di Cristo? Sono quelli che credono in lui, a proposito dei quali egli dice: «Voi non siete del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,16), anche se egli voleva che rimanessero nel mondo, e per questo prega il Padre per essi: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodi-sca dal male» (Gv 17,15).
Per questo anche qui non dice: «Il mio Regno non è in questo mondo», ma dice: «II mio Regno non è di questo mondo».
E dopo aver dimostrato questo dicendo: «Se il mio Regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero per me, af-finché non fossi consegnato ai giudei» (Gv 18,36), non dice: «Ora il mio Regno non si trova in questa terra», ma dice: «Il mio Regno non è di questa terra».
Il suo regno, infatti, è in questa terra fino alla fine dei secoli, e porta in sé la zizzania mescolata con il grano fino al momento della mietitura, che avverrà alla fine dei tempi, quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, e toglieranno dal suo Regno tutti gli scandali (cfr.
Mt 13,38-41).
E questo non po-trebbe avvenire se il regno non fosse qui, sulla terra.
Tuttavia, non è di questa terra, poiché è in esilio in questo mondo.
A quelli che fanno parte del suo Regno egli dice: «Voi non sie-te del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo» (Gv 15,19).
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 115,2,NBA XXIV, pp.
1520-1522).
La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della cre-scita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.
Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di ac-cettazione da parte del genere umano.
L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita.
C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fis-sa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio.
Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui.
[…] Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165).
Preghiera Troppe volte, Signore Gesù, abbiamo rivolto il nostro cuore ad altri sovrani, ai vari dominatori del mondo.
Troppe volte, dominati dall’ansia del futuro e dall’angoscia del pericolo, ci rivolgiamo ad altri «re».
Solo l’amore e la fiducia che ne deriva liberano l’uomo dalla fobia e dalla tirannia della sua presunzione.
Oggi, Signore, ci inviti ad alzare il capo e a guardare nel tuo futuro.
Tu, Re di misericordia, ricordati di noi nel tuo Regno, facci percepire il palpito del tuo cuore.
Un mondo disgregato dalla diffidenza, dal dubbio e dallo scetticismo trova solo in te la salvezza.
Il tuo Regno non è fatto di splendido isolamento, ma di profonda solidarietà con l’umanità redenta.
Il tuo Regno non impone diffidenza, ma libera, salva, assicura speranza.

XXXIII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Lectio – Anno B   Prima lettura: Daniele 12,1-3          In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.
Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.
Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.
I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.
          La struttura dei 14 capitoli del libro di Daniele, a cui appartiene il brano della prima lettura, è molto semplice.
Si tratta infatti di un libro nel quale prevale l’elemento narrativo, composto dal racconto delle vicende di Daniele alla corte del re Nabucodonosor (cap.
1-6), dalla descrizione delle sue visioni (capp.
7-12) e da tre episodi molto noti (il caso di Susanna, la confutazione dei sacerdoti del Dio Bel e l’uccisione del Drago-idolo: capp.
13-14).
Più complesso è invece il modo con cui questo libro biblico trasmette il suo messaggio.
Gli esegeti infatti collocano il libro di Daniele al culmine di quella produzione letteraria che nel Giudaismo è conosciuta come letteratura apocalittica.
Questo genere letterario è stato molto utilizzato dagli autori dei testi apocrifici (quelli non accettati nel canone biblico): le loro immagini, le loro speculazioni sui numeri, le descrizioni di grandi bestie e di angeli, i segni premonitori della fine del mondo sono stati utilizzati (ma molto più sobriamente) anche dagli autori di alcuni libri biblici o di parti di essi (Daniele, parti di Is, Ez, Zc, Apocalisse).
     Il contenuto dell’apocalittica è racchiuso nel significato stesso di questo termine, che in greco significa «rivelazione».
Al popolo biblico (e nel NT alla comunità cristiana) che si sente sfiduciato e che sta per cedere alla tentazione di sentirsi definitivamente abbandonato dal suo Dio, l’autore sacro assicura la «rivelazione» di Dio attraverso visioni, sogni, immagini e simboli che il destinatario sa comprendere e interpretare (a differenza della difficoltà che incontriamo noi oggi).
L’angoscia dei tempi di persecuzione (sia per il popolo biblico che per i cristiani) favoriva l’utilizzazione del genere letterario dell’apocalittica; esso solo permetteva di proiettare l’attuale situazione di sofferenza nella vittoria definitiva che Dio avrebbe saputo riportare sul male e sui persecutori del suo popolo.
Il momento dell’angoscia e della persecuzione veniva così considerato come via alla definitiva vittoria di Dio e dei buoni.
     In questo contesto va letto anche il brano della prima lettura.
«Il tempo di angoscia» va compreso alla luce della riflessione che l’apocalittica fa sul momento presente della persecuzione: esso è preludio alla vittoria di Dio e del bene, non alla sconfitta e all’annullamento del suo popolo.
«Si troverà scritto nel libro» è l’immagine biblica che rasserena l’uomo: egli fa parte del progetto di Dio («il libro»), un progetto buono e destinato a realizzarsi nel bene; perciò l’uomo non deve temere né il fallimento né l’abbandono.
«Michele» è uno degli angeli che l’apocalittica colloca a protezione delle nazioni.
Secondo l’angelologia giudaica ogni nazione ha un angelo protettore, descritto spesso come «capo» o «principe» o «comandante» di eserciti celesti (cf.
Dan 10,13).
     «Vita eterna e l’infamia eterna» esplicitano la condizione dell’uomo davanti a Dio, dopo la risurrezione, a seconda del ruolo che ciascuno ha rivestito nella vita presente.
Il momento della persecuzione sembra dar ragione ai più forti e alle potenze del male e sembra porre fine a tutto ciò in cui il popolo biblico ha sempre creduto.
La «rivoluzione» che Dio fa al suo popolo è che la vera sorte e il vero destino dell’uomo sono definiti da Lui nell’aldilà e non nell’alternarsi continuo delle vicende di questo mondo.
  Seconda lettura: Ebrei 10,11-14.18          Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati.
Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi.
Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.
Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.
       La lettera agli Ebrei propone il tema del sacerdozio di Cristo, un tema che non viene trattato esplicitamente nei Vangeli.
Nell’esporre la sua riflessione, l’autore di questa lunga «omelia» (come viene definita la Lettera agli Ebrei) si sofferma ora sul confronto tra il sacerdozio dell’AT e quello di Gesù, evidenziandone le differenze.
Il primo era ereditario nell’ebraismo, infatti, la carica di sommo sacerdote (almeno fino ai tempi di Erode il Grande) era a vita e veniva trasmessa ai discendenti.
Inoltre ad esso poteva accedere solo chi apparteneva alla tribù sacerdotale di Levi.
Nel NT, invece, il sacerdozio costituisce uno speciale rapporto tra il credente e Gesù, una particolare chiamata, una risposta radicale alla sua sequela, cioè una vocazione.
     I sacerdoti dell’AT ripetevano ogni giorno e ogni anno gli stessi sacrifici e le stesse feste, senza tuttavia ottenere la salvezza e il perdono definitivo («Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati»).
Il sacrificio di Gesù, invece, è definitivo ed esaustivo: con l’offerta di se stesso al Padre sulla croce ha ottenuto «una volta per sempre» la salvezza per tutta l’umanità.
     L’espressione «si è assiso per sempre alla destra di Dio» (che ricalca il Salmo 110 messianico-sacerdotale) sottolinea l’unicità («una volta per sempre») e la definitività del sacerdozio di Cristo; l’intronizzazione di Cristo alla destra di Dio dice eloquentemente che la sua opera «sacerdotale» è stata perfetta e non ha bisogno di essere ulteriormente completata con ripetizioni di riti e sacrifici, come invece avveniva nel sacerdozio levitico.
     Fondamentalmente il sacerdozio di Cristo consiste nell’aver egli sempre compiuto la volontà del Padre e nell’essersi offerto a lui nella totale disponibilità del suo essere (come le vittime sacrificate), fino ad accogliere docilmente la croce per la salvezza definitiva dell’umanità.
  Vangelo: Marco 13,24-32          In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria.
Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
     Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina.
Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.  In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga.
Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».
    Esegesi      Il brano evangelico contiene la conclusione del «discorso escatologico» di Gesù.
In questo discorso sugli «ultimi avvenimenti» (come significa in greco il termine éscathon) si intrecciano e si sovrappongono vari elementi: la descrizione della distruzione del tempio di Gerusalemme la descrizione della fine del mondo, l’esortazione alla vigilanza e il ricorso ad alcuni temi cari al genere letterario dell’apocalittica.
Gli studiosi hanno cercato di collocare in un certo ordine tutto questo complesso materiale e di interpretarlo per una migliore comprensione del messaggio che l’evangelista vuole comunicare al lettore (cf.
J.
Dupont, La distruzione del tempio e la fine del mondo.
Studi sul discorso di Mc 13, Ed.
Paoline, Roma 1979, pp.
44-54).
     Questo messaggio è profondamente radicato nella Bibbia e nella persona di Gesù.
La Bibbia annuncia in ogni sua pagina l’avvento del Regno di Dio e Gesù realizza nella sua persona e nella sua vita questa promessa.
Il nostro brano utilizza le immagini del genere letterario dell’apocalittica («in quel giorno», «quella tribolazione», «il Figlio dell’uomo venire sulle nubi», «il sole si oscurerà»), ma il contenuto e totalmente aperto alla salvezza portata da Gesù e alla sua presenza nel mondo, da Lui amato e salvato (a differenza delle immagini apocalittiche che lo vedono destinato alla catastrofe).                                 Questa salvezza è stata possibile grazie all’incarnazione di Gesù e alla sua obbedienza al Padre, accettata fino alle estreme conseguenze, compresa l’esclusione dalla sua rivelazione di quanto in essa non rientrava (la conoscenza e la divulgazione del momento preciso della fine del mondo).
Anche il cristiano deve rinunciare a calcoli cronologici, ma deve spendere ogni giorno della sua vita aderendo alle parole e al vangelo di Gesù, che realizzano la promessa biblica del Regno di Dio, «vicino» ad ogni generazione che si succede.
     Meditazione      La liturgia della Parola di questa penultima domenica del tempo ordinario ci pone di fronte ad alcuni interrogativi essenziali che orientano ad una interpretazione del tempo e della storia in rapporto con Dio.
Il frammento tratto dal libro di Daniele e la pericope del racconto di Marco, che fa parte del più lungo discorso di Gesù riportato in questo vangelo, aprono il nostro sguardo sugli eventi riguardanti gli ultimi tempi (ta eschata, le ‘cose ultime’): hanno come orizzonte il limite estremo del tempo storico, cioè il momento in cui quest’ultimo cadrà per fare posto al mondo futuro.
Questi testi sono accomunati dall’uso dello stesso linguaggio apocalittico, ricco di simboli e immagini, che si presentano non tanto come una descrizione anticipata, puntuale e cronologica di eventi futuri, quanto piuttosto come un simbolo (che deve perciò essere decifrato) di una realtà di giudizio (salvezza o condanna) che riguarda un compimento il cui risultato non dipende da una iniziativa umana, ma è puro dono di Dio.
Se il mezzo espressivo di questo genere letterario utilizza immagini che richiamano tempi di guerre e di divisioni, di catastrofi cosmiche, sotto il segno di una grande subitaneità che crea angoscia e smarrimento, il messaggio da ricercare dietro questi simboli riguarda realtà esistenziali che mettono in relazione la nostra storia con il disegno esso di Dio su di essa.
Dunque, come collocarsi di fronte a questi testi? Che cosa è impor-tante in questa visione della storia e del suo fine? Quale è il punto focale di questa Parola? Certamente, ad una prima lettura di questi testi, viene spontaneo un paragone tra le immagini utilizzate da Mc 13,24-25 e dal profeta Daniele (Dn 12,1: «Sarà un tempo di angoscia come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni…») e gli eventi che viviamo.
E, inevitabilmente, rimaniamo inquietati da un confronto tra queste parole piene di morte e di devastazione e ciò che oggi vediamo nel mondo.
«In quei giorni…
le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte» (Mc 13,25).
Non è quello che scorre sotto i nostri occhi? Una creazione che sembra ripiombare nel caos iniziale, che si rifiuta di obbedire all’uomo, e una umanità disorientata e lacerata da tante divisioni, incapace di guardare con speranza la storia.
Si percepisce un senso di fine e, sicuramente, un mondo sta per terminare.
Ma è veramente questa la prospettiva di Dio? È questo ciò che, in particolare, Gesù vuole comunicarci?      Un primo messaggio che possiamo cogliere, soprattutto a partire dalle parole di Gesù riportate dall’evangelista Marco, riguarda il senso della storia, il suo orientamento.
Al di là degli eventi tragici che costellano il tempo dell’uomo, la creazione stessa, la nostra storia cammina verso una pienezza, verso un fine (e non verso la fine) che è l’incontro definitivo con Cristo, kyrios della storia; incontro che è nello stesso tempo salvezza e giudizio.
È Colui che viene (o erchomenos) il punto focale che deve catturare il nostro sguardo interiore: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria…» (Mc 13,26).
Gli eventi drammatici non sono altro che una sorta di chiaroscuro che annuncia questa luce sfolgorante, questo evangelo di salvezza; c’è come un passaggio da una creazione privata della sua potenza, ridotta al nulla, ad una nuova potenza che rinnova tutto, la potenza del Kyrios, del Veniente, colui che «viene sulle nubi con grande potenza e gloria».
È questo l’evangelo che illumina tutta la storia e la orienta al compimento.
Ecco il primo messaggio pieno di speranza che ci comunica questa parola di Gesù, così difficile e carica di angoscia: in un mondo che finisce (o meglio, che giorno dopo giorno si incammina alla fine), si avvicina sempre di più il momento in cui l’umanità è chiamata a vedere in volto Colui che dà il senso a tutta la storia, Colui che la guida in ogni suo passo, Colui che la riempie di bellezza e di pace.
La speranza matura proprio nel momento in cui le possibilità umane sembrano essere giunte ad un vicolo cieco, sembrano esaurirsi; proprio lì, inaspettatamente, ma in una fedeltà mai venuta meno, si apre un orizzonte infinito e si comprende che c’è qualcuno al di là degli avvenimenti, anche quando questi sono segnati dal male e dalla morte.
     L’arrivo e l’incontro con il Veniente ha come frutto, nella storia, il compimento di essa.
È questo il secondo messaggio offerto dal testo di Marco.
E la parola compimento è una parola che apre al futuro, che lascia intravedere un nuovo inizio, che è carica di novità, di bellezza, di perfezione.
Ciò che all’uomo appare come conclusione e dunque morte definitiva di un mondo, di una storia, di una umanità, nello sguardo di Dio diventa occasione di creazione rinnovata, di amore ridonato, di novità di vita.
Anche se a noi pare strana, la logica di Dio è però la logica pasquale: dalla morte alla vita, e non viceversa.
E il testo di Marco descrive questo compimento non come giudizio sull’umanità (anche se questo è un tema fondamentale nei discorsi escatologici), ma come comunione e unità: «Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti…» (13,27.
Cfr.
anche Dn 12,2-3).
Il movimento è, dunque, dalla dispersione del popolo di Dio su tutta la terra, alla riunione nel regno alla fine dei tempi; il punto di arrivo è così la comunione in un incontro.
Ciò che segna la fine di questo mondo non è la distruzione, la morte, il caos: questi sono solamente una sorta di dolori del parto che preannunciano qualcosa di nuovo.
La novità sta nella nascita di una umanità che entra definitivamente nell’incontro con il suo Signore, quell’umanità che ha saputo attendere con pazienza «quei giorni» e che nel momento scelto da Dio «vedrà il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con gloria e potenza grande» e che «riunirà i suoi eletti» da tutti i luoghi in cui erano dispersi.
     Ma nel ‘frat-tempo’ il discepolo come deve comportarsi? Rimandato alla storia, che è attesa di questo incontro, che cosa deve fare il credente? Nella risposta a questi interrogativi sta un terzo messaggio che questa parola di Gesù ci offre.
Il discepolo deve imparare a discernere, a guardare per comprendere e per conoscere ciò che avviene.
Il discepolo deve abituare lo sguardo a cogliere i segni di questo incontro sempre rinnovato.
Bisogna saper leggere tutti quei segni, piccoli o grandi, di cui è disseminata la nostra storia e che ci aprono alla speranza.
E una umile pianta, il fico, ci ricorda Gesù, può aiutarci a comprendere questo: «Dalla pianta del fico imparate la parabola» (13,28).
Quando il fico incomincia a produrre le gemme e sui suoi rami crescono le prime foglie, ecco che si avvicina il tempo del raccolto, il tempo della gioia.
La nostra storia è paragonabile a quella pianta di fico: in essa, per chi sa guardare con occhi di novità, sono disseminate tante gemme, piccoli annunci di vita.
Essi ci dicono che il tempo della salvezza è già operante in mezzo a noi, che questo mondo è stato salvato dall’amore di Dio e che tocca a ciascuno di noi essere attenti per cogliere quella parola di salvezza che il Signore stesso vuole donarci.
     E infine Gesù ci dona anche un punto di appoggio saldo per poter discernere: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (13,31).
La parola di Gesù è, in fondo, ciò che ci permette di camminare in questa storia, attendendo l’incontro con Lui, senza perdere il cammino, ma imparando a leggere ogni segno che incontriamo su di esso.
Anche se la strada a volte è buia, anche se la nostra storia non sembra andare verso una meta, ma verso una fine, anche se spesso i cammini che incontriamo ci disorientano, abbiamo ricevuto dal Signore un appoggio sicuro: la sua parola che non passa, che non perde la sua forza, che contiene tutto il suo amore fedele, che è speranza.
Nella sua parola la vita continua, anche quando attorno a noi sembra finire (il cielo e la terra passeranno).
In questo tempo di attesa, veramente il Signore ci chiede una sola cosa: appoggiare tutta la nostra vita sulla sua parola e con pazienza, come la sentinella nella notte, attendere l’albeggiare della sua venuta.
    Preghiere e Racconti Cambiare la storia Chi spera cammina, non fugge! Si incarna nella storia! Costruisce il futuro, non lo attende soltanto! Ha la grinta del lottatore, non la rassegnazione di chi disarma! Ha la passione del veggente, non l’aria avvilita di chi si lascia andare.
Cambia la storia, non la subisce! (don Tonino Bello) Dopo l’11 settembre Il paradosso del nostro tempo nella storia è che abbiamo edifici sempre più alti, ma moralità più basse, autostrade sempre più larghe, ma orizzonti più ristretti.
  Spendiamo di più, ma abbiamo meno, comperiamo di più, ma godiamo meno.
Abbiamo case più grandi e famiglie più piccole, più comodità, ma meno tempo.
  Più conoscenza, ma meno giudizio, più esperti, e ancor più problemi, più medicine, ma meno benessere.
  Beviamo troppo, fumiamo troppo, spendiamo senza ritegno, ridiamo troppo poco, guidiamo troppo veloci, ci arrabbiamo troppo, facciamo le ore piccole, ci alziamo stanchi, vediamo troppa TV, e preghiamo di rado.
  Abbiamo moltiplicato le nostre proprietà, ma ridotto i nostri valori.
Parliamo troppo, amiamo troppo poco e odiamo troppo spesso.
  Abbiamo imparato come guadagnarci da vivere, ma non come vivere.
Abbiamo aggiunto anni alla vita, ma non vita agli anni.
  Siamo andati e tornati dalla Luna, ma non riusciamo ad attraversare la strada per incontrare un nuovo vicino di casa.
Abbiamo conquistato lo spazio esterno, ma non lo spazio interno.
  Abbiamo creato cose più grandi, ma non migliori.
Abbiamo pulito l’aria, ma inquinato l’anima.
Abbiamo dominato l’atomo, ma non i pregiudizi.
Pianifichiamo di più, ma realizziamo meno.
Abbiamo imparato a sbrigarci, ma non ad aspettare.
  Costruiamo computers più grandi per contenere più informazioni, per produrre più copie che mai, ma comunichiamo sempre meno.
Questi sono i tempi del fast food e della digestione lenta, grandi uomini e piccoli caratteri, ricchi profitti e povere relazioni.
  Questi sono i tempi di due redditi e più divorzi, case più belle ma famiglie distrutte.
Questi sono i tempi dei viaggi veloci, dei pannolini usa e getta, della moralità a perdere, delle relazioni di una notte, dei corpi sovrappeso e delle pillole che possono farti fare di tutto, dal rallegrarti al calmarti, all’ucciderti.
  E’ un tempo in cui ci sono tante cose in vetrina e niente in magazzino.
Un tempo in cui la tecnologia può farti arrivare questa lettera, e in cui puoi scegliere di condividere queste considerazioni con altri, o di cancellarle.
  Ricordati di spendere del tempo con i tuoi cari ora, perché non saranno con te per sempre.
Ricordati di dire una parola gentile a qualcuno che ti guarda dal basso in soggezione, perché quella piccola persona presto crescerà e lascerà il tuo fianco.
  Ricordati di dare un caloroso abbraccio alla persona che ti sta a fianco, perché è l’unico tesoro che puoi dare con il cuore e non costa nulla.
  Ricordati di dire “vi amo” ai tuoi cari, ma soprattutto pensalo.
Un bacio e un abbraccio possono curare ferite che vengono dal profondo dell’anima.
Ricordati di tenerle le mani e godi di questi momenti, perché un giorno quella persona non sarà più lì.
  Dedica tempo all’amore, dedica tempo alla conversazione, e dedica tempo per condividerei pensieri preziosi della tua mente.
  E ricorda sempre: la vita non si misura da quanti respiri facciamo, ma dai momenti che ci tolgono il respiro.
(George Carlin).
Le due venute Noi annunciamo non solo una, ma due venute di Cristo, la seconda molto più risplendente della prima.
La prima si compì sotto il segno della pazienza, la seconda porta la corona del regno regale.
Per lo più, infatti, il Signore nostro Gesù Cristo si manifesta in duplice modo: in due nascite, una da Dio prima dei secoli e una dalla Vergine al compimento dei secoli; in due discese, una nel nascondimento come pioggia sul vello (cfr.
Sal 71 [72] ,6) e una che alla fine sarà manifesta; in due venute: nella prima, avvolto in fasce dentro la stalla e, nella seconda, avvolto da un manto di luce (cfr.
Lc 2,7; Sal 103 [104] ,2); nella prima, sottoposto all’umiliazione della croce che non giudicò vergognosa e, nella seconda, scortato da schiere angeliche nella gloria.
Crediamo fermamente, dunque, non solo alla prima venuta, ma attendiamo anche la seconda.
Se nella prima abbiamo detto: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 21,9), nella seconda ripeteremo di nuovo le stesse parole e così correndo incontro al Signore insieme agli angeli, prostrandoci diremo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 23,39).
Il Salvatore verrà di nuovo non per essere giudicato, ma per giudicare quelli che l’hanno giudicato.
[…] Viene il Signore nostro Gesù Cristo dai cieli, viene nella gloria nell’ultimo giorno; vi sarà infatti la fine di questo mondo e sarà creato un mondo nuovo.
Sarà rinnovata la terra sommersa da corru-zioni, furti, adulteri e ogni genere di peccati, il mondo bagnato di sangue misto a sangue (cfr.
Os 4,1), perché questa meravigliosa dimora dell’uomo non resti colma di iniquità.
Questo mondo possa perché ne appaia uno migliore.
[…] Passeranno le cose che ora vediamo e verranno quelle migliori che attendiamo, ma nessuno pretenda di sapere quando.
Sta scritto: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta» (At 1,7).
Non devi temerariamente pretendere di sapere che cosa accadrà dopo, né supinamente adagiarti nel sonno.
Sta scritto: «Vegliate perché nell’ora in cui non l’aspettate verrà il Figlio dell’uomo» (Mt 24,42.44).
(CIRILLO DI GERUSALEMME, Le catechesi 15,1.3-4, PG 33.869A-B; 872C-873; 876A).
La biblioteca di Dio Credo che in qualche punto dell’universo debba esserci un archivio in cui sono conservate tutte le sofferenze e gli atti di sacrificio dell’uomo.
Non esisterebbe giustizia divina se la storia di un misero non ornasse in eterno l’infinita biblioteca di Dio.
(Isaac Bashevis Singer).
Trova il tempo Trova il tempo di pensare; trova il tempo di pregare; trova il tempo di ridere.
  È la fonte del potere; è il più grande potere sulla terra; è la musica dell’anima.
  Trova il tempo per giocare; trova il tempo per amare ed essere amato; trova il tempo di dare.
  È il segreto dell’eterna giovinezza; è il privilegio dato da Dio; la giornata è troppo corta per essere egoisti.
  Trova il tempo di leggere; trova il tempo di essere amico; trova il tempo di lavorare.
  È la fonte della saggezza; è la strada della felicità; è il prezzo del successo.
  Trova il tempo di fare la carità; è la chiave del Paradiso.
(poesia scritta sul muro della Casa dei bambini di Calcutta).
  Insegnami ad usare bene il tempo Dio mio, insegnami ad usare bene il tempo che tu mi dai e ad impiegarlo bene, senza sciuparne.
Insegnami a prevedere senza tormentarmi, insegnami a trarre profitto dagli errori passati, senza lasciarmi prendere dagli scrupoli.
Insegnami ad immaginare l’avvenire senza disperarmi che non possa essere quale io l’immagino.
Insegnami a piangere sulle mie colpe senza cadere nell’inquietudine.
Insegnami ad agire senza fretta, e ad affrettarmi senza precipitazione.
Insegnami ad unire la fretta alla lentezza, la serenita’ al fervore, lo zelo alla pace.
Aiutami quando comincio, perche’ e’ proprio allora che io sono debole.
Veglia sulla mia attenzione quando lavoro, e soprattutto riempi Tu i vuoti delle mie opere.
Fa’ che io ami il tempo che tanto assomiglia alla Tua grazia perche’ esso porta tutte le opere alla loro fine e alla loro perfezione senza che noi abbiamo l’impressione di parteciparvi in qualche modo.
(Jean Guitton)      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
 

Annale 2009

Presentazione   L’Annale è fedele al suo appuntamento annuale, grazie all’impegno dell’équipe dell’Istituto di Catechetica, con il valido contributo di J.
Gevaert, E.
Alberich e F.
Pajer.
La Rassegna documenta un’ampia parte della riflessione catechetica dell’anno 2008.
Sono state prese in considerazione 46 riviste per un totale di 204 articoli recensiti (5564-5768).
Le Riviste sono di 8 lingue diverse: 6 di lingua inglese, 7 di lingua tedesca-neerlandese, 17 di lingua italiana, 12 di lingua spagnola e portoghese, 3 di lingua francese e 1 di lingua slava.
Di queste riviste: 11 sono di catechesi, 12 di pedagogia religiosa, le altre 23 di diversi ambiti di teologia e pastorale.
Per quanto riguarda gli articoli presentati: 43 sono di lingua inglese (5564-5607), 32 di lingua tedesca-neerlandese (5608-5640), 76 di lingua italiana (5641-5717), 14 di lingua francese (5718- 5732), 31 di lingua spagnola e portoghese (5733-5764), 4 di lingua slava (5765-5768).
Le riviste da cui proviene il maggior numero di recensioni sono: Catechesi (22), Katechetische Blätter (16), Religious Education e Via, Verità e Vita (13), Lumen Vitae (12), Journal of Religious Education (11), British Journal of Religious Education (10), Revista de Catequese (8), Note di Pastorale giovanile (6), Notiziario UCN, Orientamenti Pedagogici, Rivista Lasalliana, Sinite, Didascalia, The Sower, Tijdschrift voor liturgie (5), Evangelizzare, Insegnare Religione, Misión Joven, Teología y Catequesis, Mission Today, Zeitschrift  für Pädagogik und Teologie, Kateheza (4), Rivista di Scienze dell’Educazione (3), Actualidad Catequética, Perspectiva Teológica, Religionsunterricht an hoeheren Schulen (RHS), Zeitschrift für Religionspädagogik, Erwachsenenbildung, Christlich-pädagogische Blätter (2).
La Rassegna è completata da 26 presentazioni di libri e documenti (9276-9302).
Il numero totale di recensioni risulta così di 230.
La scelta degli articoli realizzata dai collaboratori, interessa il pensiero e la ricerca catechetica, la formazione e la pedagogia religiosa.
Si estende, come ogni anno, su una gamma molto ampia di tematiche che vanno da temi generali sulla catechesi a temi specifici come l’iniziazione cristiana, il primo annuncio del Vangelo, l’educazione religiosa nella scuola, la pastorale dei giovani.
Per orientare la lettura indichiamo i principali nuclei tematici.
1.
L’area principale è quella dell’evangelizzazione e la catechesi.
Alcuni articoli trattano dell’evangelizzazione, altri, più di 20, affrontano temi generali di catechesi, una trentina aspetti più specifici come nuovo paradigma, catechesi e liturgia, catechesi familiare, catechesi mistagogica, la catechesi in relazione alla comunità.
Altri articoli, una ventina, si interessano della trasmissione della fede, la prima evangelizzazione, il primo annuncio del vangelo e i ricomincianti.
Molti contributi, più di 20, toccano il tema dell’iniziazione cristiana, si valorizza la catechesi degli adulti e il catecumenato, vengono proposti itinerari di educazione alla fede e itinerari catecumenali.
Diversi presentano la dimensione pedagogica: pedagogia della fede, pedagogia catechistica, pedagogia generativa, pedagogia iniziatica.
Alcuni contributi, non molto numerosi, si interessano della formazione dei catechisti.
Un numero monografico della Rivista Sinite studia il tema nel contesto della Spagna e dell’America latina:  Argentina, Brasile e Cile.
Non mancano diversi studi sulla storia della catechesi.
Sono invece pochi quelli che riguardano la storia dei catechismi.
Diversi articoli trattano dei Direttori per la catechesi, in modo speciale il Direttorio Generale nel X Anniversario della sua pubblicazione e il Direttorio per la catechesi del Brasile.
Nelle riviste latinoamericane sono numerosi gli articoli che riguardano la Conferenza di Aparecida e la preparazione della Missione continentale, trattano in modo particolare il tema del discepolato e la sequela di Gesù.
2.
La seconda grande area riguarda l’educazione religiosa, la pedagogia religiosa, la didattica della religione (35 articoli).
Alcuni articoli trattano dell’educazione in generale, altri invece temi più specifici: scuola cattolica, educazione e cittadinanza, educazione e valori.
Sono numerose le ricerche empiriche nel campo della pedagogia religiosa, soprattutto nel mondo anglosassone.
Non mancano gli studi sul tema del pluralismo religioso e l’educazione interreligiosa (11 articoli).
Viene studiato il tema del pluralismo religioso, viene proposto il dialogo interreligioso e interculturale, l’educazione interculturale e interreligiosa.  3.
L’anno 2008 ha visto la celebrazione del Sinodo su La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa e l’inizio della celebrazione dell’Anno Paolino, questo si riflette in un certo numero di articoli.
Sono più di 40 gli articoli che riguardano la Bibbia, che spaziano tra diversi temi, da quelli più culturali: la Bibbia nella Scuola, il “grande codice”,  Bibbia e cultura; a quelli più teologici e pastorali: Parola di Dio, Bibbia e catechesi, Bibbia e liturgia, Bibbia e giovani, la Bibbia nella parrocchia e in famiglia, la pastorale biblica.
4.
Un altro ambito che è stato preso in considerazione è quello che riguarda i giovani (20 articoli).
Diversi articoli trattano della realtà giovanile, altri più specificamente la pastorale dei giovani, soprattutto nel contesto di Italia e Spagna: giovani ed educazione, giovani e fede, giovani e dottrina sociale della chiesa, associazionismo giovanile.
5.
Annale raccoglie anche quest’anno alcuni Documenti pubblicati nel 2008: La misión continental para una Iglesia Misionera, promosso dal Celam per la chiesa latinoamericana, e Orientaciones para la animación bíblica de la pastoral della Conferenza Episcopale del Cile.
L’Annale chiude con la lista delle riviste recensite, l’indice onomastico e quello tematico-contenutistico.
Siamo certi che la presentazione di tanti articoli presi da Riviste specializzate permette di farsi un’idea, anche se approssimativa, di ciò che si muove nel campo della catechesi e della pedagogia religiosa in ambito cattolico e presso altre confessioni cristiane, in tante zone diverse del mondo.
L’Istituto di Catechetica sa di prestare un servizio utile all’offrire un ricco materiale altrimenti difficilmente accessibile o del tutto precluso.
  Corrado Pastore