V Domenica di Quaresima Anno C

V DOMENICA DI QUARESIMA   Lectio Anno c     Prima lettura: Isaia 43,16-21          Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo; essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi».
    v  Il brano fa parte del secondo Isaia, la cui raccolta comprende i capitoli 40-55, divisi in due serie di vaticini: gli inni di JHWH e di Israele (40-48) e gli inni di Sion Gerusalemme (49-55).
Il testo della lettura descrive la restaurazione di Israele come un nuovo esodo che supera in grandiosità quello dell’Egitto.
La pericope contiene una sintesi dei principali temi del profeta.
     Israele celebra sempre i prodigi dell’antico Esodo come il passaggio del Mar Rosso e la sconfitta degli Egiziani; quei prodigi non sono nulla in confronto a ciò che Dio sta preparando: gli esiliati ritorneranno direttamente attraverso il deserto, trasformato in oasi.
Le immagini della descrizione profetica sono molto belle.
Il profeta ha il dono di far rinascere la speranza.
L’inizio allude all’esodo dall’Egitto; le nuove gesta che stanno per essere descritte ne sono una sublimazione.
«Non ricordate più le cose passate» è espressione che segna il transito dal passato al futuro immediato; il ricordo è di per sé legge fondamentale; ricordare, trasmettere di generazione in generazione, proclamare le azioni di Dio; da questo nasce il senso della storia; però la memoria non deve essere una fuga psicologica nostalgica verso il passato ma deve aprirsi verso il futuro: è la profezia; la memoria si cambia in speranza; il paradosso della descrizione sottolinea la superiorità dell’avvenire e prepara gli uditori a farne l’esperienza: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto» (Is 43,19-20).
     La cosa nuova che sta germogliando, che Dio sta operando è la fine della prigionia; si tratta di un evento inatteso, senza precedenti; il nuovo prodigio sarà mirabile; come nell’esodo antico il mare era stato reso asciutto, così ora il deserto riceverà fiumi di acqua, così che tutti potranno essere dissetati.
Anche le bestie selvatiche saranno pacificate; il paradiso degli animali è la raffigurazione della giustizia che regnerà nel mondo.
La frase finale: «Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi» rivela che il nuovo esodo non produce una condizione magica di salvezza; la storia continua; la proclamazione della lode ha significato soltanto in un progresso storico.
  Seconda: Filippesi 3,8-14          Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore.
Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù.
Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata.
So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
              v Il tratto della lettura si trova nel punto in cui san Paolo polemizza contro i Giudei o i Giudeocristiani, che ritengono indispensabile la pratica della circoncisione anche per chi crede in Cristo.
Ora la nuova fede è unione totale a Cristo nella più grande libertà spirituale.
Anche la più scrupolosa osservanza della legge è solo pratica umana, che appartiene alla sfera della carne.
L’incontro di Paolo con Gesù è il suo unico centro di orientamento e di interesse; tutto il resto non vale.
     San Paolo, che apparteneva all’ebraismo, ha reputato i vantaggi che gliene potevano provenire come una perdita a confronto del guadagno della persona di Gesù Cristo che egli ha incontrato.
La conoscenza di Cristo accordata all’apostolo sulla via di Damasco ha iniziato un rapporto tra lui e Cristo che è infinitamente superiore a tutti i privilegi del passato.
Ciò che prima egli teneva in grandissima considerazione ora è diventato come spazzatura, come immondizie.
Lo scopo è guadagnare Cristo; ciò significa avere di lui non soltanto una conoscenza intellettuale, ma una comunione di vita intima; la quale viene significata con l’espressione: essere trovato in lui.
Questa identificazione mistica con Cristo fa si che l’apostolo è rivestito dalla giustizia della fede la quale proviene dal dono di Dio.
Le parole che seguono descrivono la relazione di Paolo con Cristo; egli desidera arrivare a conoscere la potenza della sua risurrezione, ad avere la partecipazione alla sofferenza del Signore per comunicare alla sua condizione di risuscitato.
         Una tale tensione di assimilazione a Cristo non diventerà perfetta che al momento della morte: «Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore.
Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù.
Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata.
So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù (Fil 3,8-14)».
Questa descrizione che san Paolo fa per se stesso costituisce la fenomenologia della vita di fede, della vita cristiana; essa è un continuo tendere alla meta più alta, mai raggiungibile perfettamente fin che siamo nell’esilio terreno; l’influsso di Cristo pone il credente nella situazione di assimilarsi a lui, di identificarsi in un certo modo con lui, nelle sofferenze e poi nella risurrezione di cui i sacramenti hanno già deposto il germe; l’ultimo traguardo sarà raggiunto dopo la vita terrena, nella esistenza futura.
  Vangelo: Giovanni 8,1-11          In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi.
Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui.
Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.
Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa.
Tu che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra.
Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra.
Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.
Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
Ed ella rispose: «Nessuno, Signore».
E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
       Esegesi      Il brano della lettura che contiene il racconto dell’incontro di Gesù con la donna adultera, è collocato nella prima parte del vangelo, denominata: libro dei segni.
Tuttavia l’opinione comune degli studiosi è che questo racconto non sia giovanneo.
Esso infatti interrompe la sequenza dei discorsi tenuti nella festa delle capanne, è omesso da molti testimoni importanti, era sconosciuto ai santi padri e manca in molte versioni antiche.
Lo stile letterario è affine a quello di Luca e si pensa che probabilmente faceva parte del suo vangelo.
Una delle ragioni per cui può essere stato collocato qui sta nel fatto che l’episodio è una illustrazione di quanto Gesù dirà in Gv 8,15: «Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno».
     I nemici di Gesù cercano di metterlo in difficoltà proponendogli un caso difficile, in modo che qualunque sia la sua risposta possa essere rivolta contro di lui.
«Gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.
Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa.
Tu che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo» (Gv 8,3-5).
È un caso di adulterio; la legge puniva di morte tale trasgressione.
Coloro che interpellano Gesù pensavano di avere buon gioco contro di lui; se avesse detto che la colpevole non doveva essere lapidata, l’avrebbero accusato come violatore della legge; se l’avesse condannata, si poteva accusarlo di durezza di cuore, di mancanza di misericordia.
     Gesù di fronte alla proposizione del caso si mette a scrivere in terra; questo gesto ha dato luogo a molte congetture; con esso molto probabilmente il Signore intende mostrare il proprio disinteresse per quanto stava accadendo.
È caratteristico che Gesù si rifiuti di trattare il caso come una questione puramente legale; egli trasferisce il caso sul livello pratico; quando si trattava di una sentenza capitale il testimone a carico doveva essere il primo a dare inizio all’esecuzione secondo la prescrizione: «La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per farlo morire; poi la mano di tutto il popolo» (Dt 17,7).
Gesù invita gli astanti a pensare anzitutto se la loro coscienza li proclama degni di essere giudici e condannatori: «Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra» (Gv 8,7-8).
Rendendosi conto della ineccepibilità della risposta di Gesù e avvertendo anche un senso di vergogna per avere cercato di sfruttare l’umiliazione di una donna allo scopo di mettere in difficoltà Gesù, gli accusatori si allontanano cominciando dai più vecchi.
     A questo punto si delinea l’incontro tra Gesù e la donna; è l’incontro dell’innocenza con chi ha commesso peccato: la scena diventa una illustrazione plastica dell’invito al pentimento.
Dio odia il peccato e ama il peccatore; tale atteggiamento si attua in Gesù.
Il quale, benché non giudichi e non condanni, invita la donna a non peccare più: «Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.
Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
Ed ella rispose: «Nessuno, Signore».
E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,9-11).
La legge condanna il peccato non perché gli uomini si giudichino a vicenda, ma perché essi sentano il bisogno di essere salvati da Dio.
Gesù porta in sé questa salvezza: odia infinitamente il peccato, ama infinitamente il peccatore.
Questo è possibile soltanto a Dio.
  Meditazione      Il volto di Dio che la parabola di Lc 15,11-32 ci ha rivelato nell’abbraccio accogliente del padre misericordioso (il testo evangelico della IV domenica di Quaresima) si riflette nello sguardo e nella parola che Gesù rivolge a una donna adultera in procinto di essere condannata alla lapidazione dagli scribi e dai farisei, secondo i dettami della legge mosaica.
Il perdono che Gesù offre a questa donna è come un cammino rinnovato, una rigenerazione, una possibilità inaspettata di salvezza.
Solo Dio ha il coraggio di dimenticare ciò che è passato e aprire «nel deserto una strada» (Is 43,19) che conduce al luogo della vita e della pace.
La parola di Gesù è come un balsamo che ridà alla donna peccatrice la forza per camminare nuovamente verso la vita: «neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).
Lo sguardo di quella donna, attraverso la potenza e la gratuità del perdono, è ormai proiettato verso un futuro carico di speranza; il peccato che la tratteneva prigioniera è alle spalle, è passato, è stato consumato dalla misericordia di Gesù.
Sulle labbra di quella donna si potrebbero porre le parole con cui Paolo esprime la dinamica della sua vita, ormai afferrata dall’amore di Cristo: «dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta…
mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (Fil 3,12-14).
     Il racconto di Gv 8,1-11 è realmente una parabola che ci rivela la capacità di Dio di creare e rinnovare la vita dell’uomo.
La promessa di Dio ai deportati di Israele a Babilonia, riportata nel testo di Isaia (prima lettura), trova come una realizzazione personale nel cammino di vita che Gesù apre a una donna peccatrice: «Non ricordate più le cose passate – dice il Signore attraverso il suo profeta – non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova» (Is 43,18-19).
E sotto il segno della novità è, infatti, tutto l’episodio dell’incontro di Gesù con la donna adultera.
Sorprendentemente questa pericope, inserita nel racconto di Giovanni, ma mancante in molti manoscritti del quarto vangelo, ci è stata conservata come un racconto a se stante, irriducibile alle tradizioni evangeliche che noi conosciamo.
     Pur presentando agganci con lo stile narrativo di Luca (si pensi all’episodio quasi speculare dell’incontro di Gesù con la peccatrice nella casa di Simone in Lc 7,36-50), questo racconto è carico di originalità, nella forma, ma soprattutto nel contenuto.
E probabilmente il comportamento di Gesù è apparso scandaloso alla stessa comunità cristiana, se ha faticato a inserirlo nel canone dei vangeli.
Certamente, in questo racconto si cammina sul filo del rasoio.
Si ha quasi l’impressione che la gravità di un comportamento moralmente negativo non venga presa in seria considerazione dalle parole di Gesù.
Ma tutto, in questo racconto, conduce a un luogo di rivelazione: il cuore di Dio colmo di compassione.
Si può allora dire – e questo di per sé è già un messaggio fondamentale – che l’agire inaudito di Gesù, il perdono e la misericordia che emergono nell’incontro con i peccatori, sono il riflesso di quel volto di Dio a cui la stessa comunità cristiana è chiamata a convertirsi.
Il testo di Gv 8 diventa come una icona che deve plasmare e motivare non solo il cammino personale di conversione, ma la prassi ecclesiale di fronte a ogni peccatore.
Anche la comunità dei credenti deve incessantemente mettersi alla scuola di Colui che ha detto: «voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno» (Gv 8,15).
     Possiamo cogliere il centro del racconto proprio a partire da Gesù, dal suo sguardo su coloro che gli stanno di fronte (gli scribi, i farisei, la donna adultera), dalle sue parole, dai suoi silenzi (essenziali e autorevoli), dai suoi gesti, misteriosi ed eloquenti allo stesso tempo.
Parole, silenzi, gesti, sguardo, hanno il peso del giudizio di Dio e, nella misura in cui vengono accolti e lasciati macerare nel cuore, aprono l’orizzonte interiore spostando il nostro sguardo dalla realtà del peccato (che non viene assolutamente minimizzata) al volto stesso di Dio.
E ancora una volta ci viene rivelata l’autentica traiettoria della conversione, la forza che permette un cammino di liberazione dal peccato: il perdono inaspettato e totalmente gratuito di Dio.
     E in questa dinamica di liberazione, in questo paradossale esodo interiore, sono invitati a entrare sia la donna adultera che gli scribi e i farisei.
Ci soffermiamo soprattutto sul confronto tra Gesù e gli scribi e i farisei.
Coloro che conducono davanti a Gesù una donna, colta in flagrante adulterio, possiedono già una chiave di lettura della situazione in cui quella donna è stata coinvolta.
Si tratta della legge di Mosè, un testo della Scrittura che prevede una soluzione drastica per questa sorta di peccato: la lapidazione (cfr.
Lv 20,10 e Dt 22,21).
La sicurezza di questi uomini (hanno la parola di Dio dalla loro parte) contrasta con il fatto che esigono da Gesù un coinvolgimento, un’interpretazione del caso.
Perché rivolgere a Gesù quella domanda – «ora Mosè nella legge ci ha comandato di lapidare donne come questa.
Tu che ne dici?» (v.
5) – quando il ‘caso’ era già risolto nella Legge? C’è forse un desiderio di uscire dalle strettoie legalistiche per percorrere una via nuova oppure c’è l’intenzione di mettere alla prova Gesù, metterlo in contrasto con Mosè?      Questi maestri si aspettano che Gesù rompa il silenzio iniziando la sua risposta con quella parola che spesso hanno udito: «Mosè vi ha detto…
ma io vi dico…».
Ciò che Gesù fa, invece, è sorprendente e mette costoro con le spalle al muro.
In due successivi momenti, ritmati dal silenzio e dalla parola, Gesù riesce a creare il vuoto attorno a questi uomini e, quasi sospendendoli su di esso come su di un abisso, li obbliga a spostare lo sguardo sul loro cuore, sul loro comportamento, sul loro modo di giudicare, sul loro modo di rapportarsi a Dio.
E tutto avviene attraverso un gesto e una parola.
Un gesto misterioso ripetuto due volte, un gesto che ha suscitato molte interpretazioni: «Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra…
e chinatesi di nuovo, scriveva per terra» (vv.
6,8).
È un gesto profetico, simbolicamente carico della forza del giudizio di Dio su ogni uomo, un gesto che potrebbe tradurre questa parola di Geremia: «coloro che si allontanano da me, saranno scritti per terra» (Ger 17,13).
Gesù non pronuncia alcun giudizio contro questi uomini così sicuri della loro giustizia; li rimanda al tribunale della loro coscienza perché in esso facciano la verità.
E la parola che finalmente Gesù pronuncia, rompendo quel silenzio carico di attesa, è come una spada che penetra nel cuore di questi uomini: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v.
7).
Gesù non nega il giudizio di Dio o la Legge e neppure chiede pietà per la donna, scusandola o difendendola per un peccato che sicuramente ha commesso; vuole che ciascuno rivolga il giudizio della parola di Dio anzitutto verso se stesso.
Adulteri o no, tutti siamo peccatori e bisognosi di conversione e di perdono.
     Gesù vuole che il giudizio di Dio sia di Dio, non dell’uomo; l’uomo non può arrogarsi questo diritto.
E in Dio il giudizio non è mai senza una possibilità di salvezza, perché Dio non vuole la morte ma la vita.
E il cerchio mortale attorno a quella donna viene così spez-zato, aprendosi alla vita: «quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani» (v.
9), «accusati dalla loro coscienza», come aggiunge un manoscritto.
Ora Gesù è solo di fronte alla donna adultera.
E per quella donna la solitudine del peccato che quasi la rendeva anonima (è semplicemente una ‘adultera’; è identificata con il suo peccato, è prigioniera di esso) si apre all’incontro con la misericordia.
     Con una espressione lapidaria, sant’Agostino così dice: «rimasero solo loro due: la misera e la misericordia».
E il dialogo tra Gesù e quella donna rivela la profondità del cuore di Dio: è un dialogo in cui ogni parola trasmette compassione, pace, libertà, gioia; un dialogo in cui ogni parola è carica della serietà dell’amore di Dio e attende dall’uomo una risposta responsabile e fedele.
La parola di Gesù non è la parola di chi semplicemente invita a dimenticare e a fuggire un passato fatto di morte e di schiavitù, ma una parola che impegna a guardare la propria vita con serietà, con gli occhi di Dio, e ad aprirla a un orizzonte di grazia e di misericordia.
Quella donna perdonata perché non condannata ma salvata («neppure io ti condanno»), d’ora in poi dovrà vivere in conformità con la liberazione ricevuta («va’ e d’ora in poi non peccare più»).
L’essere perdonati gratuitamente, senza condizioni, è la forza per riprendere il cammino.
Possiamo mettere sulle labbra di questa donna, sulle nostre labbra di peccatori perdonati, queste parole tratte dal Sal 103,10-14 e dal Sal 32,1.11: «Il Signore non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe…
egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere»…
«Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato…
Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti! Voi tutti, retti di cuore, ridete di gioia».
    

III Domenica di Quaresima Anno C

  Lectio Anno c     Prima lettura: Esodo 3,1-8.13-15           In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.  L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto.
Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava.
Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?».
Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!».
E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe».
Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze.
Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».
Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”.
Mi diranno: “Qual è il suo nome?”.
E io che cosa risponderò loro?».  Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!».
E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”».
Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”.
Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».
    v Nei primi due capitoli del libro dell’Esodo abbiamo storie di oppressioni e violenze ai danni di un popolo che vive in schiavitù.
D’altra parte, anche l’iniziativa «autonoma» di Mosè fallisce perché offuscata da sospetti, ombre, paure.
Storia di miserie umane dove Dio non è presente.
Finché non giungiamo alla fine del cap.
2, vv.
23-24 «Gli Israeliti gemettero…
Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo, Giacobbe».
Vocazione e missione di Mosè si pongono ad immediato seguito di questa iniziativa libera e gratuita di Dio.
     — Il racconto della vocazione di Mosè contiene momenti caratteristici e costanti di simili narrazioni bibliche.
Abbiamo uno schema tripartito: a) chiamata di Dio (vv.
1-10); b) obbiezioni del vocato (vv.
11.13); c) il segno e la protezione di Dio (vv.
12.14-15)      Lo stesso schema si ritrova nelle vocazioni di Simeone, Isaia Geremia e nell’annuncio a Maria (Lc 1).
A motivo di un taglio notevole (vv.
8b-12), nella pericope liturgica non si percepisce bene la struttura «dialettica» di questa chiamata.
     Evidenziamo alcuni punti che aiutino alla comprensione ed all’approfondimento del testo:      — Simbolismo del fuoco che brucia senza consumarsi (vv.
2-3).
In Es 19,18 il Signore discende nel fuoco sul Sinai, lo fa tremare, ma non lo distrugge.
Simbolo fondamentale nelle teofanie, il fuoco esprime due aspetti della presenza di Dio: la sua trascendenza (il fuoco che brucia e non consuma è una realtà che non possiamo afferrare e dominare, ma ci sfugge e trascende); la vicinanza di Dio (il suo calore avvolge, illumina, riscalda).
     — Santità del luogo (v.
5).
Spesso ricordata nella Sacra Scrittura: vedi Gn 28,16 (santuario di Betel): Certo il Signore è in questo luogo, ed io non lo sapevo! Non l’uomo ma Dio, con la sua presenza, santifica un certo luogo.
Questo spazio santificato «preesiste alla coscienza dell’uomo» (G.
RAVASI) e questi, per accedervi, deve compiere un gesto di distacco e umiliazione, un gesto che qui si esprime nel togliersi i sandali (cosa che ancora vige nelle moschee).
     — Rivelazione del Nome divino (vv.
13-14).
Il «nome» corrisponde alla realtà stessa di Dio.
Così come viene espresso e spiegato, può aprirsi a vari livelli di comprensione:      • Mistero che sfugge: «Io sono colui che sono» è tautologia enigmatica ed apparentemente evasiva, che comunque lascia il suo essere nel mistero, senza chiarirlo: irraggiungibile e inconoscibile, il mistero di Dio non si lascia usare o definire dall’uomo.
     • La libertà di essere: il giro di frase, per cui si ripete quel che si è già detto (idem per idem) è tipico di alcune affermazioni divine in cui è messa in luce la sua libertà di essere e di agire.
Ad es.
in Es 33 19 Dio dice a Mosè: Faccio grazia a chi faccio grazia, uso misericordia con chi uso misericordia.
In altri termini Dio non si lascia sindacare o condizionare da niente e da nessuno; è misericordioso con chi vuole esserlo, fa grazia a chi vuole.
In tal senso, con l’espressione: Io sono colui che sono, Dio afferma che nel suo essere è determinato solo dal suo «volere»: veramente libero di essere quello che vuole essere!      • Nome di speranza.
Il verbo «essere» (hyh) in ebraico è verbo «attivo»; non indica uno stato, ma una attività.
In tal senso Dio si rivela a Mosè come Colui che è, che agisce e vale (a differenza degli idoli che sono un nulla, perché non contano e non valgono niente).
Alla luce di ciò, il versetto che conclude la nostra lettura assume tutto il suo spessore teologico: «Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”.
Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (v.
15).
«Per sempre», Dio è e sarà per il suo popolo quello che è, presente per liberarlo e guidarlo.
Dio, nel rivelare il suo nome, non consegna una definizione filosofica di esso (Io sono l’ESISTENTE), anche se questa verità è in fondo supposta, ma un solido titolo di speranza.
L’Apocalisse di Giovanni augura la grazia e la pace derivanti da «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,4).
  Seconda: 1Corinzi 10,1-6.10-12           Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo.
Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto.
Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono.
Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore.
Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi.
Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.
              v Nei capp.
8-10 della Prima Lettera ai Cor., Paolo affronta lo spinoso problema degli «idolotiti», ossia delle carni degli animali sacrificati agli idoli.
I resti di questi sacrifici venivano messi in vendita e regolarmente consumati dalla gente.
Per i cristiani di Corinto si poneva il problema, se fosse lecito o no consumare queste carni.
Pur affermando, da una parte, il principio della fondamentale libertà del cristiano (c.
8), testimoniato col proprio esempio (c.
9), l’Apostolo, d’altra parte, mette in guardia i Corinzi contro il pericolo di contaminazione e «connivenza» con gli ambienti pagani (c.
10).
La nostra pericope si inserisce esattamente al principio di questa lunga ammonizione, che parte dai castighi che colpirono i padri nel deserto a causa della loro infedeltà.
     — Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè…
tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, ecc.
(vv.
1-4).
I fatti principali vissuti da tutto il popolo d’Israele sono riletti alla luce della presente situazione dei cristiani, della loro vita sacramentale (battesimo, eucarestia, presenza del Cristo, ecc.).
Si noti l’insistenza martellante sul «tutti»: a nessuno furono negati i doni della salvezza, che prefigurano quelli del regime attuale dei cristiani.
Questo accostamento si fa in base alla continuità storico-salvifica che Dio stesso stabilisce tra i fatti dell’esodo e quelli della Chiesa.
Il Cristo, preesistente nella storia di Israele, è indicato sia da Mosè («battezzati in Mosè, come noi lo siamo in Cristo), che dalla «roccia» (una tradizione rabbinica voleva che quella roccia, simbolo della sapienza divina, accompagnasse Israele nel deserto).
     — La maggior parte di loro…
furono sterminati nel deserto (v.
5).
Nonostante tali privilegi, la maggioranza degli Israeliti merita il castigo divino.
Alla continuità salvifica si contrappone una «discontinuità» etica da parte di Israele.
     — Ciò avvenne come esempio per noi…» (vv.
6.11).
La parola italiana «esempio» corrisponde al greco «typos», che qui assume un duplice significato: prefigurazione ed esempio ammonitore.
Come prefigurazione, la storia dell’esodo anticipa, prepara ed è in funzione degli eventi vissuti dai cristiani, eventi ultimi e definitivi della storia della salvezza («è arrivata la fine dei tempi», v.
11).
     Come storia ammonitrice, quella dell’esodo ha la funzione di scuotere i corinzi dalla loro illusoria sicurezza («chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere»).
Non si tratta solo di stare in guardia contro la mormorazione (v.
10), ma soprattutto — stando ai vv.
7-9 stranamente omessi nel brano liturgico — di non incorrere nel peccato di idolatria, che equivale a fornicazione, di quanto porta a tradire Dio, per prostituirsi ad altri idoli.
     Pur restando saldo il principio della libertà, occorre evitare il peccato di presunzione, ed essere umili nel ruggire ogni occasione di comunione con gli idoli pagani (v.
14: «Fuggite l’idolatria»).
  Vangelo: Luca 13,1-9           In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici.
Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.
O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò.
Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo.
Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”.
Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime.
Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
                  Esegesi      La pericope si colloca in quella lunga sezione del vangelo di Luca riguardante il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51 – 21,27).
Gesti, insegnamenti, ammonizioni di Gesù sono «segnati» da questa tensione verso il compimento decisivo della sua missione, attraverso la passione, la morte, la risurrezione, e quindi dalla dimensione pasquale.
     In particolare, il vangelo di oggi si inserisce tra due momenti che ne caratterizzano ulteriormente il senso kerygmatico:      — prima, Gesù parla dei «segni dei tempi» invitando ad una condotta che ottenga il giudizio più benevolo possibile da parte di Dio (12,54-59);      — dopo, la guarigione della donna curva (13,10-17), che rivela potenza salvifica di Gesù, superiore allo stesso sabato, a favore di una «figlia di Abramo».
     In tale contesto il richiamo di oggi a due fatti di cronaca e la parabola del fico, assumono, il senso ineludibile di un invito alla conversione, in presenza di Gesù che sale a Gerusalemme e si immola per tutti, disposto ad attendere, ma ancora per poco, che rispondiamo alle sue chiamate.
     — Il vangelo si compone di due brevi sezioni, ognuna con la sua introduzione: la prima, un monito chiaro alla conversione, prendendo occasione da due fatti tragici (vv.
1-5); la seconda, una parabola che invita ad approfittare, finché dura, del tempo della grazia.
     — Tre annotazioni per evidenziare l’aspetto kerygmatico del testo.
     Prima: i due episodi di morte violenta (strage ordinata da Pilato e crollo della Torre di Siloe) hanno lo scopo di sottolineare come non sempre è da cercare un nesso diretto tra colpa e morte, peccato e infortunio (cf.
Gv 9 3) essi devono interpellare chi ascolta, e indurlo a conversione, per non essere impreparato se travolto da eventualità del genere.
     Seconda: in base al Lv 19,23 i frutti di un albero si possono cogliere solo al quarto anno.
Se il proprietario dice: «sono tre anni che vengo a cercare frutti» vuol dire che sono passati almeno sei anni da quando il fico è stato piantato.
Ma a parte questo lungo tempo, il fico gode del privilegio di essere piantato dentro il vigneto.
Albero di poco conto e ingombrante, il fico veniva solitamente piantato altrove, fuori della vigna per non sfruttare il buon terreno destinato alle viti.
Il che sottolinea sia la bontà del proprietario, sia il diritto che ha di aspettarsi dei frutti.
     Terza: concimare il terreno di un vigneto, di per se già di buona qualità è operazione insolita.
Il fatto che la proposta del vignaiolo non venga respinta – come sarebbe normale – ma accolta dal proprietario, sta ad indicare che egli non vuole risparmiare, ma è disposto a accordare tempi lunghi e a fare tutto il possibile per mettere il fico in condizione di portare frutti.
   — Queste concessioni gratuite e generose contengono una lezione chiara per ogni cristiano: se il giudizio di Dio «ritarda» e se la nostra vita e i benefici di Dio si prolungano nel tempo, tutto questo va letto come «segno» di un tempo di grazia, che urge mettere a frutto, prima che sia tardi.
       Meditazione      Ogni parola che Dio rivolge all’uomo esige non solo un ascolto attento e disponibile, ma soprattutto una scelta di vita che sia conseguente alla parola udita.
Non è importante il luogo che Dio sceglie per rivolgere la sua parola all’uomo: può essere un luogo misterioso e pieno di fascino in cui si può incontrare Dio nell’intimità di un dialogo e di uno sguardo pieno di stupore (è l’esperienza di Mosè sull’Oreb, narrata nel testo di Es 3,1-8); può essere la vicenda quotidiana dell’uomo con i suoi eventi drammatici e inquietanti, che esigono un discernimento per cogliere in essi un senso, una presenza che interpella, una parola di vita (cfr.
Lc 13,1-9).
Ma nel momento in cui l’uomo accoglie nella sua esistenza questa parola, la sua vita deve cambiare: c’è come uno ‘spostamento’, una ‘inversione di rotta’, una conversione.
     Così è avvenuto per Mosè nel terribile e affascinante incontro con quella misteriosa voce che lo chiamava dal roveto ardente.
Avvicinarsi a Dio (Es 3,3), essere da Lui chiamati e co-nosciuti per nome (v.
4), essere consapevoli dell’alterità e della santità di Dio (v.
5), accogliere la rivelazione del suo volto e del suo ineffabile nome (vv.
6.14-15), velarsi il viso consapevoli della propria indegnità (v.
6), essere inviati a testimoniare la compassione di Dio per il suo popolo (vv.
7-8), sono le tappe di una radicale conversione che Mosè deve compiere a partire da quella parola pronunciata da Dio dal fuoco del roveto.
E dal mo- mento in cui questa parola gli viene rivolta, Mosè ha un diverso rapporto con Dio, con il popolo, con se stesso.
Prende a cuore il progetto di Dio, la condizione del popolo oppresso; la sua stessa vita rimane come ferita da questa parola.
Ha scoperto l’iniziativa divina, che non può esser condizionata dal capriccio dell’uomo.
Non è più lui a decidere, ma è Dio a inviarlo (cfr.
il contrasto con l’episodio narrato in Es 2,11-15).
Mosè è giunto ad ascoltare la verità di Dio; da allora non ascolta più se stesso e come Abramo è costretto a lasciarsi condurre da Dio e dalla sua parola.
In Mosè il cammino di conversione alla parola di Dio sarà continuo e incessantemente ritmato da due domande che lo aprono alla consapevolezza della propria povertà e dell’infinita grandezza di Dio: «Chi sono io per andare dal farao-ne…?» (v.
11) e «Quale è il suo nome?» (v.
13).
     Lo stesso cambiamento di vita a partire da una parola udita è il messaggio che ci propone il testo di Lc 13,1-9.
La parola di Gesù di fronte a due avvenimenti di cronaca e la breve parabola del fico che non porta frutto, richiamano la necessità di saper leggere le parole di Dio negli eventi della storia per entrare e collocarsi in essa in una verità di vita, nella vigilanza e nel discernimento.
Si tratta di passare da una vita ‘in superficie’ a una vita ‘in profondità’, a una vita convertita alla logica di Dio.
Ecco perché di fronte alla negatività della storia, il discepolo di Cristo non può accontentarsi di una semplice cronaca o di un giudizio affrettato e rassicurante.
Con un tono che non lascia scampo, proprio a partire da due eventi drammatici noti a tutti (alcuni rivoltosi galilei uccisi da Pilato e alcune persone morte in seguito al crollo di una torre), Gesù pone ciascuno di fronte alla propria responsabilità e alla propria vita: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo steso modo» (v.
3).
Ogni segno presente nella storia, ricorda Gesù, ha sempre un risvolto personale: è un invito a cogliere l’importanza decisiva del tempo, la necessità di accogliere l’of-ferta di perdono da parte di Dio resa attuale nella parola e nella persona di Gesù.
E così di fronte a un evento drammatico, il discepolo è chiamato a esercitare un discernimento in cui deve lasciarsi coinvolgere come credente.
C’è un discernimento illusorio che divide i buoni dai cattivi in nome della giustizia (cfr.
la parabola della zizzania in Mt 13,24-30) o considera il male come inevitabile e fatale.
Il discernimento a cui invita Gesù apre a una lettura della storia in profondità: il tempo che ci è donato è in vista di una salvezza e gli avvenimenti contengono la parola accorata ed insistente di un Dio che ama la vita e ci chiama a condividerla con lui.
Ogni fatto, letto in questa prospettiva può essere un’occasione per mettere in gioco la nostra responsabilità, cambiare modo di pensare e di vivere, ma, soprattutto cambiare il nostro modo di rapportarci a Dio.
     Sotto questa angolatura, il tempo donato all’uomo in vista di una conversione si trasforma in tempo della pazienza (makrothumia) di Dio.
A questo ci orienta la breve parabola del fico sterile (vv.
6-9).
L’agire dei personaggi, in questa parabola, si colloca tra  l’ovvio e il paradossale.
È ovvio, per il padrone di una vigna, tagliare un albero da frutto piantato in mezzo a essa, un fico, che dopo alcuni anni non produce il raccolto desiderato (qui c’è anche un’allusione all’immagine della vigna che produce uva selvatica, in Is 5,1-7): «taglialo, dunque! Perché deve sfruttare il terreno?» (v.
7) dice quel padrone al suo contadino.
È paradossale la risposta del contadino al comando del suo padrone: «lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno…
vedremo se porterà frutti…
se no, lo taglierai» (vv.
8-9).
È una proposta che rasenta l’assurdo: come potrebbe portare ancora frutto questo albero sterile? Eppure quel contadino ha uno sguardo che va oltre il fallimento evidente: una possibilità e un tempo ulteriori, con un supplemento di cure, forse gioverà a quell’albero, tanto da poter dare il frutto sperato.
«Taglialo… lascialo!»: le due battute di questo breve dialogo ricordano quello tra Dio e Abramo a proposito della distruzione delle città del lago (cfr Gen 18,22 ss.).
Come Abramo, quel contadino fa emergere il desiderio di vita che, nonostante la dura e sofferta decisione, rimane nascosto nel cuore di quel padrone.
Fuori metafora, la parabola ci rivela il modo di agire di Dio.
Dio ha pazienza e il suo sguardo va lontano: non toglie gli occhi dal male e solo lui è capace di sopportare il male con tale sicurezza e fiducia, poiché sa come e quando intervenire.
La sua pazienza, allora, e spazio donato per la conversione e la salvezza Ecco perché il comportamento di Dio, proprio alla luce di questa parabola e per noi, così impazienti, tanto assurdo: sfocia nell’impossibile che, per Dio, diventa possibile.
Ma, possiamo ancora aggiungere, la pazienza di Dio ha un volto: Gesù.
Come non riconoscere nel contadino che implora una possibilità ulteriore, lo stile di Gesù che è venuto a chiamare i peccatori a conversione? Nella parabola Gesù rilegge la propria missione: tre anni di annuncio, di attesa perché il popolo porti frutto e alla fine un ultimo ed estremo tentativo…
«Gerusalemme, Gerusalemme quante volte ho voluto raccoglierei tuoi figli…
e voi non avete voluto!» (13,34).
     La parabola rimane aperta: non dice quale sia stato il risultato finale.
Tutto è rimandato alla responsabilità e alla capacità di accogliere questa possibilità e questo tempo donati.
Sta qui la serietà della conversione.
Lo spazio che ci è concesso non ha altra ragione di essere se non nel cuore stesso di Dio.
E non c’è altra forza che provochi una reale conversione se non la pazienza, la misericordia di Dio.
Possiamo invertire la rotta di un modo di essere sbagliato, non attraverso uno sforzo eroico di volontà, ma se impariamo a guardare noi stessi e gli altri con lo sguardo vasto, infinito di Dio.
Uno sguardo che va oltre i confi-ni delle nostre possibilità, del nostro giudizio, del nostro cuore Dio e abituato a vedere le cose in grande; come un contadino sa portare il peso del tempo dell’attesa, non rinuncia a lavorare, ha fiducia nelle potenzialità del terreno, pensa al frutto che può maturare.
Non ha piantato l’albero per tagliarlo, ma per raccoglierne i frutti.
        

I Domenica di Quaresima Anno C

I DOMENICA DI QUARESIMA   Lectio Anno c     Prima lettura: Deuteronomio 26,4-10           Mosè parlò al popolo e disse: «Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa.
Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù.
Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi.
Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele.
Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”.
Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio».
    v La bella professione di fede recitata dal singolo israelita, quando si presenta al sacerdote presso l’altare per offrire le primizie dei frutti della terra, rievoca sinteticamente la storia passata, scandita da quattro momenti fondamentali, nei quali si alterna per due volte il momento negativo con quello positivo (vv: 5-9): l) mancanza di una terra propria (neg.); 2) discesa in Egitto e crescita demografica (pos.); 3) oppressione da parte degli egiziani (neg.), liberazione con il conseguente dono della terra promessa (pos.).
Così si passa dalla terra non ancora posseduta alla terra ora abitata e coltivata, per dare una motivazione all’offerta dei frutti che da essa si sono ricavati.
       La tentazione poteva essere ora per Israele quella di dimenticare il Signore, che ha dato la terra e i frutti che essa produce; con l’offerta che se ne fa si riconosce questa dipendenza.
«Guardati dunque dal pensare: la mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze.
Ricordati invece del Signore tuo Dio perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 8,17-18).
     Seconda lettura: Romani 10,8-13           Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo.
Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.
Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.
Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso».
Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano.
Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».
    v Questo brano è stato scelto perché si parla della «professione di fede» (v.
10) cristiana, in analogia con la professione di fede israelita vista nella Prima lettura.
Il contenuto ora cambia, perché essa si impernia sulla risurrezione di Gesù e sulla sua attuale e definitiva signoria, ma la sua struttura fondamentale è simile.
Si tratta anche ora di un evento che accade nella storia, che è un’opera compiuta in essa da Dio («Dio lo ha risuscitato dai morti», v.
9; cfr.
«il Signore ci fece uscire…
ci condusse…
ci diede», Dt 26,8-9).
     La professione di fede deve essere concepita nel cuore e proclamata con la bocca.
Questo concetto viene scandito, ancora una volta, con la citazione di tre passi dell’AT: Dt 30,14, che parla insieme della «bocca» e del «cuore» (v.
8); Is 28,18, che accenna al «credere», che si concepisce nel cuore (v.
11); Gl 3,5, che menziona l’«invocare», che si esprime con la bocca (v.
13).
È la totalità della persona che così si manifesta nell’atto di fede.
  Vangelo: Luca 4,1-13           In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo.
Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame.
Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane».
Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio.
Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo».
Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”».
Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.
    Esegesi      La tentazione di Gesù è situata unanimemente dai tre Sinottici subito dopo il battesimo, e tutti e tre mettono questa dimora di Gesù nel deserto in rapporto con il dono dello Spirito Santo, ricevuto da lui immediatamente prima nello stesso battesimo (v.
1).
Ma nel modo di parlarne gli evangelisti presentano delle significative differenze.
Mc riporta in due soli versetti la notizia del digiuno dei quaranta giorni che costituiscono pure, globalmente, tutto il tempo in cui Gesù è tentato (Mc 1,12- 13).
Solo Mt (4,1-11) e Lc (4,1-13) parlano di tre speciali tentazioni che si verificano soltanto alla fine dei quaranta giorni di digiuno, ma rispetto a Mt solo Lc sottolinea che Gesù era tentato anche prima (v.
2), durante i quaranta giorni, come dice pure Mc.
Ma la differenza più significativa tra Mt e Lc consiste nell’inversione che Lc presenta tra la seconda e la terza tentazione rispetto a Mt, la cui sequenza sembra la più logica e la più primitiva.
Infatti, l’adorazione dell’unico Signore a cui si appella Gesù nel respingere l’offerta dei regni della terra si presta meglio a formare l’apice di tutto il racconto che non il rifiuto di tentare Dio, che Lc pone nella terza tentazione.
Con questa inversione Lc conferisce più importanza alla città di Gerusalemme (v.
8), sede dell’ultima tentazione, indicando così in essa il preludio alla suprema tentazione di Gesù nella sua passione.
Ma nello stesso tempo, con questa inversione Lc dà più importanza al tema della tentazione stessa, come si vede dalla sua conclusione dell’episodio (v.
13): «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato».
     Al di là di questo episodio, il verbo «tentare» o «mettere alla prova» (peirazo) ricorre ancora in Mt 16,1; 19,3; 22,18.35, ma nel significato più scialbo della tentazione o prova a cui i farisei sottopongono Gesù rivolgendogli delle domande capziose; qui Lc riprende l’espressione soltanto nel primo e nell’ultimo caso (Lc 11,16; 10,25, con un ordine diverso rispetto a Mt).
Invece l’importanza di questo tema in Lc la si vede meglio se consideriamo l’uso del sostantivo (peirasmos), che lui ha usato già in 4,13.
In parallelo con Mt, il termine ricorre nel Padre nostro (Lc 11,4 = Mt 6,13) e nell’ammonizione di Gesù ai tre discepoli nel Getsemani (Lc 22,46; Mt 26,41; Mc 14,38).
Al di là di questi casi in comune con Mt, Lc introduce il termine di sua iniziativa nella spiegazione della parabola del seminatore (Mt 13,21; Mc 4,17: «tribolazione o persecuzione»; Lc 8,13: «nel tempo della tentazione»).
Ma l’uso forse più interessante del sostantivo in Lc, lo troviamo in queste parole di Gesù ai discepoli dopo l’istituzione dell’eucaristia nell’ultima cena: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie tentazioni (BC: prove) e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno» (Lc 22,28-30a).
In questo detto, tutto il ministero pubblico di Gesù, passato in compagnia dei discepoli, è considerato come un continuo periodo di tentazione, nel quale lui ha avuto il confronto della loro compagnia e della loro condivisione; essa trova il suo culmine nella celebrazione dell’eucaristia, prefigurazione della sua mensa nella pasqua del cielo.
     Ma la suprema tentazione di Gesù doveva aver luogo nel tempo della sua passione.
Nel Getsemani, dopo la preghiera rivolta al Padre perché allontanasse da lui il calice della sua dolorosa morte imminente, Gesù dice a quelli che sono venuti ad arrestarlo: «Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre» (Lc 22,53).
     Nell’AT il tema della tentazione affiora nel definire lo stretto rapporto che intercorre tra Dio ed Israele, specialmente nel tempo del deserto.
Dio «tenta» o «mette alla prova» (ebr.
nissah) Israele, per far emergere quello che c’è nel cuore del suo popolo, come si può vedere da questi passi: «Io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no» (Es 16,4); «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi» (Dt 8,2; cfr.
anche il v.
16).
Ma questa prova o tentazione continua anche dopo, nella terra promessa: «Tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore (che ti vogliono far rivolgere agli dèi stranieri); perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima» (Dt 13,4).
     Come si vede, si aggiunge sempre, con una proposizione finale, il motivo positivo di questa prolungata tentazione a cui il Signore sottopone il suo popolo, che consiste nel desiderio di appurare la consistenza del suo rapporto con lui.
È questo un tipico elemento della parenesi deuteronomica, per cui non ci stupisce che nelle risposte di Gesù a Satana vengano citati tre passi, ripresi tutti dal Deuteronomio.
Vale la pena considerarli ora separatamente, inquadrandoli nel loro contesto originario.
     a) In Lc 4,4 si cita Dt 8,3: «Egli (il Signore) dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore».
Il tempo del deserto consentiva ad Israele di sperimentare la sua dipendenza da Dio, che provvede il cibo della manna con il comando dato dalla sua bocca.
Citato da Gesù, questo detto vuol dire che egli, anche se compirà la moltiplicazione dei pani, attirerà le folle non tanto con il cibo materiale, quanto piuttosto con l’annunzio del regno di Dio e con l’invito alla conversione.
     b) La corrispondenza di Lc 4,8 con il Dt non è evidente: «Guardati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile.
Temerai il Signore Dio tuo, lo servirai e giurerai per il suo nome» (Dt 6,12-13); qui, «ti presterai» e «adorerai» corrispondono a «temerai» e «servirai» di Dt 6,13.
Si noti come queste diverse ingiunzioni sono precedute dalla raccomandazione a non dimenticare quanto il Signore ha già fatto: ciò che Israele deve fare, è una risposta a quanto Dio ha fatto prima.
     c) Nell’ultima citazione (v.
12) appare l’uso inverso del tema della tentazione, in quanto ora è Israele che tenta Dio, quando lo abbandona e così lo costringe a dargli una punizione: «Non seguirete altri dèi…
L’ira del Signore tuo Dio si accenderebbe contro di te e ti distruggerebbe dalla terra.
Non tenterete il Signore vostro Dio come lo tentaste a Massa.
Os-serverete diligentemente i comandi del Signore vostro Dio…» (6,14-17).
Rilette sullo sfondo dell’AT, le tentazioni di Gesù ci appaiono come la dimostrazione della sua totale adesione a Dio, in contrasto con la condotta indocile d’Israele, cosicché i suoi quaranta giorni di digiuno nel deserto corrispondono ai quaranta anni trascorsi da Israele nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto.
Ma in maniera più specifica, con queste tre tentazioni satana cerca di distogliere Gesù dalla sua missione messianica, che, rifuggendo dai facili e fallaci successi mondani di una popolarità ottenuta con miracoli molto spettacolari, consiste nell’adesione alla via della croce.
     Meditazione      Quaresima.
Quaranta giorni per ricalibrare la nostra vita e le sue relazioni: con Dio, con gli altri, con il creato, con se stessi.
L’esigenza di mettere ordine nella propria esistenza è diffusa, a molti livelli.
I testi biblici che ci vengono oggi proposti offrono alcuni criteri per perseguire tale fine.
     Il celeberrimo e impressionante brano delle tentazioni di Gesù nel deserto si apre con una duplice significativa annotazione: Gesù entra in questa esperienza guidato dallo Spirito – non è altro che il nostro desiderio di ‘riprendere in mano’ la vita – e rifiutando di nutrirsi.
     Perché questo digiuno? Cosa c’entra l’alimentazione con i nostri problemi etici, politici, religiosi, di gestione del tempo e del denaro, degli affetti e delle relazioni? L’odierno imperativo sociale, che richiede un corpo palestrato a tutte le età, già può orientarci verso il ‘sospetto’ che forse uno stato complessivo di benessere della persona non è separabile dalle condizioni del corpo.
Ma Gesù va ben oltre: un digiuno prolungato, di quaranta giorni, segnala l’intenzione di sondare la propria verità, la propria identità ben oltre la percezione superficiale e puntuale di un’esperienza ‘curiosa’.
La testimonianza unanime della pratica ascetica del digiuno, comune a tutte le tradizioni religiose e filosofiche, conferma che la persona che si sottopone ad esso, si apre ad una conoscenza di sé nuova e sorprendente: provare per credere…! Rinunciare ad assumere cibo, quanto cioè ci è di più basilare e necessario per la stessa sussistenza, modifica inevitabilmente la percezione dei nostri valori di riferimento.
E se primissima conseguenza potrebbe risultare la limpida precisazione – e distinzione! – dei termini appetito e fame, che noi, nel nostro opulento occidente, impieghiamo impropriamente come sinonimi, perseverare in un regime alimentare misurato, regolare e sobrio –  questo il contenuto autentico del digiuno – riattiva la sensibilità e la capacità di scelta e chiama in causa i valori più profondi.
L’essenzialità  a cui si è indirizzati rende la persona più attenta e vigile.
È pertanto nella condizione ideale per… riprendere in mano la propria vita e compiere delle scelte nuove! Giungendo così al fine che ci si era proposti e da cui eravamo partiti.
L’«ebbe fame» (Lc 4,2) che Gesù stesso avverte dopo quaranta giorni di digiuno conferma questo stato psichico percettivo, dove si conosce, in modo sensibilmente nuovo, la dipendenza dall’esterno per la propria sopravvivenza: nessuno di noi basta a se stesso! La mia vita dipende da qualcosa al di fuori di me.
Sorgono allora domande nuove: di cosa ho veramente bisogno? Cosa desidero veramente?      Gesù, che nel battesimo (cfr.
Lc 3,21-22) è appena stato riconosciuto come Figlio di Dio, è spinto ora dal diavolo a indagare su come ‘giocare’ la sua identità.
Vuole custodire l’oggettività della gratuità e del dono, che lo lega al Padre e alla storia degli uomini, oppure preferisce rifiutare questa dipendenza e utilizzare le proprie energie per imporsi sulla natura e sugli altri? Significativamente, tra il battesimo e il nostro brano, l’evangelista Luca inserisce una sorprendente genealogia risalente fino ad «Adamo, figlio di Dio» (cfr.
3,23-38), che evidenzia e imprime all’identità di Gesù anche la qualifica di fratello dell’uomo.
Il suo essere figlio di Dio non cancella né ‘divora’ l’essere fratello dell’uomo ma, con genialità compassionevole, si coniuga in una sintesi esigente ma feconda, fonte di vita e di libertà infinita per sé e per tutti.
Gesù non utilizza la propria divinità per opportunità per opprimere gli uomini né si piega ad un umanesimo gaudente che si riconosce come assoluto e svincolato da ogni solidità.
Egli è invece il Figlio di Dio che resta consapevolmente nella dipendenza e nel legame per rinnovare dal di dentro ogni figlio dell’uomo.
Con amore.
     Per resistere alla tentazione dell’individualismo egoistico Gesù si nutre – qualcosa si deve pur mangiare! – della parola di Dio, sapientemente interpretata.
La prima lettura ci  ricorda di richiamare alla nostra mente tutto quanto si è già ricevuto nel passato per continuare a sostenere la lotta verso una libertà sempre più profonda.
Le nostre forze sono, infatti, sempre fragili e quando si è nel digiuno si è ancor più bisognosi di sostegno.
Quale dunque il nostro cibo per orientare e compiere le nostre scelte?          Preghiere e Racconti  Prima domenica di Quaresima In Terra Santa, ad ovest del fiume Giordano e dell’oasi di Gerico, si trova il deserto di Giuda, che per valli pietrose, superando un dislivello di circa mille metri, sale fino a Gerusalemme.
Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù si addentrò in quella solitudine condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio.
Nel deserto, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà della kenosi, dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr.
Fil 2,6-7).
Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr.
Eb 4,15).
Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.
(BENEDETTO XVI, nell’introdurre la preghiera mariana dell’Angelus: 01.03.2009).
Due re aspirano a regnare Tanto il Figlio di Dio quanto l’Anticristo aspirano a regnare, ma l’Anticristo desidera regnare per uccidere quelli che avrà sottomesso, Cristo regna per salvare.
E su ognuno di noi, se è fedele, regna Cristo, che è la Parola, la Sapienza, la Giustizia, la Verità.
Se invece amiamo i desideri disordinati più di quanto amiamo Dio, su noi regna il peccato di cui l’Apostolo dice: II peccato non regni sul vostro corpo mortale (Rm 6,12).
Due re dunque si affrontano per regnare: il re del peccato, il diavolo sui peccatori; il re della giustizia, Cristo, sui giusti.
Il diavolo sapeva che Cristo sarebbe venuto per sottrargli il suo regno e per cominciare a sottomettere al suo potere quelli che erano sottomessi al potere del diavolo.
Così gli mostra tutti i regni del mondo e degli uomini di questo mondo, gli mostra come su alcuni regna la lussuria, su altri l’avarizia e come alcuni sono trascinati dal soffio della celebrità, altri sono prigionieri delle seduzioni della bellezza.
Non dobbiamo pensare che mostrandogli i regni del mondo gli abbia mostrato il regno della Persia o quello delle Indie; ma gli mostra tutti i regni del mondo, cioè il suo regno, il suo modo di dominare il mondo per invitarlo a fare la sua volontà e cominciare così ad assoggettare Cristo […].
Allora il diavolo disse al Signore: «Sei venuto per lottare contro di me e per strappare al mio potere tutti quelli che io ho soggiogato? Non voglio contendere con te, non voglio che tu ti affatichi, che ti sottoponga alle difficoltà della lotta.
Chiedo una cosa sola: prosternati ai miei piedi e adorami, ricevo l’intero mio regno».
Senza dubbio il nostro Signore e Salvatore desidera regnare e desidera che tutti i popoli gli siano sottomessi perché servano la giustizia, la verità e le altre virtù, ma vuole regnare in quanto è la Giustizia, senza peccato e senza malizia […] Ecco perché risponde: Sta scritto: adorerai il Signore tuo Dio e lui solo servirai (Lc 4,8).
Voglio che tutti costoro mi siano sottomessi perché adorino il Signore Dio e servano lui solo.
Così desidero regnare.
Tu vorresti che il peccato cominciasse da me, quel peccato che sono venuto a distruggere, da cui desidero liberare anche gli altri.
Sappi e riconosci che rimango fedele a ciò che ho detto: che sia adorato solo il Signore Dio e che tutti questi uomini siano sottomessi al mio potere nel mio regno».
Quanto a noi rallegriamoci di essere sottomessi a lui e preghiamo Dio che faccia morire il peccato che regna nel nostro corpo (Rm 6,12) e che solo Cristo Gesù regni in noi.
A lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli ( I Pt 4,11).
(ORIGENE, Omelie sul vangelo di Luca 30,1.3-4, SC 37, pp.
370-374).
Autenticità e verità Per essere autentici occorre essere fedeli a se stessi ma, nello stesso tempo, diffidare di sé.
C’è un necessario legame con se stessi, ma un’altrettanta necessaria esigenza di superarsi.
Il cammino versa la vita autentica consiste quindi nel procedere su una specie di crinale, nel suscitare la libertà ma anche nel disciplinarla, nel voler essere pienamente liberi perché solo così si è uomini e non servi, ma nel voler altresì che la prima vera libertà sia di tipo interiore e corrisponda al dominio sulle menzogne di cui ognuno si sa capace “in pensieri, parole, opere e omissioni”.
[…] La libertà si compie solo nella misura in cui ci si dedica a qualcosa di più grande di sé o, meglio, del sé: una grandezza che il pensiero umano nomina in vari modi, di cui i principali sono giustizia, bene, verità.
Io sostengo che l’uomo autentico è l’uomo giusto, è l’uomo che vive per attuare il bene dentro e fuori di sé, è l’uomo che ama sopra ogni cosa la verità.
(Vito MANCUSO, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, 2009, Milano, 15-16).
  Non ci indurre in tentazione «Nostro Signore mi fa fare questa domanda nel Pater perché essa mi è necessaria in tutte le ore, perché deve trovarsi come grido dell’anima cento volte in ogni preghiera, e per insegnarmi a lanciare incessantemente verso di Lui, in tutte le ore, questo grido: “Aiuto”».
(CHARLES DE FOUCAULD, Opere spirituali, Roma, Pauline, 1984).
  Non è strano che Antonio e i monaci suoi compagni considerassero un disastro spirituale l’accettare passivamente i principi e i valori della loro società.
Essi erano riusciti a capire quanto fosse difficile non solo per il singolo cristiano, ma anche per la chiesa stessa, resistere alle seducenti imposizioni del mondo.
Quale fu la loro reazione? Fuggirono dalla nave che stava per affondare e nuotarono verso la vita.
E il luogo della salvezza è chiamato deserto, il luogo della solitudine…
La solitudine è la fornace della trasformazione.
Senza solitudine, rimaniamo vittime della nostra

Ceruti: «Il cristianesimo laicizza la storia. Ripartiamo da Girard»

L’intervista «Oggi la funzione culturale del cristianesimo è di non stabilirsi come religione civile ma fare esercizio e pratica dell’incontro e dell’ascolto dell’altro».
Mauro Ceruti, docente di epistemologia genetica all’università di Bergamo, rilancia nel campo «laico»  la portata secolarizzante del messaggio cristiano per un dialogo fruttuoso.
In «Le due paci» (Cortina) lei scrive che la secolarizzazione non va perduta come risultato positivo della storia.
Ma cosa non ha funzionato se oggi cresce l’indifferenza religiosa e l’ostracismo laicista? «Si è avuta una progressiva banalizzazione di tre processi: la secolarizzazione, la cui enfasi positiva è una delle scoperte del Concilio Vaticano II; in secondo luogo, la laicità che spesso viene contrapposta alla Chiesa mentre essa è frutto della rivoluzione di un Dio che regna dalla Croce, e non da un trono; lo spirito scientifico, che nasce da una desacralizzazione della natura».
Come mai allora questi valori “cristiani” si manifestano oggi come anticristiani? «La secolarizzazione è prevalsa in una sua deriva, ovvero quella consumistica delle società avanzate in un disincanto del mondo in cui non matura più la domande del trascendente.
Prevale solo il consumo e questo causa un’asfissia spirituale generando l’esperienza di voler tutto e subito.
Questo ha annullato ogni processo verso l’Oltre, un processo umano prima che religioso.
In Europa questo si è trasformato in un laicismo riduttivo che presume di far vivere la laicità nello spazio pubblico privo di simboli religiosi, per cui la stessa natura del simbolo dell’uomo viene azzerata».
Quando questo è avvenuto? «La data-soglia è il 1989, anno fino al quale – anche tra i credenti – era scontato pensare che le religioni avrebbero avuto un ruolo di sempre minor influenza sulla realtà: era condiviso lo schema marxista per cui la religione fa parte della sovrastruttura.
Poi dopo il 1989 le religioni hanno fatto una nuova, straordinaria irruzione nella storia.
Va sottolineata l’intuizione di Karol Wojtyla che già nel 1986 chiamò a pregare insieme ad Assisi i rappresentanti della diverse religioni (fatto poi ripetuto nel 2002) in un momento in cui le religioni parevano al lumicino.
Il secondo incontro di Assisi fu pure profetico perché si era sull’orlo di guerre in nome della religione (che qualcuno pure fece).
Queste invocazioni di Dio hanno dimostrato quanto sia stato decisivo il processo laicizzante del cristianesimo nelle vicende della comunità umana.
In quegli anni Samuel Huntington teorizzava lo scontro di civiltà in nome delle differenti religioni.
E si è troppo dimenticato quanto Giovanni Paolo II fece perché non si compisse nemmeno un passo verso il conflitto di civiltà su base religiosa».
Lei è un grande conoscitore di René Girard.
Può la proposta del grande pensatore francese diventare un alfabeto per il “cortile dei gentili”? «Sì.
Ho trovato in Girard una lettura antropologica dei testi del Nuovo e Antico Testamento, come cifra adatta per esplicitare un confronto con i gentili su quel grande Codice dell’umanità che è la Bibbia.
Nei nostri colloqui mi diceva: “Nei miei libri non aggiungo nulla al vangelo, faccio solo un tentativo di lettura antropologica, in base alla sola ragione, di quel messaggio evangelico che è teologico”.
Il vangelo introduce nella storia un punto di discontinuità dal punto di vista razionale visto che racconta dal punto di vista della vittima e non del carnefice.
Per questo auspico nell’atrio dei gentili la possibilità di usare la ragione figlia del cristianesimo, ovvero un dialogo che è accoglienza dell’altro.
Quindi questo “cortile” può diventare uno spazio laico e razionale in cui per il cristiano vi è il compito non di affermazioni dogmatiche bensì di testimoniare».
in “Avvenire” del 19 febbraio 2010

VI Domenica Tempo Odinario Anno C.

Preghiere e Racconti  Beatitudini dell’oggi BEATI quelli che sanno ridere di se stessi: non finiranno mai di divertirsi.
BEATI quelli che sanno distinguere un ciottolo da una montagna: eviteranno tanti fastidi.
BEATI quelli che sanno ascoltare e tacere: impareranno molte cose nuove.
BEATI quelli che sono attenti alle richieste degli altri: saranno dispensatori di gioia.
BEATI sarete voi se saprete guardare con attenzione le cose piccole e serenamente quelle importanti: andrete lontano nella vita.
BEATI voi se saprete apprezzare un sorriso e dimenticare uno sgarbo: il vostro cammino sarà sempre pieno di sole.
BEATI voi se saprete interpretare con benevolenza gli atteggiamenti degli altri anche contro le apparenze: sarete giudicati ingenui, ma questo è il prezzo dell’amore.
BEATI quelli che pensano prima di agire e che pregano prima di pensare: eviteranno certe stupidaggini.
BEATI soprattutto voi che sapete riconoscere il Signore in tutti coloro che incontrate: avete trovato la vera luce e la vera pace.
Beati i miti      Il nostro campo è invaso dall’ingiustizia.
Tutte le risposte del mondo all’ingiustizia sono violenza attiva o consentita.
Opporvi la dolcezza del Cristo è scandalo.
     Chi può misurare il coraggio richiesto a coloro che accettassero questo scandalo della mitezza? Ma c’è scandalo più grande – ed autentico, questo – dello scandalo dei cristiani che hanno lasciato a un Gandhi la responsabilità di levare nel mondo una massa di uomini che si affidavano alla forza incoercibile di quella mitezza?      E tuttavia, ancora una volta, non c’è scelta.
Il Cristo “mite ed umile di cuore” è un fatto.
Non possiamo né rettificarlo né adattarlo.
(Madeleine DELBRỆL, Noi delle strade, Milano, Gribaudi, 2008, 123).
 Gli infelici Non si deve contrarre la misericordia secondo la moda del giorno.
Bisogna che la presa di coscienza della infelicità economica delle masse non ci trascini a sprezzare altre forme di infelicità, a disinteressarci di queste.
La misericordia del Cristo per i poveri si inserisce in una misericordia tanto vasta quanto tutte le infelicità umane.
È misericordia verso i peccatori, misericordia verso gli ammalati, misericordia verso tutti coloro che piangono i loro morti, misericordia verso i prigionieri, misericordia verso tutto ciò che è piccolo.
A motivo di una nozione materializzata della povertà si rischia assai spesso di dimenticare che vi sono altri poveri che non gli economicamente poveri, altri piccoli che non il proletariato.
Vi sono ammalati morali o psicologici.
Poveri di doni, di attrattive, di amore.
Accanto alle classi oppresse vi sono gli “inclassificabili”.
I poveri e i piccoli non sono soltanto nel proletariato.
Ed il proletariato stesso non è composto esclusivamente di militanti, quei militanti ricchi già di una speranza, di una ricchezza di cuore, di una formazione spirituale.
Il cuore del Cristo, neppure lui può essere rettificato: è di tutti, ed è a tutti che dobbiamo darlo.
Questo amore personale del Cristo “chiama ciascuno con il suo nome”, non chiama una categoria.
Conosce ciascuno “come il Padre conosce il Figlio”.
Dobbiamo ritrovare quest’amore personale di qualcuno verso qualcuno.
Quest’amore è mutilato dalle definizioni “sociali” che attacchiamo sui nostri fratelli ed in base a quella che diamo di noi stessi.
Noi non sappiamo più incontrarci come un uomo incontra un uomo nella sua semplicità individuale.
Non sappiamo più chiamarci per nome.
(Madeleine DELBRỆL, Noi delle strade, Milano, Gribaudi, 2008, 125-126).
  L’insegnamento di un Maestro ebreo? «Il Mahatma Gandhi, padre dell’India moderna e apostolo della non-violenza, ricordando il suo primo incontro con il “discorso della montagna”, diceva che gli era andato dritto al cuore: “The Sermon on the Mount went straight to my heart…”.
E aggiungeva: “È stato grazie a questo discorso che ho imparato ad amare Gesù”.
Questa testimonianza mostra in maniera eloquente come la lettura dei capitoli 5-7del Vangelo di Matteo possa essere decisiva per l’incontro col Profeta galileo e il suo messaggio.
Si può perfino dire che la storia delle interpretazioni del discorso della montagna è la storia delle diverse auto-comprensioni del cristianesimo».
(Mons.
Bruno FORTE, Il discorso della montagna e il dialogo ebraico-cristiano, dialogo pubblico con il biblista ebreo americano Jacob Neusner, 18 GENNAIO 2010).
  Le Beatitudini Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali.
È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città.
Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono.
Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati.
Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo.
La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza.
A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità.
E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.
Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili.
Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana.
Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.
Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).
Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.
(A.
MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato 1992,542s.).
Beati voi! «Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”.
“Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri.
Beati voi!”.
E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità.
Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio.
Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita.
Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.
“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana.
È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio.
Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore.
Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo.
(…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente.
E la santità non è questione di età.
La santità è vivere nello Spirito Santo”.
Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza.
Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.
(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).
Le beatitudini e la felicità Le beatitudini indicano il cammino della felicità.
E, tuttavia, il loro messaggio suscita spesso perplessità.
Gli Atti degli apostoli (20,35) riferiscono una frase di Gesù che non si trova nei vangeli.
Agli anziani di Efeso Paolo raccomanda di «ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”».
Da ciò si deve concludere che l’abnegazione sarebbe il segreto della felicità? Quando Gesù evoca ‘la felicità del dare’, parla in base a ciò che lui stesso fa.
È proprio questa gioia – questa felicità sentita con esultanza – che Cristo offre di sperimentare a quelli che lo seguono.
Il segreto della felicità dell’uomo sta dunque nel prender parte alla gioia di Dio.
È associandosi alla sua ‘misericordia’, dando senza nulla aspettarsi in cambio, dimenticando se stessi, fino a perdersi, che si viene associali alla ‘gioia del cielo’.
L’uomo non ‘trova se stesso’ se non perdendosi ‘per causa di Cristo’.
Questo dono senza ritorno è la chiave di tutte le beatitudini.
Cristo le vive in pienezza per consentirci di viverle a nostra volta e di ricevere da esse la felicità.
Resta tuttavia il fatto, per chi ascolta queste beatitudini, che deve fare i conti con una esitazione: quale felicità reale, concreta, tangibile viene offerta? Già gli apostoli chiedevano a Gesù: « E noi che abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che ricompensa avremo?» (Mt 19,27).
Il regno dei cieli, la terra promessa, la consolazione, la pienezza della giustizia, la misericordia, vedere Dio, essere figli di Dio.
In tutti questi doni promessi, e che costituiscono la nostra felicità, brilla una luce abbagliante, quella di Cristo risorto, nel quale risusciteremo.
Se già fin d’ora, infatti, siamo figli di Dio, ciò che saremo non è stato ancora manifestato.
Sappiamo che quando questa manifestazione avverrà, noi saremo simili a lui «perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2).
(J.-M.
LUSTIGER, Siate felici, Genova, 1998, 111-117 passim).
Preghiera Signore Gesù Cristo, custodisci questi giovani nel tuo amore.
Fa’ che odano la tua voce e credano a ciò che tu dici, poiché tu solo hai parole di vita eterna.
Insegna loro come professare la propria fede, come donare il proprio amore, come comunicare la propria speranza agli altri.
Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo, in un mondo che ha tanto bisogno della tua grazia che salva.
Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini, perché siano sale della terra e luce del mondo all’inizio del terzo millennio cristiano.
Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida questi giovani uomini e giovani donne del ventunesimo secolo.
Tienili tutti stretti al tuo materno cuore.
Amen.
(Preghiera del Papa, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
 VI DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Geremia 17,5-8          Così dice il Signore: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamarisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia.
È come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti».
                          v Geremia è un profeta perseguitato.
Chiamandolo il Signore gli aveva promesso di renderlo un muro inespugnabile (1,5-10); di fatto è oggetto di ire e di attacchi da parte di tutti, i familiari (12,6), i concittadini (12,1-5), gli abitanti di Gerusalemme, il re, la corte (36,21-26) e finisce in una prigione (38,6).
     La sua salvezza è la sua fede in un Dio giusto giudice (12,1), che punisce il male e premia il bene.
È l’assioma che si trova alla base della teologia deuteronomistica (cioè presente nel libro del Deuteronomio) di cui Geremia è un esponente.
Tuttavia l’«uomo che confida nell’uomo» non è chiunque fa ricorso all’aiuto del proprio simile, ma l’israelita che vuole risolvere i suoi problemi nazionali e militari appoggiandosi agli stranieri invece che a JHWH.
     Le alleanze con i popoli vicini, assiri, babilonesi, egiziani, non sono mai state ben viste dai profeti, quindi neanche da Geremia, perché sottindendevano una carenza di fede nel Dio dei padri, colui che li aveva sottratti, con braccio potente, dalla schiavitù egiziana e aveva messi nelle loro mani i cananei.
     Il discorso si fa più ampio nella contrapposizione tra l’agire secondo la carne e l’agire secondo lo spirito.
La «carne» nella tradizione biblica designa la fragilità creaturale dell’uomo.
Vivere o agire secondo la carne significa seguire gli istinti dell’egoismo o dell’orgoglio più che la voce di Dio e la sua volontà.
In altre parole è dare spazio alle scelte più facili, di comodo, che soddisfano più la passione che la ragione.
     Se l’«uomo» non sa lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio, sono le conseguenze del suo agire carnale che dovrebbero portarlo al ravvedimento, i castighi che l’hanno colpito o stanno per colpirlo.
I buoni suggerimenti, le riflessioni sapienzali non valgono sempre a cambiare l’uomo, ma il bene e il male che consegue il suo agire dovrebbero portarlo a resipiscenza.
È quanto il profeta si augura.
     Il richiamo alle conseguenze del ricordo e della dimenticanza di Dio può essere opportuno ma non gli si può dare un peso sicuro, poiché molte volte la «maledizione» non cade sempre sugl’iniqui, né la «benedizione» raggiunge solo i buoni.
La fede non è un calcolo matematico.
  Seconda lettura:  1Corinzi 15,12.16-20          Fratelli, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.
Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.
Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.
Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.
       v La risurrezione è una proposta cristiana che non ha avuto sempre facile accoglienza (cf.
At 17,32;26,24).
Sono le difficoltà che Paolo incontra tra i convertiti di Corinto.
     L’apostolo si è appellato alle prove storiche, ai testimoni cioè della risurrezione di Gesù (vv.
3-11), ora fa ricorso anche alle ragioni teologiche.
La risurrezione è la garanzia unica ed esclusiva non tanto della credibilità di Gesù Cristo, quanto della validità della sua missione ovvero della sua azione redentiva.
Se egli non fosse risorto non solo non avrebbe dato la giusta prova di quello che aveva predicato, ma non avrebbe dimostrato e avviato il processo di rigenerazione e di rinascita di quelli che muoiono.
Se ciò fosse vero non c’è futuro, non c’è speranza di una vita nuova in quelli che hanno chiuso l’esperienza terrestre.
     L’argomentazione di Paolo è tuttavia più complessa poiché concepisce la morte di Cristo come un sacrificio di espiazione per i peccati dell’umanità.
Egli è il capro che porta su di sé i peccati di tutti (cf.
Rm 3,21-28) come Giovanni dice che è l’agnello che toglie i peccati del mondo (1,29).
     La risurrezione prova che Gesù è entrato nel mondo di Dio, quindi ha offerto al Padre il risarcimento che aspettava dagli uomini e da lì ora attende quelli che hanno creduto in lui.
È evidente che se non fosse risorto, né lui né i suoi seguaci sarebbero mai entrati nel regno della vita, non sarebbero quindi salvi.
     La risurrezione è, si può dire, un termine convenzionale, equivalente a continuità nell’esistenza.
Gesù risorto significa che egli vive, non è nel regno dei morti, ma dei vivi.
Solo che è un trapasso senza prove, senza verifiche; si può accettare affidandosi alla parola di Dio trasmessa da Gesù Cristo.
       Gesù è la primizia dei dormienti (v.
20), il primogenito tra molti fratelli (Rom 8,29), ma se non si è verificato in lui il trapasso nella nuova vita, non si verificherà in nessuno, nemmeno in quelli che vivono con tale fede in lui.
Anzi questi che coltivano tali illusioni, accanto a privazioni e sacrifici di ogni genere, sono alla fine da compiangere più degli altri.
L’apostolo nemmeno accetta queste supposizioni e chiude ogni possibile riserva riaffermando categoricamente la sua fede nella risurrezione (v.
20).
  Vangelo: Luca 6,17.20-26          In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante.
C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete, perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo.
Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo.
Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi.
Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».
              Esegesi      Il brano di Lc 6,20-26 è parallelo a Mt 5,1-12.
Si tratta in entrambi i casi di un grande discorso programmatico di Gesù, solo che nel primo caso esso è tenuto «in un luogo pianeggiante», nel secondo «su un monte».
In Matteo Gesù apre la sua predicazione, per Luca invece l’ha aperta nella sinagoga di Nazaret (4,18-22), ma con un annunzio che è identico a quello del discorso della montagna o in pianura.
Anzi è più esplicito e forse più genuino.
«Lo Spirito di Dio è su di me» per questo mi ha inviato ad evangelizzare i poveri, a liberare i carcerati, gli oppressi, a guarire i ciechi, a proclamare l’anno di grazia del Signore (cf.
Is 61,1-2; Lc 4,18-22).
     La «buona notizia» che i poveri attendono è che la loro infelice condizione abbia a finire, non in un giorno che nessuno sa quale, ma presto, subito, si può aggiungere.
«Oggi si è adempiuta questa Scrittura che avete udito», dichiara Gesù ai suoi concittadini che l’ascoltano sbigottiti e offesi (4,20,28).
     La povertà non è un bene che Dio ha contemplato nel suo disegno creativo; è addirittura un male, una carenza, come tale è la malattia e qualsiasi altro ostacolo che intralcia il cammino dell’uomo, destinata a scomparire.
L’era messianica doveva segnare l’avvio di una siffatta realizzazione, insieme a un rinnovamento dei rapporti dell’uomo con Dio.
     Il giardino delle origini (Gen 2) era per Gesù il regno dei cieli o di Dio di cui era arrivata la realizzazione.
     Il programma di Gesù guarda a tutto l’uomo, al suo corpo come al suo spirito, ai rapporti con Dio ma anche con i propri simili; abbraccia tutto e tutti senza escludere nessuno, ma le sue attenzioni, quasi le sue preferenze, vanno agli umili, ai piccoli, agli indigenti, ai malati, in una parola ai «poveri», perché ne hanno più bisogno.
     Anche i messi del Battista gli chiedono di qualificarsi: «Sei tu colui che deve venire o un altro?».
Egli non fa che rispondere appellandosi alle stesse parole del profeta Isaia (61,1-2;26,19;29,18;35,5) e anche qui la risposta è: «I poveri sono evangelizzati» e accanto ad essi sono i ciechi, i lebbrosi, gli storpi, i sordi.
In questo senso Gesù si proclama il salvatore degli uomini più che dei propri connazionali.
I figli di Abramo attendono prima di tutto l’affrancamento dal giogo straniero che pesa sulle loro spalle da circa sei secoli (dal 587 a.
C.), ma Gesù guarda alle aspirazioni e aspettative di tutti gli uomini: tutti egualmente figli dello stesso comune padre.
     Egli è un israelita, ma la sua missione supera i confini d’Israele, come materialmente li sta superando nel corso della sua predicazione.
Il suo sogno è arrivare a una convivenza tra ebrei, samaritani, fenici, greci e romani, in un regno di piena, perfetta giustizia e pace.
     Il «primato» d’Israele o di qualsiasi altro popolo, come di un uomo sull’altro, è sempre satanico perché nasce dal desiderio di sopraffazione non dallo Spirito di Dio di cui egli si sente ricolmo (Lc 4,18; 1,35:3,22).
     Gesù è un profeta non un dottore della legge e meno ancora uno stratega; egli cerca di aiutare gli uomini a scoprire i disegni di Dio nascosti nelle profondità del loro cuore o che si esplicano nel corso della storia.
     Il messaggio che ha lasciato ai suoi ascoltatori è troppo insolito, ardito per essere subito capito ed accettato dai suoi stessi seguaci, per questo con il passare del tempo ne tentano una loro reinterpretazione.
I vangeli registrano quella delle chiese di Marco e Matteo, di Luca e Giovanni.
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V Domenica del tempo ordinario (Anno C).

Preghiere e Racconti   Chiamati a qualcosa di più L’insuccesso mostra all’uomo lo scarto tra l’infinità dei suoi desideri e la possibilità di realizzarli.
La pesca infruttuosa suscita nei discepoli l’amara sensazione che non basta dire di andare a pescare per riuscire a pescare.
C’è uno scarto tra la potenza dei desideri e la loro realizzazione effettiva.
Quanti sogni di gioventù restano castelli in aria proprio per lo scarto tra ciò che noi vorremmo essere nella vita e ciò che poi si realizza! Vorremmo essere come il tale o il tal’altro, il nostro “io ideale” si proietta e alla fine vediamo che c’è una differenza enorme; l’insuccesso mostra la distanza tra l’infinità dei desideri e la possibilità di realizzarli.
La pesca infruttuosa diventa il simbolo di questo scarto, ed è una delusione salutare perché ci permette di riappropriarci con ordine dei nostri desideri.
Ma può essere anche molto pericolosa: scatena reazioni negative e drammatiche.
Ricordo il caso di un uomo molto per bene che non riuscì ad accettare l’umiliazione di essere retrocesso nella carriera e per questo giunse a uccidere.
L’insuccesso aveva provocato in lui lo scatenamento di desideri, che c’erano ma che prima riusciva a dominare perfettamente.
È un’immagine di ciò che l’insuccesso provoca, per la violenza delle forze che si agitano dentro di noi, e che gli antichi chiamavano le passioni dell’uomo.
Le passioni non sono soltanto la sensualità; sono anche l’invidia, l’ambizione, l’orgoglio e i risentimenti più forti; come pure sono passioni l’amore, la fedeltà, l’impegno, il coraggio, l’entusiasmo e la perseveranza.
Queste sono le forze dell’uomo che dobbiamo imparare a conoscere e a dominare.
Anche se non arriviamo a casi drammatici, dobbiamo però dire che la pesca infruttuosa si ripete spesso nella nostra vita.
Viene ad esempio, magari in giovanissima età, una malattia che immobilizza ed ecco tutta una serie di sogni che crollano.
E uno passa due, tre, quattro anni prima di riuscire, se riesce, a ricomporre la profondità dei suoi desideri con la realtà che sta vivendo.
Conosco situazioni in cui da questa ricomposizione è venuta fuori una forza speculare formidabile.
Ma quanta fatica per arrivare a questa ricomposizione! Anche un’amicizia che sfuma è spesso fonte di grande delusione; un posto non ottenuto, un posto di lavoro sul quale avevamo puntato, soprattutto in situazioni in cui c’è una carriera quasi obbligata.
È la notte sul lago di Tiberiade.
E il Vangelo non dice tutto; ma quando cominciavano a tirar su la rete vuota, sarà cominciata la litania delle colpe: «È colpa tua, quanto mai siamo venuti, chi ci ha fatto uscire, chi ha avuto questa idea».
Cioè vengono fuori tutti i sentimenti negativi.
Dobbiamo riflettere per capire, come gli apostoli, che in fondo l’importante non è “andare a pescare”, che si è chiamati a qualcosa di più grande e che il Signore può farci conoscere quel “qualcosa di più” attraverso l’insuccesso.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 42-43).
  Da peccatore a pescatore (Lc 5,1-11) Quando finisce di parlare, Gesù da un ordine a Simone: « Prendi il largo e calate le reti per la pesca » (Lc 5, 4).
E Simone risponde: «Signore, avendo faticato tutta la notte nulla abbiamo preso» (Lc 5,5): il verbo usato da Luca è kopiasantes (part.
aor.
di kopiao), che in Atti si riferisce alla fatica apostolica, la fatica di annunciare il Vangelo.
È la fatica di chi, pur avendo speso molte energie, pur avendo messo in opera tutte le proprie forze, non ottiene alcun risultato.
E Simone decide di rischiare ancora una volta, di ignorare la fatica che lo opprime, di rischiare il ridicolo: «ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5, 5).
È l’immagine dell’Apostolo che supera la prova di fiducia, che non cade nella delusione e nella disperazione, ma trova la forza di provarci ancora una volta…
«sulla tua parola».
Simone diventa immagine dell’uomo che rischia se stesso anche in situazioni piccole ma che esigono decisione e coraggio.
Santo è colui che sa rischiare, che si butta fuori, che non agisce in base a ragionamenti soltanto di convenienza.
Non  sarà la sola fatica umana, neanche il calcolo o gli interessi ma l’amore che permetterà a Pietro di buttarsi, di andare fuori, di saper rischiare con e per Gesù.
E Gesù ripaga la fatica di Simone: «E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano» (Lc 5,6).
Giunti a riva, Simone davanti a tutta la folla «si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”» (Lc 5,8).
La potenza della parola di Gesù gli ha aperto gli occhi sulla propria condizione di peccatore.
Posto dinanzi alla potenza di Gesù, Simone riconosce la propria fragilità e trova la sua autorealizzazione.
E Gesù, accogliendo il peccatore, lo trasfigura in…
pescatore di uomini! Butto la rete Signore, la mia sola sicurezza sei tu, come il mare che ho davanti e nel quale butto la rete della mia vita.
Anche se finora non ho pescato nulla, anche se a volte non ne ho la voglia, io so, Signore, che se avrò la forza di buttare continuamente questa rete, troverò il senso della verità.
(E.
OLIVERO, L’amore ha già vinto  Pensieri e lettre spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005).
  Sono pronta a partire «Sono pronta a partire, e il mio desiderio con vele spiegate aspetta il vento.
Solo un altro respiro respirerò in quest’aria calma, solo un altro sguardo d’amore volgerò all’indietro, e poi sarò tra voi, un navigante tra naviganti.
E tu vasto mare, madre insonne, unica pace e libertà per fiumi e rivi solo un’altra svolta farà questa corrente, solo un altro mormorio in questa radura, e poi io verrò da te, una goccia sconfinata in uno sconfinato oceano»   Tuffati profondo!   La perla di gran prezzo giace nascosta giù nel profondo.
Come un pescatore di perle, anima mia, tuffati, tuffati profondo, tuffati ancora più profondo e cerca!   Può darsi che non trovi nulla la prima volta, Come un pescatore di perle, anima mia, senza stancarti, persisti e persisti ancora, tuffati profondo, sempre più profondo, e cerca!   Quelli che non conoscono il segreto si prenderanno gioco di te e tu ne sarai rattristata.
Ma non perderti di coraggio, pescatore di perle, anima mia!   La perla di gran prezzo è proprio nascosta là nascosta proprio in fondo.
E’ la tua fede che ti aiuterà a trovare il tesoro, è essa che permetterà che ciò che era nascosto sia finalmente rivelato.
  Tuffati profondo, tuffati ancora più profondo, come un pescatore di perle, anima mia, e cerca, cerca senza stancarti.
(Swami Parmánanda).
  «Amore» Il Signore ha bisbigliato una parola all’orecchio di un fiore e questo si è aperto in tanti petali colorati.
Il Signore ha bisbigliato una parola ad una pietra, e questa ha assunto i colori iridescenti e le sfumature del diamante.
Il Signore ha bisbigliato una parola al ruscello, ed esso è sgorgato con la freschezza di una sorgente d’acqua viva e perenne.
Il Signore, alla fine, si è chinato all’orecchio dell’uomo e gli ha sussurrato dolcemente una sola parola: amore.
(Gilal Ed-Din Rumi, monaco sufita del XIII secolo).
  Solo Gesù può liberarmi totalmente   Nel Nuovo Testamento la presenza di Gesù con le sue parole e i suoi gesti diviene una fonte inesauribile d’ispirazione per la preghiera: è Gesù che mi si accosta e m’interpella.
Gesù è il Buon Pastore alla ricerca della pecora smarrita, e io lo seguo.
Gesù è la vigna; Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati perché io possa dare buoni frutti.
Alla moltiplicazione dei pani, è Gesù che m’invita a offrirgli la mia povertà – cinque pani e due pesci – perché egli se ne serva per compiere meraviglie.
Alla pesca miracolosa, è Gesù che mi chiede una fiducia assoluta nella sua parola più che nei miei mezzi umani.
In occasione di numerose guarigioni, Gesù mi rammenta                                             che lui solo può liberarmi totalmente.
(Jean -Jacques Gareau).
  Preghiera Signore Gesù,                                            Tu ci chiami a seguirTi,                                     nel Tuo cammino di croce;                                      Tu sconvolgi i nostri sogni                                            e i nostri progetti:                                                    eppure, Tu sei la nostra pace…                                         Accettaci con le nostre paure e le esitazioni del cuore; accogli il nostro umile amore, capace di darTi soltanto il poco che siamo.
ConvertiTi a noi, Signore, e noi ci convertiremo a Te, lasciandoci condurre dove forse non avremmo voluto, ma dove Tu ci precedi e ci attendi, perforo delle povere storie della nostra vita e del nostro dolore la Tua storia con noi.
Amen.
Alleluia.
(Bruno Forte)     * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
           V DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Isaia 6,1-2.3-8          Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio.
Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali.
Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria».
Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo.
E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti».
Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare.
Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato».
Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?».
E io risposi: «Eccomi, manda me!».
    v Vocazione e mandato, ovvero affidamento di un compito da svolgere, nell’Antico Testamento sono sempre strettamente congiunti.
Talvolta tuttavia la chiamata è semplicemente supposta ed è indicato solo il mandato di Dio all’uomo: è questo ciò che accade ad Abramo (Gn 12,1).
Nel caso di Mosè, la chiamata e il mandato vengono ampiamente e di-stintamente descritti, nella lunga e drammatica cornice di una teofania (Es 3,2-4,17).
Altre volte la vocazione non è affatto descritta, ma è soltanto ricordata dall’interessato (Amos 7,14-15) oppure dallo stesso Dio, p.
es., nella scena che descrive ampiamente il mandato affidato al profeta Geremia (1,4-5: «La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini: Prima che io ti formassi nel grembo, ti ho conosciuto…»).
     La chiamata di Isaia al ministero profetico richiama in qualche modo la chiamata e il mandato di Mosè descritti nel libro dell’Esodo, ma con un ritmo e un linguaggio molto più concentrati ed essenziali.
Nell’uno e nell’altro caso, tutto comincia con una teofania, che sorprende gli interessati.
Essi si dichiarano profondamente turbati dalla manifestazione di Dio e consapevoli della loro personale indegnità.
Da questo punto in poi, le due situazioni hanno però un diverso sviluppo: Mosè continua a protestare la sua incapacità di assolvere il mandato, mentre Isaia, purificato dai carboni ardenti dell’altare, si offre con slancio come inviato del Signore.
Diverso anche, nei due casi, è il contenuto del mandato: in quello di Mosè sta in primo piano l’annunzio della vicina liberazione dalla schiavitù, in quello di Isaia sta in primo piano un annunzio di sventura, mentre è solo appena intravista la fine della sventura medesima.
     Nel v.
1, il profeta ci dice che il suo ministero profetico ebbe inizio «Nell’anno in cui morì il re Ozìa (nelle traduzioni dato talvolta come Uzzia e nel libro dei Re è chiamato Azaria), cioè probabilmente tra il 740-739.
Subito dopo è descritta la teofania, fino al v.
4.
Emerge in questa descrizione la santità di Dio, cioè la sua trascendenza, sperimentata come incommensurabilità (i lembi del suo manto riempivano il tempio), maestà reale (seduto su un trono) e santità proclamata a cori alterni dai misteriosi serafini.
Il termine «santità», oltre l’idea della trascendenza, include anche l’idea della suprema rettitudine.
Ciò è indicato esplicitamente dal v.
5, nel quale è descritta la reazione del profeta, il quale dalla stessa visione di Dio è indotto a riconoscere la sua indegnità di peccatore, partecipe dei peccati del suo popolo.
     Se la teofania si chiudesse con la confessione del peccato, suo effetto sarebbe la disperazione.
Essa invece prosegue, nei vv.
5-7, con la descrizione di una purificazione, che è anche una santificazione aperta alla speranza.
     Nel v.
8, è detto come è bastato al profeta purificato sentire che Dio cercava qualcuno da inviare come suo portavoce, perché egli si offrisse con slancio per quel compito.
     Non sono poche le analogie tra questo testo del profeta Isaia e la nostra lettura evangelica.
  Seconda lettura: 1Corinzi 15,1-11          Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato.
A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.
In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti.
Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli.
Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto.
Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana.
Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me.
Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.
    v Il brano della prima lettera ai Corinzi che costituisce la nostra seconda lettura contiene l’inizio della risposta di Paolo a quello che probabilmente era l’ultimo quesito postogli da quella comunità, riguardante il problema della risurrezione dei morti.
     Nei vv.
1-2 c’è un moderato elogio dei Corinzi, per avere essi accolto il vangelo che egli stesso aveva loro presentato e per avere resistito a quelli che avrebbero voluto corromperlo o deformarlo.
Essi hanno anche sperimentato la forza salvifica che c’è in quel vangelo.
     Nei vv.
3-7, l’apostolo riassume l’insegnamento centrale del Vangelo, che egli predica, in piena concordia con la predicazione della Chiesa: che Gesù Cristo è morto per la remissione dei peccati, che fu sepolto e fu risuscitato, conformemente alle affermazioni delle Scritture, che finalmente è apparso a quelli che poi hanno testimoniato quella risurrezione: rispettando l’ordine gerarchico, vengono nominati Cefa, i Dodici, più di cinquecento fratelli e Giacomo (rappresentante dei «fratelli del Signore»).
Per questo condensato del kèrigma primitivo, sono adoperati i termini tecnici ricevere e trasmettere.
A questo patrimonio comune, nei vv.
8-10, Paolo aggiunge la sua personale testimonianza: anch’egli, ultimo (quasi un aborto, avendo egli prima perseguitato la Chiesa), ha visto il Signore risorto e questa apparizione ha radicalmente cambiato la sua vita, facendolo diventare un apostolo infaticabile.
     La conclusione del brano, nel v.
11, è brevissima e solenne: questa e non altra è la fede di tutta la Chiesa, la fede che ha reso cristiani i destinatari della lettera di Paolo.
Solo partendo da questa fede egli potrà affrontare e discutere il problema della risurrezione dei morti.
  Vangelo: Luca 5,1-11          In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda.
I pescatori erano scesi e lavavano le reti.
Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra.
Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca».
Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti».
Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano.
Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli.
Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.
Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore».
Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone.
Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini».
E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
    Esegesi      Questo testo di Luca utilizza certamente il racconto della chiamata dei primi discepoli di Gesù, che si trova in Mc 16-20 e Mt 18-22, ma non è semplicemente lo stesso racconto con qualche variazione.
Direttamente, il tema del nostro brano è preannunzio del ministero apostolico di Pietro, che egli avrebbe poi svolto insieme agli altri apostoli, qui rappresentati da Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo.
In tal modo, il terzo vangelo ci assicura che il ministero apostolico, guidato dal gruppo dei dodici, è stato voluto e preordinato da Gesù fin dall’inizio della sua vita pubblica e non è scaturito solo dall’entusiasmo del tempo post-pasquale.
Si può pensare che sia questo il motivo per cui nel terzo vangelo non si trova il mandato con cui il Signore risorto affida agli undici la diffusione del vangelo nel mondo (Mt 28,19-20; cf.
Mc 16,15) e il potere di rimettere i peccati (Gv 20,21-23).                                                                Le parole con cui Gesù esprime la sua volontà e preannunzia il ministero apostolico di Pietro e dei suoi collaboratori sono preparate da una scena d’insegnamento dello stesso Gesù e dal racconto di un miracolo.
     Nella scena di insegnamento (vv.
1-3), Gesù è presentato circondato dalla folla, che vuole ascoltare da lui «la parola di Dio».
Perché a tutti più facilmente arrivi quella «parola», Gesù chiede a Simone di poter utilizzare la sua barca.
     Nei vv.
4-7 è raccontato il miracolo di una pesca straordinaria ottenuta su indicazione di Gesù.
Il fatto appare come prodigioso, perché avvenuto su semplice segnalazione di Gesù, in condizioni normalmente sfavorevoli, cioè in pieno giorno (mentre di solito la pesca si fa di notte) e in quantità del tutto inusuale: in tal modo Gesù dimostra di avere autorità sul mare e sui pesci.
Non pare che l’evangelista abbia voluto dare un valore simbolico all’avvenimento della pesca, q

IV Domenica del tempo ordinario anno C

  Parabola orientale Il maestro non amava i discorsi eruditi che gli altri chiamavano invece “perle di saggezza”.
I discepoli gli chiesero: Se sono parole perché le disprezzi? Il maestro replicò: Avete mai visto perle che crescono se seminate in un campo? Questi è davvero il profeta Furono riempite dodici ceste.
Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale.
Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi.
Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo.
Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede.
Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi.
Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: Beati quelli che non vedono e credono (Gv 20,29).
Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire.
Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo.
Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta (Gv 6,14).
[…] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: Susciterò per loro un profeta simile a te (Dt 18,18).
Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà.
E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli.
Lo stesso Signore dice di se stesso: Un profeta non riceve onore nella sua patria (Gv 4,44).
Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta.
Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli.
Egli stesso è detto angelo del grande consiglio (cfr.
Is 9,6).
E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr.
Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.
(AGOSTINO, Omelie sul vangelo di Giovanni 24,6-7, in Opere di sant’Agostino, pp.
564-566).
  Essere profeti Il profeta, Signore, non è un depositario di verità, ma un testimone di bene.
Non sa dire cose sublimi, ma le compie.
Annuncia la speranza nella disperazione, la misericordia nel peccato, l’intervento di Dio dove tutto sembra morto.
  Il profeta è consapevole dei suoli limiti, delle sue debolezza, dei suoi dubbi, delle sue incapacità, della sua inesperienza, ma è anche sereno e coraggioso, perché Dio lo ha scelto e amato.
  Il profeta fa la scelta di Dio, vive la comunione intima con lui.
  Essere profeti oggi, significa passare da una pastorale di conversazione ad una pastorale missionaria, significa essere presenti là dove la gente vive, lavora, soffre, gioisce.
  Tu, Signore, sei il profeta per eccellenza che dobbiamo ascoltare e accogliere.
Tua chiesa erano le piazze, le rive dei fiumi, i monti, le strade.
  Ogni cristiano è profeta, è la tua bocca che evangelizza, che parla davanti agli uomini, al mondo, alla storia.
  Signore, aiutaci ad essere profeti di frontiera là dove scorre la vita della gente.
(A.
Merico)   Preghiera Tu ci parli.
Signore, attraverso profeti pienamente inseriti nelle vicende del loro popolo e del loro tempo e insieme capaci di restare in solitudine o di andare nel deserto per fare riascoltare la tua Parola a coloro che li seguono.
Tu ci parli, Signore, attraverso testimoni in grado di condividere le angosce dei loro fratelli, le paure e i drammi degli uomini e insieme pieni di fede nell’indicare la tua presenza già operante, la tua promessa suscitatrice di vita.
Tu ci parli, Signore, attraverso uomini che sanno contestare coraggiosamente le mode, le abitudini, i pregiudizi, i luoghi comuni dei loro contemporanei e insieme profondamente solidali con loro nel ricercare il tuo volto che salva, nel parlare al cuore di chi dispera.
Guarda, ti preghiamo, alla tua Chiesa, alla Chiesa del nostro tempo, a noi che siamo il tuo popolo, costituiti per tua grazia profeti e testimoni della tua verità: donaci di essere mediatori della tua consolazione nel momento stesso in cui denunciamo le nostre e le altrui ipocrisie.
Nei deserti della nostra società fa’ risuonare la tua Parola, perché anche noi ‘usciamo’, confessando i nostri peccati per essere di nuovo immersi nella grazia del tuo Spirito.
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
             IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Geremia 1,4-5.17-19          Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni.
Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.
Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.
Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».
    v La lettura di oggi contiene la chiamata e la missione del profeta Geremia in un «racconto autobiografico» (in prima persona).
La pericope liturgica decurta il testo biblico di circa dieci versetti (mancano i vv.
6-16).
I redattori delle letture di questa domenica hanno voluto ritenere solo quelle parti in cui si esprime il conflitto tra il profeta ed i suoi avversari, in vista del Vangelo di oggi, nel quale assistiamo ad un contrasto analogo tra Gesù ed i suoi ascoltatori nella sinagoga di Nazaret.
— vv.
4-5: «Prima di formarti nel grembo materno…».
Con queste parole ben note Dio rivela al profeta la sua vocazione: esse manifestano l’assoluta, sovrana potenza di Dio nel costituire Geremia profeta in vista della sua futura missione.
Il profeta venne all’esistenza proprio per realizzare la sua missione: in certo senso il suo esistere ed il suo essere mandato formano un’unica ed identica realtà.
Inoltre la chiamata di Dio è come una consacrazione («ti ho consacrato»), una speciale investitura che abbraccia tutta la persona del profeta.
Anche se occorre molto coraggio per essere l’inviato di Dio, la sua forza deriva da questa investitura da parte del Signore.
— vv.
18-19: «una colonna di ferro e un muro di bronzo…».
Il profeta viene paragonato ad una città fortificata, che i nemici assediano senza poterla espugnare.
Immagine (o metafora) marziale, impiegata per mettere in risalto anche la dura battaglia che il profeta è chiamato a sostenere.
—v.
19: «sono con te per salvarti».
Ecco l’unica certezza che sorregge il profeta.
Questa «formula di assistenza», con cui il Signore o il suo angelo promettono l’assistenza indefettibile di Dio agli inviati («Io sono con te…», «Il Signore è con te»), ricorre spesso nella Sacra Scrittura, ad esempio in Es 3,12; Rut 2,4; Lc 1,28, e nella nostra liturgia.
È un invito, rivolto alle persona inviate, ad aver fiducia in Dio.
Costoro devono affidare a Dio la loro missione, e non cercare altrove le loro certezze.
  Seconda lettura: 1Corinzi 12,31-13,13          Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi.
E allora, vi mostro la via più sublime.
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità.
Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine.
Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà.
Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo.
Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino.
Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia.
Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.
Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità.
Ma la più grande di tutte è la carità!        v Solitamente si ama definire la lettura di oggi «l’inno alla carità», uno dei testi più celebri del Nuovo Testamento.
Il brano liturgico va riposto esattamente nel contesto in cui Paolo (nella 1 Cor.) parla dei carismi.
È lo stesso contesto della II Lettura di domenica scorsa.
— vv.
12-31: «desiderate intensamente i carismi più grandi».
I cristiani di Corinto mostrano grande interesse per i doni o carismi, specie quelli più spettacolari, che attirano ed alimentano il loro orgoglio, rappresentando qualcosa di speciale.
Paolo ristabilisce il giusto ordine nella realtà di questi doni.
In tale ordine il posto centrale lo detiene il dono dell’amore.
Chi ha ricevuto questo carisma dell’amore, ha ricevuto il più grande dei doni.
— vv.
1-3: «le lingue degli uomini e degli angeli, ecc.».
Perché il dono dell’amore è realtà centrale rispetto ad ogni altro dono? Paolo ne spiega il motivo, affermando che esso è la condizione che garantisce l’autenticità di tutti gli altri carismi.
Il parlare in lingue misteriose (v.
1), l’esercitare la profezia (v.
2), l’avere la scienza di tutte le realtà più misteriose, come pure l’aver fede e capacità di trasportare le montagne (v.
2), la stessa grazia del martirio non sono valori assoluti e a sé stanti; valgono soltanto se trovano la loro profonda motivazione nel dono dell’amore.
— vv.
4-7: «Magnanima, benevola, non è invidiosa ecc.».
L’Apostolo enumera ben 15 qualità: inizia con due caratteristiche positive, continua con otto negative (ciò che l’amore non è, e non fa), e conclude con cinque positive.
Questo elogio diligentemente strutturato dell’amore mira a sottolineare quelle virtù, opposte alla vanagloria ed alla ricerca di sé, che sono appunto all’origine di quelle spinte segrete che portano molti cristiani di Corinto a desiderare i carismi per sé.
Vogliono avere i carismi per essere diversi e superiori agli altri.
— vv.
8-12: «La carità non avrà mai fine…».
A differenza dei carismi, che prima o poi hanno fine, la carità dura per sempre.
Lo stesso carisma della conoscenza, che pure è permanente, è da considerare provvisorio nel senso che nel tempo presente non può essere che parziale e frammentario, incompleto.
Per questo la conoscenza è paragonata all’immagine sfocata e approssimativa che si vede in uno specchio metallico usato nell’antichità; oppure, è paragonata alla capacità conoscitiva che ha un bambino rispetto a quella di un adulto.
La carità invece si prolunga nell’eternità, senza alterazioni o limitazioni di sorta.
Inoltre, la carità è come un legame che ci congiunge con la vita eterna.
— v.
13: «Ma la più grande di tutte è la carità!».
Fede, speranza e carità in quanto appartengono al rapporto dell’uomo con Dio, sono importanti.
 Ma di queste tre, è l’amore a valere di più, perché ci avvicina maggiormente a Dio, da lui verrà maggiormente stimata e ricambiata e resterà in eterno.
  Vangelo: Luca 4,21-30          In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?».
Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso.
Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”».
Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria.
Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne.
C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno.
Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù.
Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
    Esegesi      Il brano del vangelo odierno è la seconda parte della cosiddetta «pericope di Nazaret», ad immediato seguito della prima parte, letta domenica scorsa.
Mentre nella I parte si riferiva l’accoglienza positiva di Gesù da parte dei suoi compaesani (elogi, stupore), nella II parte ci troviamo invece di fronte all’aspetto negativo di tale accoglienza: rifiuto e ostilità.
L’evangelista Luca ha voluto fare di questo episodio un momento emblematico della missione di Gesù, presentando fin d’ora la divisione degli spiriti che si opera di fonte a lui, sempre.
— v.
22: «Non è costui il figlio di Giuseppe?».
La meraviglia si traduce in delusione e ostilità.
In realtà la sua persona «delude» le aspettative dei presenti, perché egli socialmente non appare diverso da loro.
Ma anche il suo messaggio li delude, in quanto non prospetta alcun benessere terreno, alcun cambiamento politico e neanche l’esaltazione di Israele.
Inoltre a Nazaret Gesù non compie i miracoli che ha compiuto altrove, specie a Cafarnao.
— v.
23: «Medico, cura te stesso».
Cosciente di tale delusione, dovuta in particolare all’assenza di segni spettacolari, Gesù mette in bocca ai compaesani il proverbio, noto anche presso i rabbini: « Medico, cura te stesso ».
La sua potenza taumaturgica, Gesù avrebbe dovuto metterla in mostra specialmente nella sua patria, e non lontano da essa.
— v.
24: «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria».
Al proverbio che rispecchia il pensiero dei suoi ascoltatori, Gesù ne contrappone un altro, che spiega perché egli non compia miracoli a Nazaret.
Se, come tutti i profeti, non è riconosciuto e accettato nella sua patria, non può compiere prodigi semplicemente per avvalorare la sua identità e indurli a credere.
La fede che esige miracoli non è vera fede.
— vv.
25-27: «C’erano molte vedove…
molti lebbrosi».
Con i due esempi veterotestamentari, la vedova di Zarepta e Naaman il Siro, Gesù esprime due dimensioni essenziali della sua missione: a) la sua patria, per volere divino, passa in secondo ordine di fronte agli stranieri; b) la elezione di Dio non si ferma a vincoli di patria o familiari, ma è rivolta a tutti.
— vv.
28: «Si riempirono di sdegno».
Gli esempi addotti da Gesù, con l’universalismo che dichiarano, determinano sdegno e rifiuto ostile da parte dei compaesani.
Se quel profeta non compie nulla per la sua patria, anzi mostra di offrire agli stranieri i suoi benefici, non appartiene più ad essa: va ripudiato.
Stando al testo del Dt.
13,2, un profeta che non vuole garantire la sua missione con segni, merita la morte.
Perciò lo conducono fuori, per ucciderlo.
— v.
30: «si mise in cammino».
Come spesso il Vangelo di Giovanni sottolinea il fatto che i Giudei non poterono catturare Gesù «perché non era ancora giunta la sua ora» (Gv 7,30; 8,20:10,39), così qui Luca vuol dire che Gesù passa liberamente in mezzo a coloro che lo hanno condotto fuori della città non tanto per fare un miracolo (che finora ha rifiutato) quanto per affermare la sua sovrana libertà di fronte alla morte.
Tale «momento» arriverà, non per fatalità, per effetto di complotti umani o sdegno di popolo, ma per sua libera scelta.
Alla luce di ciò, acquista particolare spessore teologico il verbo finale: «si mise in cammino».
Respinto e rifiutato dalla sua patria, Gesù a sua volta se ne va, le volta le spalle, la ripudia, per portare altrove l’annuncio di salvezza.
  Meditazione      La liturgia ci fa ascoltare in due domeniche successive quanto avviene nella sinagoga di Nazaret.
Domenica scorsa abbiamo interrotto la narrazione di Luca nel momento in cui Gesù, dopo aver proclamato la lettura dal rotolo del profeta Isaia, ne afferma il suo compimento oggi.
In questa domenica leggiamo la seconda parte del racconto, che si sofferma sulla reazione dei suoi concittadini presenti alla preghiera sinagogale.
La meraviglia iniziale si trasforma presto in sdegno, sino al punto di cacciarlo fuori dalla città e tentare di ucciderlo buttandolo giù da precipizio (cfr.
v.
29).
La meraviglia dei nazaretani diventa così lo stupore di noi ascoltatori: come mai questo diverso e addirittura contrapposto atteggiamento? Cosa fa passare dalla meraviglia allo sdegno? Diversamente da quanto accade nel racconto degli altri Sinottici, in Luca queste contrastanti reazioni nascono entrambe dall’ascolto della parola di Gesù.
Descrivono due opposte conseguenze dell’ascoltare, o meglio due differenti modi di ascoltare.
Non soltanto la meraviglia per le parole di grazia che escono dalla bocca di Gesù, ma anche lo sdegno nasce «all’udire queste cose» (v.
28).
C’è dunque un aspetto di questa parola che affascina e stupisce, e che siamo disposti ad accogliere volentieri; ma c’è anche un altro taglio più duro da accettare, che esige una conversione delle nostre attese, perché la Parola si compie sempre nel modo che non immaginavamo.
Di conseguenza, o siamo disposti a lasciarci sorprendere e convertire, o altrimenti ne restiamo scandalizzati.
     Gesù discerne cosa c’è nel cuore dei suoi concittadini, lo intuisce e lo porta in piena luce.
«Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso.
Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”» (v.
23).
Innanzitutto tra i tuoi, per quelli della tua casa.
Tu che sei il figlio di Giuseppe, uno di noi, guarda anzitutto ai nostri bisogni.
Nel cuore dei nazaretani c’è la tentazione di requisire e circoscrivere l’azione di Gesù.
Ciò che si manifesta in questa pretesa non è soltanto il rifiuto del carattere universale della salvezza.
Che Gesù compia prodigi a Cafarnao o altrove ai nazaretani sta anche bene, purché li compia anzitutto ‘nella sua patria’.
La tentazione più grave consiste nel non riconoscere i segni della salvezza là dove germogliano perché essi non sono il soddisfacimento immediato del proprio bisogno personale.
Occorre invece rallegrasi per i segni della salvezza anche se sono per altri perché comunque testimoniano la vicinanza di Dio al suo popolo; annunciano che la misericordia del Signore diviene un oggi nella nostra storia.
     Gesù cita due proverbi: «Medico, cura te stesso» e subito dopo «Nessun profeta è ben accetto nella sua patria».
Vi risuonano due appellativi, entrambi riferiti a Gesù: ‘medico’ e ‘profeta’.
Il primo sembra più esprimere il punto di vista dei nazaretani e l’idea che hanno maturato di Gesù, o l’attesa che nutrono nei suoi confronti.
Il secondo indica piuttosto come Gesù interpreta la propria missione e desidera compierla.
Per i cittadini di Nazareth Gesù è il medico che deve curare le loro infermità e colmare i loro bisogni.
Gesù invece afferma di essere anzitutto un profeta, vale a dire un uomo che compie sì segni e guarigioni, ma non semplicemente per appagare un bisogno, ma per rivelare che la promessa di Dio, custodita dalla sua Parola, ha iniziato ad attuarsi nella storia.
Per il profeta il segno rinvia alla Parola, la quale a sua volta esige un affidamento e un atto di fede che oltrepassa il segno stesso.
Si riconosce il segno, ma per credere nella Parola.
     I nazaretani, al contrario, hanno saputo dei segni già operati da Gesù, ma essi, anziché nutrire la fede nella sua persona, li conducono a pretendere altri segni che risolvano i loro problemi.
Questa è la tua casa, la tua patria, qui c’è la tua gente e i tuoi parenti: tutto ciò ci offre un diritto e una pretesa nei tuoi confronti.
Fa’ anche qui, nella tua patria, quanto vai facendo altrove.
Tra questi nazaretani ci sono certamente molti bisogni veri,  numerose infermità da guarire e oppressioni da liberare, le stesse che Gesù incontrerà e sanerà altrove; il problema è che tutto ciò viene vissuto nella forma della pretesa e non in quella dell’affidamento.
Con l’atteggiamento dei ricchi, dunque, e non con il cuore dei poveri.
Ma è ai poveri che viene annunciato l’evangelo della salvezza, come Gesù ha appena affermato citando il profeta Isaia.
     Gesù legge nei cuori dei nazaretani l’invito a compiere «anche qui, nella tua patria, quanto hai fatto a Cafarnao» (cfr.
v.
23).
Luca, in verità, non lo ha ancora raccontato, lo racconterà nei capitoli seguenti del suo vangelo.
Ma forse questa non è tanto una svista narrativa, quanto un modo raffinato per invitare il suo lettore ad andare a vedere ciò che Gesù opera a Cafarnao.
Tra i vari miracoli si staglia la guarigione del servo del centurione narrata all’inizio del capitolo settimo (vv.
1-10).
Un episodio che aiuta a capire, in un gioco di contrasti, proprio ciò che accade nella sinagoga di Nazaret.
Il centurione è un pagano che si riconosce indegno di ricevere Gesù nella sua casa.
Il suo è un atteggiamento completamente diverso da quello dei concittadini di Gesù.
Questi ultimi vantano dei diritti su Gesù, perché era uno di loro.
Questo pagano non solo non avanza pretese, ma per ben due volte, con insistenza, afferma di non essere degno, mentre al contrario i Giudei presentano a Gesù le sue credenziali: «egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano – perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga» (vv.
4-5).
«Egli merita» – «Io non sono degno»: davvero forte è il contrasto tra il punto di vista dei G

II Domenica del tempo ordinario (Anno C).

         Preghiere e Racconti Il vino della festa Sí, il vino: è lui, non l’uva, il vero”frutto” della vigna.
E come la vigna è ricco di doni concreti e, al contempo, denso di rimandi simbolici.
Da sempre, “dai tempi di Noè” appunto, accanto al pane del bisogno, al pane quotidiano necessario per vivere, l’uomo ha avuto il vino della gratuità e della festa: una bevanda non necessaria alla sopravvivenza, ma preziosa per la consolazione, la gioia condivisa, l’amicizia ritrovata… Il vino: bevanda che, bevuta in solitudine, ne stordisce l’amarezza solo per accentuarne la tristezza, ma anche bevanda che, gustata nell’intimità di un’amicizia, ne esalta il sapore e ne affina il piacere.
Bevanda esigente, anche, perché richiede a chi la beve lo sforzo di liberarsi dalla schiavitù dell’efficienza esasperata per abbandonarsi alla gratuità senza la quale la vita è priva di sapore: bevanda che invita a cantare la vita, a immettere nella consapevolezza della morte la volontà di dire sí alla vita.
Forse è per tutti questi aspetti – oltre che per il discernimento che richiede nel conoscere se stessi, i propri limiti e quelli degli altri -, è per questa lettura dell’esistenza nel segno della gratuità e della gioia condivisa che il vino è divenuto nella Bibbia e in altre tradizioni spirituali il simbolo della sapienza.
Sapienza perché dà “sapore” alla vita, ma anche perché il vino sa sciogliere il cuore e farne emergere ciò che davvero lo abita, sa trasformare la semplice assunzione di cibo in un banchetto, così come la fermentazione ha trasfigurato l’umile succo d’uva in bevanda inebriante.
[…] non a caso Gesù stesso porrà il suo primo “segno” alle nozze di Cana sotto il sigillo di una gioia condivisa grazie al vino migliore e lascerà ai suoi discepoli il comandamento nuovo dell’amore attorno al “segno” di un pane spezzato e di una coppa di vino versato perché tutti abbiano la vita in pienezza.
(Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 50-51).
  La fonte divina dell’amore Di questa fonte inesauribile parla Giovanni nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-12).
Il nostro vino, il nostro tentativo di amare, vede molto presto la fine.
Non possiamo dare nessuna garanzia delle nostre emozioni.
Prima o poi i nostri sentimenti di amore si volatilizzano e allora crediamo di non riuscire più ad amare l’altro.
Questo capita a molti coniugi che assistano stupiti all’esaurirsi del loro amore.
Questo capita anche alla coppia che celebra le nozze a Cana.
Viene a mancare il vino, il loro amore viene a mancare, già il terzo giorno essi non hanno più né vino, né amore.
Allora Gesù trasforma in vino sei otri d’acqua, in modo che il vino non abbia più a finire.
Sei è il numero dell’imperfezione e gli otri di pietra rimandano a quanto di duro e di impietrito vi è in noi.
Nella loro incapacità di amare veramente, nelle loro durezze e nei loro blocchi, Gesù mostra agli sposi un’altra fonte d’amore, la fonte divina, che mai smette di sgorgare.
Gesù pronuncia la sua parola d’amore in quanto in noi è divenuto sciapo e senza sentimento, in quanto in noi è imperfetto e indurito.
Se noi ci fidiamo di questa parola, anche in noi tutto può mutarsi in amore.
D’improvviso noi possiamo amare con le nostre forze e le nostre debolezze, con le nostre imperfezioni e i nostri errori, con le nostre contrazioni e i nostri indurimenti.
Tutto in noi può irradiare l’amore divino, così che intorno a noi possa svolgersi la festa della vita.
(A.
GRÜN, Abitare nella casa dell’amore, Brescia, Queriniana, 2000, 67-68).
  Riempi d’acqua il tuo otre vuoto Adesso sono un otre vuoto! Bisogna consumare tutto il proprio vino per accorgersi che non era vino buono.
Bisogna consumare tutto il proprio vino per desiderare, finalmente, il vino di Gesù.
Madre della compassione, Madre che ti accorgi da sempre, anche per me, dici a Gesù: “non ha più gioia!”.
Non ho più gioia.
Otre vuoto io sono, anche di speranza.
E tu, sicura come chi ha già ottenuto, con gli occhi che tradiscono una gioia più grande di quella che sarà la mia, supplichi: “fa tutto quello che Lui ti dirà!”.
E Lui: “riempi d’acqua il tuo otre!”.
Da dove attingere, Signore, per colmare fino all’orlo? Dalla mia mente deserta? Dal mio cuore inaridito? Dalla mia innocenza consumata? Fammi, Signore, il dono delle lacrime: siano esse l’acqua che con abbondanza tu trasformi, e mentre bevo a piene mani, sento che Le dici: “Donna, ecco tuo figlio!”.
  «Non hanno più vino» Il vino è la gioia di vivere che non può essere comprata ne fabbricata ed è difficile starne senza.
È Gesù, questo vino, di cui gli sposi hanno bisogno, ma che non potrebbero mai darsi, questo vino Gesù lo ‘crea’ dall’acqua, perché si tratta di un vino nuovo.
Giovanni vuole dirci che il vino nuovo e buono, mai gustato prima, è Gesù stesso.
Il vino è significativo come dono di Gesù:  esso è alla fine; è buono; è abbondante.
È segno del tempo della salvezza.
Il vino è così il «sangue versato» da Cristo per noi, è il segno della carità, del dono di sé, così importante per poter vivere da cristiani.
Il vino delle nozze di Cana, questo buon vino atteso, è il dono della carità di Cristo, il segno della gioia che la venuta del Messia realizza.
Le feste degli uomini hanno la conclusione ben descritta dal maestro di tavola: la tristezza del lunedì.
Gesù, invece, è «il sabato senza sera», come diceva sant’Agostino: quando si pensa che la festa finisca – «Non hanno più vino» -, salta fuori il vino buono, conservato fino allora, il vino nuovo mai gustato prima (Cf.
A.S.
BESSONE, Prediche della domenica, Anno C, Biella, 1992, 185-190).
  Maria, donna del vino nuovo Santa Maria, donna del vino nuovo, quante volte sperimentiamo pure noi che il banchetto della vita languisce e la felicità si spegne sul volto dei commensali! È il vino della festa che vien meno.
Sulla tavola non ci manca nulla: ma, senza il succo della vite, abbiamo perso il gusto del pane che sa di grano.
Mastichiamo annoiati i prodotti dell’opulenza: ma con l’ingordigia degli epuloni e con la rabbia di chi non ha fame.
Le pietanze della cucina nostrana hanno smarrito gli antichi sapori: ma anche i frutti esotici hanno ormai poco da dirci.
Tu lo sai bene da che cosa deriva questa inflazione di tedio.
Le scorte di senso si sono esaurite.
Non abbiamo più vino.
Gli odori asprigni del mosto non ci deliziano l’anima da tempo.
Le vecchie cantine non fermentano più.
E le botti vuote danno solo spurghi d’aceto.
Muoviti, allora, a compassione di noi, e ridonaci il gusto delle cose.
Solo così, le giare della nostra esistenza si riempiranno fino all’orlo di significati ultimi.
E l’ebbrezza di vivere e di far vivere ci farà finalmente provare le vertigini.
Santa Maria, donna del vino nuovo, fautrice così impaziente del cambio, che a Cana di Galilea provocasti anzitempo il più grandioso esodo della storia, obbligando Gesù alle prove generali della Pasqua definitiva, tu resti per noi il simbolo imperituro della giovinezza.
Perché è proprio dei giovani percepire l’usura dei moduli che non reggono più, e invocare rinascite che si ottengono solo con radicali rovesciamenti di fronte, e non con impercettibili restauri di laboratorio.
Liberaci, ti preghiamo, dagli appagamenti facili.
Dalle piccole conversioni sottocosto.
Dai rattoppi di comodo.
Preservaci dalle false sicurezze del recinto, dalla noia della ripetitività rituale, dalla fiducia incondizionata negli schemi, dall’uso idolatrico della tradizione.
Quando ci coglie il sospetto che il vino nuovo rompa gli otri vecchi, donaci l’avvedutezza di sostituire i contenitori.
Quando prevale in noi il fascino dello «status quo», rendici tanto risoluti da abbandonare gli accampamenti.
Se accusiamo cadute di tensione, accendi nel nostro cuore il coraggio dei passi.
E facci comprendere che la chiusura alla novità dello Spirito e l’adattamento agli orizzonti dai bassi profili ci offrono solo la malinconia della senescenza precoce.
Santa Maria, donna del vino nuovo, noi ti ringraziamo, infine, perché con le parole: «Fate tutto quello che egli vi dirà» tu ci sveli il misterioso segreto della giovinezza.
E ci affidi il potere di svegliare l’aurora anche nel cuore della notte.
(Tonino Bello, Maria donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000, 66-68).
  Preghiera Padre, che hai voluto fare del tuo Figlio l’Uomo nuovo, ricolmo del tuo Spirito, e per mezzo suo lo effondi nei cuori degli uomini rinnovandoli radicalmente, ti chiediamo con fiducia e insistenza, come egli stesso ci ha insegnato a farlo, di voler riempire i nostri cuori della sua presenza e della sua forza.
Se tu ce lo doni, noi potremo uscire dalla condizione di uomini vecchi, mossi dall’egoismo che ci rinchiude in noi stessi, e potremo diventare davvero uomini nuovi.
Saremo capaci di amare te come figli e gli altri uomini e donne come fratelli e sorelle.
E la gioia profonda della nostra nuova condizione riempirà ogni momento della nostra giornata.
Non lasciare che altri spiriti entrino nei nostri cuori: lo spirito dell’orgoglio, della vanità, dell’invidia, dell’avidità…
Essi sono spiriti del mondo vecchio che portano alla morte e noi vogliamo vivere.
Tu, che sei «amante della vita», strappa da noi tali spiriti perché possa occupare tutto il nostro spazio interiore lo Spirito vivificante che viene da te attraverso il tuo Figlio diletto.
      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.


Battesimo del Signore (Anno C).

BATTESIMO DI GESÙ   Lectio Anno c     Prima lettura: Isaia 40,1-5.9-11             «Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio.
– Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati».
Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata.
Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato».  Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme.
Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».
       v I versetti 1-11 del capitolo 40 di Isaia fungono da prologo all’intera sezione della seconda parte di Isaia formata dai capitoli 40-55.
Il brano è pervaso da una grande letizia, fondata sulla fede esaltante nel Dio guida del popolo, suo liberatore e salvatore.
«Consolate, consolate il mio popolo»: Dio comanda di consolare Israele e l’imperativo ripetuto due volte suggerisce l’idea dell’urgenza e della sovrabbondanza della consolazione.
Dio può infliggere il «doppio per tutti i suoi peccati», ma non si dimentica del suo popolo e della sua città e torna a rivolgergli parole di salvezza, che parlano al cuore.
     «Una voce grida»: la voce misteriosa del versetto 3 e le altre, che seguono, si possono considerare l’equivalente poetico della formula profetica il «Signore ha parlato».
Con maggiore efficacia il secondo Isaia al comando diretto del Signore fa seguire in forma diretta le voci, che ne ripetono il messaggio.
     I sinottici per spiegare il compito profetico di Giovanni Battista adoperano le parole di Isaia 40,3 (cf.
Mt 3,3; Mc 1,3; Lc 3,4).
Egli è una voce, che ripete il comando del Signore.
Il Signore, che aveva abbandonato insieme al popolo la sua dimora e lo aveva seguito in esilio, vi fa ora ritorno: per lui, e quindi anche per il popolo, si deve preparare una strada agevole, percorribile con facilità.
Si tratta di una strada «nel deserto», come nel deserto era stata la strada dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa.
«La gloria del Signore» (Is 40,5) si rivelerà di nuovo in tutta la sua potenza, come nell’esodo dall’Egitto, momento fondante tutta la storia di Israele.
     I versetti 6-7, che sono stati tolti dalla liturgia di oggi, incentrata sulla rivelazione di Dio, propongono un intermezzo meditativo sulla distanza fra la fragilità dell’essere umano, paragonato all’erba, e la potenza divina.
Questa meditazione aiuta a capire che l’intervento di Dio nelle vicende umane e in particolare in quelle di Israele, dipende interamente dalla sua scelta misteriosa, dettata dall’amore.
     Il Signore avanza con potenza e domina col suo braccio, ma verso il suo popolo si rivela un pastore amoroso: «egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11).
     «Il suo braccio » è l’immagine che esprime il suo intervento di castigo e dominio (cf.
in Esodo l’intervento contro il faraone, ma anche il castigo dell’esilio per il popolo), ma anche di perdono e dono gratuito e sovrabbondante di salvezza.
Dobbiamo sempre tenere insieme nel leggere i profeti per non fraintenderli, i messaggi di salvezza, che dipendono sempre dalla bontà misericordiosa di Dio, da quelli di castigo, che sono volti a riportare Israele sulla via del Signore e non vogliono affatto annientarlo: «I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29).
  Seconda lettura: Tito 2,11-14;3,4-7             Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta sal­vezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’em­pietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli ap­partenga, pieno di zelo per le opere buone.
Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore no­stro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua mise­ricordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spi­rito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella spe­ranza, eredi della vita eterna.
    v In un breve scritto di occasione, volto ad esortare un pastore e la sua comunità a superare i contrasti interni e a tenere una condotta moralmente irreprensibile, l’autore della lettera a Tito richiama l’insegnamento fondamentale dell’apostolo Paolo: la nostra salvezza dipende interamente da Dio, dalla sua bontà (chrestòtes, amore per gli uomini (philan-tropìa) e misericordia (eléos) (Tt 3,4.5).
     Noi non possiamo vantare nessuna pretesa nei confronti di Dio.
Noi, infatti, eravamo «insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degno di odio e odiandoci a vicenda» (Tt 3,3).
Noi dobbiamo solo accogliere con gratitudine il dono di Dio e rispondere con una condotta che sia conforme alla chiamata di Dio e alla nuova vita che Dio ci ha donato gratuitamente.
     «È apparsa (epiphàne Tt 2,11; 3,4) la grazia di Dio» apportatrice di salvezza per tutti gli esseri umani.
Il greco anthropos comprende uomini e donne senza differenze sessuali (a differenza da aner usato solo per uomo e arsen maschio).
Si tratta di una vera e propria rivelazione, di un intervento fattivo di Dio, che, anche se apparentemente lascia tutto come prima, in realtà ha trasformato la situazione.
     L’incontro di Dio con gli uomini è un incontro potente e rinnovante.
L’autore della lettera attribuisce la stessa potenza salvifica dell’«apparizione» di Dio a Gesù Cristo «nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo».
Si rinnova in lui il miracolo più volte avvenuto nella storia dell’umanità primitiva e in particolare in quella del popolo di Israele dell’intervento salvifico di Dio.
     In questo caso, la salvezza, data in dono gratuito, è legata al battesimo «lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo».
I battezzati sono esseri nuovi, che vivono nello Spirito di Dio «effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo».
     La manifestazione della grazia di Dio, effusa per suo volere e senza meriti umani, è, però, strettamente legata all’educazione a fare opere buone.
Questo è un insegnamento tradizionale dell’ebraismo.
La Torà è la «rivelazione-dono» per eccellenza di Dio.
Non possiamo staccare la fede alle opere ammonisce la lettera di Giacomo, che accomuna Abramo che ha creduto, con Raab, la meretrice, salvata per la sua ospitalità (cf.
Ge 2,21-25).
A proposito di Abramo, il modello della fede per eccellenza, fra le diverse parole a lui rivolte da Dio leggiamo: «Io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui ad osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore realizzi per Abramo quanto gli ha promesso» (Gen 18,19).
È Dio che ha scelto Abramo, ma tale scelta comporta una risposta pronta e lo «zelo» per i comandi del Signore.
     Il giudizio finale, secondo il Vangelo di Matteo sarà sulle opere compiute, anche senza il riconoscimento del Signore (cf.
Mt 25,31-37), mentre la conoscenza, senza le opere è motivo di condanna: «Non chiunque mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).
Dobbiamo tenere insieme i due poli del messaggio biblico: l’insistenza sull’iniziativa gratuita di Dio e il richiamo pressante a mettere in pratica i suoi precetti.
     Fra le tante osservazioni che si possono fare sul brano della lettera a Tito scelto per la liturgia di oggi, merita particolare attenzione l’espressione «nella speranza».
Siamo stati giustificati dalla grazia di Gesù Cristo e siamo diventati eredi della vita eterna, ma secondo la speranza.
     La salvezza rivelata da Gesù non è ancora quella definitiva, che non si può più perdere e che si manifesta in gloria e potenza per tutte le creature.
«I cieli nuovi e la terra nuova» sono ancora sperati.
Il regno del nostro Dio ci è dato nel segno della speranza: la sua manifestazione definitiva è nascosta nel mistero della benevolenza di Dio; a noi spetta il grande compito di testimoniare che il dono del regno ci è stato dato, dobbiamo rendere visibile la nostra speranza.
Dobbiamo comportarci da cittadini del regno secondo la condotta dettata dai comandamenti divini.
  Vangelo: Luca 3,15-16.21-22             In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali.
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
    Esegesi      Il vangelo di Luca nei versetti 14-16 ci presenta il popolo che è in attesa del messia (l’«unto», christòs in greco).
Coloro che erano accorsi ad ascoltare la predicazione di Giovanni e a ricevere il suo battesimo di purificazione come segno dell’inizio della conversione (metanoia in greco, teshuvà in ebraico), si chiedevano se non fosse proprio lui il Messia.
     Si tratta di una piccola parte degli ebrei di allora, ma Luca parla del popolo in generale e dice «tutti» si ponevano la domanda sul messia e Giovanni risponde a «tutti».
A lui interessa il popolo nella sua dimensione collegiale: al versetto 21 sottolinea: «mentre tutto il popolo veniva battezzato».
È «tutto il popolo» che in analogia all’avvenimento del Sinai forma per così dire il luogo della rivelazione divina.
Gesù, che in Luca è il destinatario della rivelazione: «Tu sei il Figlio mio, l’amato», appare pienamente inserito nel suo popolo Israele.
Senza Israele non c’è la rivelazione del Padre di Gesù Cristo; se stacchiamo Gesù dal suo popolo, suggerisce l’evangelista, non comprendiamo nulla di Lui, perché il Dio, che al battesimo lo consacra «l’amato» con l’investitura dello Spirito Santo, è lo stesso Dio della rivelazione del Sinai a «tutto il popolo», col quale ha stipulato l’alleanza (cf.
Es 24,3; 34,10).
     Giovanni si premura di togliere ogni dubbio sulla sua identità e per chiarire la distanza fra sé e il Messia usa il detto popolare, assai efficace, che egli non è degno neppure di «slegare i lacci dei sandali».
Un’altra caratteristica rilevante del Vangelo di Luca, rispetto al rac-conto analogo degli altri due sinottici, è il legame fatto fra la rivelazione divina e la preghiera di Gesù.
     «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì…» (Lc 3,21-22).
Il Vangelo di Luca mette spesso in rilievo la preghiera di Gesù: «Ma Gesù si ritirava in luoghi deserti e pregava» (Lc 5,16; cf.
Mc 1,35; Lc 6,12; 9,18; 11,2); «in preda all’angoscia Gesù pregava più intensamente» (Lc 22,44); egli si affida al padre appena prima di esalare l’ultimo respiro (Lc 23,46).
     Prima della trasfigurazione, narrazione che si accosta a quella del battesimo, «Gesù salì sul monte a pregare.
E mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto…» (Lc 9,29).
     La preghiera crea la situazione adatta alla rivelazione e nello stesso tempo ci presenta Gesù nella sua piena umanità, bisognoso di affidarsi al padre per comprendere quale sia la sua missione e per portarla a compimento con coraggio.
     Il battesimo è il momento della consacrazione di Gesù, attraverso la quale egli diviene Cristo, cioè unto, messia: «Dio unse (chriò) in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò benedicendo e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38).
Questa consacrazione si presenta come una nuova nascita, resa possibile dalla discesa dello Spirito e dalla manifestazione della paternità divina.
Gesù stesso sperimenta una nuova nascita dall’alto per opera dell’acqua e dello Spirito, secondo le parole del vangelo di Giovanni (cf.
Gv 3,3-6).
Egli inizia al Giordano la strada che indicherà a tutti i discepoli, chiamati ad essere figli di Dio attraverso il dono dello Spirito Santo.
     Meditazione      Il racconto di Luca si apre oggi con l’immagine di un popolo ‘in attesa’ (cfr.
Lc 3,15).
Sembra essere stata questa la missione fondamentale del Battista: suscitare un’attesa e nello stesso tempo distoglierla dalla propria persona per orientarla verso il ‘più forte’ che deve venire (cfr.
v.
16).
È l’attesa che si compiano le promesse dei profeti, quelle che ci vengono ad esempio ricordate da Isaia nella prima lettura: che Dio consoli il suo popolo e che ogni uomo possa vedere il rivelarsi della sua gloria.
Solo chi attende può giungere ad ascoltare la voce che annuncia: «Ecco il vostro Dio!» (cfr.
Is 40,9).
     Nello stesso tempo questa attesa deve rimanere disponibile a lasciarsi purificare e convenire dalla parola del Signore.
Dio infatti compie le sue promesse e colma le nostre attese in modo sempre sorprendente, a volte persino sconcertante.
Giovanni aveva annunziato il venire di uno più forte di lui, che avrebbe battezzato non semplicemente con acqua, ma in Spirito Santo e fuoco.
Eppure, la prima immagine che l’evangelista ci offre di Gesù, dopo il vangelo dell’infanzia, ce lo mostra nel momento in cui ha ricevuto, come tutti gli altri, il battesimo d’acqua da Giovanni.
Il più forte è in mezzo al suo popolo, confuso tra i peccatori, insieme ai quali si è sottoposto al medesimo rito di penitenza e di purificazione.
Chi può battezzare in Spirito Santo e fuoco non si sottrae al battesimo d’acqua di Giovanni.
Ma è proprio mentre è in mezzo al suo popolo, disposto a scendere radicalmente nella fraternità dei peccatori, che Gesù vede il cielo aprirsi, accoglie lo Spirito che scende su di lui, ascolta la voce del Padre che lo conferma nella sua singolare identità:  «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (v.
22).
     Tutto in questa scena è in discesa.
Gesù discende dal nord della Galilea verso il sud, dove Giovanni battezza.
Discende nella depressione del Giordano, che scorre circa 400 metri sotto il livello del mare, probabilmente il punto più basso della terra che un uomo possa raggiungere camminando sulle sue gambe.
Una volta giunto al Giordano discende nelle sue acque e soprattutto si immerge nella fraternità dei peccatori.
Ed è in questo cammino di umiltà e di discesa che può vedere il cielo aprirsi e ascoltare la voce del Padre.
Nella scena seguente, che racconta la prova nel deserto, il diavolo farà compiere a Gesù il cammino opposto: dapprima lo condurrà «in alto» (cfr.
Lc 4,5), poi a Gerusalemme lo porrà «sul punto più alto del tempio» (cfr.
Lc 4,9), ma in questa altezza, anziché ascoltare la voce di Dio, si rischia di ascoltare soltanto le suggestioni di Satana.
Per ascoltare la voce di Dio occorre invece percorrere un cammino di discesa, nell’umiltà e nell’obbedienza.
Più volte Gesù ripeterà nei vangeli che chi si umilia sarà esaltato, e chi si innalza sarà umiliato.
Sarebbe riduttivo intendere queste espressioni solamente a un livello morale, o peggio moralistico.
Evocano piuttosto l’autenticità dell’esperienza di Dio, che è sempre un’esperienza pasquale.
Quando raggiungi il punto più basso del tuo cammino esistenziale, quando sei gettato a terra o dal tuo stesso peccato, o dalla violenza che puoi subire da altri, allora incontri lì il Dio della Pasqua che ti rialza e ti dona una vita nuova.
Sarà questa l’esperienza pasquale di Gesù: gettato nella polvere della terra e della morte, disceso nell’oscurità del sepolcro, accoglierà la potenza dell’amore del Padre che lo farà risorgere, innalzandolo nel più alto dei cieli.
Nel suo battesimo Gesù anticipa quella che sarà la sua Pasqua.
Immergendosi nella fraternità dei peccatori, scendendo con loro, lui l’unico giusto, nell’esperienza del peccato e dell’umiliazione in cui il peccato ci getta, ascolterà il Padre che gli dice: «Tu sei il mo Figlio, l’amato».
In questo modo Gesù capovolge la logica perversa di Caino, il figlio primogenito che vuole rimanere solo, e per questo elimina Abele.
Al contrario Gesù è il figlio Unigenito che non vuole rimanere solo, ma ci vuole in lui tutti fratelli e figli dello stesso Padre, e per questo dona la sua stessa vita fino alla Croce, nell’attesa di riceverla rigenerata dall’amore di Dio.
     Il cammino pasquale di Gesù è già tutto incluso nelle parole che ascolta presso il Giordano, molto essenziali ma incredibilmente ricche di contenuto.
Almeno tre testi del Primo Testamento vi risuonano.
«Tu sei mio figlio» evoca il Salmo 2: «Egli mi ha detto: “Tu sei mio figlio”» (v.
7).
«L’amato» riprende, nel testo greco, lo stesso termine che nel Primo Testamento risuona solo in Genesi 22 a proposito di Isacco, che viene definito il figlio ‘amato’ di Abramo (cfr.
Gen 22,2).
«In te ho posto il mio compiacimento» cita le espressioni iniziali del primo canto del servo sofferente del Signore che leggiamo in Isaia 42: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui» (v.
1).
Tutta l’identità di Gesù è qui delineata, l’intero suo cammino storico e pasquale già trat-teggiato.
Gesù è il Figlio unigenito che dovrà vivere la sua identità filiale facendosi servo nella forma di Isacco.
Lui è il vero Isacco di Dio, il figlio che non viene chiesto ad Abramo, ma che Dio stesso offre per la salvezza di tutti.
È lui il vero capretto donato da Dio, l’Agnello di Dio offerto in sacrificio perché ogni uomo possa vedere la salvezza del Signore.
     «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco», promette Giovanni.
Ci farà condividere, cioè, la sua stessa esperienza pasquale, rendendoci partecipi della sua morte per condividere con noi la potenza della sua risurrezione e la novità della sua vita.
«L’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo», come Paolo definisce il battesimo nella lettera a Tito (3,5), ci consente di ascoltare insieme a Gesù le parole del Padre come rivolte personalmente a ciascuno di noi.
Anche a noi Dio dona il suo Spirito, che è lo Spirito del Figlio, e ci conferma il suo amore di predilezione e il suo compiacimento.
La condizione per ascoltare questa parola di Dio rimane anche per noi la disponibilità a vivere, come Gesù, un cammino di discesa, di umiltà, di obbedienza.
Solo così la nostra attesa sarà colmata, e potremo riconoscere, come sempre Paolo scrive a Tito, che «egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia» (3,5).
  Preghiere e Racconti   Battesimo di Cristo come metafora «Un tentativo di rendermi conto dell’amore di Dio è stato per me la meditazione sul battesimo di Gesù (Lc 3,21s.).
Gesù si cala nel Giordano, nell’acqua che è carica della colpa dei molti che si sono fatti battezzare nel fiume da Giovanni.
Mentre entra in acqua, il cielo si apre sopra di lui.
E Dio gli dice: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».
Nella meditazione ho sperimentato la realtà di questo amore quando ho sovrapposto consapevolmente la frase «Tu se il mio figlio prediletto» alla paura, all’oscurità, al fallimento, alla mediocrità, alla menzogna esistenziale in me.
Ho tentato di calarmi nell’acqua del mio inconscio, nel regno delle tenebre in cui ho rimosso tutto quanto fugge alla luce del sole, ciò che non mi va di guardare alla luce del giorno.
Per me è una bella immagine del battesimo di Gesù il fatto che il cielo sopra di lui si sia aperto proprio quando egli si è calato nelle profondità del Giordano.
Il cielo vuole aprirsi anche sugli abissi della mia anima.
Ma devo avere il coraggio di calarmi in tali abissi, per percepire là in fondo, con un suono nuovo, le parole: «Tu sei il mio figlio prediletto»; «Tu sei la mia figlia prediletta».
Solo quando ho sovrapposto alla mia esistenza concreta la frase secondo cui sono il figlio prediletto, essa mi ha toccato nell’intimo, donandomi la pace interiore.
Ogni parlare che si fa dell’amore di Dio ci lascia indifferenti se non giunge alle esperienze della nostra vita quotidiana.
Gesù si cala nei flutti della colpa, nell’inconscio, nella pulsionalità, negli elementi della terra, come lo rappresentano sempre le icone.
Calandosi in essi, prega tanto intensamente che il cielo si apre sopra di lui, che quanto è essenziale prorompe e la luce di Dio risplende sopra di lui.
È un profondo desiderio anche mio quello di saper pregare in modo tale che il cielo si apra sopra di me, che l’amore di Dio rifulga nelle profondo del mio inconscio, negli abissi della mia colpa.
E anelo a saper pregare anche per gli altri, in modo tale che il cielo si apra sopra di loro.
Pregare significa aprire il cielo sopra le persone, in modo che sia loro consentito di sentire il rapporto con Dio come la loro unica salvezza.
Gesù sente dal cielo aperto la voce di Dio che è rivolta a lui: «Tu sei il figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11).
Questo è anche il mio anelito più profondo, l’essere il figlio prediletto di Dio, non essere rispettato, ammirato e amato solo dagli esseri umani, bensì da Dio, la causa prima di ogni esistenza, il creatore del mondo».
(A.
GRÜN, Apri il tuo cuore all’amore, Queriniana, Brescia, 2005, 20-23).
La parola è “Amato” […] Come cristiano, ho scoperto per la prima volta questa parola nella storia del battesimo di Gesù di Nazareth.
«Non appena Gesù uscì dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba.
E sentì una voce dal cielo: “Tu sei mio Figlio, l’Amato, in te mi sono compiaciuto”».
[…] Sì, è quella voce, la voce che parla dall’alto e da dentro i nostri cuori, che sussurra dolcemente o dichiara con forza: “Tu sei il mio Amato, in te mi sono compiaciuto”.
Non è certamente facile ascoltare quella voce in un mondo pieno di altre voci che gridano: “Tu non sei buono, sei brutto; sei indegno; sei da disprezzare, non sei nessuno – e non puoi dimostrare il contrario.”.
Queste voci negative sono così forti e così insistenti che è facile credere loro.
Questa è la grande trappola.
È la trappola del rifiuto di noi stessi.
(Henri J.M.
NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 23-24).
  La lotta spirituale come esigenza battesimale La lotta spirituale è organica alla vita cristiana tout-court: essa riguarda tutti i cristiani, non certo solo i monaci o altre “categorie” di iniziati…
La necessità di tale lotta discende dal battesimo, è inerente la vita cristiana in quanto tale, e questo secondo tutto il NT e la tradizione cristiana.
Il NT definisce «bella» questa lotta (1 Timoteo 1,18; 6,12; 2 Timoteo 4,7), cioè positiva, di altro ordine rispetto alle guerre e contese mondane, ma altrettanto dura ed esigente.
È la «lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), insita cioè nell’adesione a Cristo e nella sua sequela, e riguarda ogni cristiano: essa infatti è connessa al battesimo, che sigilla la conversione, la rottura con il paganesimo e immette in una nuova vita.
Per Paolo, il rivestirsi di Cristo nel battesimo comporta l’impegno di rivestirsi di un abito di vita rigenerata per entrare nella gloria di Dio, e poiché ciò non è realizzabile senza una continua tensione morale che si può paragonare ad una lotta o ad un combattimento, con il battesimo il cristiano si impegna a rimanere sempre in tenuta militare, ad indossare cioè quelle che Paolo chiama «armi della giustizia» (Romani 6,13-14) e «armi della luce» (Romani 13,12).
Si tratta delle armi della fede, della preghiera, dell’ascolto della Parola di Dio, della docilità all’azione dello Spirito, che consentono al credente di veder agire in sé la forza di Dio stesso.
Come Gesù, appena battezzato, ha affrontato l’assalto di Satana e ha combattuto le tentazioni (cfr.
Matteo 4,1-11; Luca 4,1-13; Marco 1,12-13), così il cristiano dovrà attendersi, dopo il suo battesimo, una dura lotta contro l’Avversario.
Chiamato a entrare per la porta stretta (Luca 13,24), posto di fronte all’impossibilità di servire due padroni (Luca 16,13), il battezzato, cosciente dell’urgenza dell’ora escatologica instaurata dal Signore Gesù, deve attuare una scelta di campo mettendosi a servizio di Dio e non del peccato (Romani 6,12-14).
Il NT definisce il cristiano «soldato di Gesù Cristo» (2 Timoteo 2,3) e afferma che deve sforzarsi di «piacere a chi l’ha arruolato» (2 Timoteo 2,4).
Questa lotta assicura l’incessante dinamismo della vita cristiana ed è diretta contro «il peccato che ci assedia» (Ebrei 12,1), contro «il Maligno» (Efesini 6,16), contro quelle potenze indicate con nomi differenti (Efesini 6,12), ma che designano cumulativamente quelle forze negative, presenti nell’uomo e fuori di lui, che tendono a far ricadere il cristiano nella situazione pre-battesimale.
È dunque una lotta che si combatte con armi spirituali: vigilanza e perseveranza (Efesini 6,18; Ebrei 12,1), sobrietà (1 Tessalonicesi 5,6.8), temperanza (I Corinzi 9,25), rinuncia e dominio di sé (1 Corinzi 9,27), capacità di soffrire per il Signore (Filippesi 1,29-30; Ebrei 10,32-33), pazienza ed esercizio alla pietà (1 Timoteo 4,8), e soprattutto preghiera (Efesini 6,18-20; cfr.
Sapienza 18,21).
Il messaggio neotestamentario è dunque esplicito sul carattere battesimale di questa lotta: vi è un rigoroso aut-aut che accompagna il cristiano nella sua vita e che gli contesta qualsiasi compromesso con la mondanità e con il peccato.
È la vita cristiana stessa che è una battaglia, una lotta: essa esige lotta contro le tentazioni, ascesi della mente e del corpo per acquisire il necessario dominio di sé, la vigilanza costante sulle relazioni con sé e con gli altri, la disciplina del tempo e degli impegni, la purificazione delle relazioni.
Contro che cosa si combatte? Possiamo riprendere le parole di Ilario di Poitiers che, scritte nel corso di quel IV secolo che ha visto il progressivo passaggio del cristianesimo dalla condizione di religione dei martiri a religione ufficiale, di Stato, si adattano molto bene alla nostra attualità: «Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga…
Non ferisce la schiena con la frusta, ma carezza il ventre; non confisca i beni, dandoci così la vita, ma arricchisce, e così ci da la morte; non ci spinge verso la vera libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci con il potere nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro» (Ilario di Poitiers , Liber contra Constantium, 5).
(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI /PIEMONTE-VALLE D’AOSTA, Corso di avvio all’accompagnamento spirituale.
Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 139-140.
Il battesimo di Gesù I nuovi tempi sono già iniziati, i tempi nuovi che il mondo attendeva fin dall’origine, gli ultimi tempi: e fu la voce dal cielo a bandirli.
  «Questi è il mio Figlio, l’amato da sempre, nel quale ho posto la mia compiacenza»: così è spuntata l’aurora del mondo e fu l’inizio di nuova creazione.
  Ma tu sei venuto a battezzarci in Spirito santo e fuoco: non vale l’acqua soltanto ma l’acqua e il sangue che sgorga dal tuo costato, Signore: così sia il nostro battesimo affinché i cieli si aprano anche su di noi.
Amen.
  E cielo e fiume insieme si aprirono: è il nuovo esodo e il patto per sempre! Come colomba lo Spirito scese e fu la quiete seguita al silenzio.
  David Maria Turoldo          Preghiera Ancora e sempre sul monte di luce                                    Cristo ci guidi perché comprendiamo                                 il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino.
  Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita.
  In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti.
  Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello.
  Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(D.
M.
Turoldo)   * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo D’Avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
68.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
 

1º GENNAIO 2010: MARIA SS. MADRE DI DIO.

SANTA  MADRE DI DIO   Lectio Anno c     Prima lettura: Numeri 6,22-27        Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro: Ti benedica il Signore e ti custodisca.
     Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”.
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».
       v La formula di benedizione che i sacerdoti devono ripetere è composta da tre stichi ciascuno dei quali comprende due emistichi.
Nella prima parte di ogni verso è ripetuto il nome ineffabile JHWH, che dà solennità al contesto e nello stesso tempo sottolinea che proprio da Dio viene ogni benedizione.
Secondo una tradizione ebraica tutte le volte che nella Bibbia compare questo nome si intende sottolineare l’attributo della misericordia di Dio (cf.
Es 34,5-6).
Nella benedizione la misericordia e la condiscendenza del Signore sono sperimentate in modo eminente.
La benedizione del Signore è un atto della sua grazia misericordiosa, del suo beneplacito.
     Il Signore ha l’iniziativa e «custodisce» il popolo che si è scelto, ma l’avverarsi concreto della benedizione è anche legato strettamente alla risposta degli uomini e delle donne di Israele, che hanno accettato il patto e si sono impegnati a metterne in pratica le norme (cf.
Deut 28,2-14).
     L’auspicio dell’azione favorevole e premurosa del Signore del v.
24 è rafforzato dalle metafore dei due versetti seguenti.
L’immagine della luce del volto come simbolo di felicità in contrapposizione al volto «oscuro», simbolo di lutto di tristezza, di sfiducia è un’immagine comune trasferita a Dio.
Spesso, soprattutto nei Salmi, si usano le immagini del «mostrare il volto» e «nascondere il volto», da parte di Dio per indicare i frutti della felicità o dell’infelicità.
     La faccia, lo sguardo di Dio rivolto in maniera favorevole è portatore di pace (shalom), vale a dire liberazione da ogni male e concordia totale fra gli uomini, le donne, le creature e l’intero creato.
     Il versetto 27 ci mostra come la triplice invocazione divina fa parte di un atto liturgico: i sacerdoti, mentre pronunziano il nome del Signore, alzano le mani verso l’assemblea con un gesto che accompagna e illustra agli occhi del popolo le parole pronunciate: «Voi mettete il mio nome sopra il popolo ed io vi benedirò».
     Il salmo 67 (66) riprende le immagini della benedizione sacerdotale e le mette in bocca ai fedeli come invocazione.
     La pietà e la benedizione del Signore, illustrate con lo splendore del volto del Signore, come nelle parole che Dio mette in bocca ai sacerdoti, sono invocate da Israele come segno per le genti (gojim).
La luce del volto del Signore si trasforma in radice di «conoscenza» per tutte le genti (cf.
Is 11,9).
Questa conoscenza è un’esperienza complessa fatta di intelligenza, di sentimento, di volontà e di azione destinata a tutta la terra; essa ha un oggetto preciso, la via di Dio cioè la sua stessa vita, i suoi progetti, il suo comportamento amoroso e benefico (Sal 77,14; 138,5; 98,2); tale infatti è l’accezione dell’ebraico derek «via» e tale è il senso suggerito dal parallelo « salvezza ».
     La via e la salvezza del Signore operanti in Israele vengono ora profeticamente annunziate al mondo intero.
Israele è perciò il testimone privilegiato e l’apostolo dell’amore divino per l’intera umanità.
Il coro universale dei popoli è invitato ad associarsi al cantico che si leva da Israele.
L’antifona del Salmo presuppone una risposta positiva delle nazioni.
Esse hanno visto la benedizione di Dio ad Israele, ed essa viene riconosciuta come opera di Dio.
Il Dio di Israele è riconosciuto Dio di tutte le nazioni, che egli governa e giudica con giustizia.
Dalla conoscenza di Dio nasce da parte dei popoli la risposta a Dio, risposta di lode, di ringraziamento, di «benedizione», tipica della tradizione di Israele.
     Alla conoscenza e alla lode subentra ora la gioia universale espressa attraverso due verbi classici della felicità quello dell’esultanza interiore (samah) e quello dell’esaltazione frenetica (ranan).
Sembra quasi di assistere all’apertura di un’era messianica (cf.
Is 9,1-2).
Egli è colui che «giudica con rettitudine»; il giudizio giusto è l’attività politica primaria del vero sovrano (Is 11,3-4).
Dio ha nelle sue mani tutta la trama della storia…
L’umanità intera in un entusiasmo universale (Sal 48,12; 97,8) e cosmico (96,11-13; 98,7-9; 99,4; 148) celebra la via storia del Signore, cioè il suo progetto giusto contro cui si accaniscono gli empi.
     L’umanità percepisce il primato trascendente di Dio.
Si potrebbe allegare a commento la mirabile dichiarazione dell’inno a Sion di Is 2,3: «Verranno molti popoli e diranno:.
venite saliamo al monte di JHWH, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri» (cf.
G.
RAVASI, Il Libro dei Salmi, vol.
II, EDB 1983, p.
355s).
  Seconda lettura: Galati 4,4-7     Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.  E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.
    v I pochi versetti della lettera ai Galati che la liturgia ci fa leggere oggi ci aprono qualche spiraglio nella comprensione del mistero della persona di Gesù e della sua opera di salvezza.
«Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò il suo Figlio» (Gal 4,4).
Che significa la «pienezza del tempo»? È un’immagine per esprimere il tempo in cui la storia si incontra con l’azione diretta di Dio.
Siamo di fronte al paradosso dell’incontro del tempo con l’eterno di Dio; c’è un intervento diretto di Dio nella storia, che però lascia che la storia continui ancora con il suo divenire fatto di bene e di male.
Siamo in un momento dentro e fuori del tempo stesso.
Un paradosso strettamente legato all’immanenza di Dio, che però non viene meno alla sua trascendenza, e insito nell’incarnazione del Verbo, Figlio di Dio di cui sta parlando Paolo.
     Dio ha mandato suo Figlio, che è Dio come Lui, ma è «nato da donna» è quindi creatura umana.
È «nato sotto la legge», cioè è nato ebreo, appartenente al popolo di Dio, «per riscattare quelli che erano sotto la Legge» cioè gli ebrei.
     Paolo ha smesso qui i toni polemici verso la legge, che si avverano in altre parti della lettera.
Là infatti si trattava di distogliere i cristiani da interpretazioni indebite dei precetti della legge, qui, invece, egli usa il termine «sotto la legge» come sinonimo di ebreo, la cui identità non è definibile a prescindere dal riferimento alla legge (Torah) di Dio.
Paolo si limita a rilevare dei dati di fatto, senza commentarli.
Dio ha mandato suo Figlio, lo ha fatto nascere ebreo e gli ha dato una missione nei confronti degli ebrei.
Quando si riflette sulla persona di Gesù e la sua missione non si può prescindere da questi dati.
     Il fine ultimo della missione di Gesù «perché ricevessimo l’adozione a figli» passa, per volere di Dio, attraverso il farsi uomo ebreo, per riscattare gli ebrei, da parte del Figlio.
Chi trasforma gli uomini e le donne in figli e figlie di Dio è lo Spirito del Figlio, donato dal Padre.
Si tratta di un mutamento profondo, che Paolo qui sintetizza nella capacità di rivolgersi a Dio come Padre, con completa fiducia e in piena libertà.
  Vangelo: Luca 2,16-21         In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia.
E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori.
Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.          Esegesi      Il brano che leggiamo oggi ci presenta due episodi distinti: l’incontro dei pastori col neonato Gesù (Lc 2,16-20) e la sua circoncisione (21).
Come Maria (Lc 1,39) raggiunta dall’annuncio dell’angelo, i pastori vengono «affrettandosi» (Lc 2,16; cf.
19,5-6); essi hanno intuito che sono stati raggiunti da un invito divino, a cui bisogna rispondere subito, senza indugi.
     I pastori trovano Maria, Giuseppe e il neonato posto in una mangiatoia (brefos keimenon ev te fante Lc 2,16), che è il «segno» indicato dall’angelo; perché potessero riconoscere la verità delle loro parole (Lc 2,12).
     I pastori raggiunti dall’annuncio e avutane la conferma, si fanno a loro volta annunciatori.
Quanti ascoltano sono presi da stupore mentre i pastori, reagiscono lodando Dio per quello che hanno «udito e visto».
     L’ascolto è il modo normale di accostarsi alla rivelazione divina, la fede scaturisce dall’ascolto della parola ed è fede autentica quando c’è la risposta.
     All’«udire» viene da Luca affiancato anche un «vedere», che è un vedere interiore, non l’esperienza di un prodigio strepitoso.
È comunque un’esperienza coinvolgente, e chi la prova sente l’esigenza di condividerla con i vicini.
     Gli atteggiamenti sottolineati nel momento dell’annuncio e conseguenti all’intuizione che si tratta di una rivelazione divina, nei pastori e nei loro uditori sono: lo stupore, il bisogno di condivisione e l’atteggiamento di lode verso il Signore.
     Per riuscire, però, a leggere interiormente quanto si è «udito e visto» bisogna aggiungere l’atteggiamento di Maria, che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.
51).
Anche Maria aveva provato stupore, era corsa in fretta a «vedere il segno», che le aveva indicato l’angelo, aveva fatto partecipe Elisabetta della sua rivelazione e aveva innalzato le lodi del Signore.
Tutto questo deve però diventare vita di tutti i giorni e per riuscire a farlo con lo stesso spirito e sicuri di fare la volontà del Signore bisogna meditare continuamente la parola di Dio e applicarla alle nuove situazioni.
     Il versetto 21 ci porta in un’altra scena, di cui è protagonista la famiglia di Gesù: la circoncisione, narrata da Luca come una assoluta normalità.
In base a quanto è prescritto dalla legge (Gen 17,12; 21,4; Lev  12,3) all’ottavo giorno viene circonciso Gesù.
Con questo gesto Gesù viene introdotto a pieno titolo nel popolo della «santa alleanza».
     La circoncisione infatti trae origine dall’alleanza (Gen 17,10-11) ed è il modo con cui essa si prolunga di generazione in generazione: «Così la mia alleanza sussisterà, nella vostra carne quale alleanza perenne» (Gen 17,13).
Alludono a questo significato profondo della circoncisione le parole dell’inno che Luca mette in bocca a Zaccaria, quando riprende la parola in occasione della circoncisione di Giovanni.
     Egli benedicendo il Signore per i suoi doni dice fra l’altro: «Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua alleanza santa (diatheke haghia), del giuramento fatto ad Abramo nostro padre…» (Lc 1,72-73).
     Al momento della circoncisione viene scelto il nome del bambino, che, come per Giovanni (Lc 1,31), è il nome indicato dall’angelo.
Questa annotazione ci indica che si tratta di un bambino sul quale la presenza e l’appartenenza a Dio è particolare e il suo futuro è segnato completamente da questa appartenenza.
I genitori, rinunciando a scegliere il nome, si mostrano pronti a rispettare la volontà di Dio sul bambino.
     Meditazione      Due tematiche confluiscono nella liturgia odierna.
A otto giorni dalla celebrazione del Natale, questa solennità riprende la rivelazione della Parola fatta carne nel mistero della nascita del Figlio di Dio, concentrando in particolare l’attenzione sulla divina maternità di Maria (la Theotokos, secondo l’antica formula coniata dal concilio di Efeso del 431).
Ma collocata all’inizio dell’anno civile, questa festa, attraverso i testi liturgici e scritturistici, assume anche una particolare connotazione ‘augurale’, strappando l’inizio di un nuovo anno ad una pura successione cronologica per collocarlo all’interno del tempo stesso di Dio, tempo di pienezza e di compimento.
Queste due tematiche non sono semplicemente giustapposte; il linguaggio simbolico-liturgico ha la forza di congiungerle e rivelarci così una particolare visione teologica del tempo che ogni credente è chiamato a vivere.
Il tempo di Dio è un tempo di salvezza, un tempo compiuto; ma salvezza e compimento hanno un nome e un volto Gesù Cristo.
Come ci ricorda Paolo: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge…
perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4).
     La liturgia della Parola mette in rilievo un’espressione biblica che rivela in modo sorprendente questa irruzione del tempo di Dio nel tempo dell’uomo.
Si tratta del concetto di benedizione.
«Ti benedica il Signore e ti custodisca…»: così inizia la solenne benedizione di Nm 6,22-27, scelta dalla odierna liturgia come prima lettura.
Nel linguaggio scritturistico, la benedizione di Dio non è un semplice augurio carico di sacralità e neppure comunica solo una particolare appartenenza di una realtà (persona, spazio, tempo) al mondo di Dio (come una ‘consacrazione’).
Indica piuttosto un’azione di Dio che porta l’uomo alla pienezza e alla felicità.
L’uomo benedetto da Dio è colui che sa vivere le relazioni con le varie dimensioni della vita nella prospettiva stessa di Dio e, in un certo senso, è testimone di Dio.
La sua riuscita nella vita è la prova che Dio è con lui, che agisce nel mondo e vuole il pieno sviluppo dell’uomo.
Il testo di Nm 6 usa alcune immagini per esprimere questa relazione positiva tra Dio e uomo.
La benedizione diventa così la consapevolezza di essere custoditi da Dio (v.
24) e di essere guardati nella totale gratuità (v.
25), uno sguardo che è sorgente di vita e di pace (v.
26).
Ed è proprio la pace (altro tema che si inserisce in questa festa liturgica) la pienezza dei beni che Dio offre all’uomo.
     Tuttavia una vita contrassegnata dal successo e dalla felicità non è automaticamente prova decisiva di amicizia con Dio.
Già la Scrittura è consapevole della ambiguità di questi segni (cfr.
tutta la visione presente nel libro di Giobbe).
La benedizione di Dio attraversa tutta la storia di Israele, e dell’umanità intera, aprendo orizzonti sempre più vasti e lasciando intravedere una pienezza che è data dalla scelta di Dio stesso di abitare con l’uomo.
Il frutto maturo dell’alleanza, la pienezza di ogni benedizione è Gesù.
Così si esprime Elisabetta nell’incontro con Maria: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo» (Lc 1,42).
È il frutto del grembo di Maria colui che riceve la pienezza di ogni benedizione.
E in Maria, in colei che ha dato al Figlio di Dio il volto dell’uomo, è l’umanità intera che riceve, nella gratuità, il compimento di ogni dono che scende dall’alto.
Veramente in Cristo, il Padre «ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli» (Ef 1,3).
E, come ci ricorda Paolo in Gal 4,4, il tempo in cui Dio ha pienamente benedetto l’uomo in Gesù (la pienezza del tempo) diventa luogo in cui noi possiamo continuamente fare esperienza di ogni benedizione.
     In questa prospettiva si può allora leggere il testo di Lc 2,21.
Il compimento dell’ottavo giorno, quello prescritto dalla legge di Mosè per la circoncisione, diventa soprattutto il giorno segnato da un nome: «gli fu messo il nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo» (Lc 2,21; cfr.
anche 1,31).
Gesù è un nome che viene dall’alto ed indica il compiersi della salvezza.
E proprio qui è custodita la benedizione di Dio: nella salvezza donata in Cristo, attraverso la quale viene comunicata all’uomo la vita stessa di Dio, anzi viene rivelato all’uomo il suo nome più vero, quello di essere figlio nel Figlio.
L’ottavo giorno è, simbolicamente, il nostro tempo, quella pienezza del tempo con la sua inesauribile carica di benedizione che perdura, nel mistero della Chiesa, sino alla venuta di Cristo.
In questo tempo ogni uomo può entrare in relazione con Dio «nel nome di Gesù» (è la realtà profonda del battesimo) e in lui riceve ogni ‘benedizione’.
     Possiamo allora dire che la liturgia, collocando questa pienezza di benedizione all’inizio dell’anno, quando riprendiamo in qualche modo il cammino di fronte al tempo, ci offre uno sguardo di speranza.
     È anzitutto la speranza in un Dio che ci chiama ad essere suoi figli, che ci accoglie presso di lui e ci dona la sua comunione: ci ha donato ciò che ha di più caro, il Figlio; ci ha donato la sua stessa vita nello Spirito; è continua a farlo a ciascuno di noi, ad ogni uomo, con il suo perdono, con il suo desiderio di vedere tutta l’umanità radunata alla sua mensa, nel suo Regno.
Ma è anche la speranza che hanno saputo vedere i pastori nel volto del bambino a Betlemme e hanno saputo comunicarla nella lode e nella gioia.
I pastori ci insegnano che la speranza che siamo chiamati ad annunciare (l’evangelo) non è così evidente: solo se si va senza indugio e se si hanno occhi per vederla, questa speranza si disvela a noi.
La speranza che dobbiamo cercare è quella di Dio, è quella del bambino di Betlemme.
E Dio preferisce nascondere la sua speranza come un seme: non nella potenza o nella grandezza (questa è la speranza degli uomini), ma nell’umiltà di un inizio che porta in sé tutta la bellezza e la novità di un compimento.
Colui che è benedetto è veramente testimone di questa speranza: «riferirono ciò che del bambino era stato detto loro…
I pastori se ne tornarono glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto» (Lc 2,17.20).
     E, infine, possiamo imparare da Maria a vivere di questa speranza.
«Maria – ci testimonia Luca – custodiva queste cose, meditandole nel suo cuore» (v.
19).
Maria ha saputo raccogliere tutti quei semi di speranza che vedeva e udiva attorno a sé; li ha nascosti nel suo cuore e sono diventati oggetto di lunga e paziente attesa.
Nonostante le sconfitte e le delusioni che ha incontrato nel suo cammino di fede, questi semi di speranza hanno trasfigurato lo sguardo di Maria, esso ha saputo sempre andare oltre ed è per questo che è rimasta presso la croce assieme al discepolo amato, colui che custodisce la speranza dell’amore.
Così nel massimo del fallimento e della esperienza di morte, la croce, Maria, che «custodiva queste cose, meditandole nel suo cuore», ha potuto scorgere ciò che fa nuove tutte le cose, quell’amore di un Dio che ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio.