Ascensione del Signore Anno C

ASCENSIONE DEL SIGNORE   Lectio Anno c     Prima lettura: Atti 1,1-11          Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio.
Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?».
Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi.
Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
       v I primi tre versetti del libro degli Atti lo collegano strettamente al terzo vangelo: ne riassumono infatti il contenuto e ripetono il nome del personaggio a cui ambedue i libri sono dedicati: Teofilo (che può essere il nome di un personaggio storico o può essere soltanto il titolo dato al prototipo del cristiano: l’amico di Dio).
Il riassunto del terzo vangelo qui proposto si sofferma soprattutto (nell’intero versetto 3) sul fatto che gli Apostoli sperimentarono a lungo e in maniera pienamente convincente che Cristo era tornato a vivere, dopo la sua passione e morte (cioè, era risorto): infatti era apparso a loro ripetutamente, istruendoli sul regno di Dio.
L’espressione «per quaranta giorni» deve avere qui un valore simbolico: deve voler significare che l’esperienza del Cristo risorto fu bensì limitata e conclusa nel tempo, ma sufficiente perché agli Apostoli fosse dato un insegnamento pieno sulla missione a loro affidata.
     Nei vv.
4.8 sono quasi condensati, in un unico episodio, il lungo rapporto intercorso tra Gesù risorto e gli Undici e l’insegnamento che essi da lui ricevettero.
L’espressione «mentre si trovava a tavola con essi» contiene forse una allusione alla verità indiscutibile della sua risurrezione (non era un fantasma!) e alla familiarità conviviale con cui il risorto si intratteneva con i suoi.
Elemento importante dell’insegnamento di Gesù risorto è considerato quello che riguarda lo Spirito Santo, il quale con la sua forza avrebbe portato a compimento la loro formazione di discepoli.
Altro elemento importantissimo di quell’insegnamento è l’orizzonte universale della missione affidata agli Undici da Gesù: «di me sarete testimoni…
fino agli estremi confini della terra».
L’universalità di questa prospettiva è presentata con grande decisione, tale da far apparire quasi insignificante il desiderio di conoscere i tempi e i momenti della ricostruzione del regno di Israele; quel desiderio è destinato quasi ad annegare nella vastità dei disegni del Padre.
     I versi 9-11 contengono diversi messaggi tra loro coordinati.
Il primo è che Gesù ha concluso la sua presenza visibile sulla terra, essendo rientrato nel modo di essere proprio di Dio, come suggerisce la frase: «una nube lo sottrasse ai loro occhi» (la nube è infatti, nell’Antico Testamento, il nascondiglio e insieme il segno della presenza di Dio).
Un altro insegnamento è che ormai la testimonianza su Gesù e del suo vangelo è affidata esclusivamente ai suoi discepoli: questo sembra vogliano suggerire i due misteriosi uomini in bianche vesti, che li invitano a non restarsene lì incantati a cercare con lo sguardo colui che fu elevato in alto.
Un ultimo insegnamento è che quel Gesù che non è più visibile con gli occhi, tornerà un giorno e sarà di nuovo visibile, nella sua veste di giudice supremo e universale.
  Seconda lettura: Ebrei 9,24-28; 10,19-23          Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore.
E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso.
E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura.
Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.
    v La lettera agli Ebrei, nel brano che costituisce la nostra seconda lettura, pur non facendo alcun riferimento al racconto del libro degli Atti che include il fatto dell’ascensione del Signore, sembra che ne illustri il profondo significato teologico.
     Come nel libro degli Atti, anche qui è detto che Gesù «è entrato…
nel cielo…
per comparire ora al cospetto di Dio» (9,24).
Per poter approfondire il significato dell’ingresso di Gesù nel cielo, che era un elemento comune della predicazione nella Chiesa primitiva, l’ignoto autore della lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra la persona di Gesù e le pratiche cultuali degli Ebrei, concentrate nel tempio di Gerusalemme.
In particolare, qui sembra evocata la festa dell’Espiazione, quella che oggi è per gli ebrei, accanto alla Pasqua, una delle feste religiose più importanti, col nome di iòm Kippùr.
Elemento centrale di questa celebrazione era quello che si può chiamare il rito del sangue: il sommo sacerdote, passando oltre il velo che separava il luogo santissimo dalla zona del sacrificio, ungeva il coperchio dell’Arca (detto in ebraico kappòret e tradotto con il termine propiziatorio) con il sangue del vitello e del capro offerti quel giorno in sacrificio per l’espiazione dei peccati dello stesso sacerdote e di tutti gli israeliti (Vedi Levitico, 16).
Nella nostra lettura, Gesù Cristo è visto come il celebrante di una nuova festa dell’Espiazione: egli è penetrato nel cielo stesso portando il proprio sangue, quello sgorgato dalla sua persona, e ha ottenuto una volta per tutte di togliere i peccati di molti.
Conseguenza grandiosa di questi fatti è che si è aperta una via nuova e vivente, la persona stessa di Gesù Cristo immolatasi per il mondo intero, che consente anche a noi di entrare nel santuario, cioè nella casa di Dio.
Perché questo accada è però necessario avere il cuore purificato e il corpo lavato con acqua pura, nella luce della fede e nella professione della speranza: il che vuol dire avere accolto la testimonianza della predicazione apostolica ed essere entrati a far parte della Chiesa voluta da Gesù.
  Vangelo: Luca 24,46-53        In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.
Di questo voi siete testimoni.
Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse.
Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo.
Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
    Esegesi      Chi pensasse di trovare nel vangelo di Luca il racconto circostanziato dell’ascensione al cielo di Gesù, così come in certi apocrifi è raccontata l’ascensione di altri personaggi biblici, resterebbe deluso.
Al fatto in se stesso il testo evangelico dedica solo queste parole: «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo».
Queste parole appartengono alla sezione conclusiva del terzo vangelo, che abbraccia l’intero capitolo 24 e lega tra loro strettamente gli avvenimenti che scandirono un’intera giornata, il «primo giorno dopo il sabato» (24,1): le donne scoprirono la tomba vuota e, ricevuto l’annunzio della risurrezione di Gesù, lo comunicarono agli Undici; anche Pietro andò a vedere la tomba vuota e restò «pieno di stupore»; due discepoli che andavano a Emmaus si imbatterono in Gesù, vennero da lui istruiti sul significato delle Scritture e finirono per riconoscerlo nella frazione del pane; finalmente, a tarda sera, Gesù in persona apparve agli apostoli riuniti, diede loro le ultime istruzioni, affidò a loro la missione della testimonianza, li benedisse e si staccò da loro.
     Come si vede, il tema che riempie tutta la durata di questo specialissimo giorno è quello della risurrezione del Signore Gesù, che si conclude con il mandato, affidato agli Undici, di testimoniarla «sino ai confini della terra».
     Diamo qui di seguito il senso globale del brano conclusivo del terzo vangelo, che costituisce la nostra lettura evangelica, senza indugiare sull’analisi dettagliata delle sue singole frasi.
     Poiché Gesù Cristo è realmente risorto, la sua passione e la sua morte non sono e non debbono considerarsi una sconfitta, ma una vittoria sul peccato, sicché a tutti è adesso accessibile il perdono dei peccati.
E se il peccato è stato sconfitto non c’è più ragione che l’umanità continui a camminare nella strada della sua rovina, ma può cambiare strada, può dare inizio alla propria conversione.
È per l’appunto questa la missione che Gesù intende affidare ai suoi discepoli: egli vuole che essi siano i suoi testimoni.
Cominciando da Gerusalemme, la loro testimonianza dovrà arrivare a tutte le genti.
A tutte le nazioni della terra, a tutti i popoli, dovrà arrivare la lieta notizia di Gesù Cristo, che ha predicato il vangelo e per questo è stato inchiodato sulla croce ed è morto, ma il terzo giorno è risorto.
Per intraprendere questa missione, i discepoli di Gesù hanno però bisogno di una forza dall’alto, hanno bisogno cioè che scenda su di loro la forza dello Spirito Santo, secondo la promessa già fatta ai profeti per gli ultimi tempi.
Dopo aver raccomandato loro di restare in Gerusalemme fino alla discesa dello Spirito, con un’ultima benedizione, Gesù «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo».
La testimonianza della risurrezione poteva così essere completata con quest’ultimo elemento: l’ingresso di Gesù nella vita divina del cielo.
Egli dunque non doveva essere considerato assente o lontano dalla vita degli uomini sulla terra, ma doveva essere considerato sempre vicino quanto Dio lo è a tutta la sua creazione.
  Meditazione      La liturgia della parola della solennità odierna ci presenta due racconti del medesimo avvenimento – lo staccarsi definitivo di Gesù, in modo fisico, da questa terra e dai discepoli – narrati dallo stesso autore.
Ciò è dovuto alla grande maestria letteraria e teologica dell’evangelista Luca, non certo a una svista! La differenza che salta maggiormente agli occhi è la cronologia: nel brano evangelico l’ascensione avviene la sera stessa di Pasqua (dato storicamente inverosimile, dal momento che nel racconto dei due discepoli di Emmaus siamo già a sera inoltrata), mentre negli Atti degli apostoli si situa alla conclusione di un periodo di quaranta giorni di apparizioni.
Tale diversità si spiega a partire da una diversa prospettiva teologica: nell’evangelo tutta l’attenzione è concentrata su Gesù e sulla novità che il giorno di Pasqua porta, non c’è più tempo e spazio per narrare dei discepoli ed è Gesù che domina l’ultima scena; negli Atti degli apostoli è la comunità dei discepoli che diviene soggetto, il tempo è più disteso e si sviluppa il cammino della Chiesa.
     Comunque sia, il fatto si svolge a Gerusalemme, meta del pellegrinaggio terreno di Gesù (cfr.
Lc 9,51 ss.) e luogo della sua morte e risurrezione.
Lo spazio più sacro della città santa è il tempio, con cui si apre (cfr.
1,8 ss.) e si chiude il racconto evangelico.
Ma ora è Gesù stesso il tempio, il luogo dove abita la presenza di Dio e noi siamo portati, insieme con lui, alla destra dell’Altissimo!      Gerusalemme è anche il luogo dove scenderà lo Spirito santo (cfr.
Lc 24,49; At 1,5), che i discepoli devono attendere: si compie l’ultima e principale promessa di Gesù, che introduce alla comunione trinitaria e che abilita alla missione tra le genti.
L’Ascensione è pertanto momento di passaggio, di attesa tra la Pasqua e la Pentecoste: c’è il tempo per prepararsi a rendere testimonianza al Signore risorto, che ora siede nei cieli.
     Ma qual è dunque il messaggio, l’incarico a cui sono chiamati i discepoli «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8)? «La conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24,47), la possibilità per ogni uomo di veder rinascere la propria esistenza, di vederla segnata dalla misericordia affinché a tutti si rechi nuovamente misericordia.
Il contenuto del messaggio sembra semplice, seppur straordinario; ciononostante, perfino in quel momento, regna l’incomprensione: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (At 1,6).
Quanta fatica a staccarsi dai propri progetti, quale conversione chiede tenere insieme il nostro mondo con quello di Dio…
     È lo stesso Gesù a guidare il gruppo nel momento del distacco.
Come i patriarchi, si separa da loro mediante la benedizione, un ultimo gesto di sostegno e vicinanza che sostituisce le parole.
Se la prima reazione dei discepoli è quella dello sconcerto, della perplessità, del disorientamento, forse anche della nostalgia – «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (At 1,11) – subito subentra l’azione missionaria e della preghiera, da svolgersi nella lode (cfr.
Lc 24,53) e nell’attesa del ritorno del Signore: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).
Non c’è pertanto un distacco radicale, una separazione: la tristezza che aveva caratterizzato i discepoli nell’ultima sera trascorsa insieme a Gesù viene rimpiazzata dalla le-tizia di saperlo non nel regno dei morti ma dei viventi, di Dio! Ecco perché l’ultimo gesto nei confronti di Gesù è quello della prostrazione – unico caso in tutto il vangelo di Luca – attraverso il quale si riconosce la divinità del Signore.
     Mi sembra estremamente significativo che il Signore Gesù introduca i discepoli alla predicazione missionaria mediante il richiamo alle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» (Lc 24,46).
Nonostante siano compiute, le Scritture restano determinanti per interpretare e conoscere sempre meglio la persona di Gesù: sono il compagno di viaggio dell’autentico discepolo del Signore.
     Preghiere e Racconti Trasfigurati dalla speranza Come si vede, prima componente della speranza, che io propongo, è il dialogo con Dio, da figlio a padre, da povero peccatore a colui che è misericordia infinita; esso va bene tanto nei momenti della gioia quanto in quelli del dolore;  chi non lo conosce, questo dialogo, o l’avesse da tempo sospeso o tralasciato, dovrebbe riprenderlo quanto prima.  Altra componente della speranza: dare più spazio alla parte migliore di noi, che bisogna saper scoprire, far riemergere dal profondo e valorizzare.  La gente, oggi, mitizza volentieri e cerca modelli di vita nei divi del cinema, nei campioni dello sport, negli uomini che hanno successo.  Questa gente , si direbbe, si ispira a Carlyle, che pensò agli “eroi” come a “uomini superiori”, sorti a guidare i popoli:  Meglio ispirarsi al nostro Giambattista Vico, per il quale l’”eroe” è “qui sublimia appetit”, chi cioè tende a cose alte: alla perfezione morale, all’unione con Dio, a promuovere, secondo le proprie possibilità, l’avanzamento di ogni uomo e di tutto l’uomo.
C’è davvero maggiore speranza in noi, quando sentiamo più cocente la nostalgia di un’autentica grandezza umana.
Quella,  per esempio, che Amleto attribuiva al suo defunto padre, dicendo: “Tutto in lui armonizzava così bene che la natura sembrava alzarsi in punta di piedi e segnarlo a dito dicendo: Quegli era un uomo”.  Oppure l’altra grandezza, di cui un poeta francese: “L’homme est un dieu tombé qui se souvient  des cieux”, l’uomo è un dio decaduto, che ha nostalgia del cielo.
Noi siamo infatti una specie di angelo che non ha più le ali, ma se ricordiamo di averle avute e se crediamo che le riavremo, veniamo trasfigurati dalla speranza.
(Albino Lucani [Giovanni Paolo I], Da “Opera Omnia”, voll.
VII, Padova, Messaggero, 1975-1976, 540-41).
  Racconto Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: “Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo.
Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.
Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…
Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.
Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo”.
  Guardarsi dentro Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato.
Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie.
Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.
Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente.
Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera! “Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.
“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.
“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.
Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose: “No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso.
Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro.
Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono.
Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.
Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.
Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.
Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.
E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.
Se solo si guardassero “dentro”!   Il cielo «Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.
Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.
Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie.
Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico.
Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K.
Rahner, La risurrezione della carne, p.
459).
L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.
In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione».
(Joseph Ratzinger [BENEDETTO XVI], Imparare ad amare.
Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).
  «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo» (At 1,11) «[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.
La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste.
Prima la realtà terrena: «Perché state?

V domenica dopo Pasqua Anno C

V DOMENICA DI PASQUA   Lectio Anno c     Prima lettura: Atti 14,21-27          In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni».
Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto.
Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto.
Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.
       v Paolo e i suoi collaboratori sono presentati come missionari itineranti, che predicano la parola di Dio.
Essi non prendono dimora stabile in nessuna comunità, ma vanno di paese in paese.
     Quando è necessario essi ritornano nelle comunità evangelizzate per «fortificare» (lett.
confermare) nella fede i discepoli.
«Confermare» è un termine che diventa tipico nel linguaggio missionario delle primitive comunità cristiane (cf.
At 15,32-41; 16,5; Rom 1,11; 1 Ts 3,2.13).
Il tema della conferma della fede si trova già nel Vangelo lucano: «confermare i fratelli» è la missione affidata da Gesù a Pietro (cf.
Lc 22,32).
     Le tribolazioni sono la grande tentazione della fede per i discepoli.
Le sofferenze possono portare alla disperazione e indurre a non avere più fiducia nell’avvento del regno di Dio e a rinunciare a lavorare per esso.
     Il regno di Dio è indicato qui come una realtà escatologica, nella quale si entra «attraverso molte tribolazioni».
È presentato come realtà futura, nella quale i discepoli devono ancora entrare.
Chiesa e regno non si identificano: essi sono nella Chiesa, ma non ancora nel Regno.
Sono ancora nel regime della «fede» e della «speranza», che si possono perdere a causa delle tribolazioni…
     Paolo e Barnaba si preoccupano di dare una struttura stabile alla comunità e costituiscono degli «anziani», che le governino, mentre loro continuano ad andare in nuovi paesi a predicare la parola di Dio.
Paolo e Barnaba stanno compiendo la missione fra i pagani, che numerosi hanno abbracciato la fede.
Il giungere alla fede nel Signore è un dono gratuito di Dio, come essi riconoscono e dichiarano davanti alla comunità (cf.
At 14,27).
  Seconda lettura: Apocalisse 21,1-5            Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più.
E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.  Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
    v  La sezione dell’apocalisse che inizia col capitolo 21 e termina a 22,5, è l’ultimo grande affresco della profezia di Giovanni.
Si tratta di una conclusione radiosa, conseguenza di un intervento diretto e creatore di Dio.
I versetti che leggiamo oggi sono l’introduzione a questa sezione.
Essi vanno letti non come una previsione del futuro, ma come una esortazione alla speranza e all’attesa dell’intervento definitivo di salvezza di Dio.
     Giovanni ha la visione di un cielo nuovo e una terra nuova.
Si tratta di una novità dovuta all’intervento creatore di Dio, come lo era stato all’inizio, non solo di una trasformazione, infatti il cielo e la terra di prima «erano scomparsi».
Il riferimento è ad Isaia (65,17; cf.
66,22).
«Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra».
     La visione continua con quella della «Gerusalemme nuova».
In Isaia Dio promette «farò di Gerusalemme una gioia del suo popolo, un gaudio».
La salvezza escatologica della visione di Giovanni è universale e particolare al tempo stesso.
Rispecchia il movimento creatore e salvatore di Dio che attraversa tutta la rivelazione biblica.
Dio è creatore dell’universo e Padre di tutte le creature che popolano la terra, ma Dio al tempo stesso si sceglie un popolo, Israele, e una città, Gerusalemme, come possesso e dimora amati e riservati in modo particolare per sé.
     La nuova Gerusalemme è presentata nella visione «come una sposa adorna per il suo sposo» (cf.
Is 52,1; 61,10).
     Nella terra e cielo nuovi Dio ha la sua dimora stabile.
Questo fa la differenza con il cielo e la terra di prima dove Dio aveva dimora, ma nascosta «dalla tenda».
Solo in visione e da parte di alcuni scelti da lui per delle missioni particolari, come Mosé, ci poteva essere un contatto per così dire, più diretto.
La dimora definitiva di Dio fra gli uomini sarà lo svelamento di quella stessa presenza di Dio nella tenda in mezzo o alla guida del suo popolo in questo mondo che deve passare.
La dimora, in greco skené, ha le stesse consonanti della parola ebraica skekinà, che indica l’immanenza di Dio che sta insieme al suo popolo e condivide, se così si può dire, la sua stessa vita tanto da andare in esilio con lui.
     Il segno della dimora definitiva di Dio col suo popolo e l’umanità “giusta” sarà l’assenza di ogni sofferenza, morte, lutto, dolore (cf.
Is 35,10; 65,19; Ger 31,16).
  Vangelo: Giovanni 13,31-33a.34-35          Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui.
Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi.
Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri.
Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
    Esegesi      Nei primi due versetti della pericope che leggiamo oggi Gesù parla della glorificazione del «Figlio dell’uomo» ormai avvenuta e annuncia che Dio è glorificato in lui.
     Giovanni collega il discorso della glorificazione di Gesù con il dono dello Spirito.
In 7,39 afferma che non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato.
I credenti ricevono lo Spirito del Signore glorificato, e solo dopo questo dono «si ricordano» (12,16) e capiscono le parole di Gesù.
     La glorificazione del Figlio è opera del Padre, al quale appartiene la gloria.
I segni miracolosi compiuti da Gesù presentano questo movimento dinamico: essi avvengono a gloria di Dio e le persone che vi assistono lodano il Padre, Dio di Israele (cf.
Mt 9,8; 15,31; Mc 2,12;).
Gesù insiste su questa dinamica intrinseca alla glorificazione del Padre, che a sua volta glorifica il Figlio e che è glorificato attraverso il Figlio (Gv 8,54).
C’è un intreccio inestricabile fra le due glorificazioni, ma il termine ultimo è sempre il Padre.
«Padre glorifica il tuo nome» (Gv 12,28).
«Padre è giunta l’ora, glorifica il Figlio, perché il Figlio glorifichi te» (17,1).
     Per Giovanni la glorificazione di Gesù è strettamente legata alla passione.
Egli dice infatti all’annuncio della passione: «È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23).
Gesù si sottomette a passione per amore, in obbedienza al Padre.
Egli dà l’esempio dell’amore più grande: «dare la vita».
«Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Questa è la misura dell’amore che i discepoli debbono avere gli uni verso gli altri.
     «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati».
Gesù propone sé stesso come esempio di adempimento in misura totale del comandamento grande di Lev 19,18: «Ama il prossimo tuo come te stesso».
Ne sottolinea l’attualità ai discepoli: «Vi do’ un comandamento nuovo», un comandamento che va messo in pratica sempre in forma nuova a seconda delle circostanze in cui una persona si trova.
La novità per i discepoli è il dovere di imitare Gesù nel suo dono senza misura.
     Gesù si rivolge ai discepoli chiamandoli affettuosamente «figlioletti» (tekvìa).
Questo termine ricorre solo qui nel vangelo di Giovanni, ma è un’espressione tipica della Prima Lettera a lui attribuita (1Gv 2,12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21), che ravvicina al genere letterario sapienziale dei Proverbi (cf.
Pv 1,8; 2,1; 3,1; 4,1; 8,32): un padre-maestro si rivolge ai suoi discepoli-figli e con affetto e passione dà loro gli insegnamenti.
Il diminutivo «figlioletti», anziché il più usuale «figli», indica l’interesse e l’amore di chi parla o scrive verso i destinatari del suo insegnamento.
  Meditazione      Il passo evangelico di questa domenica inizia facendo menzione dell’uscita di scena di Giuda, il traditore.
Poco prima, al versetto immediatamente precedente, Giovanni annota in maniera icastica: «Ed era notte» (13,30).
È scesa la notte del rifiuto e del tradimento e Giuda, uscito dalla sala del banchetto, esce anche dallo spazio di quell’amore che tutto avvolge, che tutto illumina, che tutto in sé integra.
La luce dell’amore di Gesù è troppo forte per Giuda ed egli, non potendola sopportare, preferisce ‘tuffarsi’ nel buio della notte, là dove le tenebre ricoprono ogni cosa e stendono un velo anche sulla verità del proprio cuore (cfr.
Gv 3,19-20!).
     Può sorprendere che proprio nel momento in cui Giuda esce per consumare il suo tradimento Gesù dica: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui» (13,31).
Come può Gesù parlare di ‘glorificazione’ di fronte alla tragica perdita di un discepolo? Non bisognerebbe forse parlare di sconfitta e di fallimento? È infatti uno dei Dodici che se ne va, uno del gruppo per il quale Gesù aveva speso le sue migliori energie cercando di farne una comunità di fratelli, una comunità che fosse segno esemplare di un nuovo modo di tessere relazioni, di un nuovo modo di agire e di vivere.
Il tradimento di Giuda intacca profondamente la coesione e il legame che Gesù si era da tempo impegnato a costruire e, certamente, per lo stesso Gesù non deve essere stato facile accettarlo.
Al riguardo, Giovanni ci fa notare che «Gesù fu profondamente turbato» (13,21), rimane sconvolto, allo stesso modo con cui lo era stato per la perdita dell’amico Lazzaro (cfr.
11,33, dove ricorre lo stesso verbo: tarássō).
Ogni volta che un’amicizia viene tradita, ogni volta che una comunione viene infranta, ogni volta che una relazione viene ferita mortalmente, si sta davvero male e grande è il dolore da portare…
Eppure Gesù, anche in questa situazione di profonda sofferenza e tristezza, continua a porgere la mano, continua a mostrare la sua amicizia a Giuda offrendogli il boccone dell’accoglienza e della comunione (cfr.
13,26), continua ad amare fino in fondo.
È in questo che sta la glorificazione: in quest’amore capace perfino di integrare il tradimento, di assumerlo in sé e di avvolgerlo dentro un orizzonte più ampio e più forte.
La gloria di Gesù è la luce del suo amore che attraversa anche la notte del tradimento.
E Dio è glorificato in Gesù perché in Gesù, nei suoi gesti, nei suoi atteggiamenti, si manifesta il suo volto di Padre, si rivela fino a che punto arriva il suo amore per il mondo (cfr.
3,16).
Questa glorificazione reciproca – del Figlio nel Padre e del Padre nel Figlio – ci dice a che livello giunge la comunione divina: niente è dell’uno che non debba risplendere anche nell’altro e la gloria di uno non può essere che luce per tutti e due.
Gesù non ha mai cercato la propria gloria, ma solo quella che veniva da Dio (cfr.
5,44; 7,18; 8,50) e questo suo ‘lasciarsi glorificare’ è indice della sua apertura e della sua totale obbedienza al Padre, a Colui dal quale tutto riceve e al quale tutto a sua volta si dona.
     Ma se la glorificazione massima di Gesù giunge al momento della sua morte – l’«ora» della Croce -, c’è un altro ‘luogo’ in cui può risplendere la luce della gloria di Dio: una comunità di discepoli in cui regna l’amore: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (13,35).
Là dove alcune persone accolgono l’amore di Dio e si lasciano in tutto plasmare da esso, ivi si rende presente la gloria di Dio.
Nel loro amore e nel loro donarsi vicendevole è riconoscibile il volto di Dio, si conosce chi è veramente Dio.
Non ci sono altri segni o criteri per riconoscere una comunità che ‘appartiene’ a Dio («sapranno che siete miei discepoli») se non il vedere all’opera l’amore stesso con cui Gesù ha amato.
Quel «come io ho amato voi» (v.
34) racchiude tutto il segreto di un’esistenza che vuole essere segno trasparente di un mondo nuovo, di un modo nuovo di pensare e di agire, di guardare la propria e altrui vita, di vivere le relazioni all’interno di una comunità o di una famiglia.
L’amore, quando ‘prende corpo’ in una persona, in una comunità, anche piccola ed esigua, ha la forza di «far nuove tutte le cose» (Ap 21,5), come si dice nella seconda lettura di questa domenica.
     La novità del comandamento dell’amore, che Gesù lascia in eredità ai suoi discepoli come il bene a lui più caro e prezioso, sta proprio in quel «come io».
Il comandamento è nuovo perché nuova è la ‘misura’ dell’amore, perché nuovo è colui che comanda un tale amore.
Vivere e amare «come Gesù»: in questo sta l’essenza e l’originalità dell’esistenza cristiana.
Ma non si tratta qui semplicemente di ‘imitazione’ (è poi possibile ‘imitare’ Gesù? Non è forse una pretesa assurda?): il modo con cui ci è chiesto di amare se rimanda al suo modello – Gesù, appunto – riceve anche da esso la forza e la capacità stessa di farlo.
Quel come, infatti, vuol dire anche perché (il termine greco kathōs è passibile anche di questo ulteriore significato): «Amatevi…
come e perché io ho amato voi».
È il fatto che Gesù ci ha amati per primo, che ci ha inseriti nel flusso vitale e rigenerante del suo amore, che noi, a nostra volta, possiamo «amarci gli uni gli altri».
Senza questa ‘comunicazione’ dell’amore di Gesù in noi e senza questo nostro ‘comunicarci’ a lui, aprendoci all’accoglienza del suo dono, sarebbe vano e irrealistico pensare di ‘osservare’ questo singolare comandamento…
     Da ultimo, una parola sulla peculiarità di un amore espresso in forma di «comandamento».
Perché l’amore ha bisogno di essere ‘comandato’? Non diventa in questo modo una forzatura che rischia di svilire i tratti più belli e liberanti di questa grande – e unica – realtà umana che ci rende simili a Dio? Anzitutto bisogna ricordare che il comandamento dell’amore è un dono (Gesù dice infatti: «Vi do…»: v.
34) e questo semplice fatto contribuisce già a vederlo in una luce nuova e diversa da quella a cui una lunga consuetudine ci ha abituati.
In secondo luogo, se l’amore non entrasse nell’orizzonte umano sotto l’aspetto del comandamento, rischierebbe di perdere la sua qualità divina e diventerebbe solo amore di spontaneità, di affinità, di simpatia, di attrazione.
Il comandamento non si oppone all’amore e neppure è la negazione della sua libertà, ma è «il vero scrigno che lo custodisce» (Carmine Di Sante).
Affinché esso rimanga amore divino, di una misura ‘altra’.
            Preghiere e Racconti Affamati d’amore Oggi non abbiamo più neppure il tempo per guardarci, per parlarci, per darci reciprocamente gioia, e ancor meno per essere ciò che i nostri figli si aspettano da noi, che un marito si aspetta dalla moglie e viceversa.
E così siamo sempre meno in contatto gli uni con gli altri.
Il mondo va in rovina per mancanza di dolcezza e di gentilezza.
La gente è affamata d’amore, perché siamo tutti troppo indaffarati.
(Madre Teresa di Calcutta) «Vi do un comandamento nuovo».
Poiché c’era da aspettarsi che i discepoli, sentendo tali discorsi e considerandosi abbandonati, si lasciassero prendere dalla disperazione, Gesù li consola, munendoli, per la loro difesa e protezione, della virtù che è alla radice di ogni bene, cioè della carità.
È come se dicesse: «Vi rattristate perché io me ne vado? Ma se vi amerete l’un l’altro, sarete più forti».
E perché non disse proprio così? Perché impartì loro un insegnamento molto più utile: «In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli».
Con queste parole fece capire che la sua eletta schiera non avrebbe dovuto mai sciogliersi, dopo aver ricevuto da lui questo segno distintivo.
Lui lo rese nuovo, con la maniera stessa in cui lo formulò.
Difatti precisò: «Come io ho amato voi» […].
E, trascurando qualsiasi accenno ai miracoli che essi avrebbero compiuto, dice che sarebbero stati riconosciuti dalla loro carità.
Sai perché? Perché la carità è il più grande segno che distingue i santi: essa è la prova sicura e infallibile di ogni santità.
Soprattutto con la carità noi tutti conseguiamo la salvezza.
In questo soprattutto egli afferma consistere l’essere suoi discepoli.
Proprio a motivo della carità tutti vi loderanno, vedendo che imitate il mio amore.
I pagani certamente non si commuovono tanto di fronte ai miracoli come di fronte alla vita virtuosa.
E niente educa alla virtù come la carità.
Essi infatti chiamarono spesso impostori gli operatori di miracoli, ma non possono mai trovare qualcosa da criticare in una vita integra.
(GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul vangelo di Giovanni, 57,3s.).
Ama con umiltà e rispetto La vita spirituale si riassume nell’amare.
E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione.
L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’.
Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi.
Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco.
Amare significa comunicare con chi si ama.
Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto.
Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui.
(Thomas Merton).
  «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (cfr.
Mt 22,37-39).
 Comincio a sperimentare che un amore di Dio totale e incondizionato rende possibile un amore del prossimo visibilissimo, sollecito e attento.
Ciò che spesso io definisco ‘amore del prossimo’ si dimostra troppo spesso un’attrazione sperimentale, parziale o provvisoria, di solito molto instabile e fuggevole.
Ma se il mio obiettivo è l’amore di Dio, si può sviluppare anche un profondo amore per il prossimo.
Altre due considerazioni possono spiegarlo meglio.
Prima di tutto, nell’amore di Dio scopro ‘me stesso’ in modo nuovo.
In secondo luogo, non scopriremo solo noi stessi nella nostra individualità, ma scopriremo anche i nostri fratelli umani perché è la gloria stessa di Dio che si manifesta nel suo popolo in una ricca varietà di forme e di modi.
L’unicità del prossimo non si riferisce a quelle qualità peculiari, irrepetibili da individuo a individuo, ma al fatto che l’eterna bellezza e l’eterno amore di Dio divengono visibili in quelle creature umane uniche, insostituibili, finite.
È precisamente nella preziosità dell’individuo che si rifrange l’amore eterno di Dio, diventando la base per una comunità d’amore.
Se scopriremo la nostra stessa unicità nell’amore di Dio e se potremo affermare che possiamo essere amati perché l’amore di Dio dimora in noi, potremo allora arrivare agli altri, in cui scopriremo una nuova ed unica manifestazione dello stesso amore, entrando in intima comunione con loro.
(H.J.M.NOUWEN, Ho ascoltato il silenzio.
Diario da un monastero trappista,  Brescia 1998, 82s.).
  Cogliere il mistero di Dio Fratelli, non temete il peccato degli uomini, amate l’uomo anche nel suo peccato, perché questa immagine dell’amore di Dio è anche il culmine dell’amore sopra la terra.
Amate tutta la creazione divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia.
Amate ogni fogliuzza, ogni raggio di sole! Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa! Se amerai tutte le cose, coglierai in esse il mistero di Dio.
Coltolo una volta, comincerai a conoscerlo senza posa ogni giorno di più e più profondamente.
E finirai per amare tutto il mondo di un amore ormai totale e universale.
(Fedor Dostoevskij, da I fratelli Karamazov).
  Cercare la verità…amando Ho cercato la verità, con l’Innominato di Manzoni.
Ho cercato la verità tra le lettere di don Milani.
Ho cercato la verità, curiosando nella vita di Gandhi.
Ho cercato la verità, nelle confessioni di sant’Agostino.
  Ho cercato la verità nelle prediche di don Mazzolari.
Ho cercato la verità, piangendo con Giobbe sul letamaio.
Ho cercato la verità, fuggendo da casa, con la mia parte di eredità, come il Figliol Prodigo.
Ho cercato la verità, nelle poesie di Tagore.
Ho cercato la verità, nei pensieri di Pascal.
  Ho cercato la verità, nei fioretti di san Francesco.
Ho cercato la verità, nell’Allegretto della settima di Beethoven.
Ho cercato la verità, vagando stralunato.
Ho cercato la verità, negli occhi incavati e ormai vitrei di Brambilla, morto di Aids tra le mie braccia.
  Ho cercato la verità, nei rosari che la mia santa madre recitava per me, prete molto diverso dal prete che teneva nella sua testa.
Ho cercato la verità, nel Parco Lambro, negli anni ottanta, assistendo giovani in overdose.
  Ho cercato la verità, nei commenti biblici, stupendi, del mio cardinale di Milano.
Ho cercato la verità, nei viaggi del pellegrino Wojtyla.
Ho cercato la verità, nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Le religioni vanno a scuola.

UNIVERSITA’ ROMA TRE FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA – FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE LE RELIGIONI VANNO A SCUOLA Prospettive professionali della laurea in Scienze delle Religioni Mercoledì 28 aprile 2010 Sala del Consiglio del dipartimento di Studi Storici, Geografici e Antropologici La locandina   Programma: Mattina Presiede Carla Lo Cicero – Università di Roma Tre 9.00 Saluti 9.30 Paolo Naso – Università di Roma Sapienza I “Religious studies nella società multiculturale” 10.00 Flavio Pajer – Pontificio Ateneo Salesiano Gli insegnamenti di religione nella UE: tendenze della cultura scolastica 10.30 Pausa Caffè Presiede Gianfanco Bonola – Università Roma Tre 11.00 Alessandro Saggioro – Università di Roma Sapienza Il ruolo dell’Università nella questione ora di religione/i: una sfida aperta 11.30 Maria Chiara Giorda – Università di Torino La didattica storico-religiosa: prospettive italiane 12.30 Discussione 13.00 Pausa Pranzo Pomeriggio Presiede Roberto Rusconi – Università Roma Tre 15.00-17.30 Tavola Rotonda Partecipano: Studenti dell’Università Roma Tre, Studenti della Sapienza Università di Roma, Pasquale Troia (autore di Bibbia Educational), Paola Bisegna (Dirigente del liceo Democrito), Antonia Sani ( Comitato nazionale scuola e costituzione), Carlo Felice Casula (Università Roma Tre), Gaetano Lettieri ( Sapienza, Università di Roma), Francesco Scorza Barcellona ( Università di Roma Tor Vergata) 17.30 Pausa presiede Franca Brezzi ( Università Roma Tre) 18.00 Discussione 19.00 Conclusione dei lavori   Comitato Promotore: G.
Bonola, A.
Bozzo, F.
Brezzi, R.
Cipriani, A.
D’Anna, C.
Lo Cicero, M.
Lupi, R.
Michetti, C.
Noce, G.
L.
Prato, R.
Rusconi e gli studenti della LM in Scienze delle religioni dell’Università Roma Tre.
Facoltà di Lettere e Filosofia – via Ostiense, 236, Roma Per informazioni rivolegersi a: Alberto D’Anna danna@uniroma3.it; 06 57338562

IV Domenica dopo Pasqua Anno C

  IV DOMENICA DI PASQUA   Lectio Anno c     Prima lettura: Atti 13,14.43-52                   In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisidia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero.
Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio.
Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore.
Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo.
Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani.
Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”».
Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero.
La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione.
Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio.
Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio.
I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
    v La Chiesa nasce con i problemi di tutte le istituzioni.
Il gruppo missionario, partito da Antiochia di Siria (13,1-3), è composto da Barnaba, Saulo e Giovanni Marco; ma a Cipro, evidentemente per dissensi, Giovanni torna indietro e Saulo che prende il nome di Paolo diventa il primo della comitiva (v.
14).
              La nuova meta è Antiochia di Pisidia, una delle più grandi città all’interno dell’Asia minore (Turchia).
La tattica missionaria consiste innanzitutto in un approccio con i giudei del luogo, al primo sabato nella sinagoga.
Le parole dell’apostolo non lasciano indifferenti gli ascoltatori, sia i giudei che i proseliti ossia i pagani in via di conversione al giudaismo e si fissa un appuntamento per il sabato seguente.
              Ma nel frattempo i giudei hanno tempo di riprendersi e consultarsi e organizzano una ferma resistenza ai nuovi arrivati avvalendosi dell’appoggio di persone autorevoli che erano o riuscirono a far schierare dalla loro parte.
              Non è detto che cosa contestassero, ma verosimilmente la posizione egemonica di Gesù rispetto agli altri profeti.
Le loro «bestemmie» non riguardavano certamente Dio, ma Gesù Cristo che essi non accettavano come l’unto del Signore.
È sempre Gesù la pietra di scandalo (cf.
At 4,11), il segno di contraddizione (Lc 2,34).
              I giudei neanche accettano di mettere in discussione il primato di Abramo e di Mosè, non possono perciò prendere in considerazione le attribuzioni assegnate a un falegname nazaretano.
Il Cristo storico non offriva garanzie per essere ritenuto inviato di Dio (cf.
Mc 6,1-6; Lc 4,28-29).
              Il settarismo giudaico trova il suo corrispettivo nell’intransigenza cristiana.
Gli apostoli che provengono anch’essi dal mondo dei loro oppositori non si provano a cercare un punto di contatto con i loro avversari che pur sono loro fratelli, egualmente figli di Abramo e adoratori dello stesso Dio.
Per gli uni la fede in Mosè porta all’esclusione della fede in Cristo, per gli altri l’adesione a Gesù Cristo mette da parte tutti gli altri intermediari tra l’uomo e Dio.
Non c’è altro nome in cui è dato salvarsi, è affermato fin dai primi discorsi degli Atti (4,12).
              Ad Antiochia avviene la rottura ufficiale tra il cristianesimo e il giudaismo della diaspora come a Gerusalemme era avvenuta la separazione con il giudaismo palestinese.
Il cristianesimo nasce dal solco della tradizione giudaica, ma d’ora in avanti perseguirà un cammino tutto proprio e spesso antagonistico con quello della sinagoga.
              La chiesa dei giudei o della circoncisione diventa presto la chiesa dei soli gentili.
Era evidentemente un fatto incomprensibile, uno scandalo si dirà presto.
Bisognava cercare una spiegazione biblico-teologica per renderlo plausibile.
I testi che parlavano della salvezza dei gentili non prevedevano l’esclusione dei giudei.
              La vertenza di Antiochia, si chiude, come spesso accadrà in futuro nella storia cristiana, con il ricorso al braccio secolare.
I giudei, non potendo far tacere gli apostoli con le loro controargomentazioni, mobilitano i notabili della città e con il loro appoggio riescono a far allontanare degli uomini che erano pericolosi per la quiete pubblica.
              Ma la risposta degli apostoli è pari all’ostilità ricevuta: scuotono persino la polvere dai loro calzari in segno di protesta.
È il rifiuto di ogni comunione con quanti quella terra calpestavano.
  Seconda lettura: Apocalisse 7,9.14-17                   Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua.
Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani.
E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello.
Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».
    v     L’Apocalisse trasferisce il lettore sempre in un mondo ideale, quello della risurrezione, di cui tutto si può dire, ma di nulla si può esser certi, salvo la sua realtà.
              L’uomo passa la sua prima esistenza in una realtà opaca, piena di contrasti e di contraddizioni e sogna che l’era futura sia il suo contrario, luminosa, pacifica, accattivante.
Un mondo sempre da desiderare oltre che attendere, in cui le ingiustizie e le sofferenze di quaggiù, la stessa morte scompariranno per sempre.
              La fede è una visione ottimistica del futuro, la proiezione verso una vita senza fine dove non un piccolo numero ma una moltitudine sterminata e plurirazziale entrerà a far parte.
Quella di Ap 7 è una scena consolante ed esaltante.
              La vita terrena è una grande tribolazione in particolare per i credenti.
Essi spesso soccombono sotto il peso dei tiranni, ma la loro fine segna l’inizio di una vita nuova.
Sono caduti sotto i ferri degli aguzzini, ma si sono rialzati, indossano tuniche bianche che simboleggiano la luce da cui sono avvolti e nelle loro mani stringono la palma della vittoria.
Erano degli sconfitti, ora sono dei vincitori!               La vita del cielo è per l’ebreo l’idealizzazione della sua esperienza religiosa sulla terra.
Gerusalemme e il suo tempio sono trasferiti negli al di là e lo stesso rituale liturgico si ritrova davanti al trono di Dio e l’Agnello.
              L’Agnello è il simbolo di Gesù Cristo morto e risorto; infatti anch’egli è «come immolato» e «in piedi» (5,6), per questo «è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore e gloria e benedizione» (5,12).
E quanto la moltitudine dei martiri gli tributa in segno di riconoscenza.
«La salvezza appartiene al nostro Dio e all’Agnello» (7,10).
              Ma la gioia nasce dal fatto che i credenti sono diventati partecipi del trionfo dell’Agnello che pascola e guida il suo gregge alle fonti dell’acqua della vita (v.
17).
              Per l’israelita il massimo della beatitudine era ritrovarsi davanti a Dio nel suo santuario; la stessa è la condizione degli eletti.
E la tenda dell’abitazione di Dio, il tabernacolo celeste è diventata la loro dimora e la loro vita sarà alimentata da una sorgente perenne.
              Tutte immagini precarie che vogliono ritrarre una realtà inimmaginabile, la sorte dei giusti.
In tutti i casi essa sarà di piena felicità spirituale e fisica poiché la presenza di Dio e dell’Agnello è accompagnata dall’assenza di intemperie e di catastrofi.
  Vangelo: Giovanni 10,27-30                   In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.  Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre.
Io e il Padre siamo una cosa sola».
                                               Esegesi               Il breve testo evangelico segna il momento culminante dell’ultimo dibattito di Gesù con le autorità giudiache.
Come il primo, in occasione della purificazione del tempio (2,13), quest’ultimo ha la stessa collocazione topografica.
              È la festa della dedicazione (10,22).
Gesù ha rimesso piede nei cortili del tempio, dove in precedenza aveva denunciato gli abusi dei dirigenti giudaici (8,44) e questi avevano cercato di catturarlo e ucciderlo (8,20,37,40,59).
Ciò nonostante è di nuovo sul posto e si muove liberamente (sta passeggiando) sotto i loro occhi.
              L’evangelista fa notare che era inverno.
Dato che la festa della dedicazione cadeva nel mese di dicembre l’osservazione è superflua; sta facilmente a indicare il clima di freddezza che regnava attorno o più ancora la desolazione che sovrastava sul luogo santo.
              Il tema della conversazione, come nel primo incontro nel tempio (2,15) o nell’interrogatorio fatto al Battista (1,19), riguarda sempre la messianità di Gesù.
Questa volta gli interlocutori mostrano ansia e accoramento.
Lo attorniano nel senso che lo accerchiano, gli sono addosso quasi da soffocarlo.
La loro domanda è ambigua: fino a quando ci tieni sospesi tra la vita e la morte.
Può indicare interesse per un quesito teologico essenziale oppure può semplicemente dire che da esso dipende la loro sopravvivenza istituzionale.
Se Gesù si dichiara re d’Israele la loro fine è segnata.
              Ma la risposta di Gesù è volutamente circospetta.
Egli aggira l’ostacolo; non pronuncia la parola messia, ma suggerisce ai suoi obiettori la strada per arrivarvi.
Le parole non fanno grande nessuno; sono i fatti che indicano quello che uno è.
              Le opere a cui Gesù si appella non sono tanto i miracoli, quanto le azioni benefiche compiute a pro degli uomini, i gesti di benevolenza a favore degli afflitti nel corpo e nello spirito, dei malati, dei peccatori.
Egli si è definito poco sopra il buon pastore che dà se stesso per le pecore (10,11), che conosce, cioè le ama, come le pecore conoscono Lui, corri-spondono al suo amore; ma non è amore teorico, bensì fatto di gesti concreti per il bene di tutto il gregge, sia quello del recinto israelitico come di altra provenienza (10,16).
Gesù non ha mai agito per il suo prestigio personale, cercando la propria gloria (8,50), l’applauso degli uomini (5,41); anzi è fuggito quando questi volevano farlo re (6,15).
              Le «opere» di Gesù sono le stesse che Dio compie e perciò autenticano la sua missione.
Egli ha ricevuto lo Spirito nel giorno del battesimo (1,32) e da quel giorno si è lasciato guidare unicamente dalle sue mozioni.
Sempre e ininterrottamente.
Il suo cibo è compiere la volontà del Padre (4,34).
E più chiaramente: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato…
che io non perda nessuno di quanti mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno» (6,39-40).
              Gesù non si è messo in testa un suo ideale messianico; non ha assecondato le voci della carne e del sangue (Gl 1,16), meno ancora le istigazioni sataniche (Mt 4,1-12) bensì le proposte dello Spirito di Dio, lo stesso che ha parlato a Mosè e ai profeti, solo che allora il suo discorso era incompleto o carente, ora è senza veli e riserve.
Il Dio che si è rivelato ad Abramo, Isacco e Giacobbe è in realtà il padre di tutti gli uomini e rivolge a tutti non solo ad alcuni le sue premure (10,16).
              Gesù ha capito che Dio è un padre prima che un Signore; non mira alla realizzazione del regno d’Israele, ma del regno dei cieli sulla terra, cioè a una convivenza tra gli uomini che assomigli a quella che vige nel mondo in cui egli vive.
              La risurrezione di cui Gesù segnala l’avvento (6,39-40) o la vita eterna non è che il passaggio nella famiglia dei figli di Dio, che non conosce circoscrizioni di tempo o di spazio, ma comincia subito con il germogliare della fede (5,19-30).
              Il discepolo di Gesù non si misura da quello che egli sa dire su di lui, ma da quello che sa compiere sul suo esempio (13,15).
Mosè ha dato dieci comandamenti; Gesù uno solo che è quello di amarsi di uni gli altri (14,15; 15,12).
              Gesù ricapitola in un termine convenzionale il gruppo dei suoi seguaci, gregge, e i suoi discepoli nel termine pecore, un animale noto per la sua mansuetudine.
Per questo designa se stesso con l’appellativo di pastore (10,11-16).
Il vero pastore ama il suo gregge, ma occorre che questi risponda alla sua attenzione.
Come ci sono buoni e cattivi pastori ci sono pecore docili e pecore ribelli.
I giudei che arbitrariamente ostacolano l’opera di Gesù sono di quest’ultima categoria.
«Non siete mie pecore», dichiara Gesù (v.
26).
Essi non credono in lui perciò non fanno parte del suo gregge.
Non tendono l’orecchio a quello che egli dice in

III Domenica dopo Pasqua Anno C

III DOMENICA DI PASQUA   Lectio Anno c     Prima lettura: Atti 5,27-32.40-41          In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo».
Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini.
Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce.
Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati.
E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono».
Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù.
Quindi li rimisero in libertà.
Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.
    v Questo compito di pascere gli agnelli, ossia di dare come cibo al popolo la dottrina predicata da Cristo, viene contestato espressamente a Pietro e agli apostoli dalle autorità di Gerusalemme.
Un primo incidente si era già verificato in precedenza, quando Pietro e Giovanni guarirono lo storpio che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del Tempio (At 3).
In quell’occasione, mentre Pietro teneva un discorso, sopraggiunsero i sacerdoti e il comandante delle guardie del Tempio per arrestare i due apostoli, che avevano suscitato la fede in circa cinquemila uomini (At 4,1-4).
Pietro non esitò a parlare con franchezza di Gesù davanti alle autorità, ricevendo soltanto il solenne ammonimento di non evangelizzare più (4,13-17).
Pietro e Giovanni, però, altrettanto decisamente risposero: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi piuttosto che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (4,19-20).
     Tenendo presente quest’antefatto, divengono più chiare le parole di rimprovero che il sommo sacerdote rivolge agli apostoli.
Ma costoro riprendono l’argomento della volta precedente: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (5,29).
Senz’altro viene da porsi quest’interrogativo: come mai un gruppo di persone sprovvedute, o almeno così giudicate, ha tale franchezza nel parlare ai capi del popolo, toccando il tasto ancora dolente della morte di Gesù? Da dove nasce questo coraggio di «obiettare»? L’unica risposta accettabile e che non necessita di molti commenti proviene dalle loro stesse parole: «E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono» 5,32).
Lo Spirito quindi è l’anima di queste persone, a cui un giorno il Maestro disse: «Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc12,11-12).
E nemmeno la fustigazione li fece recedere, piuttosto considerarono un onore e perfetta letizia l’essere stati percossi a causa di Gesù Cristo e del suo Vangelo (cf.
Mt 5,10-11 e Gc 1,2-4).
  Seconda lettura: Apocalisse 5,11-14          Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani.
Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione».
Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli».
E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen».
E gli anziani si prostrarono in adorazione.
    v  L’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto ha dominato sempre l’attività degli apostoli.
Essi però aggiungono che «Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati» (At 5,31 ).
Quest’innalzamento nella gloria il libro dell’Apocalisse ce lo descrive con il suo tipico linguaggio simbolico.
Gesù è chiamato Agnello, e come tale entra in scena al v.
6 del capitolo 5.
Egli è al contempo «ritto», per indicare che è risorto e possiede tutta la forza che gli deriva dalla risurrezione, e «come immolato» (anche se sarebbe meglio tradurre «come ammazzato»), per sottolineare che egli ha pure tutte le virtualità che provengono dalla sua passione e morte.
In virtù di tutto ciò, l’Agnello è in grado di «prendere il libro e di aprirne i sigilli» (5,9), ossia di saper leggere il piano di Dio.
     Il veggente assiste a uno spettacolo straordinario: un numero infinito di angeli, insieme agli esseri viventi e ai vegliardi, che lodano l’Agnello, di cui si ricorda ancora una volta la sua passione e morte violenta, ma in più si dice che è degno di ricevere una serie di prerogative e riconoscimenti.
L’aggettivo «degno» non deve trarre in inganno: esso non si riferisce a valori morali, bensì alla capacità, da lui detenuta, di ricevere da Dio la potenza di agire, la ricchezza delle risorse divine, la sapienza nel condurre la storia e la forza di vincere il male, e dagli uomini l’onore, cioè la riconoscenza della sua azione di salvezza, insieme alla gloria e alla benedizione nella preghiera e nella liturgia.
     Ciò in effetti avviene al v.
13, quando ogni essere creato nei cieli (gli angeli), sulla terra (gli uomini), sotto terra (i morti) e sul mare (coloro che, uomini o angeli, hanno dimostrato di saper vincere il male, di cui il mare sarebbe la sede) elevano l’inno di lode a Dio, il grande dominatore della storia e della natura, che perciò siede sul trono, e all’Agnello, che ha concretamente realizzato le condizioni di questo dominio divino.
Le creature, quindi, consapevoli che Dio e Cristo-Agnello hanno donato loro tutto quello di cui bisognavano per vincere il male, a modo loro nella lode colma di gratitudine tentano di restituire ciò che hanno ricevuto.
  Vangelo: Giovanni 21,1-19          In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade.
E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli.
Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare».
Gli dissero: «Veniamo anche noi con te».
Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù.
Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?».
Gli risposero: «No».
Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete».
La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci.
Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!».
Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare.
Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane.
Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora».
Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci.
E benché fossero tanti, la rete non si squarciò.
Gesù disse loro: «Venite a mangiare».
E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore.
Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce.
Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?».
Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene».
Gli disse: «Pasci i miei agnelli».
Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?».
Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene».
Gli disse: «Pascola le mie pecore».
Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?».
Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene».
Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore.
In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi».
Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio.
E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
                        Esegesi      Il primo versetto della pericope evangelica inquadra bene il taglio da conferire alla sua lettura: «Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade.
E si manifestò così».
Il verbo «manifestare» (in greco faneroo), poi, ricorre successivamente al v.
14, quasi a conclusione della prima parte di quest’ultimo incontro tra Gesù e i suoi discepoli: «Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti».
In realtà, questo termine non è nuovo nel Vangelo di Giovanni, viene usato in 1,31 quando Giovanni Battista spiega che l’obiettivo della propria missione è «far conoscere» il Cristo; in 2,11 viene detto che Gesù «manifestò» la sua gloria nel segno compiuto a Cana; in 3,21 Gesù conclude il dialogo con Nicodemo affermando che chi compie la verità cammina verso la luce, allo scopo di «far apparire» che le sue opere sono fatte in Dio; in 7,4 viene tentato a «manifestarsi», cioè a compiere qualche segno grandioso; in 9,3 giustifica la cecità del cieco nato con l’opportunità di «manifestare» le opere di Dio; in 17,6 Gesù riassume la sua missione dicendo che «ha manifestato» il nome del Padre all’umanità.
Questa volta, invece, Gesù non deve manifestare altro che se stesso in quanto risorto.
     Il verbo «manifestare» svolge una funzione importante nel capitolo 21: essendo presente nei vv.
1 e 14, esso ne delimita la prima parte, tutta dedicata al riconoscimento del Maestro, mentre i vv.
15-19 e 20-23 sono occupati da due dialoghi tra Gesù e Pietro, di cui la pericope proposta nella liturgia ci riporta solo il primo.
Fatte queste premesse, siamo pronti ad addentrarci nel brano.
     Per l’evangelista Giovanni questa fu la terza e ultima apparizione di Gesù ai suoi discepoli (cf.
21,14), senza appunto contare quella a Maria Maddalena nel mattino stesso di Pasqua (20,11-18).
Quanto tempo dopo l’apparizione a Tommaso (20,26-29) Gesù si sia nuovamente manifestato ai discepoli, il Vangelo non lo dice.
Conosciamo però il luogo dell’avvenimento: non più Gerusalemme, teatro della passione, morte e risurrezione del Maestro, bensì «sul mare di Tiberiade» (21,1), zona dalla quale provenivano molti dei discepoli.
I testimoni dell’accaduto, elencati al v.
2, sono sette dei Dodici discepoli, ma soltanto di cinque ci viene riferito il nome, ossia Simon Pietro, Tommaso, Natanaele e i due figli di Zebedeo.
Possiamo però supporre che gli altri due siano il discepolo che Gesù amava, espressamente richiamato nel v.
7, e Andrea, fratello di Pietro.
La narrazione evangelica esordisce mettendoci al corrente della decisione di Pietro, a cui si accodano anche gli altri.
Ma l’iniziativa si conclude in verità con un radicale fallimento: «Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare».
Gli dissero: «Veniamo anche noi con te».
Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla » (v.
3).
     A questo punto entra in scena Gesù: quando era già l’alba, egli si presentò sulla riva.
Benché gli apostoli si trovassero a poco più di novanta metri dalla riva (il testo greco parla di duecento cubiti, v.
8), non riconobbero che quella persona dalla terraferma era il Signore se non quando, ordinando di gettare le reti dalla parte destra della barca, si verificò il segno della «pesca miracolosa» e, quindi, il discepolo prediletto pronunciò la frase che forse tutti avevano in mente ma nessuno aveva il coraggio di pronunciare: «È il Signore!» (v.
7).
La reazione di Pietro è immediata: si vestì, si gettò in acqua e guadagnò la riva, mentre gli altri la raggiunsero con la barca.
I discepoli trovarono che era già stata preparata per loro una «colazione», a cui Gesù chiese di aggiungere del pesce appena preso.
Ciò offre al narratore di volgere l’attenzione sulla rete che, tratta da Simon Pietro, non si ruppe, benché contenesse una gran quantità di pesci, ben centocinquantatre.
     Non ci soffermiamo sul tema del riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli, che è tipico di tutti i racconti pasquali e certamente già analizzato.
Prestiamo invece attenzione alla figura di Pietro, il cui ruolo era stato in un certo qual senso definito quando Gesù lo incontrò: «Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: ‘Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)’» (1,42; cf.
Mt 16,17-19).
Prima di chiudere del tutto la sua vicenda terrena, Gesù vuole finalmente chiarire il suo progetto, che potremmo sintetizzare intorno a tre principi.
In primo luogo, non esiste alcuno che possa realizzare qualcosa prescindendo da Lui, nemmeno Pietro.
Lo dimostra la pesca infruttuosa intrapresa da questi e dagli altri: ci sembra sentire risuonare le parole di Lc 5,5: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla».
In secondo luogo, è Pietro che si sobbarca la fatica di trarre a riva la rete piena di pesci, ossia è a lui in prima istanza che è data la responsabilità di essere «pescatore di uomini» (cf.
Lc 5,10).
Infine, la rete che non si rompe sottolinea il fatto che, autenticamente fondata sulla parola di Gesù e guidata da Pietro, la chiesa non si divide (il testo greco usa il verbo schízo, quasi a voler escludere «scismi»).
     Il dialogo dei vv.
15-19 esplicita la simbologia del racconto della manifestazione.
Gesù chiede a Pietro per ben tre volte se lo ama, perché è sulla base di quest’amore totale e incondizionato che diventa concreta e fruttuosa l’esecuzione della missione.
La missione viene esplicitata con il comando di pascere, come al v.
11 era stata indicata con il verbo «trarre».
Ma le pecore e gli agnelli da pascere non appartengono a Pietro, bensì a Gesù, che ha offerto la propria vita per loro, al fine di riunirle e di proteggerle da chi vuole disperderle (cf.
Gv 10,11-18).
Ma pure a Pietro viene chiesto di offrire la vita per il gregge che Gesù gli ha affidato (vv.
18-19), perciò acquisisce un senso più chiaro quell’invito a seguirlo nel peso di pascere il gregge e di morire per esso.
  Meditazione      Dopo averci fatto ascoltare il racconto della venuta del Risorto nel cenacolo, la liturgia di questa terza domenica di Pasqua ci conduce presso il lago di Tiberiade per assistere alla terza e ultima manifestazione di Gesù narrataci da san Giovanni.
È un manifestarsi di nuovo, come l’evangelista precisa al v.
1: «Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo».
Dopo questi fatti, dopo tutto ciò che il Quarto Vangelo e i Sinottici ci hanno raccontato della vicenda storica e pasquale di Gesù, il Signore torna a manifestarsi nella ferialità della vita, laddove i discepoli sembrano tornare alle occupazioni di sempre.
Con ogni probabilità il vangelo di Giovanni, nella sua prima redazione, si concludeva al capitolo 20; il capitolo 21 costituisce dunque un’aggiunta successiva da parte della comunità.
Al di là di questi problemi storico-letterari, noi lettori ci troviamo di fronte a questo fatto sorprendente: nel momento in cui il vangelo si chiude, torna ad aprirsi.
Il Signore si manifesta nuovamente nel tempo della Chiesa, anche dopo ‘quei fatti’ che appartengono alla memoria storica dei primi discepoli.
Giovanni parla qui di manifestazione, un termine che non usa mai nei racconti di risurrezione del capitolo precedente.
Quasi a suggerirci che si tratta di un manifestarsi diverso rispetto agli incontri vissuti con il Risorto dai suoi discepoli storici.
Nello stesso tempo precisa che si tratta della «terza manifestazione», ricollegandola così alle apparizioni precedenti.
È un manifestarsi del Risorto diverso, ma in continuità con gli incontri vissuti dai discepoli della prima ora.
Il primo invito con cui questa pagina ci interpella è allora a vigilare per riconoscere questa manifestazione sempre nuova del Signore nella nostra vita e nella vita delle nostre comunità.
     Siamo già nella luce piena del tempo pasquale, eppure il racconto giovanneo ci conduce ancora nella notte, che non è solo la notte dell’infecondità di una pesca vana, ma anche la notte dell’assenza del Signore.
Inoltre la barca, nell’insieme della tradizione evangelica, sembra essere luogo di prova e di purificazione della fede.
Il Vangelo di Giovanni ci parla solo in un altro passo del lago di Tiberiade e di questa barca su cui i discepoli sono soli, senza il Signore; lo fa al capitolo sesto, dopo il segno dei pani, quando la barca si trova esposta al pericolo del mare agitato e del forte vento.
La barca è dunque anche luogo di paura, di timore, di fronte al mare che simboleggia ogni forma con cui il male minaccia la vita degli uomini e la fede dei discepoli.
La barca è il luogo in cui una piccola fede, una fede che è sempre ‘poca’, per dirla con Matteo, è chiamata a divenire una fede matura attraverso il fuoco purificatore della prova.
Certo, nella tradizione la barca è anche un simbolo ecclesiale, ma la Chiesa non è appunto questo: una comunità in cui la piccola fede è chiamata a divenire una grande fede; in cui il non-sapere che era Gesù può divenire la conoscenza piena di chi grida «È il Signore!», in cui l’infecondità di una rete vuota si trasforma in una rete traboccante di centocinquantatre grossi pesci? Ma a quali condizioni è possibile vivere nella Chiesa questo passaggio che è sempre un passaggio pasquale? Il capitolo 21 non ci parla solo dell’incontro con il Risorto, ma anche del cammino di conversione e di purificazione della fede che occorre vivere per giungervi.
     Tra i molti spunti che il testo offrirebbe, ne cogliamo solamente uno.
Il capitolo si apre con la decisione di Pietro: «io vado a pescare».
Se in queste parole c’è l’aspetto positivo di una responsabilità vissuta in prima persona, capace di suscitare la collaborazione e l’operosità di altri – «Veniamo anche noi con te» (v.
3) – in esse si nasconde comunque la tentazione di un’impresa autonoma e autoreferenziale, vissuta nell’assenza del Signore.
Non perché lui non ci sia, ma perché non lo si riconosce presente, e soprattutto perché non si ha abbastanza cura nel porre in relazione il nostro operare con la sua Parola, i criteri del nostro agire con i suoi criteri.
È la tentazione di un agire autoreferenziale e autonomo che, per quanto vissuto in nome del Signore, rischia di rendere marginale o non incidente la sua presenza.
Quando e laddove il Signore si rende presente con la sua parola, egli esige e rende possibile la nostra conversione.
Infatti, in quella notte in cui il Signore rimane assente e c’è soltanto la propria autonoma decisione, i discepoli «non presero nulla».
Giovanni usa il verbo piàzo, che significa più precisamente ‘arrestare’.
È il medesimo verbo che l’evangelista utilizza più volte nel suo racconto per descrivere il tentativo vano da parte delle autorità giudaiche di arrestare Gesù, perché non era ancora giunta la sua ‘ora’.
È vano il tentativo di arrestare Gesù, solo lui può liberamente consegnare se stesso in un amore più forte e radicale dell’odio di chi tenta di catturarlo.
Come non si arresta Gesù, così è vano ogni tentativo di vivere il proprio ministero di pescatore di uomini nella modalità di un potere, in qualsiasi forma esso venga esercitato, che tenta o pretende di arrestare, di catturare, di bloccare, di trattenere.
Occorre entrare in una logica diversa, che è appunto la logica pasquale di chi non si lascia arrestare, e neppure ‘cattura’ gli altri, ma si consegna nell’amore.
     Al v.
6 l’evangelista annota che, dopo il segno della pesca miracolosa, i discepoli non potevano più tirare la rete per la gran quantità di pesci.
Sono sette e non riescono.
Al v.
11 narra invece che «Simon Pietro salì sulla barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci.
E benché fossero tanti la rete non si spezzò».
Pietro, riesce a fare ora, da solo, quello che prima, in sette, non erano riusciti a fare.
Perché ora può? Il racconto risponde a questo interrogativo in modo simbolico: ora può, perché si è gettato in mare.
Il mare nella Bibbia è metafora di male, sofferenza, pericolo, morte…
In questo mare Pietro si getta, con un gesto che ha un marcato valore battesimale: immergersi nelle acque significa immergersi nella morte del Signore per divenire partecipi della sua risurrezione.
Ed è pro-prio il gettarsi nelle acque per essere pienamente partecipe del mistero pasquale, che consente a Pietro di divenire davvero, in modo autentico, quel pescatore di uomini a cui già nel suo primo incontro il Signore Gesù lo aveva chiamato.
Il simbolismo battesimale è rafforzato anche dal verbo ‘salire’ del v.
11, che però nel testo originario rimane senza complemento di luogo.
Il traduttore aggiunge «salì sulla barca», ma in greco non è detto; Pietro semplicemente risale dalle acque, ed è ancora un modo per alludere al battesimo che ci immerge nelle acque per renderci partecipi della morte di Gesù, e poi da esse ci fa risali- re, rendendoci partecipi della sua risurrezione.
Solamente questa conformazione battesimale alla Pasqua di Gesù può consentire a Pietro non solo di vedere la sua rete riempirsi, ma di trarre i pesci fuori dal mare, dalle acque impetuose, per condurli alla terra ferma dell’incontro con il Signore Risorto.
Per descrivere Pietro che trae la rete dal mare, Giovanni usa lo stesso verbo greco (hélko) con cui Gesù afferma solennemente al capitolo 12: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).
È attraverso la sua Pasqua che Gesù ci attira a sé, ed è attraverso la sua conformazione battesimale al mistero pasquale che anche Pietro può attrarre a Gesù tutti coloro che la sua rete trova e custodisce.
Si possono liberare gli uomini dalle acque della morte solo accettando di immergersi in esse, di attraversare personalmente l’esperienza della compassione, condividendo il destino del proprio Maestro e Signore nelle sofferenze stesse dei suoi fratelli, dei quali bisogna prendersi cura.
  Preghiere e Racconti «Simone mi ami tu?» …
Il gallo cantò per la terza volta.
Gesù uscì dalla sala……
e Simon Pietro, seguendo il rumore, guarda dalla sua parte.
Lo vede e « pianse amaramente ».
Lo stesso Pietro che da quel momento è diventato vergognoso e intimidito, perennemente intimidito, anche se non riusciva a trattenere i suoi slanci abituali, li compiva, poi si fermava bloccato dalla vergogna, dalla vergogna del ricordo…
  …era là in disparte quella mattina sulla riva…
erano là tutti intorno quel mattino, in silenzio timoroso, intimiditi così che nessuno domandava qualche cosa perché tutti sapevano che era il Maestro.
Nella frescura di quell’ora mattutina coi pesci – quei pesci che si agitavano ancora alle loro spalle – dopo una notte arida di frutto erano là a mangiare il pesce…
  …il pesce preparato da Lui che aveva pensato anche al loro mangiare perché sarebbero tornati stanchi.
Il Signore si era steso vicino, era lì vicino, a mangiare con loro.

II Domenica di Pasqua Anno C

II DOMENICA DI PASQUA   Lectio Anno c     Prima lettura: Apostoli 5,12-16          Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli.
Tutti erano soliti stare insieme nel portico  di Salomone;  nessuno degli altri osava associarsi a  loro,  ma il popolo li esaltava.
Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro.
Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.
    v È uno dei cosiddetti «sommari» degli Atti: quadretti che dipingono la comunità cristiana primitiva.
È una comunità che evidentemente ha fatto esperienza della risurrezione di Cristo e lo manifesta nella concordia: tutti erano soliti stare insieme (v.
12).
Una unità tra cristiani sostenuta dalla preghiera e dalla frazione del pane (2,42-46).
La fede cristiana si manifesta nella carità e nella comunione gioiosa.
L’attività taumaturgica di Gesù continua ora nella chiesa per mezzo degli apostoli (v.
12).
Tra gli apostoli un posto particolare ha la figura di Pietro.
In lui continuava in modo singolare ad essere presente la potenza di Cristo: almeno la sua ombra (v.
15) guariva.
La gente si rendeva conto di una speciale presenza divina negli apostoli e li stimava, ma, forse per un sacro timore, nessuno degli altri osava associarsi a  loro (v.
13).
     La presenza dello Spirito del Risorto si manifestava nella serie di prodigi, che aiutavano gli umili ad accogliere la predicazione apostolica (vv.
15-16).
Nella comunità cristiana primitiva, sotto la direzione di Pietro, sono presenti così i segni che chiamano alla fede: le guarigioni miracolose, prolungamento del mistero storico di Gesù, ma soprattutto il segno dell’unità dei fratelli nella fede del Cristo risorto.
      Seconda lettura:  Apocalisse 1,9-11.12-13.17-19          Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù.
Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese».
Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro.
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto.
Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente.
Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi.
Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».
    v Il brano riporta la visione di Cristo glorioso avuta da Giovanni nel giorno del Signore (v.
10), la domenica, il giorno in cui la comunità cristiana si riunisce per l’ascolto della parola e per celebrare la risurrezione.
Giovanni si sente fratello e compartecipe della comunità che sta in ascolto.
Anche lui come le piccole comunità cristiane soffre la persecuzione per amore di Gesù Cristo: si trova a Patmos, una isola delle Sporadi a 75 Km a sud-ovest di Efeso.
Egli riceve l’incarico di scrivere un libro per le sette chiese (v.
11).
Il numero sette è simbolico: indica la totalità.
     Sta parlando quindi alla chiesa universale, che poi è presente nella chiesa locale, in modo particolare nell’assemblea liturgica.
L’Apocalisse è un libro diretto a una comunità liturgica che lo interpreta.
Richiamandosi a immagini presenti in Daniele e Ezechiele, Giovanni presenta Cristo come uno simile a un Figlio d’uomo, con le insegne del giudice escatologico.
L’abito lungo fino ai piedi è simbolo della sua dignità sacerdotale, mentre la fascia d’oro esprime la sua regalità.
La voce potente indica una rivelazione chiara senza ombra di dubbio.
Gesù Cristo è in mezzo ai sette candelabri: egli è presente attivamente nella sua chiesa.
Egli è alla destra di Dio, ma vive nella comunità cristiana.
Giovanni e la sua comunità non devono temere, perché egli è il Primo e l’Ultimo, e il Vivente.
Egli ha vinto definitivamente la morte e chi si appoggia a lui ha la vita.
Nel libro che si leggerà nella comunità in ascolto si troveranno poi le cose viste, nella presente visione, quelle presenti, cioè le lettere alle sette chiese; quelle che devono accadere, le visioni sul futuro escatologico della chiesa (vv.
17-19).
  Vangelo: Giovanni 20,19-31         La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».
Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco.
E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».
Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo.
A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
     Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.
Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!».
Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso.
Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!».
Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!».
Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro.
Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
              Esegesi      Dopo l’apparizione a Maria Maddalena, avvenuta all’aperto, in un giardino, Gesù appare ai suoi discepoli, chiusi per paura in una stanza.
Essi ricevono lo Spirito Santo per poter annunciare la sua parola e perdonare i peccati agli uomini.
La fede crescerà dall’ascolto della parola all’interno della comunità.
Con questo brano Giovanni vuole sottolineare l’importanza della testimonianza per la fede pasquale.
     1) Incontro con i discepoli (20,19-23) Avviene il primo giorno della settimana, nel giorno di Pasqua.
Gesù torna ma non nel suo stato precedente: entra a porte chiuse.
Si pone al centro della comunità cristiana: stette in mezzo loro (v.
1), come unico punto di riferimento.
I discepoli lo possono vedere e riconoscere con lo sguardo della fede.
Le conseguenze della nuova luce sono la «gioia» e la «pace», i doni messianici.
Gesù dà loro l’incarico missionario: devono continuare la missione a lui affidata dal Padre: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (v.
21).
Ma solo uomini nuovi sono capaci di questo compito.
Gesù dona loro lo Spirito Santo: soffiò su di loro (v.
20) come soffiò all’inizio la vita nuova al primo uomo.
Il dono dello Spirito era stato anticipato simbolicamente dall’acqua e dal sangue usciti dal costato di Cristo (19,34).
La missione degli apostoli avrà come obiettivo la remissione dei peccati (v.
23).
Il potere viene dato al gruppo dei dodici, nominati nel versetto seguente (v.
24).
Viene esercitato certamente nel sacramento della penitenza secondo il concilio di Trento per i peccati commessi dopo il battesimo.
Non si esclude il perdono dei peccati mediante il sacramento del battesimo e la proclamazione dei vangelo.
     2) Apparizione presente Tommaso (Gv 20,24-29) I dubbi di Tommaso esprimono l’esperienza del gruppo, dell’intera comunità apostolica, e la personale esperienza di Giovanni: «Colui…
che abbiamo visto con i nostri occhi…
contemplato…
e toccato con le nostre mani» (1Gv 1,1-2).
Anche questo incontro avviene nel primo giorno della settimana, giorno del Signore (Ap 1,10).
In esso la comunità proclama con i discepoli: Abbiamo visto il Signore! (v.
25).
Ma Tommaso non condivide la fede della comunità.
Gesù si rende visibile per lui e lo convince di non essere un fantasma: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani» (v.
25).
Bastò sentire le parole di Gesù, per credere, come per Maria bastò sentirsi chiamare per nome da lui.
Tommaso fa la più bella confessione di fede del quarto Vangelo.
L’esperienza della risurrezione era indispensabile per la Chiesa.
I futuri discepoli di Gesù avrebbero dovuto credere senza vedere, ma accettando la testimonianza degli apostoli, che invece hanno visto.
Anch’essi però saranno beati.
Sperimenteranno la gioia dell’incontro con il Cristo risorto.
     3) Conclusione (Gv 20,30-31) Segni non sono solo i miracoli, ma tutto quello che Gesù ha fatto e insegnato.
Chi vuole conoscere altri segni si legga i vangeli sinottici.
Tutti i segni dicono che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio (v.
31).
I lettori vengono invitati ad accogliere la testimonianza degli apostoli senza esigere di toccare con mano per credere.
Ora per i cristiani la testimonianza apostolica è scritta, contenuta nel vangelo, ma è una testimonianza di qualcuno che ha visto.
  Meditazione      In ciascuno dei tre anni del ciclo liturgico, nella seconda domenica di Pasqua viene proclamato il racconto giovanneo della duplice manifestazione del Risorto nel cenacolo: la prima, nella sera stessa della resurrezione, mentre Tommaso è assente; la seconda, otto giorni dopo, questa volta con Tommaso presente.
È evidente la motivazione che sostiene questa scelta liturgica: siamo nell’ottavo giorno dalla domenica di Pasqua e ascoltiamo il racconto di quanto è avvenuto nella comunità apostolica a distanza di otto giorni.
Vale tuttavia anche la considerazione inversa: non solo il tempo liturgico determina la scelta del testo evangelico, ma lo stesso racconto di Giovanni, nella sua scansione cronologica, è probabilmente determinato dalla scansione liturgica: il Risorto si rende presente nella comunità dei discepoli storici ‘otto giorni dopo’, così come la comunità dei discepoli di ogni generazione successiva si raduna ogni otto giorni per celebrare l’eucaristia nella memoria della Pasqua, e riconoscere in questo modo, nei segni sacramentali del pane e del vino e del suo stesso riunirsi, la presenza del Signore che fedelmente accompagna il cammino della Chiesa.
La stessa figura di Tommaso, con il suo non esserci dapprima e il suo esserci dopo, mette ancora più in risalto questa fedeltà del Signore alla sua comunità.
I discepoli possono essere presenti o assenti, la comunità può essere anche segnata dalle ferite di una mancanza; il Signore viene comunque e sta in mezzo ai suoi, donando la sua pace e il suo Spirito.
Anche colui che inizialmente non c’era, e sembra chiudersi in un atteggiamento di incredulità, non rimane escluso dal desiderio che spinge il Risorto a riallacciare vincoli di comunione con i suoi, capaci di vincere non solo la separazione della morte, ma anche l’incredulità, o comunque la fatica del credere.
     Se il racconto del Vangelo di Giovanni ogni anno caratterizza questa seconda domenica di Pasqua, le altre due letture variano sempre.
Nell’anno C ascoltiamo come seconda lettura un testo tratto dal primo capitolo dell’Apocalisse, che narra l’ultima manifestazione del Risorto consegnataci dal Nuovo Testamento, almeno nell’ordine canonico dei suoi libri.
Il tempo, come accade nel Quarto Vangelo, è ancora liturgico.
Infatti, il v.
10 ci ricorda che tutto quello che accade si colloca in un giorno preciso: «fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore».
Questo è peraltro l’unico passo del Nuovo Testamento in cui questo giorno riceve già il suo nome cristiano: è il giorno del Signore, in dominica die nel latino della Vulgata, da cui il nostro termine ‘domenica’.
Anche in questo caso, dunque, l’autore insiste nel ricordarci che l’incontro con il Risorto avviene di domenica, quando la comunità è convocata dalla memoria della Pasqua e la celebra facendo eucaristia.
Il testo non si premura soltanto di precisare il tempo, ma anche il luogo in cui avviene l’incontro: l’isola di Patmos, che non è solo un luogo geografico, ma luogo simbolico dell’esilio, dove Giovanni si trova «a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù» (v.
9).
È necessario considerare insieme queste due coordinate dell’esperienza: il luogo è quello della tribolazione, della prova nella fede, della persecuzione, ma già illuminato dal giorno del Signore, cioè dalla sua Pasqua.
     In questo luogo e in questo giorno Giovanni ha una visione: «fui preso dallo Spirito», racconta al v.
10.
Tutto ciò che vede e scrive è dono dello Spirito, che diventa l’ambito in cui si muove e il respiro stesso della sua vita.
Essere nello Spirito significa per Giovanni rileggere la propria esperienza, quella della sua comunità, nonché la storia più ampia del mondo, collocandosi dal punto di vista di Dio, secondo i suoi criteri e la sua logica, che rimane una logica pasquale.
L’espressione – ‘rapito dallo Spirito’ – non vuole perciò indicare un’esperienza straordinaria che l’autore vive e che solo pochi altri possono sperimentare con lui.
Allude al contrario a qualcosa di più ordinario, cui anche la nostra vita deve sentirsi chiamata: leggere la storia, ma nello Spirito di Dio, dunque con i suoi criteri di giudizio e di discernimento.
Nello Spirito lo sguardo di Dio viene ad abitare e a trasformare il nostro stesso sguardo.
Ci sono donati occhi nuovi, occhi ‘spirituali’, per giudicare il mondo così come lo giudica Dio stesso.
Quella di Giovanni dovrebbe diventare l’esperienza che a nostra volta viviamo nel giorno del Signore: ogni volta che di domenica ci raduniamo per ascoltare la parola di Dio e condividere insieme il pane, la nostra vita dovrebbe aprirsi al dono dello Spirito e acquisire un modo diverso di stare nelle situazioni della storia personale e collettiva.
     C’è di conseguenza anche una conversione da vivere, che il racconto evidenzia con un linguaggio simbolico.
«Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro» (vv.
12-13).
Il verbo ‘voltarsi’ ricorre due volte, con enfasi.
La visione sembra attraversare due distinte tappe: c’è una prima tappa, in cui Giovanni ode una voce che lo raggiunge da dietro; poi si volta e inizia una seconda tappa nella sua esperienza di Dio.
Con questo linguaggio allusivo l’autore intende probabilmente evocare le due tappe della rivelazione di Dio: la prima, attraverso i profeti e le scritture del Primo Testamento, in cui si ascoltava Dio, ma ancora come ‘di spalle’; la seconda, quella definitiva, attraverso Gesù Cristo, che compie quanto era stato annunciato e preparato, e in cui possiamo udire Dio faccia a faccia.
Il compimento della rivelazione tuttavia non avviene senza coinvolgere la libera risposta dell’uomo.
Giovanni deve ‘voltarsi’ per avere la piena visione del Figlio dell’uomo; il verbo greco qui usato (epistréphein) è tipico per indicare la ‘conversione’ (et conversus sum, traduce la Vulgata).
Soltanto dopo che si sarà voltato, e dunque convertito, solo dopo che avrà visto Gesù Cristo faccia a faccia, il senso delle Scritture diventerà chiaro per Giovanni.
Conferma questa lettura l’uso di due verbi diversi per narrare il ‘vedere’ del profeta: nella visione ‘di spalle’ in greco ricorre blépo, che esprime la semplice percezione fisica (vv.
11.12); nella visione ‘di fronte’ c’è invece horáo, che esprime il vedere più profondo della fede (vv.
12.17).
In questi versetti, dunque, l’Apocalisse descrive un duplice e corrispondente progresso: alla crescita oggettiva della rivelazione di Dio risponde la maturazione soggettiva e spirituale del credente, che può giungere a una comprensione piena delle Scritture, e del significato della storia che esse illuminano, a condizione di ‘voltarsi’, dunque convertirsi al Signore Gesù, che è l’oggetto fondamentale del suo vedere nella fede.
     È l’itinerario che anche Tommaso deve percorrere per passare dall’incredulità alla fede.
La sua sarà una conversione piena, poiché la più alta professione di fede riportata dal vangelo di Giovanni l’ascoltiamo proprio dalle sue labbra: «Mio Signore e mio Dio!» (v.
28).
Ed è anche esemplare il cammino che lo conduce alla fede: deve fissare lo sguardo sulle mani del Risorto trapassate dai chiodi, sul suo fianco aperto.
Tommaso accoglie l’invito che l’evangelista rivolge a ogni lettore del suo racconto, quando concludendo la narrazione della morte di Gesù cita la Scrittura: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto (cfr.
19,37), testo che peraltro risuona anche nell’Apocalisse, pochi versetti prima di quelli che ascoltiamo in questa liturgia: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto» (Ap 1,7).
Voltarsi verso Gesù per comprendere il suo mistero e la rivelazione che egli ci dona del Padre significa fare come Tommaso: voltare lo sguardo per contemplare i segni dell’amore crocifisso, che nell’acqua e nel sangue si effonde su di noi.
Si è ‘presi dallo Spirito’, come accade al veggente dell’Apocalisse, quando comprendiamo che la rivelazione insuperabile di Dio, la sua parola definitiva, sgorgano proprio da quel costato trafitto, segno della vita di Dio che ci viene donata fino al compimento (cfr.
Gv 13,1) perché possiamo anche noi divenire partecipi della vita eterna.
Ogni paura è vinta: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente.
Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap 1,18-19).
  Preghiere e Racconti   Beati quelli che non hanno visto e credono     Gesù entra a porte chiuse.
Eppure alla sua resurrezione, la pietra del sepolcro è rotolata e la porta del sepolcro si è aperta.
[…] Ma qui egli entra e le porte sono chiuse, affinché quelli che dubitavano della resurrezione fossero presi da stupore al suo ingresso e da questo prodigio fossero condotti come per mano all’altro prodigio.
[…] Gli apostoli, nascosti in una casa, vedono il Cristo.
Egli entra a porte chiuse.
Ma Tommaso, che in quel momento era assente, rimane incredulo.
Desidera vedere Gesù con i suoi occhi e rifiuta i racconti degli altri di-scepoli.
Chiude le orecchie e vuole aprire gli occhi.
L’impazienza lo brucia, quando pronuncia queste parole: «Se non metto il mio dito nel segno dei chiodi e se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20,25).
Troppo esigente per credere, Tommaso sfoga la sua diffidenza, sperando così che il suo desiderio sia esaudito.
«I miei dubbi non spariranno se non quando lo vedrò, dice.
Metterò il mio dito nei segni dei chiodi e abbraccerò quel Signore che tanto desidero.
    Rimproveri la mia incredulità, ma colmi i miei occhi.
Incredulo, quando lo vedrò, crederò quando lo stringerò tra le mie braccia e lo contemplerò.
Voglio vedere le mani trafitte, che hanno guarito le mani che hanno trasgredito.
Voglio vedere quel costato che ha scacciato la morte dal suo fianco.
Voglio essere il testimone del Signore e non do peso alla testimonianza altrui.
I vostri racconti esasperano la mia impazienza.
La buona novella che mi portate non fa che ravvivare il mio turbamento.
Non guarirò di questo male se non tocco colui che le guarisce».
Ma il Signore appare di nuovo e dissipa contemporaneamente la tristezza e il dubbio del suo discepolo.
Che dico? Non dissipa il suo dubbio, colma la sua attesa.
Entra a porte chiuse e con questa visione incredibile conferma la non creduta resurrezione.
Trova un nuovo motivo di stupore per convincere Tommaso.
«Metti il tuo dito nel segno dei chiodi» (Gv 20,27), gli dice.
Tu mi cercavi quando non c’ero, approfittane ora.
Conosco il tuo desiderio nonostante il tuo silenzio.
Prima che tu me lo dica, so che cosa pensi.
Ti ho sentito parlare, e benché invisibile, ero accanto a te, accanto ai tuoi dubbi, e senza farmi vedere, ti ho fatto aspettare per meglio vedere la tua impazienza.
«Metti il tuo dito nei segni dei chiodi, metti la tua mano nel mio costato e non essere più incredulo, ma credente».
Allora Tommaso lo tocca, tutta la sua diffidenza si dissolve e colmo di una fede sincera e di tutto l’amore che si deve a Dio, esce in un grido: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).
E il Signore gli dice: «Perché hai veduto, hai creduto.
Beati quelli che non hanno visto e credono!» (Gv 20,29).
Tommaso, porta la buona notizia della mia resurrezione a quelli che non hanno veduto.
Conduci la terra intera alla fede non della visione, ma della parola.
Va’ tra i popoli e le città barbare e insegna loro a portare sulle spalle la croce invece delle armi.
Annunciami: crederanno e mi adoreranno.
Non esigeranno altre prove.
Di’ loro che sono chiamati per grazia e contempla la loro fede.
In verità: «Beati quelli che non mi hanno veduto e hanno creduto!».
(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia sulla santa Pasqua 2-4, PG 28,1084A-1085C).
   L’ho cercato, ma non l’ho trovano               “Così dice la sposa: “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato nel mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato.
Mi alzerò e farò il giro della citt

Cena del Signore anno C

Preghiere e Racconti Vi ho dato un esempio «Quando ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa, disse loro: Comprendete ciò che vi ho fatto?» (Gv 13,12).
È giunta l’ora di mantenere la promessa che aveva fatto al beato Pietro e che aveva differita quando a lui che si era spaventato e gli aveva detto: «Non mi laverai i piedi in eterno», il Signore aveva risposto: «Quello che io faccio, tu adesso non lo comprendi, lo comprenderai più tardi» (Gv 13,7).
[…] Ora, dunque, comincia a spiegare il significato del suo gesto, come aveva promesso dicendo: «Lo capirai più tardi».
[…] «Se dunque», dice, «io il Signore e il maestro vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda.
Vi ho dato infatti un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io» (Gv 13,14-15).
Questo, o beato Pietro, è ciò che tu non comprendevi, quando non volevi lasciarti lavare i piedi.
Egli ti promise che l’avresti compreso più tardi, quando il tuo Signore e Maestro ti spaventò affinché tu gli lasciassi lavare i tuoi piedi.
[…] Non disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo.
Poiché quando il corpo si piega fino ai piedi del fratello, anche nel cuore si accende, o se già c’era, si alimenta il sentimento di umiltà.
[…] «Vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io».
Dobbiamo forse dire che anche il fratello può purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede.
Ascoltiamo l’apostolo Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: «Confessatevi gli uni agli altri i peccati e pregate gli uni per gli altri» (Gc 5,16).
È questo l’esempio che ci ha dato il Signore.
Se colui che non ha, che ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci perdona i peccati colui che non ha niente da farsi perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione perdonare a vicenda i nostri peccati, noi che non riusciamo a vivere su questa terra senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto così significativo, quando dice: «Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io», se non quanto l’Apostolo dice in modo esplicito: «Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri; come il Signore ha perdonato a voi, fate anche voi» (Col 3,13).
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 58,24-25, NBA XXIV, pp.
1094.1098-1100)   Pane della condivisione Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.
Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo.
E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).
  Un giorno unico Felici coloro che mangiarono, un giorno, un giorno unico, un giorno tra tutti i giorni, felici di una gioia unica, felici coloro che mangiarono un giorno, un giorno, quel Giovedì Santo, felici coloro che mangiarono il pane del tuo corpo; te stesso consacrato da te stesso; con una consacrazione unica; un giorno che mai ricomincerà; quando tu stesso dicesti la prima messa; sul tuo stesso corpo; quando celebrasti la prima messa; quando consacrasti te stesso; quando di quel pane, davanti ai Dodici, e davanti al dodicesimo, facesti il tuo corpo; e quando di quel vino facesti il tuo sangue; quel giorno in cui fosti insieme la vittima e il sacrificatore, il medesimo la vittima e il sacrificatore, l’offerta e l’offerente, il pane e il panettiere, il vino e il coppiere; il pane e colui che dà il pane; il vino e colui che versa il vino; la carne e il sangue, il pane e il vino.
Quella volta che tu fosti il prete ed essi erano i fedeli, quella volta che tu fosti il prete che operava, che sacrificava per la prima volta.
Quella volta che tu fosti l’invenzione del prete, il primo prete a operare, a sacrificare per la prima volta.
Ed eri contemporaneamente il prete e la vittima.
Quella volta che facesti il primo sacrificio.
Che tu fosti il primo sacrificato, la prima ostia.
La prima vittima.
(Ch.
PÉGUY, I Misteri, Milano, Jaca Book, 1994, 53-54).
  Giovedì Santo Gesù depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui era cinto.
Disse: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,4-5.15).
Poco prima di avviarsi per la strada della sua passione, Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli e offrì loro il suo corpo e il suo sangue come cibo e bevanda.
Questi due gesti sono intimamente uniti.
Sono ambedue un’espressione della determinazione di Dio di mostrarci la pienezza del suo amore.
Per questo, Giovanni introduce il racconto della lavanda dei piedi con queste parole: «Gesù dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).
Ma c’è una cosa ancora più sorprendente: in ambedue le occasioni, Gesù ci comanda di fare lo stesso.
Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù dice: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi» (Gv 13,15).
Dopo aver offerto se stesso come cibo e come bevanda, egli afferma: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19).
Gesù ci chiama a continuare la sua missione di rivelare il perfetto amore di Dio in questo mondo.
Ci chiama a una totale autodonazione.                                                              Vuole che non ci teniamo niente per noi stessi.
Piuttosto, vuole che il nostro amore sia tanto pieno, tanto radicale, tanto completo quanto il suo.
Vuole che ci chiniamo a terra e ci tocchiamo a vicenda le parti che hanno più bisogno di essere lavate.
E vuole anche che ci diciamo gli uni gli altri: «Mangia di me, e bevi di me».
Con questo nutrirci a vicenda e in modo così completo, egli vuole che diventiamo un solo corpo e un solo spirito, uniti dall’amore di Dio.
(H.J.M.
NOUWEN, In cammino verso la luce).
  O Signore, dove mai potrei andare? Io volgo il mio sguardo a te, o Signore.
Tu hai pronunciato parole così piene di amore.
Il tuo cuore ha parlato così chiaro.
Adesso mi vuoi far vedere ancora più chiaramente quanto mi ami.
Sapendo che il Padre tuo ha messo tutto nelle tue mani, che sei venuto da Dio e ritorni a Dio, ti togli le vesti e, preso un asciugatoio, te lo cingi alla vita, versi dell’acqua in un catino e cominci a lavare i miei piedi, e poi li asciughi con l’asciugatoio di cui ti eri cinto…
Volgi il tuo sguardo su di me con la massima tenerezza, e mi dici: «Io voglio che tu stia con me.
Voglio che tu condivida in pieno la mia vita.
Voglio che tu mi appartenga come io appartengo al Padre.
Ti voglio lavare così da renderti completamente puro, in modo che tu e io possiamo essere una sola cosa e tu possa fare agli altri ciò che io ho fatto a te».
Ti sto di nuovo guardando, o Signore.
Tu ti alzi e mi inviti alla mensa.
Mentre mangiamo, prendi il pane, reciti la benedizione e lo dai a me.
«Prendi e mangia – dici – questo è il mio corpo dato per te».
Poi prendi una coppa e dopo aver reso grazie, me la porgi, dicendo: «Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza sparso per te».
Sapendo che è giunta la tua ora di passare da questo mondo al Padre tuo, e avendomi amato, adesso mi ami fino alla fine.
Mi dai tutto ciò che hai e tutto ciò che sei.
Mi doni il tuo stesso io.
Tutto l’amore che hai per me nel tuo cuore ora diventa manifesto.
Mi lavi i piedi e poi mi dai il tuo corpo e il tuo sangue come cibo e bevanda.
O Signore, dove mai potrei andare, se non da te, per trovare l’amore che desidero tanto? (H.J.M.
NOUWEN, Da cuore a cuore).
  Preghiera Dio onnipotente ed eterno la sera prima di soffrire, il tuo figlio prediletto affidò alla chiesa il sacrifico della nuova ed eterna alleanza e istituì il convito del suo amore.
Fa’ che da questo mistero possiamo ricevere la pienezza di vita e di amore.
Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore   * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
       CENA DEL SIGNORE   Lectio Anno c     Prima lettura:  Esodo 12,1-8.11-14             Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno.
Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa.
Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne.
Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto.
Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno.
In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare.
Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta.
È la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto.
Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto.
Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”.
       v Il brano dell’Esodo, che la liturgia ci fa leggere oggi è uno dei testi che fonda la festa della pasqua (pesach) ebraica, che viene celebrata ancora oggi, come «memoriale» della liberazione dall’Egitto e che Gesù, la sua famiglia e i suoi apostoli hanno celebrato secondo le tradizioni che si rifacevano alla Torà di Mosè.
     Nella Torà (Pentateuco) sono numerosi i testi che «fondano» la pasqua, mentre accenni alla pasqua si trovano anche nelle altre parti del tanach (nome della Bibbia ebraica, dalle iniziali delle tre parti fondamentali in cui è divisa: Torà = insegnamento, legge; Neviim, = profeti; Ketuvim = agiografi).
Il capitolo 12 dell’Esodo dedica alla Pasqua due parti i vv.
1-28 e 41-50.
In questi testi è esplicito il collegamento con l’opera del Signore, che libera il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto e a cui viene esplicitamente dato il comando di celebrarne il memoriale: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14).
La celebrazione di un rito ciclico, proprio dei pastori, che gli ebrei del tempo dei patriarchi celebravano come gli altri popoli vicini dediti alla pastorizia, in primavera, per chiedere a Dio la benedizione e la fecondità del gregge, diventa il rito «memoriale» dell’intervento di Dio nella storia.
     Sempre in questo capitolo sono indicate le modalità essenziali, per riuscire a far entrare la nuova generazione dentro al significato di questa celebrazione: «Quando poi sarete entrati nel paese che il Signore vi darà, come ha promesso, osserverete questo rito: Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: È il sacrificio della pasqua per il Signore».
     Il passaggio di generazione in generazione avviene in forma di domande dei figli e di risposte dei padri.
Il modo di ricordare, attraverso gesti simbolici susciterà la curiosità dei più giovani e sarà il punto di partenza per il racconto delle opere compiute da Dio per liberare il suo popolo e avviarlo verso la terra promessa, proprio il racconto di tali opere in risposta alle domande dei figli costituisce il nucleo del «memoriale» celebrato nel Seder pasquale dagli ebrei ancora oggi, in continuità con la prima pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto.
     La pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto è la pasqua avvenuta, potremmo dire, sotto il segno del miracolo, le pasque celebrate in seguito sono «memoriale».
Chi partecipa al memoriale deve considerare se stesso come se proprio lui fosse uscito dall’Egitto, ma il miracolo è per ora solo spirituale, dato solo nel racconto e nei gesti simbolici.
Il rito deve essere perenne: esso è un «memoriale» rende efficace per i presenti l’azione salvifica di Dio ed è teso al sabato messianico, che non avrà più tramonto.
     L’andamento in tre tempi del «memoriale» ebraico è lo stesso di quello cristiano: i cristiani fanno memoria della morte e risurrezione di Gesù in questo tempo intermedio, partecipano cioè nel rito dell’opera salvifica di Gesù in attesa della domenica del Regno, quando sarà finito il tempo intermedio nel quale dobbiamo avvalerci del racconto e dei segni.
  Seconda lettura: 1Corinzi 11,23-26        Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
    v Il brano di Paolo è uno dei quattro testi neotestamentari, che presentano direttamente il racconto di quella che siamo soliti chiamare l’«istituzione dell’eucaristia».
Gli altri tre sono Lc 22,14-20; Mt 26,20-29; Mc 14,17-25.
In realtà il termine eucaristia non c’è negli scritti apostolici; esso inizia solo con la Didaché e in Ignazio di Antiochia (110 d.C.) comincia ad avere un senso sacramentale.
I termini per indicare la prassi eucaristica nel Nuovo Testamento sono cena del Signore (cf.
1Cor 10,14,22; 11, 17,33) e frazione del pane (cfAt 2,42.46; 20,7.11).
     Il testo di Paolo che si legge oggi è un testo che presuppone già una tradizione liturgica.
Esso è legato a quello di Luca e si fa risalire alla tradizione antiochena, mentre Marco e Matteo, apparentati fra loro, risalgono alla tradizione gerosolimitana.
     In Paolo e Luca sono rilevanti tre aspetti: l’invito a «fare memoria» (1Cor 11,24.25; Lc 22,19 solo sul pane); il riferimento all’alleanza (1Cor 11,25, Lc 22,20); la dimensione del dono personale di Gesù espresso da «questo è il mio corpo, che è per voi» (1Cor 11,24; Lc 22,19) e dal sangue versato per voi (Lc 22,20).
È da notare anche il ‘voi’, che si riferisce direttamente ai presenti alla celebrazione e che è molto insistito nel racconto di Luca.
     L’eucaristia è «fare memoria» vale a dire compiere il rito, ma soprattutto accettare la logica del servizio proposta dalla lavanda dei piedi.
     Il calice è la nuova alleanza, vale a dire un’alleanza vera voluta da Dio e che deve essere accettata dai discepoli di Gesù.
Il termine analogico è sempre l’alleanza del Sinai; lì c’è l’iniziativa di Dio che ha liberato il popolo e gli dà una norma di condotta; il popolo deve rispondere accettando l’alleanza, vale a dire mettendo in pratica i precetti.
La fedeltà all’alleanza è sicura da parte di Dio, è difficile da parte del popolo.
Dio, però, non lo abbandona e continuamente lo richiama, soprattutto attraverso i profeti rammentando loro la sua misericordia e la sua fedeltà, nonostante le sofferenze e l’apparente abbandono.
     Dalla fede che il gesto di Gesù è un’alleanza reale con Dio, un dono di Dio come quella stipulata con Israele, l’alleanza è chiamata «nuova», con riferimento a Geremia: «Ecco verranno giorni in cui con la casa di Israele e la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova…» (Ger 31,31-34).
     L’eucaristia è soprattutto dono di sé di Gesù, che deve diventare dono di sé dei discepoli che la celebrano.
      Vangelo: Giovanni 13,1-15          Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.
Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.
Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?».
Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo».
Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!».
Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me».
Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!».
Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti».
Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono.
Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri.
Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».
      Esegesi             Il primo versetto del brano di Giovanni fa da introduzione ai capitoli 13-17, che vengono generalmente denominati «discorsi di addio».
Il redattore ha unificato i discorsi tenuti da Gesù ai suoi introducendoli nella cornice dell’ultima cena con loro.
Giovanni non parla di cena pasquale come i sinottici, ma dell’ultima cena di Gesù con i discepoli, che cronologicamente pone «prima della festa di Pasqua».
Il problema della datazione dell’ultima cena e della crocifissione, presentata in modo differente dai sinottici e da Giovanni, è stato affrontato da molti studiosi, ma è impossibile raggiungere una intesa che non lasci dubbi.
D’altro canto l’interesse dei Vangeli non è cronachistico; il racconto è rivolto all’annuncio della rivelazione salvifica di Gesù, che nella morte e risurrezione trova il suo punto culminante.           In particolare, il brano che leggiamo oggi si muove su due binari uno è quello di rivelarci qualcosa della natura divina di Gesù e dell’azione salvifica insita nella sua morte, discorso che si farà più evidente nei capitoli che narrano la passione, l’altro è quello di mostrare ai discepoli il tipo di condotta richiesto, per essere veramente considerati tali.
     Gesù è presentato pienamente consapevole della sua passione: il participio «sapendo» è ripetuto ai versetti 1 e 3.
Egli conosce la «sua ora», cioè quella della morte, presentata come l’ora «di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1); egli ha piena coscienza dei poteri che gli sono stati dati dal Padre dal quale è venuto e al quale ritorna (Gv 13,3).
     L’evangelista pone gli avvenimenti che seguono nell’orizzonte dell’amore sconfinato di Gesù: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
     In contrasto con questo amore senza limiti c’è il tradimento di Giuda, che è ispirato dal diavolo, il vero nemico, che Gesù deve sconfiggere (Gv 13,2).
È giunto il momento dell’azione del «principe di questo mondo», che anche se apparentemente contrario, non ha nessun potere su Gesù (Gv 14,30); il giudizio sul «principe di questo mondo» è già stato pronunciato (Gv 16,11).
     Sempre nella linea di rivelarci qualcosa del mistero della persona di Gesù e illustrare il valore salvifico della sua missione nel mondo eseguita secondo il volere del Padre, va il colloquio con Pietro.
Il gesto di Gesù è a prima vista incomprensibile sia dal punto di vista delle convenzioni sociali, sia perché è il simbolo dell’abbassamento di Gesù, che viene dal Padre, e quindi è di natura divina.
     Gesù è consapevole che, se il livello morale del gesto, più che da capire sarà difficile da imitare; l’abbassamento, la «kenosi» del Verbo di Dio non si accetta se non con l’opera dello Spirito Santo: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (Gv 13,7).

Domenica delle Palme (Anno C).

DOMENICA DELLE PALME   Lectio Anno c     Prima lettura: Isaia 50,4-7          Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
    v  Un anticipo di mistero pasquale risuona nella prima lettura che propone la figura del servo di Dio.
Al di là delle difficoltà interpretative, si incontra un uomo totalmente disponibile al piano divino, anche se deve passare nei meandri del dolore.
È la prefigurazione di una vicenda che capovolge la storia.
Infatti, la certezza della fedeltà a Dio nonostante tante prove e difficoltà è ampiamente cantata in questo brano di Isaia.
     Gli studiosi lo classificano come il terzo carme del Servo di Dio.
Chi sia questo personaggio rimane misterioso ed enigmatico.
Qualcuno lo ha identificato con il profeta stesso.
Ma la sua personalità e la sua azione superano di gran lunga la contingenza storica, elevandosi a simbolo di una realtà che troverà solo in Gesù il suo pieno compimento.
 Il Nuovo Testamento sarà esplicito nel riconoscere in Gesù il servo sofferente (cf.
At 8,35; Lc 18,31).
     Il brano ripropone in miniatura il mistero pasquale, qui considerato come sofferenza (morte) in un contesto di dolce intimità con Dio (vita).
Il Signore abilita il suo servo al compito profetico, comunicandogli la sua parola.
Questa viene accolta con disponibilità e ritrasmessa integra e fedele da parte del servo.
Purtroppo i destinatari si mostrano non solo indifferenti, ma perfino ostili al profeta che tiranneggiano e denigrano.
Sarebbe comprensibile uno stato di prostrazione e di abbattimento del profeta davanti all’insuccesso della sua missione.
Eppure non cede alla tentazione dello scoraggiamento e tanto meno dell’abbandono, fondandosi su una granitica certezza: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato”.
È una parte sicura, equiparabile ad una risurrezione.
     Il brano, molto stringato e abbastanza sibillino, si scioglie in una luminosa comprensione se riferito a Cristo e al suo mistero pasquale.
  Seconda: Filippesi 2,6-11          Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
              v Paolo trascrive in termini più teologici il significato della passione e morte di Cristo, proponendo la contemplazione di uno stupendo inno cristologico.
In esso trova eco il valore teologico della sofferenza e della morte di Gesù.
Con tutta probabilità Paolo ha trovato nella liturgia questo brano che egli inserisce nella sua lettera per veicolare importanti verità cri

Festa della Passione del Signore Anno C

PASSIONE DEL SIGNORE   Lectio Anno c     Prima lettura: Isaia 52,13-53,12        Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente.
Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.
    Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.
    v  Il brano di Isaia che leggiamo oggi è uno dei brani scritturistici a cui la tradizione cristiana si è rivolta per tentare di capire più a fondo il mistero di Gesù che muore in croce.
     Esso è denominato come il quarto carme del Servo del Signore (cf.
Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12).
     Questi carmi sono una delle diverse riflessioni teologiche della Bibbia di fronte al problema tremendo della sofferenza del giusto, che mette in causa direttamente Dio.
     «Il vocabolario (quarantasei hapax legomena [vocaboli che si incontrano soltanto in questo testo] del Deuteroisaia) lo stile, la veemenza dei contrasti e dei sentimenti fanno di questo carme, anche dal punto di vista letterario — nonostante le difficoltà testuali ed esegetiche — un gioiello dell’Antico Testamento.
La figura del Servo, che rappresenta il popolo di Israele in esilio, ricapitola in sé i tratti più caratteristici degli eroi e profeti dell’Antico Testamento: Mosè, Geremia, Giobbe, però sorpassa tutti questi personaggi, divenendo una figura escatologica».
(S.
VIRGULIN, Isaia, Nuovissima versione della Bibbia, Ed.
Paoline, 1968, 344).
Gli evangelisti e più esplicitamente la tradizione cristiana interpretarono l’opera e la morte di Gesù alla luce di questo carme.
     – 52,13-15.
Il Signore presenta il servo trionfante.
Dall’umiliazione assoluta egli è chiamato all’esaltazione così da stupire i re e le nazioni.
     – 53,1-9.
La sezione comincia con un interrogativo retorico per attirare l’attenzione.
Le sofferenze del servo sono descritte nei particolari con grande efficacia.
La sua sofferenza lo faceva ritenere un castigato da Dio, percosso e umiliato.
Egli non è stato colpito per essere castigato, ma per la salvezza degli altri: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti….
il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti».
     – 10-12.
«Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori».
Si ribadisce di nuovo che quanto è avvenuto al servo è stato voluto da Dio, ma si aggiunge che Dio stesso riabiliterà ed esalterà il suo servo, che ha espiato i peccati altrui: «il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli».
        Seconda: Ebrei 4,14-16; 5,7-9               Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
[Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
              v I due brani della lettera agli Ebrei scelti dalla liturgia di oggi presentano Gesù come sommo sacerdote, mediatore compassionevole per i nostri peccati.
Non dobbiamo temere il giudizio divino, ci dice l’autore della lettera, stiamo saldi nella confessione della nostra fede e abbiamo fiducia in Gesù Cristo.
Egli può capire la nostra debolezza avendo anche lui subito la prova della sofferenza.
     Dobbiamo quindi avere piena fiducia che avremo un aiuto opportuno per essere ascoltati da un giudice già propenso alla misericordia, presso il quale troveremo grazia.
Assai efficace è l’immagine di accostarsi «al trono della grazia».
Essa mi fa venire in mente una tradizione midrashica ebraica che narra che Dio per creare gli uomini si è alzato dal trono della giustizia per sedersi su quello della misericordia.
     Nei versetti 7-9 del capitolo 5, accostati direttamente dalla liturgia a 4,14-16 Gesù è presentato nel mistero della sua umanità e dell’abbassamento fino alla morte accettata in obbedienza a Dio, che poteva liberarlo e a cui aveva rivolto suppliche e grida.
Dio lo ha esaudito, ma misteriosamente solo attraverso la prova suprema.
  Vangelo: Giovanni 18,1-19,42     – Catturarono Gesù e lo legarono      In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli.
Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli.
Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi.
Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?».
Gli risposero: «Gesù, il Nazareno».
Disse loro Gesù: «Sono io!».
Vi era con loro anche Giuda, il traditore.
Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra.
Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?».
Risposero: «Gesù, il Nazareno».
Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io.
Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato».
Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro.
Quel servo si chiamava Malco.
Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
  – Lo condussero prima da Anna Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno.
Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».
Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo.
Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote.
Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta.
Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro.
E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?».
Egli rispose: «Non lo sono».
Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.
Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento.
Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto.
Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto».
Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?».
Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male.
Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».
Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.
– Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono!  Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi.
Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?».
Egli lo negò e disse: «Non lo sono».
Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?».
Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.
– Il mio regno non è di questo mondo Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio.
Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua.
Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?».
Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato».
Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!».
Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno».
Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?».
Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me.
Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re.
Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?».
E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna.
Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?».
Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!».
Barabba era un brigante.
– Salve, re dei Giudei! Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare.
E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora.
Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!».
E gli davano schiaffi.
Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna».
Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora.
E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».
Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!».
Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa».
Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».
All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura.
Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?».
Ma Gesù non gli diede risposta.
Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?».
Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto.
Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».
– Via! Via! Crocifiggilo! Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà.
Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare».
Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà.
Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno.
Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!».
Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!».
Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?».
Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare».
Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.
– Lo crocifissero e con lui altri due Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo.
Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei».
Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco.
I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”».
Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».
– Si sono divisi tra loro le mie vesti I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica.
Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca».
Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte».
E i soldati fecero così.
– Ecco tuo figlio! Ecco tua madre! Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala.
Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!».
Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!».
E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.
Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete».
Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca.
Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!».
E, chinato il capo, consegnò lo spirito.
– E subito ne uscì sangue e acqua Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via.
Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui.
Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.
Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate.
Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso».
E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».
– Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù.
Pilato lo concesse.
Allora egli andò e prese il corpo di Gesù.
Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe.
Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura.
Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto.
Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.
              Esegesi      La liturgia ci fa leggere oggi tutto il «libro della passione» di Giovanni, che inizia con l’andata di Gesù nel giardino (18,1) e termina al sepolcro nel giardino (19,41).
L’inclusione sottolinea l’unità letteraria del racconto.
     All’interno di questa unità possiamo individuare cinque scene: 1.
Gesù nel giardino e il suo arresto (18,1-11); 2.
Gesù davanti ad Anna, episodio scandito all’esterno dalle negazioni di Pietro (18,12-27); 3.
Gesù davanti a Pilato (18,28 19,16); 4.
la crocifissione (19,17-30); 5.
il colpo di lancia e la sepoltura (19,31-42).
     Molti elementi del racconto di Giovanni, oltre allo schema generale della passione, sono in comune con i sinottici, mi soffermo soltanto sugli elementi propri di Giovanni presenti in ciascuna delle sezioni individuate sopra.
     1.
In 18,1-11: Gesù sa che cosa gli sta per accadere: si fa avanti spontaneamente e si rivela nella sua potenza.
Alla sua risposta decisa: «Io sono» tutti indietreggiano e cadono a terra.
Nonostante non si riesca a dare di ciò una spiegazione univoca, è evidente che l’evangelista vuole sottolineare il contrasto fra il coraggio di Gesù che si fa avanti, padrone della situazione e la paura di chi è venuto ad arrestarlo, che ha fatto pensare a molti studiosi allo stupore-paura che nella Bibbia coglie coloro che intuiscono di essere alla presenza di Dio.
 Gesù intesse un colloquio con le guardie per escludere i suoi dal suo destino e l’evangelista commenta che così si è adempiuta la sua stessa parola: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato» (18,9 cf.
17,12; 6,39).
     Solo Giovanni dice il nome del servo del sommo sacerdote.
Nelle parole dette a Pietro: «il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
C’è una eco della preghiera di Gesù al Getzemani, che Giovanni non riporta, ma il tono della domanda sottolinea che quanto accade è un «dovere» comandato dal Padre, che Gesù accoglie senza tentennamenti 12-27.
Entrano in azione i soldati romani e

Pasqua di Resurrezione anno C

PASQUA DI RISURREZIONE   Lectio Anno c     Prima lettura: Atti 10,34a.37-43         In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui.  E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme.
Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
     E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio.
A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».
              v Il discorso in casa di Cornelio è l’ultimo dei discorsi cristologici di Pietro nel libro degli Atti (cf.
2,12-36; 3.11-26; 4,8-22).
    La catechesi su Gesù è ancora sulle sue linee essenziali: «consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret», cioè investito dello Spirito di Dio (battesimo) e insignito di particolari poteri taumaturgici Gesù si era presentato a Israele.
Partendo dalla Galilea aveva percorso «tutta la Giudea».
    L’opera di Gesù è riassunta da pochi verbi; qualcuno di meno di quelli di Mt 4,23: «passò» per le contrade della Palestina, «beneficando» e «risanando» gli uomini dalle possessioni diaboliche ovvero dalle loro malattie.
Sono omessi i due verbi di Matteo «predicava» e «insegnava nelle loro sinagoghe».
    Ma il suo agire dimostrava che «Dio era con lui», in altre parole era l’«Emmanuele» predetto dal profeta Isaia (7,14), traduceva con i fatti la bontà di Dio in mezzo agli uomini.
     Gesù ha svolto la sua missione davanti a tutto il popolo poiché davanti a tutti ha parlato e compiuto i suoi prodigi, ma per quanto riguarda il prodigio conclusivo e dimostrativo della sua missione, la risurrezione dai morti, ha voluto un gruppo scelto di testimoni con i quali si è a lungo trattenuto, dando sufficienti prove della realtà del suo nuovo stato di vita.
     Gli apostoli sono quelli che possono attestare la sopravvivenza di Gesù dopo che i nemici l’avevano messo in croce.
Essi l’hanno visto prima di morire e l’hanno rivisto vivo dopo la morte; possono perciò assicurare che è risorto, che non è rimasto nella tomba.
     La sorte di Gesù si è rovesciata; egli è stato giudicato e condannato, ma dalla risurrezione è diventato lui il giudice di tutti, di quanti sono attualmente vivi e di quelli che sono già morti.
Tutti si sono confrontati o saranno chiamati a confrontarsi con lui per ricevere il premio o la condanna delle loro buone o cattive azioni.
Se si vuole evitare un incontro spiacevole con lui occorre credere, cioè ripercorrere la strada che egli ha percorso.
     Pietro sta parlando in casa di Cornelio, un ufficiale romano, e ad ascoltarlo sono i suoi familiari, alcuni «congiunti e amici intimi» (10,14), tutta gente che non faceva parte del popolo della promessa, quindi della salvezza, ma si trattava di una discriminazione che con Gesù era destinata a cadere.
     L’apostolo l’aveva già intravisto nella visione avuta a Joppe (10,9-15) e compreso meglio dal racconto di Cornelio (10,30-35); ora ne ha una conferma dal cielo mentre gli è dato costatare che lo Spirito di Dio sta discendendo su coloro che l’ascoltavano, per la maggior parte incirconcisi.
     Era la Pentecoste dei gentili che richiamava quella sui rappresentanti d’Israele che era già avvenuta (At 2,1-12).
  Seconda lettura:  Colossesi 3,1-4         Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
    v  La comunità di Colossi è alle prese con i primi confronti o le prime contaminazioni con la cultura del mondo circostante, giudaico e greco.
     I giudei dell’Asia minore, alla pari dei greci, parlano di potenze cosmiche intermedie tra Dio e gli uomini, di signorie, potestà, dominazioni.
Per l’autore esse possono rimanere solo che siano subordinate all’unico Signore, Cristo (1,15-20; 2,9-15).
     Gesù ha affrancato l’uomo da qualsiasi giogo, come lo ha reso libero da rituali inutili, da «feste, noviluni, sabati», «cibi e bevande» (2,8,16-17).
     Il cristiano è chiamato a ripercorrere il cammino di Cristo, un’esperienza di morte e di vita, di mortificazione e di risurrezione.
Si tratta di morire agli «elementi di questo mondo», di finire con tutte quelle pratiche, astinenze imposte in nome di un’«affettata», falsa «religiosità, umiltà e austerità riguardo al corpo» (2,23).
     Il cristiano è un uomo nuovo e il suo mondo non è tanto di quaggiù, quanto del cielo, di lassù.
Nel battesimo egli è disceso nel fonte e risalendo ha lasciato nell’acqua la sua vecchia appartenenza con tutte le sue inclinazioni peccaminose e ha assunto l’immagine del Cristo glorioso.
     Egli vive ancora sulla terra ma è un essere di un altro mondo, per questo deve assumere comportamenti degni della sua nuova condizione.
Occorre «cercare» e «pensare alle cose di lassù», ciò che è consono con il mondo e il modo di vivere del Cristo risorto.
     L’autore non specifica quali sono le cose di lassù e quali quelle della terra, ma lo dice subito dopo quando chiede di «mortificare quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi» che designa con il termine «vizi».
E aggiunge: «Voi deponeste tutte queste cose, ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene» (3,5-8).
Tutte azioni che appartenevano, è detto sinteticamente, all’«uomo vecchio» in contrapposizione al l’«uomo nuovo che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore» (3,9-10).
     I comportamenti dell’uomo nuovo che si avvicina a quello celeste sono invece caratterizzati da «sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza.
Al di sopra di tutto vi è poi la carità che è il vincolo di perfezione» (3,12-14).
     La vita cristiana è sempre un preludio di quella celeste che è segnata dal Cristo glorificato.
Allora verrà sublimata anche quella di coloro che credono in lui.
     La vita terrestre si spiega solo alla luce della sua apoteosi celeste.
  Vangelo: Giovanni 20,1-9          Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.  Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro.
Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.
Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.  Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.  Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.
Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
              Esegesi      Gli evangelisti sinottici parlano delle donne che si recano al sepolcro di buon mattino per compiere i riti sul cadavere di Gesù; Giovanni incentra l’attenzione su una donna particolare: Maria di Magdala.
Ella trova la pietra rimossa e ne deduce che il corpo è stato trafugato e corre ad avvertire Pietro e il discepolo prediletto, che la tradizione identifica con l’evangelista Giovanni.
     Questi si portano immediatamente al sepolcro, al quale giunge per primo il discepolo più giovane.
Egli da uno sguardo fugace all’interno, vede le bende abbandonate, ma, per deferenza verso il più anziano, non entra e lo aspetta sulla soglia.
Pietro entra nella cella mortuaria e vede le bende e il sudario «avvolto» a parte.
Il vangelo di Giovanni non parla delle sue reazioni.
Luca (24,12) dice che tornò indietro pieno di stupore (thaumazo in greco, verbo che indica grande perplessità).
     «Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8).
Che cosa vide? non è il vedere di Tommaso (Gv 21,29), ma il vedere interiore.
Egli di fronte al sepolcro vuoto non pensa, come la Maddalena, che hanno trafugato il cadavere o non sospende il giudizio come Pietro, ma crede sulla Parola di Gesù, a sua volta fondata sulla tradizione delle Scritture ebraiche.
Il frutto della comprensione delle Scritture è il credere; non, però, un frutto «automatico», ma dono dello Spirito, che raggiunge le persone in modo misterioso ed è accolto da ciascuno in maniera diversa.
Anche la Maddalena e Pietro avevano avuto comunanza con Gesù e conoscevano le Scritture, ma a loro non basta ancora per credere dinanzi al sepolcro vuoto.
Essi «non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,9).
  Meditazione      L’annotazione temporale di Gv 20,1, con cui inizia il testo evangelico proclamato nel giorno di Pasqua, ci offre un simbolico aggancio con la veglia notturna in cui abbiamo ripercorso il cammino della storia della salvezza per giungere a contemplare il volto del Cristo risorto.
L’annuncio pasquale è risuonato in tutta la sua straordinaria forza e ha squarciato le tenebre: «Cristo è risorto dai morti – così canta il tropario della liturgia bizantina – e con la morte ha calpestato la morte, donando la vita a coloro che giacevano nei sepolcri».
Ora siamo anche noi nel «primo giorno della settimana» e come credenti siamo chiamati ad entrare nel dinamismo di questo giorno che segna il passaggio dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce: «la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo…
– canta il salmo 117 – Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo».
     La liturgia della Parola di questo giorno richiama con forza la nostra realtà di testimoni del Risorto: la Pasqua di Cristo, quel giorno mirabile che solo il Signore ha potuto fare, diventa il ritmo del nostro tempo.
Camminare così nella esistenza quotidiana è veramente passare dalla morte alla vita, è fare Pasqua ogni giorno e vivere sempre radicati sul terreno della nostra fede.
Potremmo allora cogliere nelle tre letture altrettante modalità che caratterizzano la testimonianza del discepolo di Cristo in rapporto alla fede pasquale: una testimonianza che diventa annuncio (At 10,37-43), una testimonianza che si trasforma in attesa (Col 3,1-4) e una testimonianza che si nutre di fede (Gv 20,1-9).
     La testimonianza che Pietro offre nella casa del pagano Cornelio è mediata da una parola proclamata, gridata, da un annuncio: «questa è la Parola che egli ha inviato ai figli di Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti» (At 10,36).
La parola inviata e l’evangelo della pace hanno un volto: Gesù.
E Pietro concentra la sua attenzione sul racconto di Gesù, un vangelo in miniatura in cui vengono scandite le tappe essenziali della vicenda terrena di Gesù di Nazaret, «il quale passò beneficando e risanando…
perché Dio era con lui» (v.
38).
Il nucleo centrale di questo evangelo è scandito da tre verbi che rivelano la dinamica del mistero pasquale (il centro del kerigma proclamato dalla comunità apostolica): «lo uccisero appendendolo ad una croce, ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che si manifestasse…
a testimoni prescelti da Dio, a noi…» (vv.
39-41).
L’incontro personale con il Risorto (che Pietro caratterizza attraverso una comunione di mensa: «abbiamo mangiato e bevuto con lui», v.
41) dona autorevolezza alla testimonianza e questa diventa il fondamento dell’annuncio: «ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio» (v.
42).
Si diventa annunciatori del Risorto e della sua signoria sulla storia, della vita nuova che egli comunica, solo perché si è testimoni di Lui.
     Ma nella vita quotidiana del credente, la testimonianza del Risorto acquista una paradossale profondità: si trasforma in quella luminosa promessa espressa con la parola di Paolo in Col 3,3-4: «…voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio.
Quando Cristo vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria».
Commentando questo versetto, D.
Bonhoeffer dice: «Vicinissimo a noi, là dove, nel suo maestoso nascondimento, Dio è tutto in tutto, dove il Figlio siede alla destra del Padre, là, il miracolo dei miracoli, si trova preparata la nostra vera vita.
La nostra vita è nascosta con Cristo in Dio: sì, noi viviamo già come a casa nostra, al cuore stesso del nostro esilio».
Paolo indica così al credente in quale direzione deve orientare la propria esistenza, la propria ricerca, in quale luogo deve fissare lo sguardo del proprio cuore: «se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù…
rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (vv.
1-2).
Noi sappiamo che il nostro sguardo si lascia catturare e trascinare verso il basso: ed è proprio lì che noi incontriamo i tanti luoghi di morte che riempiono i nostri occhi e il nostro cuore di tristezza.
E alla fine, procedere con gli occhi bassi vuol dire camminare senza direzione.
È necessaria una meta su cui fissare lo sguardo.
E Paolo ci dice che questa meta è in alto, verso un luogo simbolico, lì «dove è Cristo seduto alla destra di Dio» (v.
1), lì dove il Signore Gesù ci ha preparato un posto, nella casa del Padre.
Cercare le cose di lassù vuol dire desiderare questo luogo di comunione, sentirlo come la nostra vera casa, dove siamo figli liberi e amati.
     Il testo di Gv 20,1-9 ci presenta tre modi di reagire di fronte a un segno misterioso: la tomba vuota.
In modi differenti ci offrono una testimonianza che precede l’incontro con il Risorto, una testimonianza che si radica sulla fede.
Maria di Magdala è la prima che si avvicina al sepolcro «quando era ancora buio» (v.
1 ).
È la prima che ha il coraggio di lasciarsi provocare da una realtà che conserva ancora tutta la dimensione dell’assurdo e dello scandalo.
Maria è stata ai piedi della croce; ha resistito di fronte allo spettacolo della croce, ha sopportato il silenzio della morte (cfr.
19,25).
È ancora buio attorno a lei: c’è ancora pau-ra e angoscia, fallimento e incomprensione.
È ancora buio dentro di lei: c’è solitudine e smarrimento.
Ma Maria ha un desiderio: cercare il suo Maestro (cfr.
20,13.16).
E chi cerca ama.
E anche se il suo amore deve maturare nell’incontro con un volto inatteso e nuovo, diverso da quello che lei vorrebbe vedere e trattenere, tuttavia è vero amore: si sente coinvolta completamente da esso, sente che la sua vita è vuota senza la presenza di Cristo.
Pietro è il credente la cui fede è continuamente chiamata a compiere salti di qualità, a percorrere vie nuove; e per questo a volte fatica scontrandosi con la propria debolezza e la pro-pria presunzione.
Nel suo cuore c’è la ferita bruciante del rinnegamento: non ha saputo vegliare un’ora sola con Gesù, non ha sopportato la vista dello scandalo della croce.
Ma nel suo cuore c’è come una nostalgia: c’è il ricordo di quel giorno in cui, avendo avuto la possibilità di abbandonare il suo maestro, non l’ha fatto; anzi ha detto «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,69).
Ma, soprattutto, nel cuore di Pietro c’è il ricordo della fiducia che Gesù ha posto in lui: lo ha fatto testimone in mezzo ai fratelli, nonostante tutto! E dopo il rinnegamento, con il suo sguardo di perdono, Gesù rinnoverà questa fiducia (cfr.
21,15-19).
E ora Pietro corre con questi pensieri, con questa fede e questi dubbi, con queste paure ed esitazioni.
E forse per questo non riesce a correre forte: la sua corsa non è incerta, sa dove andare e sa cosa vuole vedere; ma questa corsa è appesantita, affaticata.
Ha bisogno di incontrare nuovamente quello sguardo dal quale aveva avuto inizio il suo cammino e con il quale verrà nuovamente confermato nella sua fede.
Ed infine, il discepolo amato.
È colui che sa vedere e per questo crede.
La sua corsa è veloce; è la corsa di chi ha lo sguardo interiore penetrante, di chi intuisce una novità, di chi si lascia abitare dal mistero.
Prima ancora di incontrare il Risorto, alla vista delle bende e del sudario, il suo sguardo va oltre: supera l’abisso dell’assenza, afferma, nel vuoto della tomba, che Cristo ha vinto ciò che appartiene al tempo, sa decifrare il linguaggio dei segni, scopre una misteriosa presenza.
E per que-sto diventa il testimone nella lunga attesa perché, con il suo sguardo che va oltre, potrà indicare ai discepoli questa presenza finché il Cristo ritorni (cfr.
21,22).
     Maria, colei che ama; Pietro, il credente; il discepolo amato, colui che vede e vigila: tre modi diversi di camminare incontro al Risorto e di testimoniarlo nella fede.
Ma tutti uniti da un unico desiderio: quello dell’incontro.
E capaci di lasciarsi coinvolgere da questo incontro, capaci di essere testimoni della risurrezione; perché capaci di lasciare convertire la loro vita dal Risorto.
Non ogni esistenza è liberata dalla morte, sottratta dalla vanità, ma soltanto quella che ripercorre il cammino tracciato dal Crocefisso e Risorto; solo una vita donata conduce alla risurrezione.
Una vita gelosamente trattenuta non vince la morte, ma va incontro a una seconda morte.
A Pasqua si celebra la vittoria di un preciso modo di vivere: di colui che ama il Risorto, di colui che crede nel Risorto, di colui che sa vedere oltre, nella luce del Risorto.