XXVII Domenica Tempo Ordinario Anno C

XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Abacuc 1,2-3;2.2-4          Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese.  Il Signore rispose e mi disse: «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente.
È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà.
Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede».
       v Un testo forte, vorrei dire drammatico, sulla fede, sulle sue difficoltà e, pur tuttavia, sulla necessità di rimanervi attaccati con tutto il nostro essere è il brano della prima lettura, ripresa dal profeta Abacuc, di cui sappiamo quasi nulla, salvo che dovrebbe aver vissuto ed operato verso il 600 a.C., più o meno contemporaneo di Geremia.
     Davanti allo scempio che avevano fatto i Babilonesi distruggendo la città santa (587-86), davanti alla loro tracotanza e violenza, sembra che Dio si sia dimenticato del suo popolo e non voglia più ascoltare le sue suppliche.
È per questo che il profeta insorge e mette quasi sotto accusa Dio: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti…
Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?» (1,2-3).
     Non è un bestemmiatore, il profeta, ma molto arditamente domanda al Signore se c’è un senso in tutto questo e se il popolo può ancora continuare a sperare.
Alla fine Dio risponde e garantisce che a un tempo «stabilito», che lui solo conosce, la salvezza verrà: «È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà» (2,3).
     Il testo si conclude con una riflessione del profeta stesso, che lapidariamente descrive l’esito diverso di chi conta solo sulle proprie forze, come i Caldei, e di chi invece è «fiducioso» nel Signore, come devono esserlo i Giudei ai quali egli si rivolge: «Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (2,4).
     È risaputo che Paolo adopererà questo testo, secondo la versione greca dei LXX, per formulare la sua dottrina della «giustificazione» per la sola fede in Cristo (cf.
Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38).
Nel testo originale più che di fede si parla di «fedeltà» a Dio, al suo disegno di salvezza: chi avrà il coraggio di «fidarsi» di lui, di buttarsi nelle sue mani, soprattutto nei momenti bui dell’esistenza, propria o della comunità, non verrà deluso, mentre «colui che non ha l’animo retto», perché confida solo in se stesso, «soccomberà».
  Seconda lettura: 2Timoteo 1,6-8.13-14        Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani.
Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza.
Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo.
Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù.
Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.
                          v Nel brano della seconda lettera a Timoteo abbiamo di nuovo il tema della fede, però considerata più nel suo contenuto (la fides quae creditur, come dicono i teologi) che come atteggiamento dell’anima, aperta a ricevere il messaggio (fides qua creditur).
     E si capisce il perché di questa prospettiva diversa: Paolo si rivolge al suo discepolo prediletto, forse scoraggiato e un po’ anche depresso per le difficoltà del suo apostolato, allo scopo di richiarmarlo al senso della sua missione pastorale: «ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6).
Nella sua consacrazione egli non ha ricevuto uno «spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (1,7): perciò non deve «vergognarsi» di rendere testimonianza al Signore Gesù, né delle «catene» in cui per il momento è costretto l’apostolo, quasi che fosse un perdente.
Piuttosto «soffri con me per il Vangelo.
Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù» (1,8), prendendo proprio come esempio il suo maestro (1,13).
     A conclusione troviamo il solenne richiamo a custodire integro il «bene prezioso», cioè la totalità del mistero cristiano, da annunciare con coraggio e fedeltà.
L’immagine del «bene prezioso» è ripresa dalla prassi giuridica del tempo, secondo la quale il depositario di qualche oggetto prezioso, o di una determinata quota di denaro, era obbligato a restituire integri, in qualsiasi momento, al depositante gli oggetti a lui affidati, pena gravissime punizioni in caso di inadempienza.
A Timoteo è stato affidato qualcosa di più prezioso che oro o argento; di qui la sua grave responsabilità: «Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi » (1,14).
  Vangelo: Luca 17,5-10          In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
    Esegesi      — Signore: «Accresci in noi la fede!».                     .
     Eloquente al riguardo è il brano di Vangelo, che si articola in due sezioni: la prima (Lc 7,5-6) è rintracciabile, diversa, nella comune tradizione sinottica (cf.
Mc 9 24; Mt 17,20, 21,22), la seconda (17,7-10) fa parte del tipico patrimonio lucano ed è coerente con le dinamiche del suo pensiero.                         Dunque gli Apostoli, un bel giorno, chiedono a Gesù: «Accresci in noi la fede!».
Accanto a lui, quotidianamente, non potevano non avvertire che in lui c’era qualcosa che andava oltre il comune limite dell’umano: si dovevano perciò essere aperti a un rapporto di «fiducia» altissima di fronte a Gesù.
Ma questa era davvero «fede», come pensavano gli Apostoli dal momento che lo pregano di «aumentargliela»?      Sembra che Gesù non condividesse questa convinzione, per il fatto che in forma ipotetica, afferma che di fede ne basterebbe solo un pizzico per compiere addirittura miracoli: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (v.
6).
       Due testi paralleli di Matteo riportano l’immagine del «monte» che potrebbe essere spostato nel mare; Luca, più coerentemente con l’immagine del «granello di senapa», parla di un gelso, o di un sicomoro, che è una delle piante più fortemente radicate sul terreno.
Comunque, a parte la diversità delle immagini, il pensiero è chiaro: basta un mimmo di fede che sia autentica, profonda, al di là di ogni dubbio o incertezza, perché il miracolo, l’umanamente impossibile, avvenga.
     Perciò praticamente Gesù, per un verso, invita i suoi discepoli a verificare la propria fede; per un altro verso, assicura loro che la preghiera fatta con fede ottiene tutto: anche «l’aumento» e la «crescita» stessa della fede, esattamente come scrive S.
Paolo, «di fede m fede» (Rm 1,17).
     — «Siamo servi inutili»                                             E soprattutto di fede «adulta», tesa costantemente a crescere, c’è bisogno quando potrebbe sembrarci che il nostro servizio fosse di poco conto, o che non fosse sufficientemente remunerato.
È quanto si afferma nella seconda sezione del brano evangelico (vv.
7-10) con la parabola del servo che, dopo aver fatto il suo lavoro, nei campi o dietro il gregge, e pregato ancora di preparare da mangiare al padrone prima di assidersi  pure lui a mensa.
     È indubbiamente urtante per la sensibilità moderna assai mercantilizzata la conclusione che ne trae Gesù: «Forse che il padrone si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (vv.
9-10).
     Gesù si riferisce qui alle abitudini sociali del tempo (che certamente non prevedevano contratti sindacali), senza peraltro esprimere nessuna valutazione morale al riguardo.
Il quadro gli serve semplicemente per dire che davanti a Dio nessuno può avanzare delle pretese: anche il massimo che potremmo aver fatto non crea nessuna posizione di privilegio, perché abbiamo fatto solamente «quanto dovevamo fare».
Siamo tutti «servi inutili» davanti a lui: ci ha scelti per pura grazia a collaborare alla costruzione del regno e dobbiamo rispondergli con pienezza di impegno, grati solo perché ci ha chiamati ad essere «servi», e non «padroni»: lui soltanto è il «padrone»!      Questo discorso è chiaro che vale per tutti, ma soprattutto per coloro che Dio ha chiamato all’apostolato, proprio come i Dodici.
Ciò che alla luce della ragione potrebbe apparire evidente, alla luce della fede appare addirittura esaltante: «Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare», proprio perché egli ci ha dato la grazia di farlo.
     Meditazione      La fede è il tema unificante la prima lettura e il vangelo.
Nella prima lettura si tratta della fede messa alla prova dal silenzio e dall’inazione di Dio e chiamata a divenire attesa perseverante e fiduciosa nella promessa di Dio.
Così, anche in tempi bui, il giusto troverà vita grazie alla fede.
Nel vangelo si tratta della fede come realtà non quantificabile, ma qualitativa, caratterizzata dalla relazione di abbandono fiducioso del servo al suo Signore.
     Di fronte alle parole di Gesù che parlano di perdono fino a sette volte al giorno nei confronti del fratello che pecca (Lc 17,3-4), gli apostoli pregano Gesù di accrescere la loro fede (Lc 17,5).
Essi mostrano così di aver ben capito che il perdono non è solo un gesto etico, ma è evento escatologico, dono dello Spirito santo, irruzione del Regno di Dio nella vita degli uomini.
Mostrano di aver capito che la comunione nella comunità cristiana – comunione a cui è essenziale il perdono – è possibile solo grazie alla fede, al far regnare la signoria di Dio.
Ma chiedendo la fede essi mostrano anche di aver compreso che la fede è dono che trova nel Signore stesso la sua origine e la sua fonte.
     E mostrano di aver capito che della fede – propria e altrui – non si è padroni e non la si può imporre, ma solo la si può accogliere con gratitudine e nutrire con la preghiera.
E ancora che anche per loro, «gli apostoli» (Lc 17,5), i Dodici scelti direttamente da Gesù, la fede non è una realtà scontata.
Anzi la fede è sempre «poca» e i discepoli sono sempre «uomini di poca fede», ovvero incapaci di quella relazione di abbandono pieno e fiducioso, gratuito e convinto, umile e perseverante, dolce e robusto, in una parola, di quell’amore che è alla base della potenza della fede.
     La fede e null’altro è alla base dell’autorità degli apostoli: questo è sottolineato da Luca con l’annotazione che, se avessero fede quanto un minuscolo granello di senape, potrebbero farsi «obbedire» (verbo hypakoúein: Lc 17,6) anche da un albero a cui viene ordinata una cosa folle.
Solo la fede consente al predicatore, al missionario, all’apostolo di farsi eco – con la propria azione e la propria parola – dell’azione e della parola di Dio e di suscitare nel destinatario l’adesione teologale, non un’appartenenza alla propria persona.
       Nel detto parabolico dei vv.
7-10 Gesù prima paragona gli apostoli a dei padroni che hanno dei servi, poi direttamente a dei servi, e per di più, inutili.
L’autorità nella chiesa si declina come servizio ed esclude ogni rapporto di forza e di dominio.
Il passaggio dall’«avere un servo» (Lc 17,7) all’«essere servi» (Lc 17,10) è significativo: nella comunità cristiana non vi sono padroni e servi, ma vi sono dei fratelli che sono dei servi dell’unico Signore e maestro (cfr.
Mt 23,8-10).
L’autorità nella chiesa deve passare attraverso il vaglio dell’umiltà e del servizio per non esprimersi come potere e oscurare così l’unica signoria di Gesù: «Un apostolo non è più grande di chi l’ha inviato» dice Gesù ai suoi discepoli subito dopo aver loro lavato i piedi durante l’ultima cena (Gv 13,16).
     Ecco dunque la situazione, paradossale ma salvifica, in cui è posto il missionario, l’apostolo nella comunità cristiana: la sua autorità riposa interamente sul suo essere inviato come servo (Lc 17,7; At 20,19), per lavorare il campo di Dio (1Cor 3,5 ss.), per arare (Lc 17,7; 1Cor 9,10) o pascolare (Lc 17,7; At 20,28; 1Cor 9,7).
La sua autorità riposa sulla sua obbedienza alla parola del Signore (Lc 17,10).
Ed ecco la coscienza con cui il servo è chiamato ad esercitare il suo ministero: l’inutilità.
Non che il suo spendersi sia inutile, ma la coscienza che anima l’apostolo è liberante e liberata quando egli compie tutto senza nulla far risalire a se stesso, ma tutto rinviando al Signore che è all’origine della sua chiamata e di ogni fecondità apostolica.
Paolo, dopo aver ricordato di aver «servito il Signore con tutta umiltà» (At 20,19) dice: «La mia vita non è meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi e stato affidato dal Signore Gesù» (At 20,24).
  Preghiere e Racconti   La possibilità della fede “Aumenta la nostra fede!” A questa richiesta degli Apostoli – voce di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio con umiltà e desiderio – Gesù risponde così: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa, direte a questo monte: ‘spostati da qui a là’, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(Matteo 17,20).
Credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara o a un progetto privo di incognite: non si crede a qualcosa che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e piacimento.
Credere è fidarsi di qualcuno, assentire alla chiamata dello straniero che invita, rimettere la propria vita nelle mani di un altro, perché sia lui a esserne l’unico, vero Signore.
Crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da lui nell’ascolto obbediente e nella docilità del più profondo di sé.
Fede è resa, consegna, abbandono, accoglienza di Dio, che per primo ci cerca e si dona; non possesso, garanzia o sicurezza umane.
Credere, allora, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi.
“Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: gèttati, ti prenderò fra le mie braccia!” (Søren Kierkegaard).
Eppure, credere non è un atto irragionevole.
È anzi proprio sull’orlo di quell’abisso che le domande inquietanti impegnano il ragionamento: se invece di braccia accoglienti ci fossero soltanto rocce laceranti? E se oltre il buio ci fosse ancora nient’altro che il buio? Credere è sopportare il peso di queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile amante che chiama.
(Bruno FORTE, Lettera ai ricercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 27-28) L’inquietudine della notte della fede Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora.
Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre.
Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo.
Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.
Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.
Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo.
Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi.
Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza.
Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66).
Fede La fede non è una sicurezza ma un cammino silenzioso.
(E.
OLIVERO, L’amore ha già vinto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 184).
  La ricerca di Dio Ho appreso che la ricerca di Dio è una Notte Buia.
E che anche la Fede è una Notte Buia.
Di certo, non può dirsi una sorpresa.
Per l’uomo, ogni giorno è una Notte Buia.
Nessuno sa che cosa accadrà nell’istante successivo, eppure tutti vanno avanti.
Perché ‘confidano’.
Perché hanno Fede.
[…] Ogni momento della vita è un atto di fede.
(Paulo COELO, Brida, Bompiani, Milano, 2008, 31) Dona a ogni istante il mio amore eterno Mio Dio, sorgente senza fondo della dolcezza umana, addormentandomi lascio scorrere il mio cuore in Te come un recipiente caduto nell’acqua di una fontana e che Tu riempi di Te stesso senza di noi.
In Te domattina ritornerò a prenderlo pieno dell’amore che occorre per la giornata.
O Dio, ne tiene poco, aihmè! Per quanto Tu spanda i Tuoi flutti su di esso, non ne trattiene mai più di un po’.
Ma rinnovami senza fine questo po’ di acqua viva, donamelo fin dall’alba, ai piedi dell’arduo giorno e ridonamelo ancora quando giunge la sera, prima di sera, Signore, poiché l’avrò perduto.
O Tu dal quale il giorno riceve senza sosta il giorno grazie al quale l’erba che cresce è cresciuta nella notte, che continuamente aggiungi all’albero che cresce l’invisibile altezza che lo conduce in aria, dona al mio cuore debole e molto limitato, al mio cuore con tanta fatica amante e fraterno.
Dio paziente delle opere lente e piccole, dona a ogni istante il mio amore eterno.
(M.
Noël, I canti della pietà).
La tentazione dell’impazienza «Cercare subito il grande successo, i grandi numeri… non è il metodo di Dio.
Per il regno di Dio […] vale sempre la parabola del grano di senape (cfr.
Mc 4, 31-32).
Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno.
[…] Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale.
Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».
(J.
RATZINGER, La nuova evangelizzazione, in Divinarum Rerum Notitia.
Studi in onore del Card.
Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).
Il dubbio e la grazia Ogni mattino, Dio nomina il suo governo.
Un giorno è il sole a presiederlo, con il marmo e la rugiada come grandi funzionari, e laggiù nei mondi molto evanescenti un albero di virtù porta la sua ambasciata.
L’indomani, Dio capovolge l’ordine: il nero oceano gode della sua fiducia, ed esso delega i suoi poteri alla dolce collina, al ruscello che canticchia, a qualche mezzofico trovato nella polvere.
Ma Dio deve perfezionarsi: è la sua legge; oggi si circonda di un pangolino esperto in scienze occulte, di un’isola che gli mostra discretamente della tenerezza, di una pioggia fine dalle favole edificanti, di una lunetta un po’ gobba che gli riferisce le voci che circolano.
Dio non ha mai trovato un buon ministro degli affari divini.
(A.
Bosquet, Il libro del dubbio e della grazia) Aumenta la nostra fede «Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un dono elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5).
Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro decisione, ma credevano di riceverla in dono da Dio.
Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insufficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32).
Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24).
I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non speravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro.
E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidiano del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita dichiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può portare frutti spirituali.
Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).
(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp.
160-161).
Preghiera Signore, fa di me ciò che vuoi! Non cerco di sapere in anticipo i tuoi disegni su di me, voglio ciò che Tu vuoi per me.
Non dico: “Dovunque andrai,

XXVI Domenica Tempo Ordinario Anno C

Preghiere e Racconti   I poveri come tempio Spoglia l’altare della Vergine e vendine i vari arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno.
Credimi, le sarà più caro che sia osservato il Vangelo del Figlio suo e nudo il suo altare piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio.
Il Signore manderà poi chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito.
(Vita seconda di Francesco d’Assisi- Tommaso da Celano).
  Ricchezza e povertà «Il denaro non è “disonesto” in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo.
Si tratta dunque di operare una sorta di “conversione” dei beni economici: invece di usarli solo per interesse proprio, occorre pensare anche alle necessità dei poveri, imitando Cristo stesso, il quale – scrive san Paolo – “da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà” (2 Cor 8,9).
Sembra un paradosso: Cristo non ci ha arricchiti con la sua ricchezza, ma con la sua povertà, cioè con il suo amore che lo ha spinto a darsi totalmente a noi.
Qui potrebbe aprirsi un vasto e complesso campo di riflessione sul tema della ricchezza e della povertà, anche su scala mondiale, in cui si confrontano due logiche economiche: la logica del profitto e quella della equa distribuzione dei beni, che non sono in contraddizione l’una con l’altra, purché il loro rapporto sia bene ordinato.
La dottrina sociale cattolica ha sempre sostenuto che l’equa distribuzione dei beni è prioritaria.
Il profitto è naturalmente legittimo e, nella giusta misura, necessario allo sviluppo economico.
Giovanni Paolo II così scrisse nell’Enciclica Centesimus annus: “la moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi” (n.
32).
Tuttavia, egli aggiunse, il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica (cfr ivi, 35).
L’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta.
Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile».
Maria Santissima, che nel Magnificat proclama: il Signore “ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,53), aiuti i cristiani ad usare con saggezza evangelica, cioè con generosa solidarietà, i beni terreni, ed ispiri ai governanti e agli economisti strategie lungimiranti che favoriscano l’autentico progresso di tutti i popoli.
(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’Angelus, 23-IX-2007).
  Come i gigli dei prati e gli uccelli del cielo Uno dei confratelli chiese ad un anziano: Sarebbe giusto se io tenessi due monete per me, nel caso mi ammalassi ? L’anziano, leggendo nei suoi pensieri che egli voleva tenerle, disse: Tienile.
Il fratello, ritornando alla sua cella, cominciò a lottare con i suoi pensieri, dicendo: Mi chiedo se il padre mi ha dato la sua benedizione oppure no.
Alzandosi, tornò dal padre e gli rivolse queste parole: in nome di Dio, dimmi la verità, perché sono tutto ansioso per queste due monete.
L’anziano gli disse: Dal momento che ho visto i tuoi pensieri e il tuo desiderio di tenere quelle monete, ti ho detto di tenerle.
Ma non è bene tenere più di quello che ci serve per il corpo.
Ora queste due monete sono la tua speranza.
Ma se le perdessi, Dio non si prenderebbe forse cura di te ? Lasciate ogni preoccupazione a Dio, allora, perché egli si prenderà cura di voi.
( Thomas Merton, La saggezza del deserto) Essere caritatevoli Il movimento Emmaus, che non è confessionale, rappresenta un pugno nello stomaco per tante “brave persone” – praticanti impeccabili, si dice – che lasciano crepare quanti abitano alla porta accanto, senza neppure accorgersene, consentendo tranquillamente il permanere, sul piano politico, di un ordine ingiusto di cui esse profittano..
Dentro di me tutto questo esplode con la violenza di una bomba, poiché sono ferito della ferita del disoccupato, della ferita della giovane donna di strada..
come una madre è malata della malattia del suo bambino.
Ecco che cos’è la carità, si dirà con un sorriso un po’ sprezzante, poiché il termine, disprezzato, evoca le “opere buone” delle belle e ricche dame di un tempo.
Essere caritatevoli non è solo dare, è essere stati, essere feriti della ferita altrui.
Ed è anche congiungere tutte le mie forze con le forze dell’altro per guarire insieme dal suo male diventato il mio.
(Abbé Pierre, Testamento)   Ogni giorno, anche senza cercarlo vediamo un Lazzaro Sta scritto: C’era un tale, che era ricco, e subito dopo si aggiunge: e c’era un mendicante di nome Lazzaro (Lc 16,19).
Di certo presso la gente sono più noti i nomi dei ricchi che quelli dei poveri.
Perché dunque il Signore parlando di un povero e di un ricco dice il nome del povero e non dice quello del ricco, se non perché Dio conosce gli umili e li approva, e ignora invece i superbi? Per questo, nell’ultimo giorno, a certuni che si sono insuperbiti per il potere di fare miracoli dirà: Non so di dove siete; via da me, voi tutti, operatori di iniquità (Mt 7,23).
A Mosè invece è detto: Ti ho conosciuto per nome (Es 33,12).
Del ricco, dunque, il Signore dice: C’era un tale, e riguardo al povero: un mendicante, di nome Lazzaro; è come se dicesse: «Conosco il povero che è umile, non il ricco che è superbo.
L’uno lo conosco e lo approvo, l’altro lo ignoro poiché lo condanno» […] Ecco, Lazzaro, il mendicante, giace tutto piagato davanti alla porta del ricco.
Con quest’unico fatto il Signore esprime due giudizi.
Il ricco, infatti, avrebbe forse avuto qualche giustificazione se Lazzaro non fosse rimasto a giacere davanti alla sua porta povero e piagato, se fosse stato lontano, se la sua povertà non avesse importunato il suo sguardo.
Inoltre, se il ricco fosse stato lontano dallo sguardo del povero mendicante, questi avrebbe dovuto sopportare nel suo animo una tentazione meno forte.
Ma poiché il Signore pone il povero e coperto di piaghe davanti alla porta del ricco che godeva di tanti piaceri, da un’unica e medesima situazione questo derivò: vi fu grave condanna per il ricco che vedeva il povero e non ne ebbe compassione; ma anche, vi fu una quotidiana tentazione per il povero che vedeva il ricco.
Non credete che quest’uomo povero e piagato abbia dovuto sopportare gravi tentazioni al pensiero che lui mancava di pane ed era malato e davanti a sé vedeva un ricco in piena salute, immerso nei piaceri? […] Ma voi, fratelli, conoscendo il riposo donato a Lazzaro e il castigo inflitto al ricco, datevi da fare, cercate degli intercessori per le vostre colpe, fate in modo di avere i poveri quali vostri avvocati nel giorno del giudizio.
Avete ora molti Lazzari; stanno davanti alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno dopo che vi siete saziati, cade dalla vostra mensa.
Le parole del libro sacro ci devono predisporre a praticare i precetti della carità.
Ogni giorno possiamo trovare Lazzaro, se lo cerchiamo; ogni giorno, anche senza cercarlo vediamo un Lazzaro.
(GREGORIO MAGNO, Omelie sui vangeli 40,3-4.10, Opere di Gregario Magno, Omelie sui vangeli, pp.
568-570.578-580).
  La povertà del predicatore Nella povertà del discepolo e dell’apostolo il destinatario del vangelo può cogliere il segno stesso del contenuto del messaggio.
La povertà del predicatore è, per così dire, il sacramento, cioè la manifestazione visibile del vangelo e dell’uomo che dal vangelo si lascia coinvolgere.
Il cuore della lieta novella, che il regno di Dio viene e la figura di questo mondo passa, che il Crocifisso è il Risorto e che morte significa vita, ma che la vita vera passa sempre attraverso la morte, tutto questo l’apostolo non può annunciarlo soltanto a parole, ma con il suo stesso modo di vivere.
Lui stesso deve incarnare questo messaggio.
La croce di Cristo e la speranza nella risurrezione si configurano nell’essere-crocifìssi-con-Cristo degli apostoli, che poi significa che «fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani» (cfr.
1 Cor 4,11ss.).
Nella povertà dell’apostolo è possibile cogliere il messaggio della croce e risurrezione.
Il predicatore diventa così segno vivente del suo messaggio, il segno che la figura di questo mondo passa e il Signore viene a liberarci […].
Ma la povertà deve esprimere al tempo stesso una dedizione a favore del prossimo.
Se si vuole seguire Gesù bisogna essere disposti a dare tutto ciò che si possiede ai poveri.
Come la povertà di Gesù sta a esprimere il suo amore per gli uomini – «Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9) – così anche la povertà dei discepoli serve ad amare tutti gli uomini, ma soprattutto i più poveri, come fratelli e sorelle di Gesù.
La povertà porta alla solidarietà con i poveri, a una maggior solidarietà nell’amore.
Soltanto chi è povero può essere davvero amico dei poveri, dei piccoli, degli emarginati […].
Dovremo allora porci una seria domanda: nella comunità i poveri sono anche i ‘prediletti’, come lo sono stati per Gesù, o, invece, lo sono i ricchi i ‘ben educati’, i ‘più validi’ e ‘distinti’, quelli con i quali è possibile ‘dialo-  gare’? Chi rappresenta il particolare oggetto del nostro interesse e del nostro amore? (G.
GRESHAKE, Essere preti.
Teologia e spiritualità del ministero sacerdotale, Brescia 1984,193s.).
  Vendere il cuore al denaro «Avere dei soldi non è un male, ma vendere il proprio cuore al denaro è una tragedia, perché, ovunque sia il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore.
Se date il vostro cuore alle cose di questo mondo, presto inizierete a competere con gli altri per ottenere tutto il possibile.
Incomincerete ad accendere la candela ad entrambe le estremità pur di avere sempre di più.
Questa è la strada giusta se volete farvi venire la pressione alta e l’ulcera, se volete diventare ansiosi e depressi.
Se scegliete di percorrere questa strada, finirete per essere tentati di ingannare, raggirare e scendere a compromessi con la vostra integrità, pur di fare del “denaro facile” o di concludere un “grande affare”».[…] La conclusione è la seguente: non posso pronunciare il mio «sì» d’amore in risposta all’invito di Dio senza pronunciare un «sì» d’amore agli altri; mi è impossibile amare Dio senza amare gli altri, così come agli altri è impossibile amare Dio senza amare me».
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 89-90).
  Preghiera Signore, abbiamo compreso con la parola tagliente e vera, che oggi ci hai donato, che l’essenziale della vita non è confessarti a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri e per quelli che sono stati favoriti dalla vita.
Questo significa fare la volontà del Padre tuo, vivere di te, forse anche da parte di coloro che non ti conoscono bene.
Signore Gesù, tu ti identifichi con i perseguitati, con i poveri, con i deboli.
Tu ci hai dato un esempio chiaro di vita, che hai racchiuso nel vangelo e specie nelle beatitudini pronunciate sul Monte.
Il segno che è arrivato il tuo regno si trova nel fatto che in te l’amore concreto di Dio raggiunge i poveri, gli emarginati, non a causa dei loro meriti, bensì in ragione stessa della loro condizione d’esclusi, d’oppressi, perché tu sei dio e perché questi che sono considerati ultimi sono i primi “clienti” tuoi e del Padre tuo.
Aiutaci, Signore, a capire che trascurare quest’amore concreto per i poveri, i forestieri, i prigionieri, coloro che sono nudi o che hanno fame, significa non vivere secondo la fede del regno ed escluderli dalla sua logica.
Mancare all’amore è rinnegare te, perché i poveri sono tuoi fratelli e lo sono appunto a motivo della loro povertà.
Facci capire fino in fondo che essi sono il luogo privilegiato della tua presenza e di quella del Padre tuo celeste.
        * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte seconda, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
   XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Amos 6,1.4-7          Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla.
Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.
Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.
       v La insipienza del ricco bollata nel Vangelo ha avuto, purtroppo, tanti modelli prima, e troverà ancora tanti imitatori.
     Il tempo di Amos (VIII secolo a.C.) conosce un boom di benessere che alcuni fortunati ritrovamenti archeologici hanno potuto documentare: letti d’avorio (cf.
v.
4), case estive, (cf.
3,75), sfacciata ricchezza.
A fronte di un florido benessere per pochi, sta la povertà o la miseria per molti.
Non è ammissibile una simile sperequazione.
Lo squilibrio sociale è indice di uno squilibrio morale.
     La parola del profeta, scarna e rude perché viene da un pastore avvezzo ad una vita essenziale, giunge chiara e forte, tagliente e impietosa.
Se alcuni si danno alla ‘bella vita’, dilettandosi nel dolce far niente, nelle gozzoviglie e nei piaceri, altri sono abbandonati a se stessi.
La descrizione del lusso e della irresponsabilità della classe dirigente non ha eguali in tutto l’A.T.
Amos sferza coloro che non si rendono conto di andare verso il baratro, e non si curano della «rovina di Giuseppe», cioè della situazione disperata e tragica del paese, ormai allo sfascio politico, sociale e religioso.
     La rovina, imminente e ormai palpabile, prende il tragico nome di «esilio».
Il quadretto iniziale, quasi ‘da Olimpo’ serve da capo d’accusa per la condanna finale.
Anche qui, come già per il Vangelo, si assiste ad un catastrofico ribaltamento di situazione.
     Il messaggio diventa monito per non perdere tempo in cose fallaci e, in maniera positiva, un invito a scelte coraggiose, capaci di ripristinare un equilibrio.
Finché siamo nel tempo, abbiamo l’opportunità per un rinnovamento, certi che il futuro roseo viene preparato dall’impegno di oggi.
  Seconda lettura: 1Timoteo 6,11-16          Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza.
Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.
Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo.
A lui onore e potenza per sempre.
Amen.
              v Una lettera calda, ricca di paterna attenzione al giovane collaboratore Timoteo, che Paolo si premura di istruire e di indirizzare perché sia una corretta guida della comunità ecclesiale.
Prima di concludere la lettera, l’Apostolo sente il dovere di incoraggiare il caro amico.
Una solenne dossologia suggella il brano e, ormai, tutta la lettera.
     «Uomo di Dio» è l’onorevole titolo con il quale Paolo chiama Timoteo.
Forse è da intendere nel senso che il suo collaboratore è un uomo al servizio di Dio, uno strumento nelle sue mani, così come lo furono gli uomini dell’Antica Alleanza.
L’incoraggiamento dondola su due verbi all’imperativo: «evita», riferito, secondo la maggior parte degli esegeti al contenuto espresso nei vv.
2b-10, e «tendi» («insegui»), inteso nel senso di ricercare con l’intento di ottenere «la giustizia, la pietà, la fede, la carità, la pazienza, la mitezza».
Elencando alcune virtù, sempre a mo’ di esempio, viene affermata l’esigenza di una vita totalmente e radicalmente cristiana.
Parlando di «giustizia» (greco dikaiousyne) non si intende il senso paolino di giustizia divina concessa gratuitamente (cf.
soprattutto Rm e Gal), ma la vita retta che Dio indica.
Con «pietà» si fa riferimento all’esistenza cristiana pratica.
Pertanto, considerando la coppia giustizia-pietà, abbiamo la definizione dell’intera esistenza umana in rapporto a Dio e agli uomini.
L’elenco prosegue poi con virtù che sono specifiche dell’ethos cristiano.
    Segue, al v.
12, una nuova immagine, quella del combattimento, che Paolo usa anche altrove (cf.
1Cor 9,24-27; Fil 3,12-14).
L’uomo di Dio deve affrontare la gara, come un campione e con decisione, per due motivi: per rispondere alla chiamata di Dio e per onorare l’ingaggio.
Si insinua così il vero significato dell’immagine: Paolo richiama alla memoria di Timoteo — e attraverso lui a tutti i cristiani — la conoscenza che la fede viene vissuta nel contrasto, e che la vita eterna va conquistata nella lotta.
Lo sforzo, a cui va l’appello, è aperto alla speranza di conseguire lo scopo mediante la vocazione di Dio.
Oziosi e neghittosi sono categoricamente esclusi dal conseguimento della vita.
Nella chiamata è incluso l’impegno della professione di fede emessa un giorno «davanti a molti testimoni», la quale non può essere tradita.
     Grazie ad un fortunato parallelismo, la professione cristiana di Timoteo davanti a molti testimoni è posta in relazione con la testimonianza che Gesù Cristo ha reso davanti a Pilato.
Cristo è stato il primo a dare una eccellente testimonianza, mediante la sua passione e morte.
Ora spetta a Timoteo mantenersi fedele a quella professione di fede e adempiere i comandamenti di Dio con una condotta di vita irreprensibile.
     Poi il discorso si eleva.
Sembra che Paolo utilizzi il materiale di una antica professione di fede.
La giovane guida della comunità di Efeso deve custodire puro «il comandamento», fino al solenne ritorno di Cristo nella parusia.
Il termine «manifestazione» (in greco epifáneia), secondo alcuni autori, richiama l’idea di una festosa comparsa, quando improvvisa e straordinaria; comunque, di essa non è dato sapere il momento.
Nelle lettere pastorali il termine epifáneia indica la manifestazione di Cristo nel suo trionfo escatologico (cf.
2Tm 1,10; Tt 2,11).
     La sezione si chiude con una dossologia innica, che ricorda quella dell’inizio della lettera (cf.
1,17), e termina in bellezza l’incoraggiamento di Paolo a Timoteo.
In questi versi, di mirabile fattura poetica, sono condensati alcuni attributi divini di derivazione sia biblica che ellenistica.
La dossologia «a lui onore e potenza per sempre.
Amen» pone il sigillo al nostro brano.
Nel suo insieme, ricorre ancora 1Tm 1,17 e 2Tm 4,18.
Qui la gloria è sostituita da forza e potenza.
La cosa è dovuta alla forte sottolineatura del primato di Dio e della sua sovranità nei confronti di ogni presunta divinità imperiale.
Il «per sempre» taglia corto, quasi a dire che «su questo argomento non si potrà mai più tornare, tanto esso è certo e sicuro.
Per le comunità giudeocristiane, il contrario non può che essere blasfemo» (C.
Marcheselli-Casale).
Con la parola «Amen» si chiude il frammento innico.
È una parola che suggella, in questo caso, il nostro impegno.
  Vangelo: Luca 16,19-31          In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti.
Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo.
Morì anche il ricco e fu sepolto.
Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui.
Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti.
Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli.
Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”.
Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”.
E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”.
Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

XXV Domenica Tempo Ordinario Anno C

Preghiere e Racconti   Perché ascoltandole diventino più avveduti Le parole che abbiamo letto sono molto chiare nel loro significato letterale e non c’è bisogno di spiegarne i dettagli.
Ci dice il Signore stesso perché raccontò questa parabola.
Perché, egli dice, i figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce (Lc 16,8).
Il Signore non loda l’agire iniquo dell’amministratore, ma la sua avvedutezza.
Non lo loda per la frode che ha attuato, ma per l’espediente con il quale ha provveduto al suo futuro.
Non sapendo in che modo vivere, poiché non era capace di zappare e si vergognava a mendicare, trovò uno stratagemma particolare: dopo aver dissipato i beni del padrone, alla fine compì questa frode.
Viene lodato, dunque, non per una qualche buona azione, ma per la scaltrezza e l’astuzia del suo inganno; siccome ormai non poteva più rubare i beni del suo padrone, li sottrasse di nascosto.
E a questa scaltrezza non applaude soltanto il padrone dell’amministratore, ma anche il Signore di tutti, quando dice: I figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce.
Quelli sono avveduti nel male più di quanto gli ultimi lo siano nel bene.
A stento, infatti, si trovano alcuni cristiani che siano tanto accorti nell’acquistare i beni eterni, quanto sono scaltri costoro nell’acquistare i beni caduchi di questo mondo.
Per questi essi vegliano giorno e notte, faticano, si angustiano e non smettono mai di accumulare tali ricchezze con inganni, furti, rapine, tradimenti, spergiuri, omicidi.
E chi può dire a quanta scaltrezza e astuzia ricorrano per ingannarsi a vicenda i figli di questo mondo? Ascoltino dunque i figli della luce e arrossiscano di lasciarsi vincere dai figli di questo mondo.
Queste cose sono state scritte perché, ascoltandole, diventino più avveduti, non perché imitando l’agire iniquo dell’amministratore frodino altri o commettano ingiustizie.
Perciò viene aggiunto: E io vi dico: Fatevi degli amici con il mammona d’iniquità (Lc 16,9), ma non come fece l’amministratore iniquo.
Non frodando l’altrui, ma dando del vostro.
Tutte le ricchezze che sono conservate con avarizia, infatti, nuocciono ai propri padroni […] Il Signore continua dicendo: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto e chi è ingiusto nel poco è ingiusto anche nel molto (Lc 16,10).
Questo vale in particolare per gli apostoli e per gli altri ministri della chiesa, per i presbiteri.
Con questo principio evangelico si dice quello che il Signore aveva detto ai suoi discepoli.
Non si devono dunque affidare cose importanti a quelli che nella vita privata non sono stati fedeli e non si sono serviti di quel poco che avevano per opere di amore e di misericordia.
Ma quanto a coloro che vediamo, con il poco che possiedono, provvedere volenterosamente ad altri non dobbiamo dubitare della loro fedeltà nell’amministrare.
Per questo motivo l’Apostolo ammonisce i vescovi a non essere avidi di denaro né a ricercare un guadagno disonesto (cfr.
Tt,7).
(BRUNO DI SEGNI, Su Luca 2,7, PL 165,420C-421C.422A).
La ricchezza Pensiamo all’episodio emblematico del giovane ricco che non riesce a staccarsi dal fasto del suo palazzo per seguire Cristo (Matteo 19,16-26).
La frase paradossale che suggella quell’evento è netta: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli».
Luca, che è l’evangelista dei poveri, offre un intero brano centrato sulla ricchezza «disonesta e iniqua» (16,1 -13).
In esso ricorre al termine mammona per definire quei tesori materiali che occupano cuore e vita dell’uomo.
Si tratta di un vocabolo aramaico che indica i beni concreti, ma che contiene al suo interno la stessa radice verbale della parola amen, che denota la fede.
La ricchezza diventa, quindi, un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona».
Eppure questo non significa un masochismo pauperista.
Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola.
La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).
(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).
Quello che non abbiamo cercato “Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato.
Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui.
La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato.
A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.
(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).
La porta del cielo Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: “Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo.
Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.
Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…
Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.
Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo”.
Chiesi a Dio Chiesi a Dio di essere forte per eseguire progetti grandiosi: Egli mi rese debole per conservarmi nell’umiltà.
Domandai a Dio che mi desse la salute per realizzare grandi imprese: Egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio.
Gli domandai la ricchezza per possedere tutto: Mi ha fatto povero per non essere egoista.
Gli domandai il potere perché gli uomini avessero bisogno di me: Egli mi ha dato l’umiliazione perché io avessi bisogno di loro.
Domandai a Dio tutto per godere la vita: Mi ha lasciato la vita perché potessi apprezzare tutto.
Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo, ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno e quasi contro la mia volontà.
Le preghiere che non feci furono esaudite.
Sii lodato; o mio Signore, fra tutti gli uomini nessuno possiede quello che ho io!” (Kirk Kilgour famoso pallavolista rimasto paralizzato nel ’76 a seguito di un incidente durante un allenamento.
La preghiera è stata letta da lui in persona di fronte al Papa durante il Giubileo dei malati a Roma) Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro? Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi.
Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro.
È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria.
Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.
Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria.
Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza.
Vogliono averne sempre di più.
Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia.
In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro.
Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso.
Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri.
Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri.
Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità.
Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri.
O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano.
Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.
Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro.
Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo.
Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli.
Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente.
Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità.
E sono  necessari criteri etici.
Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici.
Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia.
Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità.
È necessaria soprattutto la libertà interiore.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).
«Una cosa ti manca» In che consiste la tristezza dell’uomo ricco? Nel suo fallire il proprio desiderio, nel lasciarsi vincere dalla paura che lo porta a preferire la sicurezza dei beni all’incertezza della relazione con Gesù, nel chiudersi all’amore, nel precludersi un futuro regredendo nel già noto del suo passato, nel cogliersi in maniera unidimensionale come «uno che ha molto», nel temere la sofferenza della vita interiore e del lavoro di ordinamento della propria umanità a cui Gesù lo invita (Mc 10,18-19).
Quest’uomo è posseduto da ciò che possiede e sembra dar ragione in anticipo a Marx quando scrive: «Più si ha e più è alienata la propria vita».
Proprio in questa condizione di «troppo pieno», di fiducia posta in beni esteriori che arrivano a schiavizzare mentre ci si crede liberi, risiede l’ostacolo che le ricchezze pongono alla salvezza.
Entrare nella relazione con Gesù e dunque nello spazio della salvezza implica il doloroso riconoscimento di un vuoto, di una carenza, di una ferita attraverso cui può farsi strada l’azione salvifica del Signore.
Non a caso l’uomo ricco è rinviato da Gesù a riconoscere la propria povertà interiore e profonda («Una cosa ti manca») e proprio lì egli fallisce: il possesso delle ricchezze dà sicurezza e consente di rimuovere il doloroso lavoro di riconoscere la propria mancanza.
In realtà, dice Gesù, non solo le ricchezze sono un ostacolo, ma la salvezza in quanto tale non è impresa possibile alle sole forze dell’uomo: ogni autosufficienza, di qualunque tipo, ostacola il Regno di Dio.
Ma, certamente, il possibile di Dio può incontrare l’impossibile degli uomini (Mc 10,27).
Quanto ai discepoli, che hanno abbandonato tutto ciò che possedevano per seguire Gesù, a loro è rivolta la promessa di Gesù del centuple quaggiù, insieme a persecuzioni, e la vita eterna.
C’è una benedizione insita nell’abbandonarsi al Signore, ma della promessa del Signore fanno parte anche le persecuzioni, dunque le contraddizioni, le difficoltà.
Se il discepolo sa che esse sono parte integrante della promessa del Signore, allora esse potranno non scoraggiarlo o indurlo ad abbandonare.
I privilegi come debiti La miseria impedisce di essere uomini.
La povertà come la concepisce il Vangelo non è per tutti quella di S.
Francesco d’Assisi, che abbandonò tutto.
Un direttore di azienda può essere povero secondo il Vangelo se ha coscienza che tutti i privilegi sono un debito.
Non è obbligato a proporsi l’ideale di lasciare tutto, ma di fare il suo mestiere, di operare affinché ci sia lavoro e salario giusto per tutti.
Se vive con questo pensiero, egli è povero secondo il Vangelo.
(Abbè Pierre)   Preghiera Signore, quando credo che il mio cuore sia straripante d’amore e mi accorgo, in un momento di onestà, di amare me stesso nella persona amata, liberami da me stesso.
Signore, quando credo di aver dato tutto quello che ho da dare e mi accorgo, in un momento di onestà, che sono io a ricevere, liberami da me stesso.
Signore, quando mi sono convinto di essere povero e mi accorgo, in un momento di onestà, di essere ricco di orgoglio e di invidia, liberami da me stesso.
E, Signore, quando il regno dei cieli si confonde falsamente con i regni di questo mondo, fa’ che io trovi felicità e conforto solo in Te.
(Madre Teresa di Calcutta)     * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
             XXV DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura:  Amos 8,4-7          Il Signore mi disse: «Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: “Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano”».
Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere».
              v  Anche questo oracolo di Amos contro i mercanti disonesti, come il precedente insegnamento di Gesù, colpisce un sistema di ingiustizie ancor più dei singoli casi denunciati.
Destinatari sono coloro che calpestano, fino a soffocarli, i poveri, gli umili della terra.
Calpestatori sono i ricchi commercianti, rapaci e prepotenti.
Calpestati sono coloro che Dio ha più a cuore, come l’orfano, la vedova, l’oppresso (cf.
Is 1,17).
Sono gli umili della terra che Sofonia dirà i più fedeli e osservanti delle disposizioni di Dio e ai quali, per la salvezza di tutto il popolo, domanderà di continuare a cercare JHWH, di cercare la vera giustizia nella fedeltà all’alleanza e di accettare pure la miseria per umile sottomissione a lui (Sof 2,3).
Sono coloro che a sostegno della loro vita pongono la fiducia nel Signore (Sof 3,12), i poveri di JHWH, il vero popolo di JHWH.
     Amos delinea la mentalità e i comportamenti dei mercanti rapaci con un monologo messo loro in bocca, che traduce i loro intimi sentimenti.
Alla radice essi sono insofferenti della religione, se non proprio miscredenti.
Le loro prime espressioni suonano come se dicessero: le celebrazioni religiose ci rovinano gli affari! Il sabato e gli inizi del mese ci bloccano i commerci! Così si manifestano avidi di guadagni assai più che disponibili a Dio e al prossimo.
Di conseguenza sono volutamente imbroglioni, programmando la alterazione di monete e pesi e lo smercio degli scarti, e sono strozzini dei miseri e dei poveri.
È per questi comportamenti, sviluppatisi nelle classi dominanti del periodo monarchico, che i profeti denunciano la ricchezza come pregiudiziale di ingiustizia e anzi di empietà (cf.
Is 53,9), mentre nella condivisione comunitaria del tempo dei Patriarchi e dei Giudici era salutata solo come una benedizione.
     Ma Dio non resta indifferente ai soprusi.
Nell’ultimo versetto del brano, Amos ammonisce che JHWH si impegna con giuramento a non dimenticare le opere dei disonesti sfruttatori, cioè a punirle a suo tempo.
Lo giura per il vanto di Giacobbe.
La espressione non è chiara: può intendersi per l’orgoglio dei corrotti in Giacobbe oppure per l’onore con il quale Dio ha impegnato se stesso con il suo popolo (cf.
Am 6,8 e 1Sam 15,29).
In ogni caso si tratta della vendetta che JHWH farà per riportare la sua giustizia in mezzo al suo popolo.
Amos infatti prosegue annunciando prossimo il terribile giorno del Signore (Am 8,8-14), che sarà tenebre e non luce (Am 5,18).
E colloca il tutto fra le ultime due visioni: quella del canestro di frutta ormai matura che sta per essere staccata dall’albero (Am 8,1-3) e quella dell’abbattimento del santuario sopra i frequentatori indegni, a loro rovina (Am 9,1-4).
  Seconda lettura: 1Timoteo 2,1-8          Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio.
Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità.
Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità.
Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.
                          v A Timoteo, nel primo capitolo di questa lettera, Paolo ricorda la particolare vigilanza verso le deviazioni nella fede, che ha motivato l’incarico affidategli di rimanere a Efeso (cf.
1Tm 1,3).
    Nel secondo capitolo passa alla parte costruttiva e gli raccomanda prima di tutto e a base di tutto la preghiera.
È quanto riportato in questo brano liturgico, che si apre e si chiude con tale raccomandazione.
Paolo si riferisce alla preghiera pubblica liturgica, della quale Timoteo è guida, e anche a quella privata dei fedeli, dovunque si trovino (cf.
v.
S).
E dice come va fatta.                                     Dev’essere universale anzitutto (v.
1), cioè esprimersi in tutte le forme sue proprie (domanda, suppliche, ringraziamenti) e a favore di tutti gli uomini.
Ma in modo particolare deve riguardare i re e i governanti (v.
2), perché siano in grado di garantire il bene comune e uno sviluppo della vita sociale nella pace e nella dignità di tutti.
    Per questo, sia la preghiera sia le cose che essa domanda si ricollegano ai disegni di Dio (vv.
3-4), alla sua volontà che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità.
Per questo ancora la preghiera va stabilita sulla mediazione dell’uomo-Dio Cristo Gesù (vv.
5-6) e più precisamente sul suo mistero di morte e resurrezione per il riscatto di tutti.
    Infine Paolo richiama a incoraggiamento la propria partecipazione al mistero di Cristo (v.
7), tutta opera della grazia che lo ha trasformato da bestemmiatore e persecutore violento ad apostolo e maestro dei pagani (cf.
1Tm 1,12-14).
    Tema del brano è dunque la preghiera.
Ma le dimensioni che Paolo le assegna la pongono alla radice dello sviluppo del nuovo popolo di Dio, quindi anche della giustizia dei poveri di JHWH (prima lettura) e della scaltrezza e affidabilità con le quali i figli della luce hanno da superare i figli di questo mondo (Vangelo).
  Vangelo: Luca 16,1-13          In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi.
Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno.
So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”.
Quello rispose: “Cento barili d’olio”.
Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”.
Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”.
Rispose: “Cento misure di grano”.
Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza.
I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti.
Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.
Non potete servire Dio e la ricchezza».
    Esegesi      Abbiamo qui uno degli insegnamenti di Gesù, che Luca riunisce nei lunghi capitoli dedicati al ministero itinerante dalla Galilea alla Giudea (Lc 9,51-19,27), da lui presentato, più che come un viaggio geografico, come un itinerario formativo dei discepoli, dopo che lo hanno riconosciuto come il Cristo, perché sappiamo seguirlo fino alla croce.
L’insegnamento riguarda il buon uso delle ricchezze materiali e si sviluppa in due momenti: prima un racconto-parabola (vv.
1-8) e poi una serie di massime (vv.
9-73).
     La parabola (vv.
1-8) fa il caso di un amministratore incapace che, denunciato, non cerca scusanti e, costretto a pensare al futuro e ad altre situazioni della vita, si dà subito da fare per non restare travolto.
Per questo, si converte un poco anche all’amore del prossimo, ma perché gli conviene non per altruismo: un amore egoistico dunque.
E lo mette in atto con mezzi illeciti, condonando debiti ingenti a persone forse inguaiate per essi, e diventando pure imbroglione del suo padrone dopo che sperperatore.
Il padrone passa sopra alla disonestà del suo dipendente e ne loda invece la scaltrezza.
Ed è appunto la scaltrezza o avvedutezza l’insegnamento che Ges

XXIV Domenica Tempo Ordinario Anno C

Preghiere e Racconti   Tornare a casa e stare dove Dio dimora (tratto dal libro di Henri J.M.
NOUWEN, L’abbraccio benedicente.
Meditazione sul ritorno del figlio prodigo, Brescia, Queriniana 21994, pp.
212.
Commento spirituale al dipinto di Rembrandt, +1669, attualmente nel museo di San Pietroburgo).
  Il figlio più giovane parte Andarsene da casa è molto più di un evento storico legato al tempo e al luogo.
E’ la negazione della realtà che appartengo a Dio in ogni parte del mio essere, che Dio mi tiene al sicuro in un abbraccio eterno, che sono veramente scolpito nelle palme delle mani di Dio e nascosto alla loro ombra.
Quando dimentico la voce del primo amore incondizionato, altri suggerimenti possono facilmente cominciare a dominare la mia vita e trascinarmi nel “paese lontano”: rabbia, risentimento, gelosia, desiderio di vendetta, sensualità, avidità, antagonismi e rivalità [«ti amo se sei bello, intelligente e ricco.
Ti amo se sei istruito, hai un buon lavoro e le giuste conoscenze.
Ti amo se produci molto, vendi molto e compri molto»] sono i segni evidenti che me ne sono andato da casa.
Il padre non poteva costringere il figlio a rimanere a casa.
Non poteva imporre con la forza il uso amore al prediletto.
Doveva lasciarlo andare in libertà, anche se sapeva il dolore che ciò avrebbe causato sia al figlio che a se stesso.
E’ stato l’amore a impedirgli di trattenere il figlio a casa a tutti i costi.
E’ stato l’amore a consentirgli di lasciare che il figlio vivesse la sua vita, anche a rischio di perderlo.
Sono amato a tal punto che Dio mi lascia libero di andarmene da casa.
La benedizione c’ è fin dall’inizio.
L’ho lasciata e persisto a lasciarla.
Ma il Padre continua a cercarmi sempre con le braccia tese per accogliermi di nuovo e sussurrarmi ancora all’orecchio: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto»   Il ritorno del figlio più giovane Il giovane abbracciato e benedetto dal padre è un uomo povero, molto povero.
L’unico segno di dignità che gli rimane è la piccola spada che gli pende dal fianco, l’emblema della sua nobiltà.
Pur in mezzo alla degradazione, non ha perso del tutto la consapevolezza di essere ancora il figlio di suo padre.
Vedo davanti a me un uomo che se n’è andato lontano in un paese straniero e ha perso tutto ciò che aveva con sé.
Vedo vuoto, umiliazione e sconfitta.
Lui che era tanto simile al padre, ora sembra peggiore dei servi di suo padre.
E’ diventato come uno schiavo.
Il figlio più giovane si rese pienamente conto della sua totale rovina quando più nessuno nel suo ambiente mostrò il benché minimo interesse nei suoi confronti.
Lo avevano tenuto in considerazione soltanto finché era stato utile ai loro interessi.
Ma quando non ebbe più denaro da spendere e doni da fare, per loro cessò di esistere.
E’ difficile immaginare cosa significhi essere un individuo del tutto estraneo, una persona cui nessuno mostra un qualche segno di riconoscimento.
La vera solitudine arriva quando non si riesce più a sentire di avere delle cose in comune.
Ogni volta che incontro una persona nuova, in lei cerco sempre qualcosa che si possa avere in comune.
Meno abbiamo in comune, più difficile è stare insieme e più ci sentiamo alienati.
Il figlio più giovane si era talmente sradicato da ciò che dà vita, -famiglia, amici, comunità, conoscenti, e persino vitto-, che si rese conto che la morte sarebbe stata il fatale prossimo passo.
In quel momento critico, quale molla lo fece optare per la vita? Fu la riscoperta della parte più profonda di se stesso: rimanere sempre il figlio del proprio padre.
E’ stata la perdita di ogni cosa a portarlo alla radice della sua identità.
Quando si è trovato a desiderare di essere trattato come uno dei porci, si è reso conto di non essere un porco, ma un essere umano, un figlio di suo padre.
Dio dice: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui…”.
Vogliamo accettare il rifiuto del mondo che ci imprigiona oppure rivendicare la libertà dei figli di Dio? A noi scegliere.
Quando Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine, vide che quanto aveva fatto «era cosa molto buona», e, nonostante le voci oscure, né uomo né donna potranno mai cambiare quell’evento.
Nella strada di ritorno non preparare sceneggiature [«mi leverò e andrò da mio padre…»] devo semplicemente credere che anche se i miei fallimenti sono grandi «la grazia è ancora più grande».
Una delle più grandi provocazioni della vita è ricevere il perdono di Dio.
C’ è qualcosa in noi, essere umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo.
Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie tenebre sono troppo grandi per essere dissolte.
Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò da garzone.
Ma voglio davvero essere totalmente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova?    Il figlio maggiore parte Non si è perduto soltanto il figlio più giovane, che se n’ è andato da casa per cercare libertà e felicità in un paese lontano, ma anche quello che è rimasto.
Esteriormente faceva tutte le cose che si suppone faccia un bravo figlio, ma, interiormente, si era allontanato da suo padre.
Faceva il proprio dovere, lavorava sodo ogni giorno e adempiva tutti i suoi obblighi, ma era diventato sempre più infelice e meno libero.
[Sono nato, battezzato, cresimato nella Chiesa e sono stato obbediente ai miei genitori, insegnanti e al mio Dio.
Non sono mai scappato di casa, non ho mai sprecato il mio tempo e il mio denaro nella ricerca del piacere e non mi sono mai perduto in «dissipazioni e ubriachezze».
Per tutta la vita sono stato piuttosto responsabile, tradizionalista e legato alla famiglia.
Ma, con tutto ciò, posso in realtà essermi perduto proprio come il figlio più giovane.
Ho visto la mia gelosia, la mia rabbia, la mia permalosità, la mia caparbietà, il mio astio e soprattutto la sottile convinzione di essere sempre nel giusto.
Ero certo il figlio maggiore, ma perduto come il fratello minore, anche se ero rimasto a casa tutta la vita.
Avevo lavorato moltissimo nell’azienda agricola di mio padre, ma non avevo mai gustato pienamente la gioia di essere a casa].
Nel lamento del figlio maggiore [«ecco, ti ho servito da tanti anni…»] l’obbedienza e il dovere sono diventati un peso e il servizio è una schiavitù.
Il figlio giovane ha peccato in un modo che possiamo facilmente identificare.
Abbiamo un tipico fallimento umano, piuttosto facile da comprendere e compatire.
Lo smarrimento del figlio maggiore è molto più difficile da identificare.
Dopo tutto, faceva le cose perbene.
All’esterno era irreprensibile.
Ma, di fronte alla gioia del padre al ritorno del fratello più giovane, una forza oscura erompe in lui e ribolle in superficie.
Improvvisamente emerge una persona rimasta nascosta nel subconscio, anche se si era fatta sempre più forte e operante nel corso degli anni.
Dall’esperienza della mia vita, so con quanto zelo ho cercato di essere buono, ben accetto, amabile e di buon esempio agli altri.
Mi sono sforzato, in modo cosciente, di evitare le insidie del peccato e ho sempre avuto paura di cedere alla tentazione.
Ma nonostante questo, sono subentrati una severità e un fervore moralistici, -e perfino un tocco di fanatismo- che mi hanno reso sempre più difficile sentirmi a casa nella casa di mio Padre.
Sono diventato meno libero, meno spontaneo, meno allegro, e gli altri hanno finito per vedermi sempre più come una persona piuttosto “pesante”.
E’ il lamento che grida: «Ho faticato tanto, ho lavorato a lungo, mi sono dato sempre da fare e ancora non ho ricevuto quello che altri ottengono tanto facilmente.
Perché la gente non mi ringrazia, non mi invita, non si diverte con me, non mi rende omaggio, mentre presta tanta attenzione a coloro che prendono la vita con disinvoltura e noncuranza?».
E’ difficile vivere accanto a qualcuno che si lamenta e pochissime persone sanno come rispondere a chi rifiuta se stesso.
La tragedia è che spesso le lamentale, una volta espresse, conducono a ciò che più si teme, e cioè a un ulteriore rifiuto.
Ogni volta che ci lamentiamo per non saper accettare noi stessi, perdiamo la spontaneità al punto che non riusciamo più a lasciarci coinvolgere dalla gioia che è intorno a noi.
Gioia e risentimento non possono coesistere.
  Il ritorno del figlio maggiore Anche il figlio maggiore ha bisogno di essere ritrovato e ricondotto alla casa della gioia.
Che io sia il figlio minore o il figlio maggiore, l’unico desiderio di Dio è di portarmi a casa.
Arthur Freeman scrive: «Il padre ama ogni figlio e dà ad ognuno la libertà di essere ciò che vuole, ma non può dar loro la libertà che non si sentiranno di assumere o che non comprenderanno adeguatamente.
Il padre sembra rendersi conto, al di là dei costumi della società in cui vive, del bisogno dei propri figli di essere se stessi.
Ma egli sa anche che hanno bisogno del suo amore e di una “casa”.
Come si concluderà la storia dipende da loro.
Il fatto che la parabola non abbia finale garantisce che l’amore del padre non dipende da una conclusione appropriata del racconto.
L’amore del padre dipende solo da lui e fa esclusivamente parte del suo carattere.
Come dice Shakespeare in uno dei suoi scritti: “L’amore non è amore se muta quando trova mutamenti”».
  Il padre La risposta libera e spontanea del padre al ritorno del figlio più giovane non implica alcun confronto con il figlio maggiore.
Al contrario, desidera ardentemente farlo partecipare della sua gioia.
Il nostro Dio non fa paragoni.
Il cuore del padre va incontro ai due figli; li ama entrambi; spera di vederli insieme come fratelli intorno alla stessa tavola; vuole che sentano che, per quanto diversi, appartengono alla stessa casa e sono figli dello stesso padre.
Il padre quasi cieco vede un intero orizzonte.
La sua è una vista che comprende lo smarrimento de donne e uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che capisce con compassione immensa la sofferenza di coloro che hanno scelto di andarsene da casa, che ha pianto un mare di lacrime quando si sono trovati nell’angoscia e nel dolore.
Il cuore del padre arde del desiderio di riportare i figli a casa.
Come avrebbe voluto parlare loro, metterli in guardia contro i tanti pericoli che avrebbero affrontato e convincerli che a casa si può trovare tutto quello che  cercano altrove! Quanto avrebbe voluto trattenerli con la sua autorità paterna e tenerli vicino a sé perché non si facessero del male! Ma il suo amore è troppo grande per comportarsi così.
Non può forzare, costringere, spingere o trattenere.
L’immensità del amore costituisce anche la sua sofferenza.
Tanto profondo è il dolore perché tanto puro è il cuore.
Dal profondo luogo interiore dove l’amore abbraccia tutto il dolore umano, il Padre raggiunge i suoi figli.
Dio ci ama prima che qualunque essere umano possa mostrarci amore.
Non sarebbe bello aumentare la gioia di Dio lasciandomi trovare e portare a casa da lui e celebrare insieme il mio ritorno? Non sarebbe meraviglioso far sorridere Dio dandogli la possibilità di trovarmi e amarmi prodigalmente? So accettare che sono degno di essere cercato? Credo che Dio desideri davvero stare soltanto con me?   Il padre esige che si faccia festa Mentre il figlio si è preparato ad essere trattato come un garzone, il padre esige che gli venga dato il vestito riservato agli ospiti di riguardo.
Il padre veste il figlio con i simboli della libertà, la libertà dei figli di Dio.
Dio vuole fare festa con noi.
Questo invito al banchetto è un invito all’intimità con Dio.
Dio si rallegra.
Non perché i problemi del mondo sono stati risolti, non perché tutto il dolore e la sofferenza umani sono giunti alla fine, e nemmeno perché migliaia di persone si sono convertite e ora lo stanno lodando per la sua bontà.
No, Dio di rallegra perché uno dei suoi figli che era perduto è stato ritrovato.
Ciò a cui sono chiamato è partecipare a quella gioia.
E’ la gioia di vedere un figlio che cammina verso casa.
Quando ancora sei lontano, vede e ti corre incontro Padre, dice il figlio minore.
Quale misericordia, quale tenerezza in colui che, pur essendo stato offeso, non rifiuta di sentirsi dare il nome di padre! Dice il figlio: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te (Lc 15,18) […] Così diceva dentro di sé il figlio.
Ma non basta parlare se non vieni al Padre.
Dove cercarlo, dove trovarlo? Innanzitutto alzati! Lo dico per chi stava seduto e dormiva.
Per questo l’Apostolo dice: Alzati, o tu che dormi, e levati di tra i morti (Ef 5,14) […] Alzati, vieni di corsa in chiesa: qui c’è il Padre, qui c’è il Figlio, qui c’è lo Spirito santo.
Ti corre incontro colui che ti sente conversare nel segreto del tuo cuore.
Quando ancora sei lontano, vede e ti corre incontro.
Vede nel tuo cuore, corre perché nessuno ti trattenga e per di più ti abbraccia.
Nel suo correre incontro vi è la sua prescienza, nell’abbraccio la misericordia e, vorrei dire, vi sono i sentimenti del suo amore paterno.
Si getta al collo di chi è caduto per rialzarlo e perché si volga al cielo a cercare il suo Creatore colui che è oppresso dai peccati e chino verso le cose terrene.
Cristo ti si getta al collo per toglierti dalla nuca il giogo della schiavitù e porre sul tuo collo il giogo soave (cfr.
Mt 11,30).
Non vi sembra che si sia gettato al collo di Giovanni, quando questi riposava sul petto di Gesù, con la testa rivolta all’indietro? E così il Verbo che era presso Dio vide (cfr.
Gv 1,1), poiché era rivolto alle altezze.
Il Signore vi si getta al collo quando dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e io vi darò riposo; prendete su di voi il mio giogo che è leggero» (cfr.
Mt 11,28-30).
(AMBROGIO, Sul vangelo di Luca 7, 224.229-230, SC 52, pp.
93-95).
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
 XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Esodo 32,7-11.13-14          In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito.
Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”».
Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce.
Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori.
Di te invece farò una grande nazione».
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”».
Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.
       v  Questa lettura viene oggi utilizzata per introdurre il tema più ampiamente sviluppato nella lettura evangelica: quello della misericordia di Dio, che rinunzia a punire il popolo, responsabile di un gravissimo peccato, grazie all’intercessione di Mosé.
     Il racconto del vitello d’oro, che gli Israeliti avrebbero costruito per raffigurare il Dio che li aveva tirati fuori dall’Egitto, appartiene a una sezione del libro dell’Esodo (quella dei cc.
32-34) in cui si intrecciano in maniera inestricabile le tradizioni più antiche del Pentateuco.
In particolare, il racconto del vitello d’oro della nostra lettura pare che derivi direttamente dal testo di 1 Re 12,26-28, dove si racconta come Geroboamo, che si era ribellato al figlio di Salomone, di ritorno dall’Egitto, per spezzare ogni vincolo tra le tribù ribelli settentrionali e Gerusalemme, fece fare due torelli d’oro e disse: «Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto» (v.
28).
Questa dipendenza può spiegare pienamente l’identità della stessa frase nella nostra lettura (v.
4).
     La colpa qui attribuita agli Israeliti è quella di essere scivolati verso l’assimilazione con i popoli pagani loro contemporanei: con i Cananei, che rappresentavano Bahal-Hadad, dio della tempesta, a cavalcioni su un toro, con una folgore in mano; con gli Egiziani, che a Heliopolis rappresentavano Osiride incarnato nel toro-Apis e a Menfi adoravano il toro-Mnevis nel tempio di Ptah.
     Per la nostra liturgia, sono particolarmente importanti i vv.
13-14, nei quali Mosé, nella figura dell’intercessore, espone la ragione principale che può indurre Dio a perdonare quella colpa: la promessa da lui fatta, con giuramento, ai suoi servi Abramo, Isacco e Giacobbe (Israele).
  Seconda lettura: 1Timoteo 1,12-17          Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento.
Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io.
Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.
Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli.
Amen.
              v Nel tempo ordinario, la seconda lettura è indipendente dalle altre due, che sono invece tra loro coordinate.
Non accade spesso dunque che il tema di quella si armonizzi perfettamente, con quello delle altre due.
Ciò capita per l’appunto questa domenica.
L’autore della prima a Timoteo (che quasi certamente non è lo stesso s.
Paolo) traccia, nel brano che fa da nostra seconda lettura, il modello ideale di un pubblico rendimento di grazie alla divina misericordia, che vuole salvi tutti i peccatori.
     Il motivo del ringraziamento, che faceva parte del protocollo epistolare antico, è qui sviluppato mediante il procedimento dell’antitesi tra il prima e il dopo dell’incontro di Paolo con Cristo.
Almeno in tre passi delle lettere autentiche di Paolo è tracciato un analogo passaggio tra il prima e il dopo: In Gal 1,13-17; in 1 Cor 15,8-10; in Fil 3,6-14.
Ma in nessuno di questi testi il passato di Paolo è descritto come privo di fede e peccaminoso (un bestemmiatore…); che anzi sempre si insiste sul suo zelo per Dio e la sua legge.
È invece negli atti degli Apostoli (9,1-16; 22,1-15; 26,9-18) che il prima di Paolo è qualificato negativamente, come quello di un bestemmiatore e del persecutore spietato, che repentinamente, dopo, diventa strumento scelto per il Vangelo di Gesù.
Il ritratto di Paolo qui delineato è dunque più vicino a quello che di lui è tracciato nel libro degli Atti, anziché al suo stesso autoritratto.
Anche l’espressione «agivo per ignoranza, lontano dalla fede» riporta Paolo alla condizione dei pagani che, secondo Atti 17,30, appartenevano «ai tempi dell’ignoranza».
La descrizione a tinte fosche serve all’autore della prima a Timoteo per mettere in risalto la misericordia di Dio, manifestatasi mediante la grazia di Gesù Signore nostro.
Serve soprattutto per giungere all’enunciazione di una specie di professione di fede, ritenuta «degna di fede e di essere accolta da tutti», cioè che «Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori».
    Questa succinta professione di fede sintetizza bene il principale messaggio contenuto nella liturgia di questa domenica.
  Vangelo: Luca 15,1-32          In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.
I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”.
Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”.
Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”.
Ed egli divise tra loro le sue sostanze.
Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.
Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci.

L’intima mano.

EMANUELE SEVERINO, L’intima mano.
Europa, filosofia, cristianesimo e destino, Adelphi 2010, pp.
179 euro 26,00 L’ultimo libro di Emanuele Severino, pubblicato da Adelphi e del quale anticipiamo in questa pagina un brano, si intitola L’intima mano.
Europa, filosofia, cristianesimo e destino (pp.
188, 26).
Cosa significa «intima mano?».
Per meglio comprendere tale locuzione occorre ritornare al giorno di Natale del 1784, quando Herder visitando Goethe gli donò gli Opera postuma di Spinoza.
E proferì queste parole: «Rechi oggi il santo Cristo in dono di amicizia il santo Spinoza».
Il gesto era carico di significati, anche perché il filosofo ebreo odiato e dimenticato per oltre un secolo stava per essere riscoperto dall’idealismo tedesco, a cominciare da Jacobi, Fichte, Schelling, Hegel, in un crescendo che porterà decenni più tardi Nietzsche a vedere in lui il pensatore «più vicino».
Herder aggiunse: «Quale intima mano congiunge i due in uno?».
In questa raccolta di scritti «molto organizzati», Severino si propone di «andare più a fondo della risposta a cui Herder può aver pensato»; ovvero rilevare che il legame tra Cristo e Spinoza accomuna anche tutte le grandi opposizioni dell’Occidente (illuminismo e coscienza religiosa, Cristo e demonio nel dialogo del Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov eccetera).
Sottolinea che non si può distruggere nulla senza creare qualcosa, e che il produrre distruggendo è anche alla radice della teologia di Cristo, «creatore e distruttore».
Questo ultimo libro esce nel primo anniversario della scomparsa di Esterina, la moglie di Severino, che cade il 5 settembre.
Ma a lei il filosofo dedicherà un saggio a cui sta lavorando da quattro anni, che sarà ultimato entro la fine del 2010, nel quale svilupperà la linea primaria del suo discorso, accanto a Destino della necessità (1980), La gloria (2001), Oltrepassare (2007).
Intanto si registra una incessante pubblicazione di studi sul suo pensiero, mentre la Morcelliana in ottobre riproporrà le lezioni universitarie tenute alla Cattolica di Milano nel 1968.
Severino confessa di sentirsi in debito rispetto a molti interlocutori, soprattutto con Carlo Scilironi (Università di Padova) e Andrea Tagliapietra (San Raffaele).
E ora invita a riflettere su questa «intima mano» che unisce le molte opposizioni dando loro un’unità.
Il libro — al quale ha atteso anche in ospedale, durante gli ultimi giorni della moglie Esterina — è un tentativo di configurare la struttura di fondo degli antagonisti.
Dio crea Adamo e Adamo vuole distruggere Dio mangiando la mela: creazione distruttiva; Dio è d’accordo con Adamo e il serpente.
Del resto, negli scritti di Severino «l’intima mano» è anche la Follia estrema che oggi domina l’intero pianeta.
di Armando Torno in “Corriere della Sera” del 3 settembre 2010

XXIII Domenica Tempo Ordinario Anno C

XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Sapienza 9,13-18          Quale, uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni.
A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito? Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza».
       v È un brano della preghiera di Salomone per ottenere la sapienza.
Lo spunto è preso dai testi di 1Re 3,6-9 e 2Cr 1,8-10, in cui il Signore invita Salomone a fargli delle richieste che egli avrebbe esaudite e questi non chiede lunga vita, né ricchezza, né la morte dei suoi nemici, ma domanda solo la saggezza per governare bene il suo popolo.
Questa richiesta piace al Signore, che l’esaudisce donandogli il discernimento.
     La strofa della preghiera che viene letta in questa domenica insiste sul tema della debolezza umana e ha al suo centro ancora la richiesta della sapienza (v.
17).
I progetti del Signore infatti per la vita dell’uomo sono celesti e si possono comprendere solo con uno spirito che viene dall’alto.
Solo con il dono del discernimento l’uomo può percorrere la via che lo conduce alla salvezza.
Senza il dono della sapienza e dello spirito, considerato come fonte di rinnovamento e di vita interiore, non è possibile per l’uomo conoscere la volontà di Dio e trovare la vita.
     Questo tipo di sapienza non si ottiene con i propri sforzi: può essere solo invocata dall’alto.
      Seconda lettura: Filemone 1,9-10.12-17          Carissimo, ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù.
Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene.
Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore.
Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo.
Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario.
Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.
Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.
                          v La lettera a Filemone conta in tutto 25 versetti: è la più breve dell’epistolario paolino.
Paolo parla di se stesso come prigioniero per Gesù Cristo.
Forse si trova a Roma, perché la sua situazione non è molto dissimile all’arresto domiciliare romano descritto in Atti 28.
L’apostolo chiede a Filemone di accogliere lo schiavo Onesimo, che era fuggito dal padrone — forse per malefatte — non più come schiavo ma come fratello nel Signore.
Dice di averlo generato, perché Onesimo era diventato cristiano per opera sua durante la prigionia.
Paolo non contesta la validità giuridica e sociale della schiavitù.
Inserendo però in quella tremenda struttura lo spirito del vangelo, la faceva scoppiare dal suo interno.
  Vangelo: Luca 14,25-33          In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù.
Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
    Esegesi      Gesù sta parlando alle folle e indica loro quali siano le condizioni per seguirlo e per essere suoi discepoli.
Egli vuole essere scelto come l’assoluto e determinante nella vita del discepolo.
     Chi vuole seguire la vita di Cristo deve «non amare» il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle.
Gesù ha spiegato con la vita che cosa significhi.
Ecco le sue parole alla madre e al padre quand’era ancora ragazzo: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49).
E durante la vita pubblica: «mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21).
Solo chi è veramente libero da ogni affetto che lo trascini a adorare gli idoli dei genitori, dei parenti e degli amici, può mettersi in cammino con Gesù Cristo.
     Una seconda condizione è odiare la «propria vita».
I progetti di Gesù sulla vita del discepolo sono sempre sorprendenti.
Solo chi è disposto a lasciare che i propri progetti vengano sconvolti può mettersi in cammino con lui.
     La terza condizione è «portare la propria croce».
La croce è il simbolo della storia concreta e personale di ogni uomo e donna chiamati a seguire Gesù.
Significa vincere ogni giorno la seconda tentazione che Gesù ha avuto all’inizio della vita pubblica, quella di chiedere miracoli a Dio, perché si è scontenti della propria situazione familiare, sociale, ecclesiale.
Non è possibile seguire Gesù mormorando continuamente nel proprio cuore come la generazione testarda del deserto.
     Quarta condizione: «rinunciare a tutti i propri averi».
Gesù è il vero figlio d’Israele che ha compiuto le esigenze del credo ebraico recitato ogni giorno, lo shemà, in cui si dice di amare Dio con tutte le forze, o meglio — secondo traduzione aramaica del tempo — con tutto mammona.
Anche il discepolo, che vuole seguire Gesù, diventerà un vero figlio d’Israele, se amerà Dio rinunziando a tutti i propri averi.
Si farà così un tesoro nel cielo e allora anche il suo cuore sarà nel cielo, ma solo da lì discende la vita vera, e la felicità piena.
  Meditazione      La sapienza come coscienza della alterità del volere di Dio rispetto al volere umano per poter abitare la distanza fra uomo e Dio (I lettura) e rendere praticabile l’«impossibile sequela» del Cristo (vangelo): questa può essere colta come tematica unificante le letture odierne.
La sapienza evangelica consiste nel calcolare ciò che non è calcolabile e predisporsi con libertà e amore alla rinuncia radicale che sola consente la sequela Christi.
     «In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù.
Egli si voltò e disse loro:  …» (Lc 14,25 ss.).
La quantità, il numero, non incanta Gesù, anzi lo preoccupa.
Gesù non esita a mettere in guardia i tanti che lo seguono ponendoli di fronte alle esigenze dure della sequela e quasi scoraggiandoli.
Dovrebbe preoccuparci il fatto che questa preoccupazione di Gesù non sia la nostra e che noi ci preoccupiamo proprio del contrario, del numero basso, della scarsità dei praticanti.
A costo di perdere aderenti, Gesù non esita a proclamare con vigore la durezza delle esigenze della sequela.
L’esigenza non va edulcorata illudendo circa la facilità della sequela.
Seguire Gesù forse è semplice, ma certamente non è facile.
Anzi, Gesù per tre volte (Lc 14,26.27.33) parla di una impossibilità: «Non può essere mio discepolo».
Vi sono condizioni da ottemperare, pena il fallimento della sequela, la sua impraticabilità.
     Anzi, in fondo non vi è che una esigenza imprescindibile che si situa sul piano della relazione con Gesù, il Signore («viene a me», «mio discepolo», «viene dietro a me») e non sul piano delle prestazioni.
La sequela richiede, come istanza basilare, di rivolgere al Signore tutto il cuore: essa è un evento nell’ordine dell’amore, e l’amore è un lavoro, una fatica, un’ascesi.
Evento di amore, la sequela è, simultaneamente, evento di libertà.
Le esigenze della sequela che Gesù pone al discepolo sono la necessaria pedagogia verso la libertà e l’amore.
     I legami famigliari (Lc 14,26), il possesso di beni (Lc 14,33), l’attaccamento stesso alla «propria vita» (Lc 14,26) sono chiamati a vedere regnare il Signore su di essi.
Si tratta di amare il Signore con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze.
E se l’amore è questione di spazio interiore, di far spazio all’altro, allora esso si nutre della preziosità del vuoto, della ricchezza della mancanza, della grazia della carenza.
Al contrario, il possesso, colmandoci, ci ottura interiormente, ci sazia, ci chiude in noi stessi, ci rende preoccupati di noi stessi, impedendoci di riconoscere la povertà profonda che è lo spazio aperto all’accoglienza dell’amore.
Il carattere esigente della sequela di Gesù è connesso alla difficoltà di apprendere l’arte di amare, ed è connesso al nostro preferire la facilità del possedere cose alla fatica della libertà e dell’amore.
Gesù chiede ai suoi seguaci di porre al cuore delle relazioni con le persone a loro care la relazione con lui.
Ma questo significa porre al cuore del nostro cuore la relazione con il Signore.
Insomma, le esigenze della sequela sono le esigenze dell’amore.
     La sequela è esigente perché il discepolo è chiamato non solo a iniziare, ma anche a portare a compimento (Lc 14,28.30).
Come per costruire una torre o affrontare una battaglia vi è un indispensabile, così anche per la sequela.
Ma l’indispensabile per la sequela è la disponibilità a perdere tutto, non solo i beni, ma anche «la propria vita» (Lc 14,26).
Il bene da possedere è la rinuncia ai beni e l’arte da imparare è l’arte di perdere, di diminuire, di non cadere nelle maglie del possesso, della logica dell’avere.
Gesù «svuotò se stesso» (Fil 2,7); «Dio è Dio perché non ha niente» (Barsanufio).
Occorre libertà e leggerezza per condurre a termine il lungo cammino della vita percorso come sequela di Cristo.
L’amore è chiamato a divenire responsabilità e la libertà perseveranza: lì si situa la necessaria rinuncia, purificazione, spogliazione.
Le esigenze della sequela hanno dunque a che fare con il tutto della persona (il suo cuore) e con il tutto del suo tempo, con la durata della sua vita.
E ci mettono in guardia dal rischio di lasciare a metà l’opera intrapresa.
     Preghiere e Racconti   La rinuncia a se stessi Quando una situazione umana ci chiede una totale rinuncia a noi stessi, istintivamente cerchiamo il compromesso o semplicemente imbocchiamo la strada della fuga; ci accomuniamo agli apostoli, che anch’essi sono fuggiti di fronte al realismo della Passione di Gesù.
A tanti livelli e su tanti piani dobbiamo cercare di smascherare le forme di fuga che caratterizzano il nostro preteso “servizio agli altri”.
Quante volte a livello della famiglia, ci lasciamo andare alla ricerca soltanto della gratificazione, dell’affermazione di noi stessi e non accettiamo le persone che ci sono vicine, così come sono, nella loro realtà; le vorremmo sempre diverse e ci arrovelliamo? Quante volte nell’ambito professionale ci lasciamo trascinare solo dall’interesse e non cerchiamo di rendere un servizio fino in fondo, servizio che ci chiede di uscire da noi stessi, di prendere parte in qualche modo alla croce e di partecipare alla sua forza rivelatrice? Quante volte di fronte alle richieste che i nostri fratelli avanzano, noi manifestiamo disagio, stizza, rifiuto? Ecco: tante realtà semplici della nostra vita quotidiana in cui Gesù dalla croce ci chiede di operare una profonda conversione, di metterci davvero in ginocchio davanti alla croce per coglierne il realismo e la fedeltà che cambiano la vita.
Donarsi a tutti non appartenendo a nessuno Il sacerdote deve amare tutti non appartenendo a nessuno.
Un modo di sentire che non rientra nella percezione comune.
Si tratta di amore che prevede di darsi senza ricevere un amore simmetrico, perché la mercede egli la ottiene non dall’amore umano ma da quello divino.
Sembra una scissione innaturale dell’amore, che prevede nella dinamica umana la partecipazione simultanea.
Io ti amo perché mi ami, e sento di doverti amare sempre più, perché tu possa voler bene ancora di più.
Quello del sacerdote è invece un amore gratuito, che manca della parte che proviene dall’altro.
E per questo egli giunge ad amare anche chi non lo ama, chi lo ignora, persino chi lo detesta.
Si tratta di un paradosso che però è ben rappresentato nella figura di Cristo, che non solo ha detto di amare anche i nemici e di perdonare chi ci ha procurato danno e dolore, ma addirittura di porgere l’altra guancia per essere pronti a ricevere un altro affronto, un’altra mortificazione.
Del danno ingiustamente subito si offre il pieno perdono e la totale comprensione fino a stabilire che la violenza non fa parte mai della risposta del sacerdote, perché egli non fa altro che imitare Cristo, che così ha detto e così ha mostrato di fare.
[…] Non vi è dubbio che questa condizione d’amore è difficile, ma il sacerdote è anche consapevole di potersi fondare sulla forza di un amore ideale, di un amore verso Dio.
La parola “ideale” è probabile che sia inadatta, ma interpreta il concetto psicologico di sublimazione dell’amore in idee e in immagini astratte e dunque il trasferimento di un amore carnale in uno puramente spirituale, si potrebbe dire platonico.
Una dimensione che nel sacerdote raggiunge però espressioni concrete (incarnate), perché il Dio a cui si lega, parla, quel Dio è presente, quel Dio vive con lui quotidianamente.
È importante che tutto ciò sia reale e non una congettura, non uno spostamento, non solo una sublimazione, che rimanderebbe sempre al problema della mancanza d’amore umano.
I meccanismi di difesa non permettono mai di risolvere il bisogno d’amore di cui il sacerdote deve essere consapevole, ma anche esperimentare che l’amore che riceve dalla comunità e da Dio valgono la rinuncia insita nella scelta sacerdotale.
Del resto Cristo ha mostrato di essersi dedicato tutto all’amore per gli uomini sostenuto dall’amore grandissimo del Padre.
(Vittorino ANDREOLI, Preti, Milano, Piemme, 2009, 82-83; 86).
Svuotamento Un maestro di sapienza e di spiritualità, noto per la saggezza delle sue dottrine, ricevette la visita di un professore universitario, che era andato da lui per interrogarlo sul suo pensiero.
Il saggio servì del tè: colmò la tazza del suo ospite e poi continuò a versare, con espressione serena e sorridente.
Il professore guardò traboccare il tè, tanto stupefatto da non riuscire a chiedere spiegazione di una distrazione così contraria alle norme più elementari della buona educazione.
Ma a un certo punto non poté più contenersi: «È ricolma! Non ce ne sta più», gridò con agitazione.
«Come questa tazza», disse il saggio imperturbabile, «tu sei ricolmo della tua cultura, delle tue opinioni e congetture erudite e complesse.
Come posso parlarti della mia dottrina, che è comprensibile solo agli animi semplici e aperti, se prima non vuoti la tua tazza?».
(L.
Vagliasindi (ed.), La morale della favola, Milano, Gribaudi, 1983, 11-12).
  Esci dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre Dobbiamo ora parlare delle rinunce.
Esse sono tre, come attesta la tradizione patristica e l’autorità delle Scritture, e le dobbiamo adempiere con ogni nostro impegno.
La prima è materiale; con essa rinunciamo a tutte le ricchezze e a tutti i beni di questo mondo; con la seconda rinunciamo alle abitudini della vita passata, ai vizi e alle passioni dello spirito e della carne.
Con la terza richiamiamo il nostro spirito da tutte le realtà presenti e visibili, contempliamo unicamente le realtà future e non desideriamo se non le realtà invisibili.
È necessario compierle tutte e tre; leggiamo che questo il Signore l’aveva comandato anche ad Abramo quando gli disse: Esci dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre (Gen 12,1).
Esci dalla tua terra, cioè: rinuncia ai beni di questo mondo e alla ricchezze terrene.
In secondo luogo: dalla tua parentela, cioè: rinuncia alla tua vita e alle abitudini di un tempo che sono unite a noi fin dalla nascita a motivo di una specie di affinità o di parentela di natura e di consanguineità.
In terzo luogo: dalla casa di tuo padre, cioè da ogni ricordo di questo mondo visibile ai tuoi occhi.
Abbiamo infatti due padri: uno è quello che dobbiamo abbandonare, l’altro lo dobbiamo cercare.
Davide fa dire a Dio queste parole: Ascolta, figlia, e guarda; porgi l’orecchio e dimentica la tua gente e la casa di tuo padre [Sal 44 (45),11].
Colui che dice: Ascolta, figlia indubbiamente è padre, eppure attesta che è padre della propria figlia anche colui che convince a dimenticare la casa paterna e il popolo a cui appartiene.
Ora, questo oblio si realizza quando, morti con Cristo agli elementi di questo mondo, contempliamo, secondo le parole dell’Apostolo, non più le cose che si vedono, ma quelle che non si vedono poiché le cose visibili sono temporanee, quelle invisibili sono eterne (2Cor 4,18); quando uscendo con il cuore dalla casa di questo mondo visibile, volgiamo lo sguardo verso quella in cui abiteremo per l’eternità.
(CASSIANO, Conferenze 3,6, SC 42, pp.
145-146).
La lotta spirituale La lotta spirituale è innanzi tutto ascesi, esercizio.
Chiunque scelga un fine, deve sottomettersi alle fatiche che questo fine richiede per essere raggiunto: negli studi, nella vita morale, nella vita spirituale.
La necessità dell’ascesi si pone dunque sul piano prettamente umano, ancor prima che su quello della vita cristiana.
Ha scritto Dietrich Bonhoeffer: «Se parti alla ricerca della libertà, impara innanzitutto disciplina dei sensi e dell’anima, affinché i desideri e le membra non ti portino a caso qua e là.
Casti siano lo spirito e il corp, sottomessi e obbedienti nel cercare la meta assegnata.
Nessuno penetra il mistero della libertà, se non con la disciplina» (Dietrich BONHOEFFER, Stazioni sulla via della libertà, in Resistenza e resa, Bompiani, Milano 1969, p.
270).
  Rinnega se stesso chi ama se stesso Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24).
Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti.
Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia.
«E mi segua».
Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione.
Ascese al cielo e siede alla destra del Padre.
Qui farà stare anche noi.
[…] «Rinneghi se stesso».
In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana.
L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso».
Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova.
Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25).
Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare.
Chi ama, perda.
È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina.
Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre.
Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore.
L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.
Dunque chi ama la propria vita, la perderà.
Chi cerca che essa dia frutto la semini.
Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto.
Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto.
Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso.
[…] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso.
Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te.
Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle.
Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.
(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp.
818-822).
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.

XVII Domenica Tempo Ordinario Anno C

XVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Genesi 18,20-32          In quei giorni, disse il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave.
Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!».
Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore.
Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?».
Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo».
Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?».
Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque».
Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta».
Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta».
Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta».
Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta».
Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti».
Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti».
Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci».
Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».
       v Abramo fu chiamato «amico di Dio» (cf.
Gc 2,23).
In questa veste egli agisce nella lettura che stiamo presentando.
Nei vv.
16-19 del nostro capitolo si trova un monologo divino in cui il Signore si domanda se gli sia lecito tenere nascosto ad Abramo ciò che egli sta per fare nei confronti di Sodoma e Gomorra.
Dio sceglie così Abramo come il confidente con il quale condividere le decisioni più gravi e al quale confidare le grandi ansie del suo cuore.
Noteremo infatti che non si tratta semplicemente di comunicare ad Abramo la sentenza definitiva contro le due città, ma di dichiarare aperto un processo a loro carico.
     Al v.
20 abbiamo in italiano la parola «grido» essa nel testo originale suona come un termine tecnico del linguaggio giuridico.
A Dio è arrivata una denuncia gravissima.
Egli è l’ultimo appello per dare una risposta al caso, ma per farlo è necessario che apra un’inchiesta, un’indagine che è disposto a svolgere personalmente, anche se di fatto nel capitolo 19 saranno i due angeli a visitare Sodoma, come anticipa il v.
22 omesso dalla versione liturgica della lettura.
Nel v.
21 si ha l’impressione di cogliere sulle labbra di Dio incredulità e indignazione.
Sembra che da una parte Dio stenti a credere alla denuncia che gli è pervenuta, e dall’altra sia irritato a causa della gravità di quanto gli è stato denunciato.
Il capitolo 19 presenterà un esempio concreto della malvagità di Sodoma (19,1-11).
Il fatto non è da leggere esclusivamente nella linea del peccato di omosessualità, ancor più importante è la mancanza di ospitalità.
Sodoma è l’antitesi di Abramo; mentre questi riceve Dio e lo accoglie generosamente, Sodoma riserva ai suoi inviati tutt’altro che accoglienza.
     Nei vv.
23-35 abbiamo la trattativa di Abramo con Dio, un colloquio nel quale sembra riecheggiare lo stile tipicamente orientale della contrattazione.
Accanto a questa intercessione del patriarca potremmo collocare quella di Mosè (Es 32,11-13; Dt 9,26,29), e quella dei profeti (Am 7,4-6).
Siamo al primo anello di una catena che attraverserà la storia d’Israele.
Si potrebbero ricordare qui le parole di Geremia: «Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia (Ger 12, 1a)».
     I sentimenti di Abramo nell’incominciare il dialogo con Dio sono esattamente quelli delle prime parole di Geremia, Abramo ha un senso profondo del rispetto dovuto a Dio; prende coraggio man mano che trova Dio disposto all’ascolto.
Dal punto di vista teologico questo è già un dato molto importante: Dio è disposto al dialogo, ad ascoltare amichevol-mente gli interventi degli uomini.
Non si tratta di un Dio impenetrabile e arbitrario, ma disponibile e dialogante.
     Geremia poi dice che vorrebbe rivolgere a Dio una domanda circa la giustizia.
Chiaramente il contesto in cui parla il profeta è completamente diverso dal nostro, ma l’interrogativo è il medesimo.
Tutto il senso della trattativa trova qui il suo riassunto.
Cosa decide il destino di una collettività: il peccato di molti o la giustizia di pochi? Questa è la domanda fondamentale.
Essa prende ancora più rilievo se viene collocata sullo sfondo della società in cui venne formulata, una società in cui la responsabilità individuale non era ancora in primo piano.
Il testo appartiene alla tradizione jahwista.
A quel tempo il senso di appartenenza alla famiglia, alla tribù, alla città, in una parola sola alla comunità, era talmente forte da ritenere che tutti fossero solidali nel bene e nel male.
Non deve essere dimenticato questo contesto per comprendere meglio il problema teologico fondamentale della lettura: con quale criterio Dio giudica? La risposta finale è che Dio nel suo giudizio è più disposto a tenere in conto il bene di pochi che il male di molti.
Non bisogna perciò preoccuparsi molto di come concretamente le cose siano andate a finire per Sodoma, se cioè là non si trovassero in essa neppure 10 giusti.
Sodoma non diventa un caso in se stessa, ma l’occasione per esporre l’asserto teologico fondamentale in questo brano: il bene compiuto da pochi può essere più forte del male compiuto da molti e determinare il giudizio divino in senso positivo.
Questa linea teologica troverà sviluppi mirabili nel pensiero biblico.
Basti pensare a Is 52,13-53,12, in cui il servo sofferente di Dio diventa lui stesso da solo strumento di salvezza per l’intero popolo.
Si pensi poi al capitolo 5 della lettera ai Romani in cui Gesù viene presentato come il nuovo Adamo dal quale unicamente viene la salvezza dell’intera umanità.
  Seconda lettura: Colossesi 2,12-14          Fratelli, con Cristo sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.
Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.
              v Il v 12 riprende un dato tradizionale della catechesi battesimale della comunità primitiva.
Rm 6,4-6 sviluppa bene questo discorso del battesimo come partecipazione personale al mistero pasquale.
Tra i due testi vi è però una importante differenza.
Per la lettera ai Romani solo la partecipazione alla morte di Gesù è una realtà presente, mentre la partecipazione alla risurrezione è lasciata al compimento escatologico.
Nel nostro brano abbiamo invece un progresso in questo senso: mediante la fede si partecipa fin da ora alla risurrezione di Gesù come nuova condizione personale di vita.
La fede è da riporre nella potenza di Dio.
Anche questa espressione ci riconduce alla lettera ai Romani: 1,4.
La risurrezione di Gesù è la manifestazione più chiara della potenza di Dio.
L’adesione di fede a questa verità fa si che la risurrezione non sia più un avvenimento che riguarda solo Gesù personalmente, ma coinvolge in modo efficace e presente anche i credenti.
Grazie alla fede, la risurrezione di Gesù non rimane un fatto isolato destinato solo alla sua persona, ma diventa un avvenimento comunitario vitale e trasformante.
     Tocca al v.
13 spiegare in che modo tutto questo avvenga.
Esso ricorda la condizione dei colossesi prima che credessero.
Su di loro pesava una doppia penalizzazione: a causa dei peccati erano morti e per la loro incirconcisione erano esclusi da qualsiasi prospettiva di salvezza; non potevano beneficiare neppure dell’alleanza antica.
Da questa condizione mortale essi sono stati liberati mediante il mistero pasquale.
Il versetto ripropone la medesima espressione di quello precedente: «con lui» che non solo crea unità, ma ribadisce la centralità e l’efficacia dell’opera di Cristo della quale peraltro Paolo aveva già parlato in 1,14.20.
Tutti i peccati sono stati perdonati grazie alla morte di Gesù come già insegnava la catechesi primitiva della Chiesa: 1Cor 15,3.
     Il v.
14 si rifà ad una immagine presa dal mondo commerciale per descrivere le condizioni degli uomini davanti a Dio.
Il «documento scritto» di cui si parla qui è un chirografo, cioè un atto ufficiale, legale, che reca la firma autografa di chi contrae il debito.
Fino a quando non si sono assolti gli oneri finanziari contratti si è perseguibili, non c’è scampo.
La condizione dell’uomo come debitore nei confronti di Dio appartiene all’insegnamento di Gesù stesso: Mt 6,12; 18,23-35.
L’ultimo testo mostra molto bene l’impossibilità dell’uomo di assolvere il debito con Dio.
Non c’è via d’uscita dal punto di vista umano per togliersi di dosso questa ipoteca imposta dal peccato.
Il chirografo era corredato di condizioni, nel testo originale rese con il termine dogma, che esprime precisione, sicurezza.
Ma anche queste regole precise erano a sfavore dell’uomo.
Si potrebbe vedere nel plurale di quel termine le prescrizioni della legge giudaica.
Tutto è stato tolto di mezzo dalla croce.
Ciò che prima inchiodava noi alla nostra insolvenza Dio lo ha inchiodato alla croce dandoci salvezza e speranza.
La risurrezione segna così questo grande passaggio: davanti a Dio gli uomini non sono più debitori sotto processo e in attesa di condanna, ma liberi e fruitori di un rapporto filiale.
  Vangelo: Luca 11,1-13          Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli».
Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
              Esegesi      A Luca è molto caro presentare Gesù come modello di preghiera: 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 22,41.44; 23,34.46.
Anche qui in 11,1 possiamo pensare che sia importante per l’evangelista mantenersi nella stessa linea.
La richiesta di uno dei discepoli raggiunge infatti Gesù non appena Egli ha terminato di pregare.
Si può legittimamente pensare che l’interesse sia non tanto quello di imparare una formula tipica dell’ambiente come la possedevano le diverse cerchie di discepoli riuniti intorno ad un maestro, come lo stesso accenno al Battista potrebbe far pensare, ma piuttosto di penetrare nel mistero stesso della preghiera di Gesù.
Il «Padre nostro» rivela quale tipo di relazione Gesù ha con Dio e nell’ultima parte del brano, i vv 9-13 mostrano quale frutto ci si deve attendere dalla preghiera.
Tutto ciò pone in un clima di assoluta novità, in una nuova via di relazione con Dio come solo nella preghiera di Gesù viene vissuta.
     Dopo aver presentato Gesù come modello di preghiera nei vv.
2-4 si trova il «Padre nostro».
Il titolo dato a Dio è quello dell’ambiente familiare per chiamare affettuosamente il capo famiglia, sia da parte dei bambini che da parte degli adulti.
Nella lingua in cui Gesù ha insegnato la preghiera era dunque Abbà.
Il rapporto con Dio viene quindi caratterizzato dalla confidenza e dalla tenerezza.
Dio in quanto padre ha autorità e amore nello stesso tempo; in questo modo viene riconosciuto da chi prega come Gesù.
La sfumatura della tenerezza è però senz’altro la novità che Gesù insegna nel rapporto con Dio.
Quanto fosse antico nelle comunità cristiane questa prassi di approccio al Padre lo testimonia Mc 14,36 e ancor di più Gal 4,6 e Rm 8,15.
     La prima richiesta riguarda la santificazione del nome divino.
Per comprenderla si dovrebbe ricordare Ez 36,20-28.
In quel testo Dio promette di manifestare la santità del suo nome ricostruendo l’unità del suo popolo disperso nell’esilio e ridonando agli israeliti il possesso della loro terra.
In una parola Dio manifesterà la santità del suo nome realizzando la salvezza del suo popolo.
Questa prospettiva fa cogliere molto bene il clima escatologico nel quale le prime due domande collocano l’orante.
Con la prima domanda si chiede a Dio di realizzare definitivamente la salvezza degli uomini, con la seconda che sia portata a compimento l’opera di Gesù che ha proprio come scopo il risanamento definitivo dell’umanità.
In 4,43 Gesù presenta come fine della sua missione appunto l’annuncio del regno.
La stessa cosa devono fare gli inviati di Gesù: 9,2; 10,10.
La seconda richiesta pertanto domanda che giunga a compimento l’opera che Gesù ha iniziato e che la Chiesa porta avanti con la sua missione.
     La terza richiesta riguarda il pane, l’alimento necessario alla vita.
Nel testo originale la qualifica di questo pane non è chiaramente comprensibile; il participio epiousion infatti è di difficile interpretazione.
Normalmente viene interpretato come la razione di cibo necessaria alla giornata: «quotidiano».
In questo modo non avremmo uno scadimento nella richiesta, come se dopo aver domandato realtà spirituali si precipitasse nella materialità.
Rimarremmo ancora in un tipo di rapporto con Dio fondato sulla fiducia e sull’abbandono riconoscendolo come colui dal quale unicamente dipende il proprio esistere.
Bisognerebbe anticipare quanto dirà Gesù in 12,22-31.
Nonostante che il Padre sappia di cosa si ha bisogno Gesù invita però a chiedere.
Il «Padre nostro» è veramente la preghiera del discepolo di Gesù di colui che ha fatto suo lo stile  di povertà radicale che Gesù praticava (9,58) abbandonando tutto per lui (18,18-23.28-30).
In questa richiesta si nasconde allora il desiderio di essere discepoli di Gesù secondo lo stile da lui voluto e praticato.
     La quarta domanda presenta una realtà alla quale solo Dio può dare soluzione: il peccato.
A questa condizione che distrugge le relazioni dell’uomo con Dio e con gli altri il Padre risponde con il perdono.
Viene fatta questa richiesta a Dio perché solo lui può concedere quel dono e solo lui può far sì che dall’uomo perdonato nasca la capacità di perdonare.
Da ultimo si domanda a Dio l’aiuto necessario per superare positivamente la tentazione, o meglio in un senso più generale la «prova».
Bisogna guardarsi bene infatti dall’attribuire a Dio il ruolo di Satana.
Non è infatti certamente Dio ad incitare al male.
La prova invece è una condizione che l’uomo praticamente non può evitare dal momento che non è stata risparmiata neppure a Gesù (4,1-11; Eb 2,18).
In quella situazione l’aiuto di Dio è necessario perche l’uomo non soccomba, ma resti fedele.
     I vv 5-8 raccontano una piccola parabola che invita alla più grande fiducia nella preghiera.
Il clima del vicino oriente scoraggia i viaggi durante le ore calde; l’arrivo dell’amico a mezzanotte non è pertanto un fatto eccezionale, spesso bisogna approfittare delle ore notturne per gli spostamenti.
Il pane poi era produzione casalinga, ogni famiglia lo produceva nel proprio forno.
Inoltre la tipica casa palestinese prevedeva come locale destinato agli uomini una sola stanza poliuso: di giorno serviva da abitazione, di notte da dormitorio per tutta la famiglia.
I congiunti deponevano stuoie a terra e dormivano tutti l’uno accanto all’altro.
Il pane veniva conservato nel locale attiguo, dove si trovavano anche il forno e i silos per le scorte dei cereali.
Andare a prendere il pane significava pertanto correre il rischio serio di calpestare i bambini che dormivano sul pavimento accanto ai genitori.
La parabola all’inizio insiste sul legame di amicizia che esiste tra i protagonisti  messi in scena da Gesù.
Questo e il sentimento che spinge a chiedere, anzi a disturbare in un’ora scomoda.
L’amicizia spingerà ad esaudire la richiesta e se dovesse venire meno questa, sarà l’insistenza a garantire il risultato.
A dire il vero la parola originale che viene tradotta con «insistenza» indica piuttosto la mancanza di pudore, potremmo dire il non avere paura di presentarsi ad un orario inopportuno.
Gesù vuole così dare fondamento all’audacia nella preghiera.
Su che cosa si basa la sicurezza di essere esauditi? Innanzitutto sul fatto che Dio è un amico e di conseguenza nella preghiera si può osare molto senza paura.
     I vv 9-10 contengono tre verbi che illustrano la preghiera: chiedere, cercare, bussare.
Sono immagini classiche per indicarla.
La terna costruita ponendo agli estremi due passivi teologici (vi sarà dato, vi sarà aperto) evidenzia ulteriormente le buone disposizioni di Dio verso chi si rivolge a Lui.
I primi due verbi poi si ricollegano direttamente alla parabola appena raccontata ribadendone il messaggio.
     I vv 11-13 possono essere considerati un’altra piccola parabola che potremmo intitolare «del figlio affamato».
Anche in questo caso, come nella parabola dell’amico importuno, Gesù fa appello all’esperienza degli ascoltatori.
Si deve sottolineare bene che il soggetto scelto è di nuovo il padre, nonostante che concretamente e normalmente sia la madre ad occuparsi dell’alimentazione dei figli.
Si vuole proseguire pertanto, come dice chiaramente il v 13, nella presentazione del Padre e della risposta che Egli dà alle richieste degli uomini.
La novità di Luca rispetto a Matteo (7,7-11) è però che il Padre non concede «cose buone», ma lo Spirito Santo.
L’importanza dello Spirito Santo in Luca è nota: 1,15.35.41.67,2,26.27; 3,22; 4,1.14.18.
Da queste ricorrenze si capisce bene come per Luca lo Spirito Santo è il dono escatologico, il dono che realizza i tempi della salvezza.
C’è indubbiamente un salto di qualità incredibile, ma senza contraddizione.
Il salto di qualità consiste nel fatto che mentre fin qui l’oggetto della preghiera erano realtà materiali, ciò di cui l’uomo necessita per il suo sostentamento, la risposta di Dio si colloca su un piano ben superiore.
Egli è disposto a concedere molto di più, a dare una partecipazione piena alla sua vita, a segnare per quanti lo domandano il compimento della salvezza nel quale nulla mancherà all’uomo né il necessario per il quotidiano, né l’intimità con Dio.
Mentre la preghiera umana si appiattisce spesso su realtà materiali Gesù invita a questo grande cambiamento di prospettiva: passare dal vedere Dio come colui che provvede semplicemente all’esistenza terrena a colui che assicura pienezza di vita attraverso il dono del suo Spirito.
La considerazione è particolarmente preziosa in questo anno dedicato allo Spirito Santo e potrebbe diventare il vero fulcro dell’omelia.
     Meditazione      Il tema della preghiera domina la liturgia della Parola in questa domenica e la domanda che risuona sulle labbra dei discepoli – «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1) – può costituire anche per noi l’interrogativo, o più ampiamente l’atteggiamento interiore con cui celebrare questa eucaristia.
Alla richiesta dei discepoli Gesù risponde con una piccola catechesi, suddivisibile in tre parti.
Dapprima consegna il Padre Nostro (vv.
2-4); quindi racconta una breve parabola (vv.
5-8); infine offre un insegnamento sull’efficacia della preghiera (vv.
9-13).
Se la prima e la terza parte trovano dei paralleli nella tradizione sinotti-ca, la parabola centrale è invece propria di Luca e rivela pertanto la prospettiva peculiare con cui il terzo vangelo comprende il mistero della preghiera.
Potremmo anche dire che, se nel Padre Nostro Gesù mostra quale debba essere il nostro modo di stare davanti a Dio, attraverso la parabola rivela piuttosto quale sia il modo stesso con cui Dio si relaziona con i suoi figli.
Le parabole infatti (e questa del capitolo undicesimo non fa eccezione) sono anzitutto una rivelazione del modo di essere e di agire del Padre, che ci interpella personalmente e ci chiede di trasformare il nostro stesso modo di essere e di agire.
Per Gesù, la contemplazione del volto del Padre consente sempre – e nello stesso tempo esige – una trasfigurazione dell’agire umano.
Per imparare a pregare occorre dunque anzitutto guardare a come Dio si relaziona con noi.
     La parabola presenta la relazione tra tre amici.
Il primo giunge nel cuore della notte a casa di un suo amico ed è per noi facile immaginare il suo bisogno: è provato dal viaggio, probabilmente non ha ancora cenato, necessita di ristorarsi e riposarsi.
In questa situazione, cosa fare? Ciò che viene subito in mente al protagonista della parabola è ricorrere all’aiuto di un terzo amico.
Non cerca di risolvere da sé, in modo autonomo e autosufficiente, la difficoltà: riconosce la propria impossibilità e accetta di rivolgersi a qualcun altro.
Poco importa se è notte fonda: è un amico, mi aiuterà.
Così ragiona il protagonista della pa-rabola e così agisce.
Il racconto, in questo modo, ci sollecita a metterci nei panni di questo uomo e a domandarci: avremmo agito come lui? È un primo interrogativo con cui la parabola ci interpella personalmente.
A scavare più a fondo nel brano emerge però un secondo interrogativo, più importante del primo.
La traduzione italiana di fatto elimina la domanda che nel testo greco è possibile intravedere.
Infatti, nel testo originario Gesù introduce il suo racconto con un pronome interrogativo: chi di voi? La parabola inizia con una domanda; il problema è stabilire fin dove essa giunge.
Probabilmente si conclude al v.
7 (in greco c’è un’unica frase) dove, anziché un punto e virgola, occorrerebbe mettere un bel punto interrogativo.
Questo amico – domanda Gesù – gli dirà così: «Non m’importunare…
non posso alzarmi per darti i pani?».
La risposta la dà lo stesso Gesù, al v.
8: «vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono».
La vera domanda posta dalla parabola riguarda dunque il comportamento del personaggio che viene importunato nel cuore della notte.
Che cosa farà: si alzerà o no per esaudire la richiesta del suo amico? Il vero protagonista è lui e su di lui Gesù attira l’attenzione dei suoi ascoltatori.
Più che ‘parabola dell’amico importuno’, dovremmo intitolare questo racconto ‘parabola dell’amico importunato’: è lui il protagonista principale di quanto avviene.
     Nonostante tutte le difficoltà alle quali questo tale deve andare incontro, la risposta di Gesù non tollera dubbi: l’amico importunato esaudirà la richiesta di chi lo ha svegliato a notte fonda.
E lo farà almeno per due motivi: a) per amicizia: colui che ha bisogno è un amico, e gli amici si aiutano volentieri; b) ma anche per la sua invadenza.
Il vocabolo qui usato da Luca — anaideia —  significa letteralmente ‘senza faccia’, dunque senza timore, senza vergogna, in modo quasi sfacciato, impudente, disinvolto.
La preghiera di questo tale non è soltanto insistente o invadente; è anche audace e confidente.
Non ha timore o ritegno nello svegliare l’amico nel cuore della notte.
Sa che è un amico; sa che con lui può avere confidenza e fiducia, può osare.
È importante comprendere che si può pregare in questo modo soltanto chi sappiamo essere nostro amico.
Con gli amici ci si comporta in modo diverso rispetto agli estranei.
     A questo riguardo, dobbiamo fare attenzione a come Gesù conclude la parabola, al v.
8: «almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono».
Il testo greco recita più esattamente: «gli darà tutto quello di cui ha bisogno».
L’amico importuno chiedeva tre pani; riceve molto di più: torna a casa con tutto quello di cui ha bisogno.
In questo ‘tutto’ va inclusa anche la bellezza della relazione che ha sperimentato: insieme al pane, ha ricevuto la certezza di avere un amico sicuro, in cui poter confidare senza esitazione e senza timore.
     Troviamo così nella parabola una dinamica tipica della preghiera cristiana, sottesa anche al Padre Nostro: preghiamo chiedendo il pane per ogni giorno, e insieme al pane ogni altro bene necessario alla vita, ma perché attraverso i suoi doni Dio santifichi il suo nome, cioè ci faccia conoscere il suo volto; ci conceda il suo Regno, introducendoci nella relazione d’amore con la sua persona; compia la sua volontà, che è la salvezza di ogni suo figlio.
L’esaudimento nella preghiera supera la nostra richiesta.
Il protagonista della parabola insieme al pane riceve il volto dell’amico che si prende cura del suo bisogno; così noi, nella nostra preghiera, riceviamo il volto stesso di Dio che ci rivela il suo nome di Padre e ci dona il suo Regno e la sua salvezza.
     Gesù ribadisce questo aspetto anche nella terza parte della sua catechesi, laddove parlando dell’efficacia della preghiera conclude: «quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (v.
13).
Lo Spirito, come dono per eccellenza di Dio, ci testimonia che il Padre buono, anche quando si rende sollecito verso i nostri bisogni, non intende semplicemente donarci dei beni, ma attraverso di essi desidera comunicarci la sua paternità, il suo abbraccio di Padre, la sua comunione d’amore.
Nello Spirito Dio ci dona

XI Domenica Tempo Ordinario Anno C

XI DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: 2Samuele 12,7-10.13          In quei giorni, Natan disse a Davide: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro.
Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Urìa l’Ittìta, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammonìti.
Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Urìa l’Ittìta».
Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!».
Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai».
    v Il pentimento di Davide, riportato dal brano, è la tappa conclusiva della storia del suo peccato e dell’intervento di Dio che lo guida verso il pentimento.
Ciò che Davide aveva commesso – l’adulterio, il tentativo di nasconderlo, la decisione di far morire Uria, l’accoglienza di Betsabea nella reggia – era stato un male agli occhi del Signore.
Solo l’intervento di Dio poteva ristabilire nella sua bellezza e potenza vitale la relazione personale che si era rotta tra i due.
E Dio aiuta Davide a ritornare in se stesso.
«Lo libera facendo presa, nella sua infinita bontà e finezza psicologica, sui suoi sentimenti migliori: la lealtà, il bisogno di difendere la giustizia […].
Rivolge il suo appello non a Davide peccatore, bensì a Davide giusto, leale, e per questo riesce» (C.M.
Martini).                   Il profeta Natan, attraverso un racconto semplice ricostruito sulla trama della vicenda di Davide, aiuta il re a rileggere, con distacco e oggettività, la propria vicenda personale, quindi lo porta a rientrare in sé e lo restituisce alla sua personale verità con un coraggioso passaggio: «Tu sei quell’uomo!», proprio quello che tu hai giudicato meritevole di morte.
A questo punto prende Davide come per mano e lo aiuta a ripercorrere tutta la sua storia segnata da tanti interventi di benevolenza divina.             La sintesi riportata richiama il testo di Isaia sulle cure del Signore per la sua vigna e tutta la serie dei benefici di Dio in favore del suo popolo che rispose con ingratitudine e infedeltà (cfr.
Is 5,1-7).
Le parole di Natan giungono al cuore dell’uomo Davide che non si difende, ma confessa: «Ho peccato contro il Signore!».
Quasi un’eco del «sono nudo» di Adamo (Gen 3,10)! Questa confessione restaura tutta la statura spirituale di Davide e lo libera da quel groviglio di menzogna e infedeltà nel quale si era sempre più intricato volendosi liberare da solo.
Il pentimento di Davide è grande: c’è tutto il suo cuore contrito, c’è l’infrangersi di tutte le sue resistenze e un’esperienza molto concreta di abbassamento interiore.
Su questo volto dell’umiltà umana – non acquisita, ma subita e accolta – scende il perdono del Signore, che libera Davide dalla morte: «Tu non morirai».          Seconda lettura: Galati 2,16.19-21            Fratelli, sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno.
In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio.
Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me.
E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.
Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano.
              v Lo stralcio della lettera ai Galati ci offre una sintesi del ‘vangelo’ di Paolo.
Potremmo rileggerlo a partire dal suo nucleo centrale: «Cristo vive in me», per trovare qui espressa l’autentica vita cristiana e la profonda esperienza religiosa di Paolo: una vita vissuta al di sopra dell’io naturale, segnata dalla presenza e irruzione di Dio nell’uomo.
È la vita nuova che trae la sua origine dal battesimo e la sua risorgente energia dall’adesione fiduciosa della fede nell’amore con cui Gesù abbraccia ogni uomo.
Ecco il battesimo: morire alla legge, cioè sottrarsi alla sua influenza, al suo dominio, e morire dunque al passato, all’uomo esteriore, al peccato, per vivere per Dio, cioè consacrato a Dio.
Ed ecco la fede: l’uomo viene giustificato, cioè reso moralmente retto davanti a Dio e capace di agire come tale, non dalle opere della legge, ma dalla salvezza operata da Gesù Cristo.
La fede è – per così dire – la porta di accesso a Gesù salvatore; è quell’atteggiamento con cui l’uomo accoglie la rivelazione divina manifestata in Gesù Cristo e risponde dedicando a lui tutta la propria vita.
Questa giustificazione è dunque un dono gratuito di Dio che cambia dal di dentro la vita dell’uomo entrato in contatto con Cristo mediante la fede e il battesimo.
     In virtù di questo contatto tra Cristo e il credente si opera come uno scambio reciproco, una simbiosi.
È la vita di Cristo che si realizza nel credente, ma non nel senso che Cristo diventa il soggetto delle azioni umane.
Il soggetto resta sempre il credente, con la sua vita di carne, tutta umana, con il peso delle sue debolezze, fragilità, della sua miseria, ma sulla quale si innesta un principio di vita superiore, che è Cristo stesso.
La comprensione di questa verità operata dalla fede nell’inabitazione di Cristo trasforma, rinnovandola, la vita dell’uomo, fino a compenetrarne la coscienza psicologica.
  Vangelo: Luca 7,36-8,3          In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui.
Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola.
Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo.
Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!».
Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa».
Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro».
«Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta.
Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due.
Chi di loro dunque lo amerà di più?».
Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più».
Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene».
E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli.
Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi.
Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo.
Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato.
Invece colui al quale si perdona poco, ama poco».
Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati».
Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?».
Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».
In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio.
C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.
    Esegesi     Nel brano evangelico due personaggi si impongono alla nostra attenzione interiore: Simone, il fariseo, simbolo dell’uomo giusto, autosufficiente, controllato, che rispetta la legge ma ha il cuore indurito all’amore, e una peccatrice la cui storia ci è ignota, mentre ci è noto il suo stato interiore di conversione, il suo cuore pentito, frantumato.
     I gesti di questa donna racchiudono tutte le sfumature della gratitudine.
L’andare diretta verso Gesù, il prostrarsi ai suoi piedi (gesto tipico di chi ha visto salvata la propria vita), lo sciogliersi dei capelli in segno di umiliazione, il versare il profumo (segno di gioia, di abbondanza, di amore e consacrazione), e poi le lacrime e i baci: tutte espressioni che parlano di accoglienza e di vita.
Questa donna dice così l’autentico stare dell’uomo davanti a Dio: nessuna giustificazione e tanta gratitudine; pronuncia così l’amen della sua fede nel perdono di Gesù e del suo amore che accetta di lasciarsi amare.
     Tra il fariseo e la peccatrice sta Gesù, il vero profeta, che conosce i disegni di Dio e sa leggere nel cuore degli uomini.
Gesù vede il disprezzo e la freddezza del cuore di Simone, il suo sentirsi giusto e credere che l’amore di Dio può essere meritato.
Il suo peccato è tutto qui: voler meritare l’amore di Dio che è per essenza pura gratuità.
Potremmo chiamarlo «un peccato di prostituzione nei confronti di Dio» (S.
Fausti).
Nel cuore della donna, probabilmente una prostituta, Gesù coglie invece l’apertura e l’accoglienza al dono dell’amore che si manifesta pienamente nel perdono.
La donna si lascia amare, cioè perdonare, e il suo amare di più è effetto e causa insieme del perdono.
Amore e perdono si alimentano a vicenda: la donna ama in quanto perdonata e, in quanto ama, è aperta ad accogliere il perdono.
     Il cristianesimo è questo amore per Gesù, la fede che salva è apertura alla salvezza portata da Gesù.
La conversione più profonda è dunque il semplice riconoscersi bisognosi del perdono.
La donna si pone come uno specchio non solo, per Simone, ma anche per tutti noi ogni volta che abbiamo difficoltà a piegarci fino ai piedi di Gesù: solo chi è piccolo e a terra può toccare i piedi del messaggero che porta il lieto annuncio della salvezza e della pace.
  Meditazione      «Ho peccato contro il Signore!…
Il Signore ha rimosso il tuo peccato» (2Sam 12,13).
Questo essenziale dialogo tra Davide e il profeta Natan, in cui sono messi di fronte l’uomo peccatore e il Dio ricco di misericordia, potrebbe riassumere il tema che attraversa la liturgia della Parola di questa domenica.
E infatti, quasi come una eco dell’annuncio rivolto dal profeta al re peccatore, ci giungono le parole che chiudono il racconto della peccatrice perdonata da Gesù, tramandatoci dall’evangelista Luca: «I tuoi peccati sono perdonati…
va’ in pace» (Lc 7,48.50).
L’accostamento di questi due testi della Scrittura, proposto dalla liturgia, ha realmente la forza di una rivelazione del volto di Dio che permette all’uomo di ritrovare la verità della sua vita nell’orizzonte infinito del perdono che ricrea e che apre quel cammino nella pace che il peccato aveva interrotto.
Lo sguardo di compassione che Dio posa sull’uomo che ha il coraggio di riconoscere la sua colpa (come Davide e come la donna peccatrice) è più forte della morsa del peccato e solo chi sperimenta su di sé questo sguardo di misericordia donato nella assoluta gratuità, può intraprendere l’avventura di un amore senza più riserve.
È il paradosso di un amore che sgorga dal perdono e di un perdono che può essere donato e accolto solo da chi ama.
Gesù, rivolgendosi a Simone, ma parlando di quella donna che con i suoi gesti ha rivelato tutta la sua miseria e tutto il suo amore per Lui, dice: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché molto ha amato.
Invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (Lc 7,47).
Chi non ha il coraggio di riconoscersi nella estrema nudità e fragilità in cui l’esperienza del peccato lo pone di fronte al Dio infinitamente compassionevole, non riuscirà mai ad entrare nello spazio della gratuità; di fronte agli altri sarà come il fariseo Simone, duro nel giudizio, illuso di saper discernere il cuore dell’uomo, ma di fatto cieco e incapace di guardare l’altro con occhi di misericordia.
     Il racconto di Luca, sul quale ci soffermiamo brevemente, è davvero una icona da contemplare.
Si resta profondamente colpiti dai contrasti che caratterizzano la dinamica di questo brano evangelico: una giustizia e una rettitudine che non riescono a varcare la soglia della gratuità (il fariseo), un grande peccato che si trasforma in un grande amore, parole non dette e parole sussurrate dietro le quali l’uomo si nasconde, e gesti forse ambigui ma attraverso i quali si ha il coraggio di compromettersi e di esprimere tutta la forza dell’amore.
E poi in questo brano tutto è eccessivo: il peccato, il perdono, l’amore, i gesti, i silenzi, gli sguardi.
Veramente si deve riconoscere che Luca ha saputo esprimere stupendamente il paradosso della gratuità e soprattutto il paradosso di una conversione che sa trasformare un desiderio appassionato in una porta aperta all’amore di Cristo.
Con un linguaggio sorprendente, Giovanni Climaco così descrive questa ‘conversione’ dall’eros all’agape, questa apertura della dimensione affettiva, attraverso cui noi amiamo, alla charitas Christi di cui è protagonista la peccatrice: «Ho visto anime impure che si gettavano nell’eros fisico fino al parossismo.
È stata proprio la loro esperienza di tale eros a portarli al capovolgimento interiore.
Allora concentrarono il loro eros sul Signore.
Oltrepassando il timore, cercavano di amare Dio con un desiderio insaziabile.
Ecco perché Cristo, parlando della casta prostituta, non ha detto che ella aveva avuto paura, ma che aveva molto amato, e che aveva potuto superare agevolmente l’amore con l’amore» (Scala del paradiso, 5,54).
     La forza di questo racconto sta nel contrasto tra due modi di rapportarsi a Dio e agli altri, espressi proprio dagli atteggiamenti del fariseo che invita a pranzo Gesù e della peccatrice che improvvisamente irrompe nella sala e compie verso Gesù dei gesti imbarazzanti e inauditi per Simone e gli altri invitati.
Questa donna è conosciuta come una peccatrice (7,37) e ciò che compie sembra essere risucchiato in questa situazione di vita moralmente scandalosa.
Così appare allo sguardo di Simone.
E infatti quella donna, senza dare alcuna spiegazione, senza presentarsi, senza dire una parola, inizia a compiere dei gesti così inau-diti da gettare tutti nello sconcerto.
Tutti, ma non Gesù, il quale la lascia fare, perché quella donna è venuta per lui ed è lui che vuole incontrare.
Ogni suo gesto sprigiona il desiderio di questo incontro.
Stando «dietro presso i piedi di Gesù» (v.
38), quella donna sembra quasi voler deporre tutta la miseria della sua vita ai piedi di chi ha la forza di risollevarla.
E «piangendo cominciò a bagnarli di lacrime» (v.
38): quelle lacrime che dai suoi occhi scendono sui piedi di Gesù sono le lacrime di chi finalmente ha saputo porsi di fronte alla verità della sua vita e ora può vivere un momento di liberazione.
E poi si mette ad asciugare i piedi di Gesù «con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (v.
38): le lacrime, segno del pentimento, confondendosi con il profumo dell’unguento, diventano il segno più limpido del suo amore per Gesù.
Questa immagine eccessiva di amore turba il fariseo Simone e quasi in contrasto con la passione espressa dalla donna nei suoi gesti, c’è la freddezza nel giudizio che quest’uomo, giusto e retto, esprime nel suo cuore: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!» (v.
39).
Parole di condanna non solo per la donna, ma anche per Gesù: è un profeta che di fatto non sa discernere e donare il giudizio di Dio!      È sorprendente notare come tutto ciò che quella donna compie è sotto lo sguardo di ognuno, mentre il giudizio di Simone è formulato nel segreto, nel cuore.
Eppure, ad un certo punto tutto viene messo allo scoperto e rivelato nella verità.
E questo avviene quando Gesù, attraverso una parabola, risponde a quei tanti interrogativi e giudizi che Simone (e forse anche tutti gli altri invitati) aveva formulato nel cuore e non aveva osato far affiorare sulla labbra.
«Simone, ho da dirti qualcosa….» (v.
40): nel momento in cui Gesù pronuncia questa parola e poi racconta la storia dei due debitori, uno con un ‘grande’ debito da restituire e uno con un ‘piccolo’ debito, due debitori ugualmente perdonati, ecco che Simone è obbligato a confrontarsi con la donna, a convenire il suo sguardo su di lei, a vedere nei gesti che ha fatto il segno di un amore senza limiti, a misurare su di essi la piccolezza della sua giustizia, ad allargare gli orizzonti del suo sguardo per andare oltre le apparenze, a cambiare il suo modo di interpretare l’agire di Dio verso il peccatore.
È lui il piccolo debi-tore che è rimasto intrappolato solo nella logica del dovere e non ha saputo, come quella donna, avventurarsi nello spazio senza limiti della gratuità, della sovrabbondanza e dell’eccesso dell’amore.
Queste stupende parole di Isacco il Siro possono offrire un commento alle parole che Gesù rivolge al fariseo (cfr.
vv.
44.47): «La giustizia è la rettitudine di una eguale misura che dà a chiunque in modo eguale, che non adatta la sua retribuzione a nulla, badando a ciò che ha sotto agli occhi.
La misericordia invece, è una passione mossa dalla bontà, che si piega su tutto con indulgenza.
Non retribuisce colui che merita il male, né colui che merita il bene, ma dà in abbondanza il doppio…
È misericordioso colui che fa misericordia al suo prossimo, non solo con i doni, ma che, anche quando sente e vede qualcosa che causa sofferenza a qualcuno, soffre nel suo cuore un incendio; e ancora, quando riceve uno schiaffo da suo fratello, non si ribella e non gli rende il contraccambio neppure con la parola, ma ne soffre nel suo pensiero».
     «Simone, ho da dirti qualcosa…» (v.
40).
Ciò che avviene in quella sala, attorno a quella tavola, è la parabola che Gesù vuole ora raccontare anche a ciascuno di noi.
E ce la racconta perché anche noi abbiamo bisogno di comprendere che cosa significano perdono e misericordia, che cosa significano gratuità e rischio di amare, giustizia e compassione.
Questa parabola ci è narrata per rispondere ai tanti interrogativi del nostro cuore: come Simone anche noi tratteniamo nel profondo del nostro cuore pensieri e domande che temiamo di porre al giudizio del Signore Gesù, per paura di essere smentiti.
Gesù ce la racconta per aprire il nostro sguardo interiore a discernere ciò che va oltre le apparenze, per renderci capaci di perdono e di misericordia.
Gesù ci racconta questa parabola perché anche noi, troppe volte, siamo come Simone.
 

Festa della SS Trinità Anno C

Preghiere e Racconti   Racconto   Si racconta che un giorno S.
Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa, era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità.
Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia, vide un bambino che faceva una cosa molto strana: aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino, andava al mare, prendeva l’acqua e la versava nel fosso.
E così di seguito.
E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede: «Che cos’è che stai facendo?» E il ragazzo: «Voglio mettere tutta l’acqua del mare in questo fosso».
S.
Agostino sentendo ciò rispose: «Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare.
Ma come puoi pensare di riuscirci? Il mare è immenso, e il fosso è piccolo.
E poi, con questo cucchiaino non basta la tua vita».
E il ragazzo, che era un angelo mandato da Dio, gli rispose: «E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l’infinito mistero di Dio?».
Agostino capì che Dio è un grande mistero.
E capì che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore, che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.
  Gloria tibi Trinitas! Hans Urs von Balthasar ha approfondito una stupenda analogia per parlare dell’azione trinitaria in favore di noi uomini, per parlare della Trinità per come la conosciamo noi in quello che ha fatto per noi uomini.
L’analogia è quella del teatro.
  Pensiamo al teatro, ad un dramma.
Pensiamo al rapporto che c’è tra l’Autore del testo del dramma, l’Attore protagonista della scena e il Regista di tutta la scena.
Quanto i tre fanno può essere espresso dai verbi seguenti: L’Autore genera, concepisce, esprime, formula.
L’Attore incarna, rende vivo, realizza, presta alla parola dell’autore presenza e azione.
Il Regista ispira, suggerisce, dirige, orchestra, armonizza.
Pensiamo ad un dramma in cui i tre sono coinvolti allo stesso modo: perché l’attore è la persona più cara per l’autore, perché nell’attore persona e ruolo coincidono, il dramma cioè è qualcosa in cui non si recita ma si vive, chi fa la parte del re è re davvero, non si muore per finta, ma con vero spargimento di sangue.
La bellezza della rappresentazione dipende tutta dalla sintonia del regista e dell’attore con l’autore.
Il pubblico è coinvolto, ci sono ponti fluidi tra platea e scena.
  Chi sono l’Autore, l’Attore e il Regista del dramma divino che coinvolge l’uomo? Sono proprio il Padre, il Figlio e lo Spirito.
Il Padre genera, esprime, formula, dà tutto ciò che è.
Il Figlio incarna, rende vivo, realizza, dà presenza e azione.
Lo Spirito Santo ispira, suggerisce, dirige, orchestra, unisce nella distanza.
  La bellezza che attrae, stupisce e coinvolge è la sintonia perfetta, l’unità.
Il Padre non troneggia immobile, giudice sopra il dramma.
Il suo testo è il suo stesso piegarsi sulla sua creatura.
L’Attore, il Figlio è ciò che di più caro il Padre abbia.
In lui persona e ruolo coincidono perfettamente, non c’è neppure un minuto in cui reciti, vive! Muore e risorge realmente.
Lo Spirito Santo sa cogliere perfettamente lo spirito del testo: è lui! È allo Spirito che il Padre affida il suo testo, è all’interpretazione e alla guida dello Spirito che il Figlio si affida per tradurre in vita il testo.
  Che il mondo lo voglia o no il suo dramma è dramma trinitario, dramma dell’amore puro dono di sé.
Noi cristiani lo sappiamo, e sappiamo che sta qui il senso vero, ultimo della vita.
Sta a noi lasciarci coinvolgere fino in fondo e portare questo nella vita di ogni giorno.
Gloria tibi Trinitas!   Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.
Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui.
Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose.
Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito.
Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6].
Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio.
A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6).
Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.
(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp.
88-90).
  Dio è Amore Al nonno, professore universitario, che cercava di trasmettergli il concetto che “Dio è onnisciente, onnipotente, non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, insomma è tutto!” il nipotino di cinque anni rivolge a bruciapelo questa domanda inaspettata: “ma senti un po’ nonno, se Dio è tutto perché ha fatto il mondo?” Quando mi raccontarono il fatto rimasi sbalordito, ero appena uscito dalla lettura di due testi, il primo di un fisico, premio Nobel, Steve Weinberg che chiudeva il suo libro sull’origine dell’universo con una frase più o meno simile: quanto più l’universo ci diventa noto, tanto più non riusciamo a spiegarcene il perché, ci resta incomprensibile.
Il secondo libro era di un teologo, Hans Urs von Balthasar, il quale affermava che: il mondo rimane per noi incomprensibile non soltanto se Dio non c’è, ma anche se Dio c’è e non è Amore.
La domanda “se Dio è tutto perché ha creato il mondo?” può avere una sola risposta: perché Dio è Amore.
La prima conclusione suona allora così: se il mondo c’è, Dio è Amore.
  Il patto di Dio Dio ha fatto un patto con noi.
Il termine inglese covenant (patto, alleanza) significa ‘con-venire’: Dio vuole venire insieme con noi.
In molti dei racconti della Bibbia ebraica, troviamo che Dio appare come un Dio che ci difende contro i nostri nemici, ci protegge contro i pericoli e ci guida alla libertà.
Dio è un Dio-per-noi.
Quando Gesù viene, si rivela una nuova dimensione dell’alleanza.
In Gesù Dio è nato, diviene adulto, vive, soffre e muore come noi.
Dio è un Dio-con-noi.
Infine, quando Gesù lascia questa terra, promette lo Spirito Santo.
Nello Spirito Santo Dio rivela pienamente la profondità del suo patto.
Dio vuole essere vicino a noi quanto il nostro respiro, Dio vuole respirare in noi, affinché tutto quello che diciamo, pensiamo o facciamo sia completamente ispirato da Dio.
Dio è Dio-in-noi.
Il patto di Dio ci rivela dunque quanto Dio ci ami.
(Henri J.M.
NOUWEN, Pane per il viaggio, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 59).
  Preghiera   Lode a te, o Dio, che sei Padre, Figlio e Spirito, che sei il termine eccedente del mio desiderio e la fonte inesauribile del mio stupore.
Lode a te che hai voluto entrare nella nostra e nella mia storia per mostrare che la mia solitudine radicale è vinta, che la mia morte non potrà avvincermi in forma definitiva.
Lode a te che vinci il mio timore di perdermi se ti lascio spazio nel mio cuore.
Lode a te che mi avvolgi nella tua nube e in essa mi sveli il tuo mistero, che è il mistero della mia stessa vita ardentemente indagato.
Lode a te che sei l’amore traboccante e perennemente accogli e salvi la mia fragilità.
Lode a te che mi concedi di entrare nella tua comunione e mi dischiudi possibilità di relazioni vertiginose.
Lode a te che mi conduci sulla via della dedizione seducendo il mio spirito desideroso di pienezza.
Lode a te che sei il principio, l’ambiente e la meta di tutto quanto io posso fruire.
Lode a te che sei il mio Tutto.
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
              SANTISSIMA TRINITA’   Lectio Anno c     Prima lettura: Proverbi 8,22-31          Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine.
Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra.
Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo.
Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».
       v Che quanto il Padre possiede sia anche tutto del Figlio si può cominciare a capirlo da questo passo, culmine del lungo prologo del libro dei Proverbi (Pr 1,8-9,18).
Là il maestro parla della sapienza al discepolo come il padre al figlio e la stessa Sapienza parla di sé due volte (Pr 1,20-32 e 8,1-36), in una personificazione letteraria, non filosofica o teologica.
La seconda volta essa fa questo discorso sulla propria origine, preceduto dalla raccomandazione a seguire lei e i suoi insegnamenti (Pr 8,1-21) e seguito dall’invito ad essere ascoltata (Pr 8,32-36).
Delle sue origini parla con riferimenti al racconto della creazione di Gen 1 e con importanti approfondimenti su quello che la parola di Dio dice e lo spirito opera.
Prima afferma la sua priorità su tutto quanto esiste e poi la sua presenza nell’opera creatrice.
     La priorità su tutto quanto esiste (Pr 8,22-26) pone la Sapienza in rapporto unico con Dio.
Da lui, quando nulla ancora esisteva, è stata «creata» (v.
22), nel senso di acquisita e posseduta quasi fosse una persona (cf.
Gen 4,1), un’idea resa ancor meglio poi con «generata» (vv.
24s).
Da lui fu «costituita» sulle sue opere, con una specie di investitura regale, «dall’eternità» (v.
23) specificata nel senso dei tempi più remoti con le espressioni «fin dal principio, dagli inizi della terra» e «come inizio della sua attività» (v.
22).
«Fin dal principio» può esser inteso anche come «alla base» dell’agire divino, aggiungendo alla priorità temporale quella del modello della causa esemplare.
     La presenza nella creazione (Pr 8,27-31) pone la Sapienza in un rapporto speciale con tutte le opere di Dio.
«Io ero là» (v.
26) non significa di per sé una presenza attiva.
Ma poi «Io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno» (v.
30) dice una partecipazione al compiacimento divino, ripetuto in Gen 1 con «vide che era cosa buona».
E il successivo «dilettandomi» presenta la Sapienza anche come suscitatrice della gioia in ogni opera creata da Dio, in generale sul globo terrestre e in particolare «tra i figli dell’uomo» (v.
31).
Quest’ultimo aspetto è portato avanti poi da Sir 24 e da Sap 7,22-8,1.
     Il brano liturgico non rivela dunque ancora la Trinità.
Ma è tra quelli che più da vicino, nell’Antico Testamento, hanno preparato la rivelazione della seconda Persona come Sapienza e Parola eterna che procede dal Padre e opera in sintonia con lui.
Aiuta a capire l’affermazione di Gesù: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (Vangelo), alla luce del prologo di Giovanni che si ispira a questo passo dei Proverbi (Gv 1,1-18 in particolare 1,3-4), come poi anche l’inno cristologico di Col 1,15-20 e l’esordio della lettera agli Ebrei (Eb 1,2-4).
E della paternità di Dio apre la prospettiva cosmica, oltre a quella strettamente religiosa.
  Seconda lettura: Romani 5,1-5          Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.
Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.
La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
    v Idea dominante di questo passaggio della lettera ai Romani è la speranza viva accesa in noi dalla giustificazione o recupero dal peccato e dalle mirabili prospettive di vita nuova, per il dono della grazia di Cristo e per l’amore dello Spirito Santo: inizia gli sviluppi che da Rm 5 culminano in Rm 8.
Tutta la Trinità vi appare, ma è opera soprattutto dello Spirito Santo il sostegno nel cammino della speranza, nominata qui da Paolo per tre volte, in altrettante riprese del pensiero.
     Prima (vv.
1-2) egli dice che la risposta di fede al dono della grazia di Cristo mette nella pace con Dio, che nella Bibbia vuol dire crescita armoniosa e piena della vita.
A tale pace si accompagna un «vanto» particolare, nel senso anche di ambizione, ma nel significato più santo e profondo, quale il gloriarsi per un fondamento sicuro della vita.
È un vanto che si proietta nella speranza nientemeno che «nella speranza della gloria di Dio», cioè di arrivare a tutta la ricchezza e lo splendore dell’opera di salvezza voluta dal Padre (cf.
Rm 8 ed Ef 1,3-14).
     Poi (vv.
3-4) l’apostolo fa un passo indietro a indicare quasi un supporto pure umano della speranza.
Dice infatti che motivo del vanto è anche il travaglio che continua ad essere richiesto al credente per vivere la fede.
Perché è un travaglio che costruisce e solidifica la speranza, salendo quattro ideali gradini: dalla tribolazione o persecuzione alla pazienza o capacità di sopportare, dalla pazienza all’irrobustimento della virtù, e da questo alla sicura speranza.
     Infine (v.
5) torna al fondamento divino per il quale la speranza cristiana non può andare delusa: l’amore di Dio nei nostri cuori, cioè nelle profondità più intime delle nostre persone.
Si tratta primariamente dell’amore che Dio ha per noi, portato e alimentato dentro di noi dallo Spirito Santo.
Ma, al culmine degli sviluppi di questa parte della lettera, Paolo dirà che lo Spirito Santo rende attivi anche noi nella corrispondenza allo stesso amore, in quanto: ci fa gridare «Abbà, Padre!»; sostiene il gemito per la rivelazione al mondo dei figli di Dio, paragonabile alle doglie di un parto; e ci mette dentro con gemiti inesprimibili i desideri e quello che è conveniente domandare per la piena realizzazione dei disegni amorosi di Dio (cf.
Rm 8,15-16.22-24,26-27).
  Vangelo: Giovanni 16,12-15          In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.
Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
       Esegesi      In questo brano del secondo discorso dell’ultima Cena (Gv 15-16), Gesù torna sulla promessa dello Spirito Santo.
Nel primo discorso ne aveva annunciato l’opera a favore della comunità dei discepoli (Gv 14,16-17.25-26), adesso ne prospetta la testimonianza di fronte al mondo, che opererà in un duplice modo (cf.
Gv 15,26): come diretto accusatore del mondo nelle coscienze umane (Gv 16,5-11) e come guida nella testimonianza che anche i discepoli hanno da dare, nel continuo e impegnativo sviluppo dell’esistenza dentro al mondo (la lettura odierna).
Destinatario del messaggio sono le comunità cristiane della fine del primo secolo e, insieme con loro, tutte le successive impegnate nella lotta contro il male e nella propria crescita.
     Lo Spirito Santo — dice Gesù — sarà intermediario, lungo la storia, fra le Persone divine e noi.
Sta per prendere il suo posto e dirà ai discepoli le cose che egli ora non può dire loro, perché non sono in grado di portarne il peso.
Non è che manchino di intelligenza, ma il mistero suo e della Trinità hanno bisogno dell’esperienza vissuta per essere approfonditi.
E le esigenze concrete della testimonianza si manifestano alla prova dei fatti, spesso tra ostacoli e persecuzioni: là lo Spirito sarà davvero l’altro Consolatore o Paraclito o Avvocato sostenitore.
Questa azione è annunciata con le due frasi: «vi guiderà a tutta la verità» e «vi annuncerà le cose future», o meglio «venute o venienti», perché si tratta non del futuro lontano, ma di quello che istante per istante arriva al nostro presente e che anche noi chiamiamo avvenimenti.
     Questo annuncio e questa guida realizzano la mediazione dello Spirito Santo anzitutto tra la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo, e noi.
È Cristo infatti «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).
E in riferimento a lui il Paraclito è «lo Spirito della verità» (a questo senso del testo originale è tornata la nuova versione della CEI, correggendo il generico «Spirito di verità» ancora in uso).
Infatti: «non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito…
prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Quest’ultimo verbo è ripetuto per tre volte alla fine degli ultimi tre versetti: «ananghèlei», un annunciare dall’alto, che vuol dire rivelare e insieme progressivamente attualizzare.
     L’ultimo versetto accenna alla mediazione dello Spirito Santo tra la prima persona della Trinità, il Padre, e noi.
Essa passa per l’opera del Figlio.
Perché, se lo Spirito guida alla verità tutta intera che è Cristo, prendendo del suo, Gesù aggiunge: «tutto quello che il Padre possiede è mio».
Questa estensione si intende bene con il Prologo di Giovanni (Gv 1,1-18), che al Padre attribuisce la creazione e la storia della salvezza, operate e rivelate mediante il Figlio e nel Figlio, l’Unigenito.
E spiega l’inserimento liturgico come prima Lettura del brano sulla Sapienza eterna di Dio.
  Meditazione Solennità della Santissima Trinità.
Una festa di recente istituzione, storicamente ben databile, che ci aiuta a concentrare l’attenzione in modo specifico sulle persone del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.
Noi siamo soliti parlare genericamente di Dio, cerchiamo di cogliere i tratti del suo volto a partire dalla sua Parola e in particolar modo a partire dall’esperienza di Gesù, che ce lo ha «rivelato» (Gv 1,18).
Ma ‘dimentichiamo’ sia lo Spirito santo sia di fissare lo sguardo sulla ‘vita interna’ di Dio, sulla sua interiorità più profonda…
Ardua impresa, si potrebbe obiettare: già è difficile capire cosa si annida nel cuore di un essere umano, figuriamoci in quello di Dio! Ma

Pentecoste Anno C

Preghiere e Racconti La Pentecoste La struttura dell’icona ricorda l’Ultima Cena: allora gli apostoli si stringevano intorno a Gesù per accogliere il suo testamento, ora si raccolgono intorno a Maria per perseverare nella preghiera, in attesa dello Spirito Paraclito.
La scena si svolge nella stessa stanza che vide Cristo istituire l’Eucaristia, la «camera alta» di Sion.
La comunione di quanti credono in Cristo è custodita dalla sollecita premura di Maria, beata perché per prima ha creduto all’adempimento della parola del Signore (cf Lc 1, 45).
La Madre di Dio e degli uomini, che ha conosciuto la potenza dello Spirito nell’Annunciazione, rassicura gli apostoli turbati per il forte vento che si abbatte gagliardo e che riempie tutta la casa dove si trovano.
Le lingue di fuoco che appaiono, che si dividono e che si posano su ciascuno di loro non provocano nessun incendio, ma illuminano le loro menti e accendono nei loro cuori il fuoco dell’Amore.
In questa Chiesa nascente, lo Spirito Santo riveste di forza gli apostoli, ricorda loro tutte le parole di Cristo e li rende testimoni del Vangelo sino agli estremi confini della terra.
Maria, nuovamente visitata dalla fecondità dello Spirito Santo, diviene Madre della Chiesa, rifugio mirabile dei discepoli che invocano la sua materna protezione.
  Vieni Spirito Santo.
Vento impetuoso, fuoco che divora, ma anche brezza leggera, scintilla di luce.
Vieni in me.
Parola potente, ma anche lieve sussurro.
Vieni in me.
Fresca cascata, ma anche rivolo d’acqua che estingue l’arsura…
Dammi occhi nuovi, dammi ali di libertà, dammi trasparenza di vita,                 dammi tenerezza e audacia e attenderò con te, nella speranza, il nuovo Giorno.
(Domenica GHIDOTTI, Icone per pregare.
40 immagini di un’iconografa).
Spirito di Dio Spirito di Dio, che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell’universo e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti.
Questo mondo che invecchia, sfioralo con l’ala della tua gloria.
Spirito Santo, che riempivi di luce i profeti e accendevi parole di fuoco sulla loro bocca, torna a parlarci con accenti di speranza.
Frantuma la corazza della nostra assuefazione all’esilio.
Ridestaci nel cuore nostalgie di patrie perdute.
Spirito Santo, che hai invaso l’anima di Maria per offrirci la prima campionatura di come un giorno avresti invaso la Chiesa e collocato nei suoi perimetri il tuo nuovo domicilio, rendici capaci di esultanza.
Donaci il gusto di sentirci estroversi, rivolti cioè verso il mondo, che non è una specie di Chiesa mancata, ma l’oggetto ultimo di quell’incontenibile amore per il quale la Chiesa stessa è stata costituita.
Spirito di Dio, che presso le rive del Giordano sei sceso in pienezza sul capo di Gesù e l’hai proclamato Messia, dilaga sul tuo corpo sacerdotale, adornalo di una veste di grazia, consacralo con l’unzione e invialo «a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, e a promulgare l’anno di misericordia del Signore» (cfr.
Lc 4,18-19).
Spirito Santo, dono del Cristo morente, fa’ che la Chiesa dimostri di averti ereditato davvero.
Trattienila ai piedi di tutte le croci, quelle dei singoli e quelle dei popoli.
Ispirale parole e silenzi, perché sappia dare significato al dolore degli uomini.
Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto, e ripeta col salmo: «Le mie lacrime, Signore, nell’otre tuo raccogli» (Sal 56,9).
(Don Tonino Bello).
  La fiamma dello Spirito Santo «Lo Spirito Santo accende sempre il suo fuoco, questa fiamma leggera, silenziosa, che non distrugge e anzi è carica di forza salvifica.
Dicendo questo, però, sorge spontaneo chiedersi: Arde ancora, oggi, nella Chiesa, questa fiamma? […].
Arde ancora nella Chiesa questa fiamma riconciliatrice e salvatrice, oppure è soffocata dalla polvere e dalle macerie di una quantità di abitudini, istituzioni, paure? Il cristianesimo è ancora fuoco e Spirito, oppure alla fine anche nel cristianesimo è rimasta solo acqua? l’acqua sollevata dalle teorie e dai discorsi ispirati, che cercano invano di nascondere con belle parole la perdita di realtà che vi si cela? Quasi ogni giorno, traversando piazza San Pietro mentre vado al lavoro, mi capita di incontrare giovani provenienti da ogni parte del mondo che non rincorrono la carriera, non vogliono solo mettersi in mostra, ma che sono colmi della gioia della fede e vogliono servire Cristo.
In essi riluce la gioia e il coraggio della conversione a Cristo.
Da incontri come questi io vedo che, sì, quella fiamma arde.
E quando incontro uomini nel pieno degli anni che, senza darsi grande importanza, giorno per giorno, con grande pazienza e umiltà, con bontà e costanza, portano avanti una vita spesso difficile – potrei raccontare parecchie piccole storie di bontà, di cui continuamente vengo a conoscenza – allora so che, sì, quella fiamma silenziosa e pur tuttavia potente arde ancora oggi.
E quando vedo dei vecchi che non hanno in sé alcuna amarezza ma la pura e matura bontà che viene dalla fede, dalla prossimità a Dio in Cristo, allora so che, sì, anche oggi nella Chiesa non c’è solo acqua, ma la fiamma dello Spirito Santo.
[…].
Certo, se da qualche parte scoppia uno scandalo, lo si viene a sapere subito in tutto il mondo.
La fiamma dello Spirito Santo non dà notizie mediatiche, ma è qui ed è ciò in cui confidiamo.
Rimettiamoci ad essa e voglia la Pentecoste aprire gli occhi del nostro cuore affinché possiamo vederla di nuovo.
[…] La fede è risanamento e salvezza.
Ma non possiamo essere salvati dalla fede se non accettiamo anche il dolore della trasformazione.
Nella lingua di Gesù Cristo, «fuoco» è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce.
Senza questa ardente condivisione della croce non esiste cristianesimo.
Ma il fuoco è anche un’immagine d’amore.
Anzi, in realtà queste due immagini coincidono perché la croce è amore e l’amore è croce: proprio in questo stanno la grandezza e la salvezza, e per averne coscienza la semplice esperienza umana è sufficiente.
L’attimo di grande entusiasmo e di coinvolgimento non basta, porta a promesse vuote e a delusioni, se non gli diamo continuità e una forma pura attraverso il quotidiano sopportarsi reciproco e sorreggersi, accettarsi e darsi, maturando un amore reale.
Vieni Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco del tuo amore! È una preghiera temeraria, perché chiediamo di essere incendiati dalla fiamma dello Spirito Santo; ma è anche una grande preghiera di salvezza, perché solo questa fiamma ha potere di salvezza.
Se ci sottraiamo a essa per voler conservare la nostra vita attuale, perdiamo proprio la vera vita.
Solo la fiamma dello Spirito Santo può salvarci, perché solo l’amore redime.
Amen».
(J.
RATZINGER [Benedetto XVI], Spirito e fuoco.
Discorso tenuto  nel Duomo di Regensburg, 4 giugno 1995 in J.
Ratzinger [Benedetto XVI], Vieni spirito Creatore, Lindau, Torino, 2006, 67-76).
«Vieni!» La Chiesa ha bisogno della sua perenne pentecoste.
Ha bisogno di fuoco nel cuore, di parole sulle labbra, di profezia nello sguardo.
La Chiesa ha bisogno d’essere tempio dello Spirito Santo, di totale purezza, di vita inferiore.
La Chiesa ha bisogno di risentire salire dal profondo della sua intimità personale, quasi un pianto, una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante cioè dello Spirito Santo, che a noi si sostituisce e prega in noi e  per noi «con gemiti ineffabili», e che interpreta il discorso che noi da soli non sapremmo rivolgere a Dio.
La Chiesa ha bisogno di riacquistare la sete, il gusto, la certezza della sua verità e di ascoltare con inviolabile silenzio e con docile disponibilità la voce, il colloquio parlante nell’assorbimento contemplativo dello Spirito, il quale insegna «ogni verità».
E poi ha bisogno la Chiesa di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà, l’onda dell’amore che si chiama carità e che è diffusa nei nostri cuori proprio «dallo Spirito Santo che ci è stato dato».
Tutta penetrata di fede, la Chiesa ha bisogno di sperimentare l’urgenza, l’ardore, lo zelo di questa carità; ha bisogno di testimonianza, di apostolato.
Avete ascoltato, voi uomini vivi, voi giovani, voi anime consacrate, voi fratelli nel sacerdozio? Di questo ha bisogno la Chiesa.
Ha bisogno dello Spirito Santo in noi, in ciascuno di noi, e in noi tutti insieme, in noi Chiesa.
Sì, è dello Spirito Santo che, soprattutto oggi, ha bisogno la Chiesa.
Dite dunque e sempre tutti a lui: «Vieni!».
(PAOLO VI, Discorso del 29 novembre 1972).
Non lasciarmi senza il tuo Spirito O Signore, ascolta la mia preghiera.
Tu hai promesso ai tuoi discepoli che non li avresti lasciati soli, ma avresti mandato lo Spirito Santo per guidarli e condurli alla piena Verità.
Mi sembra di brancolare nel buio.
Ho ricevuto tanto da te, eppure è difficile per me stare semplicemente quieto e presente dinanzi a te.
La mia mente è così caotica, così piena di idee disperse, di piani, di memorie, di fantasie.
Voglio stare con te e con te soltanto, concentrarmi sulla tua Parola, ascoltare la tua voce e guardare a te mentre ti riveli ai tuoi amici.
Ma, anche con le migliori intenzioni, divago pensando a cose meno impor-tanti e scopro che il mio cuore è attirato verso i miei piccoli tesori senza valore.
Non posso pregare senza la potenza dall’alto, la potenza del tuo Spirito.
Manda il tuo Spirito, Signore, affinché il tuo Spirito possa pregare in me, possa dire «Signor Gesù» e gridare «Abbà, Padre».
Io aspetto, Signore, sono in attesa, spero.
Non lasciarmi senza il tuo Spirito.
Dammi il tuo Spirito che unisce e consola.
Amen.
(J.M.
NOUWEN, Manoscritto inedito, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 243-244).
Credere nello Spirito santo Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Dio, significa per me ammettere fiduciosamente che Dio stesso può farsi presente nel mio intimo, che egli come potenza e forza di grazia può diventare il signore del mio intimo ambivalente, del mio cuore spesso così insondabile.
E, ciò che qui è per me particolarmente importante: lo Spirito di Dio non è uno spirito di schiavitù.
Egli è comunque lo Spirito di Gesù Cristo, che è lo Spirito di libertà.
Questo Spirito di libertà promanava già dalle parole e dalle azioni del Nazareno.
I1 suo Spirito è ora definitivamente lo Spirito di Dio, da quando il Crocifisso è stato glorificato da Dio e vive e regna nel modo di essere di Dio, nello Spirito di Dio.
Perciò a piena ragione Paolo può dire: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Cor 3,17).
E con ciò non s’intende soltanto una libertà dalla colpa, dalla legge e dalla morte, ma anche una libertà per 1’agire, per una vita nella gratitudine, nella speranza e nella gioia.
E ciò ad onta di tutte le carenze delle strutture e di tutti i tradimenti del singolo.
Questo Spirito di libertà, in quanto Spirito del futuro, mi spinge in avanti: non nell’aldilà della consolazione, ma nel presente della prova.
E poiché so che lo Spirito santo è lo Spirito di Gesù Cristo, io ho anche un criterio concreto per saggiare e discernere gli spiriti.
Dello Spirito di Dio non si può più abusare come di una forza divina oscura, senza nome e facilmente equivocabile.
No lo Spirito di Dio è con tutta chiarezza lo Spirito di Gesù Cristo.
E ciò significa in modo del tutto concreto che né una gerarchia né una teologia e neppure un fanatismo che vogliano richiamarsi allo «Spirito santo» oltre Gesù, possono requisire lo Spirito di Gesù Cristo.
Qui hanno i loro limiti ogni ministero, ogni obbedienza, ogni partecipazione alla vita della teologia, della chiesa e della società.
Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Gesù Cristo significa per me, anche di fronte ai molti movimenti carismatici e pneumatici: che lo Spirito non è mai una mia propria possibilità, ma è sempre forza, potenza, dono di Dio – da ricevere con fiducia incondizionata.
Egli quindi non è un non santo spirito del tempo, della chiesa, del ministero o dell’entusiasmo; egli è sempre il santo Spirito di Dio, che soffia dove e quando vuole, e non si lascia catturare da nessuno: come giustificazione di un potere assoluto di insegnamento e di governo, di infondate leggi dogmatiche della fede o anche di un fanatismo religioso e di una falsa sicurezza della fede.
No, nessuno – né vescovo né professore, né parroco né laico – «possiede» lo Spirito, ma ognuno può invocare di continuo: «Vieni, santo Spirito».
Ma, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io posso, con buone ragioni, credere non certo nella chiesa, ma nello Spirito di Dio e di Gesù Cristo anche in questa chiesa, che è composta da uomini fallibili come lo sono anch’io.
E, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io sono preservato dalla tentazione di staccarmi, rassegnato o cinico, dalla chiesa.
Poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito io, nonostante tutto, posso dire in buona coscienza: credo la santa chiesa.
Credo sanctam ecclesiam.
(H.
KUNG, Credo) Preghiera allo Spirito Santo Spirito Santo, eterno Amore, che sei dolce Luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore; Tu ci guidi qual mano di una mamma; ma se Tu ci lasci non più d’un passo solo avanzeremo! Tu sei lo spazio che l’essere mio circonda e in cui si cela.
Se m’abbandoni cado nell’abisso del nulla, da dove all’esser mi chiamasti.
Tu a me vicino più di me stessa, più intimo dell’intimo mio.
Eppur nessun Ti tocca o Ti comprende e d’ogni nome infrangi le catene.
Spirito Santo, eterno Amore.
(Edit Stein [S.
Teresa Benedetta della Croce]).
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.