Maria SS. Madre di Dio anno A

Preghiere e racconti   IL GREMBO DELLA MADRE  «II Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.
Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace» (Nm 6,25-26).
«Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano.
Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 18-19).
 L’anno nuovo ha fatto irruzione nella nostra vita.
  L’augurio  «Buon anno!» diciamo a tutti e stringiamo mille mani per esprimere ai nostri compagni di viaggio, imbarcati con noi sulla nave della vita, l’auspicio di tanta felicità.
Non c’è nulla di più bello e di più sacro di questo intreccio di mani, fatto a Capodanno: dovrebbe essere il simbolo di una volontà di amore, di apertura, di dialogo, di impegno a costruire un fitto reticolato di solidarietà tra tutti gli uomini, nella giustizia e nella fratellanza.
Se davvero ognuno di noi, per rendere il mondo più umano, mettesse nel corso di tutto l’anno lo stesso puntiglio con cui in queste ore dona e riceve gli auguri, la causa della pace nel mondo sarebbe già mezzo risolta.
Purtroppo, però, in questo scambio di felicitazioni prevale più lo scongiuro che il senso della speranza cristiana.
Sembra quasi che si voglia esorcizzare l’avvenire con formule scaramantiche, gravide di paure più che di promesse.
Diciamo «auguri», ma ci trema la voce.
Stringiamo la mano, ma il braccio è malfermo.
È che siamo sopraffatti dallo scoraggiamento, rassegnati di fronte agli insuccessi, appesantiti dalla barbarie presente nel mondo.
Nonostante tutto, però, di fronte a un anno che nasce, a noi credenti è severamente proibito essere pessimisti.
Qualche anno fa era in cartellone, presso i maggiori teatri d’Italia, uno spettacolo dal titolo «Chi vuol esser lieto sia, di doman c’è gran paura».
È un’espressione che non possiamo assolutamente condividere, perché se c’è qualcosa che il domani contiene, questa ha un nome: la speranza di oggi.
Non lasciamoci, perciò, sopraffare dalla ineluttabilità del male.
Poniamo gesti significativi di riconciliazione.
Svegliamo l’aurora.
Proclamiamo sempre più con le opere e sempre meno con le chiacchiere che Gesù Cristo è vivo e cammina con noi.
  La speranza  Nostra speranza è, oggi, la pace.
Da quando Paolo VI l’ha scelto per la celebrazione della Giornata mondiale della pace, l’augurio di riconciliazione e di solidarietà scavalca la sfera dei rapporti strettamente personali e raggiunge gli estremi confini della terra.
È molto significativo che l’anno nuovo cominci proprio con questo impegno, sottolineato ogni volta da un particolare tema di riflessione proposto dal Papa.
Sembra quasi che si voglia mettere sotto un unico grande manifesto programmatico le opere e i giorni di questo nuovo arco di storia.
Per noi credenti, comunque, la giornata della pace non può essere un rito celebrativo.
Se non ci scomoda, se non ci fa stare sulle spine, se non ci induce a salire sulle barricate, se non ci sollecita a scelte che costano, se non ci procura il sorriso o il fastidio di qualche benpensante, sarà solo l’occasione per una risciacquata di buone emozioni.
Gravi situazioni di non pace sono presenti nel mondo.
Le logiche di guerra imperversano ancora, anche se dai campi di battaglia hanno traslocato sui tavoli di un’economia che penalizza i poveri.
La corsa alle armi, nonostante i segnali positivi lanciati da tanta gente di buona volontà, non accenna a fermarsi.
La militarizzazione del territorio è ancora costume consolidato.
La connessione tra malavita internazionale, commercio di armi e commercio di droga si fa sempre più oscena.
La   violazione dei diritti umani, espressa a volte su popoli interi, continua a turbarci.
Il degrado ambientale, oltre a preoccupare per il futuro gravido di incubi, ci fa cogliere in positivo i nodi che legano pace, giustizia e salvaguardia del creato.
Così ogni operazione di guerra e ogni violazione della giustizia si tramutano in allucinanti serbatoi di paure cosmiche.
Di fronte a questo quadro, il lamento deve prevalere sulla danza? No, nel modo più assoluto.
Bisogna però prendere posizione.
La giornata della pace deve provocare all’esodo, alla vera transumanza (trans humus = passaggio da una terra all’altra), richiesta alla nostra coscienza cristiana.
Perciò lo studio sui temi della nonviolenza attiva e l’assunzione della difesa popolare nonviolenta come modulo che assicura la convivenza pacifica tra i popoli, devono diventare proposito concreto da esprimere tutto l’anno.
  La benedizione  Due segni fanno prevalere la speranza sulla tristezza dei presagi.
II primo è il volto del Padre.
Il Signore ci aiuterà.
Imploriamolo con la preghiera.
Se egli farà «brillare il suo volto su di noi» (Nm 6, 25), non avremo bisogno di scomodare gli oroscopi per pronosticare un futuro gonfio di promesse.
Tutto questo significa che dobbiamo camminare alla luce del suo volto e, riscoperta la tenerezza della sua paternità, impegnarci una buona volta nell’osservanza della sua legge.
E il secondo è il grembo della Madre.
Tutti i nostri buoni propositi prenderanno carne e sangue se saranno gestiti nel grembo di Maria.
È il luogo teologico fondamentale, dove i grandi progetti di salvezza si fanno evento.
II figlio della pace ha trovato dimora in quel grembo duemila anni fa.
Oggi è solo in quel grembo che avrà concepimento e gestazione la pace dei figli.
Per cui la festa di Maria madre di Dio, mentre ricorda le altezze di gloria a cui la creatura umana è stata chiamata, ci esorta anche a sentirci così teneramente figli di lei, da riscoprire in quell’unico grembo le ragioni ultime del nostro impegno di fratellanza e di pace.
 (Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 85-90).
  Sei divenuta dimora dell’immensa Maestà Fratelli carissimi, ammirando in silenzio, nel nostro cuore, la grandezza di Maria, eleviamo un inno di lode e diciamo: «Vergine Maria, veramente beata, riconosci la tua gloria, quella gloria che l’angelo ti ha annunciata, che Giovanni ha profetizzato per bocca di Elisabetta non ancora madre, dal profondo del suo seno: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo seno” (Lc 1,42).
Tu hai meritato di accogliere quella venuta promessa al mondo interi da secoli.
Sei divenuta dimora dell’immensa Maestà.
Tu sola, per un dono particolare, hai posseduto per nove mesi la speranza del mondo, l’ornamento dei secoli, la comune gioia di tutti.
Colui che ha dato principio a ogni cosa ha preso inizio da te e ha ricevuto dal tuo corpo il sangue da versare per la vita del mondo.
La vita di tutti i secoli è nata dal tuo unico figlio, hai meritato di chiamare figlio tuo il padre degli angeli.
Ecco, sei stata esaltata sopra i cori degli angeli, accanto al Figlio e re, madre beata, regina che regnerai in eterno.
E colui al quale hai offerto ospitalità nel tuo seno, ti ha donato il regno dei cieli».
(RABANO MAURO, Omelia sull’Annunciazione di santa Maria, PL110,55C-D).      Proemio Maria ci appare dalle profondità dell’infinito in una mandorla stellata, circondata da quattro angeli che la onorano gioiosi.
Lei è là, nella gloria del cielo: ci aspetta a braccia aperte e intercede per noi presso Dio.
 Contempliamo Maria attraverso le Icone che rivelano i misteri della sua vita.
Contempliamo Maria aprendo a Lei il cuore.
Contempliamo Maria nella sua bellona.
Contempliamo Maria ascoltandola e imparando da Lei.
Contempliamo Maria esprimendo a Lei i nostri bisogni immensi.
Contempliamo la Donna, la Vergine, colei che non teme di perdere e di perdersi.
Contempliamo la Madre genitrice del Verbo, lasciando che generi in noi il Cristo vivente.
Contempliamo Maria orante e intercediamo per il mondo intero.
Contempliamo Maria mettendoci nelle sue mani con la nostra piccolezza.
Contempliamo Maria per se stessa, trascorrendo del tempo con Lei in silenzio gioioso in stupore estasiato, cullati dal suo amore di madre infinita tenerezza per ogni creatura.
Maria! Desiderata pace sconfinato bene…
  BUON ANNO A TE  Buon anno a te, che stai inchiodato su un letto e non riesci a smettere di maledire la vita che ti ha riservato tale trattamento, il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace.
Buon anno a te, che vedi il sole a scacchi, che pensi a tutte le cose che potrai fare quando sulle ali della libertà volerai verso mondi sereni e felici: il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace.
Buon anno a te, che ti risvegli sulla panchina del parco, magari più infreddolito del solito, bestemmiando perché un altro anno comincia ma per te nulla è cambiato: il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace.
Buon anno a te, anziano, lasciato triste e solitario in uno stanzone maleodorante, in mezzo a tanti tristi simili, a te che sconti il peso della tua vecchiaia solo, senza amici: il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace.
Buon anno a te, mamma in difficoltà, famiglia separata, giovane che cerchi la felicità nella droga, bambino abbandonato, donna sfruttata da clienti senza amore, fratello immigrato, il Signore rivolga su di voi il suo volto e vi dia pace.
Buon anno anche a noi tutti, discepoli del Signore Gesù: il Signore rivolga su di noi il suo volto e non ci dia pace fino a che non capiremo che noi, oggi, siamo la sua mano misericordiosa che si prende cura delle membra ferite della nostra umanità.
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).   MARIA SS.
MADRE
DI DIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Numeri 6,22-27        Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro:Ti benedica il Signore e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”.
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».
    v La prima lettura, ripresa come al solito dall’A.T., contiene la solenne benedizione che Aronne e i suoi figli dovevano dare al popolo al termine delle funzioni liturgiche o dei sacrifici.
Nel libro del Levitico 9.22 si parla della benedizione del solo Aronne al popolo, al termine dei sacrifici che caratterizzavano l’investitura del sommo sacerdote.
Secondo la tradizione rabbinica posteriore, la benedizione si impartiva ogni giorno, dopo il sacrificio della sera.         E il contenuto della benedizione è semplice e solenne nello stesso tempo.
In una triplice ondata, la benedizione si va allargando da 3 a 5, a 7 parole, nell’originale ebraico.
Anche il contenuto della benedizione si va allargando e approfondendo: dalla semplice benedizione perché il Signore “ti protegga”, si passa allo splendore luminoso e consolante del “volto” di Dio, fino alla invocazione del dono ultimo della “pace” (7,24-26).
             E noi sappiamo che la “pace” (in ebraico shalóm) è per la Bibbia non un dono soltanto, ma un po’ la “somma”, la “pienezza” di tutti i beni.
Proprio per questo, oggi soprattutto, vogliamo pregare la Santa Madre di Dio perché illumini la mente di tutti gli uomini nella ricerca della vera “pace”.
Ne abbiamo soprattutto bisogno in questo tormentato periodo della storia del mondo.
Che davvero «il Signore rivolga su di noi il suo volto e ci conceda pace» (6,27), come abbiamo appena ascoltato!   Seconda lettura: Galati 4,4-7             Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.
E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.
    v La seconda lettura è ripresa da un breve passo della Lettera ai Galati in cui Paolo ricorda la “madre” di Gesù, direi quasi di passaggio: talmente egli e preso dalla figura di Gesù, che il resto gli appare come secondano!      Il testo è carico di teologia e meriterebbe di essere approfondito: noi qui diremo solo quello che in qualche maniera ci rimanda alla solennità di oggi.
Ecco il testo: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mando il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge […] perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4-5).
     L’espressione “nato da donna” vuole sottolineare la realtà dell’umanizzazione di Cristo, ed è generica: non c’è, a nostro parere, un qualche velato accenno alla concezione verginale di Cristo, come qualcuno ha voluto pensare Paolo è tutto preso dall’evento “Cristo”, che è venuto in mezzo a noi per farci dono della “filiazione” adottiva: «perché ricevessimo l’adozione a figli» (4-5).
     E questa grande “rivelazione” della nostra adozione a “figli” di Dio, “in Cristo” è qualcosa che viene interiormente testimoniato dalla presenza in noi dello “Spirito Santo”, che ci apre il cuore alla fede e all’amore.
Senza il “tocco” dello Spirito non avvertiremmo che Dio ci è “padre” e, in Cristo, ci ha come introdotti nella sua famiglia! Sembra quasi che qui Paolo stesso si commuova davanti alle sue stesse affermazioni: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre!» (4,6).
     L’appellativo “Abbà” è una formula confidenziale, in lingua aramaica antica, tipica del linguaggio familiare dei bambini, e che Gesù stesso ha adoperato per rivolgersi al Padre nella preghiera del Getsemani: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!» (Mc 14,36).
     Mediante lo Spirito che inabita in noi, e che il Risorto ci ha inviato, ci rivolgiamo anche noi al Padre perché ascolti la nostra preghiera e ci guardi come suoi “figli”: «Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio» (4,7).
L’ultima espressione ci trasferisce addirittura fuori del tempo, proiettandoci nell’eternità che ci attende: «Se figlio, sei anche erede per grazia di Dio».
C’è solo da stupirsi e da gioire!   Vangelo: Luca 2,16-21          In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia.
E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.  Tutti que

NATALE DEL SIGNORE Anno A

Preghiere e racconti   La notte del Mite Questa è notte di riconciliazione, non vi sia chi è adirato o rabbuiato.
In questa notte, che tutto acquieta, non vi sia chi minaccia o strepita.
Questa è la notte del Mite, nessuno sia amaro o duro.
In questa notte dell’Umile non vi sia altezzoso o borioso.
In questo giorno di perdono non vendichiamo le offese.
In questo giorno di gioie non distribuiamo dolori.
In questo giorno mite non siamo violenti.
In questo giorno quieto non siamo irritabili.
In questo giorno della venuta di Dio presso i peccatori, non si esalti, nella propria mente, il giusto sul peccatore.
In questo giorno della venuta del Signore dell’universo presso i servi, anche i signori si chinino amorevolmente verso i propri servi.
In questo giorno, nel quale si è fatto povero per noi il Ricco anche il ricco renda partecipe il povero della sua tavola.
Oggi si è impressa la divinità nell’umanità, affinché anche l’umanità fosse intagliata nel sigillo della divinità.
(EFREM IL SIRO, Inni sulla Natività 1,88-95.99, in ID., Inni sulla Natività e sull’Epifania, Milano 2003, pp.
134-136).
  «Sia questo per voi il segno; troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2, 12)   Fissiamo l’attenzione su alcuni punti.
  I pastori Un primo spunto di riflessione è offerto proprio dai destinatari del messaggio dell’angelo del Natale: i pastori.
Essi vengono privilegiati da questa primizia di annuncio non tanto perché poveri – come sempre abbiamo pensato -, quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati com’erano a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l’altrui.
Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione.
Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi, figli fedeli della casa paterna: Dio non richiede credenziali ne affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta.
Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l’unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c’è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto risuonano in chiesa le voci della piazza, accanto al gregoriano? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della confraternita a cui apparteniamo, della sacrestia che frequentiamo?   L’angelo del Natale Un secondo spunto viene offerto dal messaggio.
Contiene una promessa, indicata da un verbo di movimento: «Troverete» (Lc 2,12).
Il trovare presuppone una ricerca, un cammino, un esodo.
Per i pastori si trattò solo di abbandonare i fuochi del bivacco e le capanne di fronde erette a difesa dalle intemperie.
Per noi le partenze sono molto più laceranti: ci viene chiesto di abbandonare i recinti delle nostre sicurezze, i calcoli delle nostre prudenze, il patrimonio culturale di cui siamo solerti conservatori.
È un viaggio lungo e faticoso, quasi un salto nel buio.
Si tratta infatti di ripercorrere, a ritroso, secoli e secoli di storia; di rileggere, con occhi diversi, le varie tappe della civiltà, per ritrovare le origini del cristianesimo nella grotta di Betlemme.
E non è detto che la meta della nostra ricerca sia un Dio glorioso.
Ci vengono garantiti solo dei segni: un bambino, le fasce, la mangiatoia: i segni della debolezza, del nascimento e della povertà di Dio.
Un bambino inerme.
Simbolo di chi non può vantare alcuna prestazione.
Di chi può solo mostrare, piangendo, la propria indigenza.
A questo punto il discorso sulla debolezza di i Dio, più che assumere le cadenze del moralismo (tale, cioè, da spingerci ad amare i deboli, gli indifesi, i non garantiti), dovrebbe stimolare la riflessione teologica sul perché Dio ha deciso di spiazzare tutti manifestando la sua gloria nei segni del non-potere, della non-violenza.
  La veste del bambino Le fasce sono simbolo del nascondimento di Dio, velano la sua presenza perché la sua luce non ciechi i nostri occhi.
Saranno ritrovate nel sepolcro, per terra, quando lui, il Signore, avrà sconfitto la morte e dichiarato abolite tutte le croci.
Ma da quando Maria le ha utilizzate per la prima volta quella notte, suo Figlio non ha mai smesso di riutilizzarle.
Ancora oggi continua a giacere avvolto in fasce.
Qui, se per poco ci mettiamo a «sbendare», le coperte s’infittiscono paurosamente: migliaia di volti spauriti a cui nessuno ha mai sorriso; membra sofferenti che nessuno ha accarezzato; lacrime mai asciugate; solitudini mai riempite; porte a cui mai nessuno ha bussato.
E si potrebbe continuare all’infinito, in un interminabile rosario di sofferenze.
È qui che Dio continua a vivere da clandestino.
A noi il compito di cercarlo; di cominciare a bazzicare certi ambienti non troppo piacevoli; di lasciarci ferire dall’oppressione dei poveri, prima di cantare le nenie natalizie davanti al presepio.
Guardare oltre le fasce, riconoscere un volto, trovare trasparenze perdute, coltivare sogni innocenti: non è un andare incontro alla felicità?   La culla del neonato La mangiatoia è il simbolo della povertà di tutti i tempi; vertice, insieme alla croce, della carriera rovesciata di Dio che non trova posto quaggiù.
È inutile cercarlo nei prestigiosi palazzi del potere dove si decidono le sorti dell’umanità: non è lì.
È vicino di tenda dei senza-casa, dei senza-patria, di tutti coloro che la nostra durezza di cuore classifica come intrusi, estranei, abusivi.
La mangiatoia è però anche il simbolo del nostro rifiuto «È venuto nella sua casa, ma i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1, 11).
È l’epigrafe della nostra non accoglienza.
La greppia di Betlemme interpella, in ultima analisi, la nostra libertà.
Gesù non compie mai violazioni di domicilio: bussa e chiede ospitalità in punta di piedi.
Possiamo chiudergli la porta in faccia.
Possiamo, cioè, condannarlo alla mangiatoia: che è un atteggiamento gravissimo nei confronti di Dio.
Sì, è molto meno grave condannare alla croce, che condannare alla mangiatoia.
Se però gli apriremo con cordialità la nostra casa e non rifiuteremo la sua inquietante presenza ha da offrirci qualcosa di straordinario: il senso della vita, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la gioia del servizio, lo stupore della vera libertà, la voglia dell’impegno.
Lui solo può restituire al nostro cuore, indurito dalle amarezze e dalle delusioni, rigogli di nuova speranza.
  (Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 79-84).
  Esulta dunque! Ecco quale è la festa che celebriamo oggi: la venuta di Dio presso gli uomini affinché andiamo a Dio o ritorniamo a lui – è più esatto parlare di ritorno -, affinché deponiamo l’uomo vecchio e ci rivestiamo del nuovo (cfr.
Ef 4,22-24) e, come siamo morti in Adamo, così viviamo in Cristo (cfr.
1Cor 15,22), nascendo con lui, con lui essendo crocifissi, con lui sepolti, con lui resuscitando (cfr.
Rm 6,4; Col 2,12; Ef 2,6).
[…] Per questo non celebriamo la festa come fosse una solennità profana, ma in maniera divina, non in maniera mondana, ma sovramondana, non come una nostra festa, ma come quella di colui che è nostro, o piuttosto del Signore, non come festa della malattia, ma della guarigione, non come quella della creazione, ma della ri-creazione.
[…] Dio sempre fu e sempre è e sarà, o piuttosto, egli è sempre.
Poiché le espressioni «era» e «sarà» corrispondono a divisioni umane del tempo e della natura sottoposte a mutamento; «colui che è» è invece il nome che si da Dio stesso quando si rivela a Mosè sulla montagna (cfr.
Es 3,14).
Riunendo tutto in se stesso, possiede l’essere senza principio, senza termine, è come un oceano di esistenza senza limiti né confini, che va al di là di ogni idea di tempo e di natura.
[…] Ma ora sappi che Cristo è concepito.
Esulta, dunque, se non come Giovanni nel seno di sua madre (cfr.
Lc 1,41), almeno come Davide al vedere che l’arca trova riposo (cfr.
2Sam 6,14) ; onora il censimento, grazie al quale sei stato inscritto nei cieli; celebra la Natività grazie alla quale sei stato liberato dai legami di una nascita puramente umana, per rinascere a quella divina; onora la piccola Betlemme che ti ha ricondotto in paradiso, adora la mangiatoia, tu che, insensato, sei stato nutrito dal Verbo.
(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi  38,4.7.17, SC 358, pp.
108-110; 114-116).
  Il Verbo si è fatto carne A imitazione di Gesù Cristo, immagine di Dio, non allontaniamoci neppure noi da Dio, perché anche noi siamo immagine di Dio (cfr.
Gen 1,26-27), di certo non uguale perché creata dal Padre attraverso il Figlio e non nata dal Padre come [il Figlio, che è] la sapienza di Dio.
Noi siamo immagine perché illuminati dalla luce; il Figlio, invece, perché è luce che illumina e perciò, pur non avendo un modello per sé, è modello per noi.
Egli non è modellato su qualcuno che lo precede presso il Padre; dal Padre, infatti, non può mai essere separato perché egli è quello stesso da cui ha origine.
Noi, invece, cerchiamo di imitare un modello che non muta, seguiamo uno che non si muove e camminando in lui, che è per noi una dimora eterna, tendiamo a lui perché è divenuto per noi nella sua umiliazione una via attraverso il tempo.
Agli spiriti immateriali senza peccato che non sono caduti a motivo della superbia il Figlio offre un esempio nella forma di Dio, in quanto uguale a Dio e Dio, ma per offrirsi come esempio di ritorno all’uomo caduto, che a causa dei suoi peccati e della condanna alla mortalità era incapace di vedere Dio, «si è svuotato» (Fil 2,7), non mutando la sua divinità, ma assumendo la nostra mutabilità e prendendo la natura di servo, venne in questo mondo (cfr.
Fil 2,7) verso di noi, lui che era in questo mondo, perché «il mondo è stato fatto per mezzo di lui»  (Gv 1,10), per essere un esempio a quelli che nelle altezze contemplano Dio, per essere un esempio a quelli che sulla terra ammirano in lui l’uomo, esempio di perseveranza per i sani, esempio di guarigione per gli infermi, esempio di coraggio per quanti si preparano a morire, esempio di resurrezione per i morti, avendo il primato in tutte le cose (cfr.
Col 1,18).
Per conseguire la felicità l’uomo non doveva seguire nessun altro se non Dio, ma egli non era in grado di vedere Dio; seguendo il Dio fatto uomo avrebbe seguito nello stesso tempo uno che poteva vedere e uno che doveva seguire.
Amiamolo dunque e uniamoci a lui con la carità che «è stata diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5).
(AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità 7,12-13, Opere di sant’Agostino, parte I/IV, pp.
302-304).
    Il Natale del Signore   Il Natale è tra le feste più importanti della tradizione cristiana.
In questa icona della Natività, la Vergine è rappresentata nella grotta mentre prende in braccio il Figlio con un gesto di indicibile affetto.
Le genti, i re Magi, i pastori, convocati dagli angeli, manifestano la partecipazione di tutto il mondo alla salvezza.
I re Magi, salendo, evocano lo sforzo umano di penetrare i misteri di Dio.
Gli angeli, invece, annunciano ai pastori, popolo eletto, che il Mistero è presente: abbiamo solo bisogno della purezza del cuore per riconoscerlo.
San Giuseppe è seduto in atteggiamento pensoso; è tentato dal dubbio che questa nascita sia veramente opera divina.
Sopra la grotta, con un raggio azzurro, è raffigurata la stella che ha guidato i Magi fino a Betlemme.
La gioia del momento è turbata da presentimenti inquietanti: la grotta richiama una tomba, la culla un sarcofago e il Bimbo è avvolto in fasce come quelle che avvolgono un morto.
La nascita di Cristo rimanda alla sua Pasqua di morte e di risurrezione: questo Bambino è il Salvatore del mondo! Nell’icona, però, il dolore non prevale, in tutto risplende la ritrovata pace paradisiaca che è il fine dell’Incarnazione.
  Oggi viene svelato il mistero rimasto nascosto per secoli.
Oggi il Figlio di Dio diventa figlio dell’uomo…
Maria, confusa e dolce, tu guardi il Figlio, colui che ha le fattezze del tuo volto, volto umano di Dio, che ridarà bellezza ad ogni volto d’uomo.
Adori il mistero e ti abbandoni alla sua grandezza.
Ricolmaci, o Madre, della tua pace, ridonaci la bellezza della grazia, e aiutaci a farci grembo a Dio, perché cresca in noi…
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
       NATALE DEL SIGNORE   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 52,7-10          Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme,  perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.
    v Quante volte può capitare che una notizia buona renda “bella”, gradevole e beneaugurante anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine invero un po’ ardita, ai piedi “belli” di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca.
È un messaggio lieto, che augura il bene supremo della salvezza, che consiste nel fatto che Dio ormai inaugura il suo regno.
Non sono più i regni umani, di solito oppressivi, fondati sulla violenza, la menzogna e l’ingiustizia, a consolidarsi; nemmeno si tratta di un “Vangelo” che annunzia buone notizie che riguardano un re terreno, che per esigenze di propaganda deve far sapere che tutto va bene e che c’è pace e sicurezza.
È invece il regno di Dio a essere annunciato: è quel regno che Israele aveva cercato invano, come pure talvolta aveva rifiutato, quando chiese a Samuele un re come quelli degli altri popoli.
Israele ha capito la lezione e sa che, in maniera misteriosa ma reale è Dio stesso a regnare su di lui.
Anzi, se talvolta Dio si nasconde, lo fa perché il suo popolo dimentica che un re terreno significa schiavitù, mentre il re divino è l’origine e l’apice della libertà.
     Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati reagendo con gioia espressa da alte grida.
L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato appello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9).
Quelle stesse rovine che erano testimonianza della catastrofe nazionale delle generazioni che non avevano voluto obbedire a Dio, agli occhi del profeta rappresentano un elemento che consola, perché ormai non si sperava più nella libertà e nel ritorno nella terra dei padri per adorare il Signore.
Il ritorno di Dio verso il suo popolo produce il vero cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza una prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro: infatti, Dio dimostra di essere dalla parte d’Israele liberandolo dai suoi nemici.
  Seconda lettura: Ebrei 1,1-6              Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente.
Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».
    v Alla storia della salvezza, che si è dipanata attraverso i Padri che hanno ascoltato dalla viva voce dei profeti la parola che Dio aveva da dire al proprio popolo, fa riferimento l’autore della Lettera agli Ebrei.
Questa stessa storia della salvezza, però, ha raggiunto l’acme con la venuta del Figlio di Dio, il quale possiede un’autorità diversa da quella degli antichi profeti: egli, infatti, è stato costituito dal Padre «erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo».
     Il Figlio, dunque, non è un semplice portavoce di Dio, ma è la misura della creazione, realizzata in vista di lui, come afferma pure il prologo giovanneo: «Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui».
C’è anche il titolo di erede, con il quale si esprime l’intenso rapporto con il Padre: in quanto erede, Gesù riveste il ruolo di comprimario con il Padre, il quale lo ha fatto addirittura sedere alla sua destra nell’alto dei cieli.
     Tale prerogativa del Figlio si è realizzata a partire dal mistero pasquale: «Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli».
L’esaltazione, dunque, avviene dopo il difficile passaggio pasquale.
     All’inizio abbiamo accennato al fatto del Natale come Pascha inchoata.
In realtà, è tutto il Nuovo Testamento a convergere in quella direzione, che conferisce senso a ogni cosa.
Quindi, anche lo stesso Natale acquista senso dalla centralità del mistero pasquale, perché ciò che viene solo adombrato nella nascita di Gesù, momento sublime dell’incarnazione, si palesa nella sua morte e risurrezione.
  Vangelo: Giovanni 1,1-18            In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
   

IV Domenica di Avvento anno A

Preghiere e racconti   La verità di Dio Giuseppe è della stessa tempra di Maria: un credente in ascolto di ciò che gli avviene.
La notizia della maternità prossima di Maria non suscita in lui alcuna reazione difensiva.
Di lui non si conserva alcuna parola.
Non è una persona che parla o aggiusta le cose a proprio vantaggio: si limita ad ascoltare ciò che l’angelo gli rivela.
La verità di Dio è più importante di ciò che Giuseppe vive.
E questa verità Giuseppe la rispetta senza alcuna aggressività, senza nemmeno pensare a difendersi.
Sia per Maria che per Giuseppe, l’annunciazione è una cosa incredibile.
Nessuno può essere all’altezza di una simile verità.
Nonostante questo, non vi è nessuno scetticismo, nessun comportamento attendista, nessuna presa di distanza, niente che faccia pensare a un sentimento di rivalsa.
Solo fede e abbandono.
Maria e Giuseppe hanno rinunciato alla loro verità per entrare in quella di Dio.
E noi? Noi non possiamo essere felici, se non riusciamo a leggere in profondità gli eventi della nostra esistenza.
Dio è presente nella nostra esistenza: in nessuna delle sue vicende manca il suo disegno, la sua intenzione di dirci qualche cosa.
È una verità da scoprire anche in questo momento.
(G.
DANNEELS, Le stagioni della vita, Brescia 1998, 210-211).
  Per questo il Verbo si è fatto uomo                                               Il Figlio congiunse e unì l’uomo a Dio.
Se non fosse stato un uomo a vincere il nemico dell’uomo, il Nemico non sarebbe stato vinto secondo giustizia.
Del resto se non fosse stato Dio a dare la salvezza, non l’avremmo ricevuta in modo stabile.
E se l’uomo non fosse stato unito a Dio, non avrebbe potuto partecipare all’incorruttibilità.
Occorreva infatti che il mediatore tra Dio e l’uomo, grazie alla sua parentela con tutti e due, riconducesse l’uno e l’altro all’amicizia e alla concordia e facesse sì che Dio accogliesse l’uomo e l’uomo si offrisse a Dio.
In che modo avremmo potuto essere partecipi dell’adozione filiale (cfr.
Gal 4,5) se, attraverso il Figlio, non avessimo ricevuto da Dio la comunione con lui e se il suo Verbo non fosse entrato in comunione con noi facendosi carne? […] Per questo il Verbo si è fatto uomo e il Figlio di Dio si è fatto Figlio dell’uomo, affinché l’uomo, mescolandosi al Verbo e ricevendo l’adozione filiale, divenga figlio di Dio.
Non potevamo ricevere in altro modo l’incorruttibilità e l’immortalità se prima l’incorruttibilità e l’immortalità non fosse divenuta ciò che siamo noi, affinché ciò che era corruttibile fosse assorbito dall’incorruttibilità e ciò che era mortale dall’immortalità (cfr.
1Cor 15,53-54; 2Cor5,4), affinché ricevessimo l’adozione filiale? Per questo «chi racconterà la sua generazione?» (Is 53,8).
Poiché è uomo e chi dunque lo conoscerà? (cfr.
Ger 17,9).
Lo conosce colui al quale il Padre che è nei cieli lo ha rivelato (cfr.
Mt 16,17) facendogli capire che il Figlio dell’uomo (cfr.
Mt 16,12), «nato non da volontà di carne ne da volontà d’uomo» (Gv 1,13) è il Cristo, «il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).
(IRENEO DI LIONE, Contro le eresie 3,18,7-19,1-2, SC 211, pp.
364-366; 374-376).
    L’abbraccio di Giuseppe e di Maria Da questa icona emerge una calda atmosfera di tenerezza e di castità.
I due santi sposi si abbracciano con il trasporto e la solidarietà di chi vive nello Spirito.
Dietro a loro c’è il tavolo da lavoro di Giuseppe con gli umili utensili dell’attività quotidiana, segno di una vita ordinaria intessuta di fatica e di gioia, di sofferenza e di speranza.
Sullo sfondo vediamo la città: a sinistra la vecchia Gerusalemme e a destra la nuova.
In alto, un panno rosso indica la protezione divina sull’amore coniugale, mentre il tappeto rosso sotto i piedi degli sposi indica il percorso di reciproca donazione a cui tende la vita di ogni coppia: è un cammino regale e santo, magnifico e benedetto, che da vita a una nuova famiglia, plasmata dalla bontà del Signore per proclamare le sue lodi e per portare nel mondo una scintilla del suo Amore eterno e fedele.
  Laudato sii, mio Signore, per questo nostro infinito amore.
A te ritornerà come goccia nel mare.
Laudato sii, mio Signore, per il forte desiderio di amare che ci hai posto in cuore…
Laudato sii, mio Signore, per il desiderio mai saziato di te, unico Amore, del quale stesso amore ci amiamo senza mai sazietà, per il quale amore è più desiderabile soffrire che non possederlo.
Laudato sii, mio Signore, per questa nostra esistenza che ti degni di condurre provvidente, e per la quale, grati, ti benediciamo.
Laudato sii, mio Signore, per ogni evento della tua volontà, che su di noi troverà il suo compimento…
Laudato sii, mio Signore, per il nostro infinito amore.
      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 61-66.
– Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
           IV DOMENICA DI AVVENTO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 7,10-14             In quei giorni, il Signore parlò ad Àcaz: «Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi  oppure dall’alto».
Ma Àcaz  rispose «Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore».
Allora Isaia disse: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno.
Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele».
    v Il brano di Isaia, che la liturgia utilizza come prima lettura, è uno dei non molti oracoli profetici che si inquadrano in una precisa cornice storica, il 785 a.C.
Si tratta di un oracolo risalente veramente al profeta dell’ottavo secolo, pronunziato per il re Àcaz, che regnò su Giuda dal 743 al 727.
     In un momento in cui l’animo del re era profondamente turbato, a causa dello slancio espansivo della potenza assira, che mirava a sottomettere l’intera area della Siria-Palestina, e a causa delle minacce rivoltegli da chi (il re di Damasco e il re di Samaria) voleva attirarlo in una coalizione anti-assira, il profeta Isaia volle richiamarlo alla pura fede in Dio; gli raccomandava di non affidarsi ai suoi calcoli, che lo portavano a mettersi sotto la protezione degli Assiri; gli ripeteva che il futuro della dinastia davidica solo Dio era in grado di garantirlo.
Vedendo che Àcaz restava titubante, il profeta gli diede un solenne annunzio: la giovane sposa del re (‘alma) avrebbe avuto il suo primo figlio, come segno e garanzia della divina protezione (v.
14).
La forma particolarmente solenne di questo oracolo spinse la stessa tradizione giudaica a proiettarlo verso il futuro e a intenderlo in chiave messianica.
Sicché i cristiani non ebbero alcuna difficoltà a intenderlo come una profezia diretta della loro fede nella concezione verginale di Gesù, il vero Emanuele, cioè Dio-con-noi.
  Seconda lettura: Romani 1,1-7          Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti.
Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo, a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!     v All’inizio della lettera che scrive ai Romani Paolo si autopresenta come «apostolo per chiamata», perché sia chiaro che il suo vangelo non è frutto di opera umana, ma proviene da Dio.
Subito dopo introduce l’elemento centrale di questo ‘vangelo’ e precisamente la professione di fede in Gesù come Messia, figlio di Davide, annunciato dalle Scritture antiche e costituito Figlio di Dio in potenza nella risurrezione (vv.
3-4).
Per quanto riguarda il titolo di «Figlio di Dio» non significa che Gesù non lo fosse prima della risurrezione, ma la risurrezione lo costituisce tale «in potenza», mentre prima egli era apparso nella debolezza della carne.
     La Chiesa, dunque, nella fede, incessantemente lo proclama Messia, Figlio di Dio, Signore.
Quelli cui giunge questo ‘vangelo’ ottengono poi un dono prezioso: sono «amati da Dio e santi per chiamata».
  Vangelo: Matteo 1,18-24            Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo.
Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa.
Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”.
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.
        Esegesi      Questo brano del Vangelo dell’infanzia di Matteo è un esempio straordinario di quella che dobbiamo chiamare teologia narrativa.
Vogliamo dire che andremmo del tutto fuori strada se intendessimo questo brano evangelico come un racconto di cronaca, quasi fosse il racconto fattoci da un testimone oculare dei fatti narrati.
Quando leggiamo questo brano, dobbiamo renderci conto che l’evangelista, con esso, ha voluto evangelizzare i suoi lettori, cioè ha voluto comunicare a loro la verità profonda della nascita di Gesù, senza curarsi di dirci per quali vie e con quali espedienti egli è arrivato a conoscere e a formulare questo mistero che salva.
     Nella frase d’inizio del v.
18, l’evangelista dichiara apertamente che cosa egli vuole trasmettere con il racconto che segue.
Dice infatti: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo».
Appare evidente che l’oggetto della sua comunicazione è il come della nascita di Gesù.
La necessità di questa spiegazione è legata alla frase speciale da lui stesso adoperata nel precedente v.
16, con cui si conclude il quadro genealogico di «Gesù Cristo, figlio di Davide,  figlio di Abramo» (1,1).
Mentre per tutti i personaggi del quadro si segue lo schema “Tizio generò Caio…”, per Gesù Cristo, e solo per lui, si adopera una frase diversa e sorprendente: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo» (v.
16).
Quando l’evangelista, nell’albero genealogico, ha voluto ricordare la madre di un personaggio (il che si è ripetuto quattro volte), lo ha fatto mettendo sempre in rapporto col padre la nascita del figlio, p.
es.: «Booz generò Obed da Rut» (v.
5).
Per Gesù, invece, l’evangelista ha nominato Giuseppe solo per dire che egli fu «lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù».
Una frase del genere esigeva una spiegazione.
Il nostro brano assicura il lettore che avrà la spiegazione.
     Essa viene data sotto forma di una narrazione ovvero di un racconto.
Da dove l’evangelista abbia preso gli elementi costitutivi del racconto è certamente argomento che merita di essere indagato.
Ma questo problema non deve impedirci di cogliere la verità di fede che egli vuole comunicarci.
Questa verità è che Gesù è nato per la potenza creatrice dello Spirito divino, escludendo l’apporto generativo di Giuseppe.
La teologia cristiana posteriore escogiterà concetti desunti dalla metafisica e attingerà alla terminologia filosofica, per dare al mistero una formulazione ragionevole.
Ma l’evangelista non ha ancora queste risorse.
Egli si accinge a raccontare, nel suo libro i fatti e le parole di Gesù.
Parole e fatti che spingeranno il centurione, comandante del drappello militare che ha eseguito la crocifissione, ad esclamare: «Davvero costui era figlio di Dio!» (Mt 27,54).
     Il nostro racconto può essere strutturato in tre parti.
La prima parte contiene quello che può essere considerato l’antefatto: ci viene detto che Giuseppe e Maria si erano ufficialmente impegnati al matrimonio, davanti a testimoni (era questa, in quel tempo, la prima fase del matrimonio tra ebrei, che escludeva i rapporti coniugali) e attendevano di giungere alla seconda fase del matrimonio (la effettiva convivenza, che includeva i rapporti coniugali).
Nella parte centrale del racconto, ci è detto come accade il grande mistero della concezione verginale di Gesù; prima che tra i due cominciasse la convivenza coniugale, iniziò, nel seno di Maria, il mistero della generazione di Gesù (v.
18); Giuseppe, uomo giusto, non esitò a cedere il passo a Dio e ai suoi piani misteriosi (v.
19); ma un angelo di Dio intervenne a fargli sapere, in sogno, che Dio includeva anche lui nel suo piano, orientato alla salvezza del mondo, dovendo egli imporre il nome a colui che sarebbe nato dallo Spirito Santo (vv.
20-21).
Per sigillare la credibilità dell’avvenimento, che avvolge il messaggio di fede, l’evangelista cita la profezia di Is 7,14, che egli può rendere addirittura più esplicita di quanto non fosse nel testo originale, attingendo alla luce del fatto verificatosi (vv.
22-23).
La parte conclusiva del racconto è racchiusa nel v.
25, che ribadisce il mistero della nascita verginale di Gesù, dicendo che Maria, «senza che egli (Giuseppe) la conoscesse, partorì un figlio che egli chiamò Gesù».
     Il problema della composizione letteraria del nostro brano bisogna tenerlo distinto da quello del suo significato di fede.
Esso merita certamente di essere approfondito, ma solo dopo avere accolto il messaggio salvifico, con le risorse della raffinata critica letteraria.
  Meditazione        L’annuncio della venuta del Signore, che domina l’Avvento, diviene nella IV domenica, annuncio dell’incarnazione, della sua venuta nella carne, evento annunciato nella profezia isaiana della nascita di un bambino, un discendente regale (I lettura) manifestato dall’annuncio angelico a Giuseppe della nascita di un figlio da Maria per opera dello Spirito santo (vangelo), proclamato dalla confessione di fede che contiene l’annuncio del Figlio nato dalla stirpe di David secondo la carne e costituito Figlio di Dio secondo lo Spirito mediante la resurrezione (II lettura) .
Questo annuncio chiede fede e obbedienza: se Àcaz, con la sua disobbedienza, mostra la sua incredulità (I lettura), Giuseppe crede all’angelo e gli obbedisce (vangelo); ciò che Dio ha compiuto in Gesù Cristo e che l’Apostolo annuncia agli uomini è volto a ottenere «l’obbedienza della fede» da parte delle genti, ovvero, la fede che si esprime come obbedienza e l’obbedienza che è fondata sulla fede (II lettura).
Vi è un intrinseco rapporto tra fede e obbedienza: la fede consiste nell’obbedire e l’obbedienza consiste nel credere.
     Il testo matteano, chiamato «l’annunciazione a Giuseppe», pone in rilievo la figura di Giuseppe quale uomo di fede e di silenzio.
Il silenzio di Giuseppe è segno di forza, di lavoro interiore, di dominio di sé e delle situazioni, di fede.
Ed è un silenzio che trova luce nel buio in cui Giuseppe è sprofondato.
La gravidanza di Maria mette in crisi la storia che egli stava progettando con lei, eppure il testo biblico suggerisce che non vi è situazione umana, per quanto lacerante o dolorosa o contraddicente, che non possa essere vissuta con umanità e con santità.
     Se la reazione normale sarebbe stata quella di ripudiare la donna, «Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (Mt 1,19).
Invece di ripudiare Maria, abbandonandola al generale disprezzo e compromettendola pubblicamente, Giuseppe sceglie un’altra soluzione, sceglie una via giusta e umana, giusta perché umana.
La giustizia di Giuseppe è nel suo essere umano.
     «Il giusto dev’essere umano» (Oportet iustum esse et humanum: Sap 12,19).
Solo questa giustizia, infatti, onora l’immagine di Dio che è nell’uomo, nel creditore come nel debitore, nel santo come nel peccatore.
La giustizia umana di Giuseppe guarda alla persona di Maria e non la sacrifica a un’interpretazione letterale delle leggi in cui della persona si vede solo il peccato, la mancanza, l’errore.
Vi è qui una parola forte che mette in guardia i cristiani dal rischio di inumanità che i rapporti intraecclesiali possono sempre conoscere: quando il volto di una persona è cancellato dal suo ruolo, quando i singoli sono sacrificati alle leggi ecclesiastiche, quando le relazioni sono spersonalizzate e funzionali, quando la persona diviene mezzo e non fine.
La chiesa «esperta di umanità» non può che essere umana, non può che dar prova di questa esperienza con una concreta e quotidiana pratica di umanità.
L’annuncio dell’incarnazione diviene anche, per la chiesa, esortazione a essere umana.
     Proprio su questa umanità si innesta la fede che va oltre la giustizia umana e realizza il volere di Dio portando Giuseppe a prendere con sé Maria come sua sposa.
Così, lo scandalo diviene rivelazione, l’evento di contraddizione diviene occasione di obbedienza a Dio e di realizzazione della sua opera di salvezza.
Non solo Giuseppe non rifiuta, non ripudia, non condanna, ma accoglie, prende con sé, comprende.
     Questo cammino interiore che conduce Giuseppe all’obbedienza della fede avviene tramite la sua riflessione, il suo pensare (Mt 1,20) e tramite l’accoglienza della parola del Signore, parola condensata nella citazione scritturistica di Is 7,14 (Mt 1,22).
Il sogno, in effetti, nel mondo biblico è mezzo di rivelazione in quanto veicolo di una parola di Dio.
L’elemento decisivo nel sogno non è la visione, ma la parola: «In sogno io parlo a lui», dice Dio a Mosè (Nm 12,6).
All’epoca di Gesù, il sogno era chiamato «piccola profezia» al cuore della notte e del sonno simbolo della morte, il sogno sorge come una piccola luce che può rischiarare la vita.
 

III Domenica di Avvento anno A

Preghiere e racconti   Bellezza oltre ogni descrizione Uno dei romanzi più noti di André Gide (1869-1951) s’intitola La sinfonia pastorale.
Il libro è ambientato nella Svizzera di lingua francese negli anni Novanta (1890) e narra la storia di una complessa relazione fra un pastore protestante e Gertrude, una ragazza cieca dalla nascita.
Di particolare interesse è il modo in cui il pastore prova a comunicare a Gertrude cose come la bellezza dei prati alpini, trapuntati di fiori dai colori sgargianti, e la maestà delle montagne dalle cime innevate.
Egli prova a descrivere i fiori azzurri che crescono sulla riva del fiume paragonandoli al colore del cielo, ma deve rendersi subito conto che lei non può vedere il cielo per apprezzare il paragone.
In questo suo lavoro egli si sente continuamente frustrato dalla limitatezza del linguaggio che usa per far conoscere la bellezza e lo stupore della natura alla giovane cieca.
Ma le parole sono il solo strumento di cui dispone.
Non può che perseverare sapendo di poter comunicare solo a parole una realtà che non può mai essere completamente espressa con parole.
Allora ecco un nuovo e insperato sviluppo.
Un oculista della vicina città di Losanna ritiene che la ragazza possa essere operata agli occhi in modo da ottenere la vista.
Dopo tre settimane trascorse nella casa di cura, ella torna a casa, dal pastore.
Adesso può vedere e sperimentare da sola le immagini che il pastore aveva cercato di comunicarle solo attraverso le parole.
“Appena ho acquistato la vista – ella disse – i miei occhi si sono aperti su un mondo più stupendo di come avrei mai potuto sognare che fosse.
Sì, davvero, non mi sarei mai immaginata che la luce del giorno fosse così brillante, l’aria così limpida e il cielo così vasto”.
La realtà sorpassa di gran lunga la descrizione verbale.
La pazienza del pastore e le sue goffe parole non avrebbero mai potuto descrivere adeguatamente il mondo che la ragazza non poteva vedere da sola, il mondo che chiedeva di essere sperimentato piuttosto che meramente descritto.
Per il cristiano, il mondo presente contiene indizi e segnali di un altro mondo, un mondo che possiamo cominciare a sperimentare ora, ma che conosceremo nella sua pienezza solo alla fine.
(Alister Mc Grafth, Il Dio sconosciuto, Cinisello Balsamo, 2002, 35-37)   Il buio e la luce È buio dentro di me, ma presso di te c’è la luce; sono solo, ma tu non mi abbandoni; sono impaurito, ma presso di te c’è l’aiuto; sono inquieto, ma presso di te c’è la pace; in me c’è amarezza, ma presso di te c’è la pazienza; io non comprendo le tue vie, ma la mia via tu la conosci.
(Dietrich Bonhoeffer)   Il luogo dell’appuntamento Dio e l’umanità sono come due amanti che hanno sbagliato il luogo dell’appuntamento.
Tutti e due arrivano in anticipo sull’ora fissata ma in due luoghi diversi.
E aspettano, aspettano, aspettano.
Uno è in piedi inchiodato sul posto per l’eternità dei tempi.
L’altra è distratta e impaziente.
Guai a lei se si stanca e se ne va! (Simone Weil)   Nell’attesa paziente No, non è in tuo potere far aprire il bocciolo; scuotilo, sbattilo, non riuscirai ad aprirlo.
Le tue mani lo guastano, ne strappi i petali e li getti nella polvere, ma non appare nessun colore e nessun profumo.
Ah! A te non è dato di farlo fiorire.
Colui che invece fa sbocciare il fiore, lavora semplicemente, vi getta uno sguardo all’alba e la linfa della vita scorre nelle vene del fiore.
Al suo alito il fiore dispiega lentamente i suoi petali e si culla lentamente al soffio del vento.
Come un desiderio del cuore, il suo colore erompe, e il suo profumo tradisce un dolce segreto.
Colui che fa sbocciare veramente il fiore lavora sempre solo semplicemente e silenziosamente.
(Poesia indiana)   La fede è speranza      Paolo […] dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete “affliggervi come gli altri che non hanno speranza” (1 Ts 4,13).
Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiamo nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto.
Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente.
Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una “buona notizia” – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti.
Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo “informativo”, ma “performativo”.
Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma una comunicazione che produce fatti e cambia la vita.
La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata.
Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova».
(BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, n.2).
  L’incontro con Dio      «Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall’incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile.
L’esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio.
Penso all’africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da Papa Giovanni Paolo II.
Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan.
All’età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan.
Da ultimo, come schiava si trovò al servizio della madre e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici.
Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all’avanzata dei mahdisti, tornò in Italia.
Qui, dopo “padroni” così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un “padrone” totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava “paron” il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo.
Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile.
Ora, però, sentiva dire che esiste un “paron” al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona.
Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la amava.
Anche lei era amata, e proprio dal “Paron” supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi.
Lei era conosciuta e amata ed era attesa.
Anzi, questo padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava “alla destra di Dio Padre”.
Ora lei aveva “speranza” – non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore.
E così la mia vita è buona.
Mediante la conoscenza di questa speranza lei era “redenta”, non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio».
(BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, n.3).
  «Il tempo si è fatto breve»            È scritto: «La speranza prolungata fa male al cuore»; ma benché sia stanca per la dilazione del desiderio, tuttavia è sicura della promessa.
Sperando in essa e ponendo in essa ogni mia attesa, aggiungerò speranza a  speranza (…).                                                Signore Gesù, ti siano rese grazie.
Io, una volta per tutte, ho fatto affidamento alle tue promesse.
Tuttavia «vieni in aiuto alla mia incredulità», perché, dimorando là, immobile, io ti attenda sempre, finché veda ciò che credo.
Sì, io credo di «poter contemplare la bontà del Signore nella terra dei vivi».
E tu, lo credi? Allora il tuo cuore si fortifichi ed attenda con pazienza il Signore.
Se egli richiede una lunga pazienza, altrove promette di tornare presto.
Da una parte vuole educarci alla pazienza, dall’altra confortare gli scoraggiati.
     «Il tempo si è fatto breve», soprattutto per ciascuno di noi, benché sembri lungo a chi si consumi, sia per il dolore, sia per l’amore».
 (GUERRICO D’IGNY, Sermoni per l’avvento del Signore, 1, 3-4).
  Preghiera      «Beato chi non si scandalizzerà di me»: sostieni la nostra fede, Signore Gesù, quando è tentata di scandalizzarsi per la tua ‘debolezza’.
     Donaci la convinzione e la sapienza che animava il tuo apostolo Giacomo: egli, che ben conosceva le grandiose promesse di Isaia, ha creduto che tu le hai realizzate, anche se nulla sembrava apparentemente cambiato nel mondo, dopo il tuo passaggio.
     Dona anche a noi la pazienza dell’agricoltore, per seminare speranza.
     Fa’ che accogliamo con riconoscenza il tuo vangelo di gioia, la buona notizia per i poveri e insegnandoci la pazienza; edifica in noi una fede forte.
     Donaci la beatitudine di essere tuoi discepoli, la tua stessa gioia, la gioia del Padre nel fare del bene, anche quando ci toccasse di apparire perdenti.                                         Ravviva in noi la memoria dei benefici ricevuti, perché possiamo deciderci ancora oggi per il tuo vangelo e perché, anche quando non riconosciamo le tue vie, continuino come il Battista ad esserti fedeli.      * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 61-66.
– Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
 III DOMENICA DI AVVENTO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 35,1-6a.8a.10              Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.
Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo.
Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron.
Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio.
Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.
Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina.
Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto.
Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa.
Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto     v Il brano riporta uno dei più significativi oracoli messianici citati da Gesù per capire il senso delle sue “opere”.
Appartiene alla così detta “piccola apocalisse” di Is 34-35 (la “grande apocalisse” è in Is 24-27), databile al tempo del ritorno dalla deportazione a Babilonia e della ricostruzione.
Per rinfrancare i rimpatriati, alle prese con tante difficoltà materiali e ancora tentennanti nella fede e nella speranza, il profeta, col linguaggio allegorico proprio dell’apocalittica, descrive la sorte disastrosa di chi va contro Dio e la sorte gloriosa invece di chi sta nella sua alleanza: Is 34 annuncia la rovina di tutti i popoli ribelli a Dio, in particolare di Edom, complice dei distruttori (cf.
Is 34,8 e Sal 136,7); Is 35 invece invita i reduci a esultare, per la nuova e meravigliosa realtà che stanno per sperimentare.
Il brano liturgico riporta tutto Is 35, eccetto due versetti, e si può suddividere in due parti.
     1.
Splendida ripresa dell’ambiente, per opera di Dio (vv.
1-4).
Al quadro desolante dei castighi al paese di Edom (Is 34), il profeta contrappone quest’altro gioioso, mirabilmente florido e bello, per Sion.
Prima dipinge la ripresa rigogliosa della terra promessa, coi paragoni proverbiali del Libano e del Carmelo, allora splendidi e lussureggianti di vegetazione, gloria di Dio creatore.
Poi prospetta la ripresa fisica e morale dei rimpatriati in tale ambiente: mani e gambe irrobustite, per lavorare sicuri e muoversi spediti, e superamento delle idee e dei sentimenti ancora incerti e timorosi per gli «smarriti di cuore».
Dio stesso sta per tornare fra loro (cf.
Is 40,10-11), conclude l’oracolo.
Viene a “salvare”, nel duplice senso della liberazione e della salute piena.
In questo modo viene con lui la “vendetta”, che è punizione per i deportatori e ricompensa per i liberati che tornano a lui.
Essa a noi ripugna tanto, perché la pensiamo acida e sproporzionata come la nostra.
Ma la vendetta divina, sia pure con linguaggio crudo, l’Antico Testamento la attende e la invoca da Dio onnisciente e infinitamente giusto e misericordioso (cf.
Ger 1,20), intendendo sempre la sua giustizia.
A compierla ora è il Dio dell’alleanza, il “Santo di Israele” che interviene come vindice (go’el) del suo popolo, per tirarlo fuori dalle difficoltà in cui è caduto e rimetterlo sulla strada della salvezza.
     2.
Ripresa interiore profonda del popolo di Dio (vv.
5-10).
L’opera di salvezza nelle persone è preannunciata in tre momenti.
Anzitutto una nuova vitalità: si apriranno gli occhi dei ciechi e le orecchie dei sordi, lo zoppo salterà come un cervo e griderà di gioia il muto…
Non più solo mani e ginocchia, ma tutte le membra e i sensi dell’uomo tornano integri.
Si tratta in primo luogo dell’uscita dallo scoraggiamento e dal pessimismo, nel quale sono caduti i deportati (Is 42,18-23), e della capacità di percepire il germoglio della nuova realtà (Is 43,19): quindi una ripresa interiore, profonda, spirituale, prima che fisica.
Ad essa soprattutto fa riferimento la risposta di Gesù al Battista, ampliandola ai lebbrosi guariti e addirittura ai morti risuscitati.
Secondo momento è il riconoscimento della “Via santa”, quella da appianare nel deserto per il rimpatrio, rapido e sicuro, sulla quale si rivelerà la «gloria» di Dio liberatore (Is 40,3-5), frutto però di quella spirituale che riporta a camminare con Dio nella vita.
Su questa il Battista riconosceva la sua missione (cf.
Mt 3,3; Gv 1,23).
E anche Gesù vi allude, con la buona novella ai poveri e la beatitudine per chi non trova inciampo nella sua proposta messianica (Vangelo).
Terzo momento sarà la felicità perenne in Sion, per il popolo uscito dalla tristezza e dal pianto e ristabilito nella sua regalità.
     Gli annunci profetici e le “opere” di Gesù dunque si pongono come “segni” di una realtà che sta nei risvolti più profondi dell’uomo e che si sviluppa nel futuro messianico della “salvezza”.
  Seconda lettura: Giacomo 5,7-10          Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore.
Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge.
Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina.
Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte.
Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore.
    v Alla fine ormai della lettera, Giacomo fa le raccomandazioni per l’attesa della venuta del Signore, che già arriva in quanto va succedendo alle «dodici tribù in diaspora» (Gc 1,1 ), cioè al nuovo popolo di Dio pellegrino nella storia.
Cerchiamo di cogliere questi aspetti di escatologia immanente.
     1.
L’imperativo iniziale «siate costanti», alla lettera sarebbe “siate magnanimi”, allargate la mente, e così sarete pazienti e tolleranti.       Vedi l’agricoltore (v.
7).
La sua pazienza è tutt’altro che inerte e passiva: egli attende il prezioso frutto della terra dalle cure che vi prodiga, ma rafforza la sua speranza con la fiducia nelle piogge stagionali, dono di Dio.
Così i cristiani allarghino l’animo e irrobustiscano i cuori, riconoscendo che il Signore viene già quando affrontano le persecuzioni, vivono le rinunce e testimoniano la fede.
E non si perdano in lagnanze reciproche, per non essere giudicati da colui che, dopo la prima venuta nella misericordia, torna piuttosto come giudice in quella intermedia e in quella finale: Ecco, vedi il giudice è alle porte (v.
9).
     2.
Un secondo imperativo invita a prendere come modelli di sopportazione dei mali e di grandezza d’animo i profeti.
Il loro esempio non è generico, ma fatto di comportamenti e di motivazioni date dalla fede: per questo Giacomo specifica: «che hanno parlato nel nome del Signore».
Sempre la pazienza cristiana è frutto della grandezza d’animo data dalla parola di Dio e della forza di sopportare, comunicata dalla grazia.
  Vangelo: Matteo 11,2-11           In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».
Gesù rispose Loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo.
E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Mentre quelli se ne andavano.
Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Si, io vi dico, anzi, più che un profeta.
Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”.
In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».
    Esegesi        Il riconoscimento dell’identità di Gesù come Messia, da parte dei discepoli, avviene a Cesarea di Filippo, nei Sinottici, e verso di esso tende tutta la prima parte del loro racconto.
Matteo e Luca inseriscono una tappa importante con l’episodio che si legge oggi, nel quale Gesù stesso indica gli elementi per riconoscerlo e a sua volta delinea l’identità dell’interlocutore Giovanni, che gli ha preparato la strada, come farà poi a Cesarea anche con Pietro, che continuerà la sua opera.
Il discorso sulle identità divide il brano in due parti.
     1.
La identità di Gesù (vv.
2-6).
È o non è lui “il Veniente”? Il titolo accomuna il Messia con Dio (cf.
Ap 1,4-5).
Sono le sue “opere” a provocare la domanda del Battista.
Lui lo aveva annunciato alla gente con la scure posta alla radice e il ventilabro in mano, per raccogliere nel granaio il suo grano e bruciare la pula nel fuoco inestinguibile, cioè come giudice ultimo di tutta la iniquità umana (cf.
Mt 3,10-13).
Gesù invece compie gesti pieni di misericordia, verso i malati e i peccatori, e fa discorsi tutti ispirati all’amore e alla condivisione, in particolare sulla montagna (Mt 5-7) e ai missionari (Mt 10).
Gesù non da una risposta diretta, ma invita i discepoli del Battista a fare discernimento sui prodigi che compie, con riferimenti al libro di Isaia, dove sono ricorrenti i temi del “vedere” e “ascoltare”.
In esso, mentre il profeta dell’VII sec.
a.C.
era stato disilluso da Dio, sull’esito del ministero presso un popolo superficiale che non vede con gli occhi, non ode con gli orecchi e non comprende con il cuore (cf.
Is 6,10), gli oracoli messianici dei suoi continuatori, nel VI sec.
a.C., annunciano una prodigiosa riapertura degli occhi e degli orecchi (cf.
Prima lettura).
Usando le loro espressioni, Gesù vuole dire che sta realizzando i loro annunci e invita i discepoli del Battista a riferire quanto essi stessi avranno saputo ascoltare e vedere.                In questo modo egli presenta le sue “opere” non fine a se stesse, ma come “segni” di quanto va compiendo nella realtà più profonda.
L’aveva già indicata nei singoli prodigi con le richieste della fede, che fa risorgere la vita dello spirito, e con la remissione dei peccati, che toglie l’ostacolo più grosso.
Adesso l’ha sintetizzata con la frase «ai poveri è annunciato il vangelo», che un po’ riassume i prodigi elencati e i riferimenti a Isaia (cf.
Is 61,1), ma più ancora indica il suo programma, proclamato sul monte con le beatitudini.
Egli evangelizza i poveri (Mt 5,3-10), nel senso che valorizza loro, e non i ricchi e sazi, come base per costruire il regno di Dio.
A quelle beatitudini ora ne aggiunge un’altra: beato chi non trova inciampo (scandalo) in lui per questa valorizzazione.
     2.
La identità del Battista (vv.
7-11).
A scanso dell’equivoco possibile che sia anche lui a trovare inciampo, Gesù stesso prende l’iniziativa di delinearne la identità, tutt’altro che estranea alla propria.
Fra tre ipotesi, ripetendo per tre volte la domanda: «che cosa siete andati a vedere nel deserto?».
La prima ipotesi, una canna sbattuta dal vento, cioè un opportunista folle, è smentita dalla verità della terza.
La seconda, un uomo in morbide vesti, cioè un facoltoso in cerca di potere, è smentita dallo stile del personaggio e dalle sue  contestazioni agli uomini di palazzo.                                       La terza ipotesi, un profeta, non solo è vera ma dice ancora troppo poco.
Assai più che profeta egli è il precursore del Messia, ne ha preparato la venuta.
Non è quindi inciampo o scandalo il suo, ma bisogno di capire meglio l’intendimento di Gesù, sentito nel battesimo al Giordano, di adempiere «ogni giustizia» (Mt 3,14-15) cioè ogni disposizione divina sul Messia.
Gli viene risposto che, per provocare le scelte fondamentali, egli usa la misericordia e la condivisione e non ancora il giudizio definitivo: sono criteri di discernimento per l’appartenenza a Dio assai più taglienti e profondi della scure, del ventilabro e di qualsiasi discriminazione violenta, perché costituiscono e non solo annunciano il regno dei cieli.
In questo senso, chi entra nella costruzione del regno con lui è più grande del Battista, che pure supera tutti i profeti dell’umanità.
In questo senso pure si può dire che le attese del Battista non sono smentite, ma portate a guardare più in profondità.       Meditazione

II Domenica di Avvento anno A

II DOMENICA DI AVVENTO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 11,1-10     In quel giorno, un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici.
Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore.
  Si compiacerà del timore del Signore.
Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli umili della terra.
Percuoterà il violento con la verga della sua bocca, con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.
La giustizia sarà fascia dei suoi lombi e la fedeltà cintura dei suoi fianchi.
  Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà.
La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue.
Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso.
Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare.
  In quel giorno avverrà che la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli.
Le nazioni la cercheranno con ansia.
La sua dimora sarà gloriosa.
      v Il testo di Is 11,1-10 completa i due precedenti: 7,14, la profezia dell’Emmanuele e 9,6 la promessa del bambino prodigioso dato agli uomini.
Tutti e tre confermano le attese escatologiche, si potrebbe tradurre messianiche, d’Israele.
     Isaia ci presenta l’immagine – ancor più suggestiva se collocata nel contesto precedente – di un nuovo germoglio che spunta su un tronco.
Il profeta ha tracciato l’itinerario di un’invasione da nord da parte del nemico, al cui violento passaggio tutto viene distrutto; persino delle foreste lussureggianti resta soltanto qualche tronco tagliato (cfr.
Is 10,33-34).
In tale panorama di devastazione, ecco un virgulto su un ceppo, segno della vita che riprende e del rivelarsi della fedeltà di Dio alle sue promesse.
Per essa continuerà a regnare la dinastia di Davide, segnata da molte prove e infedeltà.
     Il profeta sogna quindi un re giusto che si ponga interamente al servizio di Dio, faccia progetti saggi e abbia la forza per attuarli (vv.
3-4).
Il fatto che si tratti di un «germoglio» deve ricordare che il personaggio annunziato da Isaia non ha la potenza politica e militare di Davide: sul giovane scelto da Dio e unto da Samuele mentre pascolava il gregge, ultimo tra i suoi fratelli, è invece scesa l’elezione divina.
Dio vuol ripartire da capo.
Il Nuovo Testamento ci insegna che egli ricomincia dal bambino di Betlemme e dal carpentiere di Nazaret: chi poteva pensare che Dio sarebbe ripartito così?      Nel corso della lettura si descrive l’equipaggiamento del ‘germoglio di Iesse’: fondamentalmente si afferma che egli sarà dotato stabilmente dello Spirito del Signore con i suoi doni – sapienza, intelligenza, consiglio, fortezza, conoscenza, timor di Dio -.
Il dono dello Spirito non sarà più provvisorio, come avveniva per i ‘giudici’, gli antichi capi carismatici di Israele, bensì la sua presenza sarà permanente su Colui che Dio ha scelto.
Ripieno dello Spirito, egli opererà per la giustizia e per i poveri, aprendo così il mondo alla speranza di un rinnovato paradiso terrestre, senza violenza e sopraffazioni (vv.
5-8).
     Il vertice della profezia è la promessa di un’effusione del dono della sapienza sul mondo intero: il paradiso può realizzarsi davvero ed è già anticipato su questa terra se e quando «la conoscenza del Signore riempie il paese» (v.
9) poiché nel momento in cui l’umanità conosce Dio intimamente, la terra cambia volto.
        Seconda lettura: Romani 15,4-9         Fratelli, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza.
E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo.
Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio.
Dico infatti che Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri; le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: «Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome».
    v Le parole di Paolo sono improntate al tema dell’accettazione reciproca (v.
7) e sono rivolte ai cristiani di origine pagana per insegnare loro la vicendevole accoglienza con quelli di origine giudaica.
Egli sta parlando a una comunità in cui convivono ‘forti’ e ‘deboli’ nella fede e ammonisce che tutto quanto il cristiano fa deve essere improntato all’accoglienza e all’edificazione reciproca.
     Egli vuole che ci si impegni ad incrementarla per tre motivi, il primo dei quali è la parola delle antiche Scritture, la quale è nutrimento che sostiene la vita ordinaria del credente, le dona solidità e rende possibile la perseveranza nella speranza.
Paolo sembra suggerire che chi è saldo nella speranza sa anche accettare i limiti propri e degli altri, con pazienza.
     In secondo luogo bisogna sempre tenere presente l’esempio di Cristo: il principio ispiratore della sua vita non è il suo personale piacere; fedele invece alla missione di rivelare l’amore del Padre, non si è sottratto ad essa quando si è trattato di sopportare le reazioni violente degli uomini che lo hanno crocifisso.
Come ultima ragione non si deve dimenticare che i pagani sono stati accolti da Cristo stesso.
Ebreo, figlio del suo popolo, egli è stato il segno vivente della fedeltà di Dio alle promesse, ma insieme ha manifestato la misericordia di Dio anche ai non ebrei perché tutti potessero unirsi nella sua lode.
  Vangelo:  Matteo 3,1-12          In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!».
Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse: “Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette  e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!” Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare  figli ad Abramo.
Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò  ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco.
Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.  Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».      Esegesi        Al tempo di Gesù si riteneva che Elia non fosse morto, ma fosse stato rapito per ricomparire un giorno.
Infatti il profeta Malachia aveva predetto: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me… Io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (Ml 3,1.23).
Quando, dopo la Pasqua, i primi cristiani si resero conto che «il giorno del Signore» era quello in cui Gesù aveva portato la salvezza, compresero anche chi era l’Elia di cui aveva parlato il profeta: era il Battista, incaricato da Dio di preparare il popolo alla venuta del Messia.
Si ricordarono anche di ciò che di lui aveva detto il Maestro: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna agiata dal vento? Un uomo avvolto in morbide vesti? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta.
Egli è colui del quale sta scritto: Ecco io mando davanti a te il mio messaggero, egli preparerà la via davanti a te» (Lc 7,25-27).
«La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni.
E se lo volete accettare, egli è quell’Elia che deve venire» (Mt 11,13-14; 17,13).
Chi era Giovanni? Un personaggio piuttosto enigmatico.
Giuseppe Flavio – il famoso storico del tempo – lo presenta così: «Era un uomo buono che esortava gli ebrei a vivere una vita retta, trattandosi con giustizia reciprocamente e sottomettendosi con devozione a Dio, e facendosi battezzare.
In verità, Giovanni era dell’idea che nemmeno questo lavacro fosse accettabile come perdono per i peccati, ma era convinto che si risolveva soltanto in una purificazione del corpo, se l’anima non era stata purificata in precedenza grazie a una condotta retta» (Antichità Giudaiche 18.5.2 §§ 116-119).
Nel vangelo di oggi Matteo lo descrive come un uomo austero (v.
4).
Il suo cibo era quello semplice degli abitanti del deserto, il suo vestito era rozzo: la cintura ai fianchi che contraddistingueva Elia (2Re 1,8) e il mantello di pelo – la divisa dei profeti (Zc 13,4).
Tutta la persona del Battista era denuncia e condanna della società opulenta che – allora come oggi – puntava sull’effimero, sul frivolo, sui falsi valori del lusso e dell’ostentazione.
Il suo messaggio è riassunto dall’evangelista in una semplice frase: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (v.
2).
La speranza in un futuro migliore era uno dei temi centrali del messaggio dei profeti.
A differenza degli altri popoli che ponevano la loro età dell’oro nel passato, Israele collocava il «regno di Dio» nel futuro.
Attendeva un mondo dove il Signore avrebbe fatto trionfare l’armonia e abbondare la pace, un mondo dove i rapporti interpersonali sarebbero stati improntati all’amore, alla riconciliazione con la natura, con gli uomini, con Dio.
I predicatori apocalittici avevano descritto la storia dell’umanità come un susseguirsi di regni di bestie.
«Bestie emerse dal mare» erano stati i grandi imperi di Babilonia, Media, Persia, Grecia (Dn 7).
I tempi erano difficili, ma non ci si doveva perdere d’animo: il mondo antico era ormai alla fine e il mondo nuovo stava per fare irruzione.
I dolori presenti non dovevano essere interpretati come segni di morte, ma come sofferenze di un difficile parto: preludevano alla nascita della nuova era.
Essendo queste le attese del popolo, è facile intuire come la predicazione di Giovanni suscitasse enorme entusiasmo.
Tutti correvano a farsi battezzare per essere introdotti per primi in questo «regno di Dio».
Il battesimo con l’acqua non era però sufficiente.
Il Giordano non era una piscina da cui si usciva miracolosamente purificati dai peccati.
Per disporsi a entrare nel «regno» era necessario «convertirsi», cioè invertire il cammino, cambiare rotta, modificare completamente il modo di pensare e di agire.
Non bastava correggere qualche comportamento morale bisognava mettere in atto un nuovo esodo.
«Accorrevano a lui da Gerusalemme…».
Ecco il popolo d’Israele, ormai installato nella terra promessa, che abbandona la propria condizione di presunta libertà e ritorna al Giordano.
Si riteneva libero, ma in realtà continuava a essere schiavo: delle proprie convinzioni religiose, della propria ostinazione, della falsa immagine di Dio che si era fatta.
«Confessavano i loro peccati».
Prendevano coscienza di vivere ancora in esilio, di essere privi della libertà.
Tutti gli anni, nella seconda domenica di Avvento, la liturgia propone ai cristiani la predicazione del Battista perché come egli preparò il popolo d’Israele alla venuta del messia cosi oggi è in grado di insegnare ad accogliere il Signore che viene.
Oggi come allora, il passo più difficile da compiere è comprendere che è necessario «uscire» dalla «terra» in cui ci si è installati, «uscire» dalle false sicurezze religiose e teologiche che ci si e costruiti e accogliere la novità della parola di Dio.
Non tutti hanno risposto con sollecitudine all’invito del Battista, non tutti sono stati disponibili a operare un cambiamento interiore radicale.
I farisei e i sadducei, pur incuriositi dalla predicazione di Giovanni, stentavano a lasciarsi coinvolgere, non si fidavano, preferivano mantenere le loro certezze (vv.
7-10).
Pensavano di essere già a posto con Dio per il fatto di essere figli di Abramo.
Questa falsa sicurezza sarà denunciata in seguito da un famoso detto rabbinico: «Come la vite si appoggia su legni secchi, così gli israeliti si appoggiano sui meriti dei loro padri».
Il rimprovero con cui il Battista accoglie farisei e sadducei è severo: «Razza di vipere!».
Li paragona a serpi che iniettano il loro veleno di morte in chi inavvertitamente si accosta a loro.
Poi passa all’invettiva, all’annuncio delle catastrofi che stanno per colpirli: corrono il rischio di venire tagliati come un albero che non porta frutto e di essere bruciati come pula.
Su di loro incombe l’ira di Dio.
Siamo di fronte a immagini drammatiche che sembrano smentire il sogno di Isaia della prima lettura.
Il tono è minaccioso e non sorprende sulla bocca del Battista; così si esprimevano i predicatori di quel tempo ed è questo il linguaggio che compare spesso anche nella Bibbia.
Il precursore lo impiega per mettere in guardia chi rifiuta l’invito alla conversione: si priva dell’incontro di amore con Cristo che viene per introdurlo nella sua gioia e nella sua pace.
Nel contesto di tutto il vangelo le parole del precursore assumono un significato che va oltre quello immediato.
È successo anche a Caifa di pronunciare, senza rendersene conto, una profezia (Gv 11,49-51).
Quando parlava dell’ ira divina, Giovanni non aveva le idee chiare su come si sarebbe manifestata.
L’ira di Dio è un’immagine che ricorre spesso nell’Antico Testamento e non va intesa come un’esplosione di livore della persona offesa.
È espressione dell’amore di Dio: si scaglia contro il male, non contro chi lo compie; non vuole colpire l’uomo, ma sottrarlo al peccato.
La scure, che taglia gli alberi alla radice, ha la stessa funzione attribuita da Gesù alle forbici che potano la vite e la liberano dai rami inutili che la privano della preziosa linfa e la soffocano (Gv 15,2).
Gli alberi divelti e gettati nel fuoco non sono gli uomini, che Dio ama sempre come figli, ma le radici del male che sono presenti in ogni uomo e in ogni struttura e che devono essere fatte a pezze in modo che non possano più gettare germogli (Ml 3,19).
I tagli sono sempre dolorosi, ma quelli operati da Dio sono provvidenziali: creano le condizioni perché spuntino rami nuovi, capaci di produrre frutti.
Il ventilabro, infine, con cui il Signore attua il suo giudizio è immagine viva: descrive il modo con cui l’operato di ogni uomo viene vagliato da Dio.
Nei tribunali umani i giudici prendono in considerazione solo gli errori e pronunciano la sentenza in base al male commesso.
Delle opere buone tengono poco conto.
Nel giudizio di Dio avviene esattamene il contrario.
Egli, con il ventilabro della sua parola, sottopone ogni uomo al soffio impetuoso del suo Spirito che spazza via la pula e lascia sull’aia solo i preziosi chicchi: le opere di amore che, poche o molte, tutti compiono.
    Meditazione        Le letture convergono nel consegnare un messaggio centrato sul Messia: il Messia è colui su cui si posa lo Spirito di Dio con suoi doni (I lettura); Gesù, il Messia è colui che, secondo la parola della Scrittura, ha adempiuto le promesse di Dio fatte ai padri (II lettura);  il Messia, colui che battezzerà in Spirito santo e fuoco, è il più forte annunciato dal Battista (vangelo).
Egli è rivelato dallo Spirito (I lettura), profetizzato dalle Scritture (II lettura), indicato da un uomo, Giovanni, il profeta e precursore (vangelo).
Anche nella vita cristiana, lo Spirito, le Scritture e un uomo di Dio, un profeta, un padre spirituale, svolgono una funzione magisteriale e di preparazione all’accoglienza del Signore che viene.
     Giovanni annuncia il Veniente chiedendo conversione.
Per accogliere il Signore occorre prepararsi e Giovanni mostra un aspetto importante della conversione, ovvero, l’unità tra vita e predicazione, tra dire e fare.
Egli chiede di preparare nel deserto una strada al Signore, situandosi egli stesso nel deserto a preparare la via al Veniente.
Questa unità fonda l’autorevolezza del predicatore facendone un testimone.
Egli appare, come spesso i profeti, un segno: ovvero, una parola di Dio fatta carne che, con i modi stessi del suo vivere, indica il Signore che viene, e prepara ad accoglierlo.
     Giovanni ha intrapreso la via del deserto non per ascetismo o per compiere esercizi di pietà, ma per vivere la verità della propria personalissima vocazione di profeta e precursore del Messia (Mt 11,9-10) e per ridare verità alla via del Signore opacizzata da uomini religiosi che «dicono e non fanno» (Mt 23,3) e perciò finiscono nell’ipocrisia.
E Giovanni prepara i suoi ascoltatori alla venuta del Signore conducendoli a fare verità in se stessi: la confessione dei peccati (Mt 3,6) è segno della volontà di ritrovare la rettitudine del proprio cammino davanti a Dio.
La conversione inizia da questo lucido coraggio di ritrovare la propria verità e, quindi, dall’umile riconoscimento che da tale verità ci si è allontanati.
     Ciò che si oppone al coraggio della verità è l’ignavia di chi vive la fede come una polizza assicurativa, come una riserva di certezze.
Giovanni si scaglia contro chi è abitato dalla presunzione della salvezza, contro chi irrigidisce la vitalità e il rischio della fede nella rigidezza di un’identità e nell’immobilismo di un’appartenenza: quasi che la salvezza fosse un’eredità che spetta per diritto.
«Non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre”» (Mt 3,9).
     Alla staticità di chi si culla in un’identità religiosa abitata da certezze, che non tollera di metterla in discussione e ancor meno di riconoscere i meccanismi di autogiustificazione che gli evitano di guardare in faccia i propri peccati, Giovanni oppone una parola che è un comando e una rivelazione: «Convertitevi» (Mt 3,2).
Comando che discende dalla presa di coscienza che il Regno di Dio si è fatto vicino e non più possibile esitare, indugiare, perdere tempo, e rivelazione che il cambiamento è possibile, che il peccato non è l’ultima parola, che le situazioni paralizzanti possono essere sciolte.
Vi è qualcosa di non cristiano, oltreché di profondamente triste, nelle espressioni che a volte affiorano sulla nostra bocca: «Io non cambierò mai», «Io sono così e non ci posso fare niente».
Tutto questo significa che il cambiamento uno lo pensa come opera propria, e non come apertura all’azione del Signore e alla potenza della sua grazia.
Ma la conversione è esattamente questo: «Possiamo convertirci soltanto perché Dio,  per primo, si è rivolto a noi, donandoci il suo perdono e aprendo la via alla riconciliazione.
La conversione è quindi azione di grazia; è il dono di poter ricominciare da capo.
Conversione significa “avere il coraggio di vivere il dono di Dio”» (Walter Kasper).
L’unico nostro vero peccato è che possiamo in ogni momento convertirci, ritornare a Dio e non lo facciamo.
Convertirsi è ripristinare il primato di Dio e della sua grazia nella nostra vita.
  Preghiere e racconti   ACQUA E FUOCO «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà» (Is 11,6).
  «Vi dico che Dio può far sorgere i figli di Abramo da queste pietre.
Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non sono degno neanche di portargli i sandali.
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,9.11).
  Nei brani biblici sono bandite le mezze misure e i toni smorzati non vi compaiono neppure alla lontana.
Si direbbe che le Scritture vivono sui contrasti.
Del resto, con un protagonista come Giovanni – ispido nelle sue vesti di peli di cammello, selvatico come il miele di cui si nutriva rude come le locuste che scricchiolavano sotto i suoi denti  le tinte intermedie non potevano essere le più indicate.
I contrasti (oggi si dice: le antinomie) compaiono già nel testo di Isaia 11, 1-10: lupo e agnello; pantera e capretto; orsa e mucca; aspide e lattante… E poi continuano nel passo di Matteo 3, 1-12: deserto e fiume; parola e voce; denuncia e proposta; acqua e fuoco; grano e pula.
Non si potrebbe, allora, cogliere l’occasione per affidare a tali contrapposizioni tematiche l’annuncio di questo avvento che, tutto sommato, si riduce a una grande parola: «Convertevi»?   Lupo e agnello II tema della pace messianica ritorna con insistenza e costituisce il

Bibbia e cultura greca

Con una tavola rotonda sul tema “Trasmettere il messaggio della Bibbia nella cultura di oggi” si è concluso sabato 4 dicembre alla Pontificia Università Urbaniana il congresso internazionale “La Sacra Scrittura nella vita e nella missione della Chiesa” dedicato all’Esortazione Apostolica Verbum Domini.
La tavola rotonda è stata presieduta dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura che, in occasione dei lavori del congresso, ha scritto per il nostro giornale il seguente articolo.
Pubblichiamo anche ampi stralci della relazione del direttore della rivista “Servizio della Parola”.
La recente esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini ha un intero capitolo dedicato alla “Parola di Dio e culture”.
È, questa, un’ulteriore declinazione della categoria teologica centrale cristiana, quella dell’Incarnazione.
Essa – afferma Benedetto XVI – “rivela anche il legame indissolubile che esiste tra la Parola divina e le parole umane, mediante le quali si comunica a noi(…) Dio non si rivela all’uomo in astratto, ma assumendo linguaggi, immagini ed espressioni legati alle diverse culture” (109).
Che la Bibbia non sia un aerolito piombato dal cielo della trascendenza, ma sia piuttosto un seme deposto nel terreno della storia è ormai un dato storico-critico e teologico rigettato solo dal fondamentalismo.
Il cuore del cristianesimo è nell’Incarnazione, cioè nel Lògos eterno e infinito che s’innesta, s’intreccia e intride la sàrx, cioè la temporalità, la spazialità, l’esistenza, la cultura dell’umanità (Giovanni 1, 14).
Riannodandosi a un filo tradizionale, che ebbe nell’enciclica Divino afflante Spiritu di Pio xii uno dei suoi nodi decisivi, Giovanni Paolo ii, rivolgendosi il 27 aprile 1979 alla Pontificia Commissione Biblica, affermava che ancor prima di farsi sàrx, “carne” in senso stretto, “la stessa Parola divina s’era fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture, che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile nelle varie generazioni, malgrado la molteplice diversità delle loro situazioni”.
Detto in termini sintetici, la Bibbia si presenta anche come un modello di inculturazione o acculturazione sia a livello linguistico, sia in ambito letterario (si pensi ai generi letterari), sia nell’orizzonte tematico e la Verbum Domini ribadisce tale aspetto.
 Ovviamente sono innanzitutto le culture dell’antico Vicino Oriente il referente primario, ma non è certo lieve anche l’apporto dell’ellenismo.
Molti sono convinti che Qohelet, l’autore anticotestamentario che incarna la crisi della sapienza tradizionale di Israele, abbia respirato l’atmosfera filosofica greca, in particolare quella dello stoicismo, dell’epicureismo e dello scetticismo dei secoli iv-iii antecedenti all’era cristiana.
Si sono, così, infittite le analisi dei contatti tra certe affermazioni sorprendenti dell’autore biblico col pensiero greco.
Un esempio per tutti.
In Qohelet 1, 9 (cfr.
2, 12; 3, 15) si legge:  “Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c’è nulla di nuovo sotto il sole”.
Ora nella Vita di Pitagora (19) di Porfirio si legge questo detto del celebre filosofo:  tà ghinòmena pòte pàlin ghìnetai, nèon d’oudèn haplòs estin, “ciò che accadde un tempo di nuovo accade, niente di nuovo avviene semplicemente”.
Paolo Sacchi nel suo commento a Qohelet intuiva, invece, in quello scritto biblico il balenare dell’aurea mediocritas, ossia di una morale della “via di mezzo”.
Infatti in 7, 16-18 si legge:  “Non esagerare con la giustizia, né esser troppo sapiente:  perché rovinarti? Non esagerare, però, neppure con la malvagità o con la stupidità:  perché morire prima del tempo?! È bene aggrapparsi a una cosa senza però staccare la mano dall’altra:  chi rispetta Dio riesce in entrambe”.
Certo che, se pure non è possibile ricondurre Qohelet nell’alveo del pensiero greco, è però molto probabile che il clima culturale ellenistico abbia varcato anche le frontiere abbastanza blindate del mondo giudaico-palestinese, come è attestato un secolo dopo (nel ii secolo antecedente all’era cristiana) anche da un altro sapiente biblico, il “conservatore illuminato” Ben Sira o Siracide (si legga il capitolo 38 sul medico e sulla medicina).
Tuttavia, ben più intenso fu il dialogo stabilito dalla Diaspora, soprattutto alessandrina.
Suggestivo è il caso del filosofo giudaico Filone ma anche quello di un libro deuterocanonico come la Sapienza, composto in un greco eccellente probabilmente ad Alessandria d’Egitto forse attorno al 30 prima dell’era cristiana.
In particolare, nei capitoli 1-5 dell’opera, brilla la tesi dell’athanasìa/aftharsìa della psychè:  l’immortalità/incorruttibilità dell’anima è certamente formulata e formalizzata attraverso il ricorso al platonismo popolare, anche se il retroterra teologico e antropologico permane saldamente ancorato alla tradizione biblica.
Infatti, questa immortalità beata non è tanto una conseguenza metafisica della natura dell’anima spirituale, come si ha nell’argomentazione platonica, bensì dono e grazia essendo comunione trascendente di vita con la stessa divinità.
Tuttavia l’autore, che  conosce  anche  Se- nofonte,  offre un testo che è grondante di ammiccamenti alla cultura greca.
In 8, 7 introduce le quattro virtù cardinali di origine platonica (Repubblica iv, 427e-433e):  temperanza, prudenza, giustizia e fortezza.
In 11, 17 evoca l’àmorfos hyle, la materia informe, ispirandosi al Timeo (51A) di Platone, mentre in 11, 20 esalta l’opera divina che “tutto dispone con misura, calcolo e peso”, formula riscontrabile nelle Leggi platoniche (vi, 757B).
In 13, 5 si esalta la conoscenza “analogica” di Dio procedendo dal creato al Creatore secondo una modalità molto affine al De mundo dello Pseudo-Aristotele (vi, 399b, 19 e seguenti).
In 8, 17-20 si adotta il “sorite”, cioè il sillogismo concatenato progressivo, mentre le componenti della Sapienza divina sono modellate in 7, 17-21 sulla base della didattica scientifico-filosofica ellenistica, quasi “canonizzando” l’insegnamento delle scienze naturali impartito nel Museon di Alessandria.
Nella celebrazione che l’autore fa della Sapienza divina (7, 22-24), basata su ventuno attributi, si intuiscono rimandi alla filosofia stoica, mentre nel canto intonato dagli empi nel capitolo 2 occhieggiano concezioni epicuree e persino “materialistiche” (2, 2-3).
L’antropologia a più riprese riflette echi della concezione greca classica.
In 9, 15, ad esempio, si afferma che “il corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri”, parole che sembrano alludere a un passo del Fedone (81C).
In 8, 19-20 si mette in scena Salomone che parrebbe accogliere la tesi della preesistenza delle anime, anche se il contesto ridimensiona l’idea riconducendola a una semplice esaltazione della preminenza dell’anima sul corpo:  “Ero un fanciullo di nobile natura e avevo ricevuto in sorte un’anima buona o, piuttosto, essendo buono, ero entrato in un corpo senza macchia”.
In 17, 11 si ricorre al concetto greco di “coscienza” (synèidesis), mentre in 14, 3 e 17, 2 si celebra la provvidenza (prónoia) divina, con tonalità stoiche, come principio che penetra e regge l’universo.
In pratica, senza conoscere la cultura greca è quasi impossibile leggere con frutto questo gioiello della saggezza biblica della Diaspora.
Giungiamo, così, al contributo della cultura ellenistica nei confronti dell’esperienza cristiana.
Basti solo pensare all’opera missionaria di san Paolo che ha al suo interno un vero e proprio programma di “inculturazione” teologica, elaborata attraverso una strumentazione che ricorre al contributo greco, applicata però in forma molto originale.
I grandi centri di Antiochia, Efeso, Corinto e Roma costituiscono l’areopago in cui il cristianesimo, uscito dal grembo giudaico gerosolimitano, si confronta col mondo ellenistico ed entra in dibattito con esso.
La sfida che già il giudaismo della Diaspora aveva dovuto raccogliere si ripropone con maggior forza e con esiti decisivi per la nuova fede cristiana ma anche per la stessa civiltà greco-romana.
Se stiamo ai rimandi diretti all’interno del Nuovo Testamento, il bilancio materiale è magro perché i testi di riferimento rimangono ovviamente sempre le Scritture ebraiche.
Tre sole sono, infatti, le citazioni dirette:  i Fenomeni di Arato in Atti 17, 28 (“Di Lui noi siamo stirpe”), la Taide frammento 218 di Menandro in 1 Corinzi 15, 33 (“Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi”), il frammento 1 di Epimenide di Creta in Tito 1, 12 (“I cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri”).
In realtà la messe è ben più copiosa quando si lavora sulla filigrana dei testi neotestamentari.
Pensiamo, ad esempio, all’influenza delle speculazioni ellenistico-giudaiche circa la Sofìa e il Lògos divino all’interno della cristologia paolina e giovannea.
Il Lògos del prologo del quarto vangelo, se si àncora alla categoria biblica Davar-Parola, è però segnato da qualche ammiccamento greco a partire da Eraclito fino allo stoicismo.
Pensiamo anche alla riflessione sulla preesistenza e sulla missione di Cristo (Romani 1, 3; 8, 3; Galati 4, 4; Giovanni 1, 1.14):  è facile intuire in sottofondo contributi elaborati dal giudaismo che più si era aperto all’ellenismo, cioè a Filone di Alessandria e alle sue concezioni ipostatiche della Sapienza e della Parola divina (De opificio mundi 139; De confusione linguarum 146).
 Ma, fuori della mediazione giudeo-ellenistica, il cristianesimo s’inoltra in prima persona nell’orizzonte culturale greco-romano.
Vorremmo indicare al riguardo tre modelli.
Il primo è quello “etico-filosofico” ove è d’obbligo il nesso con la filosofia stoica allora dominante, soprattutto la Nuova Stoà (basti accennare all’epistolario apocrifo tra san Paolo e Seneca).
La dignità della persona, anche se femminile o servile (Galati 3, 28), la relazione intima con l’eterno (2 Corinzi 4, 17-18), il contesto globale unitario in cui l’uomo è collocato e vive (Efesini 4, 4-6), il celibato per  ragioni  superiori  e  trascendenti (1 Corinzi 7, 35), lo stesso perdono delle offese (Luca 23, 44), il bastare a se stessi col proprio impegno (Filippesi 4, 1) sono alcuni esempi di questa osmosi o almeno di contatti culturali.
C’è, poi, il modello “misterico”.
Si tratta di un settore ove bisogna procedere con molto rigore e cautela, considerata anche la fluidità degli stessi culti misterici.
Così, sulla morte e risurrezione di Cristo è molto arduo voler scovare paralleli nella ritualità mitica dei misteri:  se è certa la morte del dio (Persefone, Osiride, Adone, Attis), molto più problematica è la sua risurrezione che non è mai definita in termini netti e nitidi e soprattutto non secondo le caratteristiche di un evento storico, ma piuttosto seguendo la scansione stagionale della natura.
Inoltre, spesso gli scritti misterici profani sono molto tardivi, di probabile impronta cristiana.
Diverso è, invece, il caso della comunione e della partecipazione alla vicenda della divinità adorata:  il linguaggio misterico potrebbe aver offerto a Paolo un supporto espressivo per la formulazione della concezione del “con-morire” e “con-risorgere” del fedele con Cristo (Romani 6, 1-5; Colossesi 2, 18).
Così, la koinonìa “sacramentale” col corpo  di  Cristo nel pane e nel calice (1 Corinzi 10, 14-22) può aver ricevuto qualche spunto espressivo dal tema della koinonìa con la divinità nel pasto sacro presente nel culto dionisiaco.
Infine, potremo parlare di un modello “politico”.
Il punto di partenza è remotissimo a livello ideale rispetto alla visione cristiana ed è quello del culto ellenistico dei sovrani che approda all'”apoteosi” imperiale del i secolo.
Ora, una serie di titoli come Kyrios, Theòs, Sotèr, tipici di quell’ambito, vengono riproposti – ovviamente secondo coordinate del tutto differenti – dalla cristologia soprattutto paolina che nell’uomo Gesù Cristo confessa la pienezza della divinità.
La stessa categoria parousìa per indicare la futura “venuta” finale di Cristo attinge alla tipologia delle visite imperiali “graziose” (Ateneo, Deipnosofia 6, 253 c-d) e persino il termine euanghèlion appare in chiave imperiale nella famosa iscrizione di Priene.
Concludendo questa carrellata essenziale sul dialogo tra Bibbia ed ellenismo, il contrappunto proprio di ogni confronto interculturale è ben espresso da due dichiarazioni paoline che ci invitano a evitare i due estremi insiti in ogni comparazione:  il fondamentalismo esclusivista e il sincretismo dissolutore dell’identità propria:  “Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono/bello” (1 Tessalonicesi 5, 21); “I Greci cercano la sapienza(…) noi predichiamo Cristo crocifisso (…) stoltezza per i pagani” (1 Corinzi 1, 22-23).
(©L’Osservatore Romano – 5 dicembre 2010)

XXX II Domenica Tempo Ordinario Anno C

Preghiere e Racconti   Fede nella vita oltre la morte Col tempo imparai a conoscere la Bibbia, e oggi mi considero una cristiana.
[…] In linea con san Paolo, credo che dopo la nostra morte corporea risorgeremo con un “corpo spirituale” in un’altra dimensione rispetto a quella fisica in cui viviamo adesso.
[…] O, per dirla con san Paolo: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti? Se non esiste resurrezione dei morti, neanche Cristo è resuscitato.
Ma se Cristo non è resuscitato, allora è vana la vostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”.
 Io che ero entrata in crisi e avevo pianto amaramente pensando che ci fosse solo questa terrena.
Io che per alleviare questa sofferenza mi infilai nel maggiolone per andare a sciare sul ghiaccio di Jostedal.
Io che avevo sempre sofferto così tanto perché mai e poi mai mi sarei saziata di vita.
Io, improvvisamente, avevo trovato la strada verso una rassicurante fede nella vita oltre la morte.
(Jostein GAARDER, Il castello dei Pirenei, Longanesi, Milano, 2009, 215-216).
Dio dei padri, Dio dei viventi II nostro Signore e maestro nella risposta ai sadducei, i quali affermavano che non vi è resurrezione e per questo disonoravano Dio e sminuivano la Legge, dimostrò la resurrezione e fece conoscere Dio.
Disse infatti: A proposito della resurrezione dei morti non avete letto ciò che è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? (Mt 22,31-32), e aggiunse: Non è il Dio dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per lui (Lc 20,38).
Con queste parole rese assolutamente manifesto che colui che parlò a Mosè dal roveto e dichiarò di essere il Dio dei padri è il Dio dei viventi.
Ora, chi è il Dio dei vivi se non colui che è Dio e al di sopra del quale non vi è altro Dio? […] Colui che è adorato dai profeti è il Dio vivente, è il Dio dei viventi, e il suo Verbo ha parlato a Mosè, ha rimproverato i sadducei, ha donato la resurrezione, mostrando a quei ciechi due cose: la resurrezione e Dio.
Se infatti Dio non è il Dio dei morti ma dei vivi e se è detto Dio dei padri che si sono addormentati, certamente vivono per Dio e non sono morti essendo figli della resurrezione (Lc 20,36).
Proprio per insegnare questa stessa cosa diceva ai giudei: Il vostro padre Abramo esultò per vedere il mio giorno, lo vide e si rallegrò ( Gv 8,56).
Che cosa significa questo? Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia (Rm 4,3).
Innanzitutto credette che egli è il creatore del cielo e della terra, il solo Dio; poi, che avrebbe reso la sua posterità come le stelle del cielo (cfr.
Gen 15,5) e questo è ciò che è detto da Paolo [quando scrive: dovete risplendere] come astri nel mondo (Fil 2,15).
Giustamente, dunque, Abramo, dopo aver lasciato la sua parentela terrena, seguiva il Verbo di Dio, facendosi straniero con il Verbo per dimorare con il Verbo.
Giustamente anche gli apostoli che discendevano da Abramo, lasciata la barca e il padre, seguivano il Verbo.
Giustamente anche noi, che abbiamo la stessa fede di Abramo, presa la croce come Isacco prese la legna, seguiamo lui.
In Abramo l’uomo aveva imparato già da prima a seguire il Verbo di Dio.
(IRENEO DI LIONE, Contro le eresie 4, 5,2-5, SC 100, pp.
428-434).
La passione e risurrezione di Gesù sono il nucleo centrale della ‘buona novella’ La passione e risurrezione di Gesù sono il nucleo centrale della ‘buona novella’ che i discepoli di Gesù volevano annunciare al mondo.
Gesù è il Signore che ha patito, è morto, fu sepolto e il terzo giorno è risorto.
Era un annuncio che tutti dovevano conoscere: era la ‘lieta notizia’, e lo è ancor oggi.
Si può dire che tutto ciò che i vangeli dicono di Gesù mira a far risaltare il pieno significato della sua passione, morte e risurrezione.
Il vangelo è, prima e più di tutto, il racconto della morte e risurrezione di Gesù, che costituisce il cuore della vita spirituale.
Passione, morte e risurrezione di Gesù rappresenta l’avvenimento fondamentale e più importante di tutta la storia umana.
Se non riesci a sentirlo e a vederlo, allora il vangelo, nel migliore dei casi, potrà sembrarti interessante, ma non potrà rinnovarti il cuore e farti rinascere a vita nuova.
E il vangelo mira appunto a questa rinascita – a una liberazione radicale che ci sottrae al potere della morte e ci permette di amare senza paura.
Quale atteggiamento davanti alla sofferenza e alla morte? La croce non è solo un bell’oggetto artistico per decorare i salotti e i ristoranti di Friburgo, ma è anche il segno della trasformazione più radicale nel nostro modo di pensare, sentire e vivere.
La morte di Gesù in croce ha cambiato tutto.
Qual è la reazione umana più spontanea davanti alla sofferenza e alla morte? Per conto mio, sarei portato istintivamente a impedire, evitare, negare, fuggire, star lontano e ignorare il soffrire e il morire.
È una reazione che indica che queste due realtà non si accordano col nostro programma di vita.
Per la maggior parte della gente, sono proprio questi i due nemici principali della vita.
Ci sembra davvero ingiusto che esistano, e ci sentiamo obbligati a cercare in un modo o nell’altro di tenerli sotto controllo come meglio possiamo; se poi non ci riusciamo subito, vuol dire che ci sforzeremo di fare meglio un’altra volta.
Ci sono dei malati che capiscono ben poco la loro malattia, e spesso muoiono senza mai aver pensato sul serio alla morte.
L’anno scorso un mio amico morì di cancro.
Sei mesi prima di morire era già evidente che non gli restava molto da vivere.
Gli facevano tante iniezioni, fleboclisi e cose del genere che si aveva l’impressione che lo si volesse tenere in vita a ogni costo.
Non voglio dire che si facesse male a cercare di guarirlo: voglio dire piuttosto che s’impiegava tanto tempo a tenerlo in vita che non ne restava più per prepararlo alla morte.
Il risultato logico di questa situazione è che ci curiamo ben poco dei defunti.
Non facciamo molto per ricordarli, cioè per associarli alla nostra vita interiore.
Ben diverso era l’atteggiamento di Gesù verso la sofferenza e la morte.
Egli infatti guardava queste realtà bene in faccia e a occhi aperti.
Anzi, la sua vita intera fu una consapevole preparazione alla morte.
Gesù non esalta la sofferenza e la morte come cose che dobbiamo desiderare, ma ne parla come di cose che non dobbiamo rigettare, evitare o ignorare.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 26-29).
L’anima soffre e anela al Signore Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.
Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi.
Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.
Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.
E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.
(Don Tonino Bello) La morte Infine, vi è un luogo dello Spirito del quale vi dirò molto poco, perché non ne abbiamo alcuna esperienza diretta.
Eppure è importante: forse è il più importante di tutti.
È la morte, in cui ogni cosa ci è consegnata all’improvviso, come un frutto maturo che ci attende al termine di una lunga iniziazione, un lungo esercizio.
Riguardo a questo luogo, se è vero che noi non siamo ora in condizione di rendere testimonianza all’attività dello Spirito che in quel momento ha luogo, sarebbe forse interessante studiare e analizzare le preziose testimonianze dei morenti.
Forse è grazie a loro che ci sarà dato di scoprire i veri criteri dell’esperienza spirituale.
(Tratto da A.
Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2001, pp.
9-20).
La morte è sempre puntuale C’è un’altra storia non troppo simpatica, che ha per protagonista un tale di nome Omar.
Sembra proprio si tratti del nostro vecchio amico Datu Omar che abbiamo lasciato qualche pagina fa mentre piangeva per la scomparsa della sua moglie e domandava ad Allah di salvargli la bambina che stava morendo.
Ebbene lo ritroviamo qualche tempo dopo, solo e ancora più disperato di prima.
Anche la ricchezza lo aveva abbandonato e con la ricchezza, si sa, se ne vanno via subito anche gli amici.
Decise allora che era preferibile per lui lasciarsi ghermire dalla morte.
Perciò si avvicinò alla riva di un largo fiume, pieno zeppo di coccodrilli che lo aspettavano a fauci spalancate.
Omar lanciò un grido per attirare l’attenzione su di sé e si tuffò proprio in mezzo al fiume.
Ma i coccodrilli invece di sbranarlo, si allontanarono subito da lui che cercava in tutti i modi, anche tirandoli per la coda, di farsi divorare.
In breve nel fiume rimase solo lui mentre i coccodrilli si erano tutti ritirati sulla terra ferma, dentro una caverna.
Ritornò inzuppato e deluso in paese e prima di entrare nella sua capanna, diede uno sguardo al cielo.
Esso si stava ammantando di grosse nuvole nere ed il vento stava annunciando l’arrivo di un disastroso tifone.
“Bene, bene! Il tifone getterà a terra chissà quanti alberi della foresta, pensò Omar,  è meglio che mi addentri e aspetti che qualche albero mi cada addosso e così potrò morire”.
Detto, fatto.
Scelse l’albero dal tronco più grosso ma con le radici ormai a fior di terra.
Bastava un soffio per gettarlo giù.
Si scatenò il temporale, caddero fulmini e saette e quasi tutti gli alberi accanto ad Omar furono abbattuti, eccetto proprio l’albero vicino al quale si era preparato a morire.
“Non mi vuole nessuno, neanche la morte!” pensò rassegnato Omar.
Quand’ecco accanto a lui apparve uno straniero vestito di una lunga tunica gialla e con il capo coperto da un turbante giallo con le frange orlate di nero.
“Perché ti trovi così, in mezzo alla foresta, tutto bagnato e con i vestiti a brandelli? Chiese il nuovo arrivato”.
“Sto aspettando la morte, rispose Omar,  perché la morte è per me più dolce della vita”.
“Non è ancora arrivato per te il momento di morire  replicò lo straniero  alzati e va a lavorare e cerca di essere felice della tua vita”.
Omar si alzò e seguì il nuovo amico che lo condusse fuori dalla foresta.
Quale fu la sua sorpresa quando vide aprirsi davanti al suo sguardo una bellissima campagna.
Vicino al sentiero erano allineate molte capanne leggiadre ed ordinate e davanti ad esse erano sedute tante ragazze che chiacchieravano in fraterna conversazione e cantavano e sorridevano.
I bambini stavano giocando sui prati trapuntati di fiori, mentre gli uomini lavoravano la terra e molte donne stavano preparando succulenti pranzetti.
Ritrovò la sua capanna: era diversa, più bella, più ariosa.
Mentre egli salutava tutta quella gente, provò una gioia ed una serenità del tutto nuove, e così, dopo tanti anni, finalmente il sorriso gli rifiorì sulle labbra.
Tutti gli volevano bene e lo stimavano molto per la bravura nel saper catturare gli animali selvatici della vicina foresta.
Anzi lo vollero eleggere loro capo e vollero donargli come futura sposa la più bella ragazza del villaggio.
Come era bello vivere, adesso.
Alcuni mesi più tardi però, mentre stava dormendo sentì qualcuno bussare alla porta della sua capanna.
Si alzò, accese la lampada e prese anche un coltello per maggior sicurezza.
Poi aprì la porta e con grande sorpresa si vide davanti lo strano personaggio vestito di giallo, con il turbante dorato con le frange nere.
“Omar, adesso sì che è arrivata la tua ora.
Vieni con me!” “La mia ora? Di quale ora stai parlando”.
“La tua ora è arrivata, vieni con me!” la voce dello straniero ora aveva un suono lugubre come il rumore di una pietra che cade in fondo al pozzo.
Omar chiuse subito la porta gridando: “Vattene via, io non ti conosco”.
Ma insistente, l’altro continuò: “L’ora della tua morte è arrivata”.
“No, no, è bello vivere, lasciami in pace” gridò tutto sudato il nostro Omar dall’interno della buia capanna.
La lampada infatti gli era caduta a terra e la fiamma si era spenta.
Tutto attorno a lui parlava di tenebre e di terrore.
“Lasciami un altro mese, per piacere!” supplicò.
“E va bene, tornerò tra un mese”.
Si sentirono distintamente ora i pesanti passi dello straniero allontanarsi da Omar avvertiva più distintamente nel suo petto palpiti veloci del cuore.
Aveva ancora solo un mese di tempo, e dopo? Bisognava fare qualcosa, ma che cosa? Avrebbe fatto costruire una torre alta a difesa della sua casa, oppure sarebbe scappato lontano e sarebbe vissuto nel profondo della più nascosta foresta dell’isola più distante.
Oppure si sarebbe travestito da vecchio mendicante e così la morte non lo avrebbe riconosciuto così facilmente.
Ma come poteva fare in quell’ultimo mese, accidenti? L’ultima idea gli sembrò quella più giusta.
Il giorno dopo si allontanò dal villaggio e, dopo dieci giorni di cammino, giunse ai margini di una grande foresta.
Aldilà si ergevano alcune montagne e si poteva intravedere anche la cima fumante di un vulcano.
Ci mise altri dieci giorni ad arrivare alle pendici del vulcano.
La terra gli scottava sotto i piedi e ci vollero ancora altri dieci giorni per trovare finalmente una caverna adatta al suo nascondiglio.
Lo trovò e prima di entrare si travestì da vecchio.
Con una fiaccola in mano Omar si addentrò nella grotta accolto da una nuvola di pipistrelli che lo avvolse in segno di triste presagio.
In fondo alla caverna gli sembrò di vedere qualcuno tra le pareti umide e tappezzate di muschio.
“Omar, sono qui, il mese è passato, sono venuta a prenderti!” Omar capì che non c’era più nulla da fare, aprì le braccia in segno di accoglienza, mentre la morte copriva con il suo giallo mantello il più famoso cacciatore di quelle isole sperdute.
(Illustrazioni di Federica Trivellin).
Preghiera Vieni tu da me, Signore, e allora io potrò venire da te.
Portami a te e solo allora potrò seguirti.
Donami il tuo cuore e solo così potrò amarti.
Dammi la tua vita e allora potrò morire per te.
Prendi nella tua risurrezione tutta la mia morte e sii mio, Signore, sii mio affinché io sia tua in eterno.
(Silja Walter)     * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte seconda, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
           XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: 2Maccabei 7,1-2.9-14           In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite.
Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri».
[E il secondo,] giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna».
Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo».
Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture.
Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti.
Ridotto in fin di vita, egli diceva: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita».
       v L’episodio raccontato s’inserisce nel contesto della persecuzione d’Antioco IV Epifane che voleva imporre la cultura greca al popolo ebraico (167-164 a.C.).
Viene ricordato il martirio dei sette fratelli, esortati dalla loro madre a testimoniare la fede.
Non solo essa ha passato loro la fede, ma li sostiene nel momento del pericolo.
Di fronte a loro il re in persona assiste al supplizio.
Egli rappresenta la luce della cultura ellenica, verso la quale molti ebrei sono attirati e per questo sono disposti al compromesso.
Quello che divide la madre dei sette fratelli e il re è una concezione opposta della vita.
Per il re la vita viene dalla cultura e dalla ragione, per la madre ebrea è un dono di Dio, perciò nessuna forza umana la può veramente togliere.
Come la madre anche i figli, ricchi di questa fede, si sentono liberi di perdere questa vita, per riceverla dalle mani di Dio: È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati (v.
14).
Anche per gli empi ci sarà una risurrezione, ma non per la vita (v.
14b).
Vivranno eternamente la morte.
Cf.
Gv 5,29: «quelli che fecero il bene per una risurrezione di vita, quanti fecero il male per una risurrezione di condanna».
  Seconda lettura: 2Tessalonicesi 2,16-3,5          Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.
Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi.
La fede infatti non è di tutti.
Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno.
Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo.
Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.
    v Paolo aveva in pochissimo tempo evangelizzato a Tessalonica, ma era stato sufficiente perché nascesse una comunità fervorosa, che si mantiene fedele al suo Signore Gesù anche nella diaspora e attaccata dalla mentalità greca e dalle gelosie ebraiche.
L’apostolo tuttavia non chiude gli occhi su alcuni problemi esistenti nella comunità e interviene a rettificare i malintesi riguardanti alcuni temi della fede tramandata: la Parusia che alcuni ritenevano imminente determinando atteggiamenti di pigrizia e di disordine.
     Nel nostro brano Paolo esprime gli auguri e chiede preghiere alla comunità.
Non sono delle pure espressioni formali, ma sintetizzano la fede che lui stesso aveva loro insegnato.
lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro…
conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene (v.
17).
Con questo augurio viene ricordato ai cristiani che il presente è importante.
È proprio esso che fa germogliare il futuro di gloria.
La vita quotidiana deve essere vissuta nell’amore di Dio e nella pazienza di Cristo (3,5): due qualità teologiche irraggiungibili dalle sole forze umane.
     La prima non è che la partecipazione alla vita divina, la seconda è l’accettazione delle croci seguendo le orme di Cristo.
     Il cristiano sa che il Signore gli ha dato una consolazione eterna e una buona speranza (2,16).
Pur non alienandosi dalla storia concreta, adempiendo tutti i doveri di cittadini, la sua vera patria è il cielo e già qui sulla terra vive da celeste.
    Vangelo: Luca 20,27-38          In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”.
C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli.
Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli.
Da ultimo morì anche la donna.
La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio.
Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”.
Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».
       Esegesi      Gesù si trova a Gerusalemme nel momento culminante della sua missione.
Proprio a Gerusalemme era orientato tutto il suo cammino.
     Qui insegna pubblicamente presso il tempio e tutti pendono dalle sue labbra.
In questo clima s’inseriscono le controversie con gli scribi e con il gruppo loro avversario, che non credeva nella risurrezione dei corpi, i Sadducei.
Gesù per loro è un rabbi, un maestro, al quale possono fare delle domande su questioni di fede.
E gli pongono un caso curioso d’applicazione della legge del levirato (cf.
Gn 38,8; Dt 25,5-10).
Sette fratelli, scrupolosi osservanti della legge mosaica, presero uno dopo l’altro come moglie la stessa donna; questa donna, dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? (v.
33).
     Gesù risponde innanzi tutto che il mondo futuro non è simile al presente.
I figli di questo mondo, quelli che appartengono a questo mondo in cui vivono, sono legati da legami che caratterizzano la vita materiale: rapporti sessuali, vincoli coniugali, procreazione (v.
34).
     Quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione (v.
35) sono coloro che hanno ricevuto la grazia di partecipare alla risurrezione.
Lo sguardo di Luca è rivolto in particolare agli eletti alla vita eterna.
Essi vivono una vita da figli della risurrezione, cioè da risorti, in quanto sono figli di Dio.
Questo fatto fonda la risurrezione: la vita che essi possiedono mediante la risurrezione è una vita che non viene da generazione carnale.
Sono uguali agli angeli (v.
36), perché il loro corpo è spiritualizzato.
     Gesù quindi si richiama alla Scrittura per confermare il fatto della risurrezione di tutti gli uomini.
Dio si è rivelato a Mosè nel roveto ardente (Es 3,2) come Dio d’Abramo, Dio d’Isacco e Dio di Giacobbe, cioè come Dio dei vivi (v.
37).
La loro vita viene da Dio, perché tutti vivono per lui (v.
38b), quindi non può finire con la morte.
Abramo, Isacco e Giacobbe non sono vivi nel ricordo dei figli da loro generati, ma perché essi sono generati da Dio.
Qui si pensa a tutti coloro che sono destinati alla vita eterna, ma in v.
37 si parla i

XXX Domenica Tempo Ordinario Anno C

Preghiere e Racconti   L’elemosina della santità «Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano…”» (Lc 18, 9-14).
Mettendo in scena il primo personaggio, Gesù vuole denunciare due disposizioni sbagliate e opposte al comportamento evangelico: la presunzione di essere giusti di fronte a Dio e il sentirsi superiori agli altri tanto da disprezzarli.
I due atteggiamenti sono legati e il secondo dipende dal primo.
Lc 18,11 andrebbe meglio reso in italiano così: «Il fariseo stando ritto presso se stesso, queste cose pregava…».
Il fariseo, dunque, è tutto preso di sé, è rivolto non a Dio ma a se stesso, recita delle parole pensando di pregare ma in realtà fa un autoelogio.
Il fariseo presume di sé ed è sicuro della propria santità, si presenta così quale giudice zelante e spietato nei confronti del suo prossimo: «Ti ringrazio che non sono come gli altri uomini… e neppure come questo pubblicano» (Lc 18, 11).
Il pubblicano, invece, non si preoccupa di quello che gli altri sono e fanno; è lontano dalla sua mente il giudicare il fariseo o altri.
Egli è consapevole dei suoi tradimenti e delle sue colpe e non tenta di mascherarli davanti a Dio: «Stando a molta distanza non voleva neppure alzare gli occhi al cielo, ma batteva il suo petto dicendo: “O Dio, fai elemosina a me peccatore”» (Lc 18, 13).
Si presenta con quelle che dovrebbe essere la  «carta d’identità» di ogni cristiano: peccatore!       La parabola presenta due atteggiamenti di preghiera, ma poi finisce con il descrivere due modi di vivere.
La preghiera così rivela la vita dei due personaggi.
Di conseguenza ciò che va corretto non è la preghiera ma l’idea che si ha di Dio, di se stessi e del prossimo.
Il fariseo e il pubblicano incarnano un modo diverso di porsi di fronte a Dio e agli altri, un modo opposto di guardare a se stessi, un modo opposto di concepire la santità.
Parole senza preghiera…
la perfezione del presuntuoso II fariseo entra nel tempio e rimane «in piedi»: è sicuro e fiero di sé.
Formula una preghiera di ringraziamento a Dio non per i doni ricevuti, non per la vita o la fede; ma perché non è come gli altri.
Egli si «distingue» per il suo impegno e avanza dei meriti dinanzi a Dio: «Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo» (Lc 18,12).
È più che scrupoloso nell’osservare i suoi doveri religiosi.
La sua «santità» sarebbe frutto unicamente del suo sforzo e del suo impegno.
Ma in fondo il fariseo dice la verità, perché è vero che osserva fedelmente la legge e fa grandi sacrifici; è vero che il suo zelo lo spinge a fare più di quanto la legge richiede: non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come era prescritto, ma due.
Che cosa allora non va nella sua vita? Perché la sua preghiera non è gradita a Dio?  Tutto il suo impegno lo ha realmente portato all’autorealizzazione nella santità? Il «difetto» del fariseo non è l’ipocrisia, ma il riporre la fiducia unicamente in se stesso.
La sua preghiera è un monologo: «Stando ritto presso se stesso queste cose pregava…
» (Lc 18, 11).
Egli sta «in piedi», non ha nulla da chiedere a Dio, anzi ritiene che Dio debba qualcosa a lui: nella sua preghiera non chiede misericordia, non aspetta il dono della salvezza, ma attende da Dio il premio che gli è dovuto per il bene fatto.
Nel suo monologo orante esordisce dicendo: «O Dio, ti ringrazio…
»: fa risalire in un certo modo la sua santità a Dio.
Ma questa originaria consapevolezza di dipendenza da Dio per la sua autorealizzazione si perde lungo la strada, perché il suo sguardo è tutto ripiegato in se stesso.
La sua santità non deriva da Dio e il suo modo di giudicare con disprezzo il prossimo non ha nulla a che vedere con la preghiera: è solo un autocompiacimento.
Uscirà come era entrato: con il suo orgoglio, il suo disprezzo, per gli altri, la sua presunta santità…
Nella Casa di Dio era entrato da «santo», ne esce da fallito!   II coraggio di piegarsi…
l’umiltà del peccatore II pubblicano, ebreo «rinnegato», è iscritto nell’elenco ufficiale dei «senza Dio» insieme ai ladri, alle prostitute e agli adulteri.
Consapevole che la sua vita è in forte dissonanza con la fede e la santità, «stando a molta distanza, non voleva nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma batteva il suo petto…» (Lc 18, 13).
Entra nel tempio con la coscienza di porre dinanzi a Dio tutta la sua vita, senza maschere e in tutta la sua nudità.
Il suo atteggiamento di preghiera è esattamente opposto a quello del fariseo.
La sua preghiera non è un monologo ma un dialogo; egli non parla a se stesso ma a Dio: «O Dio, fai elemosina a me peccatore».
Dice la verità: è peccatore! A Dio presenta con coraggio la sua carta di identità e, cosciente della sua fragilità, piega le ginocchia, tiene abbassato lo sguardo perché si vergogna di se stesso, resta in fondo al tempio perché non osa avvicinarsi alla santità di Dio.
La sua umiltà, tuttavia, non consiste nell’abbassarsi perché egli è realmente ciò che dice di essere, ma nel coraggio di presentarsi con verità a Dio e a se stesso, così com’è.
Al coraggio unisce il bisogno di cambiamento, consapevole di non poter pretendere nulla da Dio.
Non ha nulla di cui vantarsi e non ha nulla da esigere.
Può solo chiedere: «O Dio, fai elemosina a me», in greco: ilàstheti moi! Chiede l’elemosina di Dio, implora cioè il chinarsi misericordioso del Signore sulla sua fragilità, sul suo essere peccatore.
E si rimette a Lui, si affida completamente allo sguardo compassionevole di Dio, non a se stesso.
È questa l’umiltà, è questo l’atteggiamento che Gesù loda.
Nella Casa di Dio era entrato da peccatore, ne esce da santo! Cogliersi dallo sguardo di Dio Gesù non elogia la vita del pubblicano e non disprezza le opere del fariseo; apprezza la verità con la quale il pubblicano si pone dinanzi a Dio e a se stesso; del fariseo condanna l’atteggiamento orgoglioso e arrogante e l’inutilità della sua vuota preghiera.
L’unico modo di porsi di fronte al Signore, nella preghiera e nella vita, è essere se stessi nella coscienza della propria fragile creaturalità…
liberata e redenta e perciò bella! Il fariseo considera la sua santità come frutto del suo impegno e non come dono di Dio; è lontana dalla sua mentalità di misericordia e la «prossimità» con chi è diverso da lui, con il pubblicano.
Gesù non rimprovera perciò il fariseo di ipocrisia, ma evidenzia che è sbagliato l’intero suo modo di rapportarsi a Dio: «Disse questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18, 9).
Gesù smaschera nel fariseo la sua «radice inquinata», il sistema religioso del quale è intriso e non una semplice incoerenza.
La parabola non afferma che il fariseo avrebbe dovuto vivere come il pubblicano: non sono le sue opere ad essere contestate ma egli stesso e il suo modo di essere.
L’errore sta nel guardare a Dio alla luce delle proprie opere.
Per Gesù invece è importante e necessario che l’uomo guardi a se stesso a partire da Dio, che l’uomo impari a cogliersi dallo sguardo di Dio e ad essere «vero» di fronte a Lui.
«Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro» (Lc 18, 14); la «giustificazione» è permettere a Dio di farci dono del suo perdono, lasciare che Dio ci ami così come siamo, senza paura e senza infingimenti.
E allora la fragilità umiliata si trasforma in forza e coraggio, ci rimette nuovamente in strada da santi verso la pienezza della vita, «perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14).
Santi perché peccatori La lezione della parabola è stata molto chiara.
La santità è iscritta nella nostra creaturalità, ci restituisce al nostro essere uomini.
La santità, però, inizia dove finisce l’umana presunzione perché è riconoscimento, accoglienza e offerta di ciò che si è: peccatori! È questa la nostra carta d’identità, questa la coscienza della nostra creaturalità esposta al bacio della graziosa tenerezza di Dio.
Possiamo allora dire che noi siamo santi perché peccatori.
Chi non ha la profonda consapevolezza di essere peccatore non potrà mai essere santo! (M.
RUSSOTTO, Santità come autorealizzazione? Spunti di riflessione in compagnia della Parola, in CISM, La relazione con Dio: fondamento dell’autorealizzazione del vivere con i fratelli, della passione apostolica.
«Protesi verso il futuro» (Fil 3,12)… per essere santi, Roma, Il Calamo, 2003, 55-59).
Preghiera e valutazione degli altri La valutazione degli altri, ecco l’altro parametro che bisogna accettare per riscoprirsi.
Specie se quest’altro è Dio e per lui Cristo.
Un giorno si presentano al tempio per pregare un fariseo ed un pubblicano.
Il primo prega cosi: “Dio, ti ringrazio che non sono come il resto degli uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, oppure come questo pubblicano.
Io digiuno due volte la settimana, pago la decima di tutto ciò che acquisto”.
L’altro invece: “Dio, sii clemente al peccatore che io sono”.
Gesù sentenzia: “Vi dico, il pubblicano se ne tornò giustificato a casa sua, a differenza dell’altro” (Lc 18,11-14).
Evidentemente il primo si è valutato da sé e lo ha fatto paragonandosi agli altri.
E chi è disposto a considerarsi peggiore degli altri? Non giudichiamo forse gli altri con estrema facilità e molto spesso con spietata severità? Il fariseo ha finito con il sopravvalutarsi, con l’essere ingiusto con sé e soprattutto con gli altri; perciò continua Gesù: “Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14).
Il pubblicano s’è messo di fronte a Dio e ne ha visto l’immensa distanza, l’incolmabile differenza, ha chiesto aiuto ed è stato restituito al suo posto di uomo “giusto”.
Un giorno (scrive Francesco Alberoni) rabbi Jochanan ben Zaccai domandò ai suoi discepoli quale è la retta via da seguire.
Elazar gli diede la risposta esatta: “un cuore buono”.
Ottima risposta, eppure noi riusciamo a manipolare anche l’intenzione.
A poco a poco, attraverso una sottile azione di propaganda su noi stessi, arriviamo a nasconderci i veri motivi della nostra azione: l’ambizione, l’interesse, l’odio, la vendetta.
Ci convinciamo di essere mossi soltanto dal desiderio di fare del bene, dall’altruismo.
Sartre la chiamava falsa coscienza.
Anche il grande inquisitore Torquemada pensava di essere buono, in quanto cercava di salvare l’anima immortale di coloro che condannava al rogo.
Qualsiasi virtù è automaticamente distrutta dal compiacimento di possederla.
  O Dio, abbi pietà di me, peccatore «Veglia su di te, dice la Scrittura (Dt 15,9).
Credo che colui che ha dato la legge sia ricorso a tale ammonimento anche per sradicare un’altra passione; poiché ciascuno di noi è più facilmente incline a interessarsi delle cose altrui invece che meditare sulle proprie, affinché non abbiamo ad ammalarci di questa malattia, il Signore ci dice: «Smetti di interessarti della cattiveria del tale o del tal altro; non dar tempo ai tuoi pensieri di esaminare le debolezze altrui, ma veglia su di te, cioè volgi l’occhio dell’anima a scrutare tè stesso».
Molti, infatti, secondo la parola del Signore, osservano la pagliuzza nell’occhio del fratello e non vedono la trave che è nel proprio (cfr.
Mt 7,3).
Non cessare, dunque, di scrutare te stesso, se vuoi vivere secondo il comandamento.
Non stare a guardare fuori di te se ti riesce di trovare qualcosa da rimproverare agli altri, come faceva quel fariseo presuntuoso e vanaglorioso che innalzava se stesso giustificandosi e disprezzava il pubblicano (cfr.
Lc 18,10-14); non smettere di esaminare te stesso chiedendoti se hai peccato nei tuoi pensieri o se la tua lingua, più veloce del pensiero, non ha detto qualcosa di troppo, se con le opere delle tue mani non hai compiuto qualcosa al di là delle tue intenzioni.
E se trovi nella tua vita un gran numero di peccati – sei uomo e dunque ne troverai di certo – ripeti le parole del pubblicano: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13).
Veglia su di te.
Se godi di grande pace, se i tuoi giorni scorrono felici, queste parole ti saranno utili come un buon consigliere che ti ricorda la realtà delle cose umane.
Se invece sei oppresso da vicende avverse, le stesse parole cantate nel cuore ti riusciranno utili per non elevarti orgogliosamente a un’insolenza eccessiva o per non cadere per disperazione in un meschino scoraggiamento».
(BASILIO DI CESAREA, Veglia su di te 5, Bose, 1993, pp.
19-20).
L’umiltà Un’ulteriore energia dello Spirito è l’abbassamento.
Non uso volutamente la parola «umiltà» perché il significato abituale che attribuiamo a quest’ultima comporta una certa dose di autodeterminazione, il che in realtà è un’impressione a posteriori.
L’umiltà è una condizione prima di essere un giudizio su noi stessi.
È una situazione di abbassamento sulle tracce di Cristo: «Chi si umilia sarà esaltato».
Un abbassamento che ha valore solo se è opera dello Spirito santo.
È indubbiamente a questo punto che entra in gioco l’obbedienza religiosa, nella misura in cui tale obbedienza consiste nel rimanere sottomessi, soggetti ad altri uomini, per amore del Signore e seguendo il suo esempio.
(Tatto da A.
Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2001, pp.
9-20).
Preghiera Il fariseo si riteneva giusto perché non uccideva.
Gesù insegna ad amare i propri nemici.
E noi cristiani pensiamo di essere giusti perché non abbiamo ucciso?   Il fariseo si riteneva giusto perché non commetteva adulterio.
Gesù ci chiede di non guardare la donna altrui con desiderio.
E noi cristiani ci riteniamo giusti quando commettiamo adulterio di fatto o di desiderio?   Il fariseo si riteneva giusto pur praticando il divorzio.
Gesù insegna che chi ripudia sua moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei.
E noi cristiani ci riteniamo giusti perché non abbiamo divorziato?   Il fariseo si riteneva giusto perché giurava e manteneva i giuramenti.
Gesù dice di non giurare affatto.
E noi cristiani ci riteniamo giusti pur giurando e giurando il falso?   Il fariseo si riteneva giusto perché digiunava e pagava le decime.
Gesù dice che quando abbiamo fatto tutto, siamo servi inutili.
E noi cristiani crediamo di essere giusti perché osserviamo le leggi?   La preghiera del fariseo non fu accetta a Dio perché stimò e lodò se stesso, non si ritenne peccatore, non chiese perdono a Dio, tornò a casa non giustificato.
  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte seconda, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
           XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Siracide 35,15-17.20-22          Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone.
Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso.
Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento.
Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi.
La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.
    v Il libro del «Siracide» (detto così dal nome del suo autore Gesù Ben Sirach) fa parte non del canone ebraico, ma della bibbia greca.
Fu scritto in ebraico (se ne sono trovati frammenti in una grotta di Qumran), ma è arrivato a noi nella traduzione greca, che risale agli inizi del II secolo avanti Cristo.
Non siamo lontanissimi dall’epoca del N.T., ed il pensiero sapienziale di Israele si esprime in un’opera di grande maturità.
     Il cap.
35 rappresenta una profonda meditazione sapienziale sul senso del culto, ma anche una sua relativizzazione.
Da una parte si esalta la bontà delle offerte e dei sacrifici (vv.
1-10), dall’altra parte si ribadisce che Dio non si lascia corrompere da vittime ingiuste e preferisce le preghiere povere ma sincere degli umili (vv.
11-24).
È da questa seconda sezione del cap.
35 che sono attinti i versetti di cui si compone la nostra lettura.
     Annotazioni esegetiche      — «Il Signore è giudice…» (v.
12).
Alla pretesa, o illusione, di valersi delle offerte cultuali per «corrompere» Dio (si legga il v.
11), questo v.
12 costituisce una risposta chiara: il Signore è al di sopra dei doni che gli offriamo come giudice imparziale.
Vana è l’illusione dell’uomo religioso di poter tirare Dio dalla propria parte semplicemente offrendo gli omaggi.
     — «Ascolta la preghiera dell’oppresso» (vv.
13-14).
L’oppresso, la vedova e l’orfano sono — nell’ambito sociale — coloro che non hanno alcun peso, perché privi di sostegni e di possibilità economiche: è gente che non conta, alla quale nessuno dà importanza.
A differenza delle autorità romane, è proprio a costoro che Dio rivolge la propria attenzione quando esprimono la loro infelicità («lamento»).
     — «La sua preghiera arriva fino alle nubi » (v.
17).
L’efficacia della preghiera (penetrare le nubi significa giungere al cielo, ossia presso Dio, ottenendo ciò che chiede) è proprio nella debolezza di chi la fa, o meglio nella consapevolezza di tale debolezza («umiltà»).
Qui si crea un importante legame col Vangelo di oggi.
     —«Abbia reso soddisfazione ai giusti» (v.
22).
I «giusti» si identificano qui chiaramente con coloro che si riconoscono deboli e confidano unicamente nella protezione di Dio.
Proprio perché fiduciosa, tale preghiera «non desiste» e finisce con l’ottenere da Dio il ristabilimento di un’equità che i criteri umani hanno ignorato o sovvertito cioè: i deboli e gli umili trovano davanti a Dio quel favore che gli uomini negano loro.
  Seconda lettura: 2Timoteo 4,6-8.16-18             Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita.
Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.
Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.
Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato.
Nei loro confronti, non se ne tenga conto.
Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.  Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli.
Amen                                       v La situazione in cui viene scritta questa seconda lettera a Timoteo è quella della prigionia romana.
Paolo scrive alla vigilia della sua morte, per cui questa lettera al caro discepolo assume il tono del testamento spirituale.
Nella parte finale di questo testamento (4,6-18) si aprono le prospettive future accompagnate dalle ultime istruzioni dell’Apostolo a Timoteo.
La nostra lettura fa parte di questa sezione.
Anche se (come tendono ad affermare molti critici) questa lettera è da attribuire non a Paolo, ma ad un suo discepolo o epigono, ritroviamo comunque le idee-madri e la testimonianza sostanziale dell’Apostolo, segno che la sua paternità spirituale ha profondamente segnato la tradizione paolina successiva.
     Appunti esegetici.
– Proponiamo di concentrare la nostra attenzione sulle immagini che vengono usate per descrivere la realtà presente vissuta dall’Apostolo e applicabile alla realtà di ogni credente.
     a) La vita dell’Apostolo, che giunge verso la conclusione, è paragonata:                                                                  — con immagini atletiche, a una corsa tesa ad un traguardo («ho terminato» v.
7), ma anche in attesa di un premio («corona», v.
8), non da fruire personalmente ma da condividere con quanti hanno preso parte alla corsa (v.
8);      — con immagini strategiche: la vita del credente è battaglia buona e nobile, bella (kalos), per cui vale la pena combattere (v.
6);      — con metafora sacrificale: la vita giunge alla morte non come a epilogo oscuro ma come vittima il cui sangue si spande in libagione, è momento prezioso, al cospetto di Dio ed in favore degli uomini (propiziazione) (v.
6);      — con immagine marinara, la morte è come «sciogliere le vele», salpare per un lungo viaggio; non è fine, ma inizio.
     b) Il rapporto dell’Apostolo con il Signore si configura come rapporto tra imputato e avvocato difensore.
Il ruolo di questo difensore assume però dimensioni più vaste di quelle di un difensore giuridico.
Sottolineiamo tre dimensioni teologiche: la prima, di liberazione dal nemico («dalla bocca del leone», v.
17: cf.
Dan 6,17); la seconda, di potenza evangelizzatrice, per cui la forza di Dio si traduce in proclamazione e annunzio del Vangelo a tutti i pagani; la terza è di liberazione e salvezza escatologica: «nel suo regno» (v.
18).
     Mediante queste ricche immagini, la vita, l’apostolato e la stessa morte di Paolo vengono trasfigurate alla luce di Dio, assumendo un valore molto più grande e teologico di quello che appare ad un semplice osservatore umano delle cose.
  Vangelo: Luca 18,9-14          In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:  «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.
Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.  Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
                Esegesi      All’inizio del cap.
18 del Vangelo di Luca leggiamo due parabole riguardanti la preghiera.
Ciascuna delle due parabole mette in luce le caratteristiche particolari della preghiera cristiana: la continuità incessante (parabola del giudice iniquo e della vedova, vv.
1-8; Vangelo letto la domenica scorsa) e l’umiltà (il fariseo e il pubblicano, vv.
9-14, Vangelo odierno).
Il dittico delle due parabole va preso nel suo insieme: la preghiera incessante dev’essere caratterizzata da grande umiltà; la preghiera umile va continuata con perseveranza e insistenza.
     Annotazioni

XXIX Domenica Tempo Ordinario Anno C

XXIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: Esodo 17,8-13          In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm.
Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk.
Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio».
Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle.
Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk.
Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani.
Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole.
Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada.
    v Il libro dell’Esodo nella sua prima parte (1,1-15,21) descrive la liberazione dall’Egitto del popolo di Israele; nella seconda parte (15,22-18,27) presenta il cammino del popolo nel deserto: nella terza parte (19-40) si ha l’alleanza sul Sinai con tutte le prescrizioni.
Il testo della lettura è collocato nella seconda parte, all’inizio; descrive il combattimento di Israele contro Amalek.
     Aspetti di esegesi      Tra l’episodio dell’acqua scaturita dalla roccia e l’episodio dell’incontro di Ietro con Mosé, si ha il racconto della vittoria di Israele contro Amalek: «In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm.
Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk.
Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio».
Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle.
Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk.
Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani.
Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole.
Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada» (Es 17,8-13).
     Questo racconto antico, rappresenta una tradizione delle tribù del sud.
Esso è legato alla stessa località in cui si svolse il fatto precedente dell’acqua scaturita dalla roccia, Refidim.
Gli Amaleciti avevano la loro abitazione sulle montagne di Seir.
Di Amalek si parla nel libro della Genesi, come nipote di Esau (Gn 36,12.16); si tratta di un popolo molto antico; nell’oracolo di Balaam è detto: «Poi vide Amalek e pronunciò il suo poema e disse: Amalek è la prima delle nazioni, ma il suo avvenire sarà eterna rovina» (Nm 24,20).
Al tempo dei giudici lo vediamo associato ai saccheggiatori di Madian: Davide lo combatte ancora; in seguito viene menzionato nel primo libro delle Cronache, dicendo che fu eliminato dai discendenti di Simeone (1Cr 4,43) e nel Salmo 83,8 che lo enumera tra i nemici di Israele.
Il significato del racconto contenuto nella lettura sta nel fatto che la preghiera perseverante di Mosé, sostenuto da Aronne e da Cur, ottiene la vittoria del mediatore presso Dio a favore della comunità.
La sua è la preghiera di chi è costituito capo in mezzo al suo popolo.
  Seconda lettura: 2Timoteo 3,14-4,2          Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente.
Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù.
Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.
Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.
                                      v La seconda lettera a Timoteo dopo l’indirizzo di saluto e ringraziamento, tratta anzitutto delle grazie ricevute da Timoteo, espone poi il significato delle sofferenze dell’apostolo e dell’apostolato, richiama la lotta contro il pericolo attuale dei falsi maestri, esorta a fare attenzione ai pericoli degli ultimi tempi, propone a Timoteo con uno scongiuro solenne, il suo dovere di annuncio della parola, dà infine le ultime raccomandazioni.
Il brano della lettura si pone nell’avvertimento sui pericoli e si conclude con lo scongiuro solenne.
     Aspetti di esegesi      La esortazione con cui inizia il brano riguarda il rimanere fermo, stabile, irremovibile nelle verità che sono state comunicate non come vane teorie ma come rivelazione immutabile, contro le tendenze deviazioniste dei falsi dottori di cui ha parlato precedentemente, seduttori e sedotti: «Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente.
Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù» (2 Tm 3,14-15).
     Tali verità sono contenute nelle sacre Scritture: esse danno la vera sapienza della salvezza: la rivelazione divina ha come centro Gesù Cristo; perciò conduce a lui.
«Tutta la Scrittura, ispirata da Dio» (2Tm 3,16).
L’affermazione che tutta la Scrittura è ispirata da Dio è importante poiché esprime a sua volta in modo ispirato una verità e cioè la ispirazione divina delle Scritture: è nella pratica assidua della Scrittura che l’uomo di Dio nutre la sua fede e il suo zelo apostolico: La scrittura poi è «utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm 3,16): l’Autore indica a quali scopi è utile la Scrittura: insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia: la prima utilità è di natura didattica; infatti la Scrittura contiene la verità, e la verità è tema di insegnamento; la seconda utilità sta nella convinzione, nella persuasione degli spiriti, rivolta a condurli alla verità e a confutare gli errori; la terza è la correzione, per condurre gli erranti e i peccatori alla verità e alla vita morale; infine la Scrittura aiuta la formazione alla giustizia, cioè alla vita morale secondo la quale Dio vuole che si viva; in tale modo la Scrittura opera una formazione dell’uomo credente e dell’apostolo il quale con la Scrittura è in grado di adempiere il suo ministero, essendo provveduto di ogni strumento per esercitarlo con frutto.
     Viene ora un solenne scongiuro: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2 Tm 4,1-2)».
È un appello rivolto al discepolo, quasi una parola di commiato al termine della lettera.
Dominato dal pensiero di una morte vicina e della venuta del Signore, Paolo chiede solennemente a Timoteo di perseguire, senza venire meno, la missione che gli trasmette.
Scongiura chiamando in causa Gesù Cristo che verrà a giudicare i vivi e i morti: proclama così la verità che Gesù sarà il giudice di tutti gli uomini, quelli che saranno in vita alla sua venuta e quelli che allora risusciteranno; questa affermazione, che apparteneva all’annuncio primitivo, è entrata nel simbolo della fede.
Il tema dello scongiuro riguarda la predicazione; l’apostolo ammonisce ed esorta gravemente Timoteo, invocando a testimonio Dio e Gesù Cristo: l’autore è consapevole di compiere un suo dovere nel prescrivere a Timoteo la predicazione; Timoteo deve predicare la parola come un araldo che ha la lieta notizia da comunicare; deve insistere, prendere ogni occasione, l’inopportunità è da intendere da parte degli uditori; anche quando agli uditori sembri inopportuna la voce del predicatore della verità; deve convincere quello che erano, mostrare loro che sono colpevoli, riprenderli, esortarli; ma la predicazione in sé è sempre opportuna; tutta la predicazione, inoltre, anche quando rimprovera e mostra l’errore deve essere fatta con dolcezza, aspettando con pazienza il suo frutto, e deve avere per solida base la dottrina, la parola di Dio, che è efficace per se stessa.
Leggendo queste norme teoriche e pratiche di pedagogia pastorale il ministro della parola saprà congiungere insieme la prudenza e l’audacia, la forza nel rimproverare e nel convincere dell’errore e la mitezza dell’amore paterno; saprà istruire le menti con la luce della verità e istruire i cuori con il calore dello zelo apostolico.
  Vangelo: Luca 18,1-8          In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno.
In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto.
E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente.
Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
       Esegesi      Il testo si trova nella sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme; è la parabola del giudice iniquo e della vedova importuna e riguarda il tema della preghiera: «In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1).
     Aspetti di esegesi      Questa parabola e quella che segue, del fariseo e del pubblicano, trattano della preghiera sotto punti di vista differenti.
La parabola del giudice iniquo che fa giustizia alla donna per non essere da lei importunato, concorda, nel suo pensiero fondamentale, con la parabola dell’amico importuno (Lc 11,5-8) e mette in evidenza la potenza della preghiera di petizione esprimendo la conclusione come una deduzione da una cosa più piccola a una più grande.
Il pensiero fondamentale della parabola è questo: i discepoli devono pregare sempre e non devono scoraggiarsi se l’esaudimento delle loro preghiere si fa attendere.
L’insegnamento centrale, che Gesù stesso esprime con il «sempre» significa: per qualsiasi cosa vi stia a cuore: «non stancarsi» significa di conseguenza non mai dubitare della forza della preghiera.
A mettere in evidenza questo insegnamento serve un caso preso dalla vita umana; una vedova (che già nell’antico Testamento era l’immagine di una persona indifesa e debole) sta di fronte a un giudice iniquo e lo vince con la sua ostinazione; la figura del giudice qui delineata non è un caso di eccezione, ma il tipo frequente, forse normale, del giudice cui erano abituati a quel tempo; la vedova si trova implicata in un processo e chiede al giudice una sentenza con cui le venga resa giustizia: il giudice non pensa di accondiscendere alla preghiera di una persona sola e debole; il suo soliloquio svela i suoi sentimenti; egli però risolve alla fine di esaudirla non per un senso di giustizia ma unicamente perché l’insistere di lei nel pregare, gli da noia e fastidio: «poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi » (Lc 18,4-5).
     Secondo l’insegnamento finale: «E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente».
(Lc 18,7-8), insegnamento che opera la deduzione dal più piccolo al più grande, cioè dal giudice iniquo a Dio, il personaggio principale della parabola non è la vedova orante, che stanca il giudice, ma il giudice stesso.
Egli viene paragonato a Dio.
Il punto culminante della parabola non sta nella ostinazione della preghiera, ma nella certezza dell’esaudimento.
Non viene detto come dobbiamo comportarci nella preghiera di petizione nei confronti di Dio, ma come Dio si comporta di fronte alle nostre preghiere.
Se già un uomo cattivo come il giudice per semplice egoismo si lascia indurre dalla domanda di una povera donna indifesa ad aiutarla, quanto più Dio esaudirà le grida di implorazione dei suoi eletti.
L’esitazione di Dio è apparente; egli non lascerà mancare il suo aiuto; egli farà giustizia nel senso che ascolterà le preghiere dei suoi.
Dio non può restare sordo di fronte alla domanda insistente dei suoi figli e può dare solo cose buone.
     Il detto finale: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8) è una affermazione a se stante, non collegata con il racconto della parabola: esso presenta l’apostasia che deve verificarsi negli ultimi tempi, è tema classico della apocalittica (cf.
2 Ts 2,3; Mt 24,10-12).
  Meditazione La preghiera come lotta e intercessione (I lettura); la preghiera insistente e che non viene meno (vangelo): questo il tema che unisce prima lettura e vangelo.
La preghiera non come opera di forti, ma di deboli: Mosè viene aiutato a sostenere le sue braccia stese nella preghiera; nel vangelo è una povera vedova che si fa soggetto di una preghiera insistente.
Deboli resi forti dalla fede e che perseverano nella preghiera.
La perseveranza come elemento di verità della preghiera e la preghiera come autentificazione della fede sono altri elementi che arricchiscono la catechesi sulla preghiera contenuta nei testi biblici di questa domenica.
L’immagine di Mosè con le mani tese verso l’alto nello sforzo dell’intercessione, aiutato da due uomini che sostengono le sue braccia che diventano sempre più pesanti con il passare del tempo, è una bella immagine della fatica della preghiera.
La preghiera è uno sforzo, è lavoro, e come ogni lavoro è faticoso, per il corpo come per lo spirito.
Ma quella immagine indica anche un aspetto della dimensione comunitaria della preghiera.
La comunità cristiana non è solo il luogo in cui si è chiamati a pregare gli uni per gli altri, a intercedere, ma anche a porsi a servizio della preghiera dell’altro.
Sostenersi e incoraggiarsi nella fede e nella preghiera, è compito richiesto ai credenti nella comunità cristiana.
Un aspetto di questa difficoltà della preghiera è il suo divenire quotidiana, il suo essere perseverante, il suo non venire meno.
Aspetto espresso nella parabola evangelica (Lc 18,1 ).
La preoccupazione di insistere sulla necessità di pregare sempre, senza tralasciare, è rivelatrice della situazione della comunità cristiana a cui si rivolge Luca: una comunità in cui è ormai presente il fenomeno del rilassamento della fede e della preghiera.
A distanza di qualche decennio dagli eventi della vita di Gesù, la comunità conosce fenomeni di mondanizzazione della fede e di abbandono (cfr.
Lc 8,13).
Luca avverte: abbandonare la preghiera è l’anticamera dell’abbandono della fede.
Il passare del tempo è la grande prova della fede e della preghiera.
La preghiera insistente fa della fede una relazione quotidiana con il Signore.
La fatica di perseverare nella preghiera è la fatica di dare del tempo alla preghiera.
Pregare è dare la vita per il Signore.
La preghiera comporta un confronto con la morte e per questo spesso ci risulta ostica: pregando, non «facciamo» nulla, non «produciamo», ci vediamo sterili e inefficaci.
Ma essa è lo spazio e il tempo che noi predisponiamo affinché il Signore faccia qualcosa di noi.
Le parole di Gesù comportano anche un insegnamento sulla dimensione escatologica della preghiera.
Alla domanda rivoltagli dai farisei «Quando verrà il Regno di Dio?» (Lc 17,20), Gesù ha risposto nel capitolo precedente (Lc 17,21-37), ma ora completa la sua risposta con una contro-domanda: «Il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).
Non si tratta di porre domande sulla venuta finale, ma di cogliere la venuta finale del Signore come domanda, e domanda che interpella i cristiani sulla fede.
A noi che spesso ci chiediamo: «Dov’è Dio?», «Dov’è la promessa della venuta del Signore?» (2Pt 3,4), risponde il Signore che chiede conto a noi della nostra fede: «Dov’è la vostra fede?» (Lc 8,25).
La venuta del Signore non è tema di astratte speculazioni teologiche, ma realtà di fede da viversi e sperimentarsi come attesa e desiderio nella preghiera.
La preghiera della vedova che chiede giustizia indica anche gli aspetti di audacia e di determinazione della preghiera.
La preghiera non si vergogna di chiedere, non esita a insistere, non cessa di bussare, non teme di importunare.
La preghiera esige coraggio.
Il coraggio della fede che conduce a non lasciar perdere, a non tralasciare, a non dire: «Non serve a nulla».
Preghiera e fede stanno in un rapporto inscindibile: credere significa pregare.
E se noi possiamo pregare solo grazie ad una fede viva, è anche vero che la nostra fede resta viva grazie alla preghiera.
       Preghiere e Racconti   La preghiera insistente del cristiano «Attàccati alla preghiera di un povero e sarai unito a Dio» diceva un maestro di Israele.
L’insegnamento sulla preghiera nei testi biblici di oggi è posto all’interno della prospettiva della parusia.
La preghiera del cristiano si caratterizza come insistente.
Se c’è una preghiera da fare nel momento del bisogno, c’è anche una preghiera da rivolgere in ogni tempo, e questa è la preghiera di fronte alla venuta del Signore.
Il tempo dell’attesa deve spingere il discepolo non ad addormentarsi, ma a una veglia ancora più intensa.
La donna del Vangelo è indifesa, debole, ma piena di intraprendenza e coraggio, di perseveranza e insistenza.
«Il punto culminante della parabola non sta nell’ostinazione della preghiera, ma nella certezza dell’esaudimento» (J.
Schmid).
Pregare, dunque, per mantenere viva, anche di fronte al ritardo, l’attesa di Dio.
Perseverare nella preghiera diventa un radicarsi in Cristo, rimanere «stabili» in lui lungo tutto il cammino della vita anche nell’ora in cui dobbiamo passare «per la valle oscura» del dolore e della prova.
Scriveva un giovane monaco: «Noi preghiamo per mettere una spina nel cuore di Dio.
Noi, uomini della cocolla, ci confermiamo qui in rappresentanza degli altri uomini, di tutti.
Per ridire chiaro al Signore, ora dopo ora: Vedi, Signore! Ti premiamo, ti sollecitiamo; alziamo la voce, la sommiamo; tempestiamo con le nocche la tua porta, non ti diamo tregua perché tu non perda mai l’entusiasmo della creazione, perché tu veda e provveda a tutti».
L’uomo di preghiera «Tu farai un’autentica esperienza di Dio, o, più semplicemente, sei un uomo di preghiera quando possiedi il coraggio di gettarti, durante tutta la vita, in questo mistero silenzioso di Dio senza ricevere apparentemente altra risposta che la forza di credere, di operare, di amare Dio e i tuoi fratelli, e quando, in definitiva, continui a pregare».
(Jean Lafrance).
Comunità, «scuola di preghiera»  «Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche “scuole” di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero “invaghimento” del cuore.
Una preghiera intensa, dunque, che tuttavia non distoglie dall’impegno nella storia: aprendo il cuore all’amore di Dio, lo apre anche all’amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la storia secondo il disegno di Dio».
(Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, n.
33).
Cuore, labbra, mani Metti, Signore, nei nostri cuori desideri che tu possa colmare.
Metti sulle nostre labbra preghiere che tu possa esaudire.
Metti nelle nostre opere atti che tu possa benedire.
(Liturgia mozarabica spagnola).
Pregare…
Hai un problema grandissimo? Incomincia a pregare, a lodare Dio e ti accorgerai che quel problema diventerà sempre più piccolo, perché lo vedrai con gli occhi di Dio.
  Perché pregare? «Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere.
Si, per vivere veramente, bisogna pregare.
Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita.
È solitudine vuota, è prigione e tristezza.
Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall’amore.
Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall’amore.
Ora, l’amore nasce dall’incontro e vive dell’incontro con l’amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l’amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità.
Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all’amore, sempre di nuovo.
Perciò, chi prega vive nel tempo e per l’eternità.
E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l’aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita.
Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? Ti rispondo: comincia a dare un po’ di tempo a Dio.
All’inizio, l’importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente.
Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti».
(Bruno Forte, Lettera sulla preghiera).
Le vere domande «L’uomo si eleva verso Dio per mezzo delle domande che gli pone.
Ecco il vero dialogo: l’uomo interroga e Dio risponde.
Ma le sue risposte non si comprendono, non si possono comprendere perché vengono dal fondo dell’anima e vi rimangono fino alla morte.
Le vere risposte, Eliezer, tu non le troverai che in te.
E tu, Moshè, perché preghi?- gli domandai.
Prego Dio di darmi la forza di potergli fare delle vere domande».
(Elie Wiesel, scrittore ebreo).
La preghiera  “La preghiera è un bene sommo, è una comunione intima con Dio, deve venire dal cuore, deve fiorire continuamente, giorno e notte.
È luce dell’anima, vera conoscenza di Dio, mediatrice tra Dio e l’uomo; è un desiderare Dio, è un amore ineffabile prodotto dalla grazia divina”.
(San Giovanni Crisostomo)   Gioia, preghiera, ringraziamento e carità Ci hai esortato alla gioia, Signore: «State lieti, sempre».
Anzi, ci hai insegnato le parole per dire la gioia: «Io esulto e gioisco nel Signore, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza».
Fa’ di me, o Signore, un cristiano lieto: lieto come Giovanni nel vedere la luce che già viene, nel sentirsi voce al servizio della Parola; lieto come il profeta, nel sapersi riempito del tuo Spirito di santità; lieto come Maria nel riconoscere e magnificare quello che tu hai già compiuto per me e in me.
Ci hai esortato alla preghiera, Signore: «Pregate incessantemente».
Mi sembra quasi impossibile: abituato a separare preghiera e lavoro, penso sempre che la preghiera si possa fare solo stando in ginocchio.
Eppure lo so che sei continuamente presente, a condividere le mie giornate e il mio lavoro.
Sei tu, anzi, che mi vuoi santificare «fino alla perfezione», tu che guidi i miei passi incerti sul sentiero della santità.
Insegnami a vivere costantemente alla tua presenza, a fare ogni cosa per amore tuo.
Ci hai esortato al ringraziamento, Signore: «In ogni cosa rendete grazie».
Nell’eucaristia ci unisci al tuo ringraziamento.
Fa’ che non mi limiti a pronunciare parole di riconoscenza, magari stanche e convenzionali, ma a dire grazie al Padre testimoniando il suo amore, nel servizio concreto del prossimo.
Vieni, Spirito Santo, diventa in noi gioia, preghiera, ringraziamento, carità.
Aiutami a pregare

XXVIII Domenica Tempo Ordinario Anno C

Preghiere e Racconti   Un giorno San Francesco… Un giorno mentre il giovane Francesco andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbattè in un lebbroso.
Quell’incontro inaspettato lo riempì di orrore, ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare cavaliere di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e, mentre questo stendeva la mano come per ricevere l’elemosina, gli porse del denaro e lo baciò.
(Dalla Leggenda Maggiore).
I Samaritani e i lebbrosi Oggi, non bisogna forse chiedersi chi sono coloro che abbiamo trasformato in samaritani e in lebbrosi? Nel nostro mondo lacerato, ma anche fra i nostri vicini, fra i nostri compagni di lavoro, forse nella nostra stessa famiglia? La domanda è urgente: si tratta di rispettare e di accogliere tutti gli uomini, si tratta di rispettare e di accogliere Dio.
(G.
Bessière, Il fuoco che rinfresca)   I dieci lebbrosi I dieci lebbrosi se ne vanno al calar del sole tutti guariti, mostrandosi la pelle sana liberati dall’immonda raganella che faceva il deserto all’ingresso dei villaggi.
Uno solo si gira, inquieto di camminare fra due ombre: una dietro di lui come i nove compagni e l’altra leggera, davanti a lui, già calante come se il suo dorso restasse rischiarato dall’oriente, lo sguardo intravisto che li ha mandati pieni di speranza ai sacerdoti – la Vita che si dona, dimenticata dalla vita che segue e ricomincia.
Dov’era il miracolo prima del miracolo? Sono partiti così in fretta.
Gli altri nove sono lontano.
Allora, lui decide di risalire il fiume della strada.
(J.P.
Lemaire, La rotta)   Grazie! L’immagine che mai dimenticherò è la serie di donne che alle 6 del mattino trovo ad attendermi fuori della porta della mia stanza.
Nessuna parla, nessuna mi guarda negli occhi.
Con i loro bambini rachitici e senza più latte, sono lì ad aspettare.
Se non dessi niente, se ne andrebbero via senza una parola.
Nessuna chiede, è scontato il perché del loro essere lì.
Devo capire e, se posso, aiutare! Una mamma mi mette in braccio il suo bambino dicendo che non vuole vederlo morire.
Con il raccolto di fine agosto la grande paura passa e la vita pian piano riprende normalmente.
Tutte, e sottolineo tutte, le donne che abbiamo aiutato sono tornate con un dono: chi una gallina, chi un gallo, chi un’anatra…
Così la missione ha avuto finalmente il suo pollaio.
La sera, passeggiando in giro per la missione, rifletto sulla giornata trascorsa, mi fermo, guardo i polli, ripenso ai poveri di Fianga, ai poveri del mondo, che ogni giorno, in silenzio, tra le lacrime ma con grande dignità, sanno magistralmente dire grazie alla Vita! (Saverio Fassina, in Piccole storie d’Africa.
Da Fianga, nel Ciad).
  Dire grazie Tenerezza è dire grazie con la vita: e ringraziare è gioia perché è umile riconoscimento dell’essere amati.
(B.
Forte)   Gesù l’ha denunciato Gesù ha denunciato l’uomo che non ringrazia.
Nel Vangelo di Luca (17,11) quando vide che dei dieci lebbrosi guariti ne era tornato uno solo a dire grazie, esclamò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?”.
“E gli altri nove dove sono?”.
È pesante questa denuncia di Cristo.
La percentuale di chi pensa e ringrazia sarà sempre così ridotta? L’uomo è proprio inguaribile nel suo egoismo? Abbiamo addosso la lebbra dell’ingratitudine.
Il Signore aspetta il nostro ringraziamento come logica dei fatti; se abbiamo ricevuto da Dio è logico che lo riconosciamo, se lo riconosciamo è logico che ci apriamo alla gratitudine.
Il Signore non ha dato ai nove lebbrosi guariti un ordine, ma si attendeva che i nove guariti dessero un ordine a se stessi.
La gratitudine è la logica dell’intelligenza e del cuore retto.
Chi capisce e ha il cuore retto non può fare a meno di ringraziare.
Per questo non esiste un comando specifico per il ringraziamento, perché il comandamento deve partire dall’uomo; avrebbe senso la riconoscenza imposta? “E gli altri nove dove sono?”.
In quei nove ci siamo tutti, perché sono innumerevoli le nostre negligenze verso la bontà di Dio.
Purtroppo in quei nove siamo presenti tutti, perché tutti siamo colpevoli di ingratitudine a Dio.
L’uomo non riuscirà mai a stare al passo coi doni di Dio.
I benefici di Dio sono più numerosi dell’arena del mare, sono innumerevoli come le gocce d’acqua dell’oceano.
Ma l’uomo deve almeno aprirsi al problema! Non lo risolverà, ma deve almeno capire che c’è! “E gli altri nove dove sono?”.
La denuncia amara di Cristo deve spingermi a rappresentare gli assenti.
Quando avremo capito e saremo guariti dalla lebbra dell’ingratitudine, dovremo presentarci a Dio anche per i nostri fratelli che non capiranno mai e rappresentarli: “Signore, perdonali, perché non sanno quello che fanno; io sono qui a ringraziare anche per loro, dammi la capacità di poterli rappresentare sostituendomi ad essi…”.
(A.
GASPARINO, Maestro insegnaci a pregare, Leumann (Torino), Elle Di Ci, 1993, 45-46).
Dire “grazie” «”Grazie” è una parola di poche lettere, ma di molto peso: ingentilisce la terra e la profuma.
Ringraziare è un verbo da ricuperare» (Pino Pellegrino).
La fede dei lebbrosi del Vangelo è sufficiente per ottenere il miracolo della guarigione.
Ma questo deve aumentarla.
La fede del Samaritano è nuova e più profonda.
Gli altri hanno ottenuto la guarigione, lui una fede accresciuta e approfondita che ottiene la salvezza.
Questa fede è in qualche modo risposta alla domanda dei discepoli: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6; cf 27ª domenica).
Come, dunque, chi è tornato indietro per rendere gloria a Dio e per benedirlo è stato veramente salvato, ha riconosciuto che in Gesù è Dio che agisce e salva; così solo chi è capace di «Eucaristia» (bene-dizione, rendimento di grazie), culmine e fonte di tutta l’attività della Chiesa, ha la «salvezza»: superamento del caos e accesso alla casa del senso.
Il Samaritano guarito insegna a dire grazie.
Niente ci è dovuto nel nostro rapporto con Dio.
Come anche nel rapporto con i fratelli.
«Tutto è grazia», dice Bernanos.
E se tutto è grazia, solo chi sa dire «grazie» ha capito il suo posto e la sua strada.
Nei nostri rapporti pensiamo sovente che tutto ci sia dovuto e facciamo fatica a dire «grazie», a utilizzare questa piccola forma di cortesia.
«Il segreto del vivere spirituale è nella facoltà di lodare.
La lode è il racconto dell’amore e precede la fede.
Prima cantiamo e poi crediamo» (A.J.
Heschel).
Per chi legge il Vangelo non c’è niente di più impegnativo che dire «grazie».
Dal profondo del cuore.
È fare «Eucaristia».
La lode è pura gratuità per il dono dell’esistenza.
L’uomo è così restituito alla sua vocazione: «Misericordias Domini in aeterno cantabo!».
«La riconoscenza – afferma un proverbio africano – è la memoria di cuore».
È la capacità di ricordare e, pertanto, di amare.
  Grazie, Signore  Signore, ti ringrazio perché mi hai messo al mondo: aiutami perché la mia vita possa impegnarla per dare gloria a te e ai miei fratelli.
Ti ringrazio per avermi concesso questo privilegio: perché tra gli operai scelti, tu hai preso proprio me.
Mi hai chiamato per nome perché io collabori con la tua opera di salvezza.
Grazie perché il mio letto di dolore è fontana di carità, è sorgente di amore.
Di amore per te, anche di amore per tutti i fratelli.
Signore, io seguo te più da vicino, in modo più stretto.
Voglio vivere in un legame più forte per poter essere più pronto a darti una mano, più agile perché i miei piedi che annunciano la pace sui monti possano essere salutati da chi sta a valle.
Concedimi il gaudio di lavorare in comunione e inondami di tristezza ogni volta che, isolandomi dagli altri, pretendo di fare la mia corsa da solo.
Salvami, Signore, dalla presunzione di sapere tutto.
Dall’arroganza di chi non ammette dubbi.
Dalla durezza di chi non tollera i ritardi.
Dal rigore di chi non perdona le debolezze.
Dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone.
Toccami il cuore e rendimi trasparente la vita, perché le parole, quando veicolano la tua, non suonino false sulle mie labbra.
(Don Tonino Bello) La sofferenza come maestra Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore.
Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita.
Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono.
Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo.
Perciò sia ringraziato Iddio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male.
Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti.
Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto.
E Ciò significa che dobbiamo essere disposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi inclinazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla.  (J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).
Dovremmo continuamente, incessantemente ringraziare Noi riceviamo dalla grazia di Dio molti e svariati doni; in cambio di ciò che abbiamo ricevuto dobbiamo rendere grazie con la preghiera a chi ce li ha donati.
Penso che anche se trascorressimo la nostra vita intera nel colloquio con Dio ringraziandolo e pregandolo, saremmo ancora lontani dal contraccambiarlo adeguatamente; ci troveremmo, in un certo senso, a non aver neppure cominciato a concepire il desiderio di ringraziarlo.
Il tempo si divide in tre parti: passato, presente e futuro.
In tutti e tre noi sperimentiamo la benevolenza del Signore.
Se pensi al presente, sei in vita grazie al Signore.
Se pensi al futuro, su di lui riposa la speranza di ciò che attendi.
Se guardi al passato, non saresti in vita, se il Signore non ti avesse creato.
Ti ha fatto il dono di ricevere vita da lui, e, una volta nato, ti è fatto il dono di avere in lui la vita e il movimento, come dice l’apostolo (cfr.
At 17,28).
Da questo stesso dono dipendono le tue speranze future.
Nelle tue mani è soltanto il presente.
Anche se tu non smettessi mai di ringraziare Dio, a stento potresti ringraziare per il tempo presente, ma non potresti mai rendere ciò che devi per il futuro o per il passato.
Siamo ben lontani, del resto, dal rendere grazie secondo le nostre capacità! Non facciamo il possibile per ringraziare, non dico tutto il giorno, ma neppure una piccola parte del giorno, dedicandola a meditare le opere divine.
Chi ha dispiegato la terra ai miei piedi? […] Chi ha dato a me, polvere senz’anima, vita e intelligenza? Chi ha plasmato me, che sono argilla a immagine di Dio? Chi ha restituito alla mia immagine alterata dal peccato il suo primitivo splendore? Chi riconduce alla primitiva beatitudine me che sono stato cacciato dal paradiso, allontanato dall’albero di vita, immerso nell’abisso dell’esistenza terrena? Non vi è chi comprenda (cfr.
Rm 3,11), dice la Scrittura.
Considerando queste cose, dovremmo continuamente, incessantemente ringraziare per tutta la nostra vita.
(GREGORIO DI NISSA, Sul Padre nostro 1, PG 44, 1124C-1125C).
Insegnaci a non amare solo noi stessi Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano.
Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama.
Concedici la grazia di capire che in ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che pure sono tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo.
Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo; e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli.
Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo.
(Raoul Follereau)     * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 1997-1998; 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte seconda, Milano, Vita e Pensiero, 2010.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
– @lleluia 3/C.
Animazione liturgica e messalino, Leumann, Elle Di Ci Multimedia, 2009.
           XXVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio Anno c                                                                                    Prima lettura: 2 Re 5,14-17          In quei giorni, Naamàn [, il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra].
Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele.
Adesso accetta un dono dal tuo servo».
Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò».
L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.
Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».
    v È in questa linea che si muove la narrazione ripresa dal secondo libro dei Re (5,14-17).
Essendo stato colpito dalla lebbra, Naaman, «il comandante dell’esercito del re di Aram» (5,1), sente dire da una giovinetta ebrea, rapita e deportata in Siria a servizio della moglie del generale, che in Israele c’è un profeta, Eliseo, che fa miracoli e può guarire anche dalla lebbra.
Se nonché, il profeta gli ordina di bagnarsi sette volte nel Giordano per ottenere la guarigione.
Il generale stenta a credere tutto questo: ma alla fine obbedisce e viene guarito.
Per riconoscenza vuole offrire dei doni, che il profeta invece respinge, perché Dio soltanto può operare prodigi.
          È a questo punto che Naaman il Siro si rende conto che solo il Dio di Israele, che il profeta ha invocato e di cui è come il portavoce, è il «vero Dio», e perciò chiede ad Eliseo il permesso di portare un «pezzo» di terra santa a Damasco per adorarvi l’unico Signore del cielo e della terra: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore» (5,17).
     Anche Gesù nella sinagoga di Nazaret, davanti all’indisposizione dei suoi concittadini che reclamavano da lui miracoli, quasi come segno di particolare «appartenenza», si riferirà a questo episodio per dire che ormai non ci sono più «stranieri» nel suo regno, che appartiene a tutti coloro che vorranno entrarvi per la fede in lui: «C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro» (Lc 4,27).
     Con Gesù, Figlio di Dio, incarnatosi nel seno di Maria e diventato uomo come tutti noi, ogni uomo è chiamato a salvezza, a prescindere dalla collocazione geografica o dell’appartenenza a qualsiasi gruppo umano: ormai, con la sua venuta in mezzo a noi, ogni «terra» è diventata sacra!   Seconda lettura:  2Timoteo 2,8-13          Figlio mio, ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore.
Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.
Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;  se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.
                          v Questo riferimento a Cristo, morto e risuscitato per la salvezza di tutti, è ribadito nel brano della 2a lettera a Timoteo (2,8-13), in cui Paolo esorta il suo discepolo ad essere coraggioso testimone dell’annuncio cristiano, anche se ciò dovesse comportare inimicizia, e perfino il carcere, come di fatto è capitato a lui: «ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore» (2,8-9).
     L’impedimento del carcere, però, non riuscirà a imprigionare la «parola» di Dio, non solo perché Paolo continuerà ad annunciarla anche in prigione, ma soprattutto perché nella sofferenza sarà anche più unito a Cristo, e così apporterà un suo particolare contributo all’opera di redenzione: «Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna» (2,9-10).
     Segue quindi un frammento di antico inno cristiano, in cui si esalta la comunanza di vita e di destino del credente con il suo Signore, per cui soltanto il nostro rinnegamento della salvezza, da lui apportataci, potrebbe portare anche lui a rinnegarci: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà…» (2,11-13).
     C’è un riecheggiamento palese, in questa ultima espressione, delle parole di Gesù: «Chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,33).
     Questo brano della 2a lettera a Timoteo non è soltanto un invito al coraggio dell’annuncio, sempre e dovunque, di fronte a chiunque, ma anche l’affermazione della nostra «intimità» con Cristo, per cui, se «partecipiamo» al suo destino di sofferenza, parteciperemo anche alla sua «gloria».
Noi potremmo anche essere estranei a Dio, ma lui non è mai «estraneo» a nessuno di noi!   Vangelo: Luca 17,11-19          Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!».
Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti».
E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo.
Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?».
E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
       Esegesi      — Guarigione dei dieci lebbrosi.
     È quanto ci dice soprattutto il racconto evangelico (Lc 17,11-19), che ci descrive la guarigione dei dieci lebbrosi, di cui uno soltanto, e precisamente un samaritano, torna a «rendere grazie a Dio» per la salute riacquistata.
Già precedentemente Luca aveva narrato la guarigione di un lebbroso (5,12-16), che ritroviamo anche negli altri Sinottici (Mc 1,40-45; Mt 8,1-4).
Qui invece egli attinge a materiale proprio, e appunto per le «particolarità» con cui l’episodio viene narrato non può essere una rielaborazione del precedente racconto, come qualcuno ha ipotizzato.
     Le «particolarità» più significative sono le seguenti: a) Gesù si trova quasi alla fine del «viaggio» che lo porta a Gerusalemme, dove sarà drammaticamente respinto dal suo popolo, che era venuto a salvare; b) è un gruppo intero di lebbrosi (10) che si rivolge a lui per essere guarito e che la sciagura aveva come affratellato, senza distinzione né di razza né di religione, nonostante che Giudei e Samaritani non avessero «buone relazioni» fra di loro (cf.
Gv 4,9); c) Gesù non tocca i lebbrosi per guarirli (cf.
5,13), ma, rispettando la legge mosaica (cf.
Lev 13,4-5), a distanza comanda loro di «presentarsi ai sacerdoti» per la verifica della guarigione, che sola consentiva il normale rientro nella società: la guarigione avviene proprio lungo il loro viaggio verso Gerusalemme.
     — Solo il samaritano torna a «ringraziare».
     Ma a questo punto accade la cosa più inattesa di tutto l’episodio, che è anche la «punta» semantica di tutto il racconto: uno soltanto, e precisamente il samaritano, cioè lo «straniero», torna a ringraziare Gesù, nel quale ovviamente ha riconosciuto un inviato di Dio.
È allora che Gesù esprime la sua amarezza per l’ingratitudine degli altri, che erano tutti ebrei: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?».
E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (17,17-19).
     Qui la «salvezza» ovviamente è da intendere in senso più largo: non solo quella fisica, che avevano ricevuto anche gli altri, ma anche quella spirituale, che si ottiene appunto per la fede e che introduce nella comunità di Gesù, che è aperta a tutti e non solo ai Giudei.
     Anche altrove S.
Luca dimostra simpatia per i Samaritani: si ricordi appunto la parabola del buon Samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita, ebrei, passati avanti senza curarsi di lui, si china sull’uomo ferito e lo aiuta con tutti i suoi mezzi, che Gesù porta ad esempio del vero amore del prossimo (cf.
Lc 10,30-37).
     Come si vede, anche la parabola del buon Samaritano, in ultima analisi, vuol dire che la salvezza portata da Gesù non solo si allarga oltre i confini d’Israele, ma addirittura che i «lontani» sono talora più vicini a Dio di quelli che dovrebbero essergli più «prossimi».