Gli scritti liturgici di Giovanni Battista Montin

 

Giovanni Battista Montini, Scritti liturgici. Riflessioni, appunti, saggi (1930-1939), a cura di Inos Biffi (Collana Quaderni dell’Istituto Paolo VI), Studium, Roma 2010, pp. 304 – € 35,00.

 

Presentazione

Sono raccolti in questo volume testi editi e inediti di Giovanni Battista Montini dalla fine degli anni ’20 alla fine degli anni ’30. E precisamente: il commento alle feste dell’anno liturgico apparso sulla rivista della FUCI, «Azione Fucina», dal Novembre 1930 al Novembre 1931; due quaderni (inediti) di appunti stesi per la spiegazione della liturgia in generale, dei riti della Messa e delle Messe domenicali e festive relativi agli anni 1926-1933 e 1936-1937; il commento (inedito) ai «Vangeli domenicali su Gesù Cristo» degli anni 1938-1939; un gruppo di saggi di argomento liturgico-artistico risalenti a quegli anni. Alcuni dei documenti hanno più la forma di appunti che non di completa stesura. Tuttavia nelle note, dettagliate e meticolose, il Curatore ha cercato di svolgerli, completando riferimenti e allusioni e mettendone in luce il vario contenuto in apposite introduzioni. Anche grazie a tale più compiuta lettura questi scritti rivelano singolare importanza: indicano cioè quanto fosse versatile e approfondita, sotto diversi aspetti precorritrice, la cultura liturgica del giovane Montini ed ampia e multiforme la sua informazione bibliografica. In particolare, egli aveva un’autentica e precisa teologia della liturgia, intesa sempre come reale ed efficace presenza del mistero di Cristo e come versione orante della fede e del dogma. Montini concepiva la liturgia come principio e risorsa primaria dell’esperienza e della spiritualità cristiana. Non mancava di sottolineare con vigore la funzione educativa della pietà, ponendone in evidenza la dimensione ecclesiale. Coglieva inoltre l’importanza della storia della liturgia, che dava prova di ben conoscere nelle sue linee principali, mostrandosi specialmente sensibile alla proprietà estetica dei riti, alla loro arte e poesia. Una visione che in quegli anni ben pochi possedevano e che troveranno pratica attuazione anche negli anni dell’episcopato milanese, trovando poi compiuta sistemazione nella costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium.

 

Quella trama dove passa il filo di Dio

 

Nel volume Scritti Liturgici. Riflessioni, appunti, saggi (1930-1939) – Brescia- Roma, Istituto Paolo VI – Studium, 2010, pagine 296 euro 35 – sono raccolti i più antichi testi dedicati da Giovanni Battista Montini alla liturgia e precisamente: il commento all’anno liturgico apparso in “Azione Fucina” (dal novembre 1930 al novembre 1931); due Quaderni di appunti stesi negli anni 1926-1933 e 1936-1937 per la spiegazione della liturgia in generale, dei riti della messa, e delle messe domenicali e festive; il commento ai “Vangeli domenicali su Gesù Cristo”, che è ancora un’analisi dell’anno liturgico (anni 1938-1939) e infine un gruppo di brevi saggi di argomento liturgico, risalenti a quegli anni. Pubblichiamo ampi stralci della Presentazione scritta dal curatore.

 

Egli già possedeva un’autentica e precisa teologia della liturgia, intesa come reale ed efficace presenza del mistero di Cristo e come versione orante della fede e del dogma. La celebrazione era da lui concepita come principio e risorsa primaria dell’esperienza e della spiritualità cristiana, e come componente essenziale per l’educazione alla pietà, mentre ne poneva in chiara evidenza la dimensione ecclesiale.

“Montini, assistente della Fuci – scrive Marcocchi – concepì la liturgia non come realtà estetizzante o archeologica o rubricistica, ma come il luogo privilegiato per entrare in comunione con Cristo e ancorare la vita spirituale ai fatti della vita del Signore attualizzati nell’anno liturgico”.
Montini coglieva inoltre l’importanza della storia liturgica, che dava prova di conoscere nelle sue linee principali, mostrandosi specialmente sensibile alla proprietà estetica dei riti, alla loro “arte” e poesia. Come si vede una visione della liturgia, multiforme, poliedrica e dagli svariati intrecci, che ben pochi in quegli anni possedevano, soprattutto con la perspicacia e il vigore del giovane Montini, che aveva saputo assimilare tanto intimamente le fonti, da saperle riesprimere con un tono e un linguaggio tipicamente suo, e non senza suscitare tenaci e autorevoli opposizioni da parte di chi giudicava la mentalità e l’educazione liturgica una specie di pericolosa gnosi.

A dire, inoltre, quanto la liturgia occupasse il sapere e il gusto di Montini, sono eloquenti le sue iniziative pratiche, ossia la sua predicazione e le sue lezioni, in cui trasmetteva nell’ambiente intorno a sé la sua conoscenza e il suo gusto per la liturgia. Chi seguirà il successivo pensiero liturgico di Montini come arcivescovo di Milano e come Papa, che approverà la costituzione liturgica Sacrosanctum concilium, lo troverà esattamente coerente con le riflessioni e considerazioni disseminate in questi scritti giovanili. In quegli anni si distingueva nello scrivere di liturgia con acutezza e fascino specialmente Romano Guardini, che nel 1918 con Lo spirito della liturgia aveva inaugurato la collana “Ecclesia orans”, promossa e diretta dall’abate di Maria Laach, Ildephons Herwegen. Per interessamento anche di Montini e con la prefazione di padre Giulio Bevilacqua il suggestivo volumetto apparirà tradotto nel 1930 presso la Morcelliana, che si mostrava vivamente interessata delle opere liturgiche di Guardini, e in generale del tema liturgico. D’altra parte, questa attenzione alle opere di Guardini si inseriva in una sensibilità cristocentrico-liturgica che aveva profondamente e variamente segnato l’educazione di Montini, grazie soprattutto all’opera dello stesso padre Bevilacqua, che fu il suo grande maestro.

Tra i testi qui pubblicati abbiamo un commento all’anno liturgico 1930-1931, apparso in “Azione Fucina”, il quindicinale della Fuci. Vi possiamo rilevare come tratti emergenti anzitutto una lucida teologia della ricorrenza degli eventi salvifici secondo il calendario della Chiesa: l’anno sacro è “stagione completa dello spirito”, rinnovamento e ripetizione della vita di Cristo e dei suoi misteri, così che la sua storia diventi storia dell’anima, è riflessione sulla sua dottrina, rigenerazione dell’incarnazione; giro di evoluzione totale dell’anima.Sono gli splendidi accenti e qui, direi, di sapore quasi caseliano, con cui Montini apre il suo commento: “Questo ciclo liturgico sarà ciclo dell’anima. Questa storia di Cristo deve ripetersi come storia della mia anima. Ogni anno la Chiesa rinnova il suo racconto su la vita di Gesù, ne ripensa la stessa dottrina, ne ripresenta i misteri, affinché tale vicenda sia la stagione completa dello spirito, avido di santità, avido di rigenerare in sé l’incarnazione del Signore. Vivere questa vicenda è compiere un giro di evoluzione totale dello spirito cristiano”.

Nella stessa linea, la vicenda della liturgia è sentita come riflesso e disegno della vicenda della vita, dal suo inizio alla sua fine: “Nella vicenda liturgica si riflette (…) la vita”.
Questa concezione dell’anno liturgico più analiticamente risalta in questo ampio sguardo che Montini volge sul corso del tempo coinvolto nella trama di un anno sacro: “L’anno liturgico è come l’immagine completa della vita: l’infanzia a Natale, l’adolescenza all’Epifania, la virilità, la fatica, il dolore, l’amore alla Pasqua, la pienezza e la fecondità alla Pentecoste, la saggezza e l’esperienza della cosidetta “vita vissuta” nel periodo successivo. Poi l’insistente meditazione dell’al di là, suscitata dalle solennità dei Santi e dei Morti aveva riempito lo spirito di gravi ed alti pensieri; s’era giunti al punto di desiderare l’eternità: ma come si poteva qualificare simile desiderio quale indice di vecchiaia e foriero della fine? che l’ultima avventura dell’uomo sia la sorpresa, e perciò lo spavento, di finire? L’ultima scena dovrebbe allora esser tragica e tremenda anche nel dramma liturgico. E lo è, difatti. L’ultima domenica dell’anno spirituale è infatti improntata a carattere di apocalittica tragicità”. “Dopo averci prospettato Gesù Fanciullo, Gesù Redentore, Gesù Pastore e Maestro, la liturgia ci svela, su uno sfondo di conflagrazione cosmica, Gesù Giudice”.
L’anno liturgico, dal suo inizio con la Prima domenica di Avvento, è sentito, in particolare, come un itinerario di ricerca del Signore, che parte dalla coscienza del proprio peccato: “Eravamo partiti – scrive Montini – in cerca del Salvatore per aver sperimentata la miseria dell’uomo”; ed ecco, di domenica in domenica, di festa in festa, il suo trascorrere scandire, non senza tratti drammatici segnati dalla stessa liturgia, le vicissitudini dell’anima.
D’altronde, secondo Montini, abbiamo “venuta di Dio nel cuore del tempo”. Lo stesso passare del tempo è, infatti, tutto avvertito non come un trascorrere cronologico insensato, ma come un tragitto temporale attraversato dalla grazia.

Con sensibilità e linguaggio, che ci verrebbe da dire “esistenziale”, discorre de “l’istante, in cui il fuggevole flutto del fiume, ch’è la nostra vita, sarà toccato dall’istante eterno. Il contatto del tempo con l’eternità riempie di trepidazione e di stupore”; la vita si trova interpretata come “trama dove il filo di Dio sta per passare a tessere l’unica tela della vostra vita!”.
È la ragione per cui – continua Montini – “ancor prima che l’aureo filo di Dio, scorra nei poveri cànapi umani, già questi mi son divenuti cari e preziosi. E mentre prima non capivo dove tendevano e come si sarebbero sbrogliati dall’intricata matassa delle vicende senza senso e senza connessione, ora già vedo come si distendono in sapiente disegno, e come la trama sfilacciata della vita umana si può intrecciare, serrare, unificare e fluire, come serico manto che rimonta su le spalle di Cristo”.

Questo – com’è chiamato – “aureo filo di Dio” è esattamente la grazia del tempo liturgico, in cui, tramite la memoria della Chiesa, si dispongono gli avvenimenti della salvezza: tale grazia riscatta e conferisce valore a tale “intricata matassa delle vicende” e ne permette una lettura soprannaturale, di là dal “ditirambo risonante” di altre “mille voci”, devianti e vane.
Mentre, proprio nel messaggio e nel dono delle molteplici festività dell’anno della Chiesa, e quindi in Cristo, da esse rivelato e offerto, l’uomo trova, in maniera multiforme, a seconda delle ricorrenze liturgiche, il compimento dei suoi più intimi desideri e quindi del suo amore.

Con spirito agostiniano Montini ritorna su questo tema dei desideri raccolti in “fascio”, che presentono Cristo e sono avviati e allineati a Lui, l’Uomo Dio nel quale si incarnano.
La concezione dell’anno liturgico si fonda, a sua volta, sulla convinzione che “i fatti storici della vita del Signore devono tradursi in fatti spirituali delle nostre anime”.
Scrive Montini in una magnifica pagina: “L’economia seguita da Dio nel disporre vicende della storia del Salvatore, corrisponde all’economia segreta e intima da realizzare nella direzione degli spiriti fedeli. Ciò che fu del Fratello Primo deve rinnovarsi in tutti i fratelli uomini. Ciò che fu nelle circostanze della sua vita fatto esteriore oltre che interno mistero, deve riprodursi nell’educazione delle nostre coscienze. La vita seguita da Dio per venire a noi segna la nostra via per andare da lui. Se così è: l’infanzia di Cristo ha da essere l’infanzia nostra. Come la nascita sua all’ordine nostro naturale deve significare nascita nostra all’ordine suo, soprannaturale, così ogni passo della sua vita darà ora un impulso al cammino spirituale dell’anima. Perciò il problema mio sarà questo: interpretare il significato spirituale della vita di Gesù per farlo precetto della mia. E qui la liturgia mi è chiave d’interpretazione. Letterale, simbolica, analogica, o quale? La liturgia dirà. E mostrerà quale ricchezza concettuale, quale meditazione teologica arricchisca la preghiera cristiana”.

È il motivo che si va ripetendo: il ciclo dell’anno liturgico, con le sue feste principali, tratteggia e raffigura “le leggi di sviluppo della spiritualità cristiana” descrivendo appunto così “l’itinerario dell’anima”, sul quale la “storia di Cristo” si ripete nostra storia, “come storia della mia anima”. Questi semplici accenti lasciano indovinare l’inesauribile ricchezza delle pagine liturgiche del giovane Montini: anche dopo i cambiamenti della riforma conciliare, esse conservano intatto il loro valore e la loro suggestione. Del resto, è quello che si deve riconoscere a tutto l’acuto e intenso magistero di Paolo VI, ingiustamente rimosso e trascurato.

Alcuni dei documenti pubblicati in questo volume hanno la forma di rapidi appunti, che le note provvedono a svolgere, completandone i riferimenti e le allusioni. Anche grazie a tale più compiuta lettura, rivelano la loro singolare importanza: indicano cioè quanto fosse approfondita e versatile la cultura liturgica del giovane Montini, e ampia la sua informazione bibliografica.

 

(©L’Osservatore Romano 23 luglio 2011)

Perché non tutta l’arte «religiosa» è adatta alle chiese

 

La liturgia ha bisogno dell’arte, sia in quanto liturgia dell’incarnazione sia perché non si può concepire una liturgia senza arte.

La liturgia confessa la trasfigurazione della realtà e l’arte è capace di evocare in modo particolare questa trasformazione, di alludere a questo processo di metamorfosi che ha come soggetto lo Spirito santo. È dunque vero che la liturgia abbisogna del linguaggio dell’arte, espresso nell’architettura, nella scultura, nella pittura, nelle vetrate, nella musica.
Nello stesso tempo, però, la liturgia cristiana deve discernere e giudicare quali opere d’arte possono entrare in essa e acquisire la capacità di essere concelebranti, di essere mistagogiche, in grado cioè di condurre al mistero di Cristo; oppure deve valutare se, al contrario, le opere d’arte costituiscono una contraddizione, un impedimento alla liturgia stessa. Non si dimentichi che c’è un’arte religiosa, a volte straordinaria, che però non è adeguata, non ha la capacità di entrare nella liturgia. Oggi regna molta confusione sull’argomento, e per questo ci si avventura troppo facilmente sulle vie della sperimentazione e dell’improvvisazione, ma tale modo di procedere contraddice lo statuto della liturgia cristiana. Occorre pertanto ricordare che una cosa è l’arte religiosa, anche cristiana, e un’altra è l’arte cristiana liturgica: quest’ultima è giudicata a partire dalla sua capacità mistagogica.
Non dovremmo mai dimenticare, in proposito, le parole dette da Henri Matisse (che destarono anche una certa sorpresa): «Tutta la mia opera è religiosa, ma non tutte le mie opere religiose possono stare in una chiesa». Qual è dunque il fine a cui deve tendere l’arte quando vuole entrare nella liturgia? Con la sua bellezza, della materia e dell’arte umana, è chiamata a narrare la bellezza della presenza e dell’azione del Signore vivente. Simboli e arte testimoniano la convinzione che l’invisibile esiste, che la liturgia è una finestra aperta sull’invisibile, che il credente vuole esercitarsi
a vedere l’invisibile (Eb 11,27), per restare saldo in un mondo in cui il visibile sembra essere l’unica possibilità di lettura. In un mondo limitato al visibile, e di conseguenza all’empirico, simboli e arte chiedono di essere letti, di essere presenti per aiutare gli uomini a una comprensione più profonda e totale della loro vocazione. Detto altrimenti, il problema è quale simbolica, quale linguaggio e immaginario simbolico può attivare il desiderio spirituale dell’uomo attuale e aprire la sua mente e il suo immaginario verso l’eschaton e l’eterno, cosa già difficile di per sé, e oggi ancora di più per l’uomo contemporaneo costantemente di corsa, «in fuga».
Questa simbolica (e arte) nella liturgia deve avere come fine quello di suscitare la capacità di gratuità e di   contemplazione, non di consumo o di possesso; deve saper introdurre al senso del mistero, che non è affatto l’inconoscibile, ma ciò per il quale l’interesse e la ricerca non si esauriscono mai, anche quando lo si conosce parzialmente: il mistero infatti, e in particolare il mistero di Dio, diviene sempre più interessante, seducente, capace di condurre a sé, nella misura in cui a esso ci si avvicina progressivamente e se ne conosce qualcosa. Occorrono una lunga disciplina e una costante educazione di ogni cristiano, perché possa percepire la vera bellezza nell’arte la
quale, se è autentica, insegna, fa memoria, emoziona, plasma il cristiano stesso. E noi dobbiamo credere, insieme alla tradizione cristiana orientale, che l’arte non solo può narrare l’agere Dei , ma può anche riflettersi sul cristiano che la legge e la abita, trasfigurandolo di gloria in gloria, a immagine di colui che è la fonte di ogni bellezza.

 

di Enzo Bianchi
in “Avvenire” del 29 marzo 2011

Due messe per un’unica Chiesa

 

 

Un solo rito romano in due forme, antica e moderna.

È la medicina di Benedetto XVI per sanare un disordine liturgico arrivato “al limite del sopportabile”.

Per chi non si fida, è uscito un nuovo documento con le istruzioni

 

Per capire il perché della liberalizzazione della messa in rito romano antico, decisa da Benedetto XVI col motu proprio “Summorum Pontificum” del 2007 e confermata con l’istruzione “Universæ Ecclesiæ” diffusa oggi, la guida più sicura continua a essere la lettera ai vescovi con cui papa Joseph Ratzinger accompagnò quel motu proprio:

> “Cari fratelli nell’episcopato…”

In essa, Benedetto XVI descriveva la situazione “al limite del sopportabile” che intendeva sanare. Se non solo i lefebvriani – la cui volontà di rottura era “però più in profondità” – ma anche molte persone fedeli al Concilio Vaticano II “desideravano ritrovare la forma, a loro cara, della sacra liturgia”, cioè tornare all’antico messale, il motivo era il seguente, a giudizio del papa:

“In molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”.

La convinzione di Benedetto XVI è invece che “le due forme dell’uso del rito romano possono arricchirsi a vicenda”. Il rito antico potrà essere integrato da nuove feste e nuovi testi. Mentre “nella celebrazione della messa secondo il messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso”.

Il che è proprio ciò che avviene, sotto gli occhi di tutti, ogni volta che papa Ratzinger celebra la messa: col rito “moderno” ma con uno stile fedele alle ricchezze della tradizione.

Nell’istruzione “Universæ Ecclesiæ” diffusa oggi con la data del 30 aprile 2011, festa di san Pio V, è citato quest’altro passaggio della lettera di Benedetto XVI del 2007:

“Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del ‘Missale Romanum’. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”.

E viceversa – ribadisce l’istruzione al n. 19 – i fedeli che celebrano la messa in rito antico “non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della santa messa o dei sacramenti celebrati nella forma ordinaria”.

Ecco dunque il link all’istruzione diffusa il 13 maggio 2011 sull’applicazione del motu proprio “Summorum Pontificum” del 2007.

> Universæ Ecclesiæ

Mentre questa è la nota di sintesi curata dal direttore della sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi:

> “L’Istruzione sull’applicazione del motu proprio…”

Sia l’istruzione che la nota sono state diffuse nelle principali lingue. Così come si trova tradotta in più lingue, nel sito del Vaticano, anche la lettera di Benedetto XVI ai vescovi del 2007.

Curiosamente, però, il motu proprio “Summorum Pontificum” continua ad essere presente nel sito della Santa Sede soltanto in due lingue, e tra le meno conosciute: la latina e l’ungherese:

> Summorum Pontificum

Intanto, il prossimo 15 maggio, IV domenica di Pasqua, sarà celebrata nella basilica papale di San Pietro in Vaticano, all’Altare della Cattedra, per la prima volta, una messa solenne in rito antico.

Il celebrante sarà il cardinale Antonio Cañizares Llovera, prefetto della congregazione per il culto divino.

Dirigerà il coro, con musiche di Giovanni Pierluigi da Palestrina, il cardinale Domenico Bartolucci, già maestro perpetuo della Cappella Musicale Sistina.

La messa concluderà un convegno sul motu proprio “Summorum Pontificum”, tra i cui relatori figurano lo stesso cardinale Cañizares, il vescovo Athanasius Schneider e monsignor Guido Pozzo, segretario della pontificia commissione “Ecclesia Dei” che ha emesso l’istruzione “Universæ Ecclesiæ”.

Il programma del convegno:

> “Una speranza per tutta la Chiesa”

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Notizie, analisi documenti sulla Chiesa cattolica a cura di Sandro Magister

 

 

Vogliamo di seguito dare una sintetica documentazione sul dibattito in atto:


“Per poter assorbire la… contestazione [dei lefebvriani], il Vaticano ha moltiplicato le concessioni… Ma il risultato finora visibile è di averli incoraggiati a ulteriori appetiti… Sembra che la Chiesa di Ratzinger accetti di farsi liquida, se non babelica. In nome del principio dell’accoglienza ammette che gruppuscoli di cattolici arcaici con preti di loro gusto, anzi, che preti nomadi di passaggio si presentino occasionalmente in una parrocchia per far messe in latino. Le norme prescrivono ora che vengano accontentati… non si ricordava un simile grado di contestazione dell’autorità dei vescovi”
“Torna la messa in latino, per i fedeli che d’ora in poi la chiederanno. I vescovi dovranno mostrare «generosa accoglienza» nel concederla a chi la pretenderà… Ma i fedeli tradizionalisti che vogliono seguire la messa in latino… «non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa messa o dei sacramenti celebrati con il rito del Concilio Vaticano II». E devono inoltre «riconoscere il Romano Pontefice come pastore supremo della Chiesa universale»”
“«Generosa accoglienza» verso quanti chiedono il messale precedente alla riforma liturgica, spiega il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, per garantire «la legittimità e l’effettività dell’uso del messale antico e lo spirito di comunione ecclesiale: la finalità papale di riconciliazione non va ostacolata o frustrata, ma favorita e raggiunta»” (ndr.: si continua a non tener conto delle gravi obiezioni alla reintroduzione dell’antico rito, sul rapporto tra lex credenti e lex orandi, sul fatto che la liturgia rinnovata è espressione della nuova consapevolezza di sé della chiesa espressa nel concilio, che in particolare la celebrazione liturgica è una celebrazione della comunità, la maggiore attenzione all’importanza della proclamzione e ascolto della Parola…)
“L’«istruzione… insiste… sulla finalità di riconciliazione» del Papa, ha spiegato padre Federico Lombardi: e infatti da una parte invita alla «generosa accoglienza» dei fedeli che chiedessero la forma extraordinaria, cioè la vecchia messa; dall’altra avverte che questi fedeli «non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria»”
Universae, anzi Controversae Ecclesiae. Maggiori incertezze dopo la infelice Istruzione Universae Ecclesiae della Commissione “Ecclesia Dei” “Anche l’ultimo anello della catena – la Istruzione Universae Ecclesiae – risulta schiacciato da un problema strutturalmente insolubile: come si fa a “istruire” intorno ad una contraddizione patente? Più si istruisce e meno si capisce” ” Se all’improvviso – … – un rito “non più vigente”, superato dalla versione riformata dello stesso, torna magicamente in vigore e pretende di valere in parallelo rispetto a quello che lo aveva intenzionalmente emendato, rinnovato e superato, tutto subisce una sorta di deformazione irrimediabile”
“La continuità dell’affezione nei confronti di una forma rituale venerabile e sacra, che innumerevoli generazioni hanno abitato come espressione dell’immutabile tradizione apostolica, è dunque autorevolmente riconosciuta, in base a princìpi sempre condivisi e mai revocati in dubbio, come espressione legittima di una vera sensibilità cattolica.
“Ma come fai a non considerare che le affermazioni della Istruzione contribuiscano ad aprire il varco proprio alla “indifferenza” verso la Riforma liturgica, verso la chiesa comunione, verso la articolazione ministeriale della liturgia e della Chiesa, verso il canto come patrimonio comune, verso la partecipazione attiva, verso la iniziazione cristiana degli adulti, verso la corresponsabilità laicale nella offerta…” “A me pare, francamente, che se si deve lamentare una carenza grave in tutta questa vicenda è proprio una mancanza di stile. Precisamente di quello cattolico.”

 

Interessante editoriale del settimanale cattolico inglese”il clericalismo è ancora molto in voga e rappresenta una chiave di lettura per analizzare le motivazioni culturali che hanno dato origine allo scandalo degli abusi sessuali dei preti all’interno della Chiesa stessa.” ” al clericalismo era stato inferto un duro colpo dall’enfasi con cui il Concilio aveva parlato di sacerdozio comune dei fedeli come conseguenza del comune sacramento del battesimo. Ma è del tutto evidente oggi una reazione clericale tra quanti stanno percorrendo il cammino di formazione al sacerdozio o tra quelli di recente ordinazione” “Il Vaticano continua ad aggiungere munizioni nelle mani della lobby pro-Tridentino all’interno della Chiesa, come è accaduto anche con l’ultima istruzione, Universae Ecclesiae”

 

 

 

 

I Domenica di Quaresima (anno A)

Esegesi  Meditazione  Preghiere  Racconti


Prima lettura: Genesi 2,7-9; 3,1-7

 

Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.

Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

 

La pericope di Genesi, che la liturgia ci presenta come prima lettura in questa prima domenica di Quaresima, accosta due brani distinti quello della creazione dell’uomo con la sua collocazione nel giardino dell’Eden e quello della prima tentazione che riuscì ad ingannare l’uomo e la donna, che fungono insieme da «figura» al brano del Vangelo di Matteo. Gesù è tentato, come fin dall’origine furono tentati l’uomo e la donna: il Messia resiste alla tentazione e vince, mentre la coppia umana cede e soccombe.

Il tentatore è sempre lo stesso: astuto, intelligente e furbo, capace di creare suggestioni e immaginazioni, abile artista e regista che pretende di dirigere il corso degli eventi.

Due scene per due significati che si legano insieme. Nella prima la sottolineatura della condizione dell’uomo, in tutto dipendente da Dio (v.7a: «Il Signore Dio plasmò… »), fragile e debole (v. 7b: «… con polvere del suolo…»), ma in qualche modo partecipe della condizione divina (v. 7c: «…soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente… »); nella seconda il tragico racconto della tentazione e della caduta  con i tre protagonisti (serpente, donna, uomo) sui quali incombe, in modo possente, il giudizio tremendo di Dio.

Spettacolare la presentazione del tentatore: una forza seduttrice che giunge all’uomo dall’esterno, una forza corruttrice e parlante, personale e bugiarda.

Serpente antico, il tentatore manipola la parola di Dio: con un’esegesi distorta (3,1 c: «…Non dovete mangiare di alcun albero…») che riesce a sbilanciare la donna e a farla uscire fuori dal suo silenzio e ad accettare il dialogo che la porterà a cadere: con un’insinuazione sottile che getta ombra su Dio (3,5: «Anzi, Dio sa…»), quasi che il Creatore avesse timore e paura, e mette in crisi definitiva la donna.

La donna cede convinta dal serpente; l’uomo cede avviato dalla donna: tutti e due peccano nel tentativo di realizzare la propria vita indipendentemente da Dio, nell’illusione di volersi ergere arbitri sul bene e sul male e nella vaga speranza di sentirsi padroni della propria e dell’altrui vita.


Seconda lettura: Romani 5,12-19

Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato. Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.

Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti  gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.

 

Cristo, contrapposto ad Adamo, ci ha procurato la giustizia di Dio liberandoci dal peccato e dalla morte. L’Apostolo Paolo presenta il doppio «destino» che spetta all’umanità: la «morte» o la «vita».

Paolo dimostra che la salvezza è legata alla solidarietà a Cristo, alla sua obbedienza e al suo amore oblativo, presentando la sua argomentazione con il fenomeno letterario del parallelismo antitetico tra l’intervento di Adamo e quello di Cristo nella storia dell’umanità.

Il richiamo di Adamo è però secondario per mettere in evidenza l’opera di salvezza portata da Cristo. È Cristo, infatti, il vero protagonista, è lui che costituisce il centro d’interesse. L’attenzione infatti è posta sull’azione liberatrice di Cristo, sulla sua obbedienza e sul suo «dono di grazia».

L’efficacia positiva di Cristo supera di gran lunga quella negativa di Adamo. Non si tratta dunque di un vero e proprio parallelismo «reale», ma soltanto «formale» per fare risaltare il secondo termine di paragone che è Cristo!

Paolo, inoltre, pone il parallelismo con lo schema «uno-tutto» dove, per il principio di solidarietà, l’azione di uno determina le scelte dell’umanità. Paolo, tuttavia, lascia intendere che l’uomo è libero di accettare o di rifiutare tale influsso e presenta il «destino» dell’uomo come azione della volontà e come scelta personale.


Vangelo: Matteo 4,1-11

(vedi presentazione power point)

 

In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».

Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

Esegesi


Il capitolo 4 del Vangelo di Matteo si apre con la scena delle tentazioni che Gesù subisce nel deserto ad opera del diavolo. Lo spirito del male è una creatura spirituale che combatte il disegno di Dio. La scena è costituita dalla successione di tre sequenze: il deserto, il tempio di Gerusalemme, un monte altissimo.

Il testo è scandito da un triplice «allora» (vv. 5,10,11) in modo analogo al brano che precedeva il battesimo (3,5-15); il terzo introduce una conclusione che ricorda la fine del dialogo tra Giovanni e Gesù (3,15): «Allora il diavolo lo lasciò…» (v. 11), mentre il duplice «ed ecco» della scena del battesimo (3,16.17) viene qui ripreso come un’eco: «…ed ecco gli angeli gli si avvicinarono e lo servivano» (v. 11).

La pericope si articola in diversi momenti: introduzione con presentazione dei personaggi fondamentali (vv. 1-2); racconto vero e proprio con le tre scene di tentazione (vv. 3-10); conclusione con il ritiro del tentatore e la presenza degli angeli (v. 11).

Il deserto è convenzionalmente il luogo del ritiro, in cui l’uomo si pone di fronte alle scelte essenziali della vita. Come il popolo d’Israele matura la sua vocazione di popolo di Dio nel deserto, così Gesù, prima di iniziare la sua missione, va nel deserto. Il Signore, però, al contrario d’Israele vince la triplice tentazione dei beni materiali, del successo e del potere, tentazione nella quale era caduto l’uomo nel giardino dell’Eden (Gen 3 1-7): dove l’antico Israele soccombeva, colui che simboleggia il nuovo Israele resiste e vince.

Le tre tentazioni conducono Gesù a rifiutare il potere temporale, il facile ricorso al miracolo e soprattutto la seduzione dell’idolatria.

Gesù si distanzia energicamente da queste tre tentazioni rinunciando ad ogni costo a utilizzare la strada del potere, del prestigio e del facile miracolo. Lo testimoniano chiaramente anche gli altri Sinottici, lo ricorda lo stesso Giovanni (6.6).

Altro dato fondamentale della pericope è lo stretto legame che intercorre tra la tentazione di Gesù e il Battesimo. È lo Spirito, disceso in occasione del Battesimo, che conduce Gesù nel deserto, per esservi tentato dal diavolo (4,1). La missione di Gesù viene caratterizzata fin dall’inizio dalla presenza ostile del demonio che sosterrà una lotta continua contro il Figlio di Dio in tutta l’area del suo ministero di prova: adempiere ogni giustizia (5,10) significa proprio vincere al male.

La presentazione delle tentazioni è caratterizzata, intessuta e cadenzata dalle citazioni dell’Antico Testamento. Sembra chiaro che Matteo voglia presentare, in un contesto catechetico o meglio ancora liturgico, Gesù come colui al quale è ordinata l’intera storia d’Israele.

Poiché Gesù colma l’attesa del suo popolo, egli assume tutte le dimensioni della sua storia e dal momento che egli adempie ogni giustizia realizzando il beneplacito del Padre, egli trionfa delle tentazioni alle quali in altri tempi il popolo ebreo aveva invece ceduto e, così, si rivela veramente come il figlio di Dio.

Il tentatore eccelle nell’arte di abbellire le immagini e con pochi elementi egli abbozza un quadro grandioso: il pinnacolo del tempio che domina la città santa, le mura alte che cadono a picco, la presenza degli angeli invocati come possibili «aiutanti» celesti di Gesù… Come un regista esperto vuole far giocare a Gesù il ruolo del Messia trionfatore, che viene tra i suoi con potenza e che si manifesta al mondo intero con gesti altamente e chiaramente potenti. Ma ciò non si realizza!

Nella prima tentazione Gesù rifiuta il ruolo messianico in un contesto spettacolare e prodigioso, ma lo vive nella fedeltà a Dio come ogni uomo giusto e credente. Nella seconda Gesù supera tutte le deformazioni religiose che hanno nella magia e nel miracolismo il loro modello. Nella terza tentazione Gesù mostra chiaramente come sia perversa e diabolica l’idea di una conquista e di un potere imperialistico in nome di Dio.

È la triplice tentazione di Gesù: una tentazione che, al di là del tempo e del luogo circoscritto dall’evangelista, abbraccia e tocca tutta la vita del Messia, che diventa giorno per giorno tentazione e prova continua. Non si tratta della descrizione di un giorno di vita di Gesù, ma della riflessione completa sulla vita stessa di Gesù, rispecchiata, o meglio ancora anticipata, nel riassunto molto sintetico e schematico delle tre tentazioni.


Meditazione


Le letture del ciclo quaresimale «A» sono legate al catecumenato e all’iniziazione cristiana che culmina nel battesimo impartito nella notte pasquale. Nella prima domenica, ad Adamo che soccombe alla tentazione (I lettura) fa riscontro Gesù che vince la tentazione (vangelo) e offre a ogni cristiano la possibilità di fare delle proprie cadute l’occasione di conoscere la grazia di Dio (II lettura).

Il binomio peccato-morte con cui Paolo interpreta la caduta primordiale si presta a una rilettura a partire dalla pagina genesiaca. La tentazione agisce interiormente all’uomo a partire dalla parola con cui Dio gli comanda di mangiare di tutto eccetto una sola cosa (Gen 2,16-17). In caso contrario, l’uomo incontrerà certamente la morte. La tentazione agisce nel cuore umano anzitutto come frustrazione («se sono privato di una cosa, sono privato di tutto»: Gen 3,1). La proibizione dell’unico frutto, più che il permesso-comando di mangiare tutto il resto, colpisce e ferisce la creatura che si vede attratta da ciò che è interdetto. E dalla potenza del desiderio essa si difende con interdetti ulteriori che inaspriscono il divieto divino: «Non lo dovete toccare» (Gen 3,3). E specifica: «altrimenti morirete» (Gen 3,3). La morte è già presente nel mondo, sta agendo nella mente e nel cuore della creatura umana e sta producendo paura. E proprio le parole che assicurano: «Non morirete affatto», vincono le resistenze della donna e la spingono alla trasgressione. Dunque: dalla morte viene il peccato, più ancora che il contrario. O meglio, dalla paura della morte. Il peccato fa leva sulla paura della morte. Noi pecchiamo e la diamo vinta alle tentazioni per illuderci di darci vita nella via del possesso, dell’abuso, dell’accumulo, del potere, del consumo… Ma l’esito di questo è mortifero e l’uomo si ritrova schiavo di ciò che l’ha vinto. Il Nuovo Testamento afferma che Cristo ha ridotto all’impotenza colui che della morte ha il potere, il diavolo, liberando così gli uomini che, per paura della morte, erano soggetti a schiavitù tutta la vita (Eb 2,14-15).

Gesù attraversa la tentazione, non la rimuove. Cioè, egli accetta di misurarsi con essa in se stesso: non proietta l’immagine del nemico su realtà esterne, ma accetta che la potenza della tentazione si dispieghi nell’intimo, nel cuore. Solo chi vince la potenza del divisore in se stesso può cacciare i demoni dagli altri umani.

La vittoria di Gesù è interiore e spirituale: egli vince ricordando la parola di Dio. E la parola ricordata gli fa ripercorrere il cammino del popolo dopo l’uscita dall’Egitto. Le tentazioni matteane riproducono il cammino di Israele nei quarant’anni nel deserto rinviando (attraverso le tre citazioni del Deuteronomio in bocca a Gesù) a tre episodi fondamentali dell’esodo: la manna e le quaglie (Es 16); Massa e Meriba (Es 17,1-7); il vitello d’oro (Es 32). Il ricordo della parola di Dio, la memoria Dei, è ciò che guida Gesù alla vittoria. E la memoria Dei non è semplice ricordo di frasi bibliche, ma evento spirituale che interiorizza la presenza di Dio nel cuore dell’uomo.

Le tentazioni di Gesù non sono solo le tentazioni del miracolistico, del sacrale e del potere (o, rispettivamente, le tentazioni economica, religiosa, politica), ma qualcosa di ulteriore. Nella prima scena vi è anche la tentazione che nasce quando la nostra esperienza della realtà è l’esperienza di un deserto, di durezze pietrose, quando la realtà appare sterile, feconda solo di disillusioni e incapace di nutrire. Nella seconda scena si apre la via alla tentazione che nasce quando si è andati oltre le immagini idealizzate del sacro e del religioso, quando cioè le immagini gratificanti e consolatorie del divino sono crollate e lo spazio per Dio si restringe sempre più. E nella terza scena si dischiude la tentazione successiva alle illusioni del potere, della ricchezza, della gloria: quando cioè queste realtà svelano la loro inanità e nell’uomo può farsi strada il cinismo, la disillusione, magari il risentimento. Gesù passa attraverso tutto questo e ciò che rimane è un corpo spoglio che, nella nuda fede, ricorda e ripete la parola di Dio. È così nel deserto, sarà così sulla croce (Mt 27,46).


Preghiere e racconti


La tentazione

Il deserto richiama alla mente un altro luogo dello Spirito: la tentazione. Non le nostre piccole tentazioni quotidiane, ma l’unica tentazione, la grande tentazione escatologica, quella degli ultimi giorni in cui già stiamo vivendo. Dobbiamo riconoscere questa tentazione in ogni cosa che ci accade, come nelle contraddizioni e nelle sofferenze che ci circondano. «Considerate perfetta letizia», dice san Giacomo all’inizio della sua Lettera, «quando subite ogni sorta di prove»; è per questo che siamo nel mondo… È nell’ora della tentazione che la testimonianza dello Spirito si fa chiara ed eloquente in noi, ed è nel pieno mezzo della tentazione che i cristiani si riconoscono fratelli. La tentazione ci pone davanti a Dio in modo completamente nuovo. Una breccia si apre in noi: ogni tentazione mette in discussione un certo numero di strutture  non solo ecclesiali, ma anche strutture della nostra intima personalità. Sconcertandoci e togliendoci il terreno da sotto i piedi, aprendo una breccia e smantellando qualcosa a cui siamo intimamente legati, la tentazione porta con se la possibilità di una ricca effusione della grazia, e può farci crescere nello Spirito santo. Se riusciamo ad accettare questo scombussolamento e a mostrarci in tutta la nostra debolezza e povertà, queste ultime verranno d’un tratto rimpiazzate e rilevate dalla potenza di Dio che dispiega tutta la sua forza nella nostra debolezza. È questa accettazione a costituire ciò che le Scritture chiamano hypomone: pazienza, perseveranza.

(A. Louf, La vita spirituale, Magnano (Biella), Edizioni Qiqajon/Comunità di Bose, 2001, pp. 9-20).


Antonio e i suoi compagni

Non è strano che Antonio e i monaci suoi compagni considerassero un disastro spirituale l’accettare passivamente i principi e i valori della loro società. Essi erano riusciti a capire quanto fosse difficile non solo per il singolo cristiano, ma anche per la chiesa stessa, resistere alle seducenti imposizioni del mondo. Quale fu la loro reazione? Fuggirono dalla nave che stava per affondare e nuotarono verso la vita. E il luogo della salvezza è chiamato deserto, il luogo della solitudine…

La solitudine è la fornace della trasformazione. Senza solitudine, rimaniamo vittime della nostra società e continuiamo a restare impigliati nelle illusioni del falso io. Anche Gesù è entrato in questa fornace. Fu tentato con le tre seduzioni del mondo: essere importante («trasforma le pietre in pane»), essere spettacolare («gettati dalla torre»), essere potente («ti darò tutti questi regni»). Gesù ha affermato Dio come unica sorgente della sua identità («Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto»). La solitudine è il luogo della grande lotta e del grande incontro – lotta contro le imposizioni del falso io e incontro con il Dio dell’amore che offre se stesso come sostanza del nuovo io.

(J.M. Nouwen, La via del cuore, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 94).


La mia cella nel mondo

La cella, luogo di ritiro, è una semplice camera che abbisogna soprattutto di silenzio in modo che possa assicurare, con l’arredamento essenziale, tutto quello che serve per riposare (il letto), per leggere e scrivere (la sedia e il tavolo), anche o soprattutto di notte (la lampada). Per secoli la cella è stata ed è ancora questo per ogni monaco d’Oriente e d’Occidente: il luogo in cui il monaco impara ad habitare secum, ad abitare con se stesso, in cui cerca Dio nella solitudine e nel silenzio, in cui si impegna e si esercita a lottare contro le pulsioni malvagie che lo abitano e in cui si addestra alla comunione con gli uomini tutti.

Così è stato per me, fin da quando, giovane studente universitario, ho intrapreso, al di fuori delle strutture allora esistenti, l’itinerario monastico che rimane fondamentalmente identico al di là dei contesti storici, culturali ed ecclesiali in cui si inserisce. E come tutti quelli che mi avevano preceduto in questo cammino, mi sono presto accorto che non era facile rimanere, sostare, abitare una cella, quel luogo troppo piccolo, privo di sbocchi e di mutamenti, un luogo capace addirittura di incutere paura. Sapevo bene che la battaglia della cella era una delle prime che avrei dovuto combattere e, infatti non appena vi entravo, avvertivo una voglia di uscirne, mi si affollava nella mente le urgenze che mi chiamavano “fuori”: il richiamo a vivere fuori da me stesso si insediava nella mia mente […].

Come accade a ogni monaco, anch’io ho conosciuto la cella come luogo di reclusione e di prigione ma poi, perseverando, l’ho scoperta come luogo in cui poco alla volta si impara ad abitare con se stessi in verità, intenti alla propria unificazione interiore. Con un sapiente gioco di parole, Guglielmo di Saint-Thierry accostava “cella” e coelum, interpretandoli entrambi come derivati dal verbo “celare”, nascondere: qui e là si ritrova Dio, il Dio segreto, nascosto. Del resto Gesù stesso, rivolgendosi a ogni discepolo – e quindi non solo ai monaci… – aveva rivolto un invito ben preciso: “Tu, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo che è nel segreto” (Matteo 6,6,). Pregare nel segreto della cella, dove nessuno vede, nessuno controlla: questo è esempio di autenticità e luogo di verifica dell’eloquenza della fede. Antidoto contro ogni ostentazione ed esibizione religiosa, la cella diventa effettivamente il luogo in cui si può “dare del tu a Dio”, parlare a Dio e vincere la tentazione di parlare di lui. Se questo “faccia a faccia” è franco, può assumere i tratti di un intimità amorosa: allora la cella diviene “cella vinaria”, la stanza del Cantico dei Cantici, autentica cantina dove si consuma l’incontro amoroso inebriati dal profumo e dal gusto del vino. Come dice il profeta: Exultabit solitudo, “La solitudine esulterà”.

(Enzo BIANCHI, Ogni cosa alla sua stagione, Enaudi, Torino, 2010, Prologo)


Intuizioni patristiche dedicate al brano evangelico delle tentazioni

«Dopo il battesimo nell’acqua lo Spirito conduce Gesù al battesimo nella tentazione, ma non come una persona ne costringe un’altra, ma come qualcuno consente a chi ha deciso. E’ provato nella solitudine, così come Eva fu tentata quando si trovò sola. Il potere di Dio non si fa conoscere con tali prove, perché Dio non fa mai nulla d’inutile. Chi conosce la propria forza, infatti, non cerca di sfoggiarla. Se dunque il digiuno non vi gioverà per non essere tentati, vi consentirà non di meno di essere fortificati tanto da vincere la tentazione».

(S. Giovanni Crisostomo)

«Come tentò per la gola il primo Adamo, così tenta il secondo per la fame. Il maligno, vincitore del primo, sarà vinto dal secondo e come tentò i primogeniti con la vanagloria, dicendo che sarebbero stati come Dio, ora tenta Cristo con la superbia».

(S.Gregorio Magno)

«Gesù vuol vincere con l’umiltà e con l’autorità delle divine scritture e non con i segni del suo potere divino. In questo modo confonde di più il nemico e dà maggior onore alla natura umana indicando con quali armi anch’essa può vincere il maligno. Il maligno aveva tale potere perché usandone giungesse la sua sconfitta. Così verrà permesso ai malvagi di crocifiggerlo perché ne giungesse la salvezza».

(S. Girolamo)

«Anche Satana cita la bibbia, ma certe citazioni non illuminano: fanno buio».

(S. Ambrogio)


40 giorni nel deserto

Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.

Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire. Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo. Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua. Tu devi tornare nella solitudine”.

L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un convento?”

“No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.


Non di solo pane

«Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».

È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.

Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).


Non temere la lotta!

«Se dopo il battesimo ti assalirà colui che ha perseguitato e inseguito la luce – e di certo ti assalirà dal momento che ha assalito anche il Verbo e mio Dio a causa del rivestimento della carne aggredendo la luce nascosta attraverso ciò che era visibile – tu hai modo di vincerlo, non temere la lotta! Opponigli l’acqua, opponigli lo Spirito, nel quale si spegneranno tutte le frecce infuocate del Maligno. È Spirito, ma che dissolve le montagne [cfr. Sal 96 (97),5]; è acqua, ma che spegne il fuoco. Se [il Divisore] ti assale ponendoti sotto gli occhi la tua povertà – ha osato farlo con Cristo – e cercherà di ottenere che le pietre divengano pane (cfr. Mt 4,3-4) facendoti vedere che hai fame, non ignorare i suoi propositi. Insegnagli quello che non ha imparato, opponigli la parola di vita che è il pane disceso dal cielo e che dona vita al mondo (cfr. Gv 6,33). Se ti tende un laccio attraverso la vanagloria – lo fece anche con Cristo conducendolo sul pinnacolo del tempio e dicendogli: «Gettati di sotto» (Mt 4,6) perché mostrasse la sua divinità – non farti trascinare in basso dal desiderio di innalzarti. Se ottiene questo, non si fermerà qui. E insaziabile, ricorre a tutti gli espedienti. Lusinga con il bene, ma conclude con il male. Questo è il suo modo di combattere. Ma il ladrone è esperto anche nella Scrittura. Da essa trae lo «sta scritto» a proposito del pane (cfr, Mt 4,3-4) ; da lì lo «sta scritto» a proposito degli angeli: «Sta scritto, infatti, che darà ordine ai suoi angeli riguardo a te, e che essi ti solleveranno con le loro mani [Sal 90 (91),11-12; Mt4,6]. Oh! Tu, sapiente nel fare il male, come hai potuto tacere quanto è scritto subito dopo? Io lo conosco bene anche se tu hai taciuto. «Io ti farò camminare sopra l’aspide e il basilisco e ti farò calpestare i serpenti e gli scorpioni « [Sal 90 (91),13], perché sei protetto dalla Trinità. Se poi egli ti assalirà ricorrendo all’insaziabilità, mostrandoti in un istante e in un batter d’occhio tutti i regni del mondo come se gli appartenessero (cfr. Mt 4,8-9) e ti chiederà di adorarlo, disprezzalo: è povero. Digli, confidando nel sigillo [impresso su di te con il battesimo] : «Anche io sono immagine di Dio. Non sono ancora stato rigettato dalla gloria dell’alto come te a causa della superbia. Ho rivestito Cristo (cfr. Gal 3,27), mi sono trasformato in Cristo per mezzo del battesimo. Sei tu che devi adorarmi». Si allontanerà da te, ne sono certo, vinto e coperto di vergogna a causa di queste parole. Come dovette abbandonare Cristo, la prima luce, così lascerà anche quelli che sono stati da lui illuminati».

(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi 40,10, SC 358, pp. 216-218).


Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto (Mt 4,10).

Il principale interesse di Gesù era quello di obbedire al Padre suo, di vivere costantemente alla sua presenza. Solo dopo divenne chiaro per lui quale fosse il suo compito nelle sue relazioni con la gente. Questa è la via che egli propone anche ai suoi apostoli: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,8). Forse dobbiamo continuamente richiamare alla nostra memoria, che il primo comandamento, quello che esige da noi di amare Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutta la nostra mente, è veramente il primo.

Mi chiedo se questo lo crediamo davvero. In realtà, sembra che viviamo come se dovessimo dare il cuore, l’anima e la mente il più possibile ai nostri simili, gli esseri umani, cercando di fare di tutto per non dimenticarci di Dio. O per lo meno sentiamo che la nostra attenzione va divisa equamente tra Dio e il nostro prossimo. Ma Gesù chiede qualcosa di molto più radicale.

Domanda un impegno esclusivo per Dio e per Dio solo. Dio vuole tutto il nostro cuore, tutta la nostra mente, tutta la nostra anima.

È questo amore di Dio incondizionato e senza riserve, che ci spinge a prenderci cura del nostro prossimo, non come un’attività che ci distrae da Dio o si mette in concorrenza con la nostra attenzione a Dio, bensì come un’espressione del nostro amore per Dio che si rivela a noi come il Dio di tutti.

È in Dio che troviamo nostro prossimo e scopriamo la nostra responsabilità nei suoi confronti. Potremmo addirittura dire che solo in Dio il nostro prossimo diventa nostro prossimo e non una violazione della nostra autonomia, e che solo in Dio e attraverso Dio diventa possibile il servizio.

(J.M. Nouwen, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 20-22).


La solitudine

La solitudine è un elemento antropologico costitutivo: l’uomo nasce solo e muore solo. Egli è certamente un «essere sociale», fatto «per la relazione», ma l’esperienza mostra che soltanto chi sa vivere solo sa anche vivere pienamente le relazioni. Di più: la relazione, per essere tale e non cadere nella fusione o nell’assorbimento, implica la solitudine. Solo chi non teme di scendere nella propria interiorità sa anche affrontare l’incontro con 1’alterità. Ed è significativo che molti dei disagi e delle malattie «moderne», che riguardano la soggettività, arrivino anche a inficiare la qualità della vita relazionale: per esempio, l’incapacità di interiorizzazione, di abitare la propria vita interiore, diviene anche incapacità di creare e vivere relazioni solide, profonde e durature con gli altri. Certo, non ogni solitudine è positiva: vi sono forme di fuga dagli altri che sono patologiche, vi è soprattutto quella «cattiva solitudine» che è l’isolamento, il quale implica la chiusura agli altri, il rigetto del desiderio degli altri, la paura dell’alterità. Ma tra isolamento, chiusura, mutismo, da un lato, e bisogno della presenza fisica degli altri, dissipazione nel continuo parlare, attivismo smodato, dall’altro, la solitudine è equilibrio e armonia, forza e saldezza.

Chi assume la solitudine è colui che mostra il coraggio di guardare in faccia se stesso, di riconoscere e accettare come proprio compito quello di «divenire se stesso»; è l’uomo umile che vede nella propria unicità il compito che lui e solo lui può realizzare. E non si sottrae a tale compito rifugiandosi nel «branco», nell’anonimato della folla, e neppure nella deriva solipsistica della chiusura in sé. Sì, la solitudine guida l’uomo alla conoscenza di sé, e gli richiede molto coraggio.

La solitudine allora è essenziale alla relazione, consente la verità della relazione e si comprende proprio all’interno della relazione. Capacità di solitudine e capacità di amore sono proporzionali. Forse, la solitudine è uno dei grandi segni dell’autenticità dell’amore. Scrive Simone Weil: «Preserva la tua solitudine. Se mai verrà il giorno in cui ti sarà dato un vero affetto, non ci sarà contrasto fra la solitudine interiore e l’amicizia; anzi, proprio da questo segno infallibile la riconoscerai».La solitudine è il crogiuolo dell’amore: le grandi realizzazioni umane e spirituali non possono non attraversare la solitudine. Anzi, proprio la solitudine diviene la beatitudine di chi la sa abitare. Facendo eco al medievale «beata solitudo, sola beatitudo», scrive MarieMadeleine Davy: «La solitudine è faticosa solo per coloro che non han sete della loro intimità e che, di conseguenza, l’ignorano; ma essa costituisce la felicità suprema per coloro che ne hanno gustato il sapore».

In verità, la solitudine, certamente temibile perché ci ricorda la solitudine radicale della morte, è sempre solitudo pluralis, è spazio di unificazione del proprio cuore e di comunione con gli altri, è assunzione dell’altro nella sua assenza, è purificazione delle relazioni che nel continuo commercio con la gente rischiano di divenire insignificanti. E per il cristiano è luogo di comunione con il Signore che gli ha chiesto di seguirlo là dove lui si è trovato: quanta parte della vita di Gesù si è svolta nella solitudine! Gesù che si ritira nel deserto dove conosce il combattimento con il Tentatore, Gesù che se ne va in luoghi in disparte a pregare, che cerca la solitudine per vivere l’intimità con 1’abba e per discernere la sua volontà. Certo, come Gesù, il cristiano deve riempire la sua solitudine con la preghiera, con la lotta spirituale, con il discernimento della volontà di Dio, con la ricerca del suo volto.

Commentando Giovanni 5,13 che dice: «L’uomo che era stato guarito non sapeva chi fosse [colui che l’aveva guarito]; Gesù infatti era scomparso tra la folla», Agostino scrive: «È difficile vedere Cristo in mezzo alla folla; ci è necessaria la solitudine. Nella solitudine, infatti, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa; per vedere Dio ti è necessario il silenzio». II Cristo in cui diciamo di credere e che diciamo di amare si fa presente a noi nello Spirito santo per inabitare in noi e per fare di noi la sua dimora. La solitudine è lo spazio che apprestiamo al discernimento di questa presenza in noi e alla celebrazione della liturgia del cuore.

Il Cristo poi, che ha vissuto la solitudine del tradimento dei discepoli, dell’allontanamento degli amici, del rigetto della sua gente, e perfino dell’abbandono di Dio, ci indica la via dell’assunzione anche delle solitudini subite, delle solitudini imposte, delle solitudini «negative». Colui che sulla croce ha vissuto la piena intimità con Dio conoscendo l’abbandono di Dio, ricorda al cristiano che la croce è mistero di solitudine e di comunione. Essa, infatti, è mistero di amore!

(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 181-184).


Lettera di Nichi Vendola a don Tonino Bello

«…Vedi, don Tonino, io sento nostalgia struggente della tua voce e della tua cosmogonia, perché ho l’impressione che le cose si siano fatte molto più complicate… Oggi vincono e convincono quelli che non hanno tempo per occuparsi di vittime, di poveri, di esuberi, di quelle “pietre di scarto” che nel Vangelo saranno “pietre angolari” dell’edificio della salvezza: quelli che girano lo sguardo da un’altra parte, quelli che fingono di non vedere l’orrore, quelli che sono gli eroi di cartapesta del nostro immaginario e della nostra etica pubblica. Oggi gli afflitti vengono ulteriormente afflitti e i consolati ulteriormente consolati…. La crisi del mondo scopre le proprie carte persino con uno sconosciuto vulcano islandese che risvegliandosi ed eruttando, con la sua nube premonitrice avvolge l’intera Europa. Non c’è varco che indichi l’intangibilità della vita: l’economia appiccica prezzi e toglie valore alle persone, la mercificazione non ha senso del limite, anche i bambini sono merce-lavoro esposti a qualsivoglia violazione, i vecchi sono de localizzati dalla finanza domestica a rottami o esiliati, le donne pagano a prezzo salatissimo la rivendicazione della propria libertà (cioè della propria dignità), torna la stagione degli acchiappafantasmi. Ognuno ha la propria ossessione, il proprio fantasma da esorcizzare.

La pace di Isaia, il disarmo dei pacifisti, il digiuno che purifica, l’astinenza dall’odio: dov’è tutto questo, carissimo don Tonino? Dov’è la Pasqua della responsabilità sociale e della convivialità culturale?

Anche la Chiesa spesso pare più vocata all’autodifesa che non all’annuncio. L’Annuncio, sì carissimo pastore, quello che tu hai saputo incarnare nella ferialità di un amore senza misura (charitas sine modo): amore capace di giudizio storico, capace di passione civile, capace di condivisione radicale… Tu sapevi essere la sentinella che annuncia l’alba.

Ti ho scritto questa lettera in tono apocalittico, perché tu mi hai insegnato che bisogna denunciare il male non per stimolare cinismo e rassegnazione, ma per allenare la coscienza alla ricerca del bene, del giusto, del bello».

(Lettera scritta da Nichi Vendola nella «Gazzetta del Mezzogiorno» (19 aprile 2010).

La sapienza dei Padri

Nella vita dei Padri del deserto, si narra di Bessarione, grande monaco vissuto nel secolo IV. Capitato in una chiesa durante la predica, gli toccò sentire il presbitero scacciare un peccatore, giudicato indegno di stare tra la gente per bene. Bessarione non mosse ciglio, si alzò con lui dicendo: “anch’io sono un peccatore”.


Preghiera

Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.

È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, seguendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.

Sono ancora così diviso! Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza. Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.

So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me. La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita. Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, azioni che siano le tue azioni. Non vi sono tempi o luoghi senza scelte. E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.

Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo. Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quando verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me. Amen.

(J.M. NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

– Giuseppe TURANI, Quaresima-Pasqua 2011. Cristo mia speranza è risorto!, in «Vita pastorale. Supplemento» (2011) 1, 113 pp.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, a cura di Enzo Bianchi et alt., Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

Il cardinale Robert Sarah: la situazione nei Paesi del Maghreb

Gli africani non ce la fanno più a sopportare di essere sottomessi.
Sottomessi da dittatori senza scrupoli, sottomessi dai Paesi ricchi, sottomessi dall’egoismo del mondo, sottomessi dai fondamentalismi religiosi.
Sono capaci di amare ma hanno bisogno di amore, di essere amati e non sfruttati, messi alla fame, colonizzati.
Per questo si ribellano.
Parla a voce bassa ma ferma il cardinale Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, analizzando la situazione esplosiva che in questi giorni sconvolge alcuni Paesi della “sua” Africa.
In questa intervista al nostro giornale il porporato – di ritorno da Haiti, dove ha portato la solidarietà di Benedetto XVI alle popolazioni colpite dal terremoto – rilancia l’appello del Papa a porre fine alla spirale di violenze causate dall’egoismo e dalle ingiustizie.
“La violenza – afferma il cardinale – non è mai accettabile, in nessuna condizione.
Tanto meno quando per salvare un solo uomo se ne uccidono così tanti, come sta accadendo in questi giorni in Libia”.
E ricorda ai capi delle nazioni che l’autorità e l’esercizio del potere devono essere un servizio al bene comune.
Cosa sta accadendo nel Maghreb?  Per me è un fatto sorprendente.
Non mi sarei mai aspettato che in Paesi in cui la religione maggioritaria è l’islam e la gente è abituata alla sottomissione, si verificassero rivolte di una tale gravità.
Evidentemente la pressione è stata forte, forse troppo.
L’uomo sopporta, ma ci sono limiti anche alla sopportazione.
Soprattutto quando ci si trova davanti a situazioni di ingiustizia come quelle che si sono rivelate nei Paesi del Maghreb.
Non so naturalmente quale sia l’origine vera dei fatti che stanno accadendo oggi.
Voglio sperare che finiscano presto le violenze.
La violenza non è mai accettabile, in nessuna condizione.
Tanto meno quando per salvare un solo uomo se ne uccidono così tanti, come sta accadendo in questi giorni in Libia.
Vorrei rilanciare l’appello del Papa affinchè finisca in ogni parte del mondo la logica dell’egoismo che genera tanto male.
Questo è anche il mio appello.
L’effetto domino di questa crisi può essere favorito dalle rivelazioni degli ingenti tesori che alcuni capi di Stato africani hanno accumulato all’estero mentre i loro popoli soffrono la fame? È chiaro che il popolo africano si ribella proprio nel vedere che i suoi capi si arricchiscono mentre loro sentono i morsi della fame e sono costretti a sopportare sempre maggiori sacrifici.
Di chi è la responsabilità? Certamente i Paesi ricchi sfruttano la loro capacità economico-finanziaria per comprare favori.
Dunque sbarcano nei Paesi africani, riempiono d’oro i capi di Stato che accettano di farsi corrompere e poi sfruttano le enormi ricchezze della terra.
Perché l’Africa è un continente ricco.
Non ha i mezzi per sfruttare la sua ricchezza e dunque non può farlo.
Chi detiene le leve del potere cede alle lusinghe dei nuovi colonizzatori e svende il suo popolo.
Le banche estere, i cosiddetti paradisi fiscali, sono ricolmi di ricchezze di africani senza scrupoli.
Dunque, forse tutta questa ribellione che sta esplodendo è dovuta a questo contrasto tra la ricchezza portata fuori dell’Africa e la povertà e la fame distribuite in Africa.
Sarebbe proprio impossibile che l’Africa sfruttasse per sé le proprie ricchezze? Assolutamente no.
Anzi, se l’Africa imparasse a scoprirsi continente, a capire l’importanza dello stare insieme, dell’essere uniti, farebbe la sua fortuna.
L’Europa questo lo ha capito e si è unita: cerca di collaborare per raggiungere scopi comuni.
Senza organizzazione non c’è futuro.
Ma esiste l’Unione africana.
Solo sulla carta.
In realtà ogni Paese segue le indicazione che gli vengono dall’estero, dai Paesi che occultamente o meno li controllano.
Sta dicendo che l’Africa è ancora oggi colonizzata? Di fatto credo di sì.
Purtroppo è un continente con un’economia molto debole e dipendente dall’estero, manca di tecnologie adeguate e di strutture di supporto.
Non voglio assolvere gli africani dalle loro responsabilità; ma resta il fatto che tante nazioni potenti poggiano la loro mano pesante sull’Africa e la schiacciano.
Si pensi per esempio a quanto è capitato in Angola.
Anni e anni di guerre fratricide, tanta miseria.
Poi è affiorato il petrolio, si sono scoperte miniere di diamanti.
Ma la ricchezza che ne è derivata non è stata per il popolo angolano, che ha continuato e continua a soffrire la fame.
Altri hanno sfruttato e sfruttano la loro ricchezza.
Lo stesso nella Repubblica Democratica del Congo.
Questo è il dramma.
E tutto a causa dell’egoismo di pochi.
Come fare per fermare questo circolo di egoismo per cui chi non ha nulla avrà sempre meno e chi possiede potere e ricchezze avrà sempre di più? Forse può sembrare scontato che un cardinale risponda dicendo: bisogna dare maggiore diffusione al messaggio evangelico.
Oltre alla Parola del Signore porto con me una grande esperienza maturata in quella terra meravigliosa che è appunto l’Africa.
La gente africana ha bisogno di conoscere il Vangelo dell’amore.
Il Vangelo è amore.
Amore di Dio verso l’uomo.
Il Vangelo è la vicinanza di Dio nei confronti dell’uomo; è la misericordia di Dio verso l’uomo.
È la fonte della fratellanza umana.
Senza la presenza di Dio nel mondo ci sarà sempre uno spazio crescente per l’egoismo.
La Chiesa ha un ruolo molto importante da svolgere.
Anche se il suo messaggio è rifiutato, essa deve continuare con coraggio e con pazienza a evangelizzare.
Solo il Vangelo potrà cambiare il cuore dell’uomo e dunque la società.
Per questo nel presentare alla stampa il messaggio del Papa per la Quaresima ha rivolto un appello ai media affinchè facciano conoscere la missione della Chiesa nel mondo? Non credo di essere molto lontano dal vero se affermo che accendendo radio e televisori o sfogliando giornali si sentono o si leggono solo brutte notizie: catastrofi, uccisioni, violenze.
Perché le cose buone non fanno mai notizia? Forse perché potrebbero contribuire realmente a far crescere umanamente e spiritualmente l’uomo e la società.
Dobbiamo far conoscere che esistono nel mondo suore che sacrificano la loro vita per aiutare i più poveri, i derelitti, i moribondi; missionari che vanno nei luoghi più sperduti della terra, ovunque ci sia un uomo da aiutare, da soccorrere, da difendere con le armi del Vangelo.
Vivono con i poveri per dare loro più dignità.
Questo volevo dire ai giornalisti.
C’è del bene nel mondo.
C’è tanto bene all’interno della Chiesa.
Ci sono tanti uomini di Chiesa che fanno veramente tanto del bene.
Però si parla solo degli sbagli di alcuni di loro, di ciò che fa scandalo.
È giusto che si sappia, anche per poter riparare.
Ma non è giusto che passi solo questa immagine falsa della Chiesa.
 Ha rivolto anche una sorta di appello alla responsabilità della comunità internazionale nella lotta alla corruzione e all’ingiustizia nei singoli Paesi e nel mondo.
A cosa si riferiva? Mi sembra che sia importante sottolineare con insistenza che l’autorità, il potere, sono un servizio per promuovere il bene comune.
E su questa strada principalmente si deve muovere ogni buona azione di governo.
Le istituzioni internazionali dovrebbero appoggiare la promulgazione di leggi economiche e commerciali che non favoriscano solo la politica dei più ricchi, dei più potenti.
Così facendo si creano più povertà, più instabilità sociale, più violenza, più guerre.
L’interdipendenza di oggi richiede la collaborazione di tutti per porre fine a queste strutture di ingiustizia Quello che sta accadendo oggi in tante parti del mondo è proprio il frutto dell’ingiustizia che regna.
La povera gente comincia a ribellarsi a questi sistemi economici, finanziari e commerciali che alimentano i ricchi e affamano i poveri.
Rimedi possibili? Certo, c’ è un lavoro molto lungo da fare; ma se mai si comincia, mai se ne viene a capo.
Quale può essere in questo senso il ruolo dell’Onu? Credo che i potenti siano veramente potenti e tanto più potenti dell’Onu stesso.
Cosa può fare l’Onu davanti ai poteri forti, che lo condizionano e lo guidano? Io credo che ci sarebbe bisogno di una rivoluzione – pacifica s’intende – all’interno dell’Onu stesso.
I piccoli Paesi, quelli che contano di meno perché più poveri, ma che sono comunque la maggioranza, dovrebbero cercare di farsi rispettare di più, di imporre la propria presenza, di imporre la propria dignità.
Dovrebbero far capire che è il momento di mettere la parola fine a tutte le forme di ingiustizia internazionale, che purtroppo, si manifesta anche all’interno dell’Onu.
Come si possono contrastare le strutture d’ingiustizia? È una cosa molto difficile da realizzare.
Io credo che la strada principale da percorrere, se non l’unica, sia quella della formazione dell’uomo, o meglio, della formazione del cuore dell’uomo.
Solo con un cuore rinnovato, aperto allo Spirito, si può superare l’ingiustizia del mondo.
Se manca la presenza di Dio nel cuore dell’uomo, tutto il male è possibile.
Dunque è possibile anche che i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Noi puntiamo molto sulla formazione perché quando l’uomo avrà nel suo cuore l’occhio di Dio, riuscirà anche a vedere il bisogno del suo fratello.
A Cz?stochowa, con i responsabili diocesani della carità di tutta l’Europa, abbiamo proprio cercato di far capire l’importanza della formazione del cuore, del far riscoprire a tutti la presenza dell’occhio di Dio nel nostro cuore.
Quando portate la solidarietà della Chiesa nei Paesi disastrati, la gente percepisce questa presenza? Direi proprio di sì.
Del resto è questa la nostra missione.
Non si può pensare di portare solo cose materiali.
Bisogna dare a questa gente la forza di andare avanti.
Recentemente ad Haiti ho potuto maturare un’esperienza meravigliosa.
Lì c’è gente che non solo ha sofferto per il terremoto, ma continua a soffrire ancora oggi per tante situazioni sociali: non c’è un governo stabile, c’è tanta corruzione, manca assolutamente il concetto della dignità umana perché dove c’è tanta povertà spesso non c’è neppure dignità.
Ho visto un popolo che ha confidenza con la sofferenza ma che è aperto alla speranza, perché è un popolo credente e prega molto.
Ma ho anche visto tanta, tantissima gente che si è rimboccata le maniche e affianca il popolo haitiano nella difficile opera di ricostruzione, materiale e morale.
Sono i volontari delle organizzazioni cattoliche che si sono precipitati lì appena apprese le prime drammatiche notizie.
E sono ancora lì.
Non li abbandonano.
Questa è una bella testimonianza della prossimità di Dio ai poveri.
Questo stanno dando i nostri tra le macerie di Haiti.
Ha verificato lo stesso impegno durante la sua recente partecipazione in Africa alla riunione della Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel? Sì, anche se la situazione lì è diversa e non si tratta di interventi momentanei.
Ci sarebbe bisogno di spingere gli altri Paesi africani alla solidarietà con le nazioni del Sahel.
Sono rimasto molto impressionato dal fatto che tanti Paesi africani, come il Senegal, il Benin e altri, hanno aiutato Haiti.
È bello vedere i poveri che aiutano i poveri.
È una manifestazione della presenza di Dio che suscita la sua generosità nel cuore dei poveri.
L’auspicio è che questa stessa solidarietà si trasmetta a tutta l’Africa.
Un messaggio, questo, che porterà in Burundi nel corso della sua prossima visita? Certamente.
Ma direi di più, perché in Burundi andiamo a inaugurare una scuola dedicata a Benedetto XVI.
Questo nostro dono vuole essere il segno di quanto sia importante per noi proprio la formazione dell’uomo.
Un uomo nuovo, nuovo nel cuore, può essere un segno di speranza per il futuro dell’Africa.
(©L’Osservatore Romano – 26 febbraio 2011)

VI Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Preghiere e racconti “Scegli la vita” «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, / la benedizione e la maledizione; / scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza…» (Dt 30,19).
«Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, / non indugia nella via dei peccatori…» (Sal 1,1).
La strada della morte che il primo Salmo ci chiede di non imboccare la stiamo percorrendo, tutti quanti.
La morte è diventata il pastore che seguiamo docilmente fino al suicidio universale che essa ci ha convinto a preparare con le nostre mani.
E perché la sua opera sia perfetta, ci rende ciechi a quanto con esse costruiamo.
La strada della morte si riassume in poche cifre: due miliardi di uomini affamati sul pianeta, centinaia di milioni di uomini asserviti a regimi politici assassini, negatori di tutti i valori ai quali fingiamo di credere, alcune centinaia di milioni di vittime assassinate dalle guerre e dai conflitti dell’ultimo secolo.
La strada della vita si apre di fronte a noi, ma noi voltiamo la testa, rifiutandoci non solo di imboccarla, ma anche di prendere coscienza della sua esistenza.
Di fronte ai pericoli del nostro tempo, la strada della vita apre all’uomo possibilità sino a ieri inimmaginabili di progresso della conoscenza, di approfondimento, libertà, liberazione e salvezza.
Quest’ordine ha cessato di essere un pio desiderio, per diventare la condizione certa della sopravvivenza dei mondi.
Ciò determina la necessità di un risveglio spirituale che ci renda attenti alle realtà create dalla nostra scelta e dalla nostra speranza (…).
Nella lotta contro la bestia che cova in ogni uomo, la Bibbia, i Vangeli e il Corano, come i Veda dell’India o i testi che celebrano le Quattro Nobili Verità del buddhismo, levano per i credenti le loro armi spirituali di fronte agli strumenti di violenza e di morte della bestia.
Fin dalla nascita, ci troviamo di fronte a un mondo che non ammette l’indifferenza.
Recitate il Decalogo in ebraico, in greco, in arabo o nelle 2170 lingue in cui le dieci Parole sono attualmente tradotte: incontrerete un mondo che richiede di fare una scelta fra la luce e le tenebre, fra la vita e la morte.
Esistono infatti due vie e noi ne siamo avvisati: il mondo è diviso in due.
Si impone quindi una scelta, che costituisce la necessità e il rischio di tale scissione.
Quest’ultima esprime una realtà evidente: le tenebre e la luce si spartiscono l’universalità fisica e spirituale del reale.
Rileggiamo il Decalogo.
Ognuna delle Dieci parole descrive il mondo della luce e dell’unità, dell’amore e della vita, opposto a quello della divisione, dell’idolatria, dell’assassinio, dell’adulterio, del furto, della menzogna e della bramosia, governati dalle tenebre e dalla morte.
Mosè, insieme con Gesù e Muhammad, ci ordina: «Scegli dunque la vita, perché tu viva».
(A.
Chouraqui, I Dieci Comandamenti).
Arik e la Torah Arik mi ha indicato un alberello aggrappato a un palo di sostegno.
«Vedi, in noi – come negli alberi – c’è un naturale desiderio di salire, di innalzarci.
Magari è sepolto sotto chili di scorie, ma esiste.
È una sorta di nostalgia che dimora nella parte più profonda di ogni uomo.
La vita però è complessa e piena di contrasti e noi, abbandonandoci unicamente al giudizio della nostra mente, rischiamo di sbagliare direzione, di venir abbagliati da qualche finto sole.
Per questo esiste la Torah, è come il tutore di quel giovane albero, ci aiuta a salire dritti, ad andare incontro al cielo senza farci spezzare dalle tempeste di vento.» (Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 192-193).
  Invito alla preghiera G Come può un giovane conservare pura la vita? Mettendo in pratica le tue parole.
  T Ti cerco con tutto il cuore: fa’ che non mi allontani dai tuoi comandamenti.
G Conservo nel mio cuore le tue istruzioni e non sarò colpevole verso di te.
  T  Ti rendo grazie, Signore, perché mi insegni le tue leggi.
  G  Le mie labbra vanno ripetendo tutte le decisioni che hai preso.
  T  Seguire i tuoi precetti mi dà gioia come avere un’immensa ricchezza.
  G  Voglio meditare i tuoi decreti, non perdo mai di vista le tue vie.
  T  Le tue leggi mi rendono felice, non dimenticherò le tue parole.
  G  Dona a me, tuo servo, la vita: metterò in pratica le tue parole.
  T  Aprimi gli occhi e contemplerò i frutti stupendi della  tua legge.
(dal Salmo 119)         * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.
– E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.
– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa.
Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
      VI DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Siracide 15,16-21        Se vuoi osservare i suoi comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui, anche tu vivrai.
Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano.
Davanti agli uomini stanno la vita e la morte, il bene e il male: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà.
Grande infatti è la sapienza del Signore; forte e potente, egli vede ogni cosa.
I suoi occhi sono su coloro che lo temono, egli conosce ogni opera degli uomini.
A nessuno ha comandato di essere empio e a nessuno ha dato il permesso di peccare.
             v «Se vedi una persona saggia, va’ presto da lei; il tuo piede consumi i gradini della sua porta» (Sir 6,36).
Questa frase avrebbe potuto essere scritta all’entrata della scuola che, fra la fine del III e l’inizio del II secolo a.
C., Ben Sira (il Siracide) aveva aperto a Gerusalemme.
Ai giovani discepoli che seguivano le sue lezioni e che, d’altra parte, si sentivano anche attratti dalle proposte seducenti del mondo ellenistico ed erano affascinati dalle lusinghe della vita pagana, egli indicava il cammino della vita, insegnava la Toràh, la sapienza di Dio.
     Era anche un poeta, Ben Sira.
La Toràh era per lui «come un cedro del libano, come un cipresso sui monti dell’Ermon, come una palma in Engaddi, deliziosa come le rose di Geri- co»; ne assaporava il profumo, «come di cinnamomo e balsamo, come mirra scelta»; vedeva la sapienza uscire dai suoi rotoli e traboccare «come il Giordano nei giorni della mietitura» (Sir 24,13-24).
     Incantato dalla bellezza della legge di Dio, trasmetteva la sua passione agli alunni.
Insegnava loro: «Davanti a ogni uomo stanno la vita e la morte, il fuoco e l’acqua»; ognuno deve scegliere, è libero e responsabile delle proprie azioni, può costruire o rovinare la propria esistenza.
Se prende decisioni insensate la colpa non è di Dio che ha fatto bene ogni cosa, ma soltanto sua.
     Non v’è alcuna costrizione interiore a peccare.
L’uomo può dominare i propri istinti (Sir 21,11), può controllare i propri desideri e le proprie passioni (Sir 20,30).
Se compie il male, se devia dai sentieri tracciati dalla Toràh attira su di sé sventure e disgrazie (Sir 40,10), se invece segue i cammini indicati dal Signore avrà vita e benedizione.
     Così si esprimeva Ben Sira, il vecchio saggio, desideroso di orientare i suoi figli e i suoi discepoli sulla via tracciata dalla Legge di Dio.
  Seconda lettura: 1Corinzi 2,6-10        Fratelli, tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla.
Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria.
Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria.
Ma, come sta scritto: «Quelle cose che occ

V Domenica del Tempo Ordinario Anno A

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 58,7-10        Così dice il Signore: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto.
Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà.
Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”.
Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio»         v La pratica del digiuno è conosciuta presso tutti i popoli.
Fin dai tempi più remoti si digiunava quando ci si trovava in situazioni di pericolo o si era colpiti da sventure, quando la grandine o le cavallette distruggevano i raccolti, quando le piogge tardavano.
Questo sacrificio volontario aveva lo scopo di commuovere Dio, placarlo, convincerlo a porre fine ai suoi castighi.
Durante i giorni di digiuno si indossavano abiti sdruciti, ci si cospargeva il capo di polvere e cenere, si rinunciava ai rapporti sessuali, non si faceva il bagno, si andava scalzi, si dormiva per terra.
     La lettura di oggi va collocata nel contesto di uno di questi momenti di digiuno.
Siamo nel V secolo a.
C., il tempo del post-esilio.
Il popolo è tornato da Babilonia, ma le promesse fatte dai profeti tardano a realizzarsi.
Invece della sospirata comunità pacifica si è instaurata una società dominata da arrivisti e profittatori.
Ovunque ci sono violenze, angherie, di-scordie.
Per convincere Dio a intervenire e porre rimedio alla situazione, si indice un digiuno nazionale, rigoroso, severo.
     Nulla cambia, tutto continua come prima e in molti si insinua il sospetto che la pratica del digiuno sia inefficace.
     Ci si chiede: perché digiunare se il Signore non ascolta ed è come se non ci fossimo sottoposti a mortificazioni e rinunce? (Is 58.3).
     La lettura di oggi dà una risposta a questo interrogativo.
La colpa del mancato cambiamento – spiega il profeta – non è del Signore, ma del modo errato di praticare il digiuno, ridotto a una sterile autopunizione, a una dolorosa penitenza.
Questo digiuno non ottiene alcun risultato perché sottopone, sì, il corpo a privazioni, ma non cambia il cuore.
     Il vero digiuno, quello che produce effetti prodigiosi, consiste nel condividere il proprio pane con chi ha fame, nell’ospitare in casa i miseri senza tetto, nel dare un vestito a chi è nudo, nel non distogliere gli occhi da chi, uomo come noi – nostra stessa carne, anche se diverso è il colore della sua pelle e sono differenti la cultura e la religione – vive al nostro fianco in condizioni disumane (v.
7).
     Questo comportamento nuovo ottiene miracoli: in breve tempo cura le ferite della società, risolve le situazioni di disagio, crea rapporti fraterni e fa nascere una comunità in cui splendono la giustizia e la gloria di Dio (v.
8).
     Nella seconda parte della lettura (vv.
9-10) viene indicata un’altra caratteristica del vero digiuno: l’impegno a togliere di mezzo ogni forma di oppressione, il puntare il dito e il parlare arrogante.
Non basta fare la carità e l’elemosina, è necessario porre fine a tutti gli atteggiamenti di ambiziosa superiorità che causano umiliazioni, ingiustizie, discrimina-zioni.
     Dopo questo nuovo chiarimento, il profeta riprende, con insistenza quasi eccessiva, il tema della condivisione del pane.
Vuole che il popolo assimili l’interesse, la premura, la sollecitudine di Dio nei confronti di chi ha fame.
     La conclusione della lettura introduce il tema della luce che verrà ripreso nel vangelo: se praticherai questa nuova giustizia «brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio».
     Gli israeliti si ritenevano luce del mondo per la loro devozione a Dio, per la pratica religiosa impeccabile: solenni liturgie, canti e preghiere, sacrifici e olocausti.
Non era questo il culto gradito al Signore; non erano queste le opere che avrebbero fatto diventare Israele luce del mondo, ma la pratica della giustizia e dell’amore all’uomo.
  Seconda lettura: 1Corinzi 2,1-5        Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza.
Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso.
Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione.
La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.
       v I cristiani di Corinto – lo abbiamo sottolineato domenica scorsa – non appartenevano alle classi sociali elevate, erano tutti di umili origini, gente che non contava nella società (1Cor 1,26).
Questo fatto è interpretato da Paolo come un segno della preferenza di Dio per le persone disprezzate e senza meriti.
     La sua scelta non va però intesa come un rovesciamento classista (sarebbe una nuova discriminazione), ma come logica conseguenza dell’amore di Dio: egli non ama chi può vantare dei meriti, ma chi ha bisogno del suo amore.
     Nel brano di oggi l’Apostolo riprende e sviluppa questo tema ponendo a confronto la sapienza umana e la potenza di Dio e porta l’esempio concreto della sua persona.
     Comincia con un richiamo alla sua predicazione (vv.
1-2).
Non si è presentato a Corinto per insegnare una nuova dottrina.
Se lo avesse fatto, avrebbe avuto bisogno di possedere la «eccellenza della parola o della sapienza».
In Grecia era apprezzata la sapienza, la capacità – come diceva Platone – di «indagare il vero in quanto vero; sollecitudine dell’anima sostenuta dalla retta ragione».
Ogni discorso privo del supporto della dimostrazione razionale e delle risorse prestigiose del pensiero dei filosofi era deriso e ritenuto frutto di ignoranza, di creduloneria, di religiosità ingenua.
     In questo contesto culturale Paolo ha annunciato un messaggio umanamente assurdo: ha chiesto di credere alla proposta di vita fatta da un uomo giustiziato.
Non fu solo il contenuto della sua predicazione a essere scandaloso.
Era la sua stessa persona — debole, timorosa, incapace di parlare – a essere la meno indicata a portare avanti con successo una così grande missione (vv.
3-5).
Al riguardo circolava fra i corinzi una battuta che aveva provocato la reazione risentita dell’Apostolo: «Le sue lettere – si diceva – sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la sua capacità di fare discorsi è modesta» (2Cor 10,10).
Della sua scarsa abilità oratoria, Paolo era cosciente; ne aveva avuto una dimostrazione ad Atene quando aveva tentato, senza successo, di convincere gli ascoltatori ricorrendo al linguaggio sublime dei filosofi (At 17,16-34) e un anno dopo, a Troade, ne ebbe la riconferma: durante la sua predica un giovane si era addormentato ed era caduto dalla finestra (At 20,9).
     Malgrado questa mancanza di supporti umani, il vangelo aveva avuto una notevole diffusione a Corinto.
Come mai?, viene da chiedersi.
Perché – spiega Paolo – la parola di Dio è forte per se stessa e la sua penetrazione nel cuore degli uomini non dipende dai mezzi umani, ma dalla «manifestazione dello spirito e della sua potenza».
L’Apostolo non si riferisce ai prodigi, ai miracoli che avrebbero convinto i corinzi ad accogliere il vangelo, ma al frutto dello spirito: la forma di vita nuova che, pur in mezzo a miserie e debolezze umane, era stata adottata da molti membri della comunità.
  Vangelo: Matteo 5,13-16        In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.
Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa.
Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».
    Esegesi        Per definire i discepoli e la loro missione, nel vangelo di oggi Gesù impiega una serie di immagini.
Li indica anzitutto come il sale della terra (v.
13).
     I rabbini d’Israele erano soliti ripetere: «La Toràh – la Legge santa data da Dio al suo popolo – è come il sale e il mondo non può stare senza sale».
Facendo propria questa immagine e applicandola ai discepoli, Gesù sa di usare un’espressione che può suonare provocatoria.
Non smentisce la convinzione del suo popolo che ritiene le sacre Scritture «sale della terra», ma afferma che anche i suoi discepoli lo sono, se assimilano la sua parola e si lasciano guidare dalla sapienza delle sue beatitudini.
                                      Sono molte le funzioni del sale e probabilmente Gesù intende riferirsi a tutte.
La prima e più immediata è quella di dare sapore ai cibi.
Fin dai tempi antichi il sale è diventato per questo il simbolo della «sapienza».
Anche oggi si dice che una persona ha «sale in testa» quando parla in modo saggio oppure che una conversazione è «senza sale», quando e noiosa, priva di contenuto.
Paolo conosce questo simbolismo, infatti, ai colossesi raccomanda: «La vostra conversazione sia sempre gradevole, condita con sale» (Col 4,6).
     Intesa così, l’immagine indica che i discepoli devono diffondere nel mondo una saggezza capace di dare sapore e significato alla vita Senza la sapienza del vangelo che senso avrebbero la vita, e gioie e i dolori, i sorrisi e le lacrime, le teste e i lutti? Quali sogni e quali speranze potrebbe alimentare l’uomo su questa terra? Difficilmente andrebbe oltre quelli suggeriti dal Qoelet: «È meglio mangiare, bere e godere dei beni nei pochi giorni di vita che Dio dà: è questa la sorte dell’uomo» (Qo 5,17).                           Chi è imbevuto del pensiero di Cristo assapora invece altre gioie, introduce nel mondo esperienze di felicità nuove e ineffabile, offre agli uomini la possibilit

VI Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Preghiere e racconti   Il pericolo di diventare ricchi in spirito «Secondo i Padri della Chiesa, le beatitudini riguardano innanzitutto Gesù che “si fece povero, riducendosi alla condizione di servo” (Basilio, Sul salmo 33,5), che si mostrò mite, pacifico e che fu perseguitato (cf.
Origene, Su Luca 38,1-2).
Ma va anche osservato che per i Padri “povero in spirito” non designa solo la povertà materiale, ma l’atteggiamento di chi non pensa di salvarsi da sé stesso, ma resta in attesa e confida nel Signore.
“Non ogni povertà è beata, perché spesso è dovuta alla necessità degli eventi, o è provocata  da una vita malvagia”, afferma Cromazio (Discorsi, 41,2).
Il discepolo di Gesù si fa “a motivo del Signore”, o “accetta la povertà qualunque ne sia l’origine” (Basilio, Regole brevi 205), nell’amore e nella fiducia nel Signore.
La prima dimensione della povertà in spirito è quella creaturale: nulla ci appartiene, tutto è dono; io non sono mio, sono un dono a me stesso, dono che il Padre mi ha fatto attraverso umane mediazioni e che devo custodire.
Povertà in spirito è fidarsi di colui che mi ha pensato, voluto, creato, inviato in questo mondo perché con la mia vita diventassi narrazione del suo amore per gli uomini.
C’è anche un’altra ricchezza che si oppone alla povertà in spirito, quella dell’uomo religioso, di chi si sente giusto, forte delle proprie opere buone.
“È ricco in spirito chi ha un’elevata concezione di sé, chi è arrogante e non adempie il precetto di Cristo” (Pseudo-Crisostomo, Opera incompleta su Mt 9,1).
Il povero non ha nulla, non le ricchezze, ma neppure le proprie virtù, le opere buone.
È povero anche dei suoi peccati, della parte negativa di sé; tutto questo lo ha consegnato al Signore perché nella sua misericordia lo perdoni e lo trasfiguri.
Per Gregorio di Nissa l’umiltà è l’asse dinamico della povertà evangelica: così i poveri sono beati perché conformi al Cristo povero, loro fratello e loro Signore».
(Enzo Bianchi).      Beati voi! «Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini.
“Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri.
Beati voi!”.
E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità.
Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio.
Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita.
Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.
“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana.
È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio.
Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore.
Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo.
(…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente.
E la santità non è questione di età.
La santità è vivere nello Spirito Santo”.
Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza.
Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”».
(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).
  Le beatitudini nella Bibbia d’Israele Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali.
È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città.
Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono.
Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati.
Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo.
La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza.
A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità.
E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.
Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili.
Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana.
Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.
Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).
Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.
(A.
MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato 1992,542s.).
  La felicità delle beatitudini Le beatitudini indicano il cammino della felicità.
E, tuttavia, il loro messaggio suscita spesso perplessità.
Gli Atti degli apostoli (20,35) riferiscono una frase di Gesù che non si trova nei vangeli.
Agli anziani di Efeso Paolo raccomanda di «ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”».
Da ciò si deve concludere che l’abnegazione sarebbe il segreto della felicità? Quando Gesù evoca ‘la felicità del dare’, parla in base a ciò che lui stesso fa.
È proprio questa gioia – questa felicità sentita con esultanza – che Cristo offre di sperimentare a quelli che lo seguono.
Il segreto della felicità dell’uomo sta dunque nel prender parte alla gioia di Dio.
È associandosi alla sua ‘misericordia’, dando senza nulla aspettarsi in cambio, dimenticando se stessi, fino a perdersi, che si viene associati alla ‘gioia del cielo’.
L’uomo non ‘trova se stesso’ se non perdendosi ‘per causa di Cristo’.
Questo dono senza ritorno è la chiave di tutte le beatitudini.
Cristo le vive in pienezza per consentirci di viverle a nostra volta e di ricevere da esse la felicità.
Resta tuttavia il fatto, per chi ascolta queste beatitudini, che deve fare i conti con una esitazione: quale felicità reale, concreta, tangibile viene offerta? Già gli apostoli chiedevano a Gesù: «E noi che abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che ricompensa avremo?» (Mt 19,27).
Il regno dei cieli, la terra promessa, la consolazione, la pienezza della giustizia, la misericordia, vedere Dio, essere figli di Dio.
In tutti questi doni promessi, e che costituiscono la nostra felicità, brilla una luce abbagliante, quella di Cristo risorto, nel quale risusciteremo.
Se già fin d’ora, infatti, siamo figli di Dio, ciò che saremo non è stato ancora manifestato.
Sappiamo che quando questa manifestazione avverrà, noi saremo simili a lui «perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2).
(J.-M.
LUSTIGER, Siate felici, Marietti, Genova, 1998, 111-117).
  Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Sono indicati come poveri di spirito gli umili e quelli che temono Dio, cioè che non hanno uno spirito borioso.
E non conveniva che la beatitudine cominciasse da altro dal momento che deve giungere alla somma sapienza.
«Inizio della sapienza, infatti, è il timore del Signore» (Sir 1,12); al contrario, «inizio di ogni peccato è la superbia» (Sir 10,12).
I superbi dunque desiderino e amino pure i regni della terra, ma «beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt5,3).
«Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,5), quella terra, credo, della quale si dice nei salmi: «Sei tu la mia speranza, la mia porzione nella terra dei viventi» (Sal 141[142],6).
[…] Sono miti, dunque, coloro che non cedono alla cattiveria e non oppongono resistenza al male, ma vincono il male con il bene (cfr.
Rm 12,21).
Litighino dunque quanti non sono miti e lottino per i beni della terra, per i beni di questo mondo, ma «beati i miti perché avranno in eredità la terra», quella da cui non possono essere scacciati.
«Beati coloro che piangono, perché saranno consolati» (Mt 5,4).
Il pianto è la tristezza per la perdita dei cari…
Saranno consolati dallo Spirito santo che soprattutto per questo è detto Paraclito, cioè consolatore, perché a quelli che perdono la gioia in questo mondo dona quella eterna.
«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6).
Di costoro si dice che amano il bene vero e incrollabile.
Saranno dunque saziati di quel cibo, di cui il Signore stesso dice: «Mio cibo è fare la volontà del Padre mio» (Gv 4,34); è questa la giustizia.
Essa è quell’acqua di cui chiunque berrà, come egli stesso dice, «scaturirà in lui una sorgente che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14).
«Beati i misericordiosi, perché di loro si avrà misericordia» (Mt 5,7).
Dice beati quelli che vengono in aiuto ai miseri, perché in cambio saranno liberati dalla miseria.
«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8).
Sono dunque sciocchi quelli che cercano Dio con gli occhi del corpo, poiché è con il cuore che lo si vede, come è scritto in un altro passo: «Cercatelo nella semplicità del cuore» (Sap 1,1).
Un cuore puro è un cuore semplice.
E come la luce del giorno si può vedere soltanto con gli occhi puri, così anche Dio non lo si vede se non è puro il cuore con il quale lo si vede.
«Beati gli operatori di pace, perché saranno considerati figli di Dio» (Mt 5,9).
Nella pace vi è la perfezione, in essa non vi sono contrasti, perciò gli operatori di pace sono figli di Dio, perché in essi nulla si oppone a Dio e i figli devono mantenere la somiglianza con il Padre.
E continua: «Beati coloro che soffrono persecuzione a causa della giustizia, perché di essi è il regno deicidi» (Mt 5,10).
Sono in tutto otto beatitudini […].
L’ottava ritorna, in certo senso, alla prima, perché mostra che essa è stata compiuta e realizzata.
Difatti nella prima e nell’ottava è stato nominato il regno dei cieli: «Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli»; e «Beati coloro che soffrono persecuzioni a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».
Dice infatti la Scrittura: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Rm 8,35).
(AGOSTINO DI IPPONA, Il Discorso del Signore sul monte, 1-3, Opere di sant’Agostino, parte I/X/2, pp.
84-90).
  Essere felici donandosi «E’ bene dare quando si è richiesti, ma è meglio dare quando, pur essendo non richiesti, comprendiamo i bisogni degli altri.
E per chi è generoso, il cercare uno che riceva è gioia più grande che non il dare.
E c’ è forse qualcosa che vorresti trattenere? Tutto ciò che hai un giorno o l’altro sarà dato via.
Perciò dà adesso, sì che la stagione del dare sia la tua, non quella dei tuoi eredi».  (G.
Kahlil Gibran).
  Preghiera   Signore Gesù Cristo, custodisci questi giovani nel tuo amore.
Fa’ che odano la tua voce e credano a ciò che tu dici, poiché tu solo hai parole di vita eterna.
Insegna loro come professare la propria fede, come donare il proprio amore, come comunicare la propria speranza agli altri.
Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo, in un mondo che ha tanto bisogno della tua grazia che salva.
Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini, perché siano sale della terra e luce del mondo all’inizio del terzo millennio cristiano.
Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida questi giovani uomini e giovani donne del ventunesimo secolo.
Tienili tutti stretti al tuo materno cuore.
Amen.
(Preghiera di Giovanni Paolo II, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).
        * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.
– E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.
– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa.
Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
                IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Sofonia 2,3; 3,12-13          Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini, cercate la giustizia, cercate l’umiltà; forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore.
«Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero».
Confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele.
Non commetteranno più iniquità e non proferiranno menzogna; non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta.
Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti.
    v Queste parole del profeta Sofonia nascono da un medesimo contesto: un lungo periodo di dominazione straniera, quella assira, che aveva introdotto in Israele culti idolatrici, che legittimavano l’ingiustizia e l’immoralità.
Per tre volte il popolo è invitato ora a mettersi alla ricerca di Dio.
Non si tratta solo di andare a pregare nel tempio del vero Dio, ma di cercarlo nella vita concreta di ogni giorno, con una condotta conforme alla legge divina, che porti la giustizia nella società umana.
L’invito a cercare l’umiltà significa farsi piccoli davanti a Dio, riconoscendo la propria indigenza.
     L’essere piccolo è un atteggiamento che si rivelerà decisivo nel momento del giudizio.
Tutti coloro che si credono Dio, i superbi e i vanagloriosi, non reggeranno in quel giorno.
Resterà solo il nuovo popolo di coloro che confideranno nel nome del Signore, che non sarà più un resto disprezzato dagli altri popoli, perché il Signore sarà con loro.
Al centro del mondo nascerà un popolo che ha rinunciato alla violenza, all’oppressione, all’ingiustizia.
In quel popolo non esisterà più la miseria, la fame, la guerra o il terrore: «Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti».
  Seconda lettura: 1Corinzi 1,26-31          Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili.  Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio.  Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore.
    v Paolo invita a giudicare la realtà — e qui in concreto la realtà della comunità di Corinto — con gli occhi di Dio, per il quale quello che è debolezza è potenza, quello che stoltezza è sapienza.
Realisticamente i saggi, i potenti e i ricchi hanno in mano le sorti del mondo.
Con gli occhi della nostra ragione li vedremmo tra i primi ad essere scelti da Dio.
Dio invece sceglie come suoi strumenti i deboli, i piccoli e i disprezzati.
Non è Dio che si deve adattare alla mentalità dell’uomo, ma è l’uomo che si deve adattare alla misura di Dio.
     Nella comunità di Corinto c’erano anche sapienti, nobili e ricchi, ma il sapere, la nobiltà e la ricchezza non definivano il cristiano.
Anzi dal punto di vista umano la comunità di Corinto non poteva vantare storia passata: era un nulla.
È stato Dio a mettere insieme uomini e donne molto diversi tra loro, inserendoli nella comunione di Cristo.
Il cristiano, cosciente della propria debolezza, non si vanterà delle proprie forze, dei propri criteri di giudizio, ma di tutto ciò che viene dal Signore, che lo fa rivivere in un modo nuovo.
È esclusa perciò qualsiasi vanagloria.
  Vangelo: Matteo 5,1-12a            In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli.
Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
    Esegesi   Il brano del vangelo di oggi è tratto dal «Discorso della montagna» (Mt 5-7), in cui l’evangelista Matteo raccoglie come in un programma vari discorsi di Gesù.
Non è la prima parola che ascoltavano i cristiani della chiesa primitiva.
Prima avevano già accolto nel cuore la fede attraverso un primo annuncio di Cristo morto e risorto.
Già sperimentavano la forza dello Spirito Santo.
A questi fratelli la chiesa proponeva quindi un’ulteriore catechesi presentando l’icona dell’uomo nuovo.
Ecco, si diceva, quello che diventerete se vi lasciate trasformare dalla forza dello Spirito del Signore che è in voi.
     Il discorso, o catechesi, incomincia con l’espressione «Beati», come la prima parola del Sal 1, con cui inizia il Salterio.
Nel Sal 1 è proclamato beato chi ascolta e accoglie nel cuore, meditandola, la legge di Dio, qui è beato chi accoglie con fede la nuova legge, quella del nuovo Mosè, Gesù Cristo.
     L’uomo nuovo nato dal battesimo è felice, perché vede progressivamente delinearsi nella sua vita quello che Gesù disse ai suoi apostoli: egli sarà un uomo povero in spirito, che sa di non poter provocare a forza l’avvento del Regno di Dio, ma è il primo ad attenderlo con umiltà dall’alto.
Quest’uomo nuovo sarà anche afflitto, cioè discriminato e perseguitato dal mondo a lui ostile, ma alla fine sarà consolato dal Signore col poter ereditare, come dice il Sal 37,11, la terra, che corrisponde al regno dei cieli.
Sarà ancora un uomo e una donna che avrà fame e sete della giustizia, cioè di compiere la volontà di Dio, rivelata nelle Scritture e attuata da Cristo.
Saranno uomini che seguiranno le orme di Cristo nelle vie della misericordia e nella disponibilità al perdono, saranno puri di cuore, cioè sinceri nel rapporto con Dio e con il prossimo, pacificatori: promuoveranno attivamente la riconciliazione.
Tutti costoro saranno anche perseguitati, come Gesù Cristo, a motivo della loro fedeltà alla volontà di Dio.
Si aggiunge infine una beatitudine anche per le comunità che al tempo dell’evangelista sono provate dalla discriminazione per la propria adesione a Gesù Cristo.
Queste sofferenze e tribolazioni le uniscono ancor più strettamente a lui.
Devono gioire perché, come Gesù Cristo, sperimenteranno anche la gioia della risurrezione.
  Meditazione   La predilezione di Dio è per i poveri e gli umili (I lettura), per i poveri in spirito (vangelo).
La comunità cristiana di Corinto dice la II lettura, che pur proseguendo la lectio semicontinua della I Lettera ai Corinti, rientra in qualche modo nel messaggio unitario delle altre due letture, è formata da persone irrilevanti dal punto di vista sociale ed economico: Dio infatti sceglie ciò che è debole, ignobile e disprezzato per confondere le grandezze mondane.
La parola profetica, che trasmette lo sguardo di Dio sull’

Evangeliario secondo il rito romano

CONFERENZA EPISCOPALE PIEMONTESE, Evangeliario secondo il rito romano, EMP, Padova 2010, ISBN: 8825025106, pp.340, Euro 140 Nel volume sono riportati tutti i brani dei vangeli letti nelle domeniche, nelle solennità e quelli per le messe rituali.
Le pericopi sono disposte secondo l’ordine canonico dei vangeli e per ognuna di esse è indicata la celebrazione in cui viene letta.
Quattro Vangeli da baciare e ascoltare di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 16 gennaio 2011 II diacono ha incensato prima e cantato poi il testo evangelico della solennità; richiude il volume, lo eleva e lo porta processionalmente verso il papa che presiede la celebrazione.
Il pontefice accoglie e bacia questo libro dalla legatura d’argento tempestata di gemme e con esso benedice l’assemblea che ha ascoltato in piedi.
Molti ricordano questa scena visibile nelle trasmissioni televisive dei riti papali: il gesto, che può essere ripetuto anche nelle altre liturgie locali solenni, esprime la venerazione per la Parola sacra, proclamata a voce e cristallizzata nella pagina scritta.
Già nell’ebraismo la Torah era ed è nel cuore stesso della sinagoga.
Infatti, una copia manoscritta della «Legge», i primi cinque libri della Bibbia (Pentateuco), usata per la pubblica lettura, è custodita nell”aron haqodesh, l’«arca santa» del luogo di culto.
Si tratta di un rotolo di pergamena sul quale un sofer, uno scriba, ha trascritto a mano l’intero testo ebraico di quei libri, con inchiostro nero brillante così da far sfolgorare ogni lettera e parola, e – secondo un’antica tradizione – con calamo vegetale o animale, perché ogni penna metallica avrebbe evocato la materia con cui si approntano le armi, negando così la missione di pace della Parola.
Anche il cristianesimo ebbe i suoi “lezionari”, ossia i testi liturgici che contenevano i brani biblici (le “pericopi”) proclamate nella celebrazione eucaristica.
Al loro interno si distinguevano gli “evangeliari” che contenevano solo i quattro Vangeli: uno studioso tedesco, Theodor Klauser, nel suo Das römische «Capitulare Evangeliorum» (Münster 1935), ne ha classificati un migliaio di latini, attestati tra il 645 e il 750.
All’interno, poi, degli evangeliari è da identificare una categoria più specifica sorta in epoca successiva, l’«evangelistario»: proprio perché nella liturgia si leggono, di volta in volta, a brani e non integralmente i quattro Vangeli, si pensò di preparare volumi nei quali fossero raccolti solo quelle “pericopi” distribuite nella sequenza delle varie domeniche e feste.
Questi «evangelistari», dall’evidente finalità pratica, acquistarono uno splendore particolare perché le loro pagine furono costellate di miniature, di capilettera in oro o argento, e furono raccolte in legature o teche impreziosite da smalti, avori e gemme.
Negli anni 80 si decise di elaborare – nello spirito del fervore liturgico post- conciliare – un «evangeliario» per le Chiese d’Italia che «avesse l’ambizione di competere per decoro e bellezza con gli splendidi esemplari trasmessi dall’antichità».
Apparve, così, nel 1987, per i tipi dei Fratelli Accetta, editori palermitani, Haec sunt Verba sancta.
Evangeliario delle Chiese d’Italia, un prodotto pregevole, ma certo non all’altezza di quegli «splendidi esemplari» del passato coi quali si voleva gareggiare.
Un nuovo Evangeliario secondo il rito romano, voluto dalla Conferenza Episcopale del Piemonte e della Valle d’Aosta, è ora disponibile per tutte le comunità ecclesiali italiane: in esso si nota il tentativo di fondere i due generi dell’«evangeliario» e dell’«evangelistario».
Infatti, da un lato, si hanno i testi integrali dei quattro Vangeli; d’altro lato, però, essi sono suddivisi secondo i vari brani che la liturgia propone nella sua articolazione annuale (anzi, triennale).
All’opera si può assegnare la definizione di «nobile semplicità» che il Concilio Vaticano II proponeva per lo stile liturgico sia per il candore della legatura, sia per il nitore tipografico, sia per la sobrietà delle immagini, riproduzioni di sculture in marmo di Trani, eseguite nel 2001da Novello Finotti per la facciata della Basilica di S.
Giustina a Padova.
Certo, si potrebbe pensare anche a un dialogo più intenso e serrato con l’arte contemporanea, auspicabile dopo gli anni del divorzio che si è consumato nel secolo scorso.
Qualcosa del genere fu tentato con coraggio dalla Conferenza Episcopale Italiana col suo recente Lezionario domenicale e festivo in tre volumi: l’idea era felice e suggestiva, anche se l’attuazione fu guidata con poco rigore e il risultato fu eterogeneo e diseguale.
Su questa scia si muove ora anche la Chiesa di Milano che sta allestendo un suo «evangeliario», illustrato da artisti contemporanei di alta qualità, considerato come il suggello della recente riforma del lezionario del rito ambrosiano (una riforma oggetto di discussioni e critiche varie da parte di alcuni esperti).
Significativo è, comunque, lo sforzo di riannodare il confronto con l’arte dei nostri tempi, propugnato da Paolo VI già nel 1964 in un memorabile discorso tenuto agli artisti nella Cappella Sistina, evento e appello reiterato il 21 novembre 2009 da Benedetto XVI nello stesso luogo mirabile, sulla scia anche della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II del 1999.
Si tratta di un incontro necessario e benefico sia per la liturgia sia per l’arte che nella storia sempre s’incrociarono, generando capolavori straordinari in una continua evoluzione: si pensi solo ai trapassi tra paleocristiano, romanico, gotico, rinascimentale, barocco, neoclassico o alla rivoluzione della polifonia rispetto alla “monodia” del gregoriano…
Ora, purtroppo, da un lato in ambito ecclesiale si ricorre spesso soltanto al ricalco di moduli, stili e generi di epoche precedenti o si adotta il puro e semplice artigianato o, peggio, ci si adatta alla bruttezza dei nuovi quartieri urbani e dell’edilizia aggressiva, innalzando edifici sacri simili, come diceva sarcasticamente padre David M.Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli.
D’altro lato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure e quel “grande codice” che era la Bibbia.
Ha abbandonato, come pericolosa, ogni proposta di messaggio, si è consacrata a esercizi stilistici sofisticati o provocatori e fin blasfemi, si è rinchiusa nel cerchio dell’autoreferenzialità, si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato spesso artificioso ed eccessivo.
Le parole di Benedetto XVI possono essere di stimolo ad ambedue gli ambiti: «Non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare coi credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita.
La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi, li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la meta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente».

II Domenica del Tempo Ordinario Anno A

Preghiere e racconti  Tre angeli assistono al battesimo di Cristo mentre alle loro spalle l’uomo nuovo, il battezzando, si staglia seminudo sul fondo dei coloratissimi vestiti degli uomini vecchi.
La composizione è monumentale.
Pura è l’aria, pura è l’acqua e pura è la terra.
Gli uomini e il mondo non sono intaccati dall’ombra/peccato, perché la stessa ombra è col ore intriso di luce, delicato come una carezza.
Il paesaggio è quello aretino.
Eppure sa di paradiso.
Il segreto pittorico di questo risultato è nella combinazione unica di realtà e astrazione, di vita e contemplazione, ottenuta mediante la prospettiva, la forma, il colore e soprattutto la luce che tutto investe compenetrandolo.
Non si muove niente, perché tutto sa di sospeso.
Sospeso è il braccio di Giovanni Battista, sospeso è il gesto del battezzando che li sta dietro.
Non è per incertezza o fatica, ma per lo stupore che rende impercettibile anche il respiro: l’uomo è investito da una tale dignità che basta il suo «essersi» per riempire di dignità regale il suo corpo, la usa posa e il suo sguardo.
Il paesaggio stesso si umanizza e partecipa dell’eterna giovinezza dell’uomo.
Di quale uomo? Di quello che sta al centro, dell’uomo-Dio.
Il grande Giotto aveva dato figura al Dio-uomo; ora il Quattrocento rovescia il rapporto: è così umano questo Gesù che solo Dio poteva essere in Lui.
  Questo uomo ha la dignità del re.
Occupa il centro del mondo.
Accanto a lui il terribile e selvatico Giovanni Battista si è trasformato in un dignitario di corte.
Aveva tuonato contro Gerusalemme, il tempio, le menzogne, i furbi; aveva invocato la scure e il fuoco per distruggere il male.
Invitava a preparare la strada al re che sarebbe arrivato.
Ora un volto, uno dei mille nella folla alle acque del Giordano, lo ha fulminato.
Che cosa ha visto in esso? Ci facciamo aiutare da Piero della Francesca.
Il pittore non è evangelista, ma è spontaneo che la Parola susciti negli occhi la voglia di vedere.
Con tutti i limiti, ogni uomo e ogni epoca hanno diritto a un volto-Vangelo.
E l’occasione più alta per cogliere il volto-Vangelo di Gesù è l’esperienza che il Nazareno ha fatto al Giordano.
Forse è anche la più difficile da «immaginare».
Ma Piero della Francesca è grande.
«Mentre pregava…», dice il Vangelo.
E Gesù, nel quadro, sta pregando.
«…
il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3, 21-22).
Nel quadro non si vedono i cieli aprirsi.
È evidente che si tratta di un’esperienza spirituale, che avviene sulla punta più profonda dell’essere.
La colomba è attentissima a non battere le ali: essa svolge il suo compito di tramite simbolico; il fremito vero sta salendo come linfa da dentro: tutto il Nazareno ne è invaso.
L’umile falegname alla ricerca della sua vocazione, mentre prega il Padre, fa l’esperienza di essere figlio.
Presto schizzerà via di lì a dire al mondo che il Regno è arrivato, che Dio abita questo mondo, questa carne, questa avventura.
Sì, perché lui è il Figlio, è Dio.
Non lo è diventato in quel momento, ma è in quel momento che la verità sta attraversando i suoi sensi, interiori ed esteriori.
La verità è sulla sua pelle.
Nel Cristo splende la luce della coscienza filiale.
L’infinita dolcezza, l’onnipotente tenerezza, la pazza voglia del Padre di far vivere, ora è anche nella sua psicologia, nel suo modo di guardare gli uomini, la donna che impasta, il papa che accende la lanterna alla sera…
Tutti quelli che incontrerà, se lo vorranno, vedranno nei suoi occhi il Regno di Dio.
«Non temete più niente – dirà a tutti – Dio si è fatto prossimo all’uomo.
È Vangelo, è lieta notizia.
Non c’è carne umana che non sia anche avventura divina.
L’ho visto nei cieli aperti».
Giovanni è il primo ad accorgersi.
Glielo ha letto in faccia.
E ora compie su di Lui un gesto particolare che sa di incoronazione.
La lieta notizia ora si fa luce del mondo.
Tutto nel quadro diventa terso, puro e sacro.
Tutto è evidente alla luce di un tempo senza tempo, in uno spazio che sa di trasfigurazione.
«Mentre pregava…»: forse è bello immaginarlo così Gesù, quando, stanco e in preda alla delusione («Vanno capiti, poveretti: è una notizia troppo grande quella del Regno.
Come arrabbiarmi se fanno fatica a credermi?»), si rifugiava nella preghiera.
È bello immaginarlo che pregava così, come Piero della Francesca l’ha figurato in questo quadro.
        Ancora e sempre sul monte di luce                                      Ancora e sempre sul monte di luce                                    Cristo ci guidi perché comprendiamo                                 il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino.
  Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita.
  In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti.
  Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello.
  Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(David Maria Turoldo).
  Uomo fra gli uomini   Gesù, piccolo come uno di noi, vulnerabile e nudo, a metà fra nascita e morte, fra silenzio e parola;   un uomo venuto dalla polvere, tessuto di fuoco, di vento e d’acqua, fra un ventre di donna e quello della terra; un figlio d’uomo, per pochi istanti in piedi, ritto fra i sassi e le stelle;   che uomo che va per la sua strada fra una locanda chiusa e quella di Emmaus;   un uomo fra ieri e domani, con la fatica addosso, con lacrime di gioia negli occhi, e talvolta un singhiozzo che gli traversa la gola – e per piangere se ne va in disparte;   soltanto un uomo, che ha paura di morire come tutti, e lo dice, ed è morto infatti, abbandonato da tutti, abbandonato dal suo Dio, lasciato a se stesso;   un uomo senz’armi né armatura, indifeso come il vento, parola offerta, seme nascosto, sale della terra, fiamma sul monte piegata dalla tempesta e mai spenta, fonte viva mille volte calpestata, ancora chiara e fresca, sempre pronta per la nostra sete, vino pronto a essere servito, pane spezzato pronto sulla tavola;   un uomo, carne e sangue in mano ai fratelli, sotto l’ala dello Spirito, in mano a Dio: uomo fra gli uomini, nella sua solitudine dove l’amore improvvisamente si accende come il fuoco in un fascio di ginestre, si attacca come la brina ai rami di biancospino;   un uomo immenso, che è nato da Dio, che è tutto l’uomo e che è Dio, che è noi stessi, tutti e ciascuno;   in lui noi siamo e senza di lui non saremmo nulla, o ben poco; in lui noi siamo, coronati di gloria, vestiti di forza, appena di sopra degli angeli e poco meno di Dio;   Gesù, l’uomo Nel quale anche noi possiamo dire: come un prodigio mi hai fatto e prodigiose sono le tue opere, o Dio!   (Didier Rimaud).
          * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.
– E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.
– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa.
Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
        II DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 49,3.5-6          Il Signore mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria».
Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza –  e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele.
Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».
        v «Il Signore mi ha detto: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”» (Is 49,3).
     Siamo di fronte ad una affermazione paradossale: Dio manifesta la sua gloria nascondendola in un «servo», la cui opera ha tutte le apparenze del fallimento e comporterà molte sofferenze (cf.
Is 49,4; 50,6).
Dio ha scelto Israele non per la sua potenza, o per i suoi meriti, ma per amore gratuito: «il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli — siete infatti il più piccolo di tutti i popoli — ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Dt 7,7-8).
     Il «servo del Signore» è stato plasmato da lui fin «dal seno materno» (Is 49,1); Dio gli ha affidato una missione nei confronti di Israele e verso le genti.
Tale missione comporta fatica, sofferenza, morie, ma Dio non lo ha abbandonato come sembra ad uno sguardo superficiale, ma è con lui proprio nel momento della sofferenza, mentre il successo è sì promesso, ma differito ad altro tempo (cf.
Is 52,13-5).
  Seconda lettura: 1Corinzi 1,1-3               Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!        v Paolo si presenta ai cristiani di Corinto come apostolo, chiamato da Dio (1Cor 1,1).
Egli lo sottolinea con forza qui, come in altre lettere (cf.
Rom 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Col 1,1).
Egli compie la sua missione secondo il volere di Dio e non secondo progetti personali.
«Tutto il merito e la capacità sono di colui che chiama, al chiamato non resta che obbedire»,  dice Giovanni Crisostomo nel suo commento ai primi versetti della lettera ai Corinti, e aggiunge: «siamo stati chiamati perché piacque a Dio, non perché eravamo degni» (cf.
PG 61,13-14).
     Non solo l’apostolo, ma tutti i cristiani sono dei «chiamati», essi, come l’apostolo, «santificati in Cristo Gesù», e chiamati santi devono manifestare nella loro vita la santità seguendo le orme di Gesù, via verso il Padre, pronti anche ad affrontare la croce.
     Paolo augura «grazia e pace».
È l’indirizzo di saluto che l’apostolo ripete, come formula abituale, all’inizio e alla fine delle sue lettere.
Augurare la pace, che nell’orizzonte biblico è un bene grande comprensivo di tutti gli altri beni donati da Dio, è un modo tipico di salutare ebraico che si e mantenuto dai tempi biblici fino ad oggi (cf.
Es 4,18; Gdc 6,23; 18,6; 19,20; 1Sam 1,17; 20,42,25,6.35; 2Re 5,19; 1Cr 112,19).
Gesù risorto appare ai suoi augurando loro la pace (Lc 24,36; Gv 20,19.26).
     Grazia è il favore di Dio assolutamente libero da ogni condizionamento, favore strettamente legato alla sua misericordia (cf.
Es 33,19; Sap 3,9).
Dio stesso nell’apparizione a Mosè nell’Esodo si proclama: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34,6).
I Salmi abbondano di espressioni che inneggiano alla grazia del Signore.
     In Cristo, rivelatore del Padre, Signore Dio ricco di grazia e di misericordia, ci dice Paolo nella lettera ai Romani, abbiamo ricevuto la grazia e la misericordia di Dio, che in lui ha rivolto il suo sguardo sui peccatori (cf.
Rm.
3,21-26).
     La chiamata di Dio in Cristo alla santità e al ministero dentro la comunità è dono di grazia; essa non è una qualità statica, ma accompagna il chiamato e la chiamata nello svolgimento dei loro compiti come Paolo riconosce più volte per se stesso (cf.
1Cor 3,10; 15,10; 12,3; Ef 3,7).
  Vangelo: Giovanni 1,29-34          In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”.
Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».  Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui.
Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”.
E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
    Esegesi   «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29).
     L’evangelista Giovanni ci presenta Gesù come colui che toglie, o meglio, che «prende su di sé» il peccato del mondo.
La traduzione «toglie» non rende efficacemente il significato della parola greca arein, che significa letteralmente sollevare, prendere su di sé, mentre la traduzione italiana «togliere» suggerisce l’idea di eliminare.
Gesù è agli inizi della sua missione e non elimina il peccato con l’instaurazione gloriosa del regno di Dio, regno dove il peccato e le sue conseguenze non avranno più nessun potere, ma incomincia il suo cammino fra i peccatori e in solidarietà con essi.
     Egli, dice ancora l’evangelista, è «l’agnello di Dio».
Che cosa significa questa figura? Per cercare di capirla dobbiamo rifarci all’ambiente religioso ebraico contemporaneo a Gesù e alle Scritture ebraiche (Antico Testamento), che l’evangelista e i suoi interlocutori riconoscono come rivelazione di Dio.
     Un ambito di riferimento possibile è il culto sacrificale del tempio di Gerusalemme; in particolare l’evangelista avrebbe pensato all’agnello pasquale a cui allude direttamente nel racconto della morte in croce (cf.
Gv 19,36 in relazione a Es 12,46; Num 9,12; Sal 34,21).
In questa direzione si muovono altri due passi neotestamentari: «Cristo, nostra pasqua, è stato immolato» (1Cor 5,7) e «foste liberati…
con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19; cf.
Es 12,4).
     Sempre nell’ambito del culto sacrificale del tempio potrebbe esserci allusione al sacrificio dei due agnelli immolati ogni giorno nel tempio alla «presenza del Signore» uno al mattino e uno al tramonto (cf.
Es 29,38).
Entrambi questi riferimenti portano a vedere nella figura di Gesù il mediatore fra Dio e gli uomini, che accetta di prendere su di sé le conseguenze del male del mondo con un estremo atto di amore e di offerta di sé a Dio, in solidarietà con tutti gli esseri viventi, facendosi, per così dire, come gli agnelli sacrificati nel tempio «olocausto perenne per tutte le generazioni» (cf.
Es 29,42).
     Alcuni studiosi biblici ritengono che l’espressione «agnello di Dio» sia equivalente a quella di «servo di Dio».
Essi si basano sulla constatazione che il vocabolo greco amnòs, agnello usato da Gv 1,29,36 è lo stesso vocabolo della traduzione dei Settanta di Is 53,7 ripreso in Atti 8,32: «Come pecora fu condotto al macello, e come agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la bocca».
     Queste diverse interpretazioni non si escludono a vicenda, ma aiutano a penetrare nella ricchezza della figura di Gesù, che l’evangelista ci presenta attraverso le parole del Battista.
Come suggerisce anche la prima lettura, possiamo riferirci ai carmi del servo di Isaia per trovare le radici della figura di Gesù e cercare di capire qualcosa di più del mistero della sua missione e della stessa rivelazione di Dio.
     L’«agnello-servo di Dio» è colui a cui Giovanni rende testimonianza, di fronte al quale egli si tira indietro.
È lui quello a cui si deve guardare, è lui colui che deve essere rivelato ad Israele, perché proprio dentro Israele compirà la sua missione.
     La testimonianza del Battista si conclude con la proclamazione di Gesù «Figlio di Dio».
Tale riconoscimento non è frutto di conoscenza umana, ma è conseguenza del dono dello Spirito.
Infatti Giovanni dichiara di non aver conosciuto la persona di Gesù nella profondità del suo mistero di Figlio di Dio, se non dopo aver visto «lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui» (1Gv 1,32; cf.
Is 11,2; 61,1).
  Meditazione