XXXII Domenica del tempo ordinario (anno A)

XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Sapienza 6,12-16

 

La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano. Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta. Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni; poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei, appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro incontro.

 

v Il nostro brano si trova nella seconda sezione del libro della Sapienza, quando, dopo aver rilevato la duplice sorte dei giusti e dei malvagi al cospetto del creatore (cc. 1-5), l’autore fa l’elogio della sapienza quale guida sicura che conduce al supremo bene dell’uomo (6,1-11,3). Sono le riflessioni di un ebreo della diaspora (circa il 50 a.C.) che intende esporre alla luce della fede javista e con il linguaggio della cultura greca i grandi problemi dell’esistenza umana in vista di un’immortalità felice. Orientativi sono due versi: «Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura» (2,23) «hai compassione di tutti… ami tutte le cose esistenti».

«La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano». Qui la sapienza (come la maat egiziana) viene personificata con i lineamenti di una giovane sposa, attraente, radiosa. Chi comincia a contemplarla non può non innamorarsi di lei, e chi le si mette in cerca riuscirà sicuramente a trovarla: «il desiderio della sapienza conduce al regno» (6,20). È qualcosa che già sta nell’intimo del cuore umano, qualcosa a cui siamo già orientati.

«Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano». Si completa il concetto precedente: se qualcuno coltiva l’anelito verso la sapienza, essa già gli si avvicina per farsi «conoscere» nel senso pieno semitico, entrerà cioè nella sua intimità, le si affezionerà profondamente.

«La troverà seduta alla sua porta». se qualcuno quanto prima (di buon mattino) si muoverà verso di lei, se la troverà addirittura di fronte, presso la porta di casa, ad attenderlo: «quanti la cercano di buon mattino, si dirà in Sir 4,12, saranno ricolmi di gioia».

«Lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei ». C’è di più. Essa è già in cammino alla ricerca di quanti sono aperti verso di lei, riflettono su di essa, si comportano con rettitudine, in conformità di ciò che hanno intuito di bello e di nobile in lei: ad essi «andrà incontro come una madre» (Sir 15,2), «beato chi medita sulla sapienza e … considera nel cuore le sue vie» (Sir 14,20s).

È un riflesso dell’infinita saggezza del Dio altissimo che opera in tutto con giustizia, benevolenza e comprensione, scruta i cuori e al minimo accenno di apertura fa sentire loro la sua presenza, e li guida verso la meta dell’esistenza terrena, verso colui che è il felice compimento di ogni nostra aspirazione.

 

 

Seconda lettura: 1Tessalonicesi 4,13-18



Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti. Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, scenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.

 

v La lettera ai Tessalonicesi risale a pochi anni dalla morte di Gesù. S. Paolo vi rivela tutto il suo affetto e la sua fiducia per quella comunità cristiana da lui fondata (cc. 1-3), e insieme la sua viva sollecitudine perché essa si conservi nella carità e nella continua vigilanza in vista della gloriosa Parusia del Signore Gesù (cc. 4-5). Gli preme in modo particolare rassicurarli su un loro specifico problema. Lui aveva loro annunziato la grande regola per chiamare a sé «tutti i suoi santi» (3,12), nell’ora e nel giorno noti solo al Padre. Era l’autentica promessa del maestro divino (v. 15; Mt 24,30.36). Ma i neofiti di Tessalonica, impressionati per quel glorioso evento, si andavano interrogando sulla sorte di chi in quell’ora misteriosa non si sarebbe trovato presente, perché già nel frattempo fosse deceduto. Il nostro brano risponde a questa aporia.

«Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti». Rassicura anzitutto i suoi discepoli dichiarando che non hanno motivo di preoccuparsi. Essi che credono in Cristo Signore dell’universo hanno in lui ogni speranza. Essi, come Paolo, vivono in Cristo, e Cristo vive in loro (Gal 2,20). Al contrario di coloro che non lo riconoscono (gli estranei, i pagani: 5,6), essi continueranno a vivere per sempre in lui.

«Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti». Ora chiaramente afferma: la stessa potenza divina che ha fatto risorgere Gesù, farà sì che tornino in vita anche i suoi fedeli amici e nulla vi si può opporre.

«Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo». Paolo conosce bene tutto l’insegnamento escatologico del Maestro: il martirio dei suoi evangelizzatori (Mt 24,9); il raduno di tutti gli eletti dai quattro venti (Mt 24,30s), di ogni epoca e regione. «Noi che saremo ancora in vita… non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti»: perché in quell’ultima ora prima risorgeranno tutti coloro che hanno perseverato nella loro fede in Cristo, e quindi insieme con loro quelli che saranno rimasti in vita andranno incontro al Signore della gloria.

«Verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore». La solenne descrizione escatologica (suono di tromba, voce dell’arcangelo, nubi del cielo… v. 16) ribadisce la consolante realtà che attende tutti i credenti in Cristo, sia già deceduti, sia ancora viventi al momento della grande Parusia: andargli lietamente incontro e vivere eternamente con lui nel suo regno di amore.

 

Vangelo: Matteo 25,1-13


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.  Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».

 

 

Commento  del testo con immagini

XXXII DOM TEMP ORD ANNO A

 

Esegesi


È stata detta “la parabola della vigilanza”. Nel contesto del primo vangelo sembra riferirsi all’ultima venuta del signore, la Parusia (24-25). “Allora”, “in quel tempo” (nel testo greco) indica il tempo del giudizio finale (25,1; 24,39-50). Non si può escludere però che nella predicazione di Gesù il racconto riguardasse più direttamente l’incontro dei singoli uditori con il supremo Signore al termine della loro vita terrena. Lo scenario non è quello cosmico dell’intera umanità di fronte al giudice divino (24,30-31: segni del cielo e raduno dei popoli, con tutti i suoi angeli).

Rassomiglia invece all’esito del comportamento dei singoli individui durante la loro vita, sempre nell’ambito della storia: come nel racconto di Lazzaro e del ricco gaudente (Lc 16,27-31); sono due tipi di persone, di cui l’una è presente all’appuntamento festivo, l’altra per sua negligenza arriva in ritardo; l’uno è ammesso nel convito (seno di Abramo), l’altro è lasciato nel buio della notte (nel fuoco infernale). Rimane inteso in ogni caso che poi al momento del giudizio finale dell’umanità sarà solennemente ratificato il destino eterno di ciascuno (cf. Mt 25,14-30).

«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini…».

Si annunzia il termine di paragone tra l’ingresso delle anime nel regno dei cieli e l’incontro dello sposo nel corteo delle ragazze che dovevano festeggiare uno sposalizio. La celebrazione solenne del matrimonio avveniva con una cerimonia notturna. Sull’imbrunire alcune damigelle si riunivano nella casa della fidanzata e aspettavano che arrivasse lo sposo perché introducesse l’intero corteo nella propria casa e si desse inizio ai festeggiamenti. Poteva succedere però qualche imprevisto.

«Le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio». Cinque damigelle non ebbero l’accortezza di rifornirsi sufficientemente di olio per ogni evenienza: non calcolarono bene la durata dell’attesa. Almeno così immagina il narratore ai fini del suo insegnamento. Difatti, ritardando lo sposo, le ragazze si assopirono tutte e le lampade esauriscono il loro olio (vv. 5-6).

«A mezzanotte… tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade». Le 5 sagge poterono rifornire le loro lampade con l’olio di scorta e si mossero col corteo dello sposo verso il luogo del banchetto.

«Mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa».

Nella parabola si immagina pure che le stolte tentano in quel frangente di rimediare alla loro negligenza. Ma, prima, le loro colleghe rifiutano di condividere le riserve di olio, perché non venisse a mancare anche ad esse; e poi i rivenditori a quell’ora tardano a fornirle. Sicché quando trafelate arrivano al luogo del convito per prendere parte alla gioia di quello sposalizio, si sentono rispondere dalla voce dello stesso festeggiato «non so chi siete», e la porta rimane chiusa; sono definitivamente escluse da quella comunità in festa!

«Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora». Il significato dell’episodio si evidenzia in pieno nell’ultima frase rivolta agli uditori dell’araldo evangelico: ‘il regno di Dio è vicino, e si avvicina sempre più’ (in Mc 1,15 il verbo è al perfetto: ‘continua ad avvicinarsi’). Dalla partecipazione ad esso dipende la sorte felice di ogni uomo. È importante essere trovati pronti ad entrarvi; occorre essere sempre in regola con l’olio luminoso della rettitudine e dell’amore. Poco vale per aver iniziato a compiere il bene e fermarsi a metà. È sommamente necessario aver perseverato e rimanere sempre all’erta nel giusto atteggiamento in consonanza con lo sposo divino. Egli può giungere a noi in piena notte come in qualsiasi momento; allora non resta più alcuna possibilità di rimediare (sia per quanto riguarda il giudizio particolare, sia quello finale universale).

 

Meditazione

 

Essenziale per ottenere la sapienza è desiderarla: il desiderio della sapienza spinge a cercarla e la sapienza stessa va incontro a chi la cerca. Se la sapienza è luminosa e splendente, essa irraggia su chi la desidera e la cerca: è la ricerca stessa della sapienza che rende sapienti (I lettura). Il credente cristiano non abbisogna solamente di fede, ma anche di sapienza. Sapienza è predisporre tutto per incontrare il Signore. Stoltezza – e c’è la possibilità di una fede stolta, insulsa, stupida, non intelligente – è negligenza nel prepararsi all’incontro con il Signore. Ma il Signore va incontro lui stesso a chi lo cerca e lo attende tenendo viva nella notte la lampada del desiderio dell’incontro (vangelo).

Opposta alla sapienza è la stupidità che è un difetto «che interessa non l’intelletto, ma l’umanità di una persona […] La Bibbia, affermando che il timore di Dio è l’inizio della sapienza (Sal 111,10), dice che la liberazione interiore dell’uomo alla vita responsabile davanti a Dio è l’unica reale vittoria sulla stupidità» (Dietrich Bonhoeffer). La nostra parabola dice dunque che sapienza è anche senso di responsabilità e capacità di vita interiore.

Uscire, andare incontro al Signore veniente, tenere le lampade accese nel buio della notte, attendere il Signore: queste espressioni riferite alle ragazze amiche della sposa che, secondo gli usi matrimoniali del tempo, attendevano a casa di lei l’arrivo dello sposo, esprimono bene la missione della chiesa nella storia. Si tratta di compiere un esodo, una fuoriuscita dalla mentalità mondana; di cercare il Signore per vivere una relazione autentica e vitale con lui; di custodire la fede, l’amore e la speranza e attendere la sua venuta.

In particolare, occorre mantenere vivo il desiderio del Signore, questa la lampada che la chiesa è chiamata a tenere accesa nella buio della notte. Un credente o una comunità cristiana che perdano il desiderio del Signore, sono come sale che perde sapore (cfr. Mt 5,13),

luce che spegne se stessa (cfr. Mt 5,14-15). Questo desiderio è il proprium del credente: o lo si ha in sé o nessuno può pretenderlo dagli altri. Le ragazze stolte, chiedendo l’olio alle sapienti, pretendono ciò che non può essere dato.

Nella vita cristiana, la sapienza è il predisporre tutto per essere pronti per il Signore, per la sua venuta, per il suo dono, per la sua grazia, ed è tutt’altro rispetto all’efficienza e all’attivismo del protagonismo cristiano. Nella sapienza è sempre insita l’umiltà, la giusta misura di sé.

Dietro l’immagine del ritardo dello sposo (cfr. Mt 25,5) si delinea il problema della promessa della venuta del Signore e del protrarsi della sua attesa nella storia. Problema esposto con spietata lucidità da Ivan Karamazov nel famoso romanzo di Fëdor Dostoevskij: «Son passati quindici secoli dal momento in cui Lui promise di venire nel suo Regno… ma l’umanità l’aspetta ancora con fede sempre uguale e con sempre uguale tenerezza. Anzi, con fede ancor maggiore, giacche son trascorsi quindici secoli dal tempo in cui fu sospeso all’uomo ogni pegno celeste: “Credi a ciò che dice il cuore: non più pegni dà il cielo”. E così, unica e sola, è rimasta la fede in ciò che dice il cuore». La venuta del Signore è solo ormai una pia illusione? Un anelito sgorgato dal cuore umano? Alla chiesa il compito di rispondere a queste domande con la propria prassi storica e umana ispirata alla fede nella promessa del Signore e con la propria sapiente attesa.

La sapienza è arte di vivere il tempo: la venuta del Signore non è misurabile cronologicamente, ma è essenziale perché afferma che il tempo ha una fine e un fine. Se il sapiente, per la Bibbia, è «colui che cerca Dio» (Sal 14,2), egli è anche colui che contare il tempo e ne conosce la finitezza (cfr. Sal 90,12). Rimuovere la finitezza del tempo e la fine del mondo significa in realtà mandare a morte l’uomo, liquidare l’uomo.

La parabola è anche immagine del giudizio che attende il cristiano dopo la morte. La dialettica addormentarsi-alzarsi (cfr. Mt 25,5.7) esprime la polarità del morire-risorgere (cfr. Mt 27,52; lCor l5,20; 1Ts 4,13-15). L’esito del giudizio lo si gioca oggi, qui e ora, nella storia.

 

Preghiere e racconti

Vegliare con il Cristo

Veglia con il Cristo colui che, pur guardando verso l’avvenire, non perde di vista il passato e, pur contemplando ciò che il suo salvatore ha guadagnato per lui, non dimentica ciò che ha sofferto per lui. Veglia con il Cristo colui che commemora e rinnova continuamente nella sua persona la croce e l’agonia di Cristo e indossa gioiosamente questo mantello d’afflizione che il Cristo ha indossato quaggiù e si è lasciato dietro quando è salito al cielo. È per questo che, nelle loro lettere, gli autori ispirati esprimono cosi spesso il loro desiderio della sua seconda venuta, ogni volta che parlano del ricordo che hanno conservato della prima, e che la sua risurrezione non fa mai perdere loro di vista la sua crocifissione.

(J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, vol. IV, sermone 22)

 

Egli può sempre arrivare

«… non si può mai sapere se Dio è in una storia,

prima che uno l’abbia finita di raccontare.

Perché anche se mancassero solo due parole o soltanto

la pausa che segue le ultime parole del racconto,

Egli può sempre arrivare»

(Rainer Maria Rilke)

 

Tu vegli su noi

Mio Dio, io sono convinto che tu vegli

su coloro che sperano in te,

e che non si può mancare di nulla

quando da te si attende ogni cosa,

per cui ho deciso di vivere in avvenire

senza alcuna preoccupazione

e di deporre in te

tutte le mie inquietudini…

Gli uomini possono spogliarmi

dei beni e dell’onore,

le malattie possono togliermi

le forze e i mezzi per servirti,

io posso perfino perdere

la tua grazia col peccato,

io non perderò mai la speranza,

ma la conserverò

fino all’ultimo istante

della mia vita.

(Jean Guitton)

 

Giudizio finale

Tu giudicaci tutti

come se tutti fossimo bambini

che giocano con la vita

in questo cortile assurdo e prodigioso.

 

Quando giunge la notte,

raccoglici tutti

nel calore della tua Casa

per sempre.

 

E pianta di bellezza imperitura

il vecchio cortile amato…

(Pedro Casaldáliga)

 

Preghiera

Signore Gesù, Figlio di Dio e Sapienza del Padre, Verbo fatto carne e splendore della gloria, tu ti sei avvicinato a noi, venendoci incontro e invitandoci alle nozze della chiesa con Dio, Padre di tutti. Che il nostro amore domandi, cerchi, raggiunga e scopra la tua sapienza e permanga sempre in ciò che ha scoperto.

Oggi desideriamo evocarti e pregarti con le parole evangeliche: «Beati gli invitati alla mensa del Signore», cioè: «Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello» (Ap 19,9), o con quelle di sant’Agostino: «Tutta la durata del tempo è come la notte, nel corso della quale la chiesa veglia, con gli occhi della fede rivolti alle Sacre Scritture come a fiaccole che risplendono nel buio, fino alla venuta del Signore».

Noi siamo ora quelle cinque vergini prudenti, che siedono a mensa con lo sposo.

Affidiamo tutti insieme, con fede e umiltà, un desiderio alla generosità del nostro Dio: che tutti noi, che viviamo nella fede e siamo nell’attesa della pace sabbatica, possiamo ritrovarci un giorno riuniti nel tuo Regno, nel banchetto eterno, e che nessuno resti fuori da quella misteriosa porta, là fuori «dove c’è pianto e stridore di denti».

Allo stesso modo, possa tu, o Signore, quando verrai, trovare la tua chiesa vigilante nella luce dello Spirito per risvegliarla anche nel corpo, che giacerà addormentato nella tomba.

 

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

 

XXXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)

XXXI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Malachia 1,14-2,2.8-10

 

Io sono un re grande – dice il Signore degli eserciti – e il mio nome è terribile fra le nazioni. Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione. Voi invece avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete distrutto l’alleanza di Levi, dice il Signore degli eserciti. Perciò anche io vi ho reso spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo, perché non avete seguito le mie vie e avete usato parzialità nel vostro insegnamento. Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?

 

v Il testo profetico, tratto da Malachia, è un severo monito rivolto ai sacerdoti, che dimostrano di avere poco a cuore la gloria di Dio. Il problema non è da poco, dal momento che la posizione dei sacerdoti quali educatori del popolo di Dio risulta fondamentale. Come può Dio farsi ascoltare dai sacerdoti disobbedienti? La minaccia è seria e concreta: trasformare in maledizione le loro benedizioni, come la Parola di Dio afferma: «Ma se non obbedirai alla voce del Signore tuo Dio, se non cercherai di eseguire tutti i suoi comandi e tutte le sue leggi che oggi ti prescrivo, verranno su di te e ti raggiungeranno tutte queste maledizioni» (Dt 28,15).

Ai sacerdoti venivano portate le primizie, in segno di ringraziamento a Dio per i beni della terra, che permettevano di vivere e godere del frutto del proprio lavoro. I beni della terra sono, quindi, benedizione del Signore, ma rischiano di diventare frutti amari e acerbi se non si è in sintonia con lui. Riconoscere, invece, che tutto proviene da Dio, al quale si dimostra riconoscenza rispettandone i comandi, vuol dire prendere a cuore la gloria sua.

Purtroppo, il profeta è costretto a richiamare alla fedeltà i sacerdoti, responsabili dell’allontanamento del popolo dal Signore e della loro stessa rovina: «Voi invece avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete distrutto l’alleanza di Levi, dice il Signore degli eserciti. Perciò anche io vi ho reso spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo, perché non avete seguito le mie vie e avete usato parzialità nel vostro insegnamento» (2,8-9).

L’appello di Malachia, al v. 10, si fa davvero struggente per l’intensità e la sincerità: «Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?». Il profeta, dunque, c’invita a guardare alle nostre origini, che si trovano in Dio, sicché colui che compie del male contro il suo prossimo danneggia la sua stessa carne e il suo proprio sangue, oltre a offendere la Parola di verità e di comunione che Dio ha donato ai padri. Ai sacerdoti si raccomanda di ricordare e far ricordare tutto questo. Infatti, se agiscono diversamente, compromettono la loro dignità e missione in mezzo all’umanità, costringendo quest’ultima a rivolgersi altrove e a sostituire Dio con qualcos’altro. La fedeltà al Signore non costituisce una trappola, ma un vero cammino di libertà e di fraternità, da cui nasce quella benedizione che il mondo chiede, affinché ognuno possa chiamare Dio padre e Gesù maestro e sentirsi sazio di pane e verità.

 

Seconda lettura: 1Tessalonicesi 2,7-9.13

Fratelli, siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio. Proprio per questo anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti.

 

v La polemica di Gesù con gli scribi e i farisei da una parte e il monito di Malachia ai sacerdoti dall’altra, hanno qualcosa in comune con quanto scrive Paolo nella prima lettera ai cristiani di Tessalonica. Infatti, l’apostolo si rivolge alla comunità da lui fondata, ricordando il tempo della sua permanenza in mezzo a essa con parole piene di affetto: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (2,7-8).

Impressiona il forte linguaggio di Paolo, che addirittura adopera l’immagine della madre, per indicare la misura, certo notevole, dell’amore che ha nutrito per i membri di quella comunità. Questa era nata dopo le vicende convulse patite a Filippi (cf. At 16,19-40, ove si racconta di Paolo e Sila, prima malmenati, poi portati in prigione e, infine, liberati il giorno seguente) e che egli ricorda in 2,2a. D’altronde, anche a Tessalonica Paolo ebbe problemi, fomentati dai suoi connazionali, a seguito della sua predicazione (2,2b: «abbiamo avuto il coraggio nel nostro Dio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte»; cf. anche At 17,1-9), di cui continuò a subire la comunità. Ciò spiega ancora meglio la disponibilità dell’apostolo a dare persino la propria vita, oltre al dono già prezioso del vangelo.

Il dono del vangelo, poi, non è avvenuto con atteggiamenti di superbia, alterigia e superiorità da parte di Paolo, e tanto meno egli ha preteso di essere mantenuto a carico della comunità per le sue esigenze personali, piuttosto la sua libertà e la credibilità del vangelo hanno ricevuto una forte conferma dal momento che egli dimostra totale disinteresse per il suo tornaconto personale: «Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio» (2,9). I frutti della missione a Tessalonica Paolo li considera abbastanza buoni, perciò si dispone a ringraziare quella comunità per la sensibilità che ha dimostrato, quando ha accolto la predicazione, considerandola non semplice parola umana, bensì parola divina, che opera meraviglie in colui che la riceve: «Proprio per questo anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti» (2,13). L’efficacia della parola rappresenta agli occhi di Paolo la prova che essa è stata recepita con fede, con entusiasmo, facendosi fecondare da essa, al fine di rinnovare la mente e il cuore, oltre a cambiare coloro che ci stanno attorno. Alla fine, bisogna ammettere che ancora una volta Paolo ha dato una lezione di stile pastorale, che non è semplice strategia o pragmatismo, bensì in primo luogo un ambito in cui se non si sa amare coloro che Dio ha posto da pascere, tutto si rivela inutile e controproducente.

 

Vangelo: Matteo 23,1-12

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».

 

Commmento del Vangelo in immagini

XXXI DOM TEMP ORD ANNO A

 

Esegesi

Le parole che Gesù pronuncia nel brano evangelico di questa domenica devono naturalmente essere inquadrate nel contesto narrativo matteano: nel capitolo 19 ha avuto inizio una sezione narrativa, che termina proprio con il capitolo 23, dopo il quale si trova il discorso escatologico (capp. 24-25) e, infine, il racconto della passione, morte e risurrezione.

Nell’ambito della sezione narrativa a cui abbiamo fatto riferimento, occorre ancora ricordare che in 21,1-11 si racconta che Gesù è entrato a Gerusalemme, dove avvengono scontri decisivi con le autorità sacerdotali e con gli altri gruppi. Dal momento che Gesù ha definitivamente chiarito la propria posizione rispetto a farisei, sadducei, erodiani, ora ne smaschera le pretese e ne dimostra l’ipocrisia al cospetto delle folle e dei propri discepoli. La polemica con gli esponenti più in vista del popolo ebraico (a cui Gesù, è sempre utile ricordarlo, apparteneva), copre l’intero capitolo 23, del quale questa domenica si leggono soltanto i primi 12 versetti.

Il primo elemento che Gesù prende in considerazione è che gli scribi e i farisei rappresentano la tradizione e si occupano dell’interpretazione della legge mosaica: questo vuol dire essere seduti sulla cattedra di Mosè. Trasmettere la conoscenza della legge è un compito apprezzato da Gesù («Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono»), ma egli ha già, in diverse occasioni, sottolineato la scarsa fedeltà interpretativa e i comportamenti contraddittori di quei «maestri» («ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno»). Esemplificazioni a questo proposito se ne trovano nel brano successivo, in cui i vari casi sono introdotti dall’espressione «guai». Riguardo all’interpretazione della legge, segnaliamo, ad esempio, il confronto che Gesù ha sostenuto relativamente alla questione del divorzio in 19,3-9. L’incoerenza è totale, poiché essi stessi non vivono secondo quanto insegnano: «Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (v. 4).

Non secondaria è la critica all’ostentazione, al mettere in mostra le pubbliche virtù, perché lo scopo non è piacere a Dio bensì trovare la propria ricompensa nell’essere ammirati dagli uomini, come era già stato detto in 6,1-18. Allargare i filatteri (piccole scatole racchiudenti parole della legge e appese al braccio o alla fronte, cf. Es 13,9.16; Dt 6,8 e 11,18), allungare le frange (fiocchi per ricordare i comandi del Signore, cf. Nm 15,18ss), prediligere posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e saluti nelle piazze, oltre a essere chiamati rabbi dalla gente: questa era l’aspirazione degli scribi e dei farisei.

Gesù sa bene che anche tra i suoi discepoli può insinuarsi questo tipo di mentalità, perciò i vv. 8-12 sembrano essere indirizzati proprio a loro. Egli insiste su tre cose: non farsi chiamare rabbi e guida (al v. 10 c’è il termine kategetès, che può essere tradotto anche così), per non anteporre alcun’altra autorità a lui stesso e non perdere il senso della fratellanza; non chiamare nessuno padre, per non anteporre alcun’altra paternità a Dio; sapere che essere più grande significa essere a servizio.

 

Meditazione

All’invettiva profetica contro i sacerdoti infedeli nella prima lettura risponde l’invettiva profetica di Gesù rivolta a scribi e farisei nel vangelo. Entrambi i testi denunciano non solo l’ipocrisia e la doppiezza, ma anche il potere che può essere esercitato da chi detiene un’autorità.

Ai sacerdoti il profeta rimprovera la scissione del loro insegnamento dall’ascolto della Parola di Dio, l’unica che può dare fondamento, contenuto e autorevolezza alla loro parola. Senza la Parola di Dio, il sacerdote non ha nulla da dire, essendo il suo ministero un servizio della Parola di Dio.

L’accusa contro «l’agire perfido» (Ml 2,10) colpisce il tradimento della fiducia. Chi riveste una responsabilità religiosa non può non essere cosciente della valenza simbolica della sua persona: egli deve pertanto essere fidabile e credibile. Se tradisce la fiducia che altri ri-pongono in lui, diviene responsabile anche dell’eventuale allontanamento da ciò egli rappresenta nel suo ministero.

Intendere la pagina di Matteo come antigiudaica e le parole di Gesù come rivolte esclusivamente a scribi e farisei, significa non comprendere l’intenzione del testo (che dal v. 8 ha di mira i discepoli e dunque i cristiani) e cadere nell’ipocrisia denunciata da Gesù stesso. Commentando i versetti 5-7 Gerolamo ha scritto: «Guai a noi, miserabili, che abbiamo ereditato i vizi dei farisei». Le parole di Gesù colpiscono il clericalismo cristiano e riguardano vizi religiosi, non giudaici. Le situazioni denunciate da Gesù in Mt 23 sono nostre, tutte, «nessuna esclusa: da quelle ridicole, ma non per questo meno pericolose – i paludamenti, i titoli, i posti d’onore – a quelle ancor più gravi: l’intellettualismo, il verbalismo, il proselitismo, la casistica, il ritualismo, la persecuzione dei profeti vivi e la strumentalizzazione dei profeti morti» (Vittorio Fusco).

Le parole dure di Gesù, che non sono maledizioni ma invettive e lamenti al tempo stesso, parole piene di collera e di sofferenza – le due facce dell’amore tradito -, svolgono una sorta di terapia d’urto nei confronti di una distorsione del magistero e dell’autorità religiosa che occorre definire patologica.

Gesù denuncia l’irresponsabilità della parola. Irresponsabilità che consiste nel dire senza fare, quasi che il parlare di Vangelo dispensi dal viverlo o equivalga al metterlo in pratica. Irresponsabilità che è imposizione agli altri di pesi schiaccianti (l’immagine sottostante è quella dei mercanti che caricavano pesi immensi sulle loro bestie da soma perché li portassero per loro), dunque come comando che vale per l’altro e non per sé e dunque è ignorante del peso che l’altro deve portare e della sua fatica.

Dovremmo anche interrogarci sull’esibizionismo religioso (cfr. Mt 23,5-6), sullo scialo di titoli onorifici (cfr. Mt 23,7-10) rivolti a personalità ecclesiastiche (l’episcopale «Eccellenza» è di derivazione fascista ed è stato applicato ai vescovi per attribuire loro una dignità non minore di quella riservata da Mussolini ai suoi prefetti), sulla fastosità e ricercatezza barocca di vesti liturgiche (cfr. Mt 23,5). Se il Crisostomo criticava chi onorava Cristo all’altare con «vesti di seta» mentre fuori di chiesa vi era chi moriva di freddo per la nudità, Bernardo di Clairvaux scriveva a papa Eugenio III dicendogli che «Pietro non si presentò mai in pubblico bardato di gemme o in cappe di seta o coperto d’oro» e che «sotto questo aspetto, tu non sei il successore di Pietro ma di Costantino» (Della considerazione IV,3,6).

Titoli, vesti, onori: trattandosi di cose esteriori, vale la pena di perder tempo a criticare queste cose? Mi limito a citare le parole di p. Yves Congar: «Si può beneficiare ordinariamente di privilegi senza arrivare a pensare che sono dovuti? O vivere in un certo lusso esteriore senza contrarre certe abitudini? E essere onorati, adulati, trattati in forme solenni e prestigiose, senza mettersi moralmente su un piedistallo? È possibile comandare e giudicare, ricevere uomini in atteggiamento di richiesta, pronti a complimentarci, senza prendere l’abitudine di non più veramente ascoltare? Si può trovare davanti a sé dei turiferari senza prendere un po’ il gusto dell’incenso?».

 

Preghiere e racconti

 

Due gruppi di persone

Le persone si distinguono in due categorie: quelle che cercano e vivono per il successo e quelle per la gioia.

Le prime sono sempre su un palcoscenico disposte a fare ciò che gli altri vogliono per poter applaudire; il secondo gruppo rifugge dal rappresentarsi e sceglie di essere.

In un caso il metro è l’applausometro, nell’altro il rispetto di se stessi innanzitutto, ed è il più difficile.

Conosco persone piene di gioia e non hanno mai ottenuto un applauso. Il mattino guardandosi nello specchio, accennano ad un sorriso. Le persone del successo alla prima sbirciata corrono subito per il trucco. Non sanno stare senza gli altri, devono avere il chiasso dell’approvazione sempre attorno. La persona gioiosa sa che anche da soli si possono fare tante cose utili, e non per se stessi soltanto.

La nostra è la società del successo, dell’esistere per gli altri e come gli altri desiderano: dei perfetti burattini. Un successo misurato dal denaro: tanto maggiore è il successo, tanto più alto è il compenso, più grande l’auto e più lunga la barca già ormeggiata in un porticciolo o dentro la testa, nella sezione del desiderio. Questo è anche il programma di molti giovani e di molti genitori: tentare la fortuna che conduca al successo.

 

Strumenti accidentali

Gli apostoli furono considerati dal Cristo come rappresentanti degli altri credenti, o piuttosto come i suoi propri rappresentanti. In realtà, egli è il solo e l’unico a sedersi sul trono del regno; è la sola autorità del suo impero, pur essendo invisibile. Essi sono solo i suoi reggenti, dei semplici viceré, in sua assenza, e qualunque sia il loro potere, non è un potere che possiedono in proprio, ma un potere che viene da lui; e come questo potere non ha la sua origine in loro, così non ha la sua fine in loro. Essi sono stati solo strumenti accidentali, benché particolarmente favoriti, del compimento della prodigiosa opera del Cristo… E quali che siano stati i loro onori e i loro poteri, non è necessario immaginare che questi onori e questi poteri siano finiti con loro, dal momento che non li avevano mai posseduti veramente in proprio.

(J.H. Newman, Sermoni sui temi del giorno 16)

 

Grazie, Signore (Lc 5,27-32)

Signore, ti ringrazio perché mi hai messo al mondo:

aiutami perché la mia vita

possa impegnarla per dare gloria a te e ai miei fratelli.

Ti ringrazio per avermi concesso questo privilegio:

perché tra gli operai scelti, tu hai preso proprio me.

Mi hai chiamato per nome

perché io collabori con la tua opera di salvezza.

Grazie perché il mio letto di dolore è fontana di carità,

è sorgente di amore.

Di amore per te, anche di amore per tutti i fratelli.

Signore, io seguo te più da vicino, in modo più stretto.

Voglio vivere in un legame più forte

per poter essere più pronto a darti una mano,

più agile perché i miei piedi che annunciano la pace sui monti

possano essere salutati da chi sta a valle.

Concedimi il gaudio di lavorare in comunione

e inondami di tristezza ogni volta che, isolandomi dagli altri,

pretendo di fare la mia corsa da solo.

Salvami, Signore, dalla presunzione di sapere tutto.

Dall’arroganza di chi non ammette dubbi.

Dalla durezza di chi non tollera i ritardi.

Dal rigore di chi non perdona le debolezze.

Dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone.

Toccami il cuore e rendimi trasparente la vita,

perché le parole, quando veicolano la tua,

non suonino false sulle mie labbra.

(Don Tonino Bello)

 

«La messa è finita, andate in pace!»

Al termine della Messa il prete ci congeda con la formula: “La Messa è finita, andate in pace!”. Sono sempre tentato di correggere: andate, perché la Messa non è finita, non finisce mai. Questo infatti è un inizio, non una conclusione. Il sacerdote non vuol dire:   “Bravi, avete fatto il vostro dovere, potete andare tranquilli”; al contrario, è come se dicesse: “Adesso tocca a voi, è il vostro momento”. Dunque non un segnale di “riposo”, ma di “partenza” per una missione. Significa “agganciarsi” alla vita quotidiana. Ci si alza dalla mensa eucaristica e si attacca a lavorare, a costruire il Regno.

(Alessandro Pronzato).

 

L’albero generoso

C’era una volta un albero che amava un bambino. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni.

Raccoglieva le sue foglie con le quali intrecciava delle corone per giocare al re della foresta. Si arrampicava sul suo tronco e dondolava attaccalo ai suoi rami. Mangiava i suoi frutti eppoi, insieme, giocavano a nascondino.

Quando era stanco, il bambino si addormentava all’ombra dell’albero, mentre le fronde gli cantavano la ninna-nanna.

Il bambino amava l’albero con tutto il suo piccolo cuore.

E l’albero era felice.

Ma il tempo passò e il bambino crebbe.

Ora che il bambino era grande, l’albero rimaneva spesso solo.

Un giorno il bambino venne a vedere l’albero e l’albero gli disse:

«Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l’altalena con i miei rami, mangia i miei frutti, gioca alla mia ombra e sii felice».

«Sono troppo grande ormai per arrampicarmi sugli alberi e per giocare», disse il bambino, «io voglio comprarmi delle cose e divertirmi. Voglio dei soldi. Puoi darmi dei soldi?».

«Mi dispiace, rispose l’albero «ma io non ho dei soldi. Ho solo foglie e frutti. Prendi i miei frutti, bambino mio, e va’ a venderli in città. Così avrai dei soldi e sarai felice».

Allora il bambino si arrampicò sull’albero, raccolse tutti i frutti e li portò via.

E l’albero fu felice.

Ma il bambino rimase molto tempo senza ritornare… E l’albero divenne triste.

Poi un giorno il bambino tornò; l’albero tremò di gioia e disse:

«Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l’altalena con i miei rami e sii felice».

«Ho troppo da fare e non ho tempo di arrampicarmi sugli alberi», rispose il bambino. «Voglio una casa che mi ripari», continuò. «Voglio una moglie e voglio dei bambini, ho dunque bisogno di una casa.

Puoi darmi una casa?».

«Io non ho una casa» disse l’albero. «La mia casa è il bosco, ma tu puoi tagliare i miei rami e costruirti una casa. Allora sarai felice».

Il bambino tagliò tutti i rami e li portò via per costruirsi una casa. E l’albero fu felice.

Per molto tempo il bambino non venne. Quando ritornò, l’albero era così felice che riusciva a malapena a parlare.

«Avvicinati, bambino mio», mormorò «vieni a giocare».

«Sono troppo vecchio e troppo triste per giocare», disse il bambino. «Voglio una barca per fuggire lontano di qui. Tu puoi darmi una barca?».

«Taglia il mio tronco e fatti una barca», disse l’albero. «Così potrai andartene ed essere felice».

Allora il bambino tagliò il tronco e si fece una barca per fuggire. E l’albero fu felice… ma non del tutto.

Molto molto tempo dopo, il bambino tornò ancora.

«Mi dispiace, bambino mio», disse l’albero «ma non resta più niente da donarti… Non ho più frutti».

«I miei denti sono troppo deboli per dei frutti», disse il bambino.

«Non ho più rami», continuò l’albero «non puoi più dondolarti».

«Sono troppo vecchio per dondolarmi ai rami»,disse il bambino.

«Non ho più il tronco», disse l’albero. «Non puoi più arrampicarti».

«Sono troppo stanco per arrampicarmi», disse il bambino.

«Sono desolato», sospirò l’albero. «Vorrei tanto donarti qualcosa… ma non ho più niente. Sono solo un vecchio ceppo. Mi rincresce tanto…».

«Non ho più bisogno di molto, ormai», disse il bambino. «Solo un posticino tranquillo per sedermi e riposarmi. Mi sento molto stanco».

«Ebbene», disse l’albero, raddrizzandosi quanto poteva «ebbene, un vecchio ceppo è quel che ci vuole per sedersi e riposarsi. Avvicinati, bambino mio, siediti. Siediti e riposati».

Così fece il bambino.

E l’albero fu felice.

 

(Shel Silverstein)

 

Dagli scritti di Madre Teresa di Calcutta

Il frutto del silenzio è la preghiera,

il frutto della preghiera è la fede,

il frutto della fede è l’amore,

il frutto dell’amore è il servizio,

il frutto del servizio è la pace.

 

Il servo di tutti

A volte, Signore, la piccolezza del mio essere creatura mi appare inadeguata e insufficiente a contenere i miei più grandi desideri. E faccio di tutto per rompere quelli che avverto come limiti al mio bisogno di espandermi, di ‘sentirmi grande’: essere più degli altri, ricevere più degli altri, contare più degli altri.

Tu vieni incontro a questo prepotente bisogno di emergere e mi proponi di metterlo a servizio dell’amore, facendomi l’ultimo di tutti, il servo di tutti, il più pacifico, il più mite, il più misericordioso, accogliente verso tutti…

Manda dall’altro il tuo Spirito di sapienza, perché faccia della mia vita un’opera di pace.

 

Preghiera

Signore Gesù, liberaci dall’ipocrisia. Desideriamo con l’aiuto del tuo Santo Spirito perseguire quello stile di vita che ci qualifica come tuoi veri discepoli. Permettici di riconoscere le nostre incoerenze, che offuscano lo splendore del tuo vangelo, e di vegliare sull’autenticità della nostra relazione con te e fra di noi.

Ti ringraziamo perché nella tua Pasqua tu ci hai generati a nuova vita, manifestando l’amore del Padre verso di noi. Per questo c’impegniamo davanti a te a non permettere che nei nostri rapporti comunitari prevalga la ricerca dell’apparire e del dominare. Ci impegniamo a custodire la consapevolezza della nostra immeritata figliolanza divina e della fraternità che deve regnare tra noi, nostro compito ma soprattutto tuo inestimabile dono.

Signore Gesù, desideriamo restare radicalmente tuoi discepoli, senza pretendere di diventare maestri di altri, perché dalla bocca tua, o solo Maestro, potremo comprendere, con sempre rinnovata gioia, l’amore di Dio Padre per noi suoi figli.

 

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

 

XXX Domenica del tempo Ordinario (Anno A)

XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Esodo 22,20-26

 

Così dice il Signore:  «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.

Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».

 

v Il brano è preso da quello che gli esegeti (in base a Es 24,7) chiamano “Codice dell’Alleanza” (Es 20,22-23,19), inserito fra la teofonia del Sinai, col dono del decalogo (Es 19,1-20,21), e il rito della stipulazione (Es 24). Offre un chiaro esempio di alcuni precetti sociali profondamente motivati dalla opzione fondamentale dell’amore di Dio e del prossimo. Introducono bene al Vangelo.

Per forma e contenuto si possono dividere in due gruppi.

Il primo gruppo (vv. 20-23) si occupa dei comportamenti verso le persone emarginate di allora; il forestiero, la vedova e l’orfano, un trinomio spesso ricorrente nei profeti. La forma è apodittica: esprime un comando, accompagnato da una motivazione.

Prima proibisce le molestie e le oppressioni verso il forestiero (gher), cioè colui che ha lasciato il proprio ambiente di origine, per motivi economici o politici o di altro genere, e si è inserito nel popolo di Israele. Di solito era persona povera e indifesa, facilmente vittima di soprusi e sfruttamenti.

Motivo della proibizione: anche Israele è stato forestiero in Egitto. Un modo concreto di dire: ama il tuo prossimo come te stesso! A monte c’è pure il motivo teologico, che domanda ancora più amore. A Israele, infatti, Dio dice anche: «La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini» (Lv 25,23). Col cristianesimo questo motivo diventa universale e perenne. I discepoli di Gesù sono «nel mondo» ma non «del mondo» e impegnati a redimerlo (cf. Gv 17,11-19). Per san Paolo «la nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20) e «finché abitiamo nel corpo siamo in esilio»: qui e là occorre essere graditi a Dio (cf. 2Cor 5,6-9; e pure 1Pt 2,11; Eb 13,14). La lettera A Diogneto infine delinea mirabilmente i cristiani nel contempo cittadini e stranieri e benefattori del mondo.

Il brano liturgico proibisce poi i maltrattamenti alla vedova e all’orfano, le persone prive di sostegno per la morte del marito e del padre, quindi esposte a tanti abusi e sopraffazioni. Il motivo qui è subito teologico: Dio stesso si farà loro vindice e punirà i trasgressori con la pena del contrappasso; le loro mogli diventeranno vedove e i loro figli orfani.

Il secondo gruppo (vv. 24-26) ha due precetti su cose necessarie al prossimo indigente. La forma è casuistica: pone un caso e detta la norma, aggiungendo però anche qui delle motivazioni.

Il primo caso riguarda il prestito di denaro e proibisce l’usura, in modo assoluto, verso il povero. Il Deuteronomio riserva questa norma verso ogni fratello israelita e consente di riscuotere interessi dallo straniero (cf. Dt 23,20-21). In pratica i comportamenti devono essere stati piuttosto vari. Nel Nuovo Testamento, Gesù stesso parla di depositi in banca e di interessi (cf. Mt 25,27 e Lc 19,23). Le norme bibliche comunque sono sempre a tutela dei poveri e deboli e opposte ai profittatori.

Il secondo caso riguarda il pegno preso a garanzia della restituzione di un prestito. Se si tratta del mantello, al tramonto bisogna renderlo al proprietario, perché gli serve anche da coperta. Il motivo è altamente umanitario: il pegno non deve mai compromettere la vita o la salute del debitore. Per questo il Deuteronomio vieta assolutamente di prendere la macina, che serve a fare il pane (Dt 24,6), e stabilisce che non si entri in casa a prendersi il pegno, ma si aspetti che il proprietario lo porti fuori. Al motivo umanitario il Codice dell’alleanza aggiunge ancora quello teologico di Dio che ascolta il lamento dell’oppresso, perché è misericordioso, come ha già fatto con Israele in Egitto.

Da notare come questa legislazione ancora primitiva è assai rispettosa nei dettagli pratici e molto ricca nelle motivazioni umane e teologiche.

 

Seconda lettura:  1 Tessalonicesi  1,5-10


Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.

E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia.

Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acàia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.  Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.

 

v A causa della persecuzione, Paolo era dovuto fuggire da Tessalonica, poche settimane dopo la fondazione di quella chiesa, ed era rimasto in ansia per i riflessi negativi che il fatto poteva avere. Ma Timoteo, inviato a supplirlo (1Tess 3,2,6), gli ha portato ottime notizie. Allora scrive questa lettera, che storicamente è il primo documento del Nuovo Testamento. La liturgia ne propone l’esordio, del quale riporta i passaggi finali, dopo solo un cenno di quelli iniziali, sul soggiorno dell’apostolo fra i Tessalonicesi, tutto proteso al bene (v. 5).

Esprime una serie di complimenti ai destinatari, perché nella vita pratica si sono fatti imitatori dell’apostolo e di Cristo, anche nella tribolazione (v. 6), perché sono diventati modelli a tutti i credenti della Grecia, nella quale contribuiscono con la testimonianza alla diffusione della parola del Signore (vv. 7-8), e perché la loro conversione dagli idoli morti al Dio vivente li ha posti nell’attesa fattiva del Cristo risorto, che libera il mondo dall’ira divina (vv. 9-10). Nei versetti sulla conversione, gli esegeti vedono un sunto della catechesi orale di Paolo: lo suggerisce la successione di frasi brevi e simmetriche che riecheggiano la sua predicazione ai pagani, in particolare quella agli Ateniesi di poco anteriore alla lettera (cf At 17,22-31).

Presa in tutto il suo contesto, anche questa seconda lettura ha legami col tema dell’amore di Dio e del prossimo ispiratore di tutti i comportamenti pratici, che è proprio delle altre due. Perché Paolo scrive i suoi pensieri in ginocchio, per così dire, dato che li esprime nel ringraziamento a Dio e li attinge dalla preghiera continua per i Tessalonicesi, come dice all’inizio dell’esordio (1Tess 1,2-5). E si compiace per la loro fede impegnata, per la carità operosa e per la speranza perseverante nel Signore Gesù Cristo. Colloca quindi se stesso e i suoi cristiani in rapporto profondo con la fonte delle loro esperienze e comportamenti. Inoltre pensiero dominante è il ricordo della conversione (vv. 9-10), che ha implicato una opzione fondamentale, in risposta all’iniziativa di Dio che li ha eletti (v. 4): essa che va continuamente rinnovata e coltivata nella preghiera. Richiamato questo, a Paolo non è necessario impartire tanti precetti.

 

Vangelo: Matteo 22,34-40


In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».  Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

 

Il vangelo in immagini:

XXX DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

Esegesi


Siamo alla quarta delle cinque controversie affrontate da Gesù a Gerusalemme prima della passione, riferite dai Sinottici. Sommi sacerdoti, sadducei, farisei ed erodiani, ormai determinati a ucciderlo, si alternano nel contestargli le prese di posizione e gli insegnamenti. In questo episodio, Matteo abbrevia il corrispondente testo di Marco, dove la controversia si conclude con un complimento reciproco tra Gesù e un dottore della legge, che sembra staccarsi dal coro degli avversari.

«Qual è il grande comandamento della legge?»

L’interlocutore si riferisce al libro della legge o Torâh, contenuta nel Pentateuco e sancita con l’Alleanza tra Dio e Israele, domanda quale sia l’impegno basilare di tale Alleanza, dal quale deriva ogni altro. La stipulazione di essa infatti, con opportuni adattamenti, ricalcava lo schema dei patti di vassallaggio tra i popoli dell’area mesopotamica e hittita. Prima avevano un prologo, con la presentazione dei contraenti e dei rapporti già intervenuti fra loro. Poi invitavano all’adesione reciproca totale e perenne che in termini attuali possiamo dire anche una opzione fondamentale: questo è il comandamento «grande» al quale derivano tutti gli altri. Esso è molto chiaro in Dt 6,4-5 nella preghiera «Ascolta, Israele», tuttora recitata quotidianamente, da dove è presa la risposta di Gesù, ed è racco-mandato particolarmente nelle omelie dei capitoli di Dt 5-11.

I patti di vassallaggio elencavano poi le clausole particolari derivate. Quindi era previsto il rito sacro per la stipulazione dell’Alleanza. Infine erano enumerate le maledizioni o penalità per le infrazioni e le benedizioni o vantaggi della fedeltà reciproca.

In questa prospettiva, il dottore della legge non ha proposto a Gesù una sottigliezza rabbinica, ma lo ha sfidato sull’impianto fondamentale della sua fede. Ed ha avuto una risposta adeguata, con l’aggiunta anzi che il secondo comandamento, dell’amore al prossimo, è «simile» al primo, del quale è come l’altra faccia: insieme costituiscono la opzione

fondamentale della fede biblica. Per questo Gesù può dire che da ambedue dipendono tutte le sacre scritture, legge e profeti.

Con questa impostazione diventa chiaro pure per noi che i comandamenti dell’amore non sono propriamente comandati (che amore sarebbe?), ma conseguenti all’impegno dell’alleanza con Dio, nella fede.

Similmente gli altri comandamenti, sviluppati sulla base di essi, non sono soltanto legge naturale resa positiva con la promulgazione del decalogo, ma impegni presi tuttora in una adesione a Dio nella fede e nell’amore.

Una eloquente conferma, per contrasto in negativo, viene da certi comportamenti oggi diffusi: dove sono carenti le opzioni fondamentali di amore a Dio e al prossimo, sono trascurati e calpestati anche tutti fili altri valori morali.

 

Meditazione


La prima lettura presenta alcune leggi tratte dal più antico corpus legislativo della Torâh (il codice dell’alleanza); nel vangelo Gesù, interrogato su quale sia il più grande comando presente nella Torâh, risponde citando il comando di amare Dio con la totalità del proprio essere (Dt 6,5; Mt 22,37-38) e accostandovi,  come secondo e simile, il comando di amare il prossimo come se stessi (Lv 19,18; Mt 22,39). La Torâh, in bocca a Gesù e vissuta da Gesù, è vangelo.

Le leggi e i precetti presenti nell’Antico Testamento, spesso ignorati o conosciuti male dai cristiani, sono testi di ricchezza perenne (come «perenne» è il valore dell’Antico Testamento per i cristiani: Dei Verbum 14) e contengono spesso un importante insegnamento che tende all’umanizzazione dell’uomo. La legge che prescrive al creditore di restituire al povero «al tramonto del sole» il mantello preso in pegno è motivata con una affermazione che esprime la compassione per il sofferente e con una domanda che vuole svegliare l’umanità del creditore nei confronti del misero, che è un essere umano ben prima e ben più di un debitore: «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?» (Es 22,25-26). Qui la legge afferma che la vita di un uomo mette dei limiti a ciò che si è in diritto di pretendere da lui.

La legge che proibisce di opprimere l’immigrato e di sfruttarlo è motivata coinvolgendo il destinatario della legge: «perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20). Questa legge chiede un lavoro interiore, chiede di fare memoria delle sofferenze subite dai padri dei destinatari della legge, quando quelli si sono trovati a vivere e a lavorare da stranieri nel paese d’Egitto. La memoria divenuta legge può ispirare un rapporto umano con chi ora è immigrato nel proprio paese.

La pagina evangelica pone in stretto rapporto la Scrittura e l’amore. La Scrittura che chiede di amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi si compie nell’amore fattivo e concreto: la prassi dell’amore è compimento della Scrittura, è esegesi esistenziale. Si narra che abba Serapione, incontrato un giorno un povero intirizzito dal freddo, si sia denudato per coprirlo con il proprio abito e che, incontrato un uomo che veniva condotto in prigione per debiti, abbia venduto il suo vangelo per pagare il suo debito e sottrarlo alla prigione. Tornato nella sua cella nudo e senza vangelo, a chi gli chiese: «Dov’è il tuo vangelo?», rispose: «Ho venduto colui che mi diceva: “Vendi quello che possiedi o dallo ai poveri”». Il comando diviene grazia, la pagina diviene vita, lo sta-scritto diviene relazione umana.

Il comando di amare il prossimo come se stessi significa anche che, amando il prossimo, io amo veramente me stesso. L’amore per l’altro concreto, con un nome, un volto, un corpo, una storia, mi converte alla realtà e mi conduce a uscire da me, a essere veramente me stesso proprio nell’uscire da me per incontrare l’altro. La nostra verità è personale e relazionale.

Amore degli altri e amore di sé sono spesso contrapporti come ciò che è virtuoso a ciò che è peccaminoso. In realtà, amare gli altri come se stessi implica la capacità di sviluppare e nutrire un sano amore di sé. «Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente» (Erich Fromm). Vi è il rischio di un altruismo nevrotico che porta a voler amare gli altri disprezzando se stessi e ritenendo indegno del cristiano l’amore di sé: ma agli occhi di Dio anch’io sono «un altro», sono un essere umano amato personalmente da Dio, e non ho alcun diritto di disprezzare ciò che Dio stesso ama.

La somiglianza (Mt 22,39) dei comandi di amare Dio e di amare il prossimo è anche la somiglianza dell’amore per Dio e per il prossimo. Noi abbiamo un solo modo di amare. E l’amore del prossimo è criterio di autentificazione del nostro amore di Dio: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

 

Preghiere e racconti


Il cantus firmus

Ogni grande amore comporta il rischio di farci perdere di vista quella che amerei definire la polifonia della vita. Mi spiego. Dio e la sua eternità vogliono essere amati da noi pienamente. Ma quest’amore non deve ne nuocere a un amore terreno ne indebolirlo; deve essere in qualche modo il cantus fìrmus attorno al quale cantano le altre voci della vita. L’amore terreno è uno di quei temi in contrappunto che, pur avendo la loro piena indipendenza, si ricollegano comunque al cantus fìrmus. Là dove il cantus fìrmus è chiaro e distinto, il contrappunto può esprimersi con la maggior potenza possibile. I due sono inseparabili e tuttavia distinti, per usare il linguaggio del concilio di Calcedonia, come la natura umana e la natura divina del Cristo. La polifonia musicale è così vicina a noi e così importante per noi forse proprio per il fatto di essere l’immagine musicale di questo dato cristologico, e quindi anche della nostra vita cristiana?

(D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e appunti dal carcere)

 

Chi non ha l’amore

Chi non ha l’amore guarda gli alberi

e non vede mai bruciare le loro foglie.

Non vede l’uccello, non vede l’ape

né il giorno che ritorna dalle Cicladi.

 

Chi non ha l’amore non sente gli alberi

la musica dei muschi sui loro tronchi.

 

L’autunno si fa uggioso, gli uomini

Dicono – È finita la bella stagione! –

 

Essi non sanno – mai sapranno –

che basta un uccello a farci svernare.

 

L’ape, l’uccello, gli alberi, l’azzurro…

Chi non ha l’amore non ne è cosi certo!

(Ch. le Quintrec)

 

Aprire il cuore all’amore di Dio

E così, più impari ad amare Dio, più impari a conoscere e a voler bene a te stesso. La conoscenza e l’amore di noi stessi sono frutti della conoscenza che abbiamo di Dio e dell’amore che nutriamo per lui. Ora puoi comprendere meglio il significato del grande comandamento: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22,37-38). Se apriremo totalmente il cuore all’amore di Dio, avremo per noi stessi un amore che ci darà la forza di amare il prossimo con tutto il cuore. E nel segreto del nostro cuore che impareremo a conoscere la presenza nascosta di Dio; e con questa conoscenza spirituale potremo vivere una vita d’amore. Ma tutto questo esige disciplina. La vita spirituale richiede una disciplina del cuore. La disciplina è il distintivo del discepolo di Gesù. Il che però non mira a crearti difficoltà, ma a mettere a tua disposizione uno spazio interiore dove Dio possa toccarti con un amore che ti trasforma completamente.

(Cf. H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 2008).

 

A causa dell’amore per lui, dimostreremo amore per gli altri

Cerchiamo, vi prego, di amare Cristo. Egli da te non desidera nient’altro se non che tu lo ami con tutto il cuore e compia i suoi comandamenti. Chi lo ama come si deve, evidentemente si sforza anche di adempiere i suoi comandamenti. Quando infatti si comporta con sincerità nei confronti del prossimo, cerca di fare di tutto per attirare a sé l’amato. Anche noi, dunque, se amiamo con sincerità il Signore, possiamo adempiere i suoi comandamenti e non far nulla di ciò che può irritare l’amato.

Questo è il regno dei cieli, questo il godimento dei beni, questo ottiene i mille beni: l’amare sinceramente e nel modo dovuto. Lo ameremo sinceramente se, a causa dell’amore per lui, dimostreremo grande amore per gli altri, servi al pari di noi. Sta scritto: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i profeti» (Mt 22,40), cioè dall’amare il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutte le tue forze e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come e stesso (cfr. Mc 12,30-31). Questo è il culmine di tutte le virtù, questo è il fondamento. All’amore verso Dio si aggiunge anche l’amore verso il prossimo. Colui che ama Dio, infatti, non deve disprezzare suo fratello, e non deve stimare il denaro più di un membro del suo corpo, e deve mostrare una grande benevolenza nei suoi confronti, ricordando ciò che Cristo ha detto: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). E considerando che il Signore dell’universo ritiene come reso a se stesso il servizio prestato a un compagno, farà tutto con grande sollecitudine e nell’elemosina mostrerà una grande generosità; non rifiuterà la miseria apparente del povero, ma guarderà alla grandezza di Colui che ha promesso di accogliere come compiuta per sé stesso qualunque cosa operata a favore di un povero. Non tralasciamo, dunque, il profitto delle nostre anime, la medicina delle nostre ferite. E questo, infatti, è questo che ci offre una medicina tanto efficace da far scomparire le ferite delle nostre anime in modo da non lasciare nessuna traccia, nessuna cicatrice, cosa che non è possibile per le ferite del corpo.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla Genesi, om. 55,3, PG 54,482-483).

 

L’amore incomincia in casa propria

«Non possiamo parlare dell’amore per gli altri se non riconosciamo che l’amore incomincia in casa propria. Dobbiamo innanzitutto amare noi stessi. L’esperto di relazioni interpersonali Harry Stack Sullivan, afferma che “si ama una persona, quando la sua felicità, la sua sicurezza ed il suo sentirsi bene ci stanno a cuore come o più delle nostre”. La tesi evidente che sta dietro a questa affermazione, è che io abbia a cuore la mia felicità, la mia sicurezza ed il mio star bene. Infatti, nella stessa misura in cui non riesco ad amare me stesso sarò incapace di amare gli altri».

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 69).

 

Amare l’altro con umiltà, discrezione e rispetto

«La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. “Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. “Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui».

(Thomas Merton, un monaco trappista).

 

Voglio Te solo, Signore

Ti ho cercato, o Signore della vita,

e tu mi hai fatto il dono di trovarti:

te io voglio amare, mio Dio.

Perde la vita, chi non ama te:

chi non vive per Te, Signore,

è niente e vive per il nulla.

Accresci in me, ti prego,

il desiderio di conoscerti

e di amarti, Dio mio:

dammi, Signore, ciò che ti domando;

anche se tu mi dessi il mondo intero,

ma non mi donassi te stesso,

non saprei cosa farmene, Signore.

Dammi te stesso, Dio mio!

Ecco, ti amo, Signore:

aiutami ad amarti di più.

(Sant’Anselmo di Aosta)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

 

XXIX Domenica Tempo Ordinario (anno A)

XXIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

 

Prima lettura: Is 45,1.4-6

 

Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri».

 

v Il profeta fa in questo brano una rivelazione da parte di Dio che a prima vista suona strabiliante: Ciro, un re pagano uno che non conosce il Signore (Is 45,4) è chiamato «eletto» (Is 45,1), anzi il termine ebraico è «unto», messia, titolo riservato normalmente al re di Israele (1Sam 9,26). Ma i piani di Dio sono «imperscrutabili» (cf. Is 55,6-9) ed egli è Signore della storia: «non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri» (Is 45,5).

Dentro alla storia universale ce n’è una guidata in modo particolare da Dio. È la storia di Israele; infatti Dio spiega la scelta di Ciro in questo modo: «Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca» (Is 45,4). Tali parole fanno chiaramente vedere che l’iniziativa è del Signore, che agisce in piena libertà, al di fuori di ogni iniziativa umana. Del resto chi può vantare di aver dato consigli a Dio? (cf. Is 14,13).

La chiamata di Dio è per il servizio, la gloria se arriverà sarà conseguenza dell’aver servito fedelmente nella missione affidata da Dio. Ciro come eletto da Dio è anche suo servo e il modello per eccellenza del «servo del Signore» è Israele, la cui chiamata è per il bene delle nazioni e non per la propria gloria.

 

Seconda lettura:  1Ts 1,1-5


Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace. Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro. Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.

 

v La seconda lettura ci presenta l’inizio della prima lettera ai Tessalonicesi. Paolo e i suoi compagni Silvano e Timoteo augurano «grazia e pace» «alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo» (1Tes 1,1).

Vale la pena di soffermarsi su questo saluto augurale, che racchiude significati profondi. L’espressione di saluto si ripete all’inizio e alla fine delle lettere paoline; essa può venire letta come formula stereotipata, oppure nello spessore che le due parole, grazia e pace, assumono nell’orizzonte biblico. Tale è la molteplicità e la ricchezza dei loro significati che in questo contesto è possibile solo qualche accenno fugace.

Grazia è il favore di Dio assolutamente libero da ogni condizionamento, strettamente legato alla sua misericordia (cf. Es 33,19; Sap 3,9). In Cristo abbiamo ricevuto la grazia e la misericordia di Dio, che in lui ha rivolto il suo sguardo benevolo sui peccatori (cf. Rm 3,21-26).

Pace è bene grande e comprensivo di tutti gli altri beni donati da Dio. Pace su Israele è invocata dalla benedizione sacerdotale (cf. Num 6,26); pace è una caratteristica fondamentale dell’epoca messianica; titolo del Messia è «principe della pace» (cf. Is 9,5); la pace stessa insieme con la giustizia governeranno in Sion città del Signore: «Costituirò tuo sovrano la pace, tuo governatore la giustizia» (Is 60,17).

Nel saluto è sottolineata anche la caratteristica essenziale della Chiesa: essere «in Dio Padre e in Gesù Cristo». La missione della Chiesa è diffondere il vangelo, opera possibile per mezzo della parola, sostenuta, però, dalla potenza divina, vale a dire lo Spirito Santo (1Tes 1,5).

«Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui» (1Tes 1,4). L’elezione è dono gratuito di Dio ed anche per i discepoli della chiesa di Tessalonica vale quanto detto nella prima lettura: l’iniziativa è di Dio, a lui bisogna rispondere, lui bisogna servire a modello del «servo Israele», a cui si è conformato Gesù Cristo.

 


Vangelo: Mt 22,15-21


In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

 

 


Immagini sul vangelo

XXIX DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

Esegesi


Nella prima parte del brano che leggiamo oggi sono nominati tre gruppi di ebrei: i farisei, i sadducei e gli erodiani, attivi ai tempi di Gesù. Gli erodiani erano i sostenitori del re Erode e nei vangeli sono nominati normalmente insieme ai farisei; non traspare un preciso pensiero teologico a loro attribuito. I farisei e i sadducei, invece, si qualificavano per un diverso e incompatibile atteggiamento rispetto al valore della Torâh scritta (Pentateuco) e della Torâh orale, che potremmo chiamare la Tradizione. Molto schematicamente, possiamo dire che i sadducei, il gruppo da cui uscivano i sacerdoti del tempio, sostenevano che ci si doveva attenere alla lettera della Torâh scritta; i farisei, invece, accettavano lo sviluppo della Torâh orale, che credevano contenuta anch’essa nella rivelazione a Mosè al Sinai.

Essi si adoperavano, perché, tutto il popolo, non solo i sacerdoti o i dottori della legge, conoscesse i precetti e li mettesse in pratica (per un utile approfondimento cf. J. NEUSNER, Il giudaismo nei primi secoli del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1989; G. STEMBERG, Farisei, Sadducei, Esseni, Paideia, Brescia 1993). Le dispute fra i vari gruppi avvenivano spesso in un clima polemico, come si intravvede anche dal brano di oggi.

I sadducei sono presentati nei vangeli come «coloro che non credono nella risurrezione e disputano su questo argomento con Gesù» (Mc 12,18-27; Mt 22,23-33; Lc 20,27-39).

Più variegato è l’incontro-scontro con i farisei, il cui atteggiamento polemico sia con Gesù, sia, come nel caso del nostro brano, con i sadducei, che «Gesù aveva ridotto al silenzio», è senz’altro riconducibile allo zelo per la Torâh e al loro interesse di trovare i modi più adatti per metterla in pratica nella situazione concreta. All’interno stesso del gruppo dei farisei c’erano diversità di vedute; lo intravediamo in Luca dove i farisei ospitano Gesù (cf. Lc 7,36; 11,37; 14,1) e sono dei farisei che avvertono Gesù del pericolo dell’ostilità di Erode: «In quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: ‘Allontanati da qui, perché, Erode vuole ucciderti’» (Lc 13,31). Matteo è più interessato alla disputa teorica e meno attento alla realtà storica, a cui invece guarda Luca e dalla quale risulta che, anche all’interno di uno stesso gruppo, vi sono posizioni e atteggiamenti diversi.

L’annotazione di Matteo secondo cui i farisei prendono coraggio di interrogare Gesù dopo che hanno udito che «aveva chiuso la bocca ai sadducei» e lo fanno per «metterlo alla prova» (Mt 22,34) porta subito all’atmosfera di polemica, che regnava fra i diversi gruppi, ma al tempo stesso mostra che Gesù è riconosciuto un maestro.

Al Maestro veritiero che insegna la via di Dio e non guarda in faccia a nessuno (Mt 22,16) viene posta la cruciale questione, che spaccava di netto le correnti ebraiche del tempo, sulla legittimità di versare il tributo all’imperatore romano. Gesù rispose riproponendo la stessa alternativa tra Dio e gli uomini. Si dia pure, per ora, il tributo a Cesare, ma si ricordi che la scelta decisiva sta nel rendere a Dio quel che è di Dio; proprio come prima era decisivo sapere, come fecero i pubblicani e le prostitute (Mt 21,32), che il battesimo di Giovanni veniva dal cielo e non dagli uomini.

Per giungere a questa conclusione Gesù si fa mostrare la moneta del tributo chiedendo di chi sia l’effigie e l’iscrizione impressa su di essa. All’inevitabile risposta che esse appartengono a Cesare, Gesù replica affermando: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21; Mc 12,17; Lc 20,26). Il verso impiegato da tutti e tre i sinottici in questa risposta (apodidômi) allude a un significato non solo di un semplice dare, quanto piuttosto di un «dare indietro», di un «restituire». Restituite pure a Cesare quanto è suo, come è comprovato dall’effigie e dall’iscrizione, ma soprattutto restituite a Dio quanto porta impressa in sé la sua immagine: cioè voi stessi. È l’uomo stesso la moneta di Dio che gli deve essere restituita con frutto (cf. Mt 25,14-30). Rashi, — il massimo commentatore ebreo medievale della Bibbia — nel suo commento alla Genesi, chiosa così il versetto secondo cui Dio creò l’uomo a sua immagine (Gn 1,27): Cioè secondo il modello fatto per lui. Infatti tutte le altre cose furono create con la Parola, ma l’uomo fu creato con le mani, come sta scritto: «Hai posto su di me la tua mano» (Sal 139,5). Egli fu fatto con un sigillo, come una moneta che è fatta con un conio. Allo stesso modo sta scritto: «Si trasforma come creta da sigillo» (Gb 38,14)» (cf. Commento alla Genesi, cit., 13). Chi porta in se stesso l’immagine e il sigillo del Signore a lui appartiene, a lui deve innanzitutto obbedire (cf. At 5,29). (PIERO STEFANI, Sia santificato il tuo nome, Commenti ai Vangeli della domenica. Anno A, Marietti, Genova 1986, 200s).

Gesù non cade nel tranello di risolvere una questione contingente, relativa all’istituzione politica del momento, per la quale sono gli interessati stessi che devono trovare una soluzione adatta a quel preciso momento. Egli, da parte sua, ribadisce il principio della dignità delle persone umane, che hanno la facoltà di scegliere proprio perché create ad immagine di Dio.

 

 

Meditazione

 

La signoria di Dio è al cuore della prima lettura come del vangelo. Isaia presenta un’audace pagina di teologia della storia in cui si afferma che Ciro, re persiano, dunque pagano, è stabilito da Dio come Messia, con un’estensione inaudita di quella che era una prerogativa della dinastia davidica. Il passo profetico sottolinea l’assoluta libertà di Dio e la sua unicità («Io sono il Signore, non ce n’è altri»: Is 45,6). Il vangelo mostra la rela-tivizzazione delle autorità umane, anche l’imperatore, che all’epoca era divinizzato, davanti a Dio. Se l’autorità statale può esigere tasse e tributi (cfr. Rm 13,7), se alle autorità va accordato il rispetto (Rm 13,7), il timore va riservato a Dio (1Pt 2,17), creatore e signore di ogni uomo.

La risposta di Gesù alla domanda trabocchetto che gli viene rivolta dai suoi avversari batte due piste: evita la politicizzazione dell’immagine di Dio e si oppone alla sacralizzazione del potere politico. Gesù infatti, da un lato, si distanzia dagli zeloti che consideravano Dio come unico «Cesare» legittimo e, dall’altro, critica la sacralizzazione del potere politico demitizzando Cesare. In entrambi i casi siamo di fronte a tentazioni idolatriche. Nel primo caso la tentazione è di dare a Dio quel che spetta a Cesare, all’entità statale, cadendo in posizioni religiose totalitarie e non dialogiche, irrispettose dalla «laicità» dello stato e del potere politico; nel secondo, la tentazione è di dare a Cesare quel che spetta a Dio, all’interno di una assolutizzazione del potere politico.

Interessante il commento a questo passo di Kierkegaard, commento giocato sul tema dell’infinita indifferenza di Gesù nei confronti di Cesare e dell’infinita differenza che egli pone tra Dio e Cesare: «O infinita indifferenza! Che Cesare si chiami Erode o Salmanassar, che sia romano o giapponese, è cosa che a Gesù non importa minimamente. Ma, d’altra parte, quale abisso d’infinita differenza egli stabilì fra Dio e Cesare».

Le parole di risposta di Gesù ai suoi interlocutori sono importanti particolarmente nella loro seconda parte, quando Gesù aggiunge – non necessaria perché non richiesta dalla domanda che gli era stata posta – l’affermazione che riguarda il «dare a Dio quel che è di Dio». Questa rivendicazione significa che, se l’imperatore esige per sé ciò che spetterebbe a Dio, come l’adorazione, il cristiano – memore della parola che dice: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29) – non è tenuto a dargliela, anzi può perfino affrontare il martirio, mostrando che solo Dio è il Signore della vita.

Tertulliano scrive: «Quali saranno le cose di Dio che siano simili al denaro di Cesare? Si intende l’immagine e la somiglianza con lui. Egli comanda quindi di rendere l’uomo al creatore, nella cui immagine e nella cui somiglianza era stato effigiato» (Contro Marcione IV, 38,1). Se il tema dell’immagine rinvia naturalmente all’uomo creato da Dio e capax Dei, il tema dell’iscrizione la si ritrova in un passo isaiano in cui designa l’appartenenza dell’uomo a Dio. I convertiti alla fede nel Dio d’Israele porteranno sulla mano l’iscrizione «Del Signore» e diranno: «Io appartengo al Signore» (Is 44,5). Le parole di Gesù spingono ogni credente a porsi la domanda: a chi appartengo? Chi è il mio signore?

Nella dialettica posta da Gesù tra Cesare e Dio si situa la condizione del credente che è nel mondo, ma non del mondo (cfr. Gv 17,11.16), che abita la città secolare, ma attende il Regno di Dio, che vive la pólis, ma ha il políteuma, la cittadinanza nei cieli (cfr. Fil 3,20). Una fedeltà alla terra e alla pólis autentica il cristiano la vive grazie alla sua riserva escatologica, alla sua attesa escatologica.

Il ridare a Dio quel che è di Dio va inteso anche nel senso di operare perché il mondo – uscito dalle mani di Dio e affidato a quelle dell’uomo -, nei suoi ordinamenti e nelle sue istituzioni, possa rispondere a quei requisiti di giustizia e diritto che sono propri della prassi messianica.

Ciò che è di Dio è anche, propriamente, ciò che è dell’uomo e nell’uomo, l’umano. E rendere a Dio ciò che è suo implica anche il compito umano di divenire la propria umanità, di umanizzare il mondo e i suoi rapporti.

 

 

Preghiere e racconti


 

Dio e Cesare


Dobbiamo concedere certe cose al corpo, un tributo a Cesare a seconda dei casi, cioè nella misura richiesta. Ma le cose che riguardano la natura delle nostre anime, cioè quelle che conducono alla virtù, bisogna offrirle a Dio.

(Origene, Catena aurea).

 

La moneta del tesoro divino


Siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26). Tu sei uomo, o cristiano. Sei quindi la moneta del tesoro divino che reca l’effigie e la scritta dell’imperatore divino. Perciò, io chiedo con il Cristo: «Quest’effigie e questa scritta di chi sono?». Tu rispondi: «Di Dio». Aggiungo: «Perché quindi non rendi a Dio ciò che è suo?».Se vogliamo essere realmente un’immagine di Dio dobbiamo assomigliare al Cristo, poiché egli è l’immagine della bontà di Dio e l’effigie che esprime il suo essere (cf. Eb 1,3). E Dio ha destinato coloro che conosceva in anticipo ad essere l’immagine del suo Figlio (Rm 8,29)… Così coloro che somigliano al Cristo con la loro vita, la loro condotta e le loro virtù, modellandosi su di lui, rendono veramente visibile l’immagine di Dio.

(Lorenzo da Brindisi, Omelia sul Vangelo)

Chiesa e comunità politica


La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane… Predicando la verità evangelica e illuminando tutti i settori dell’attività umana con la sua dottrina e con la testimonianza resa dai cristiani, [la Chiesa] rispetta e promuove anche la libertà politica e la responsabilità dei cittadini.

(Vaticano II, Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, 76; EV 1/1581)

 

Memorie della clessidra


Il volto di Dio

nel bronzo o nella cera,

il volto di Dio

chi saprà dirmelo?

In quale secolo in quale luogo

raggiungere questo volto?

Il volto di Dio

è senza casa e senza età.

Narciso nel suo specchio

invano si contempla

sognando di scorgere

un dio che gli somigli.

Interrogare il cielo

del solstizio e il suo midollo

di fuochi? È un altare

che nasconde troppe stelle.

Forse con occhi

di bambini, puri come neve,

il volto di Dio

sarà intrappolato?

(J. Vuaillat, Memorie della clessidra)

 

Angeli smemorati

 

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.

Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.

Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.

E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.

Se solo si guardassero “dentro”!

 

Dio richiede la sua immagine impressa nell’uomo

 

Se con la dissomiglianza ci allontaniamo da Dio, con la somiglianza ci avviciniamo a lui. Quale somiglianza? La somiglianza secondo la quale siamo stati creati, che peccando abbiamo rovinato, che abbiamo ritrovato con il perdono dei peccati. È un’immagine che si rinnova nel profondo di noi stessi, è l’immagine del nostro Dio che viene, per così dire, scolpita nuovamente sulla moneta, cioè nell’anima perché ritorniamo a far parte dei suoi tesori. Perché, fratelli, il Signore nostro Gesù Cristo volle mostrare a quanti lo tentavano ciò che Dio richiede da noi si servì di una moneta? A proposito del tributo dovuto a Cesare, essi cercavano un pretesto per calunniarlo (cfr. Mt 22,15-22); vollero consultarlo come maestro di verità e lo tentarono chiedendogli se fosse lecito o no pagare il tributo a Cesare. Ed egli cosa rispose? Perché mi tentate, ipocriti? Chiese che gli fosse portata una moneta e quando gli fu portata, disse: «A chi appartiene l’immagine?». Risposero a Cesare. Ed egli: «Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mt 22,21).

E come se dicesse: Se Cesare richiede la sua immagine impressa sulla moneta, forse che Dio non richiede la sua immagine impressa nell’uomo? Il nostro Signore Gesù Cristo invitandoci a tale somiglianza ci comanda di amare anche i nostri nemici e da quale esempio Dio stesso. Dice: «Siate come il Padre vostro che è in cielo fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Siate dunque perfetti come il Padre vostro è perfetto» (Mt 5,45-48). Quando dice: «Siate perfetti come egli lo è», ci invita a alla somiglianza con lui. E se ci invita alla somiglianza, ciò significa che, diventati dissimili, ci eravamo allontanati. Andati lontano per la dissomiglianza, ci riavviciniamo attraverso la somiglianza.

(AGOSTINO DI IPPONA, Esposizione sul salmo 94,2, NBA XXVII, pp. 306-308).

 

Il diamante caduto nel fango

 

Ho conosciuto un santo, gli ero intimo amico come un Figlio di Dio: si chiamava Don Giovanni Calabria, fondatore d’una grande opera caritativa.

Quando c’incontrammo in occasione della mia prima messa, mi disse: «Se tu trovassi sulla strada un diamante caduto nel fango che cosa faresti?». Risposi: «Non avrei nessuna ripugnanza a sporcarmi; lo prenderei su, lo laverei, ridonandolo in tal modo alla sua originale brillantezza». «Fà così con l’uomo» soggiunse.

(Zeno SALTINI, L’uomo è diverso, Ed. Stai).

 

Preghiera


O Dio, tu sei il Re della storia e tutto fai concorrere al bene di coloro che ti amano: anche le prove più difficili, i nostri esili. Ti preghiamo di donarci il tuo Spirito, affinché  possiamo vedere nella luce della fede le complesse vicende della storia, scorgendovi la tua mano amorosa che realizza il meraviglioso piano di salvezza per il tuo popolo e per l’intera umanità. Ti ringraziamo perché ci chiami a collaborare al tuo progetto e ci chiedi di saper assumere le nostre responsabilità nell’ambito civile e politico. La parola del tuo Figlio c’infonde un’accresciuta consapevolezza: il potere umano non può essere né  demonizzato né divinizzato, ma in esso si deve manifestare l’orientamento della nostra libertà.

Ti ringraziamo per averci fatti a tua immagine e per averci rivelato la nostra vocazione cristiana: essa ci impegna a rispondere della qualità morale delle scelte grandi e piccole nella vita d’ogni giorno. Grazie perché con il tuo aiuto potremo vivere tutto questo, rendendo a Cesare ciò che è di Cesare e a te, o nostro Dio, quanto è tuo. Ossia le nostre stesse vite!

 

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

 

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)

 

XXVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Isaia 25,6-10a

Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati.

Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre.

Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.

Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza, poiché la mano del Signore si poserà su questo monte».

v I capitoli 24-27 costituiscono una raccolta di oracoli apocalittici, di epoca post-esilica, inseriti nel libro di Isaia. Vi si descrive in particolare il banchetto che celebra l’intronizzazione del Signore.

v. 6 – Il banchetto simboleggia la salvezza universale realizzata nel regno dei cieli.

Il monte Sion sarà il luogo di questa celebrazione universale: il Signore preparerà il banchetto, descritto con immagini colorite ed esuberanti, per tutti i popoli.

v. 7 – La festa escatologica segnerà anche la definitiva e universale rivelazione del Signore: il velo che rendeva ciechi i popoli e la coltre che nascondeva la verità alle nazioni sono rimossi. «Il re presenta i suoi regali durante il banchetto: prima i popoli non vedevano il Signore, perché erano ciechi: ora il Signore stesso scopre i loro occhi perché possano conoscerlo» (L. ALONSO SCHÖKEL).

v. 8 – «Apocalisse» significa «rivelazione», e oracolo apocalittico non è sinonimo di catastrofe ma di salvezza. Il Signore vince la morte, vince il dolore e le lacrime; la parola del Signore farà cessare l’infelicità del popolo: l’oracolo sarà ripreso in Ap 7,17; 21,4.

vv. 9-l0a – Segue il canto del popolo salvato, che esulta nel Signore e proclama le sue lodi.

 

 

Seconda lettura: Filippesi 4,12-14.19-20

Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni.

Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù.  Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

v La lettera ai Filippesi è una delle «lettere dalla prigionia». Paolo è in attesa di giudizio, e rischia la condanna a morte. Nonostante questa condizione drammatica, egli esorta all’obbedienza e all’amore, con speranza e gioia.

Scrive ai cristiani di Filippi, in Macedonia (Grecia), la prima chiesa da lui fondata in Europa.

Le catene della prigionia di Paolo risultano essere un incoraggiamento a predicare il Vangelo: nella persecuzione l’apostolo riconosce un dono di grazia che giova alla diffusione del messaggio di Cristo (cf. 1,14 ss.).

In chiusura della lettera Paolo ha parole toccanti di gratitudine nei confronti dei Filippesi per la premura che hanno dimostrato nei suoi confronti.

Tuttavia, egli ribadisce di non pretendere nulla: le tribolazioni e soprattutto una vita spesa al servizio del Vangelo gli hanno insegnato a far fronte a tutto, forte solo dell’aiuto di Colui che mi dà la forza.

v. 12 – Per due volte ripete «so vivere»; il terzo verbo, «sono allenato» (memyemai), era usato per i riti di iniziazione. L’oggetto — le circostanze che Paolo ha imparato ad affrontare — sono indicate da una serie di infiniti. Paolo è stato iniziato a tutti i misteri della vita, le vicissitudini della realtà quotidiana sono state come riti di iniziazione che lo hanno reso capace di far fronte a tutto.

v. 13 – L’apostolo qualifica la propria autosufficienza: «tutto questo» (ciò che ha elencato nel versetto precedente), posso affrontarlo grazie al Signore. Il segreto della sua indipendenza è la dipendenza da un altro, viene dal trovarsi in unione vitale con Colui che mi dà forza.

v. 14 – Ed ecco cosa possono fare di buono e giusto i Filippesi: diventare partners di Paolo, prendendo parte alle sue tribolazioni.

vv. 19-20 – Nei due ultimi versetti (seguono i saluti e il commiato) Paolo ripete il verbo «colmare» (pleroun) e la parola «bisogno» (chreia) che ha adoperato più sopra (vv. 16 e 18): là per dire che i Filippesi hanno dato a Paolo ciò che gli era necessario, qui per dire che Dio colmerà di doni i Filippesi per ogni loro bisogno. L’espressione «il mio Dio» è rara in Paolo. La conclusione è una doxologia.

 

Vangelo: Matteo 21,1-14

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:  «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.

Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.

Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.  Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.  Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

 

 

Immagini di commento al Vangelo

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Esegesi

Siamo nell’ultimo periodo del ministero di Gesù, la sua predicazione in Gerusalemme, dall’ingresso festoso e trionfale nella città (21,1-10) alla Pasqua.

L’evangelista raggruppa qui una serie di parabole che più si avvicinano al tema del giudizio, sviluppato poi nel cap. 25 (i due figli, i vignaioli omicidi, il banchetto di nozze; più avanti, le dieci vergini e i talenti).

Le tre parabole del primo gruppo sono poste in crescendo e legate fra loro: nella prima e nella seconda si parla di «vigna», nella seconda e nella terza di invio dei servi. Sono introdotte dalla domanda sull’autorità di Gesù (21,23), alla quale Gesù non risponde apertamente, ma appunto in parabole.

Nella prima Gesù si riferisce al Battista: «non gli avete creduto». È un verdetto di colpevolezza nei confronti di coloro che non hanno riconosciuto ciò in cui «i pubblicani e le prostitute… hanno creduto» (21,32). La seconda parabola parla di Gesù, il Figlio inviato per ultimo, e della pena inflitta su indicazione degli stessi ascoltatori (cf. 21,40-41): «a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produrrà frutti»  (21,43). Infine, la terza parla dei discepoli, e raffigura l’esecuzione della pena. Il culmine si ha con l’ammonizione alla comunità, su cui pende la possibilità di questo destino di condanna (22,11-14).

La parte conclusiva (11-14) dove si parla dell’abito nuziale, che manca nel parallelo di Luca, costituiva forse originariamente una parabola autonoma, introdotta dal v. 2. Si evita con questa ipotesi l’incongruenza di pretendere che invitati improvvisati e casuali dovessero avere l’abito adatto (l’usanza di fornire l’abito agli ospiti non è attestata per i tempi di Gesù); inoltre si usano vocaboli diversi per indicare i «servi» (douloi, vv. 3-10; diakonoi, v. 13). Le due parabole — dell’invito rifiutato e dell’abito nuziale — sarebbero poi state unificate nella figura complessiva del «re» che prepara le «nozze» del «figlio»: diventa chiaro sia il riferimento al giudizio finale e all’età della salvezza (il banchetto del regno), sia al compimento in Gesù (il Figlio).

I servi mandati a chiamare gli ospiti, specialmente per il secondo invito quando il banchetto è già pronto, sono per Matteo i discepoli che invitano nel nome di Gesù. Il rifiuto opposto dagli invitati è netto fin dal primo momento e senza scuse né motivi: «non volevano venire» (v. 3); solo in seguito si dice che, non essendo venuti, badavano ai propri affari.

I vv. 6-7 mostrano un crescendo che aggrava in maniera quasi incomprensibile l’accaduto, e che manca nella versione lucana: alcuni uccidono i servi, il re fa uccidere gli assassini e addirittura incendiare la loro città (al singolare!). Subito dopo (senza citare «il re») giudica indegni i primi invitati e manda i servi a cercare altra gente. Si pensa che i vv. 6-7 siano un’interpolazione successiva, che risente dell’eco degli eventi del 70 d.C. e indica la persecuzione dei messaggeri di Gesù e il giudizio di Dio su Gerusalemme. Furono probabilmente aggiunti dopo l’unificazione delle due parabole; vi si parla infatti di un re, mentre la parabola degli invitati non fa pensare a un re che invita altri capi di città, ma semplicemente a un uomo ricco che invita suoi pari (cf. il parallelo di Luca).

I servi escono infine a chiamare «cattivi e buoni» e la sala si riempie.

La parabola dell’abito nuziale (vv. 2.11-14) qui inserita è un monito alla comunità. Essa indica il rifiuto di Gesù da parte di Israele, e avverte la comunità di non fare la stessa cosa. «Invitare» è detto con il verbo kaleô, che significa «chiamare»: è Dio che chiama alla salvezza.

La parabola dell’abito mostra che i chiamati al banchetto del regno non possono restare come prima, ma assumono un nuovo modo di essere: il battezzato è un «uomo nuovo» (Col 3,10), «indossa Cristo» (Gal 3,27), come dice Paolo.

Il finale (v. 14) mette in guardia dalla falsa sicurezza di chi pensa di avere già in tasca la salvezza: «chi è chiamato da Dio non può mai considerare questa vocazione un ‘possesso’ acquisito, ma deve viverla giorno per giorno» (Eduard SCHWEIZER, Il vangelo secondo Matteo, Paideia, 2001, p. 391). Non si può così ridurre il significato della parabola a una sostituzione della predicazione a Israele con la predicazione ai pagani: l’evangelista vuole ricordare ai discepoli di Gesù che l’accettazione dell’invito e il battesimo devono continuare a caratterizzare tutta la vita del cristiano, perché possa restare seduto al banchetto.

 

Meditazione

La prospettiva escatologica traversa la prima lettura e il vangelo: Isaia intravede la fine della morte e Matteo il giudizio finale (soprattutto in Mt 22,13).

Le immagini utilizzate per evocare l’evento finale, il Regno, l’atto con cui Dio mette fine alla storia compiendo la storia, sono umane, umanissime: banchetto e nozze. La realtà più divina è espressa con le immagini più umane: convivialità e nuzialità, cibo e eros.

Sono immagini che al loro cuore hanno la relazione, l’incontro, l’amore, la celebrazione della vita attorno a una tavola e nell’abbraccio nuziale. La vita spirituale cristiana si realizza non con un distanziamento dall’umano, quasi che questa fosse la via per divenire più spirituali, ma come un fare ciò che Dio stesso ha fatto: divenire umani, assumere la propria umanità come compito da realizzare.

L’immagine profetica del Dio che ammannisce un banchetto per tutti i popoli, preparando cibi succulenti e grasse vivande, rinvia all’amore di Dio per l’umanità. Preparare da mangiare per qualcuno significa amarlo, significa dirgli: «Io voglio che tu viva», «Io non voglio che tu muoia». Ma se il nostro cibarci ci fa vivere, ma non ci libera dal morire, Isaia aggiunge che Dio «eliminerà la morte», anzi, letteralmente, «divorerà la morte», «inghiottirà la morte» (Is 25,8). Il Dio che prepara da mangiare per tutti i popoli compie una promessa di vita per l’umanità intera, vita che sarà «per sempre» (Is 25,8). Il banchetto preparato dal Dio che divora la morte, un banchetto in cui il mangiare è anche una liberazione dalla morte, è simbolo di una realtà altra da quella terrena, una realtà in cui Dio regna, non l’uomo. Di questa realtà è figura e preannuncio l’eucaristia.

La parabola evangelica è una sorta di visione teologica di una fase della storia della salvezza. Essa parla allegoricamente dell’evento pasquale messianico (le nozze del figlio del re: v. 2), del rifiuto opposto ai missionari cristiani da parte di Israele (gli invitati indifferenti o violenti fino all’omicidio: vv. 3-6), della distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. (il re irato che fa perire gli uccisori e incendia la loro città: v. 7), dell’estensione della missione cristiana ai pagani (gli invitati che si trovano ai crocicchi delle vie: vv. 8-10), del giudizio che incombe sulla chiesa stessa e sui nuovi invitati (l’uomo che non ha l’abito nuziale: v. 11-13). La chiesa, come Israele, è situata nell’orizzonte del giudizio.

La parabola è giocata sulla dialettica tra dono e responsabilità. L’invito è gratuito, ma impegna chi lo riceve e gli chiede di farsene rispondente. L’abito nuziale significa il prezzo della grazia. C’è una risposta che il chiamato è tenuto a dare all’invito gratuito, una sinergia in cui deve entrare. Molti sono gli ostacoli che l’uomo oppone alla chiamata. Anzitutto, la non volontà: «non volevano venire» (v. 3). Non basta essere invitati, occorre voler rispondere, mettere la propria volontà a servizio della chiamata. La trascuratezza e la superficialità di chi non stima adeguatamente il dono ricevuto, non ne coglie la preziosità e si rinchiude nei propri orizzonti ristretti, nei propri affari (v. 5). L’aggressività e la violenza di chi nell’invito rivolto o nel dono ricevuto vede solo l’intrusione, non la libertà e la liberalità, condannandosi alla reattività e alla ribellione. La non adesione di chi risponde all’invito senza corrispondervi in verità, senza lasciarsene mutare, senza entrare in una reale conversione (vv. 11-12).

Uno dei nemici più insidiosi e diffusi della fede, più temibile anche dell’ateismo e dell’opposizione aperta, è l’indifferenza. Ben espressa nel v. 5 dal disinteresse, dal non far conto dell’invito ricevuto, dal non dargli alcun peso e dal preferirgli la routine quotidiana, le piccole occupazioni, i propri affari, il proprio interesse. L’indifferenza mette il credente in una crisi particolarmente acuta perché dice l’insignificanza e l’irrilevanza della vita di fede. Ma nella misura in cui il credente stesso cade nell’individualismo e nella gelosa difesa del proprio interesse e nel culto del profitto, anch’egli svuota la propria vita di fede, mostrando di non avere indossato l’abito nuziale.

 

 

Preghiere e racconti


Gustate tutti il banchetto della fede

«Chi ama il Signore si rallegri in questa festa bella e luminosa!

Il servo fedele entri lieto nella gioia del suo Signore!

Chi ha atteso questo giorno nella penitenza riceva ora la sua ricompensa.

Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il salario che gli è dovuto.

Chi è arrivato dopo la terza ora, sia lieto nel rendere grazie.

Chi è giunto dopo la sesta ora, non dubiti, non avrà alcun danno.

Chi ha tardato fino alla nona ora, venga senza esitare.

Chi è arrivato all’undicesima ora, non creda di essere venuto troppo tardi.

Perché il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo.

Concede il riposo all’operaio dell’undicesima ora come a quello della prima ora.

Ha misericordia dell’ultimo e premia il primo.

Al primo dà, all’ultimo regala.

Apprezza le opere di ciascuno, loda ogni intenzione.

Entrate tutti, dunque, nella gioia del nostro Signore;

primi e secondi, ricevete tutti la ricompensa;

ricchi e poveri, danzate insieme;

sia che abbiate digiunato, sia che abbiate fatto festa,

siate tutti nella gioia, onorate questo giorno!

Il banchetto è pronto, godetene tutti!

Il cibo è abbondante, basterà per tutti, nessuno se ne andrà affamato.

Gustate tutti il banchetto della fede.

Gustate tutti la larghezza della bontà.

Nessuno pianga la sua miseria:

il regno di Dio è aperto a tutti. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati.

Dominato dalla morte, egli l’ha spenta.

Il Cristo è risorto e regna la vita!

A lui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli. Amen».

(Annuncio pasquale della Chiesa orientale)

 

La festa nel castello

Il signore di un castello diede una gran festa, a cui invitò tutti gli abitanti del villaggio aggrappato alle mura del maniero. Ma le cantine del nobiluomo, pur essendo generose, non avrebbero potuto soddisfare la prevedibile e robusta sete di una schiera così folta di invitati.

Il signore chiese un favore agli abitanti del villaggio: “Metteremo al centro del cortile, dove si terrà il banchetto, un capiente barile. Ciascuno porti il vino che può e lo versi nel barile. Tutti poi vi potranno attingere e ci sarà da bere per tutti”. Un uomo del villaggio prima di partire per il castello si procurò un orcio e lo riempì d’acqua, pensando: “Un po’ d’acqua nel barile passerà inosservata… nessuno se ne accorgerà!” Arrivato alla festa, versò il contenuto del suo orcio nel barile comune e poi si sedette a tavola. Quando i primi andarono ad attingere, dallo spinotto del barile uscì solo acqua. Tutti avevano pensato allo stesso modo, e avevano portato solo acqua.

Se siamo a volte scontenti del mondo, è perché troppi portano solo acqua, aspettando che siano gli altri a portare il vino.

L’abito nuziale

Il giorno in cui il re entra per vedere i commensali è il giorno del giudizio. Dio viene a visitare i cristiani che sono invitati alla tavola delle sacre Scritture. Essi sono tranquilli nella fede e prendono parte al banchetto degli insegnamenti celesti. Oppure è il giorno della prova. Il Signore si degna di mettere alla prova la sua Chiesa, per vedere chi ha la fede, chi presenta opere degne della chiamata del Cristo. L’abito nuziale è la vera fede, quella che passa attraverso Gesù Cristo e la sua santità. È di essa che parla l’apostolo: «Spogliatevi dell’uomo vecchio con le sue azioni» (Col 3,9)…

Chi vuole essere di Cristo faccia le opere di Cristo. Se non vuole fare le opere di Cristo, non venga al Cristo.

(Omelia greca anonima e incompleta del V secolo)

 

Il Re e la sua gente

II Re invitando al banchetto

persone di alto rango

fa loro l’onore di un messaggio

di suo pugno.

Siccome non si affrettano

il Re manda ancora a dire

non quale signore li onori

ma quali grandi pietanze.

Ora ognuno si inventa una scusa

uno va a vedere la sua terra

l’altro prova una coppia

di animali da tiro.

Strana scusa quando un Re

invita alla sua tavola

l’avere a che fare con la stalla

o con i propri trasporti.

Uno rifiuta per orgoglio

un altro per pigrizia

uno teme il rango dell’altezza

l’altro il suo buon piacere.

E dandosi l’aria

[di essere] al di sopra dell’invito

ciascuno sotto la sua maschera evita

l’occhio regale e chiaro

temendo che un così grande Signore

esiga che egli tolga

almeno il sudiciume delle sue colpe

per fargli onore.

Il Re ordina alla sua gente

di radunare in fretta

le prostitute all’angolo delle piazze

e gli indigenti

che seduti in cerchio a mensa

nessuna questione di precedenza

si tengono alla sua presenza

meglio di baroni.

(P. Emmanuel, Evangeliario)

 

Qual è l’abito di nozze?

Qual è l’abito di nozze? Eccolo: «Il fine del precetto è la carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera» (1 Tm 1,5).[…] Se non avrò la carità, anche distribuire elemosine ai poveri, giungere a confessare il nome di Cristo fino a versare il sangue, arrivare a subire il fuoco, tutto questo può essere fatto anche per amore della gloria, e allora è inutile. Poiché queste cose possono diventare inutili perché fatte per amore della gloria e non in virtù della carità colma dell’amore di Dio, l’apostolo Paolo le ricorda; ascoltale: «Se distribuissi tutti i miei beni ai poveri e consegnerò il mio corpo perché sia bruciato, ma non avrò la carità, non mi gioverà a nulla» (l Cor 13,3). Ecco l’abito di nozze! Interrogate voi stessi. Se lo avete, starete sicuri al banchetto del Signore. Nell’essere umano esistono due impulsi: la carità e il desiderio disordinato. Nasca in te la carità, se non è ancora nata; e se già è nata, venga allevata, nutrita, cresca. Il desiderio disordinato in questa vita non può essere eliminato del tutto «poiché se diremo di non avere peccati, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1Gv 1,8); nella misura in cui vi è in noi il desiderio disordinato, non siamo senza peccato. Cresca allora la carità, diminuisca il desiderio disordinato affinché quella, cioè la carità, venga portata un giorno ad essere perfetta e il desiderio disordinato venga annientato. Indossate l’abito delle nozze, parlo a voi che non l’avete ancora. Già siete dentro la chiesa, già vi siete accostati al banchetto e non avete ancora l’abito da indossare in onore dello sposo, perché cercate ancora i vostri interessi e non quelli di Cristo.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 90,6, NBA XXX/2, pp. 106-108).

 

La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione

Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della crescita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.

Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di accettazione da parte del genere umano. L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita. C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fissa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio. Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui. […]

Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165, 167).

 

La vostra fede sia forte

La vostra fede sia forte;

non tentenni, non vacilli dinanzi ai dubbi,

alle incertezze che sistemi filosofici

o correnti di moda vorrebbero suggerirvi.

La vostra fede sia gioiosa,

perché basata sulla consapevolezza

di possedere un dono divino.

Quando pregate e dialogate con Dio

e quando vi intrattenete con gli uomini,

manifestate la letizia

di questo invidiabile possesso.

La vostra fede sia operosa;

si manifesti e si concretizzi

nella carità fattiva e generosa verso i fratelli

che vivono accasciati nella pena e nel bisogno;

si manifesti nella vostra serena adesione

all’insegnamento della Chiesa,

madre e maestra di verità;

si esprima nella vostra disponibilità

a tutte le iniziative di apostolato,

alle quali siete invitati a partecipare

per la dilatazione e la costruzione

del regno di Cristo.

(Giovanni Paolo II)

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

XXV Domenica del Tempo Ordinario

XXV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Isaia 55,6-9

 

Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

v Siamo nell’ultimo capitolo del secondo Isaia (40-55), un profeta anonimo del tempo dell’esilio babilonese (VI sec. a. C.) i cui oracoli di consolazione sono stati aggiunti al libro di Isaia (VIII sec. a.C.). Il cap. 55 si conclude con una esortazione a cercare e invocare il Signore, la rinnovata promessa dell’alleanza e l’efficacia della parola di Dio.

Nei versetti precedenti il nostro brano il profeta annuncia la nuova alleanza e la realizzazione delle promesse fatte a Davide, in un orizzonte universalistico che coinvolge i popoli e le nazioni: anche chi non conosce Israele accorrerà a rendergli onore a causa del Signore.

L’oracolo si apre con il v. 6 che esorta gli esiliati a cercare il Signore, mentre è vicino e si fa trovare.

È un tema caratteristico della profezia esilica quello della vicinanza del Signore, proprio in terra straniera, dove gli esuli temevano di averlo perduto. Gli ebrei avevano legato infatti la presenza del Signore al possesso della Terra, alla città santa e al Tempio: con la distruzione di quest’ultimo e la deportazione tutto sembrava compromesso, l’alleanza in-

franta e la salvezza irraggiungibile. Invece, proprio la condizione di smarrimento dell’esilio, assimilata dai profeti al deserto, è una condizione favorevole alla conversione e al ravvedimento.

Il v. 7 invita ad abbandonare le vie e i pensieri iniqui e a ritornare al Signore: il verbo shûv indica la conversione, la metanoia. Il Signore avrà misericordia: la radice rhm indica le viscere materne del Signore che prova compassione per il popolo, senza che esso lo abbia in alcun modo meritato.

Le «vie» e i «pensieri» ritornano al v. 8 per riaffermare con maggior forza la necessità della conversione: le vie e i pensieri degli uomini infatti (l’iniquo e l’empio del v. 7, ma anche tutto il popolo che si illude di essere nel giusto) non corrispondono alle vie e ai pensieri di Dio.

La differenza sostanziale e la superiorità assoluta del progetto di Dio rispetto ai progetti umani sono pari alla distanza infinita tra terra e cielo (v. 9): non è semplicemente l’idea filosofica della trascendenza di Dio, ma la grandezza e la profondità del suo amore, della sua misericordia e del suo perdono, che l’uomo non riesce nemmeno a immaginare.

L’efficacia della parola del Signore, che porta a compimento ciò che promette, viene riaffermata nei versetti seguenti.

 

 

Seconda lettura: Filippesi 1,20-24.27

Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.

Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.  Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.  Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.

 

v La lettera ai Filippesi è una delle «lettere dalla prigionia». Paolo è in attesa di giudizio, e rischia la condanna a morte. Nonostante questa condizione drammatica, egli esorta all’obbedienza e all’amore, con speranza e gioia.

Scrive ai cristiani di Filippi, in Macedonia (Grecia), la prima chiesa da lui fondata in Europa.

Le catene della prigionia di Paolo risultano essere un incoraggiamento a predicare il vangelo: nella persecuzione l’apostolo riconosce un dono di grazia che giova alla diffusione del messaggio di Cristo (cf. l,14ss.).

Paolo sviluppa in questi versetti un’audace e paradossale contabilità della sua missione apostolica.

I vv. 20c-22 pongono il problema.

La «partita doppia» tra sofferenze e pericoli della persecuzione e glorificazione di Cristo si chiude in pari, anzi in attivo: Cristo sarà glorificato, sia che l’apostolo venga liberato e viva, sia che subisca la condanna e muoia.

La morte, infatti, rappresenta per Paolo un guadagno perché significa essere ricongiunti a Cristo, che è la vita vera. Il discorso sembrerebbe qui chiuso con l’aspirazione al martirio: ma Paolo vi oppone un argomento altruistico. Per sé, egli sceglierebbe il martirio; ma la vita al servizio dei fratelli e del vangelo può dare frutti alla Chiesa, allora ecco che la scelta si fa più difficile.

I vv. 23-24, centrali nella pericope, propongono con chiarezza l’alternativa: morire in Cristo (espresso con il verbo analysai, come una liberazione) sarebbe il meglio, ed è il desiderio di Paolo; ma vivere è più necessario per i fratelli.

Gli ultimi tre versetti (25-27) risolvono la questione indicando la scelta di Paolo: «continuerò a rimanere in mezzo a voi». Ne segue, logica conseguenza, l’esortazione ai Filippesi perché si rendano degni del vangelo di Cristo: questo è il solo «vanto» (kauchema) riconosciuto valido dall’apostolo.

L’opposizione vita/morte si compone in Cristo, che sarà comunque glorificato dall’apostolo, sia con una morte testimoniale sia con una vita dedicata alla predicazione.

 

 

Vangelo: Matteo 20,1-16

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:  «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzo giorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.  Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

 

Vangelo in immagini

XXV DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

 

Esegesi

Siamo nella sezione del vangelo di Matteo dedicata al cammino verso la Passione (capp. 16-20).

La sezione si apre con la confessione di fede di Pietro — tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente (16,15) — e prosegue con i tre annunci della Passione (16,21; 16,22-23; 20,18-19). Poco prima dell’ultimo annuncio l’evangelista inserisce la parabola degli operai dell’ultima ora, incorniciata da due detti quasi identici sugli ultimi che saranno primi e i primi che saranno ultimi (19,30; 20,16). Il tutto è a sua volta incastonato fra due brani che riguardano il discepolato e pongono il problema della ricompensa (cf. il salario della parabola) e della gerarchia (cf. l’ordine di priorità fra gli operai della prima e dell’ultima ora). Il brano che precede è la domanda di Pietro sulla ricompensa che spetta a chi ha «lasciato tutto» per seguire Gesù, e la risposta di Gesù (19,27-29); segue immediatamente il terzo annuncio della Passione, e la richiesta della madre dei figli di Zebedeo sui posti da assegnare nel regno.

Nella parabola si possono distinguere tre parti.

1) la prima (vv. 1-7) racconta ciò che succede durante il giorno. Si tratta della giornata lavorativa tipica nella società agricola palestinese del tempo, che durava «dai primi raggi del sole fino al sorgere delle stesse» (cf. Sl 103/104,22-23). La suddivisione in 12 ore quindi, nella stagione estiva, comporta una durata dell’ora lavorativa ben superiore ai 60 minuti. Si susseguono quattro brani sul padrone di casa che esce cinque volte a cercare operai per la sua vigna. Nei primi tre abbiamo una contrattazione in cui si pattuisce un salario («Si accordò con loro per un denaro», la paga giornaliera normale, cf. Tob 5,15; «quello che è giusto ve lo darò»; «fece altrettanto»). Nell’ultimo brano si riferisce nei particolari il dialogo, ma non si parla di salario.

Si crea così una sospensione e un’attesa: anche il lettore si aspetta che gli altri ricevano di meno. Ciò anche perché rimane inespresso il motivo per cui a sera sono ancora disoccupati: non c’era lavoro a sufficienza o erano pigri? dov’erano, quando il padrone era uscito all’alba, alla terza, alla sesta e alla nona ora?

2) Al centro, il v. 8 crea il collegamento tra la parabola e ciò che precede e che segue: abbiamo il rovesciamento tra gli ultimi e i primi (che anticipa la risposta ai figli di Zebedeo), l’ordine inverso nella paga (la ricompensa rivendicata da Pietro). Il tutto a opera del «Signore della vigna» (il «padrone di casa» dei vv. 1 e 11), chiara metafora del regno dei cieli.

La tensione, già creata con il v. 7, viene qui accentuata. È insolito, anche se non impossibile, che si assumano operai al termine della giornata; ancor più insolito che si inizi da costoro il pagamento, costringendo chi ha faticato fin dall’alba ad attendere e rinviare così il momento del riposo. Tanto più che la Legge prescriveva di pagare senza indugio i lavoratori a giornata, che non avevano altro mezzo per provvedere al cibo per sé e per la famiglia: «gli darai il salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole» (Deut 24,15).

A questo punto ci aspettiamo che possa seguire qualcosa di ancora più strano. Era necessario del resto quest’ordine inverso, perché così i primi assistono al pagamento degli ultimi e possono attendersi di ricevere di più (v. 10).

3) Nell’ultima parte vengono messi in parallelo gli ultimi e i primi (vv. 9-10): «e venuti quelli dell’undicesima ora…», «e venuti i primi…». In seguito si riferisce il dialogo: la domanda dei primi operai (vv. 11-12) e la risposta del padrone (vv. 13-15).

Il padrone rivendica a sé la sovrana libertà di disporre del proprio come vuole. Un denaro non era solo la paga consueta, era anche il necessario per vivere: ebbene, la volontà del padrone della vigna è che ciascuno abbia il necessario per vivere (il pane quotidiano), indipendentemente dai propri meriti. Il problema nasce quando si fanno dei confronti, e ci si erge a giudici pretendendo che la giustizia del Signore segua i nostri criteri.

Alcuni elementi colpiscono particolarmente, e portano a comprendere che non di equità sociale o di diritti sindacali vuol parlare l’evangelista.

Il padrone della vigna sottolinea l’opposizione giusto/ingiusto: «quello che è giusto ve lo darò» (v. 4); «non sono ingiusto con te» (v. 13). Si tratta evidentemente di una strana giustizia: «la si perde se l’uomo la reclama per sé con leggerezza, come un suo diritto ovvio, confrontando il proprio curriculum con quello degli altri e non concentra così lo sguardo sulla bontà del Signore davanti alla quale tutto quello che egli ha fatto e meritato svanisce. Così proprio l’incomprensibile bontà di Dio diventa uno scandalo per colui che non vuole liberarsi dei suoi concetti umani di merito e giustizia» – (EDUARD SCHWEIZER, Il vangelo secondo Matteo, Paideia 2001, p. 367).

Il padrone, che nella prima parte della parabola appare tanto premuroso e generoso da uscire ben cinque volte alla ricerca di disoccupati cui offrire lavoro, si rivela subito dopo, se non ingiusto (è pur vero che rispetta i patti), quanto meno capriccioso e brusco («prendi il tuo e vattene», v. 14a). Il contrasto viene sciolto dall’ultima domanda che il padrone rivolge non a tutti gli operai, ma a uno, chiamandolo «amico»: rivolta perciò al lettore del vangelo, a ciascuno di noi personalmente, suona alla lettera: «o il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?». La cattiveria sta nell’occhio dei primi, come Caino verso Abele, i fratelli verso Giuseppe: «Gli operai della prima ora non vogliono riconoscere che è stato un dono essere stati assunti: certo, hanno lavorato dodici ore, ma solo grazie all’invito del padrone di casa. Come la vita è un dono, regalata dal Padre, senza alcun merito da parte di chi la riceve» (ROLAND MEYNET, Una nuova introduzione ai vangeli sinottici, EDB 2001, p. 249).

 

 

Meditazione

La dichiarazione divina trasmessa dal profeta «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8) trova una esposizione narrativa nella parabola evangelica secondo la quale gli operai che hanno lavorato un’ora sola nella vigna del padrone ricevono una paga identica a quella di coloro che hanno lavorato tutto il giorno. Nello scandalo patito dagli operai della prima ora vi è tutta la distanza tra il pensare e l’agire di Dio e il pensare e l’agire degli uomini.

Questa distanza non dice il capriccio di Dio o il suo arbitrio, ma la sua misericordia. Ciò che gli operai della prima ora contestano al padrone è infatti di aver dato la stessa ricompensa agli ultimi arrivati come a loro che avevano patito il peso dell’intero giorno di lavoro. Letteralmente essi dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo» (Mt 20,12). Il fare agli ultimi come ai primi abbatte le discriminazioni e i privilegi. Il Dio biblico, infatti, è il Dio della grazia. Esprime bene questo primato della misericordia e della grazia sulle logiche giuridiche un brano della Catechesi sulla santa Pasqua dello Pseudo-Giovanni Crisostomo: «Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il giusto salario; chi è venuto dopo la terza, renda grazie e sia in festa; chi è giunto dopo la sesta, non esiti: non subirà alcun danno; chi ha tardato fino alla nona, venga senza esitare; chi è giunto soltanto all’undicesima, non tema per il suo ritardo. Il Signore è generoso, accoglie l’ultimo come il primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato dalla prima. Fa misericordia all’ultimo come al primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato fin dalla prima».

Il testo ci interpella su ciò che è al cuore della nostra vita con Dio: la relazione o la prestazione? Concepire il proprio servizio a Dio come prestazione conduce a misurarlo e a confrontarlo con il servizio degli altri entrando in un rapporto di competizione. Se invece c’è la relazione con il Signore allora anche il peso della giornata di lavoro è «giogo soave e leggero» e la bontà del Signore verso tutti è motivo di ringraziamento, non di contestazione.

La distanza tra pensieri di Dio e pensieri umani è importante da salvaguardare perché impedisce l’operazione perversa di identificare i propri pensieri umani con quelli di Dio. Questa affermazione contesta la presunzione religiosa che proietta in Dio le proprie azioni e i propri pensieri e identifica le proprie parole su Dio con Dio e la propria volontà con quella di Dio. L’istanza espressa dal profeta è un invito all’umiltà del pensiero, in particolare del pensiero teologico, del pensiero che osa «pensare Dio».

Gli operai della prima ora sono smascherati come invidiosi. E l’invidia è definita come avere «l’occhio cattivo» (Mt 20,15). L’etimologia è illuminante: in-videre, significa «non vedere», «vedere contro», ed esprime lo sguardo torvo di chi si chiede: «perché lui sì e io no?»; «perché a lui come a me che meritavo di più?». L’invidia ci acceca. Se essa è l’insofferenza verso i propri limiti che ci impediscono di raggiungere quello status che vediamo realizzato in altri da noi, essa chiede di essere corretta imparando a desiderare il possibile.

Nell’invidia non solo non si vede più il Dio misericordioso, ma non si vedono neppure più i fratelli: si entra in un rapporto giuridico padrone-servi, e si esce dalla solidarietà con gli altri operai, gli altri uomini.

Male della vita comunitaria ed ecclesiale è la mormorazione (Mt 20,11). Mormorando, gli operai della prima ora affermano che il padrone non aveva il diritto di comportarsi come si è comportato. La mormorazione non è una parola personale chiara che esprime un dissenso leale, ma movimento sotterraneo che aggrega diverse persone che si fanno forza vicendevolmente con il loro malumore per poi esprimersi in accuse e lamentele. La sua logica è la complicità, non la responsabilità.

 

 

 

Preghiere e racconti

 

 

Rattristati dalla felicità degli altri

È indiscutibile: noi siamo spesso rattristati dalla felicità degli altri. È uno degli aspetti del mistero del peccato, della ferita presente in ciascuno di noi, Vi sono persone che si rattristano quando vedono che gli altri si amano. Vi sono degli sventurati che non perdonano agli altri la loro giovinezza, la loro bellezza, la loro intelligenza. Vi sono nella Chiesa dei cristiani imbronciati e laboriosi che non perdonano a certi convertiti di essere stati soggiogati dalla grazia di Dio, apparentemente senza alcun sforzo e merito da parte loro… L’inizio della santità sarebbe riconoscere che, nonostante la disuguaglianza delle nostre vite, non ci manca nulla se Dio è con noi; e allora potremmo gioire della bontà di Dio che sembra amare maggiormente i nuovi arrivati nel suo amore.

(Cl. Geffré, Uno spazio per Dio)

 

 

Il tuo occhio è malvagio, perché io sono buono?

La vigna sono i precetti e i comandi di Dio, il tempo della fatica, la vita presente; gli operai quelli che in modo diverso sono chiamati a compiere i precetti; quelli venuti al mattino, all’ora terza, alla sesta, alla nona e all’undicesima ora sono quelli che sono giunti [alla fede] in età diverse e si sono fatti onore. Ma ciò che è da indagare è se i primi, che si sono splendidamente distinti e sono stati graditi a Dio e che per tutto il giorno hanno brillato per le loro fatiche, si lasciano dominare da quel male estremo della malvagità che è dato dall’invidia e dalla gelosia.

Vedendo infatti che quelli avevano usufruito della stessa ricompensa, dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e del caldo» (Mt 20,12). E sebbene non ricevessero alcun danno e il loro compenso non fosse diminuito, si dispiacevano e si irritavano per i beni altrui, cosa che è propria dell’invidia e della gelosia. E il fatto più importante è che il padrone, che aveva preso le difese di quelli e si era giustificato dinanzi a chi aveva parlato in questi termini, lo condanna per la sua malvagità e la sua estrema invidia, dicendo: «Non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene! Io voglio dare anche a quest’ultimo come a te. Forse il tuo occhio è malvagio perché io sono buono?» (Mt 20,13-15). Che cosa si ricava da queste parole? Quella stessa cosa che possiamo vedere anche in altre parabole. Infatti il figlio stimato per la sua buona condotta viene presentato con gli stessi sentimenti quando vede che il fratello dissoluto riceve molti più onori di lui (cfr. Lc 15,28). Come quelli godettero di un bene maggiore ricevendo la ricompensa per primi, così anche quello veniva onorato di più per l’abbondanza dei doni e lo testimonia il figlio dalla buona condotta.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, om. 64,3, PG 58,612-613).

 

Il ricco e il povero

C’era una volta due fratelli; uno molto ricco, l’altro molto povero. Un giorno il povero faceva la guardia ai covoni di grano ammucchiati nel campo del fratello ricco e mentre se ne stava lì seduto sul covone scorse una donna in bianco che raccoglieva le spighe rimaste nei campi mietuti e le aggiungeva ai covoni. Quando la donna giunse fino a lui, la prese per mano, se la tirò vicino e le chiese che cosa facesse lì. “Sono la Felicità di tuo fratello e raccolgo le spighe rimaste, perché il suo grano sia ancora più abbondante.” “Dimmi, allora, e la mia felicità, dov’è?” replicò il poveretto. “verso Oriente” rispose la donna, e scomparve.

Fu così che il povero si mise in testa di andare per il mondo in cerca della propria Felicità. E quando un giorno di buonora stava per mettersi in viaggio, dal suo camino saltò fuori la Miseria e piangeva e pregava che la prendesse con sé. “Mia cara, – disse il povero  sei troppo debole per affrontare un viaggio così lungo, non ce la faresti mai; ma qui c’è una boccetta vuota, fatti piccina, infilatici dentro e ti porterò con me”.  La Miseria s’infilò nella boccetta e lui senza perdere tempo la tappò con un turacciolo e l’avvolse bene in modo che non si rompesse.

Quando si trovò per via, appena arrivò a un pantano tirò fuori la boccetta e la gettò via, liberandosi così dalla Miseria.

Dopo qualche tempo giunse a una grande città e un certo signore lo prese al suo servizio con l’incarico di scavargli uno scantinato. “Non riceverai del denaro, – gli disse  ma tutto ciò che trovi scavando è tuo”.

Dopo un po’ che scavava trovò un lingotto d’oro, secondo gli accordi gli sarebbe spettato, ma lui ne diede una metà al signore e riprese il lavoro. Arrivò finalmente a una porta di ferro, l’aperse e vi trovò un sotterraneo pieno di ogni ricchezza. Ed ecco che da una cassa lì sotto s’udì una voce: “Mio signore, aprimi! Aprimi!”. Egli spostò il coperchio e da dentro saltò fuori una bella fanciulla tutta in bianco che s’inchinò davanti a lui e gli disse: “Sono la tua Felicità, quella che hai cercato così a lungo; d’ora innanzi sarò vicina a te e alla tua famiglia”. Dopo di che scomparve. Egli rimase poi a guardarsi intorno e a rimirare quella ricchezza  con il suo signore di una volta e da quel momento fu immensamente ricco e la sua fama cresceva di giorno in giorno. Eppure non dimenticò mai l’indigenza di un tempo e si prodigò in tutti i modi per aiutare i poveri del luogo.

Un giorno, mentre passeggiava per la città, incontrò il fratello che si trovava da quelle parti per affari. L’invitò a casa e gli raccontò con tutti i particolari le sue avventure e che aveva visto la Felicità spigolare nel campo di grano e come s’era liberato della propria Miseria e altro ancora. L’ospitò per qualche giorno e quando il fratello stava per partire gli diede molto denaro per il viaggio, fece molti doni alla moglie e ai figli e si separò da lui fraternamente.

Ma suo fratello era un uomo sleale e invidiava la Felicità dell’altro. Da quando aveva lasciato la sua casa non faceva che pensare come far tornare il fratello nella Miseria. Non appena giunse alla palude dove il fratello aveva ficcato la boccetta, si mise a cercarla e non si dette pace finché non la trovò. L’aperse subito. La Miseria  saltò fuori immediatamente, cominciò a crescere davanti ai suoi occhi, saltargli intorno, l’abbracciò, lo baciò e lo ringraziò di averla liberata da quella prigionia.  “Sarò sempre grata a te e alla tua famiglia e non vi abbandonerò fino alla morte”.

Inutilmente il fratello invidioso cercò di dissuaderla, invano la mandava dal suo padrone di una volta; non riuscì in nessun modo a togliersi la Miseria di dosso, né a venderla né a regalarla né a sotterrarla né ad annegarla, gli stette sempre alle calcagna. I briganti lo derubarono della merce che stava portando a casa; riuscì a ritornare chiedendo l’elemosina; al posto del suo palazzo trovò un mucchio di cenere e tutto il suo raccolto era stato portato via da una inondazione. Fu così che al fratello invidioso non rimase null’altro che… la Miseria.

(da: Fiabe di Praga magica,  Arcana ed., 1993).

 

Quando sei chiamato, va’

Tu, quando sei chiamato, va’.

Sei chiamato a mezzogiorno? Va’ a quell’ora.

È vero che il padrone ti ha promesso un denaro anche se vai nella vigna all’ultima ora, ma nessuno ti ha promesso se vivrai fino alla prima ora del pomeriggio. Non dico fino all’ultima ora del giorno, ma fino alla prima ora dopo mezzogiorno.

Perché dunque ritardi a seguire chi ti chiama? Sei sicuro del compenso, è vero, ma non sai come andrà la giornata.

Vedi di non perdere, a causa del tuo differire, ciò che egli ti darà in base alla sua promessa.

(Agostino D’Ippona, Discorso 87, 6.8).

 

Non desiderare le cose altrui

“Se stai cercando di darti delle arie con chi sta in alto, scordatelo. Ti guarderanno dall’alto in basso comunque. E se stai cercando di darti delle arie con la gente che sta in basso, scordatelo lo stesso. Ti invidieranno e basta. Gli status-symbol non ti porteranno da nessuna parte. Solo un cuore sincero ti permetterà di stare alla pari con tutti.” […] “Fa’ il genere di cose che ti vengono dal cuore. Quando le farai, non ne resterai insoddisfatto, non sarai invidioso; non desidererai le cose altrui. Al contrario, sarai sommerso da quel che ti verrà in cambio.”

(Mitch ALBOM, I miei martedì col professore, Milano, Rizzoli, 2006, 132-133).

 

Non andare via, Signore

Quando trovi chiusa la porta del mio cuore,

abbattila ed entra: non andare via, Signore.

Quando le corde della mia chitarra dimenticano il tuo nome,

ti prego, aspetta: non andare via, Signore.

Quando il tuo richiamo non rompe il mio torpore,

folgorami con il tuo dolore: non andare via, Signore.

Quando faccio sedere altri sul tuo trono,

o re della mia vita: non andare via, Signore.

(Rabindranath Tagore)

 

 

Il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo

«Chi ama il Signore si rallegri in questa festa bella e luminosa!

Il servo fedele entri lieto nella gioia del suo Signore!

Chi ha atteso questo giorno nella penitenza riceva ora la sua ricompensa.

Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il salario che gli è dovuto.

Chi è arrivato dopo la terza ora, sia lieto nel rendere grazie.

Chi è giunto dopo la sesta ora, non dubiti, non avrà alcun danno.

Chi ha tardato fino alla nona ora, venga senza esitare.

Chi è arrivato all’undicesima ora, non creda di essere venuto troppo tardi.

Perché il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo.

Concede il riposo all’operaio dell’undicesima ora come a quello della prima ora.

Ha misericordia dell’ultimo e premia il primo.

Al primo dà, all’ultimo regala.

Apprezza le opere di ciascuno, loda ogni intenzione.

Entrate tutti, dunque, nella gioia del nostro Signore;

primi e secondi, ricevete tutti la ricompensa;

ricchi e poveri, danzate insieme;

sia che abbiate digiunato, sia che abbiate fatto festa,

siate tutti nella gioia, onorate questo giorno!

Il banchetto è pronto, godetene tutti!

Il cibo è abbondante, basterà per tutti, nessuno se ne andrà affamato.

Gustate tutti il banchetto della fede.

Gustate tutti la larghezza della bontà.

Nessuno pianga la sua miseria:

il regno di Dio è aperto a tutti. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati.

Dominato dalla morte, egli l’ha spenta.

Il Cristo è risorto e regna la vita!

A lui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli. Amen».

(Annuncio pasquale della Chiesa orientale)

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

XXIV Domenica del Tempo Ordinario (A)

XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Siracide 27,30-28,7

 

Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro. Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, il quale tiene sempre presenti i suoi peccati. Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore? Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati? Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore, come può ottenere il perdono di Dio? Chi espierà per i suoi peccati? Ricordati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.

v È un brano di un sapiente che vuole trasmettere il suo ideale tradizionale di vita religiosa ad una comunità ebraica, che, sempre più affascinata dalla cultura greca, incominciava a secolarizzarsi.

Qui il sapiente insegna una legge fondamentale perché la famiglia e la comunità continui a rimanere in piedi: il perdono: «Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati?» (v. 4). E tutto il testo è un alternarsi di presentazione del rancore e della vendetta, del perdono e della misericordia. Sono disapprovati il rancore e la vendetta, e lodati il perdono e la misericordia.

Il Signore tiene sempre presenti i peccati di colui che si vendica. Il motivo finale per aprirsi al perdono e alla misericordia è un evento divino: la sua alleanza. Il perdono gratuito ricevuto porta ad osservare i precetti del Signore, in particolare quello della riconciliazione con il fratello (vv. 8-9).

 

Seconda lettura: Romani 14,7-9


Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.

 

v Nella comunità dei credenti sono presenti due categorie di persone: i deboli e i forti. I deboli sono quelli rimasti attaccati alle antiche osservanze e tradizioni religiose giudaiche nelle quali erano stati educati, i forti invece sono coloro che giudicano male costoro, basandosi sulla libertà data dal vangelo. Ora Paolo dà le ragioni per cui egli — paladino della libertà evangelica — non vuole che questa diventi fonte di superiorità sugli altri. La ragione profonda dell’esistenza non si trova nell’uomo, ma nel Signore Gesù Cristo, per il quale viviamo, moriamo e agiamo.

Tutto deve quindi essere orientato verso Dio. La nostra vita e la nostra morte non hanno valore in sé, ma in quanto indirizzate a un fine più alto. Soprattutto dopo la morte e risurrezione di Cristo. Il cristiano appartiene a lui, non solo perché è stato in lui creato, ma anche perché è stato da lui conquistato e riscattato mediante la croce.

Perciò colui che vive non dovrà più vivere per se stesso, ma per colui che è morto e risorto per lui (cf. 2Cor 5.14-15).

 

Vangelo: Matteo 18,21-35


In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

 

Immagini sul Vangelo

XXIV DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

Esegesi

 

La lettura parla del perdono reciproco, come elemento necessario per appartenere al regno di Dio. Innanzitutto vi troviamo l’interrogazione di Pietro: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (v. 21). Gesù aveva parlato poco prima di riguadagnare il fratello (v. 15). Questo avviene non solo quando la comunità offesa perdona al fratello, ma anche quando colui che è stato personalmente offeso perdona.

Pietro aveva capito che la volontà di Dio e quella di Gesù è un messaggio di perdono. Ma quali sono i limiti? I maestri del tempo giungevano fino a tre volte. Gesù è più misericordioso, e giunge a «settanta volte sette». Questo è contrario al tipico desiderio di vendetta di cui l’antico Lamech fu protagonista: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settanta volte». La misericordia di Dio supera infinitamente ogni desiderio di vendetta.

Per imprimere nel cuore degli ascoltatori questa volontà di perdono Gesù racconta una parabola in tre atti. Il primo atto vede un ministro, che ha un debito sproporzionato con il suo padrone o re: un talento valeva 35 chili d’oro, e il servitore ne doveva diecimila al suo padrone! Questi, però, gli perdona tutto, mosso da compassione. Dio infatti è «ricco di grazia e di misericordia… lento all’ira e grande nel perdono». Dio perdona sempre.

Il secondo atto mostra invece che il perdonato non sa perdonare un piccolo debito e non s’accorge nemmeno di essere stato supplicato con gli stessi suoi gesti. Il terzo atto: di fronte al cuore indurito, il re (Dio) si accende d’ira e fa giustizia. Si noti che non è il nostro perdonare che ci merita il perdono, ma la misericordia ricevuta ci apre il cuore a donare il perdono.

 

Meditazione

 

La richiesta di perdono a Dio è credibile se accompagnata dalla disponibilità e dalla concreta pratica del perdono fraterno: questa l’unità tra prima lettura e vangelo. Unità che possiamo ribadire con le parole del Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). E ancora: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). Anche la liturgia giudaica afferma che nel giorno dell’espiazione e del perdono (Yom Kippur), vengono perdonati solo i peccati commessi contro Dio, mentre per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo “Yom Kippur procura il perdono solo se uno prima si è rappacificato con il proprio fratello” (Mishnà, Yomà 8,9).

Pietro interroga Gesù sulla misura del perdono nei confronti dell’offesa personale (“se mio fratello pecca contro di me”: Mt 78,27), un’offesa a cui non segue il pentimento né la richiesta di perdono da parte dell’offensore. Nel testo parallelo di Luca si dice invece: “Se tuo fratello peccherà sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà da te dicendo: “Mi pento”, tu gli perdonerai” (Lc17,4). In Matteo il perdono è incondizionato, non preparato da alcuna dichiarazione di pentimento. Questo perdono è possibile quando chi è chiamato a perdonare si ricorda del perdono immenso, incommensurabile che ha già ricevuto lui stesso in Cristo. In altre parole: ciascun cristiano si trova, nei confronti del proprio fratello, nella stessa situazione del servo a cui è stato condonato il debito inestinguibile.

Che venga condonato il debito immenso (cfr. Mt 18,27) significa che il perdono non può limitarsi a perdonare ciò che è scusabile, “i peccati veniali”, ma che esso è tale quando perdona ciò che potrebbe sembrare imperdonabile. Perdonare l’imperdonabile: anche questo sta all’interno della misura del perdono cristiano.

Nella parabola evangelica (cfr. Mt 18,23-35) il servo spietato unisce nel suo comportamento cattiveria e stupidità. Che forse è la trascrizione in termini quotidiani della distinzione teologica tra peccati deliberati e peccati per ignoranza. Non è forse anche stupido il servo che, dopo essersi visto condonare un debito immenso, si mostra senza pietà nei confronti dell’uomo che gli doveva una cifra infinitamente inferiore? Spesso il peccato è il frutto della congiunzione di cattiveria e stupidità, di malvagità e ignoranza. O anche: spesso il peccatore, tanto è pericoloso, tanto è ridicolo.

La parabola mostra che il perdono non necessariamente muta il cuore di colui che lo riceve. La potenza e la grandezza del perdono stanno nell’unilateralità con cui l’offeso non tiene conto dell’offesa ricevuta, ricrea le condizioni per la relazione con l’offensore con un atto di totale gratuità e accetta di veder rigettato e umiliato il suo gesto. Il cristiano contempla il pieno dispiegarsi di questa unilateralità del perdano nel Cristo crocifisso: “Il Giusto, del quale a Pasqua si celebra la resurrezione, è colui che, asimmetricamente, restaura la reciprocità, risponde all’odio con l’amore, offre il perdono a chi non lo domanda” (Francis Jacques).

Questa unilateralità è la via scelta da Gesù Cristo per sconfiggere la mancanza di reciprocità di chi misconosce il perdono. È vittoria del bene sul male, è perdono del rifiuto del perdono, è evento pasquale.

Un aspetto non secondario della parabola matteana è la tristezza, il dolore dei compagni di servitù di fronte all’agire malvagio del servo che non ha pietà di colui che gli deve cento denari (v. 31). Lì non c’è spazio per il linguaggio del perdono, ma solo per lo sdegno e l’indignazione, per la ribellione di fronte all’ingiustizia che diviene coraggio della denuncia.

Vi è una giustizia del perdono che interviene quando il rapporto da bilaterale si apre a un terzo, come nel caso della parabola. Che il perdonato non perdoni a sua volta è un’ingiustizia che suscita la collera (v. 34), non la misericordia (v. 27). Se posso perdonare infinite volte il peccato contro di me, non ho l’autorità di perdonare il male che un altro fa a un terzo.

 

Preghiere e racconti


Come farsi perdonare?

Voi direte: E l’offesa, l’offesa che richiede il perdono? Certo esiste, ma il perdono è una cosa troppo grande per tirarlo indebitamente in ballo nel caso di tensioni legittime e tutto sommato benefiche.

Esiste quando appare quella realtà spaventosa e molto diffusa che è l’intolleranza, la quale genera la collera, il rancore e, anzitutto, il disprezzo degli altri. Esiste quando, invece di procedere insieme verso la verità delle nostre relazioni umane, anche a costo di rivedere continuamente le nostre idee, approfittando avidamente della luce proposta da altri, noi pretendiamo – a volte contro l’evidenza – di avere sempre ragione… Come perdonare allora? O come farsi perdonare? La risposta non è sempre facile. Ma una cosa è certa: che si offenda o si sia offesi, bisogna porsi, anzitutto, davanti a Dio. Che abbiamo fatto realmente del male a un’altra persona o che sia essa ad averci fatto del male…, spinti da quest’amore che ci libera dal male, sapremo preparare almeno le parole e i gesti che riconciliano.

(A.M. Carré, Per amore del tuo amore, Dio e gli altri)

 

 

La legge delle Settanta volte

Quando la Roccia (Pietro) Ti ha chiesto

quante volte doveva perdonare al suo fratello,

Tu non hai detto: “Sette volte”,

ma “quattrocentonovanta volte”!

In questo numero sono contenuti gli anni della nostra vita terrena,

dei sette periodi della nostra vita effimera:

per tutto il tempo che siamo in questo corpo

bisogna perdonare a chi si pente.

E, pur essendo stato l’ultimo

a non perdonare al debitore,

a causa della natura inferma della mia anima,

e ad essere imperfetto nel bene,

si realizzi in me, grazie a Te,

la parola del tuo comandamento, che mi è stato imposto;

voglia Tu perdonare le mie colpe, debiti verso di Te,

che sono più numerose della sabbia del mare.

La legge delle Settanta volte,

non sia solo a mia misura, a misura di me povero,

ma ancor più si rafforzi la tua legge,

secondo la tua misericordia che non si conta.

(Narsete Shnorhali, Gesù, Figlio unigenito del Padre)

 

Dimenticare è perdonare

Abele e Caino si incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero il fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il nome. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra, e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele rispose: «Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più. Stiamo qui insieme come prima». «Ora so che mi hai perdonato davvero, disse Caino, perché dimenticare è perdonare». Abele disse lentamente: «È così, finché dura il rimorso dura la colpa».

(Jorge L. Borges)

 

«Ritieni quello un santo e chiedigli di pregare per te»

A volte si giunge a dei testi come il seguente tratto dalla Catechesi 18 di Simeone il Nuovo Teologo:

«Se vivi in comunità in mezzo ai fratelli, non opporti mai al padre che ti ha dato la tonsura, anche se lo vedi abbandonarsi alla lussuria o all’ubriachezza e se ti sembra che sovrintenda malamente al monastero, se sei percosso o disprezzato da lui e sei sottoposto a molte afflizioni. Non unirti a coloro che lo insultano, non andare con quelli che tramano contro di lui.

Sopportalo fino alla fine, senza impicciarti nelle sue malefatte. Conserva nel tuo cuore tutto il bene che gli vedi fare e sforzati di ricordare solo questo; tutte le cose sconvenienti e cattive che gli vedi fare e dire, imputale a te stesso, considerale come tuoi peccati e pentiti fra le lacrime; ritieni quello un santo e chiedigli di pregare per te».

(SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi 18, 132-145, in SYMÉON LE NOUVEAU THÉOLOGIEN, Catéchèses II, intr. e testo critico a cura di Basil Krivochéine, trad. it. di Joseph Paramelle, SC 104, Editions du Cerf, Paris 1964, p. 277).

 

Lo scorpione

Un monaco si era seduto a meditare sulla riva di un ruscello. Quando aprì gli occhi, vide uno scorpione che era caduto nell’acqua e lottava disperatamente per stare a galla e sopravvivere. Pieno di compassione, il monaco immerse la mano nell’acqua, afferrò lo scorpione e lo posò in salvo sulla riva. L’insetto per ricompensa si rivoltò di scatto e lo punse provocandogli un forte dolore. Il monaco tornò a meditare, ma quando riaprì gli occhi, vide che lo scorpione era di nuovo caduto in acqua e si dibatteva con tutte le sue forze. Per la seconda volta lo salvò e anche questa volta lo scorpione punse il suo salvatore fino a farlo urlare per il dolore. La stessa cosa accadde una terza volta. E il monaco aveva le lacrime agli occhi per il tormento provocato dalle crudeli punture alla mano. Un contadino che aveva assistito alla scena esclamò: «Perché ti ostini ad aiutare quella miserabile creatura che invece di ringraziarti ti fa solo male?». «Perché seguiamo entrambi la nostra natura» rispose il monaco. «Lo scorpione è fatto per pungere e io sono fatto per essere misericordioso».

 

Racconti

Si racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto. In tal modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo con una cortesia.

Si narra ancora di un mendicante che un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato. Con sua meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo l’elemosina. Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare. Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato in pepita d’oro. Si rammaricò. Se avesse donato tutto il suo riso, sarebbe diventato ricco.

 

Il perdono di Dio e il perdono dell’uomo

Raccontando le tre parabole della misericordia, Gesù intende mostrare che la sua accoglienza dei peccatori non è soltanto conforme alla volontà di Dio, ma è la rivelazione del volto di Dio. Il comportamento di Gesù è rivelazione, non solo obbedienza. Con la sua accoglienza Gesù rivela chi è Dio: ama i peccatori, li attende, li cerca e gioisce del loro ritorno. Di più. L’accoglienza dei peccatori da parte di Gesù non soltanto è la trasparenza del perdono di Dio, ma è la trasparenza della gioia del perdono di Dio. Dio gioisce nel perdono. Il tratto sottolineato in tutte e tre le parabole è proprio la gioia di Dio.

E vero che si parla anche di conversione del peccatore, ma l’attenzione si concentra sulla gioia di Dio per la conversione del peccatore. Nulla o quasi sulle azioni del peccatore che si converte. Si racconta ciò che prova Dio, non ciò che il peccatore deve fare. La conversione del peccatore è vista dalla parte di Dio. Si racconta ciò che Dio fa (cerca e gioisce), non anzitutto le modalità della conversione dell’uomo. La domanda teologica (come si comporta Dio?) viene prima della domanda morale (che cosa deve fare l’uomo per ritornare a Dio?). La gratuità del perdono non poteva essere illustrata meglio. La simpatia di Dio e il suo amore per il peccatore, precedono la conversione del peccatore. Dio ama il peccatore già prima, non solo dopo che si è convertito. E proprio questo amore previo, del tutto gratuito, che tocca il cuore del peccatore e lo converte. Ci si converte perché amati. Ci si converte perché perdonati.

Il pastore va in cerca della pecore smarrita – l’iniziativa della ricerca è soltanto sua – perché questa pecora continua ad essere preziosa ai suoi occhi. E il padre non cessa di amare il figlio che si è allontanato e continua ad attenderlo. Quando lo vede da lontano, gli corre incontro e lo abbraccia. Il figlio non ha ancora detto le parole che ha pensato da dire al padre, che immagina irato. E anche quando il figlio dice le parole che chiedono perdono, è come se al padre queste parole non importassero. La sua fretta è di accogliere, gioire, far festa. Le parole del figlio sembrano completamente sullo sfondo, quasi inutili.

E questo il vero volto di Dio, il volto di un padre e basta, che Gesù ha inteso rivelare con la sua incondizionata accoglienza dei peccatori.

Ma non possiamo fermarci qui. Lo stesso vangelo ci dice che il perdono ricevuto da Dio deve diventare un perdono che si prolunga ai fratelli: un perdono gratuito come quello di Dio, gioioso come quello di Dio. Il come è importante e difatti nella gioia di perdonare i fratelli l’uomo sperimenta la gioia del perdono ricevuto da Dio.

Certamente il perdono ai fratelli non è la ragione, la condizione e la misura del perdono di Dio. Tuttavia il legame è stretto e decisivo: il perdono ai fratelli è infatti il segno che si è davvero capito il perdono di Dio e lo si è veramente accolto.

Nella parabola di Matteo 18,21-35 questo è affermato con chiarezza. Il servo, così generosamente perdonato dal suo padrone, incontra un collega che gli deve pochi denari. Questi lo supplica, gli chiede un rinvio, ma il servo prima perdonato non vuole sentire ragioni, non si muove a compassione, esige il pagamento subito fino all’ultimo. Come è possibile, dopo aver ricevuto un tale condono, non essere capaci, a propria volta, di un piccolo condono? È inconcepibile! Evidentemente il servo perdonato non ha compreso la fortuna che gli è capitata. Il perdono ricevuto non lo ha rigenerato, ne l’incontro con la gratuità di Dio gli ha allargato lo spirito. Non ha capito che accettare di essere perdonati significa entrare in un modo nuovo di rapportarsi, nel quale i criteri dello stretto dovuto non sono più sufficienti.

Ma anche qui c’è una novità da non perdere: persino il perdono di Dio – e in generale il suo giudizio – è anche nelle nostre mani. Dio prende molto sul serio la nostra libertà. La gratuità del suo amore non è mai – ne potrebbe essere – senza la risposta della nostra libertà. La sorprendente novità evangelica è che la risposta al perdono di Dio sia il nostro perdono ai fratelli, non anzitutto qualcosa per Lui!

Ci si permetta di insistere. Matteo (5,44) e Luca (6,27-35) collocano l’imperativo del perdono ai nemici in un discorso in cui intendono sottolineare la differenza (la vera differenza) fra il cristiano e il mondo. L’amore al nemico, infatti, evidenzia – come non accade in nessuna altra forma di amore – le due note profonde di ogni autentico amore evangelico. Anzitutto la tensione all’universalità: nell’amore al nemico la figura del «vicino» si dilata sino a rinchiudere anche il «più lontano»: chi è più lontano del nostro nemico? E poi la nota della gratuità, che è l’anima di ogni vero amore.

Siamo convinti di dire cose sorprendentemente paradossali. Ma si tratta del Vangelo. E poi, se si guardano le cose più attentamente, si può anche intuire che il perdono è paradossale, ma anche necessario per la convivenza, a ogni livello: nelle relazioni familiari, nelle relazioni amicali, nella società. Addirittura nelle relazioni fra i popoli.

Senza un minimo di riconciliazione il mondo non sta in piedi. Un vecchio rabbino soleva dire che quando Dio creò il mondo, non riusciva a farlo stare in piedi. Poi creò il perdono, e il mondo stette in piedi.

Editoriale, in «Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 2, 83-85.

 

«Abbi sempre misericordia di tali fratelli»

San Francesco d’Assisi, in una commovente lettera ad un ministro/ superiore, dava le seguenti istruzioni circa eventuali debolezze personali dei suoi frati: «E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore e ami me servo suo e tuo, se farai questo, e cioè: che non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attirarlo al Signore; e abbi sempre misericordia di tali fratelli»

(Francesco d’Assisi, Lettera a un Ministro, 7-10).

 

Preghiera

Perdonami, Signore Gesù: ancora oggi ho avuto paura del rifiuto e dello scherno. Non

ce l’ho fatta a seguirti nella tua strada e sono sceso a patti con i criteri che, in questo mondo, fanno stare dalla parte dei vincenti.

Tu hai scelto l’amore e sei stato deriso, non creduto, infine ucciso. Mai hai smesso di amare e di dimostrare amore: quello che dicevi, lo mettevi in pratica. Sei stato uno sconfitto per le cronache mandane; ma nel silenzio di un’aurora di primavera, sei risorto da morte. L’amore, ci hai detto, è l’unica salvezza, e credere in te sconfigge ogni sopruso, ogni tirannico egoismo.

Perdonami, Signore Gesù, quando solo a parole dico la mia fede, quando mi rifugio nel nascondiglio del ‘così fan tutti’ invece di gustare gli spazi aperti delle tue vie, lungo le quali si sperimenta la gioia di dare la vita per i fratelli.

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

XXIII Domenica del tempo ordinario (A)

XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Ezechiele 33,1.7-9

 

Mi fu rivolta questa parola del Signore:  «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.  Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te.  Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu sarai salvato».

v Se il Vangelo c’invita a essere custodi gli uni degli altri, a sua volta il testo del profeta Ezechiele indica nell’immagine della sentinella la caratterizzazione del proprio ruolo. Tale immagine, naturale in un contesto militare e in cui la guerra ha un posto importante nella vita quotidiana, come in una civiltà nella quale le mura della città erano appunto custodite da sentinelle, era immediatamente percepibile: la sentinella ha il compito di avvertire il popolo appena avvista il pericolo. Il profeta, da parte sua, non avvista i pur notevoli pericoli di eserciti nemici, bensì quelli ancora più insidiosi dell’allontanamento da Dio, dalla sua legge.

Ciò che, però, il profeta Ezechiele afferma si rivela sorprendente perché egli non sarà sentinella nel senso che, avendo visto l’empio agire male, lo riprende di sua iniziativa. Al contrario, dovrà seguire un criterio ben preciso e determinato: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia» (33,7). Dunque, è Dio stesso che si preoccuperà di dare l’«allarme» alla sentinella-profeta! Dio, cioè, si renderà garante dell’oggettività del richiamo, che ha il solo scopo di conseguire la salvezza dell’empio, la cui vita, davanti agli occhi di Dio, non ha meno valore di quella del giusto, essendo Egli il creatore dell’una come dell’altra: «Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te» (33,8).

Il profeta risulta perciò responsabile in caso di omissione del compito che Dio gli ha affidato: anche la vita dell’empio appartiene al Signore ed Egli non vuole certo sciuparla, perderla. Tuttavia, l’empio, da parte sua, conserva la responsabilità sulla propria vita e sul suo esito, qualora si ostini a non convertirsi: «Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato» (33,9). Si tratta del famoso principio della responsabilità personale, secondo il quale le colpe personali ricadono soltanto su chi le ha commesse. Di questo l’empio dev’essere altamente consapevole, sapendo comprendere e scorgere nel richiamo del profeta-sentinella l’occasione per approfittare dell’offerta di misericordia da parte di Dio.

 

 

Seconda lettura: Romani 13,8-10

Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».  La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.

 

v Fungere da sentinella, avvertendo con saggezza unita a fermezza circa i pericoli di determinati comportamenti, non è un compito tra i più gratificanti nell’ambito di una comunità, grande o piccola che sia. Bene lo sapevano i profeti dell’antichità come pure i profeti di oggi. Non si può negare, però, che anche questo rappresenti un vero servizio d’amore a vantaggio di un’umanità spesso disorientata. Ed è proprio sull’amore che l’apostolo Paolo invita a riflettere, insistendo su un particolare di non poco conto: l’osservanza della legge. Infatti, contrariamente a chi lo dipinge come abrogatore della legge, Paolo intende incoraggiare i cristiani di Roma a realizzare il fine proprio della legge, ossia l’amore.

Esaminando i tre versetti del brano, iniziamo dalla prima affermazione, la cui formulazione può sembrare un po’ strana: «non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (13,8). Paolo ritiene che, se dev’esserci una qualche obbligazione tra fratelli di una comunità, questa non può che essere l’agape, l’amore, di cui ha già parlato abbondantemente in 12,9-21, esortando a essere sinceri nella carità e a non rendere a nessuno male per male, bensì a vincere il male con il bene.

Nel versetto 9, poi, citando esplicitamente alcuni dei precetti mosaici e richiamando allusivamente gli altri, tira una conclusione che ben conosciamo, essendo tipica anche di altri passi del Nuovo Testamento, in particolare del Vangelo (Mc 12,28-31; Mt 22,34-40; Lc 10,25-28; Gv 13,34-35): «Infatti: “Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai”, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”». I tanti precetti della legge, cioè, in chi è giunto alla maturità della fede e dell’amore verso Dio, si rivelano riassumibili nel precetto dell’amore per il prossimo, il quale non ha bisogno di vietare, ma al contrario di spingere a fare di più per i fratelli. D’altronde, l’amore rende il cristiano più capace di vedere i bisogni di chi è il suo prossimo, non raramente anche di prevenirli.

Infine, con il v. 10 si chiude la breve riflessione, ribadendo il rapporto tra amore e compimento della legge: «La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità». È utile sottolineare che quanto dice Paolo non costituisce una semplice parenesi, quasi un appello ai buoni sentimenti, ma un ritrovare nel nucleo stesso della rivelazione (la legge) le motivazioni profonde che insegnano l’agire di Dio agli uomini.

La legge, quindi, secondo l’insegnamento paolino (cf. Romani e Galati), rimane efficace e necessario pedagogo che conduce a Cristo, giacché, in ultima analisi, colui che compie la legge si mette sulla medesima scia segnata dal Figlio di Dio, che ha interpretato la sua morte in croce come compimento della legge nell’amore. Una scia che porta alla croce, in quanto l’amore significa comunque rinunciare a se stessi per far posto a Dio e imitare la vita del Figlio.

 

 

Vangelo: Matteo 18,15-20

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.

In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

 

 

Il  vangelo in immagini

XXIII DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

 

Esegesi

 

Il capitolo 18 del Vangelo di Matteo, rispondendo alla domanda riguardo ai fondamenti della vita di una comunità, ne presenta due di non trascurabile valore: la correzione fraterna e la preghiera in comune.

Iniziamo dalla correzione fraterna, che viene esposta dall’evangelista in maniera abbastanza giuridica, come si deduce dal tipo di ragionamento seguito: a) v. 15, ossia la correzione in privato: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello»; b) v. 16, la correzione in presenza di testimoni «se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»; c) v. 17, correzione davanti all’assemblea come extrema ratio, prima dell’espulsione: «Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano».

In realtà, tra i vari riferimenti del Nuovo Testamento alla correzione (Mt 7,4; Lc 6,41-42; Gal 6,1; 2Ts 3,15; 1Tm5,l; 2Tm 2,25; Tt 3.10; Gc 5,19-20), questo di Matteo è il più preciso, ma è anche quello che si rivela subito, allo stato dei fatti, il più irrealizzabile, se non nel contesto limitato di comunità come Qumran (presso la quale esisteva una disciplina precisa in proposito) e, successivamente, quelle monastiche (si pensi al capitolo delle colpe). Può darsi che nella comunità dell’evangelista, di carattere giudeocristiano, si agisse in questo modo, poiché tale prassi risente della tradizione biblica. Infatti, 18,16 cita esplicitamente Dt 19,15, mentre il concetto generale della correzione fraterna si trova in Lv 19,17: «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui».

Pur coscienti della problematicità storica di tale prassi nelle comunità antiche, non si può negare un dato: ogni membro della comunità si sente un po’ responsabile di chi gli sta a fianco, il che vuol dire che, per la salvezza del fratello e il buon nome della comunità stessa, egli ritiene proprio dovere intervenire nella correzione. Questa, poi, può addirittura giungere all’estremo dell’espulsione nei casi di perdurante ostinazione da parte di chi è stato corretto. Per confermare questo tipo di «potere» da parte della comunità. Gesù dice: «In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (18,18). Anche Dio accetta la decisione che la comunità, dopo aver attentamente ponderato ed esplorato ogni possibile strada di correzione, consideri non più discepolo l’ostinato e lo affidi alla misericordia divina affinché lo faccia ritornare sui propri passi.

L’altro fondamento, quello della preghiera in comune, è strettamente legato a quanto abbiamo detto finora: soltanto una comunità che sa riunirsi nella concordia della preghiera e della professione di fede in Gesù Cristo può intercedere per coloro che hanno voltato le spalle al vero pastore dell’umanità. Anzi, ancora più radicalmente, il Vangelo afferma che basta essere in due, che, in accordo, possono chiedere qualsiasi cosa al Padre, perché egli la conceda. E quale cosa migliore si può chiedere al Padre se non che nessuno si perda di quelli che Egli ha chiamato?

Quando tutte le altre metodologie falliscono, non rimane che implorare dal Padre il suo onnipotente intervento per raddrizzare ciò che ha preso una cattiva piega.

 

 

Meditazione


La fede in Dio diviene responsabilità verso il fratello e questa si declina come ammonizione e correzione del fratello: questo il messaggio che unisce prima lettura e vangelo.

La correzione fraterna richiede un profondo senso di fede. Questo emerge dalle parole di Gesù secondo le quali essa deve esercitarsi nei confronti di chi «ha peccato», commettendo una colpa pubblica, non diretta in modo particolare contro l’altro. Il testo non dice: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te». In quel caso, rivelerà Gesù, vi è il perdono senza misura (Mt 18,21-22).

La maturità di fede consiste nel sentirsi feriti dal peccato in quanto tale, non soltanto dall’offesa personale.

La correzione fraterna si oppone al silenzio complice, alla pigrizia di chi non vuole inimicarsi l’altro, ai meccanismi di autogiustificazione sempre pronti a trovare buoni motivi per non intervenire e non denunciare il male là dove è commesso. A livello ecclesiale la correzione corrisponde a una parola audace e profetica pronunciata a qualunque prezzo, perché di mezzo c’è il vangelo. Uno dei più frequenti peccati di omissione è il sottrarsi alla denuncia del male e del peccato, è il sottrarsi alla correzione fraterna.

La capacità di correzione dice la libertà del credente. E anche la sua obbedienza radicale al vangelo e la sua appartenenza al Signore.

L’autenticità dell’amore sgorgato dal vangelo si manifesta nella capacità di correggere colui che si ama. L’amore «spirituale», non psichico, vince la tentazione di tacere il peccato commesso dall’amico per timore di perderne l’amicizia. La correzione fraterna dice che l’amore cristiano deve essere vissuto all’interno della responsabilità per gli altri e per il mondo.

La correzione fraterna va colta anche dal punto di vista di chi la riceve, che è sempre un fratello, un membro della comunità cristiana. Occorre molta umiltà e disponibilità a ricredersi e a ricominciare. L’autentica correzione fraterna non è un giudizio, e ancor meno una condanna, ma un evento sacramentale che fa regnare Cristo come terzo tra chi la esercita e chi la riceve. Essa richiede il coraggio della parola: coraggio che può nascere solo radicando la propria parola nella parola evangelica.

I tre «gradi» del processo disciplinare nei confronti di chi ha peccato nella chiesa (Mt 18,15-17) indicano quantomeno imprudenza e la gradualità in cui si svolge il tentativo di accordare l’istanza evangelica con il rispetto del fratello peccatore al fine di recuperarlo. L’orizzonte della correzione è infatti quello espresso dal profeta Ezechiele, secondo cui Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr. Ez 33,11).

La scomunica (Mt 18,17) appare come extrema ratio. E certamente la prassi storica delle comunità potrà e dovrà creare e inventare forme di intervento che cerchino in ogni modo di evitare l’allontanamento di un fratello. Impressiona, nella Regola di san Benedetto, la procedura prevista nei confronti di un fratello peccatore: «L’abate si comporti come un esperto medico: se ha usato i lenitivi, gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle divine Scritture, e, da ultimo, il cauterio dell’esclusione o delle battiture della verga, se vede che tutto il suo darsi da fare non serve a nulla, allora ricorra a ciò che è ancor più efficace: la preghiera sua e di tutti i fratelli per lui, affinché il Signore, che tutto può, operi la guarigione del fratello malato» (28,2-5).

L’estensione ai membri della comunità, o almeno ai suoi responsabili, del potere di «sciogliere e legare», riservato al solo Pietro in Mt 16,19, dice l’importanza della corresponsabilità nell’esercizio dell’autorità nella comunità cristiana. E ribadisce un principio importante della prassi sinodale: «Ciò che nel corpo ecclesiale concerne tutti, deve essere discusso e approvato da tutti».

Se nella Chiesa vi è divisione e peccato, essa però trova la sua unità nel Nome del Signore: lì, fosse ben tra due o tre credenti, perché mai nel Nuovo Testamento la Chiesa dipende dal numero, si può creare la sinfonia (vb. symphonéo: v. 19) gradita al Signore e da lui ascoltata.

 

 

Preghiere e racconti


Le sentenze dei padri del deserto

Per molti anni due uomini erano vissuti insieme senza mai litigare. Un giorno, uno disse: “E se litigassimo almeno una volta come fanno tutti?”. L’altro rispose: “Io non so come si fa a litigare… Il primo disse: “Ecco: io colloco un mattone fra noi due e io dico che è mio e tu dici che è tuo. È così che comincia un litigio. Collocarono quindi il mattone fra di loro. Uno disse: “È mio”. L’altro disse: “No, è mio”. Riprese il primo: “Sì  è tuo; prendilo e vattene. E si separarono senza riuscire a litigare.

(L. Regnault, Le sentenze dei padri del deserto)

 

Correzione con amore

«Rabbi Aronne arrivò un giorno nella città in cui cresceva il piccolo Mardocheo, il futuro Rabbi di Lechowitz. Il padre di questi gli condusse il ragazzo e si lamentò che non avesse costanza nello studio. “Lasciatemelo qui un poco”, disse Rabbi Aronne. Quando fu solo con il piccolo Mardocheo, strinse il bambino al suo cuore e in silenzio ve lo tenne vicino fino a che il padre tornò. “Gli ho fatto un discorsino” disse quindi Rabbi Aronne. “D’ora in poi la costanza non gli mancherà”. Quando il Rabbi di Lechowitz raccontava questa vicenda aggiungeva: “Ho imparato allora come si convertono gli uomini”».

(MARTIN BUBER, I racconti dei Chassidim, Milano, Garzanti,1985, 245).

 

Assemblea nella falegnameria

Raccontano che nella falegnameria si ebbe un volta una strana assemblea. Fu una riunione di utensili (attrezzi) per risolvere le loro differenze. Il martello esercitò la presidenza, ma l’assemblea gli notificò che doveva rinunciare. La causa? Faceva troppo rumore! E, inoltre, passava il tempo battendo. – Il martello accettò la sua colpa, ma chiese che fosse anche espulsa la vite ; disse che era necessario dare molti giri perché servisse per qualche cosa . – Davanti a questo attacco, la vite accettò anche, ma a sua volta chiese l’espulsione della lima. Fece vedere che era molto aspra e aveva sempre frizioni con gli altri. – E la lima fu d’accordo, a condizione che fosse espulso il metro che passava il tempo misurando gli altri come se lui fosse l’unico perfetto.

Stando così le cose entrò il falegname, si mise il grembiale e iniziò il suo lavoro. Utilizzò il martello, la lima, il metro e la vite. Finalmente, l’aspro legno iniziale diventò un bellissimo mobile.

Quando la falegnameria restò di nuovo vuota, l’assemblea riprese la deliberazione. Fu allora che prese la parola la sega e disse: “Signori, è rimasto chiaro che abbiamo difetti, ma il falegname lavora con le nostre qualità. E’ questo che ci fa preziosi. Dunque non dobbiamo pensare ai nostri punti cattivi e concentriamoci nell’utilità dei nostri punti buoni.”

L’assemblea trovò allora che il martello era forte, la vite univa e dava forza, la lima era speciale per affinare e limare le asprezze e osservarono che il metro era preciso ed esatto. Si sentirono tutti un’equipe capace di produrre mobili di qualità. Si sentirono orgogliosi delle loro fortezze e di lavorare insieme.

 

L’amicizia e la correzione fraterna in S. Giovanni Crisostomo

«Più di noi stessi, se lo volete, voi potete beneficarvi a vicenda: passate più tempo insieme, conoscete meglio di noi le vostre relazioni reciproche, non vi sono nascoste le vostre mancanze vicendevoli, avete più franchezza, più amore, più consuetudine reciproca: questi non sono piccoli vantaggi per ammaestrare, anzi ne offrono una possibilità grande e opportuna; e più di noi potete rimproverare ed esortare. E non solo questo, ma io sono solo, e voi molti; e tutti potete, quanti siete, essere maestri. Perciò vi scongiuro: non trascurate questa grazia! Ciascuno ha una moglie, ha un amico, ha un servo, ha un vicino: questi ammonisca, quelli esorti. Non è un assurdo? Per il cibo si fanno banchetti e simposi, vi sono giorni stabiliti per riunirsi e quello in cui uno manca personalmente, viene compiuto dalla società, come ad esempio se si debba partecipare a un funerale, o a un banchetto, o si debba aiutare in qualcosa un prossimo. E, invece, per ammaestrare alla virtù non si fa nulla di ciò! Sì, vi scongiuro! Nessuno lo trascuri! Riceverà da Dio una grande ricompensa!

[…] «Ma non so parlare» si dice. Non c’è bisogno di saper parlare né d’eloquenza. Se vedi un tuo amico che si abbandona all’impudicizia, digli: «Ciò che fai è un’azione cattiva; non ti vergogni? Non arrossisci? È male!». Ma lui non sa che è male? si obietta. Certo, lo sa, ma la passione lo trascina. Anche gli ammalati sanno che una bevanda fredda fa loro male, e tuttavia c’è bisogno di chi glielo impedisca. Chi soffre, non sa facilmente dominarsi, se è ammalato. C’è bisogno di te, che sei sano, per curarlo; e se non riesci a persuaderlo a parole, osserva dove va e impedisciglielo, forse se ne vergognerà. «Ma che giova se agisce così per me, se solo per me se ne trattiene?». Non sottilizzare troppo: intanto distoglilo in qualsiasi modo dall’azione cattiva; si abitui a non precipitarsi in quel baratro sia per te, sia per qualsiasi altro impedimento: è già un guadagno. E quando si sarà abituato a non recarsi più là, allora, dopo che si sarà un po’ riavuto, potrai riavvicinarlo e insegnargli che bisogna evitare ciò per Dio e non per gli uomini. Non pretendere di correggerlo tutto in una volta, perché non ci riuscirai; bensì piano piano, un po’ alla volta.

E se lo vedi andare a bere, se lo vedi recarsi a banchetti dove ci si ubriaca, comportati nello stesso modo. Anzi, supplicalo di aiutarti a correggerti se vede che tu hai qualche difetto. In tal modo rivolgerà in sé il rimprovero, vedendo che anche tu hai bisogno di ammonizione, e che lo aiuti non perché sei il correttore di tutti, o il maestro, ma sei un amico e un fratello. Digli: Ho giovato a te ricordandoti qualcosa di utile; anche tu, se vedi in me qualche difetto, prendimi per i capelli e raddrizzami: se mi vedi irascibile, o avaro, frenami e legami con le tue ammonizioni. Questa è l’amicizia, così il fratello viene aiutato dal fratello e diventa una città fortificata (cf. Pr 18,19). Non è il mangiare o il bere insieme che crea l’amicizia: così l’hanno anche i ladri e gli assassini; ma se siamo amici, se veramente ci diamo pensiero l’uno dell’altro, ci dobbiamo anche accordare. E questo ci porta a un’amicizia utile e ci impedisce di precipitare nella geenna.

D’altra parte chi viene rimproverato non si turbi, siamo uomini e abbiamo difetti; e chi rimprovera non lo faccia pubblicamente, insultando e facendo mostra di sé, ma a quattr’occhi e con dolcezza; ha bisogno di tanta dolcezza colui che ammonisce, se vuole che sia ben accolto il suo discorso tagliente. Non vedete i medici, quando bruciano o quando tagliano, con quanta dolcezza applicano la loro terapia? E molto più lo deve fare chi ammonisce, perché il rimprovero è più violento del ferro e del fuoco, e fa sobbalzare. Per questo motivo anche i medici si esercitano molto per riuscire a incidere con calma, e lo fanno con dolcezza, in quanto è possibile, e incidono un poco e poi permettono di riprendere il fiato. Così si devono fare anche i rimproveri, perché chi viene ammonito non se ne sottragga. E se fosse necessario venire insultati e anche schiaffeggiati, non ricusiamolo; anche quelli infatti che subiscono un intervento urlano mille cose contro coloro che li operano, però essi non guardano a nulla di ciò, ma solamente alla salute dei pazienti. Così, anche nel nostro caso, si deve fare di tutto perché il rimprovero risulti utile, e si deve sopportare tutto guardando il premio che c’è preparato. È detto: Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge del Cristo (Gal 6,2). Così, ammonendoci e sopportandoci a vicenda, potremo completare l’edificazione del Cristo».

(Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli ebrei, 30,2).

 

Correzione fraterna

Ciascuno deve rispondere del fratello, ciascuno è custode del fratello. Un’espressione tipica di questa corresponsabilità è data appunto dalla correzione fraterna. A proposito della quale sarà opportuno fare alcune precisazioni fondamentali:

1. Essere custode non significa comportarsi da spia o poliziotto dell’altro.

2. “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te…”. Bisogna accertare la colpa, prima di tutto. E vedere di che colpa si tratta. Il fratello non pecca contro di te se non ha le tue stesse idee, non condivide le tue simpatie o antipatie, non si arruola per le tue cause. Il fratello non va ripreso per la colpa di non essere a tua immagine e somiglianza, a portare in giro la “sua” faccia, che non coincide con la tua.

Attenti, perciò, a non confondere il peccato con il diverso. A non definire “male” ciò che semplicemente non rientra nei nostri gusti e nei nostri schemi. Attenti, soprattutto, a non intervenire continuamente per delle sciocchezze, per delle cose assolutamente marginali. Certe persone religiose pare possiedano l’arte di “asfissiare”, più che liberare, aiutare, promuovere.

3. La procedura indicata da Matteo (Mt 18,15-20) non va confusa con un processo. Si tratta piuttosto di una mano tesa ostinatamente ma con delicatezza estrema verso l’altro che minaccia di allontanarsi, di separarsi. E non è detto che le fasi debbano essere rigidamente tre. Possono e devono essere molte di più, con tutte le iniziative suggerite dalla fantasia e dal cuore che non si arrende mai, malgrado i ripetuti insuccessi.

4. Prima ancora di far capire al fratello che ha sbagliato, occorre dimostrargli e convincerlo che è amato, nonostante tutto. La carità, la pazienza, la misericordia, la sensibilità, sono la luce indispensabile attraverso la quale il deviante può scoprire il proprio errore di rotta. Più che richiamano all’ordine, occorre richiamarlo a lasciarsi amare.

5. La correzione fraterna implica, oltre che la carità, anche l’umiltà. Umiltà che si traduce nell’abbandono di qualsiasi atteggiamento di superiorità. Il peccatore deve comprendere che chi lo ammonisce è peccatore quanto e più di lui, uno che condivide la sua stessa fragilità e miseria. Non: «Guarda che cosa hai fatto!», ma: «Guarda che cosa siamo capaci di fare…».

6. Il metodo più efficace per far capire l’errore, non è l’impiego delle parole e delle dimostrazioni teoriche o le citazioni di un codice, ma l’illustrazione pratica, personale, della virtù dimenticata, del valore disatteso, dell’ideale calpestato. Meglio sempre gli “annunci” che le “denunce”. Anche perché le denunce possono essere sospette per il fatto stesso che non costano niente. Sovente parliamo e gridiamo troppo, perché la nostra condotta non è abbastanza eloquente. Siamo predicatori implacabili e moralisti insopportabili perché la santità della nostra vita non è tale da costituire una silenziosa condanna di certi difetti e deviazioni. Si può insegnare in maniera efficace anche col silenzio. Sempre che la vita parli, naturalmente.

7. I ruoli non sono mai definiti, ma risultano intercambiabili. Per cui non ti è consentito rivendicare il dovere di criticare l’altro, se non gli concedi il diritto di criticare, a sua volta, i tuoi comportamenti poco corretti.

8. La scomunica e l’esclusione, più che un elemento punitivo, devono costituire un motivo di riflessione e uno stimolo alla conversione. Devono avere una funzione pedagogica, non vendicativa. Non è tanto la comunità che decreta l’esclusione, quanto il fratello, peccatore ostinato, che si pone automaticamente, e pervicacemente, in stato di separazione, fuori dalla comunione. E lui che si scomunica. La comunità non fa altro che prendere atto, dolorosamente. Si tratta, perciò, di «aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato di separazione, perché possa, di conseguenza, ravvedersi. Lo scopo è quello di creare nel peccatore uno stato di disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno» (B. Maggioni). Illuminante, a questo proposito, risulta la cosiddetta “parabola del figliol prodigo”. Comunque, la comunità non deve mai alzare il ponte levatoio. Deve sempre tenere la porta aperta, la luce accesa. Una comunità si rivela cristiana quando non si rassegna alla perdita definitiva di un membro, ma si dimostra sempre pronta ad accogliere, perdonare, riconciliare. E fa tutti i passi possibili e impossibili perché avvenga il ritorno atteso. E ci dovrebbe sempre essere aria di festa, non musi lunghi, quando il fratello, lo sbandato, ricompare all’orizzonte. Teniamo pronta la musica, la tavola imbandita, non i rimbrotti, le accuse.

Tutti siamo al sicuro soltanto quando nessuno è fuori.

9. …E anche quando l’altro si pone fuori dalla comunità, si autoesclude, non per questo hai esaurito il tuo compito. Gli “devi” ancora più amore.

(A. Pronzato, “Tu solo hai parole . Incontri con Gesù nei vangeli”, vol. III, Torino, Gribaudi, 264-269).

 

Correzione fraterna: la correzione evangelica

Quando vuoi ammonire qualcuno alle cose belle, prima da’ ristoro al suo corpo e onoralo con una parola colma di amore. Non c’è nulla che renda modesto un uomo e lo persuada a convertirsi dalle cose cattive a quelle buone, come il bene corporale e l’onore dimostratogli da qualcuno.

Un secondo strumento di persuasione è lo sforzo di un uomo a essere lui stesso uno spettacolo lodevole. Colui che ha ottenuto di possedere se stesso per mezzo della preghiera e della vigilanza, potrà facilmente avvicinare il suo compagno alla vita, anche senza la fatica delle parole o l’ammonizione esplicita. Colui che prende le difese dell’oppresso, trova un difensore nel suo Creatore. Colui che presta il suo braccio per aiutare il suo prossimo, riceve il braccio di Dio per lui. Colui che accusa suo fratello per i suoi mali, troverà Dio come suo accusatore. Colui che raddrizza suo fratello nel segreto di una stanza, cura il suo male; ma colui che lo accusa nell’assemblea, rinsalda le sue ferite.

Colui che cura suo fratello in privato, rivela la forza del suo amore; ma colui che lo espone all’occhio dei suoi compagni, fa conoscere la forza della sua propria invidia. L’amico che cura nel segreto, è un medico sapiente; ma colui che cura all’occhio di molti, in verità è uno che ingiuria. Il segno della misericordia è il perdono di qualsiasi offesa, e il segno di una cattiva intelligenza è che si mutino le parole rivolte al peccatore. Colui che accosta la medicina alla correzione, corregge con amore, ma colui che cerca la vendetta è vuoto di amore. Dio corregge nell’amore e non per amore di vendetta. Non sia mai! Perché egli cerca di guarire la sua immagine e non conserva la sua collera. Se sei adirato contro qualcuno, o ardi di zelo a motivo della fede o a motivo delle sue opere cattive, o lo accusi o lo ammonisci, vigila sulla tua anima, perché tutti abbiamo nei cieli un giudice giusto.

Se infatti tu hai pietà e cerchi di convertirlo alla verità, soffrirai sofferenza a causa sua. Con lacrime e con amore gli dirai una o due parole, senza ardere d’ira contro di lui, allontanando da te i segni dell’inimicizia.

L’amore non sa adirarsi, non si irrita, non rimprovera con passione. Il segno dell’amore e della conoscenza è una profonda umiltà che proviene dall’intelligenza dell’intimo. Guarda di non essere dominato dalla passione di coloro che sono ammalati del desiderio di correggere gli altri e che da se stessi vogliono essere i censori e i correttori di tutte le infermità degli uomini. Questa è una dura passione …

In verità, è meglio per te trovarti a cadere nella lussuria, piuttosto che in questa malattia.

(ISACCO DI NINIVE, Un umile speranza, Magnano, Qiqajon, 1999, 198 -200).

 

Con grande misericordia e discrezione

Quelli cui è stata affidata la guida di molti con la loro mediazione devono far progredire i più deboli nel cammino di assimilazione a Cristo, come dice il beato Paolo: «Fatevi miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo» (1 Cor 1,1). Conviene dunque che essi per primi diventino un esempio perfetto praticando quella misura di umiltà che ci è stata consegnata dal Signore nostro Gesù Cristo. Egli dice infatti: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza nell’agire e l’umiltà di cuore siano quindi i caratteri propri di chi presiede la comunità. Se infatti il Signore non si è vergognato di servire i suoi servi, ma ha acconsentito a farsi servo della terra e del fango, che egli stesso ha plasmato e cui ha dato forma umana – dice infatti: «Io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27) – che cosa non dovremo fare noi per i nostri simili prima di crederci giunti a imitarlo? Questa è dunque la prima qualità che deve possedere in così grande misura chi presiede. Sia inoltre misericordioso e sopporti pazientemente quelli che mancano al loro dovere per inesperienza, non passi sotto silenzio i peccati ma sopporti con mitezza chi si comporta come un bambino e gli offra le sue cure con grande misericordia e discrezione. Dev’essere infatti capace di trovare il modo appropriato per curare ogni passione, senza rimproverare con arroganza, ma ammonendo e correggendo con mitezza, come sta scritto (cfr. 2Tm 2,25); sia attento all’oggi, previdente per il domani, capace di lottare con i forti e di portare le infermità dei deboli, di fare e dire ogni cosa per guidare alla perfezione quanti vivono con lui.

(BASILIO DI CESAREA, Regole diffuse 43,1-2, in ID., Le regole, Bose, 1993, pp. 192-193).

 

 

Preghiera


Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno!

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

XXII Domenica del Tempo Ordinario (A)

XXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 

Lectio – Anno A

Prima lettura: Geremia 20,7-9

 

Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si beffa di me.

Quando parlo, devo gridare, devo urlare: «Violenza! Oppressione!». Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno. Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo.

 

v Il dramma vocazionale più grave che la Bibbia registra è quello di Geremia, il giovane di Anatot che il Signore invita a salire a Gerusalemme ad annunziare la sua parola alla popolazione, agli uomini di corte, al clero, allo stesso sovrano. Un compito arduo di cui man mano che ne scopre i tragici risvolti il suo animo è attraversato da momenti di panico, di sofferenza, di sconforto. Sono le «confessioni» di Geremia: 11,18- 12,16.15,10-20; 17,12-18; 18,18-23:20,7-18.

La vocazione diventa così per l’uomo di Anatot il fardello di tutta la sua vita: l’accetta e la respinge, la benedice e la condanna. E le diatribe più frequenti e più aspre sono con Dio stesso che gli ha affidato un incarico che lo fa apparire sempre «uomo di litigi e di contese» (15,10). Egli svolge un compito benefico ed è perseguitato, mentre «la vita degli empi prospera» e «i perfidi vivono tranquilli» (12,1). Un quesito che lo tormenta a lungo ma a cui non sa dare risposta.

Lo sconforto tocca momenti di estrema esasperazione: «Me infelice, madre mia perché mi hai generato» (15,10). «JHWH, ricordati di me e soccorrimi; nella tua longanimità non farmi perire, sappi che io a causa tua sopporto oltraggi» (15,15). «Non diventare per me oggetto di spavento, tu sei il mio rifugio nel giorno della sventura» (17,17). Un dialogo sempre serrato, aperto, leale, ma qualche volta anche aggressivo. Gli sembra di essere stato ingannato. Il Signore gli aveva fatto ampie promesse: «ti renderò una città fortificata», «una colonna di ferro», «una muraglia di bronzo» (1,18); di fatto tutti «si beffano» di lui (20,7). Sembra che JHWH l’abbia allettato con un miraggio falso, come si fa con i bambini o come capita ai viandanti del deserto che a ogni riflesso di raggi solari si illudono di aver trovato uno stagno d’acqua.

La frase «mi hai sedotto» prima che un significato mistico ne ha uno realistico. Il profeta sente di essere stato aggirato come un’ingenua fanciulla che si è lasciata incantare e alla fine sopraffare dalla loquacità, dal fascino, dalla violenza del suo seduttore. L’amarezza è così grande che giunge alla risoluzione di ritirarsi dal servizio divino: «non parlerò più nel suo nome ». Sono attimi di debolezza, di confusione, di smarrimento, ma subito ritorna l’orientazione di fondo. Anche se la bocca pronuncia parole dissennate dentro di sé sente bruciare il fuoco dell’amore di Dio che lo divora e lo spinge ancora a parlare. «Trovate le tue parole io le divorai e la tua parola fu la letizia e la gioia del mio cuore» (15,16).

Geremia moriva senza aver chiarito il suo dramma, il mistero della sua chiamata, e lasciava ai suoi continuatori la sua dura eredità.

 

 

Seconda lettura: Romani 12,1-2

Fratelli, vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.  Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

 

v I pochi versetti di Rm 12 aprono la seconda parte della lettera etica e parenetica. Uscito dal giogo del «peccato» (5,1-11), dalla schiavitù della legge e della «morte» (5,12-7,25) il cristiano è una nuova creatura. Avverte ancora tutta la forza e la seduzione delle passioni e dei sensi, ma non può assecondarle poiché il suo «corpo» pur di sua appartenenza ha assunto con il battesimo una funzione nuova. Il cristiano non solo con il suo spirito ma

anche con tutta la entità fisica, pur rimanendo sulla terra, vive con un’orientazione e quasi una collocazione sopraterrestre. La sua realtà corporea, dice chiaramente Paolo, è come un’«ostia», un dono sacrificale, un’offerta fatta a Dio. È un bene che Dio ha partecipato alla creatura, ma questa ne ha fatto un presente al Signore, perciò è ormai una «cosa santa», messa a parte per far risaltare ed esaltare la santità di Dio.

Il vecchio culto si trova radicalmente rinnovato; non è più legato a un determinato luogo, ma alle persone che ovunque si trovino cercano di modellare la loro vita su quella di Cristo che ha offerto se stesso al Padre per il bene dei fratelli (Rm 3,21-31). La comunità cristiana secondo Paolo nel suo insieme e nei suoi componenti crea intorno a sé come un’area di sacralità e di santità: un monito per quelli che vi appartengono e una testimonianza salutare per quelli che son fuori. È un’oasi in cui regna la serenità, la pace, l’amicizia con Dio, la carità. Da essa sale a Dio e si espande all’intorno un soave odore che scaturisce dalla vita virtuosa e santa dei suoi componenti. È un sacrificio spirituale perché mosso e guidato dallo Spirito, cioè dall’amore stesso di Dio, diffuso in tutti i suoi figli (Rm 8).

Paolo adopera il linguaggio sacrificale e forse fa riferimento alla portata teologica dei sacrifici del tempio alla cui luce interpreta anche il sacrificio della croce, ma le vedute teologiche dell’apostolo non coincidono automaticamente con il pensiero di Dio. L’offerta che il cristiano è invitato a fare di se stesso, anche se richiesta da Dio, non è tanto per confermare o ampliare la sua gloria, che è piena e nessuno può rendere più grande, quanto il bene, la promozione, la salvezza dell’uomo, sempre in pericolo e sempre a rischio. È questo il modo di condividere «la misericordia di Dio», cioè la sua capacità di comprensione e di perdono, verso tutti gli uomini, particolarmente i più bisognosi, ovvero i più piccoli dei fratelli (cf. Mt 25,40). Gesù nel discorso della montagna chiede di essere misericordiosi come il Padre (Lc 6,36), «perfetti» come lui che sa mandare il sole e la pioggia a tutti anche a quelli che non la meritano (Mt 5,43-48).

È quanto in altre parole chiede Paolo ai romani di adoperarsi a capire e a compiere prima di tutto la volontà di Dio, cioè di cercare di comprendere e di realizzare fino alla sua perfezione il programma di bene, il progetto creativo salvifico, che egli sta attuando. La «volontà di Dio» è sicuramente ciò che egli ha ideato e si adopera direttamente e indirettamente a portare a termine. Ciò che egli vuole è ciò che egli fa.

 

 

Vangelo: Matteo 16,21-27

In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.

Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.

Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?  Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

 

Il vangelo in immagini

XXII DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

Esegesi

 

Gesù sulla via di Cesarea di Filippo «interroga» i discepoli sulla sua identità. La loro risposta per bocca di Pietro non è sbagliata, ma inopportuna. Essi hanno intravisto in Gesù l’inviato, il figlio prediletto di Dio, ma non pensano, qui come altrove (17,22-23; 20,20-23), che il successo promesso al Messia sia subordinato a prestazioni onerose, non esclusa la morte.

Gesù non può accettare la risposta dei discepoli; addirittura vieta loro di ripeterla e di divulgarla. L’infatuazione popolare che era sempre sul punto di esplodere avrebbe finito col mettere in pericolo la sua missione, soprattutto di far luce sulla logica o dinamica della salvezza che era chiamato a portare.

L’ebreo era abituato a far coincidere benessere e protezione divina, quindi aveva collegato il messianismo e l’era messianica con una straordinaria manifestazione di gloria e di potenza (cf. la teologia del Deuteronomista), ma secondo quanto lo spirito andava suggerendo a Gesù era una connessione infondata, senz’altro erronea. Era la singolare notizia che egli aveva non solo da trasmettere ma soprattutto da fare intendere ai suoi. Non bastava un semplice annunzio, occorreva una catechesi vera e propria. «Da allora cominciò a dire apertamente», si tratta di un cambiamento tematico e tattico.

I discepoli avevano visto Gesù operare prodigi (capp. 8-9.14-15), avevano ascoltato le «parabole» del regno (c. 13) ma non avevano mai sentito parlare delle «prove» del messia, delle sue sofferenze, dei suoi insuccessi. Sarà questo il tema con cui d’ora in poi dovranno cominciare a prendere familiarità.

La comitiva apostolica si era trovata sino allora in Galilea, la terra di origine in cui ci si poteva muovere con una certa fiducia e tranquillità, ma era giunto il momento di doversene allontanare, di affrontare zone meno note e meno familiari, come la Samaria, o meno sicure, come la Giudea e soprattutto Gerusalemme, la sede del potere religioso e politico, delle scuole ufficiali della nazione. Un incontro che poteva diventare anche scontro. Se il maestro avesse continuato a parlare con la libertà rivendicata sino allora avrebbe ritrovato le difficoltà incontrate presso i corregionali (cf. Mt 9,14;12,2,24,38;15,l-19) e facilmente delle più gravi. «Farisei e scribi» erano già venuti a indagare sulla sua ortodossia (Mt 15,1); sarebbe stato temerario andarli a disturbare nella loro roccaforte, ma era una scelta a cui l’inviato divino non poteva sottrarsi. Un profeta non poteva tenersi lontano da Gerusalemme (cf. Lc 13,33). È quanto i suoi discepoli debbono ormai sapere.

Non si tratta tuttavia di una scelta facoltativa, ma d’obbligo. Ritorna il verbo fatidico «deve» (dei). Era come scritto nei decreti divini; in essi rientrava la missione gerosolimitana del Cristo. La frase che riassume il faticoso ministero nella città santa è pollá pathein, «soffrire molto» Non è spiegato il genere di sofferenze, ma sono segnalate le persone da cui provengono: gli anziani, i sommi sacerdoti, gli scribi. In pratica i componenti del Sinedrio. Si trattava di un cimento con l’organo giudiziario, dell’assoggettamento a un processo che si sarebbe concluso con una condanna a morte. Ma Gesù si sforza di rassicurare i suoi che questa sorte ignominiosa, sebbene la croce non sia menzionata, non segna una vittoria dei nemici quanto del decreto di Dio che già da tempo aveva previsto un tale esito (cf. Is 53), ma anche lo stravolgimento («risurrezione») che avrebbe provocato nella vita del Messia. «Se i principi di questo mondo», afferma Paolo, avessero previsto l’effetto della loro sentenza, «non avrebbero mai crocifisso il Signore della gloria» (1Cor 2,8).

Il verbo «risorgere» in contrapposizione a «messo a morte» allude non tanto a una semplice sopravvivenza quanto al passaggio nel regno, nel mondo della vera vita di cui quella presente era solo un’ombra. La morte avrebbe tolto Gesù dalla prima esistenza per trasferirlo in un’altra superiore ed eterna.

La reazione di Pietro è spontanea. Egli e i suoi compagni erano passati al seguito del loro rabbi con la speranza di venirsi a trovare a fianco del promesso discendente davidico in procinto di instaurare un’intramontabile dominazione su Israele e le genti, e più di una volta si erano trovati a discutere tra di loro su chi sarebbe toccato il posto più vicino al futuro sovrano. Il nuovo discorso di Gesù contraddiceva tutte le loro aspettative. Era un assurdo inaccettabile. Come più anziano del gruppo, Simone si sente in dovere di intervenire. Le cose che Gesù diceva contraddicevano tutte le speranze d’Israele, le promesse dei profeti: non potevano perciò provenire da Dio. Egli era talmente convinto del suo ragionamento che deve aver fatto ricorso a richiami accorati, prolungati, insistenti da provocare in Gesù una reazione decisa.

Anche questa volta, come nell’esperienza della trasfigurazione (Mc 9,6) o della lavanda dei piedi (Gv 13,8), Pietro partiva dal suo buon senso, ma non era il consigliere idoneo che lo poteva portare a capire i misteri di Dio, i segreti della salvezza. Gesù stigmatizza l’intervento di Pietro come un’istigazione satanica, dell’avversario per eccellenza dell’opera di Dio. Egli ha ripetuto le proposte avanzate da Satana all’apertura del suo ministero: che era meglio far leva sui prodigi e su altri segni di potenza che sul nascondimento per far leva sugli spettatori (Mt 4,1-11). Ma non era la strada che egli capiva essergli stata assegnata.

Certo la sofferenza, il martirio non era una prospettiva piacevole per nessuno; neanche per Gesù, ma se erano collegate con l’adempimento del proprio dovere diventavano inevitabili come il dovere stesso. L’uomo non può decidere su ciò che è bene e ciò che è male come una volta avevano preteso i progenitori (Gn 3,4), ma deve rimettersi alle decisioni di chi l’ha stabilito, il creatore del cielo e della terra.

La proposta di Simone è rovesciata radicalmente. Gesù non parla più all’apostolo ma a tutti i discepoli. La «croce» sarà il patibolo in cui egli finirà i suoi giorni, ma diventa il simbolo del cumulo di sofferenze, umiliazioni, abnegazioni, rinunce, prove che un discepolo di Cristo sarà costretto a subire a motivo della sua fede. Se il maestro sarà perseguitato a morte, i discepoli non possono cavarsela con qualche escoriazione. «Non c’è discepolo superiore al maestro» aveva già detto Gesù (Mt 10,24), che possa avere cioè un trattamento migliore del suo. Non c’è alternativa. Non si può essere cristiani all’acqua di rose. Far propria la testimonianza di Cristo, incarnare la sua legge di amore e di perdono, la sua sete e fame per la verità e la giustizia ed essere lasciati indisturbati.

L’evangelista ha toccato il tema della «salvezza» temporale ed eterna ora chiude il discorso con un richiamo al giudizio finale, all’incontro di tutti con il figlio dell’uomo che viene a rendere a ciascuno il premio o la condanna a seconda dei meriti o demeriti accumulati. Il testo riprende quanto è detto al termine della spiegazione della parabola della zizzania (Mt 13,41-42) e verrà descritto a lungo nella scena del giudizio ultimo (Mt 25,31-46).

 

 

Meditazione


L’obbedienza alla parola di Dio conduce il profeta a denunciare le ingiustizie e le violenze che si commettono all’interno del popolo di Dio e ad incontrare così opposizione, emarginazione, derisione da parte di coloro a cui profetizza (prima lettura); la sequela di Gesù immette il discepolo in un cammino segnato dall’assunzione della croce e il cui orizzonte è la perdita della vita (vangelo).

L’esperienza spirituale di Geremia, dopo l’entusiasmo dell’adesione al Signore e la dolcezza e la bellezza sperimentate nei momenti iniziali della chiamata, quando la parola del Signore fu per lui «la gioia e la letizia del suo cuore» (cfr. Ger 15,16), è divenuta, col passare degli anni e lo svolgersi del suo ministero profetico, esperienza di amarezza e di sofferenza. Il profeta si sente ingannato da Dio: fu vera vocazione? O si trattò di un abbaglio? Di un inganno? Dio lo ha chiamato o violentato? Al cuore della crisi, in cui il profeta è tentato di abbandonare il ministero ricevuto («Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!»: Ger 20,9), Geremia trova il rinnovamento e la conferma della vocazione nel più profondo di sé stesso, nel cuore ancora infiammato dalla parola di Dio. Se il Signore è una passione, allora anche la crisi sarà un momento di verità della fede e della vocazione. Il Signore come passione: questa è la sfida per i cristiani oggi.

Pietro, Cefa, la «roccia», colui che è chiamato a confermare nella fede i fratelli (cfr. Lc 22,32), a cui il Signore ha affidato un compito basilare nella chiesa (Mt 16,18), può divenire «scandalo», cioè pietra di inciampo nel cammino di fede. Gesù addirittura lo rimprovera duramente apostrofandolo come «satana» (Mt 16,18). E questo avviene quando Pietro esce dalla sequela per mettersi davanti a Gesù e fargli la lezione. Allora egli dimostra di non sentire e di non pensare secondo Dio, ma in modo mondano.

Così la beatitudine rivolta da Gesù a Pietro in Mt 16,17 viene non certo annullata, ma ridimensionata da questo rimprovero che situa Pietro in una luce molto realistica. Unico è il fondamento della chiesa: Gesù Cristo (1Cor 3,11; 1Pt 2,4-5). Il servizio di Pietro è al servizio di questa unicità.

La croce è sempre scandalo: solo integrando lo scandalo della croce nel nostro cammino di fede, possiamo evitare di divenire noi stessi motivo di scandalo per il vangelo e di scandalizzarci noi del Messia crocifisso (cfr. Mt 26,31: «Tutti voi vi scandalizzerete di me in questa notte»). Pietro, nella sua ribellione alla croce di Gesù, esprime l’atteggiamento di repulsione che spesso è anche nostro e che ci porta a confessare rettamente la fede e a smentire tale confessione nella prassi. La croce è l’elemento più radicalmente estraneo al «mondo»: il Pietro che vi si ribella mostra il suo conformismo mondano, il suo essere conforme ai parametri e ai criteri della mondanità, il suo pensare e sentire in modo conforme agli uomini e non secondo Dio.

Le parole di Gesù al discepolo parlano della perdita di sé necessaria per essere in contatto con il proprio vero sé (Mt 16,24-26). C’è un rinnegamento di sé, uno smettere di conoscere se stessi, un uscire da una vita autocentrata, dalla ricerca di autogiustificazioni, che consente al discepolo di trovare, come dono, e di essere raggiunto, per grazia, dalla vera vita. Si tratta del passaggio pasquale dalla vita come possesso e come potere, alla vita come dono e come grazia. È la vita vissuta in Cristo e per Cristo, è la vita di Cristo in noi: «Chi perderà la sua vita per causa mia, la troverà» (Mt 6,25).

«Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?» (Mt 16,26). Il testo intravede la situazione di uomini tutti tesi a possedere, a estendere il proprio agire e il proprio accumulare al di fuori di sé, di fatto fallendo la propria vita, perdendo se stessi. Forse, tutti estroversi proprio per non incontrare se stessi, per non entrare nel doloroso faccia a faccia con se stessi.

Seguire Cristo significa porre la propria vita nella sua vita per amore. Ciò che per amore si perde, in realtà non è perso, ma donato. E ciò che è donato per amore, è ritrovato nella relazione.

 

 

Preghiere e racconti


Lo scandalo della nudità

Spesso, durante l’estate, chi vede le pecore mi chiede:

“Vende formaggio? Di quello buono, genuino?”.

“Non so se è buono” rispondo “ma se vuole glielo faccio assaggiare.”

Restano male quando dico che lo produco per uso personal. Per rimediare, offro loro un pezzo da portare a casa.

“Va bene, però lo pago” rispondono molti.

“Non è necessario.”

“Ci tengo.”

“Va bene, se lei è più felice così…”

“Ma lei non è un pastore.”

“Quando sto con le pecore, sono un pastore.”

“D’accordo, ma non vive di questo.”

“Quando mangio il formaggio, vivo di questo.”

“E quando non fa il pastore, cosa fa, qual è il suo lavoro?”

“Produrre le cose che mi servono per vivere.”

“Tutto qui?” commentano stupiti. “Ma non è un vero lavoro!” Alcuni sorridono:”Beato lei! Come vorrei vivere anch’io quassù!”. […] I primi tempi non riuscivo ad accettare questo continuo bisogno di trovare una definizione. Non esisti se non c’è un aggettivo, un nome che aiuti a sistemarti da qualche parte. Poi mi sono abituato, ho capito che questa forma di classificazione fa parte della natura dell’uomo. Se so chi sei, so come comportarmi nei tuoi confronti, ma se sei un uomo senza legami e senza ruoli, non so più cosa pensare. Sei nudità e ti offri come nudità. E la nudità provoca scandalo.

(Susanna TAMARO, Per sempre, Giunti, Firenze, 2011, 8-10)

 

L’accettazione della Croce

Gesù ha potuto accettare la Croce perché sapeva di essere indefettibilmente amato dal Padre. Facciamo comprendere anzitutto all’uomo di essere amato dal Padre; allora egli accetterà. Anche la mortificazione e la croce… Si tratta certamente di valori poco compresi e scarsamente presenti nell’odierna spiritualità, ma, ovunque ricompaiono, si diffonde e si attiva anche la carità.. Dopo tutto, questa deficienza potrebbe consentire una prossima fecondità: nella misura in cui la croce non potrà più essere separata, come lo è stata a volte in passato, dal dinamismo della carità. Gesù è passato attraverso la Croce perché ha amato, sapendosi amato.

(A.M. Besnard, Volto spirituale dei tempi nuovi)

 

“…Chi perderà la sua vita… la troverà”

Ci vuole coraggio per muoversi dalla sicurezza all’incognito, anche se si sa che il rifugio sicuro offre una falsa sicurezza e che l’incognito promette un’intimità salvifica con Dio. È evidente che rinunciare alle cose familiari per estendersi a braccia aperte verso colui che trascende tutto quello che la mente può afferrare e trattenere, rende assai vulnerabili. In qualche modo, si ha l’impressione che seguitando a vivere nell’illusione si può avere un’esistenza incompleta, ma che la resa amorosa conduce alla croce. La vita di Gesù fu quella dell’amore ma anche quella del dolore. A Pietro egli disse:

“ Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,189.

È indice di maturità mentale rinunciare ad un’autocontrollo illusorio tendendo le mani fino a Dio. Ma sarebbe solo una nuova illusione credere che estendersi fino a Dio liberi dal dolore e dalla sofferenza. Sovente, di fatti, questo potrebbe portarci dove non vorremmo arrivare. Noi sappiamo però che senza arrivarci non troveremo la vita “…chi perderà la sua vita… la troverà”  (Mt 16,25), dice Gesù ricordandoci che l’amore si purifica nel dolore.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Queriniana, Brescia, 1980, 139).

 

Rinnega se stesso chi ama se stesso

Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […] «Rinneghi se stesso».

In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.

Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).

 

Povertà di cuore

Johnnes Metz descrive bene questa disposizione, dicendo:

“Dobbiamo dimenticare noi stessi permettendo che l’altra persona si avvicini a noi, dobbiamo saperci aprire a quella persona perché la personalità che la distingue si riveli  anche se talvolta ci impaurisce e ci ripugna. Sovente opprimiamo l’altro e vediamo solo ciò che vogliamo vedere; in tal modo non incontreremo mai il misterioso segreto del suo essere, ma solo noi stessi. Non arrischiando la povertà dell’incontro indulgiamo ad una nuova forma di auto-affermazione e ne paghiamo lo scotto con l’isolamento. “Chi avrà trovato la sua vita la perderà” (Mt 10,39) e non avrà la grazia della pienezza dell’esistenza umana. Si rimarrà soli, con l’ombra del nostro essere reale”.

La povertà del cuore crea la comunità perché non è autosufficienza ma interdipendenza creativa, in cui il mistero della vita viene rivelato.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Queriniana, Brescia, 1980, 96-97).

 

Rinascere dalle ceneri del tuo dolore

Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vivere la vita che volevi. La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale. Il vero successo, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato. Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti capita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione. Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore. Non sentirti sopraffatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza. Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande degli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino. Dentro di te c’è un essere capace di ogni cosa.  Guardati allo specchio. Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune. Se impari a conoscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.  Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti. Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisioni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua. Sei parte della forza della vita stessa. Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano. Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il servizio”.

(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).

 

Preghiera

Cristo, tu hai santificato il dolore umano con la tua vita e con la tua parola. Tu, stanco per il camminare e sbattuto dalla fatica, ti sei buttato giù a sedere e a riposare sull’orlo del pozzo di Sicar. Tu hai detto: «S’e il chicco di frumento, affidato alla terra, non muore, rimane solo...». Hai detto: «Voi piangerete e avrete da tribolare; il mondo, invece, si divertirà». Hai detto ancora: «Se uno vuole venire dietro a me, la smetta di pensare solo a se stesso, prenda quotidianamente la sua croce in santa pace e mi segua».

Per mezzo dei tuoi apostoli ci hai ripetuto: per essere meno indegni di entrare nel regno della vita, bisogna passare attraverso molte tribolazioni. Gesù, i tuoi seguaci hanno confermato questa via come quella ‘règia’ per entrare nell’eternità, dove ritroveremo le tribolazioni della vita presente trasformate in gloria e tu ci hai assicurato: «Fatevi coraggio, questa gloria eterna nessuno ve la potrà rapire!».

Ci crediamo, Gesù!

Ma tu aiutaci a tirar avanti nelle molte tribolazioni e stanchezze quotidiane.

Aiutaci almeno a saper sopportare la pesantezza, il ‘martirio bianco’ della quotidianità.

Aiutaci a saper sopportare la vita con le sue sconfitte e delusioni, con le sue angosce e i problemi.

Crediamo, Signore, ma aumenta in noi la fede, affinché credendo di più, speriamo anche di più: e sperando di più amiamo anche di più!

Così è e così sia!

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

Lectio della XVII Domenica del tempo ordinario

XVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: 1 Re 3,5.7-12

 

In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».  Salomone disse: «Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?».  Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te».

v Nella scena rievocata in questo brano (1 Re 3,3-15) ci troviamo agli inizi del regno di Salomone, quando ancora non si ha nessun indizio della perversione che secondo il racconto biblico successivo caratterizzerà il resto della sua vita (1 Re 11). Qui il giovane re ci viene presentato come un modello di uomo saggio, che chiede come supremo dono da Dio il giusto discernimento per poter governare bene il suo popolo. La saggezza di Salomone, caratterizzata altrove anche per una vasta conoscenza di carattere enciclopedico (cf 1 Re 5,9-14), viene qui qualificata come capacità di comprendere i propri limiti, e nello stesso tempo di sentire la necessità dell’aiuto del Signore per «distinguere il bene dal male» (v. 9).

Ciò è possibile col dono del «cuore docile» (lett. in ebraico «cuore che ascolta»), definito poi come «un cuore saggio e intelligente» (v. 12). Così, non si tratta tanto di una saggezza quantitativa, ma qualitativa. È interessante notare come la sapienza preferita in questa preghiera da Salomone sia contrapposta agli altri beni di carattere più mondano che pure sono considerati importanti nell’Antico Testamento: vita lunga, ricchezza e, specialmente per un re, morte dei nemici.

Proprio diverse, rispetto a questo ultimo punto, erano state le raccomandazioni di Davide al figlio prima della morte (1 Re 2,5-9). Inoltre, Salomone ha riconosciuto prima la fedeltà del Signore alla promessa fatta a Davide, per cui ringrazia il suo Dio per aver ereditato il trono di suo padre (v. 6).

Seconda lettura: Romani 8,28-30

Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati.

 

v In questi tre brevi versetti anche Paolo ci offre un suo abbozzo del tema del regno di Dio, più caratteristico dei vangeli sinottici. Egli ci vede coinvolti in esso, in quanto corrisponde al «disegno» di Dio per noi. Giunto alla conclusione della sua esposizione della storia della salvezza che costituisce l’argomento della Lettera ai Romani, Paolo contempla in anticipo il suo compimento nella glorificazione finale insieme a Cristo, dopo che si sono percorse le tappe intermedie della elezione, della chiamata e della giustificazione. Tenendo presente tutto questo, egli può dire prima che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono chiamati secondo il suo disegno».

Nel v. 28 abbiamo in Paolo uno dei pochi casi in cui il verbo amare ha Dio come oggetto e l’uomo come soggetto (gli altri casi si hanno in 1 Cor 2,9; 8,3; Ef 6,24). Ma anche in questo caso non si deve dimenticare che ci troviamo inseriti in un processo nel quale l’iniziativa è esclusivamente di Dio che chiama. Del resto prima Paolo ha parlato chiaramente dell’amore con cui Dio ci ha preceduto facendoci dono del suo Spirito: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (5,5). Questo concetto è ancora ribadito in 1 Giov 4,10: «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati».

Vangelo: Matteo 13,44-52

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi  va, pieno di gioia, vende tutti i suoi  averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci.

Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

Esegesi

Possiamo distinguere in questo brano evangelico tre brevi sezioni:

1) Il tesoro nascosto e la perla preziosa (vv. 44-46)

La forza evocatrice di queste due brevi parabole balza immediatamente agli occhi attraverso le due qualifiche abbastanza simili che le riassumono emblematicamente: tesoro, (perle) preziose. Queste due condizioni mettono in moto l’interesse di chi è capace di apprezzarle. Ma il contesto umano presupposto alle due immagini è diverso. Il tesoro na-scosto è scoperto per caso da chi lavora un campo non proprio per conto di estranei, mentre le perle preziose riguardano un mercante che lavora professionalmente per cercarle. Nell’un caso come nell’altro, ciò che conta è il capire che si è di fronte ad un’occasione da non perdere.

Le due parabole, nella loro brevità, sono formulate in una maniera parallela, giacché in entrambi i casi si ripetono i quattro verbi fondamentali: trova/trovata, va, vende tutti i suoi averi, compra. Solo nel primo caso, trattandosi di una scoperta non prevista, si accentua il senso della sorpresa aggiungendo «pieno di gioia». In realtà, le situazioni evocate dalle due parabole sono un po’ diverse e servono bene a sottolineare due atteggiamenti spirituali differenti nei confronti del regno di Dio. Nel caso del contadino che lavora come salariato, c’è la sorpresa per una scoperta non prevista, ma ciò nonostante egli sa essere abbastanza tempestivo nel prendere le decisioni giuste per non perdere l’occasione di un insperato vantaggio. Nel mercante di perle preziose questa disposizione è più esplicita e in qualche modo più scontata.

Anche di fronte al regno di Dio il nostro segreto desiderio di scoprirlo può presentare prima dell’incontro diversi gradi di consapevolezza, i quali conducono comunque ad un certo punto al passo decisivo dell’impegno personale e di una svolta di vita.

2) La rete gettata nel mare (vv. 47-50)

A proposito di questa parabola si deve ripetere quanto abbiamo osservato per quella che parlava del grano e della zizzania. Anche qui si parla di un elemento negativo, i pesci cattivi o scadenti da gettare via, i quali però non costituiscono l’oggetto principale di tutta l’operazione, ma solo una condizione necessaria per la realizzazione della finalità specifica della pesca, la raccolta dei pesci buoni. Usando lo stesso simbolo, suggerito allora dal suo mestiere. Gesù aveva detto a Pietro: «Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10).

La conclusione della parabola (vv. 49-50) è simile a quella precedente relativa alla spiegazione aggiunta alla parabola del grano e della zizzania (vv. 41-42): angeli, fornace ardente, pianto e stridore di denti.

3) Il vero scriba (vv. 51-52)

Gli scribi, esperti della Scrittura ebraica e della tradizione, rappresentano in Matteo una categoria di persone che, accanto ai sommi sacerdoti e ai farisei, sono menzionati molte volte in modo negativo e polemico, in quanto sono incapaci di comprendere la novità del messaggio di Gesù. Solo qui e in Mt 23,34 («Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città») sembra che vengano visti in senso positivo. Ma nel nostro passo si dice chiaramente che si tratta di uno scriba convertito, che è divenuto «discepolo del regno dei cieli». Così il riscatto della sua figura avviene attraverso il suo superamento, per ribadire che il vero scriba è ormai quello che si fa discepolo, in analogia con quanto si è detto in Mt 11,11 : «In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è il più grande di lui». Ma nello stesso tempo si sottolinea un elemento di continuità tra l’antica e la nuova economia in armonia con quanto è stato detto ancor prima: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per compimento» (Mt 5,17).

Se lo scriba offre qui un modello positivo che si può adattare al discepolo, è in forza di una qualità che gli era riconosciuta come caratteristica: la riflessione sui sacri testi della tradizione che può essere integrata con le osservazioni tratte dalla vita di ogni giorno; di tale atteggiamento si ha un esempio molto significativo proprio nelle parabole.

In realtà, questo detto sullo scriba-discepolo suggella per Mt tutto il suo capitolo delle parabole, quasi a voler suggerire l’analogia che c’è tra il procedimento del discorso parabolico e l’attività esegetica dello scriba, che diventa feconda quando non si cristallizza sulle conoscenze del passato, ma si sa aprire agli orizzonti dischiusi dalla nuova rivelazione di Dio anche attraverso gli eventi della vita quotidiana.

Meditazione

La sapienza fa l’unità tra prima lettura e vangelo. Sapienza di Salomone che si esprime nel suo pregare, nel suo chiedere a Dio un cuore capace di ascolto, ovvero il discernimento per giudicare e governare, sapienza di Gesù che si esprime nel suo parlare in parabole ma anche sapienza dei protagonisti delle parabole del tesoro e della perla (Mt 13,44-45) che emerge nel loro discernimento e nella loro pronta decisione, e infine sapienza dello scriba divenuto discepolo del Regno che trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche (Mt 13,52). La sapienza non è manichea, non elimina l’antico a esclusivo favore del nuovo e non resta ostinatamente attaccata all’antico per timore del nuovo, ma fa del nuovo la reinterpretazione dell’antico e dell’antico il fondamento del nuovo.

La sapienza è l’arte di orientarsi nella vita, l’arte di governare il timone della nave: «l’uomo sapiente terrà saldamente il timone» (Pr 1,5 LXX). È l’arte del traghettatore, di chi governa, di chi istruisce. Ma è anzitutto l’arte di chi governa se stesso. Arte che si ottiene mediante la faticosa conoscenza di sé: «Il vero inizio per crescere in virtù è conoscere se stesso. Colui che si conosce è il solo padrone di sé e, senza avere un regno, è veramente un re» (Ronsard). È l’arte di cui oggi, nello smarrimento e nel disorientamento in cui viviamo, abbiamo grande bisogno. «Tu il tesoro, Tu la perla preziosa; o Signore, Tu hai incontrato me, non io ho trovato Te; Tu hai conquistato e afferrato me, non io ho acquistato Te; o mio Tu, io sono tuo». Questa antica invocazione suggerisce che il vero soggetto delle parabole di Mt 13,44-46 non è il mercante che ha acquistato la perla e nemmeno il bracciante che ha acquistato il campo che prima ha lavorato, ma proprio il tesoro, la perla preziosa: essi sono la luce che da nuovo senso e orientamento alla vita e in nome e in vista di cui si può vendere tutto, abbandonare tutto.

E si può lasciare tutto nella gioia. La radicalità cristiana è autentica se sigillata dalla gioia. Anzi, la gioia è costitutiva di tale radicalità, perché questa va vissuta come grazia e nel rinnovarsi di una quotidiana gratitudine. Noi siamo grati di essere nella gioia.

L’esperienza di chi trova il tesoro e vende tutto per esso è in realtà l’esperienza di chi sente la parola di Dio che gli dice: «Tu sei prezioso ai miei occhi e io ti amo; io do uomini e popolazioni in cambio di te» (Is 43,4). È questo amore il segreto della gioia della radicalità di una vita cristiana, è questo amore il bene prezioso da custodire e salvaguardare, è questo amore del Signore e per il Signore che può rinnovare vite tentate da vecchiezza, stanchezza, insensibilità, cinismo, indifferenza. A noi che nella preghiera diciamo al Signore: «Sei tu il mio Signore, nessun bene per me al di fuori di te» e «Sei tu il mio unico bene» (Sal 16,2) e ancora «In te, o Dio, gioisce il mio cuore, esulta il mio intimo» (Sal 16,9), è chiesto di metterci alla prova se Cristo abita in noi (cfr. 2Cor 13,5). E questo perché noi abitiamo là dov’è il nostro tesoro: è il tesoro che ci colloca, che ci situa. Se Cristo abita in noi, noi dimoriamo in Cristo e allora possiamo gioire di gioia indicibile nel cammino verso il Regno. C’è solo da riscoprire ogni giorno la preziosità del dono ricevuto combattendo la tentazione del banale, dello scontato, del «tutto è dovuto».

Sia l’uomo che ha trovato la perla nel campo sia il mercante che ha trovato la perla di gran valore sono accomunati, nel loro agire coraggioso, forse anche folle e poco prudente («vendere tutto per acquistare una sola cosa»), dell’osare la propria gioia. La preziosità di una cosa e di una persona è relativa alla gioia che suscita in noi. La scelta dei due protagonisti delle parabole, così assimilabile alla radicalità cristiana (cfr. Mt 19,21: «Vendi i tuoi beni e dalli ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi»), avviene nella gioia procurata dalla scoperta, prosegue nella gioia di procurarsi il bene prezioso, e custodisce nella gioia anche il momento della vendita di tutto, della privazione di ciò che si possedeva. Ma soprattutto, è promessa di gioia anche per il futuro. A differenza di ciò che avviene al giovane ricco che resta nella tristezza (Mt 19,22).

 

Il Vangelo commentato in immagini

XVII DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

Preghiere e racconti


La perla

La perla di gran prezzo

giace nascosta giù nel profondo.

Come un pescatore di perle,

anima mia, tuffati,

tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo e cerca!

Può darsi che non trovi nulla

la prima volta,

Come un pescatore di perle, anima mia,

senza stancarti, persisti e persisti ancora,

tuffati profondo, sempre più profondo,

e cerca!

Quelli che non conoscono il segreto

si prenderanno gioco di te

e tu ne sarai rattristata.

Ma non perderti di coraggio,

pescatore di perle, anima mia!

La perla di gran prezzo

è proprio nascosta là

nascosta proprio in fondo.

E’ la tua fede

che ti aiuterà a trovare il tesoro,

è essa che permetterà

che ciò che era nascosto

sia finalmente rivelato.

Tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo,

come un pescatore di perle, anima mia,

e cerca, cerca senza stancarti.

(Swami Parmánanda).

 

Trovare-andare-vendere-comprare

«Un uomo» e «un mercante» nei loro confronti compiono le stesse azioni: trovare-andare-vendere-comprare. Diverse invece  sono le strade attraverso le quali incontrare il tesoro, raggiungendo la propria piena autorealizzazione: per il primo si tratta di «fortunata scoperta», per il secondo di un faticoso cammino di ricerca. A tutti e due viene comunque chiesto totalità e radicalità. Non basta aver trovato, occorre andare-vendere-comprare. E questo è quanto si chiede a tutti. Ciò che si deve vendere è tutto quello che si possiede, poco o molto che sia. Il Vangelo richiede un distacco totale, non per spirito di sacrificio, ma per la preziosità del bene trovato. E si vende tutto senza rimpianti. In fondo, essere santi è un vero affare perché si trova la piena realizzazione di sé… in modo inaspettato o a lungo cercato. In ogni caso, si tratta di una occasione unica. È folle allora non chi va-vende-compra ma esattamente chi agisce in modo diverso.

La realizzazione di sé, quale pienezza di vita, è frutto dell’aver trovato, dell’esperienza di un incontro che allarga il cuore. Per questo il vero cristiano non dice: «Ho lasciato», ma: «Ho trovato». Non dice: «Ho venduto il campo», ma: «Ho trovato un tesoro». L’uomo che si autorealizza nel fascino della santità parla molto non di ciò che ha lasciato, ma di ciò che ha trovato. Dinanzi al tesoro o alla perla preziosa tutto il resto perde valore: «Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,8).

(CISM, Protesi verso il futuro…per essere santi, Roma, Il Calamo, 2003).

 

Dal perdere al trovare

Il discepolo è provocato ad assumere un duplice atteggiamento: da una parte, svincolarsi pian piano da tutto ciò che lo tiene legato e gli impedisce di seguire in piena libertà il Signore e, dall’altra, sperimentare che, tutto ciò che deve abbandonare, è pur sempre poca cosa nei confronti di ciò che gli viene donato.

«In certi momenti il Vangelo è duro, impopolare, perché duri sono i cuori degli uomini – i nostri, a volte, più di quelli degli altri -, bisognosi di essere ricondotti sulla via della vita per aprirsi al dono di una vita nuova e più piena umanità».

(CEI, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, 35).

 

Per ora, nascondi il tuo tesoro

Hai trovato un tesoro: il tesoro dell’amore di Dio. Sai ora dov’è, ma non sei ancora pronto a  possederlo pienamente. Tanti affetti continuano ad agitarti. Per possedere pienamente il tuo tesoro, dovresti nasconderlo nel campo dove l’hai trovato, andare lietamente a vendere ogni cosa  che possiedi e poi tornare a comprare il campo.

Puoi essere davvero felice di aver trovato il tesoro: ma non devi essere così ingenuo da pensare di possederlo già. Soltanto quando avrai rinunciato a ogni altra cosa, il tesoro potrà essere completamente tuo. Aver trovato il tesoro ti pone in una nuova ricerca del tesoro stesso. La vita spirituale è una ricerca lunga e spesso ardua di quello che hai già trovato. Puoi cercare Dio soltanto quando lo hai già trovato. Il desiderio dell’illimitato amore di Dio è il frutto dell’essere stati toccati da quell’amore.

Dato che trovare il tesoro è soltanto l’inizio della ricerca, devi stare attento. Se esponi il tesoro ad altri senza possederlo pienamente, potrai far del male a te stesso e persino perdere il tesoro. Un amore appena trovato ha bisogno di essere nutrito in uno spazio tranquillo e intimo. La sovraesposizione lo uccide. Per questo devi nascondere il tesoro e spendere le tue forze nel vendere la tua proprietà, affinché  tu possa comprare il campo dove lo hai nascosto.

Questa è spesso un’impresa dolorosa, perché il senso di chi sei è così intimamente legato a tutte le cose che possiedi: successo, amici, prestigio, denaro, titoli, e così via. Ma tu sai che nulla se non il tesoro stesso può veramente soddisfarti.

Trovare il tesoro senza essere ancora pronto a possederlo pienamente ti renderà inquieto. È l’inquietudine della ricerca di Dio. È la via verso la santità. È la strada per il regno. È il cammino verso il luogo in cui potrai riposare.

(H. J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 148-149).

 

I frutti nuovi insieme agli antichi

II tesoro «nel quale si trovano nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3) è la Parola di Dio che sembra nascosta nella carne di Cristo, oppure le sante Scritture nelle quali riposa la conoscenza del Salvatore […]. Le belle perle sono la Legge e i Profeti e la conoscenza dell’Antico Testamento, ma esiste una perla unica, la più preziosa, la conoscenza del Salvatore, il mistero della sua passione, il segreto della sua risurrezione. E quando il mercante l’ha scoperta come l’apostolo Paolo disprezza come immondizia e spazzatura tutti i misteri della Legge e dei Profeti e tutte le antiche osservanze, nelle quali era vissuto in maniera irreprensibile, per guadagnare Cristo.

Non che la scoperta della nuova perla sia la condanna di quelle antiche, ma perché, paragonata a questa, ogni altra gemma ha minor valore […]. «Avete capito tutte queste cose?. Gli risposero: Sì?». Questo discorso si indirizza specialmente agli apostoli ed è a loro che viene detto: «Avete capito tutte queste cose?» (Mt 13,51). Vuole che non si accontentino di ascoltare come il popolo, ma che capiscano perché saranno loro i maestri. «Per questo ogni scriba ammaestrato in ciò che riguarda il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). Gli apostoli, gli scribi e i segretari del Salvatore, che scrivevano sulle tavole dei loro cuori di carne le sue parole e i suoi precetti, conoscevano i misteri del regno dei cieli. Le ricchezze del padrone di casa li rendevano potenti, perché attingevano nel tesoro della loro conoscenza cose nuove e cose antiche. E così tutto quello che predicavano nel vangelo, lo confermavano con la testimonianza della Legge e dei Profeti. Da qui le parole della sposa nel Cantico dei cantici: «Mio amato, ho custodito i frutti nuovi insieme agli antichi» (Ct 7,13 Vg).

(GIROLAMO, Commento a Matteo 2,13,44-46.51-52, SC 242, pp. 288-292).

 

Le prove di Dio nella nostra vita

Ho spesso pensato che la causa più comune del tumulto intimo negli esseri umani sia il conflitto di desideri, in quanto le nostre aspettative più alte e i nostri desideri più profondi sono sempre in lotta con la realtà. Il fatto è che concepiamo i nostri desideri, facciamo i nostri progetti, e poi speriamo che ci sia una bella strada spianata che conduce dritti alla realizzazione; purtroppo, però, spesso questo successo non rientra nel copione. Incespichiamo e non riusciamo nell’intento, perdiamo la lotta che con tutte le nostre forze desideriamo vincere, e dobbiamo rinunciare alle cose che vorremmo così tanto tenere. Davanti a tale considerazione, mi sono chiesto di frequente come sarebbe se io desiderassi solo la volontà di Dio, se prendessi Gesù sul serio, se avessi realmente la benedizione di essere povero di spirito, se le mie mani fossero aperte e protese in segno di disponibilità all’abbandono, se … “è davvero meglio la Perla di Grande Valore oppure darla via?”.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 97-98)

 

Racconto

«Una volta, un monaco mentre era in viaggio trovò una pietra preziosa e la prese con sé.  Un giorno incontra un viaggiatore e, quando aprì la borsa per condividere con lui le sue provviste, il viaggiatore vide la pietra e gliela chiese. Il monaco gliela diede immediatamente. Il viaggiatore partì, pieno di gioia per l’inaspettato dono della pietra preziosa che sarebbe stata sufficiente a garantirgli il benessere e la sicurezza per il resto della vita.

Ma pochi giorni dopo tornò indietro alla ricerca del monaco e, trovatolo, gli restituì la pietra dicendogli: “ora dammi qualcosa di più prezioso di questa pietra, qualcosa di pari valore. Dammi ciò che ti ha reso capace di donarmela”»

(Anthony de Mello)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.