Maria SS.Madre di Dio

MARIA SS. MADRE DI DIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Numeri 6,22-27

 

Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro: Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».

v La pericope, che ha una chiara intonazione liturgica, conclude le prescrizioni sul nazireato, ma è facilmente estrapolabile dal suo ambito proprio e adattabile ad ogni contesto di preghiera. Si tratta infatti di una benedizione che veniva usata al termine delle liturgie o dei sacrifici e si impartiva ogni giorno dopo il sacrificio della sera. Parola chiave della pericope il verbo benedire.

La radice ebraica brk è alla base di una importante famiglia di parole che esprimono la felicità dell’uomo e il dono divino che ne è la sorgente. Il verbo usato nella forma attiva, e in modo particolare nel contesto liturgico e celebrativo, esprime la comunicazione dei beni divini attraverso un mediatore.

Normalmente benedire è ufficio del sacerdote, ma anche il padre o il re (2Sm 6,18) benedicono. In questo testo, risalta molto chiaramente che Dio è l’origine fontale della benedizione: il verbo «benedire» e la forma deprecativa esplicitano bene l’iniziativa e l’opera del Signore.

L’uomo, al contrario, non è fonte di benedizione in se stesso, ma è mezzo di benedizione in virtù di un dono ricevuto dall’alto. La benedizione di Dio, inoltre, si distingue da quella umana per la sua efficacia: la parola di Dio è sempre evento di salvezza, non ritorna indietro senza aver dato i suoi frutti (cf. Is 55,10-11).

Segni della benedizione di Dio sono: il volto del benedetto che riflette la luce di colui che benedice; la grazia, la gioia e la pace. Il possesso di questi doni, sempre attesi, ma mai pienamente avuti, da parte dell’uomo o del popolo, porterà i profeti ad invocarli come doni messianici. Il messia sarà chiamato il benedetto per eccellenza; fonte di benedizione per tutti gli uomini; sorgente di gioia, di grazia, di salvezza e di pace.

 

Seconda lettura: Galati 4,4-7


Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.  E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.

 

v Il brano inizia con un’espressione tipicamente paolina («pienezza del tempo») che fa cogliere tutta la straordinarietà del momento di cui l’Apostolo sta parlando. Con questa espressione, Paolo non indica il sopraggiungere di un tempo prefissato, ma la maturazione progressiva e graduale della storia di salvezza. Una storia che, giunta oramai al suo pieno compimento, fa scaturire il dono di salvezza per eccellenza: Gesù, Figlio di Dio.

Il Figlio di Dio è un figlio, nato da donna, cioè veramente uomo. Il Figlio che si è spogliato delle prerogative divine e che si è sottoposto ai limiti dello spazio e del tempo, alla legge degli uomini in vista del riscatto di tutta l’umanità. Una umanità che potrà essere salvata proprio poiché resa figlia nel Figlio fatto uomo.

Il termine giuridico usato da Paolo («adozione a figli»), sottolinea maggiormente la gratuità dell’amore di Dio Padre, che ha tanto amato gli uomini da renderli suoi figli donando l’unico Figlio. Essere figli significa possedere intimamente lo stesso Spirito che anima e vivifica la vita dell’Unigenito e crea in lui quel rapporto intimo e particolare con il Padre.

Anche noi, resi figli, partecipiamo della stessa figliolanza divina e possiamo gridare con Cristo abbà: una parola che è l’espressione di questa nuova intimità di rapporto col Padre. Come figli legittimi, partecipiamo, inoltre, già della stessa eredità dell’unico figlio, garantita dalla caparra dello Spirito, che si realizzerà pienamente nel futuro escatologico. Le prerogative divine, a cui il Dio fatto uomo ha rinunciato per condurre l’umanità alla salvezza, saranno restituite a lui nella risurrezione. Attraverso di lui e dopo di lui, saranno date a tutti i risorti nella parusia.

La benedizione di Dio promessa ad Abramo, e a tutti i suoi figli, si realizza pienamente con l’incarnazione del Verbo, il Benedetto per eccellenza: da lui scaturisce ogni benedizione per noi e in lui si compiono tutte le promesse di Dio Padre, per l’umanità intera.

 

Vangelo: Luca 2,16-21


In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

 

Esegesi

Luca ama sottolineare l’aspetto universale e missionario del vangelo e illustra la nascita del Figlio di Dio circondando il racconto in una cornice di gioia e di lode. I pastori, ricevuto l’annunzio dell’angelo (Lc 2,10-12), si fanno messaggeri del lieto evento, di ciò che hanno visto e di quanto hanno udito. La fretta, con la quale si muovono, è espressione del loro

stato d’animo, che rivela la volontà di agire e di rispondere immediatamente al «segno» che è stato loro mostrato. Essi non ragionano come i dotti e i sapienti, per questo si muovono senza indugio per vedere la realizzazione della parola di Dio, che si è compiuta.

Il termine usato da Luca, rema, per descrivere «ciò che del bambino era stato detto loro» fa pensare sia all’annuncio della parola sia alla sua realizzazione: Gesù Cristo, Parola di Dio incarnata nella storia dell’uomo, risposta vivente alla domanda di salvezza dell’umanità. L’ambiente semplice e povero, ritratto da Luca, nulla toglie all’atmosfera gioiosa, anzi ne sottolinea l’autenticità.

La gioia dei pastori nasce, non dalla contemplazione di manifestazioni esterne e straordinarie (astri nel cielo, doni preziosi e profumati…), ma dall’incontro con il Salvatore, Cristo Signore. Nell’umile grotta di Betlemme giace l’amore, risuona la lode, regna la pace messianica. Raccolti attorno al bambino, contemplano il Messia, assaporano la gioia del compimento delle promesse e subito partecipano agli altri la loro traboccante esultanza: gli ultimi della scala sociale possono avere qualcosa da dire a tanti che sono più in alto di loro. È la logica di Dio che rivoluziona le rigide logiche umane.

Alla gioia entusiasta dei pastori Luca contrappone la gioia raccolta di Maria «Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio» (Lc 2,19). L’annuncio dell’angelo, avvolto dal mistero, a cui ella aveva aderito senza remore, si chiarificava lentamente, alla luce dell’evento della nascita del Figlio di Dio. I due verbi custodiva e meditava fanno comprendere molto bene il dramma interiore di Maria che assiste silenziosa e partecipe alla realizzazione del progetto di Dio. Nulla è chiaro in ciò che sta accadendo. Tuttavia Maria non chiede: accoglie. Maria non indaga: accetta. Maria non esita: ama il dono prezioso di Dio e si prepara a offrirlo al mondo.

La piena luce in lei giungerà alla fine della sua esistenza, ma nel frattempo si cala profondamente nel suo ruolo di madre del Dio fatto uomo. Impara a stare accanto al Figlio partecipando e accompagnando senza clamori le sue gioie e i suoi successi, le sue ansie e le sue sofferenze, riflettendo la luce di salvezza che da lui scaturisce. Non assume, né pretende di avere un ruolo da protagonista. Una scelta, questa, che la contraddistinguerà in tutti i momenti della sua vita di Madre accanto al Figlio. Accetterà di essere messa da parte dinanzi alla priorità della missione che il Padre ha affidato al Figlio (Lc 2,49: «non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?»). Timidamente esorterà l’inizio del ministero (Gv 2,3: «non hanno più vino»). Sempre gli sarà accanto soprattutto nelle ore più tristi, quando tutti lo abbandoneranno e il mistero di salvezza sembrerà infittirsi (Gv 19,25: «stavano presso la croce Maria la madre sua…»). Parteciperà gioiosa dei frutti della resurrezione attendendo il dono dello Spirito (At 1,14: «…assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù…») irradiando la luce di salvezza del Figlio sarà fedele figlia e madre nella sua Chiesa.

I pastori destinatari e portatori dell’annuncio della nascita del Figlio di Dio tornano ai loro greggi, alle loro occupazioni, alle loro case, lasciandosi dietro un’atmosfera gioiosa ricca di lode e di esultanza. Da Dio hanno ricevuto il dono di vivere questo evento di salvezza, a lui rivolgono ora la gloria. Glorificano Dio, origine e sorgente di ogni gloria, e rendono a lui la gioia che da Lui hanno ricevuto. Una gloria che esalta, celebra, riconosce i segni meravigliosi dell’intervento di Dio nella storia dell’uomo. Una gloria che manifesta la realizzazione dei tempi messianici, inaugurati dalla nascita del Figlio di Dio.

Luca chiude questo quadro gioioso con l’annotazione, di carattere storico, del compimento delle prescrizioni della legge mosaica. L’incarnazione, l’evento gioioso di salvezza di cui i pastori sono ora testimoni e che Maria conserva e custodisce nel suo cuore, comporta anche la sottomissione del Figlio di Dio alla legge umana. Tuttavia l’ultima parola spetta nuovamente a Dio che, nel nome del Figlio di Maria, rivela ancora una volta la sua volontà salvifica universale: il Figlio è Gesù, che significa JHWH salva.

 

Meditazione

Più motivi di celebrazione confluiscono nella solennità odierna. La liturgia concentra lo sguardo, a otto giorni dalla natività di Gesù, sul mistero di Maria, Madre di Dio. La madre non è separabile dal figlio e riceve da lui la sua luce e la sua dignità. La liturgia non dimentica tuttavia che siamo all’inizio di un nuovo anno, e che per volontà di Paolo VI in questo giorno si celebra la Giornata mondiale per la pace. Infine, nel versetto conclusivo del vangelo di Luca che oggi viene proclamato, ascoltiamo l’eco della festa celebrata prima della riforma liturgica: l’imposizione del nome «Gesù» e la circoncisione del figlio della Vergine.

La prima lettura tratta dal libro dei Numeri riporta la benedizione sacerdotale di Aronne. All’inizio di un nuovo anno siamo indotti a riflettere sul senso del tempo, sul suo inarrestabile trascorrere e sul desiderio umano di dominarlo o di prevederlo, senza riuscirvi. Ciò che Dio affida ad Aronne e ai suoi figli di fare ricorda che il tempo è sotto la sua benedizione. È luogo in cui Dio ci viene incontro, dicendo e operando il nostro bene, proteggendoci, mostrandoci il suo volto, donandoci la pace e un nome nuovo, che è il suo stesso Nome imposto sulla nostra vita, come sua benedizione e sua salvezza. Il tempo è sempre grembo fecondo di una novità, non perché a un anno che finisce ne subentri un altro, ma perché nel tempo ci si rivela quel Dio che fa nuove tutte le cose. Soprattutto ci rinnova mediante il dono del suo stesso Nome. Dio è davvero il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo, il Dio di ciascuno di noi, che lega indissolubilmente il suo Nome al nostro, ed è in questa alleanza fedele e feconda che troviamo novità, vita, pace.

Il tempo è ricolmo di questa presenza di Dio. Tale è la pienezza del tempo di cui parla Paolo nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Galati. Il tempo giunge alla sua pienezza quando il Figlio di Dio vi entra e lo riempie di sé, condividendo in tutto la condizione umana. Nasce sotto la Legge, in solidarietà profonda con il suo popolo, come «uno del suo popolo», che secondo la Torà deve essere circonciso all’ottavo giorno. La circoncisione è segno dell’alleanza. Circoncidendo il membro sessuale maschile, attraverso cui avviene la generazione di una vita nuova, l’israelita afferma che ogni suo figlio nasce nell’alleanza e in una relazione singolare con Dio. Paolo aggiunge però «nato da donna», come ogni altro uomo. Gesù si fa solidale non solo con i figli dell’alleanza, ma con ogni figlio di donna, senza esclusione alcuna. Tutti gli uomini, di ogni razza, cultura, religione, sono «figli di donna», e Gesù entra in comunione con ciascuno di loro. In questo modo, in lui e attraverso di lui, la benedizione che Aronne impartiva sugli Israeliti viene estesa a tutti, su tutti Dio fa brillare il suo volto e dona la sua pace. Il tempo giunge a pienezza perché si compie la promessa fatta ad Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3).

Dio pone il suo nome su di noi – afferma il libro dei Numeri – e questo nome ora possiamo invocarlo, ci ricorda Paolo, nello Spirito del suo Figlio che grida «Abbà! Padre!» (cfr. Gal 4,6). Dio ci dona il suo nome e ci dona anche la possibilità di invocarlo in modo nuovo, come figli che possono rimanere in una vera relazione filiale con lui.

L’evangelo di Luca, infine, ci rivela che questo nome che Dio ci dona è il nome che viene imposto sul figlio di Maria, «Gesù», che significa «Dio salva»: In questo figlio della circoncisione e figlio di una donna, Dio per sempre, senza pentimenti, rivolge a noi il suo volto fino ad assumere un volto umano, e ci dona un nome, anzi il solo nome in cui possiamo trovare salvezza. «Non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati», come testimonia Pietro davanti al Sinedrio (At 4,12).

L’atteggiamento autentico con cui contemplare questo indicibile mistero di salvezza è quello di Maria, descrittoci da Luca nell’evangelo. In lei c’è il silenzio di un ascolto profondo, che accoglie e custodisce. Come ha ascoltato la parola di Gabriele, ora ascolta la parola dei pastori, i quali riferiscono «ciò che del bambino era stato detto loro» (v. 17). Ascolta e obbedisce anche alla parola delle Scritture, facendo circoncidere il figlio all’ottavo giorno, come prescritto nella Torà di Mosè. Chi sa ascoltare e custodire nel silenzio del cuore e nella ricchezza della fede giunge a discernere la parola di Dio nel suo manifestarsi in modi molteplici: nell’angelo, nei pastori, nelle Scritture. Non basta tuttavia l’ascolto; Maria sa anche meditare nel cuore, andando oltre il semplice stupore degli altri. Occorre sapersi stupire davanti all’agire di Dio, ma poi lo stupore deve farsi domanda, ricerca, riflessione. Il verbo greco usato dall’evangelista significa più propriamente «mettere insieme, confrontare». L’ascolto della Parola richiede questo discernimento che sa mettere insieme e nel giusto rapporto aspetti che altrimenti potrebbero sembrare contraddittori: la parola di Gabriele che annuncia la grandezza e la santità di colui che sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, la parola dei pastori, poveri e marginali, che riconoscono il segno in un bambino deposto in una mangiatoia. Solo chi come Maria custodisce un cuore unificato dal silenzio, dall’ascolto, dalla meditazione, riconosce il modo paradossale di manifestarsi di Dio, mai ovvio e sempre sorprendente rispetto alle nostre attese e alle nostre logiche.

Questo ascolto della parola consente a Maria di accogliere e generare nella carne il Verbo di Dio. È la Madre di Dio, che diviene anche Madre dei credenti, perché assumendo il suo atteggiamento può maturare anche in noi la vera fede.

 

 

Preghiere e racconti


Educare alla pace

« La pace non è la semplice assenza di guerra e non può ridursi ad assicurare l’equilibrio delle forze contrastanti. La pace non si può ottenere sulla terra senza la tutela dei beni delle persone, la libera comunicazione tra gli esseri umani, il rispetto della dignità delle persone e dei popoli, l’assidua pratica della fratellanza ». La pace è frutto della giustizia ed effetto della carità. La pace è anzitutto dono di Dio. Noi cristiani crediamo che Cristo è la nostra vera pace: in Lui, nella sua Croce, Dio ha riconciliato a Sé il mondo e ha distrutto le barriere che ci separavano gli uni dagli altri (cfr Ef 2,14-18); in Lui c’è un’unica famiglia riconciliata nell’amore.

Ma la pace non è soltanto dono da ricevere, bensì anche opera da costruire. Per essere veramente operatori di pace, dobbiamo educarci alla compassione, alla solidarietà, alla collaborazione, alla fraternità, essere attivi all’interno della comunità e vigili nel destare le coscienze sulle questioni nazionali ed internazionali e sull’importanza di ricercare adeguate modalità di ridistribuzione della ricchezza, di promozione della crescita, di cooperazione allo sviluppo e di risoluzione dei conflitti. « Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio », dice Gesù nel discorso della montagna (Mt 5,9).

La pace per tutti nasce dalla giustizia di ciascuno e nessuno può eludere questo impegno essenziale di promuovere la giustizia, secondo le proprie competenze e responsabilità. Invito in particolare i giovani, che hanno sempre viva la tensione verso gli ideali, ad avere la pazienza e la tenacia di ricercare la giustizia e la pace, di coltivare il gusto per ciò che è giusto e vero, anche quando ciò può comportare sacrificio e andare controcorrente».

(Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la celebrazione della XLV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, 1° GENNAIO 2012: «Educare i giovani alla giustizia e alla pace»).

 

Alzare gli occhi a Dio

«Di fronte alla difficile sfida di percorrere le vie della giustizia e della pace possiamo essere tentati di chiederci, come il Salmista: « Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? » (Sal 121,1).

A tutti, in particolare ai giovani, voglio dire con forza: « Non sono le ideologie che salvano il mondo, ma soltanto il volgersi al Dio vivente, che è il nostro creatore, il garante della nostra libertà, il garante di ciò che è veramente buono e vero… il volgersi senza riserve a Dio che è la misura di ciò che è giusto e allo stesso tempo è l’amore eterno. E che cosa mai potrebbe salvarci se non l’amore? ». L’amore si compiace della verità, è la forza che rende capaci di impegnarsi per la verità, per la giustizia, per la pace, perché tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (cfr 1 Cor 13,1-13).

Cari giovani, voi siete un dono prezioso per la società. Non lasciatevi prendere dallo scoraggiamento di fronte alle difficoltà e non abbandonatevi a false soluzioni, che spesso si presentano come la via più facile per superare i problemi. Non abbiate paura di impegnarvi, di affrontare la fatica e il sacrificio, di scegliere le vie che richiedono fedeltà e costanza, umiltà e dedizione. Vivete con fiducia la vostra giovinezza e quei profondi desideri che provate di felicità, di verità, di bellezza e di amore vero! Vivete intensamente questa stagione della vita così ricca e piena di entusiasmo.

Siate coscienti di essere voi stessi di esempio e di stimolo per gli adulti, e lo sarete quanto più vi sforzate di superare le ingiustizie e la corruzione, quanto più desiderate un futuro migliore e vi impegnate a costruirlo. Siate consapevoli delle vostre potenzialità e non chiudetevi mai in voi stessi, ma sappiate lavorare per un futuro più luminoso per tutti. Non siete mai soli. La Chiesa ha fiducia in voi, vi segue, vi incoraggia e desidera offrirvi quanto ha di più prezioso: la possibilità di alzare gli occhi a Dio, di incontrare Gesù Cristo, Colui che è la giustizia e la pace».

(Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la celebrazione della XLV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, 1° GENNAIO 2012: «Educare i giovani alla giustizia e alla pace»).

 

Maria, Madre della pace

Maria ci appare dalle profondità dell’infinito in una mandorla stellata, circondata da quattro angeli che la onorano gioiosi. Lei è là, nella gloria del cielo: ci aspetta a braccia aperte e intercede per noi presso Dio.

Contempliamo Maria

aprendo a Lei il cuore.

Contempliamo Maria

nella sua bellezza.

Contempliamo Maria ascoltandola

e imparando da Lei.

Contempliamo Maria

esprimendo a Lei

i nostri bisogni immensi.

Contempliamo la Donna,

la Vergine,

colei che non teme di perdere e di perdersi.

Contempliamo la Madre

genitrice del Verbo,

lasciando che generi in noi

il Cristo vivente.

Contempliamo Maria orante

e intercediamo

per il mondo intero.

Contempliamo Maria

mettendoci nelle sue mani

con la nostra piccolezza.

Contempliamo Maria per se stessa,

trascorrendo del tempo con Lei

in silenzio gioioso

in stupore estasiato,

cullati dal suo amore di madre

infinita tenerezza per ogni creatura.

Maria!

Desiderata pace

sconfinato bene…

 

IL GREMBO DELLA MADRE

«Il Signore faccia brillare il suo volto su di te

e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te

il suo volto e ti conceda pace». (Nm 6,25-26)

 

«Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore». (Lc 2, 18-19).

L’anno nuovo ha fatto irruzione nella nostra vita.

 

L’augurio

«Buon anno!» diciamo a tutti e stringiamo mille mani per esprimere ai nostri compagni di viaggio, imbarcati con noi sulla nave della vita, l’auspicio di tanta felicità.

Non c’è nulla di più bello e di più sacro di questo intreccio di mani, fatto a Capodanno: dovrebbe essere il simbolo di una volontà di amore, di apertura, di dialogo, di impegno a costruire un fitto reticolato di solidarietà tra tutti gli uomini, nella giustizia e nella fratellanza.

Se davvero ognuno di noi, per rendere il mondo più umano, mettesse nel corso di tutto l’anno lo stesso puntiglio con cui in queste ore dona e riceve gli auguri, la causa della pace nel mondo sarebbe già mezzo risolta. Purtroppo, però, in questo scambio di felicitazioni prevale più lo scongiuro che il senso della speranza cristiana. Sembra quasi che si voglia esorcizzare l’avvenire con formule scaramantiche, gravide di paure più che di promesse. Diciamo «auguri», ma ci trema la voce. Stringiamo la mano, ma il braccio è malfermo. È che siamo sopraffatti dallo scoraggiamento, rassegnati di fronte agli insuccessi, appesantiti dalla barbarie presente nel mondo. Nonostante tutto, però, di fronte a un anno che nasce, a noi credenti è severamente proibito essere pessimisti.

Qualche anno fa era in cartellone, presso i maggiori teatri d’Italia, uno spettacolo dal titolo «Chi vuol esser lieto sia, di doman c’è gran paura». È un’espressione che non possiamo assolutamente condividere, perché se c’è qualcosa che il domani contiene, questa ha un nome: la speranza di oggi. Non lasciamoci, perciò, sopraffare dalla ineluttabilità del male. Poniamo gesti significativi di riconciliazione. Svegliamo l’aurora. Proclamiamo sempre più con le opere e sempre meno con le chiacchiere che Gesù Cristo è vivo e cammina con noi.

 

La speranza

Nostra speranza è, oggi, la pace. Da quando Paolo VI l’ha scelto per la celebrazione della Giornata mondiale della pace, l’augurio di riconciliazione e di solidarietà scavalca la sfera dei rapporti strettamente personali e raggiunge gli estremi confini della terra.

È molto significativo che l’anno nuovo cominci proprio con questo impegno, sottolineato ogni volta da un particolare tema di riflessione proposto dal Papa. Sembra quasi che si voglia mettere sotto un unico grande manifesto programmatico le opere e i giorni di questo nuovo arco di storia. Per noi credenti, comunque, la giornata della pace non può essere un rito celebrativo. Se non ci scomoda, se non ci fa stare sulle spine, se non ci induce a salire sulle barricate, se non ci sollecita a scelte che costano, se non ci procura il sorriso o il fastidio di qualche benpensante, sarà solo l’occasione per una risciacquata di buone emozioni.

Gravi situazioni di non pace sono presenti nel mondo. Le logiche di guerra imperversano ancora, anche se dai campi di battaglia hanno traslocato sui tavoli di un’economia che penalizza i poveri. La corsa alle armi, nonostante i segnali positivi lanciati da tanta gente di buona volontà, non accenna a fermarsi. La militarizzazione del territorio è ancora costume consolidato. La connessione tra malavita internazionale, commercio di armi e commercio di droga si fa sempre più oscena. La   violazione dei diritti umani, espressa a volte su popoli interi, continua a turbarci. Il degrado ambientale, oltre a preoccupare per il futuro gravido di incubi, ci fa cogliere in positivo i nodi che legano pace, giustizia e salvaguardia del creato. Così ogni operazione di guerra e ogni violazione della giustizia si tramutano in allucinanti serbatoi di paure cosmiche.

Di fronte a questo quadro, il lamento deve prevalere sulla danza? No, nel modo più assoluto. Bisogna però prendere posizione. La giornata della pace deve provocare all’esodo, alla vera transumanza (trans humus = passaggio da una terra all’altra), richiesta alla nostra coscienza cristiana. Perciò lo studio sui temi della nonviolenza attiva e l’assunzione della difesa popolare nonviolenta come modulo che assicura la convivenza pacifica tra i popoli, devono diventare proposito concreto da esprimere tutto l’anno.

 

La benedizione

Due segni fanno prevalere la speranza sulla tristezza dei presagi.

II primo è il volto del Padre. Il Signore ci aiuterà. Imploriamolo con la preghiera. Se egli farà «brillare il suo volto su di noi» (Nm 6, 25), non avremo bisogno di scomodare gli oroscopi per pronosticare un futuro gonfio di promesse. Tutto questo significa che dobbiamo camminare alla luce del suo volto e, riscoperta la tenerezza della sua paternità, impegnarci una buona volta nell’osservanza della sua legge. E il secondo è il grembo della Madre. Tutti i nostri buoni propositi prenderanno carne e sangue se saranno gestiti nel grembo di Maria. È il luogo teologico fondamentale, dove i grandi progetti di salvezza si fanno evento.

II figlio della pace ha trovato dimora in quel grembo duemila anni fa. Oggi è solo in quel grembo che avrà concepimento e gestazione la pace dei figli. Per cui la festa di Maria madre di Dio, mentre ricorda le altezze di gloria a cui la creatura umana è stata chiamata, ci esorta anche a sentirci così teneramente figli di lei, da riscoprire in quell’unico grembo le ragioni ultime del nostro impegno di fratellanza e di pace.

 

(Don Tonino Bello, Avvento. Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 85-90).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

– T. BELLO, Avvento. Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

Festa della Santa Famiglia (anno B)

SANTA  FAMIGLIA

Lectio – Anno B

Prima lettura: Genesi 15,1-6; 21,1-3

 

In quei giorni, fu rivolta ad Abram, in visione, questa parola del Signore: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». Rispose Abram: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Soggiunse Abram: «Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede».  Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza».  Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.  Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva fissato. Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato, che Sara gli aveva partorito.

 

La prima lettura mostra come già l’AT aveva preparato una mentalità che il Vangelo ha poi sviluppato al massimo: i figli sono dono di Dio. Di conseguenza, i genitori devono conservare viva la coscienza che non sono loro proprietà, ma li hanno «in gestione». La vicenda di Gesù, dono di Dio a Maria per opera dello Spirito Santo e affidato alle cure di Giuseppe, ha un suo prologo nella storia di Abramo ed Isacco. Costui nasce in modo insolito, fuori cioè dalle normali leggi biologiche (Abramo e Sara sono anziani) e apparterrà a Dio in modo peculiare, quasi sottratto al padre che dovrà essere pronto a «restituirlo» a Dio, quando e come Egli vorrà. L’episodio del cap. 22, chiamato spesso Il sacrificio di Isacco, è prima di tutto il riconoscimento del primato di Dio: la vita è suo dono e gli appartiene, sempre e comunque. Sia Abramo, sia Isacco, sono pronti a riconoscere tale primato divino.

La prima lettura si colloca in questo contesto, anche se il suo raggio di azione è limitato a due punti: il credito dato da Abramo alla promessa divina, secondo cui un suo diretto erede sarà il primo anello di una lunga discendenza (15,1-6), e, secondo punto, la nascita di Isacco che conferma la validità della promessa (21,1-3). Il brano liturgico, composto dai due spezzoni appena individuati, si colora teologicamente, soprattutto dopo aver conosciuto la storia di Gesù.

La prima parte ribadisce da parte di Dio l’impegno, precedentemente preso (cf. Gn 12,2.7; 13,14-17), di assicurare al patriarca Abramo una numerosa discendenza. Data l’età di Abramo e della moglie, non è umanamente ipotizzabile un discendente diretto e si pensa quindi ad una linea «laterale». Dio corregge l’interpretazione di Abramo, troppo umana, e garantisce uno del suo sangue.

Dio è sempre al superlativo: la vita di cui lui è la fonte, sgorgherà in modo abbondante, affidata alla suggestiva immagine di una discendenza più numerosa delle stelle del cielo (cf. v. 5). Noi oggi siamo in grado di azzardare dei numeri, ovviamente molto approssimativi: nella nostra galassia sono presenti non meno di cento miliardi di stelle; nel firmamento, poi, sono presenti milioni di galassie… i numeri diventano veramente «astronomici». Ad occhio nudo, in buone condizioni, si arriva a contare circa seimila stelle… Gli antichi non erano informati come noi, usavano però l’espressione per indicare una quantità incommensurabile. La metafora, letta dalla prospettiva di Abramo, intende dire la quantità smisurata della sua discendenza, letta dalla prospettiva di Dio, lo rende veramente «signore della vita».

Abramo non dubita della promessa, non avanza sospetti o riserve. La sua incondizionata accoglienza, gli diventa titolo di credito per un rapporto preferenziale con Dio. È, in parte, quanto significa l’enigmatico, ma sostanzioso, detto del v. 6: «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia». Paolo lo renderà il cuore della sua dottrina sulla giustificazione, com’è dato vedere in Gal 3,6 e soprattutto in Rm 4,3.

La seconda parte mostra la realizzazione della promessa divina. La Parola di Dio produce quanto annuncia, esattamente come la parola creatrice di Genesi, 1. L’espressione «Il Signore visitò Sarà» ribadisce, semmai sussistessero delle perplessità, che la nascita di Isacco è dono di Dio. A maggior ragione, Isacco gli appartiene. Lo si capirà meglio nella storia che segue, quando Dio avanzerà delle pretese che umanamente parlando, risultano illogiche e assurde. Ma anche in quel caso, a trionfare, sarà il concetto di un Dio, Signore della vita.

 

Seconda lettura: Ebrei 11,8.11-12.17-19

 

Fratelli, per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.

Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.

Un ulteriore apporto al tema familiare viene dalla Lettera agli Ebrei che al cap. 11 offre una lunga meditazione sulla fede, passando in rassegna quadri e personaggi della storia di Israele. È la fede l’elemento che determina l’essere e l’agire del vero fedele, prendendolo e penetrandolo tutto quanto.

Il nostro brano isola le due figure di Abramo e Sara, una coppia di sposi, chiamata a generare in modo del tutto speciale. Questo tema è stato scelto, perché, ovviamente, si iscrive bene nella festa liturgica odierna. È altresì una nuova, complementare visione, della tematica trattata nelle letture precedenti. Così i testi liturgici rispondono ad un tema organico ed unitario.

Si parte dalla chiamata di Abramo, elemento primitivo e fondante, che mostra un uomo disposto ad andare dove Dio vuole, ignaro della meta (v. 8). Poi il discorso si fa più preciso, parlando di Abramo e Sara come genitori: lo sono non per legge naturale, ma in base alla promessa divina, che permette una realizzazione superlativa: essi stanno all’origine di una moltitudine incommensurabile (vv. 11-12). È come riconoscere, che Dio è sempre «esagerato», mai uno «dalle mezze misure». Quando da lui sprizza la vita, questa diventa sorgente che zampilla in continuazione.

La vita di Isacco, sorta improvvisamente dalla misericordia di Dio, è chiesta da Dio stesso (vv. 17-19). Per due volte si dice che «Abramo offrì» la vita del figlio, per sottolineare la disponibilità del genitore a riconoscere la vera «paternità» di Isacco, quella divina. Potremmo azzardare il verbo «restituire»: Abramo è cosciente di non poter possedere il figlio Isacco come si possiede un oggetto, e quindi non ne vuole disporre a piacimento. Nel verbo «offrì» leggiamo tutta la disponibilità di Abramo a riconoscere la suprema e sovrana volontà divina.

L’anonimo Autore della Lettera fa compiere un progresso interpretativo al racconto di Gn 22, perché aggiunge, parlando di Abramo: «Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo» (v. 19). Il testo biblico di Genesi è molto più laconico e non individua né, tanto meno, esplicita i sentimenti di Abramo. L’Autore di Ebrei, invece, nel suo contesto di presentazione della fede, non trova strano attribuire al patriarca tale convinzione, evidentemente evincendola dal suo atteggiamento di fede incondizionata, che lo porta a seguire in tutto la volontà divina, anche quando l’intelligenza umana o il comune buon senso suggerirebbero il contrario.

Così facendo, Abramo dimostra di non esercitare alcun possesso nei confronti del figlio, e, positivamente, di rispettare al massimo la volontà divina, anche quando il fiat può costare sangue che gronda dal cuore ferito di padre. Davvero una fede genuina, scintillante, che realizza quanto l’Autore aveva espresso all’inizio del capitolo: «La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. Per mezzo di questa fede gli antichi ricevettero buona testimonianza» (11,1-2)

 

Vangelo: Luca 2,22-40


Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.

Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».

Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.

Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

 

Esegesi

Nel contesto del Vangelo dell’infanzia, Luca ci regala questo stupendo quadro familiare: Giuseppe, Maria e Gesù. La cronaca di un fatto si riveste di smagliante colore teologico che impreziosisce e conferisce il massimo splendore all’evento. È l’occasione per parlare di Gesù che viene presentato al tempio. È lui il vero protagonista di questi fatti.

Egli è il centro letterario e teologico. Letterario perché un esplicito riferimento a Lui apre e chiude il brano: «Portarono il bambino a Gerusalemme» (v. 22); «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui» (v. 40). Ma è anche il centro teologico, già emerso nelle due citazioni appena riportate: Egli è per la prima volta a Gerusalemme, la città che sarà, più tardi, testimone della sua morte e risurrezione. Inoltre, la conclusione allude alla sua pienezza di sapienza, nonché alla grazia con la quale egli mostra un’affinità singolare. E «grazia» richiama, lo sappiamo, un dono divino, anzi, qualcosa di esclusivamente divino.

All’inizio è ricordata la legge sui primogeniti: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» (v. 23: cf. Es 13,2.11). Siamo rimandati all’intervento liberatorio di Dio in Egitto al tempo dell’esodo. I primogeniti, a perenne riconoscenza di tale liberazione, diventavano come proprietà di Dio. Detto in linguaggio più teologico, gli erano consacrati. Per poter riappropriarsi del figlio, i genitori compivano un gesto ricco di simbolismo, offrendo qualcosa a Dio in cambio del figlio che riportavano a casa. L’offerta di Gesù era il primo atto che i genitori dovevano compiere. Doveva seguire il secondo, il riscatto, come prescrive Es 13,13. Questo non avviene o, per essere più precisi, non è detto esplicitamente dal testo.

Possiamo tentare di capire la portata teologica del fatto. Gesù, portato al tempio e qui consacrato a Dio, non può essere riscattato, perché è e rimane reale «proprietà» di Dio e non potrà mai essere proprietà dei suoi genitori. L’episodio di Gesù dodicenne che si ferma al tempio, dimostra che là Gesù si trova bene, a suo agio, nella casa di «suo padre».

D’altra parte, come poteva Luca presentare come riscatto (= redento) colui che è il Redentore (cf. v. 32) di Israele e che era venuto per «riscattare coloro che erano sotto la legge» (Gal 4,5)? Qui è il Gesù pasquale, morto e risorto, che emerge tra le righe. Se Gesù si sottomette in parte alla legislazione ebraica di cui è figlio, mostra anche di essere Signore della medesima.

Gesù non compie l’offerta di se stesso perché è piccolo e perciò sono necessari i genitori. Tale offerta la farà da sé, da adulto, sulla croce. Nel frattempo sono i genitori, nel ruolo di ministri, di vicari, a compiere tale gesto.

Simeone e Anna aiutano a penetrare nella comprensione profonda dell’evento. Le parole esplicite del primo e quelle implicite di Anna garantiscono al racconto un succoso significato teologico.

L’incontro con Simeone è registrato nei vv. 25-35. I pittori pongono di solito Simeone al centro della composizione e lo rappresentano, vecchio, nell’atto di offrire il bambino. Il testo evangelico non dice però che fu Simeone ad offrire il bambino, ma solo che «lo accolse tra le braccia» (v. 28). Chi presentò il bambino furono i genitori, come Luca mette ben in evidenza: «portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore» (v. 23). Simeone c’è, ma non è indispensabile per il fatto, sarà invece molto utile per il significato. Saranno le sue parole, in parte enigmatiche, a colorire in modo pasquale l’avvenimento.

Nell’abituale traduzione «Ora puoi lasciare» sembra quasi che Simeone chieda qualcosa. In realtà il verbo greco è all’indicativo e va quindi tradotto «ora tu stai sciogliendo». Nelle sue parole si coglie la gioia di aver contemplato una gloria che è destinata a tutti. È già un’anticipazione della pienezza cristiana dopo la risurrezione. Infatti il discorso di Simeone ha sempre come centro Gesù, chiamato «salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». L’idea di salvezza e la prospettiva universale (tutti i popoli, le genti) non può che fare riferimento al mistero pasquale, al momento in cui tutti gli uomini indistintamente sono compresi nell’amore redentivo di Gesù.

Simeone con le sue parole profetiche sa cogliere la portata teologica, pasquale, del gesto. Così Maria e Giuseppe sono aiutati a entrare nel mistero di Gesù. Per questo il sentimento che li accompagna è la meraviglia per quello che si dice del bambino (cf. v. 33).

Infine compare anche Anna, una profetessa (vv. 36-38). Di lei l’evangelista offre alcuni particolari circa l’età, la sua condizione e soprattutto la sua presentazione di donna di fede che sa scorgere nel bambino molto più di quello che la vista permette. Infatti ella «si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme» (v. 38). Il termine «redenzione» (lytrosis) potrebbe suonare come semplice riscatto dalla schiavitù o dall’oppressione dello straniero, soprattutto nel contesto di una lettura veterotestamentaria (cf. l’uso del verbo sulla bocca dei discepoli di Emmaus, ancora irretiti in una logica nazionalista, Lc 24,21). Ma in contesto cristiano, la redenzione rimanda all’opera di Cristo morto per i peccati degli uomini. È un raggio di luce pasquale che si infila e trasfigura il significato.

Un’ulteriore conferma della lettura pasquale di questo brano viene dal riferimento di Simeone a Maria: Ella sarà attraversata dalla spada di dolore che è partecipazione alla passione del figlio. È Lui la persona determinante, colui che è causa di «caduta e la risurrezione» (v. 34). La madre che lo ha generato le sarà vicina sempre, anche nel momento del più buio dolore. Per questo potrà essere a pieno titolo Madre, Redemptoris Mater, madre del Cristo pasquale, cioè, quello morto e risorto per i peccati di tutti gli uomini.

Alla fine, la santa famiglia ritorna in Galilea, a Nazaret, quasi a riprendere i ruoli quotidiani, dopo l’esaltante esperienza nella città santa (vv. 39-40). Un misto di normalità e di straordinario conclude l’episodio. Gesù ritorna a Nazaret con Maria e Giuseppe, dopo aver ottemperato i dettami della Legge del Signore. C’è una fedeltà alla legge divina che vale come espressione di un’attenzione «scrupolosa» alla volontà divina. La crescita è umana e divina, grazie a quello sviluppo che interessa il corpo e lo spirito. Potremmo dire che Luca adotta un criterio di «straordinaria normalità» per parlare di Gesù. Non il miracolo facile, talora perfino «sciocco», dei testi apocrifi, non le manifestazioni di un enfant prodige, ma una normalità esteriore, con tocchi di straordinarietà interiore, è il messaggio sostanzioso che Luca lascia al lettore.

La santa famiglia è tutta qui: un rispetto reciproco, ognuno al proprio posto, nello svolgimento fedele del proprio ruolo, realizzando la propria vocazione e obbedendo nel massimo grado alla volontà divina.

 

Meditazione

Nel mistero dell’incarnazione il Figlio di Dio assume realmente la condizione umana, condividendone i ritmi di crescita nell’ordinarietà di una vita familiare, in una nascosta e poco rinomata borgata della Galilea: «Fecero ritorno … alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui» (Lc 1,39-40). Oltre a farsi obbediente alle dinamiche umane, Gesù entra nell’obbedienza alla Legge e alla tradizione religiosa del suo popolo. Maria e Giuseppe fanno tutto secondo la Legge di Mosè, come Luca ricorda con insistenza più volte (vv. 22.23.24.27.39).

La Legge è data da Dio perché il popolo possa custodire il dono dell’Alleanza. Osservando i suoi precetti, Israele cammina in quella libertà che Dio gli ha gratuitamente donato attraverso l’Esodo. L’atteggiamento del cuore che consente di vivere bene il rapporto con la Legge è la fede: attraverso l’obbedienza ai comandamenti il popolo di Dio non deve presumere di potersi salvare da solo, in forza della propria osservanza, ma può giungere a conoscere e a rimanere in una relazione fedele con Colui che lo ha liberato e continuerà a farlo.

La liturgia della Parola in questa festa insiste anzitutto nel mostrarci la fede di Abramo, al centro tanto della prima quanto della seconda lettura. Abramo crede e Dio glielo accredita come giustizia (cfr. Gen 15,6). È questa la prima volta che nella Genesi si parla della fede di Abramo. Finora egli ha ascoltato la parola di Dio, le ha obbedito, ora il suo cammino giunge a una nuova tappa: perviene a credere al Signore, o meglio, come si dovrebbe tradurre, «nel Signore». Abramo in questo momento accetta di camminare non solo verso una terra, ma verso un incontro personale con il Signore, un andare in lui. Entra nella relazione misteriosa con qualcuno che lo chiama, gli parla, lo guida, per poi dirgli: non devi avere altra garanzia che me, non devi avere altro desiderio che me, o meglio, potrai desiderare ogni altra cosa – una terra, un figlio, un erede – ma «in me». Abramo deve credere lasciandosi condurre fuori, nella notte, perché solo in questo modo potrà fare l’esperienza sorprendente di un cielo stellato che debolmente illumina le tenebre e permette un orientamento persino nel buio dell’incertezza. Solo chi sa rimanere nella notte può percepire la bellezza e la consolazione di un cielo stellato, offerto come segno della promessa di Dio. Abramo tuttavia non può contare le stelle: dovrà fidarsi del segno senza poterlo dominare o farne un suo possesso.

La lettera agli Ebrei ci ricorda fin dove giunge questa fede di Abramo: «Messo alla prova, offrì Isacco… il suo unigenito figlio… Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo» (Eb 11,17-19). Nel momento in cui non lo trattiene per sé, come sua proprietà, ma lo ridona a Dio, davvero Abramo accoglie Isacco come dono, simbolo di quell’alleanza fedele e di quella promessa di Dio che lo vuole rendere non solo padre di Isacco, ma di una moltitudine incalcolabile di credenti. Abramo diviene ora padre nella fede e dalla sua discendenza nascerà Gesù, il vero Isacco di Dio, in cui tutte le promesse si compiono e la definitiva alleanza viene stipulata.      Offrendo il loro «maschio primogenito» al Signore nel tempio di Gerusalemme, Maria e Giuseppe non solo obbediscono alla Legge, ma più profondamente accolgono la stessa logica di Abramo, che è la logica della vera fede. Quello che anche per loro è stato il dono gratuito di Dio, anzi il dono per eccellenza – il dono che il Padre stesso fa del proprio Figlio unigenito – non lo trattengono per sé, lo ridonano al Signore, e in questo modo lo consegnano agli uomini tutti che attendono la salvezza. Luca nell’evangelo la definisce con i nomi tipici della tradizione biblica: «La consolazione di Israele» (v. 25) e la «redenzione di Gerusalemme» (v. 38). Il vecchio Simeone e la profetessa Anna sono i rappresentanti di questa umanità che attende consolazione, redenzione, salvezza e nella fede sa riconoscerla in questo neonato, condotto al tempio anch’egli sulle braccia della fede dei suoi genitori.

Insieme alla fede di Giuseppe e di Maria, di Simeone e di Anna, il racconto evangelico sottolinea la docilità allo Spirito Santo. Lo Spirito suscita il desiderio e sostiene l’attesa. Sia Simeone sia Anna sono anziani, al tramonto della loro vita, eppure sono rimasti abbastanza giovani da attendere ancora. Nella loro vita niente è stato tanto bello da riempirla completamente così da impedire loro di attendere; d’altra parte nulla è stato così doloroso da impedire di continuare a sperare. Hanno vissuto non accontentandosi di niente di meno del Signore e della sua consolazione.

In secondo luogo, lo Spirito aveva preannunciato a Simeone «che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore» (v. 26). Egli ha sempre creduto che la sua vita era stata fatta per essere salvata. Per lui la vita e la fede coincidono. Vivere significa vedere la salvezza del Signore. Non meno di questo. Allora tutta l’esistenza acquista senso se viene giocata in questa attesa. Perché non attendere la salvezza equivale a morire. Al contrario, vedere la salvezza non conduce alla morte, ma nella pace. Credere significa anche questo: sapere che nonostante tutte le difficoltà della vita, persino se, come accade ad Anna, ti muore un marito quando ti sei appena affacciata all’amore, nonostante tutto la vita è fatta per essere salvata. È fatta per vedere Dio. Null’altro che sia meno di Dio ne potrà placare il gemito o colmare la sete.

In questa festa la parola di Dio ci ricorda in questo modo almeno due tratti, tra molti altri, che possono rendere una famiglia luogo in cui crescere tutti, genitori e figli, nella sapienza e nella grazia: la fede che nutre l’attesa, la docilità allo Spirito che ne riconosce i segni.

 

Preghiere e Racconti

 

La santa Famiglia

Al centro di questa icona. Gesù è al tempo stesso punto focale e motivo di unione tra Maria e Giuseppe. Egli, seduto su un trono regale, è rivestito dell’abito che rivela la sua onnipotente e mite regalità; con un gesto ampio e carico di dolcezza, benedice i genitori e noi che contempliamo l’icona.

Sul capo del Figlio scende un raggio con la simbologia delle altre due Persone della divina Trinità: del Padre, a cui allude la mano creatrice, e dello Spirito Santo, nel simbolo della bianca colomba. Con il gesto indicativo delle mani, Maria e Giuseppe mostrano e porgono alla nostra fede la pienezza del Mistero della Santissima Trinità che dimora nella loro vita. Tale Mistero, che riempie e che dona armonia alla vita, è qui unito da un raggio di luce che raffigura il legame d’amore che ogni famiglia tenta di esprimere nell’umile quotidianità della vita e che la santa Famiglia di Nazaret ha vissuto in maniera compiuta.

 

E tu,

Madre,

cui era stata predetta una spada nell’anima,

ogni giorno trepidante

segui la vita di un figlio che non è tuo…

Non sono nostri i figli,

Maria!

Sono i figli e le figlie della vita.

Hanno un percorso da compiere,

una gioia da realizzare,

un amore da costruire.

Come frecce scoccate lontano

i nostri figli se ne vanno…

Custodiscili tu,

o Madre,

e prega

per tutti i figli e le figlie dell’umanità

lacerata da discordie

e violenze.

Consola il nostro cuore,

come il tuo attraversato da una spada,

e sia data a tutti

benedizione e pace.


Lo stupore del Natale di Cristo

Da duemila anni, credenti, atei, santi o peccatori, ci volgiamo all’umile giaciglio su cui riposa quel Bimbo, circondato dall’affetto premuroso di Maria e di Giuseppe e riscaldato da povera paglia, dal calore del bue e dell’asinello. Il mondo si ferma, almeno per qualche istante, e trattiene il respiro dinanzi al mistero del Presepe. Ma poi riprende il suo abituale cammino, la sua danza, la sua triste “via crucis” quotidiana. La cronaca non risparmia, neppure il 25 dicembre, violenza, conflitti e tensioni. Alla fragile tregua di un momento, subentra la realtà fatta di mille incertezze, di piccole o grandi angosce e dei soliti problemi, personali o sociali, da affrontare ogni giorno.

Noi, devoti di Maria Santissima, non possiamo accontentarci appena di una tappa fugace a Betlemme. Dalla Madre del Signore vorremmo piuttosto imparare a sostare lungamente, con il cuore, e trattenerci in adorazione dinanzi al miracolo di Gesù, vivo e presente in mezzo a noi. Non perché siamo “i primi della classe”. Anzi, proprio perché, immancabilmente, ci troviamo ancora tanto indietro, nelle retrovie – consci delle miserie che ci devastano e delle insufficienze che ci opprimono – vogliamo fermarci a pregare, a meditare, a contemplare quella povera mangiatoia, altare e trono per il Re dei Re, anticipo di quella Gloria che poi rifulgerà per sempre sulla Croce. Vogliamo, ancora una volta, apprendere la lezione della infinita tenerezza di Dio per l’uomo, della misericordia che si fa carne e della maestà eccelsa che saprà abbassarsi fino alla umiliazione del Golgota. Desideriamo lasciarci attraversare da quella grazia che, sola, ridona speranza e conforta, e infonde l’infantile entusiasmo di ripartire, ridando gusto e sapore alla vita.

Il vero Tempio, lo sappiamo, è Cristo stesso, la sua umanità, unico e autentico Santuario, ricolmo dello splendore della sua Divinità. Ma è anche il nostro cuore: il Signore cerca e predilige tale umilissima dimora. Lui, che il Cielo e l’Universo intero non possono contenere, proprio lì vuole penetrare, con la luce e con la forza del suo Amore. La “Terra Santa” è il nostro spirito, dove Dio eleva la sua tenda. Anche noi, allora, per vivere lo stupore del Natale, abbiamo da scacciare dal nostro Tempio ogni giorno qualcosa: la folla di pensieri inutili e di suggestioni, che distraggono e confondono, allontanandoci da Dio e rendendoci sempre più schiavi delle creature; l’egoismo, l’attaccamento a noi stessi, l’infedeltà, l’orgoglio, l’ipocrisia, l’impurità, la maldicenza. Quante terribili radici vanno strappate ancora; quanti ospiti indesiderati occorre spingere fuori, per liberare il campo e restituire, ai suoi “legittimi proprietari”, la nostra Casa! Abbiamo il dovere di custodirla e di adornarla con le opere buone “che dobbiamo e vogliamo fare”, come suggeriva il catechismo; abbiamo la responsabilità di renderla sempre più gradita al Signore e amabile agli occhi degli uomini.

Anche in questa epoca, devastata, sazia, incerta, ricca e disperata, il Regno di Dio continua a operare. Quel celeste Bambino sorride, anche oggi, nel cuore di chi vive nella sua Grazia. Dal Cielo continua a intercedere per noi presso il Padre ed effonde i suoi favori: come fece a Fatima, visibilmente, il 13 di ottobre del lontano 1917, quando la Sacra Famiglia levò la mano benedicente sul mondo.

San Paolo, nella lettera ai Galati (4,21 ss), parla di due donne, una schiava e l’altra libera. Di chi vogliamo essere figli? Paradossalmente, possiamo scegliere la nostra ascendenza, risalire ai nostri genitori. Figli della schiava, oppure della libera, cioè della Chiesa dei Santi e dei Martiri, degli educatori, dei missionari del Vangelo, degli eroi della carità. Di peccatori, certo, ma fiduciosamente aperti alla Grazia, che oggi ancora ci è data.

Come è bella la Chiesa, quando è una vera “Casa di preghiera”! Come è bella la Chiesa, nel maestoso silenzio di arcate millenarie o nella multiforme assemblea che si raduna in festa, per celebrare i misteri della vita, della morte e della gloria del suo Signore! Come è bella la Chiesa, famiglia dei credenti, che professano la loro fede e sanno portare ancora al mondo la “santa poesia” del Natale e la luce del Cristo Risorto!

La nostra vera gloria è la povertà e la essenzialità di Betlemme, l’umiltà e il silenzio di Nazaret, il solenne trionfo della Croce. La vera gloria sono le nostre pene, offerte con amore; è la fatica di pregare, quando incombono lo scoraggiamento, la tiepidezza e la stanchezza. La vera gloria è la fatica di perdonare; la vera regalità è il dominio di se stessi, è servizio, è pazienza, è mitezza, è misericordia. Sia tutto questo – e tanto di più ancora – il Santo Natale del 2011.

Sia questo l’augurio più bello, sgorgato dal cuore in festa, perché abitato dalla Grazia. Sia questo il cammino che prosegue, ogni giorno, con fatica ma con santa pazienza e con cristiana speranza, sorretto dalla “compagnia” della Chiesa, dalla intercessione dei Santi, verso la Gerusalemme del Cielo.

(Tratto da Maria di Fatima, mensile del Movimento Famiglia del Cuore Immacolato di Maria).

 

La presentazione al Tempio

Certo le porte al vostro incedere

si sono aperte vibrando da sole

e strana luce si accese sugli archi:

il tempio stesso pareva più grande!

 

Quando si mise a cantare il vegliardo,

a salutare felice la vita,

la lunga vita che ardeva in attesa;

e anche la donna più annosa cantava!

 

Erano l’anima stessa di Sion

del giusto Israele mai stanco di attendere.

E lui beato che ha visto la luce

se pure in lotta già contro le tenebre.

 

Oh, le parole che disse, o Madre,

solo a te il profeta le disse!

Così ti chiese il cielo impaziente

pure la gioia di essergli madre.

 

Nemmeno tu puoi svelare, Maria,

cosa portavi nel puro tuo grembo:

or la Scrittura comincia a svelarsi

e a prender forma la storia del mondo.

(David Maria Turoldo)

 

 

I vostri figli

I vostri figli non sono i vostri figli.

Essi sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di se stessa.

Essi arrivano grazie a voi, ma non da voi, e sebbene siano con voi, non vi appartengono affatto.

Potete donare loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri.

Perché essi posseggono i loro pensieri.

Potete dare una casa ai loro corpi ma non alle loro anime, perché le loro anime hanno dimora nella casa del domani, che voi nemmeno in sogno potete visitare.

Potete sforzarvi di farvi simili a loro, ma non pretendete di renderli simili a voi.

Poiché la vita non va all’indietro né indugia su ciò che è stato.

(Kahlil Gibran)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

– T. BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

 

Natale del Signore (Anno B)

NATALE DEL SIGNORE

Lectio – Anno B

Prima lettura: Isaia 52,7-10

 

Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion. Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme,  perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.

 

v Quante volte può capitare che una notizia buona renda “bella”, gradevole e beneaugurante anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine invero un po’ ardita, ai piedi “belli” di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca. È un messaggio lieto, che augura il bene supremo della salvezza, che consiste nel fatto che Dio ormai inaugura il suo regno. Non sono più i regni umani, di solito oppressivi, fondati sulla violenza, la menzogna e l’ingiustizia, a consolidarsi; nemmeno si tratta di un “Vangelo” che annunzia buone notizie che riguardano un re terreno, che per esigenze di propaganda deve far sapere che tutto va bene e che c’è pace e sicurezza. È invece il regno di Dio a essere annunciato: è quel regno che Israele aveva cercato invano, come pure talvolta aveva rifiutato, quando chiese a Samuele un re come quelli degli altri popoli. Israele ha capito la lezione e sa che, in maniera misteriosa ma reale è Dio stesso a regnare su di lui. Anzi, se talvolta Dio si nasconde, lo fa perché il suo popolo dimentica che un re terreno significa schiavitù, mentre il re divino è l’origine e l’apice della libertà.

Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati reagendo con gioia espressa da alte grida. L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato appello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9). Quelle stesse rovine che erano testimonianza della catastrofe nazionale delle generazioni che non avevano voluto obbedire a Dio, agli occhi del profeta rappresentano un elemento che consola, perché ormai non si sperava più nella libertà e nel ritorno nella terra dei padri per adorare il Signore. Il ritorno di Dio verso il suo popolo produce il vero cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza una prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro: infatti, Dio dimostra di essere dalla parte d’Israele liberandolo dai suoi nemici.

 

Seconda lettura: Ebrei 1,1-6

Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».

 

v Alla storia della salvezza, che si è dipanata attraverso i Padri che hanno ascoltato dalla viva voce dei profeti la parola che Dio aveva da dire al proprio popolo, fa riferimento l’autore della Lettera agli Ebrei. Questa stessa storia della salvezza, però, ha raggiunto l’acme con la venuta del Figlio di Dio, il quale possiede un’autorità diversa da quella degli antichi profeti: egli, infatti, è stato costituito dal Padre «erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo».

Il Figlio, dunque, non è un semplice portavoce di Dio, ma è la misura della creazione, realizzata in vista di lui, come afferma pure il prologo giovanneo: «Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui». C’è anche il titolo di erede, con il quale si esprime l’intenso rapporto con il Padre: in quanto erede, Gesù riveste il ruolo di comprimario con il Padre, il quale lo ha fatto addirittura sedere alla sua destra nell’alto dei cieli.

Tale prerogativa del Figlio si è realizzata a partire dal mistero pasquale: «Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli». L’esaltazione, dunque, avviene dopo il difficile passaggio pasquale.

All’inizio abbiamo accennato al fatto del Natale come Pascha inchoata. In realtà, è tutto il Nuovo Testamento a convergere in quella direzione, che conferisce senso a ogni cosa. Quindi, anche lo stesso Natale acquista senso dalla centralità del mistero pasquale, perché ciò che viene solo adombrato nella nascita di Gesù, momento sublime dell’incarnazione, si palesa nella sua morte e risurrezione.

 

Vangelo: Giovanni 1,1-18

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.

Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

 

Il Vangelo in immagini

NATALE DEL SIGNORE ANNO B

 

Esegesi

Quante volte può capitare che una notizia buona renda «bella» anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine un po’ ardita, ai piedi «belli» di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca. È un messaggio lieto, che augura il bene della salvezza, che consiste nel fatto che Dio regna. Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati e reagiscono con gioia espressa da alte grida. L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato ap-pello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9). Il ritorno di Dio produce il cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza la prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro; Dio, infatti, dimostra di essere dalla parte del suo popolo liberandolo dai suoi nemici.

Le parole del profeta fanno da introduzione allo stupendo prologo giovanneo, dove troviamo un araldo d’eccezione quale Giovanni il Battista, qualificato come «testimone»: «Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce» (Gv 1,6-8). Il Battista, quindi, rende noto che il «ritorno» di Dio è ormai realizzato, al punto da fargli gridare: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me» (Gv 1,15). Si tratta di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che era anche prima di nascere tra gli uomini. Egli è colui che il vangelo di Giovanni definisce Verbo, poi vita e luce; Egli è colui che, pur essendo Dio come suo Padre, s’incarna e diventa essere umano per meglio servire l’umanità. La gioia di cui parla il Deutoroisaia è sostituita qui dallo splendore della luce e dall’abbondanza della vita. Eppure, realisticamente, si annuncia: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta […].Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto» (Gv 1,4-5.10-11).

Dal Verbo scaturisce per noi ciò che l’umanità, seppur a tentoni, ha sempre tentato di conoscere, ossia Dio, che non è stato mai visto da nessuno, in quanto soltanto il suo Figlio unigenito, che ha con Lui un’intimità perfetta (1,18: «che è Dio ed è nel seno del Padre»), ce l’ha potuto rivelare. Il mistero del Natale, dunque, ci invita a prendere coscienza di tutta questa grandezza, che nemmeno i profeti avevano potuto immaginare. La presenza in mezzo a noi dell’erede di Dio Padre, Gesù Cristo, «Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente» (Eb 1,3), è un evento così sconvolgente quanto desiderato da rendere  difficile il parlarne e da far sentire inadeguato chi vuole accoglierlo.

Perciò, circondati dalla luce, sostenuti dal Verbo, potenziati dalla vita comunicataci da Gesù non ci rimane che arrenderci al Dio che viene a visitarci e a guarire le nostre ferite.

 

Meditazione

La luce giunge ora, nella terza Messa di Natale, a illuminare il giorno pieno. «Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia…Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio» (Sal 97,2.3). Tutto questo perché «si è ricordato del suo amore», canta ancora il salmo responsoriale. Quello che gli occhi delle genti e i confini della terra contemplano è proprio la luminosità di questo amore. Anche il profeta Isaia, nella prima lettura, insiste nell’annunciare una salvezza che tutti i confini della terra vedranno. Le sentinelle scrutano con i loro occhi il ritorno del Signore a Sion, le orecchie ascoltano le buone notizie del messaggero che annuncia la pace e la salvezza (cfr. Is 52,5-7.10). Dio, in questi giorni che sono gli ultimi, parla a noi per mezzo del Figlio (cfr. Eb 1,2). La luce splende nelle tenebre, che non riescono a vincerla anche quando non vogliono accoglierla; per questo noi possiamo contemplare, nel Verbo che si fa carne e pianta la sua tenda in mezzo a noi, la «gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Anche Colui che i nostri occhi non possono vedere, quel Dio che nessuno ha mai visto, ora il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui ce lo racconta! Ogni uomo viene illuminato dalla luce vera che viene nel mondo. Questa luce non solo ci è donata affinché la contempliamo o ci lasciamo da essa illuminare; più radicalmente essa ci trasforma, rendendoci a nostra volta luminosi. Giovanni non è la luce, ma viene come testimone della luce, perché, credendo attraverso la sua testimonianza, noi possiamo diventare figli di Dio, partecipando del suo stesso essere luce. Il Battista rende testimonianza alla luce nel suo farsi luminoso, perché si lascia raggiungere e trasformare dalla luce del Logos.

Ora siamo davvero nel giorno pieno e tutto nella liturgia della Parola torna a sottolineare ciò che può essere visto, udito, contemplato. Potremmo ripetere, con le parole di Giovanni nella prima lettera, «quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo a voi, perché siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,1-4). Siamo davvero nel giorno pieno, non solo perché la luce risplende, ma perché tutto in noi – vista, udito, tatto, cuore – è reso capace di riconoscere e gustare la sua presenza. Tutto diviene possibilità di comunione, con il mistero di Dio e tra di noi. Tutto diviene vita piena, gioia compiuta, annuncio credibile, testimonianza efficace.

Senza entrare nel dibattito su chi sia l’autore del vangelo e della prima lettera di Giovanni, se si tratti dello stesso scrittore o meno, certamente c’è una grande affinità tra i due prologhi con cui si aprono entrambi gli scritti. Un prologo rappresenta certo, secondo le regole retoriche, un momento delicato e decisivo attraverso cui un autore stabilisce un rapporto vivo ed efficace con il suo lettore. Rappresenta anche, nello stesso tempo, la difficoltà di un inizio. La parola deve trovare i modi migliori per esprimersi e incominciare a raccontare. Leggendo il vangelo di Giovanni, ma anche la prima lettera, si ha come l’impressione che l’autore lasci da parte la sua parola per consentire l’irrompere della Parola; lasci da parte ogni preoccupazione su come iniziare, per consentire all’inizio di ogni inizio, a ciò che è «in principio», di rivelarsi e di essere davvero all’origine di ogni altra parola, di ogni altra esperienza, di ogni altra vita, che trova soltanto in Lui la sua origine e la sua consistenza. È come se l’autore, più che iniziare a raccontare, volesse concedere a Colui che è al principio di raccontarsi, di raccontare il Padre, di raccontare la verità di ogni uomo, chiamato in Lui alla vita eterna, a divenire figlio di Dio, a lasciarsi illuminare dalla sua gloria.

Questa dinamica, che emerge in questa esperienza di inizio di scrittura, non è vera per la vita di ogni uomo e di ogni donna? Più che preoccuparci di come vivere, non dovremmo lasciare che sia la vita in pienezza a irrompere in noi con la sua luce, con la sua potenza, che ha fatto tutto ciò che esiste, con il suo dono che ci offre il potere di diventare figli di Dio? In ogni Natale, mentre celebriamo la memoria e continuiamo a contemplare il venire della luce vera, l’abitare in mezzo a noi del Logos che si fa carne, il nascere del bambino di Nazaret, di fatto torniamo a nascere anche noi – è quel «nascere dall’altro, da acqua e da Spirito» di cui parla Gesù a Nicodemo (cfr. Gv 3,3-9) – a condizione di deporre la nostra pretesa di essere il «principio» di noi stessi per accogliere davvero il solo che è al principio della nostra vita e della nostra salvezza. Egli infatti ha voluto assumere la nostra natura umana perché noi potessimo condividere la sua vita divina, come prega la Colletta della Messa del giorno.

 

Preghiere e racconti

 

Andiamo fino a Betlemme!

Miei cari fratelli,

Vorrei essere per voi uno di quei pastori veglianti sul gregge, che la notte del primo Natale, dopo l’apparizione degli angeli, alzò la voce e disse ai compagni: «Andiamo fino a Betlemme, e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è lungo, lo so. Molto più lungo di quanto non sia stato per i pastori. Ai quali bastò abbassarsi sulle orecchie avvampate dalla brace il copricapo di lana, allacciarsi alle gambe i velli di pecora, impugnare il vincastro, e scendere giù per le gole di Giudea, lungo i sentieri odorosi di stereo e profumati di menta. Per noi ci vuole molto di più che una mezzora di strada. Dobbiamo valicare il pendio di una civiltà che, pur qualificandosi cristiana, stenta a trovare l’antico tratturo che la congiunge alla sua ricchissima sorgente: la capanna povera di Gesù.

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è faticoso, lo so. Molto più faticoso di quanto sia stato per i pastori. I quali, in fondo, non dovettero lasciare altro che le ceneri del bivacco, le pecore ruminanti tra i dirupi dei monti, e la sonnolenza delle nenie accordate sui rozzi flauti d’Oriente. Noi, invece, dobbiamo abbandonare i recinti di cento sicurezze, i calcoli smaliziati della nostra sufficienza, le lusinghe di raffinatissimi patrimoni culturali, la superbia delle nostre conquiste… per andare a trovare che? «Un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è difficile, lo so. Molto più difficile di quanto sia stato per i pastori. Ai quali, perché si mettessero in cammino, bastarono il canto delle schiere celesti e la luce da cui furono avvolti. Per noi, disperatamente in cerca di pace, ma disorientati da sussurri e grida che annunziano salvatori da tutte le parti, e costretti ad avanzare a tentoni nelle circospezioni di infiniti egoismi, ogni passo verso Betlemme sembra un salto nel buio.

Andiamo fino a Betlemme. E un viaggio lungo, faticoso, difficile, lo so. Ma questo, che dobbiamo compiere «all’indietro», è l’unico viaggio che può farci andare «avanti» sulla strada della felicità. Quella felicità che stiamo inseguendo da una vita, e che cerchiamo di tradurre col linguaggio dei presepi, in cui la limpidezza dei ruscelli, o il verde intenso del muschio, o i fiocchi di neve sugli abeti sono divenuti frammenti simbolici che imprigionano non si sa bene se le nostre nostalgie di trasparenze perdute, o i sogni di un futuro riscattato dall’ipoteca della morte.

Auguri, allora, miei cari fratelli.

Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.

Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.

Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quella della nostra anima sarà libero di smog privo di segni di morte e illuminato di stelle.

E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.

 

Buon Natale! Vostro

 

+ don Tonino, vescovo

 

(Antonio Bello, Oltre il futuro. Perché sia Natale, Molfetta, Luce e vita/La Meridiana, 1995, 25-27).

I pastori

Un primo spunto di riflessione è offerto proprio dai destinatari del messaggio dell’angelo del Natale: i pastori. Essi vengono privilegiati da questa primizia di annuncio non tanto perché poveri – come sempre abbiamo pensato -, quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati com’erano a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l’altrui.

Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione. Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi, figli fedeli della casa paterna: Dio non richiede credenziali ne affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta.

Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l’unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c’è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto risuonano in chiesa le voci della piazza, accanto al gregoriano? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della confraternita a cui apparteniamo, della sacrestia che frequentiamo?

 

Esulta dunque!

Ecco quale è la festa che celebriamo oggi: la venuta di Dio presso gli uomini affinché andiamo a Dio o ritorniamo a lui – è più esatto parlare di ritorno -, affinché deponiamo l’uomo vecchio e ci rivestiamo del nuovo (cfr. Ef 4,22-24) e, come siamo morti in Adamo, così viviamo in Cristo (cfr. 1Cor 15,22), nascendo con lui, con lui essendo crocifissi, con lui sepolti, con lui resuscitando (cfr. Rm 6,4; Col 2,12; Ef 2,6). […] Per questo non celebriamo la festa come fosse una solennità profana, ma in maniera divina, non in maniera mondana, ma sovramondana, non come una nostra festa, ma come quella di colui che è nostro, o piuttosto del Signore, non come festa della malattia, ma della guarigione, non come quella della creazione, ma della ri-creazione. […] Dio sempre fu e sempre è e sarà, o piuttosto, egli è sempre. Poiché le espressioni «era» e «sarà» corrispondono a divisioni umane del tempo e della natura sottoposte a mutamento; «colui che è» è invece il nome che si da Dio stesso quando si rivela a Mosè sulla montagna (cfr. Es 3,14). Riunendo tutto in se stesso, possiede l’essere senza principio, senza termine, è come un oceano di esistenza senza limiti né confini, che va al di là di ogni idea di tempo e di natura. […] Ma ora sappi che Cristo è concepito. Esulta, dunque, se non come Giovanni nel seno di sua madre (cfr. Lc 1,41), almeno come Davide al vedere che l’arca trova riposo (cfr. 2Sam 6,14) ; onora il censimento, grazie al quale sei stato inscritto nei cieli; celebra la Natività grazie alla quale sei stato liberato dai legami di una nascita puramente umana, per rinascere a quella divina; onora la piccola Betlemme che ti ha ricondotto in paradiso, adora la mangiatoia, tu che, insensato, sei stato nutrito dal Verbo.

(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi 38,4.7.17, SC 358, pp. 108-110; 114-116).

 

In principio era il Verbo

La liturgia di questa domenica ripropone il Prologo del Vangelo di san Giovanni, proclamato solennemente nel giorno di Natale. Questo mirabile testo esprime, nella forma di un inno, il mistero dell’Incarnazione, predicato dai testimoni oculari, gli Apostoli, in particolare da Giovanni, la cui festa, non a caso, si celebra il 27 dicembre. Afferma san Cromazio di Aquileia che “Giovanni era il più giovane di tutti i discepoli del Signore; il più giovane per età, ma già anziano per la fede» (Sermo II,1 De Sancto Iohanne Evangelista, CCL 9a, 101). Quando leggiamo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1), l’Evangelista – paragonato tradizionalmente ad un’aquila – si eleva al di sopra della storia umana scrutando le profondità di Dio; ma ben presto, seguendo il suo Maestro, ritorna alla dimensione terrena dicendo: “E il Verbo si fece carne” (Gv 1,14). Il Verbo è “una realtà vivente: un Dio che … si comunica facendosi Egli stesso Uomo» (J. Ratzinger, Teologia della liturgia, LEV 2010, 618). Infatti, attesta Giovanni, “venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14). “Egli si è abbassato ad assumere l’umiltà della nostra condizione – commenta san Leone Magno – senza che ne fosse diminuita la sua maestà” (Tractatus XXI, 2, CCL 138, 86-87). Leggiamo ancora nel Prologo: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia” (Gv 1,16). “Qual è la prima grazia che abbiamo ricevuto? – si chiede sant’Agostino – È la fede”. La seconda grazia, subito aggiunge, è “la vita eterna” (Tractatus in Ioh. III, 8.9, CCL 36, 24.25).

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’angelus, 02.01.2011).

 

Il Verbo si è fatto carne

A imitazione di Gesù Cristo, immagine di Dio, non allontaniamoci neppure noi da Dio, perché anche noi siamo immagine di Dio (cfr. Gen 1,26-27), di certo non uguale perché creata dal Padre attraverso il Figlio e non nata dal Padre come [il Figlio, che è] la sapienza di Dio. Noi siamo immagine perché illuminati dalla luce; il Figlio, invece, perché è luce che illumina e perciò, pur non avendo un modello per sé, è modello per noi. Egli non è modellato su qualcuno che lo precede presso il Padre; dal Padre, infatti, non può mai essere separato perché egli è quello stesso da cui ha origine. Noi, invece, cerchiamo di imitare un modello che non muta, seguiamo uno che non si muove e camminando in lui, che è per noi una dimora eterna, tendiamo a lui perché è divenuto per noi nella sua umiliazione una via attraverso il tempo. Agli spiriti immateriali senza peccato che non sono caduti a motivo della superbia il Figlio offre un esempio nella forma di Dio, in quanto uguale a Dio e Dio, ma per offrirsi come esempio di ritorno all’uomo caduto, che a causa dei suoi peccati e della condanna alla mortalità era incapace di vedere Dio, «si è svuotato» (Fil 2,7), non mutando la sua divinità, ma assumendo la nostra mutabilità e prendendo la natura di servo, venne in questo mondo (cfr. Fil 2,7) verso di noi, lui che era in questo mondo, perché «il mondo è stato fatto per mezzo di lui»  (Gv 1,10), per essere un esempio a quelli che nelle altezze contemplano Dio, per essere un esempio a quelli che sulla terra ammirano in lui l’uomo, esempio di perseveranza per i sani, esempio di guarigione per gli infermi, esempio di coraggio per quanti si preparano a morire, esempio di resurrezione per i morti, avendo il primato in tutte le cose (cfr. Col 1,18). Per conseguire la felicità l’uomo non doveva seguire nessun altro se non Dio, ma egli non era in grado di vedere Dio; seguendo il Dio fatto uomo avrebbe seguito nello stesso tempo uno che poteva vedere e uno che doveva seguire. Amiamolo dunque e uniamoci a lui con la carità che «è stata diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5).

(AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità 7,12-13, Opere di sant’Agostino, parte I/IV, pp. 302-304).

 

Oggi

viene svelato il mistero

rimasto nascosto per secoli.

Oggi il Figlio di Dio

diventa figlio dell’uomo…

Maria,

confusa e dolce,

tu guardi il Figlio,

colui che ha le fattezze del tuo volto,

volto umano di Dio,

che ridarà bellezza ad ogni volto d’uomo.

Adori il mistero e ti abbandoni

alla sua grandezza.

Ricolmaci, o Madre,

della tua pace,

ridonaci la bellezza della grazia,

e aiutaci a farci grembo a Dio,

perché cresca in noi…

 


* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

 

IV Domenica di Avvento (Anno B)

IV DOMENICA DI AVVENTO

Lectio – Anno B

Prima lettura:

 

Il re Davide, quando si fu stabilito nella sua casa, e il Signore gli ebbe dato riposo da tutti i suoi nemici all’intorno, disse al profeta Natan: «Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda». Natan rispose al re: «Va’, fa’ quanto hai in cuor tuo, perché il Signore è con te».  Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore: «Va’ e di’ al mio servo Davide: “Così dice il Signore: Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Fisserò un luogo per Israele, mio popolo, e ve lo pianterò perché vi abiti e non tremi più e i malfattori non lo opprimano come in passato e come dal giorno in cui avevo stabilito dei giudici sul mio popolo Israele. Ti darò riposo da tutti i tuoi nemici. Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me, il tuo trono sarà reso stabile per sempre”».

v Il testo di 2 Sam 7,12-14 è il perno del messianismo dinastico. Quando Israele ha un regno e un re, i profeti ne prendono atto per dare una raffigurazione o configurazione concreta all’idea della salvezza, cioè alle vaghe «promesse» che Abramo ha portato con sé partendo da Ur (cf. Gn 12,3).

La sensibilità religiosa di David esplode dopo la costruzione della sua reggia. Allora gli pare sconveniente che l’arca del Signore sia ancora custodita «sotto i teli di una tenda». Anche il profeta Natan sembra in un primo tempo confermarlo nel proposito di costruire un tempio a JHWH, ma nella notte l’uomo di Dio riceve un messaggio diverso. La casa per JHWH non è urgente mentre è del tutto opportuno pensare e provvedere al consolidamento della «casa», ossia della dinastia davidica da poco affermatasi.

Dio ha scelto David; da umile pastorello l’ha costituito capo del suo popolo; l’ha accompagnato persino nelle sue guerre, ha combattuto per lui assicurandogli la vittoria sui nemici. Il discorso è arduo ad accettarsi ma le parole non vogliono dire altro che Dio ha avuto una particolare attenzione alla persona di David per dei compiti riservati a un suo lontano discendente. Non è la persona del re l’oggetto delle preoccupazioni e predilezioni divine ma la sua dinastia, la «casa». Il patto stretto alle pendici del Sinai con l’intera nazione trova una sua speciale attuazione con la famiglia di David, alla quale Dio assicurerà una durata eterna (v. 16). È una promessa, una profezia che passa attraverso la dinastia davidica, ma ne trascende i componenti.

Il titolo «figlio di David» diventerà sinonimo di re escatologico, di messia, di liberatore e restauratore delle sorti del popolo di Dio. La dinastia scomparirà con l’esilio e il popolo continuerà ad attendere il «figlio di David». Anche Gesù ne sentirà parlare e ne parlerà ma si tratta di un attributo messianico tradizionale più che di un collegamento storico-dinastico con l’antico casato regale. Gesù dimostra che può essere «figlio di David» anche uno che originariamente è il «figlio del falegname».

 

Seconda lettura:

Fratelli, a colui che ha il potere di confermarvi nel mio vangelo, che annuncia Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, ma ora manifestato mediante le scritture dei Profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti perché giungano all’obbedienza della fede, a Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli. Amen.

 

v La Lettera ai romani ha due «conclusioni»: 11,33-36 e il presente brano. Nel primo caso Paolo esce in un inno di ringraziamento alla imperscrutabile sapienza divina per avere appunto intrecciato sia la missione che la defezione d’Israele con la conversione e salvezza dei gentili.

Ora con un nuovo inno ricapitola le tappe del disegno di Dio, il «mistero». Esso è rimasto nascosto «per secoli eterni» nella sua mente; è stato poi fatto trapelare da lui stesso attraverso i profeti, quindi le Scritture, e «ora» ne ha fatto la piena manifestazione in virtù dell’annunzio [kerygma] di Gesù Cristo di cui Paolo è il banditore (l’evangelista).

Cosicché anche i romani come tutti i gentili che sembravano esclusi dal piano della salvezza, almeno secondo un’ottica o una lettura accreditata presso le scuole giudaiche, vi fanno invece parte.

Il messaggio centrale del Vangelo è che Dio, secondo l’esperienza che ne ha fatto Gesù, è eguale con tutti i popoli, come con tutti gli uomini. Essi sono egualmente suoi figli, sia i discendenti di Abramo che di Israele, i giudei e i samaritani. È la buona notizia, il vangelo che egli comunicava ai suoi seguaci e agli uomini della sua generazione, ma i più non l’hanno capito e si sono ribellati alle sue aperture e l’hanno condannato. Ma altri l’hanno compreso e fatto proprio e tra questi ama annoverarsi Paolo, chiamato l’apostolo dei gentili, scelto particolarmente da Dio a questo scopo.

Paolo sa di ripetere una testimonianza, un’esperienza che proviene da Gesù Cristo, ma osa dire che è il suo vangelo, il messaggio di consolazione che ora trasmette ai romani come ha già fatto ai gentili dell’Asia e della Grecia. «Suo» perché ormai è la sua prima, quasi ossessiva preoccupazione. «Guai a me se non evangelizzo», dirà anche in questo senso ai corinti (1Cor9,16).

Tutto è partito da Dio e tutto a lui deve far ritorno, cioè a lui deve ridondare la gloria che proviene dall’attuazione di questo spettacolare disegno di ampiezze universali, meglio, indefinite, perché va oltre il tempo e oltre lo spazio. L’autore non può non chiudere quest’evocazione con un invito alla lode a colui che è all’origine del disegno e ne è stato l’esecutore. Almeno coloro che ne sono i beneficiari si ricordino di rivolgere uno sguardo riverente e grato a colui che li ha tanto amati.

 

Vangelo:

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».

A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».

Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».  Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

 

Il Vangelko in immagini

AVVENTO IV AVVENTO ANNO B

 

Esegesi

 

Luca apre il suo «racconto» dell’infanzia di Gesù con due quadri messi a fianco e a confronto in modo che al lettore o all’osservatore sia più facile rilevare le somiglianze e le differenze dei rispettivi protagonisti dell’uno e dell’altro dipinto. È il «dittico degli annunzi», a un sacerdote di Gerusalemme (1,5-25) e a una vergine di Nazaret (1,26-38). Il primo riguarda la concezione e nascita del precursore messianico, il secondo il messia stesso.

La «notizia» che l’evangelista deve comunicare è al di fuori di qualsiasi verifica, anzi al di sopra della stessa comune logica. Deve perciò essere messa bene in chiaro la fonte da cui proviene. L’«annunzio» pertanto appare un’esperienza straordinaria, ma è soprattutto un modulo, si potrebbe dire un genere letterario. Quello che l’evangelista sta per segnalare o proporre non proviene dalle riflessioni o dalla fantasia di qualche eminente pensatore (non è un dato filosofico o teologico) ma giunge direttamente da Dio. È una sua comunicazione, un messaggio che gli ha fatto pervenire tramite i suoi particolari fiduciari (i profeti).

L’«angelo» è per sua definizione un «messo» del Signore, potrebbe essere anche una sua visibilizzazione. In tutti i modi sta sempre a indicare la provenienza delle informazioni riferite e insieme ne ricorda il garante. Chi legge non può avere dubbi non tanto sulla realtà dell’apparizione, quanto sul messaggio trasmesso.

I contorni della raffigurazione sono anch’essi più funzionali che episodici; segnalano il teatro degli «avvenimenti», le condizioni dei protagonisti; in realtà mirano a far conoscere la trama e i presupposti della salvezza.

Maria, a differenza di Zaccaria, di stirpe sacerdotale, è una sconosciuta fanciulla di Nazaret, un oscuro villaggio della semipagana Galilea. Una contrada da cui nessuno s’aspettava che potesse uscire qualcosa di buono (Gv 1,46). Il suo unico prestigio è che è «vergine». Il termine sta indicare la sua giovane età, ma come apparirà nel resto del dialogo, indica anche una sua particolare scelta di vita. Anche il comportamento dell’angelo, ben diverso da quello assunto con Zaccaria, è ordinato a mettere in rilievo la dignità di Maria. A lei l’angelo è inviato e verso di lei è ossequioso, accondiscendente, mentre con il suo precedente interlocutore era stato categorico e imperioso.

L’«annunzio» è uno schema didattico, ma insieme anche una «scena». I personaggi sono in movimento, parlano tra di loro, si scambiano messaggi. Le prime parole dell’angelo sono misteriose: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (1,28). L’originale greco chaire può esser tradotto con un comune «salve», «ave» (shalom), ma potrebbe anche equivalere a «esulta», «rallegrati». In quest’ultima supposizione il messo celeste non farebbe che ripetere l’invito che i profeti rivolgevano alla figlia di Sion a prepararsi alla venuta di JHWH in mezzo al suo popolo. «Esulta, rallegrati, ecco JHWH è in mezzo a te valoroso salvatore» (cf. Sof 3,14-15; Gioe 2.21 -22; Zc 2,14; 9,9). Se un analogo invito è rivolto a Maria vuol dire che in lei, attraverso qualche sua singolare prestazione, si realizzeranno le previsioni profetiche. In lei si raccoglie simbolicamente il migliore Israele erede delle promesse di Dio al suo popolo. Se ciò è vero vuol dire che le antiche promesse stanno per avere la loro attuazione.

La «pienezza di grazia» che l’angelo scopre in Maria indica la sua interiore santità, ma più probabilmente la missione che lei è chiamata a svolgere. «Hai trovato grazia», le viene ripetuto poco dopo (1,30) quasi a conferma e vien fatta un’allusione alla sua maternità. A tale scopo, per portare cioè a compimento un compito così grande. Dio stesso sarà con lei, come altre volte in passato si era trovata a fianco dei vari protagonisti della storia della salvezza. «Io sarò con te» è ormai la frase di prammatica nella tradizione profetica. Dio non lascia i suoi inviati allo sbaraglio, ma li assiste con tutti i suoi favori.

Le parole dell’angelo lasciano intuire un incarico, un’incombenza nel piano di Dio, ma non quale essa sia; per questo Maria invece di esultare rimane meditabonda. Dentro di sé si domanda che cosa potesse significare un tale saluto. L’angelo è in grado di comprendere le sue difficoltà senza che lei le manifesti e cerca di dissiparle prima che lei risponda. Ella pertanto darà alla luce un figlio che sarà egualmente «figlio dell’Altissimo», «re d’Israele», «Cristo», unto, cioè consacrato al Signore. In altre parole lei, l’anonima giovane nazaretana, conseguirà la maternità più ambita da tutte le donne d’Israele.

Un messaggio del genere è sempre fonte di gioia, ma non sembra ne sia inondato l’animo di Maria. Ella non ha nulla contro la proposta angelica, ma la trova irrealizzabile nella sua persona. La frase «non conosco uomo» nonostante che l’autore abbia sopra detto che «era promessa sposa di un uomo» (1,27), sta a indicare che ella si trova in uno stato in cui le è precluso ogni rapporto maritale. Non solo non conosce un determinato uomo, ma alcun uomo, né ora, né in un immediato futuro. Solo in quest’ipotesi le sue parole hanno un senso. Nella sua vita avrà a fianco uno sposo, ma nessun marito. Da qui la richiesta all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?».

Le vie di Dio sono sempre senza numero, hanno ripetuto di sovente i profeti; è quanto riaffermerà tra breve l’angelo (1,37) ora invece fa appello alla sua «potenza» e alla «virtù del suo Spirito». Esse sono in grado di far sbocciare un nuovo germoglio di vita nel seno di una vergine senza alcun concorso umano. La spiegazione di Lc 1,34 («Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?») è Lc 1,35 («Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra»).

L’obiezione di Maria può dirsi risolta. Ella sarà madre nonostante la sua scelta verginale e il figlio che nascerà da lei sarà «santo» come chi è nato da Dio; sarà addirittura «figlio di Dio» riflettendo in tutto i suoi comportamenti di carità e di amore fino a perdonare gli stessi crocifissori, un grado di perfezione che solo Dio sa avere (cf. Mt 5,48).

Qualcosa di analogo si era verificato nell’anziana parente Elisabetta. Colei che era sterile era diventata miracolosamente madre; Maria che è vergine, una cosa ben diversa ma molto affine alla sterilità, sarà ciononostante madre. Un evento illustra l’altro; anche se non lo spiega lo rende più facilmente accettabile.

Maria si trova nella piena possibilità di accettare coscientemente e liberamente la grande proposta; e il suo assenso è immediato, pieno, gioioso. Non è rassegnazione, accettazione supina, ma decisa, generosa. Il verbo «avvenga per me», in greco, è un ottativo; esprime un desiderio, una precisa volontà, un auspicio. E il nome che ella si attribuisce «la serva del Signore» conferma questo suo stato d’animo e questa sua disposizione. Ella è lieta, quasi ansiosa di compiere la volontà del Signore che l’ha chiamata a un compito così alto nell’attuazione dei suoi disegni.

L’«annunciazione» ossia il testo di Lc 1,26-38 oltre un «annunzio di nascita (della nascita del messia) è anche un «racconto di vocazione», della chiamata cioè di Maria alle sue prestazioni materne nell’opera della salvezza.

 

Meditazione


Lo sguardo pieno di speranza che ha nutrito la paziente attesa di Israele, e di ogni uomo, intravede all’orizzonte il compimento della promessa; Dio, canterà Maria nel suo inno di lode, «ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre» (Lc 1,54-55). Le letture di questa quarta domenica di Avvento, che ormai ci avvicina al mistero del Natale, ruotano attorno al compimento della promessa di un Dio che entra definitivamente nella storia dell’umanità accogliendo il volto stesso dell’uomo (è il mistero della Incarnazione): Dio si rivela come l’Emmanuele, come il Dio che, nella fedeltà, continua a camminare assieme al suo popolo, ma in modo oramai totalmente nuovo e definitivo poiché «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14, versetto che risuonerà in tutto il tempo natalizio).

Nella prima lettura, tratta dal secondo libro di Samuele, la promessa a Davide di una discendenza e di un trono che dureranno per sempre trova misteriosamente il suo compimento in una umile casa della Galilea: a una giovane donna, Maria, viene annunciata la nascita di un bambino al quale «il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,32-33). Ma come già il profeta Natan aveva preannunciato a Davide, Dio compie le sue promesse in modo paradossale e inaudito. Alla pretesa ingenua di Davide di costruire una «casa» a Dio, il Signore risponde con un dono inatteso: la sola «casa» veramente degna del Dio infinito, non costruita da mani d’uomo, è Gesù, la cui carne viene misteriosamente intessuta nel seno di Maria. In Gesù Dio ormai dimora con l’uomo e ogni uomo può trovare in Lui la sua propria casa.

Ciò che i profeti avevano annunciato e ciò che Dio stesso aveva anticipato con molti segni nella storia di Israele, è come misteriosamente sintetizzato nel racconto della annunciazione: ve-ramente «il mistero avvolto nel silenzio per secoli eterni» ora è manifestato (cfr. Rm 16,25). L’evangelista Luca, l’unico che ci riporta il racconto della annunciazione della nascita di Gesù ci offre una narrazione coinvolgente ed essenziale allo stesso tempo, capace di condurci alla soglia del mistero che continuamente si affaccia in tutto il racconto e lo avvolge; di esso ci fa percepire contemporaneamente la vicinanza (soprattutto attraverso il dinamismo delle reazioni di Maria alle parole dell’angelo) e l’insondabile profondità (nelle continue aperture verso l’infinito di Dio, soprattutto attraverso le parole dell’angelo). Nel racconto si intrecciano continuamente parole e testi della Scrittura, formando così un complesso sottofondo biblico che orienta alla comprensione di ciò che sta avvenendo, senza d’altra parte esaurirlo. E questo radicarsi nell’Antico Testamento offre al racconto della annunciazione una tonalità del tutto particolare; ciò che sta accadendo ora è in continuità con gli eventi del passato, indice della fedeltà salvifica di un Dio che non viene meno alla sua promessa, ma una continuità nel contempo trascesa a motivo della inaudita novità. Data la ricchezza degli spunti che questo testo offre, ci soffermiamo solo su due temi.

Anzitutto la gratuità di Dio. Uno sconosciuto villano della Gallica e un contesto quotidiano fatto di gioie (una coppia di fidanzati, il desiderio di costruire una famiglia) e di povertà. Ecco ciò che attrae lo sguardo di Dio. È forte il contrasto con l’annuncio della nascita del Battista, nel quadro solenne del tempio. L’iniziativa di Dio appare in tutta la sua gratuità, come qualcosa di inatteso e che capovolge i criteri umani, fino a raggiungere l’umanamente assurdo: una vergine che non conosce uomo potrà concepire un figlio. Veramente «nulla è impossibile a Dio» (v. 37). Ma questa gratuità si rivela soprattutto nel saluto dell’angelo Gabriele a Maria: «Rallegrati piena di grazia, il Signore e con te» (v. 20). In queste parole è racchiuso il mistero che abita Maria, diventando il sottofondo trasparente in cui si riflette l’amore di Dio per l’uomo. In questo saluto è impressa, quasi come un sigillo, la vocazione di Maria, il suo nome segreto che solo Dio conosce. Nel cammino di Maria è racchiusa la gioia (in greco charà) di ogni promessa di Dio che troverà compimento nella lieta notizia che è Gesù di Nazaret; nel cammino di Maria si riflette tutta la benevolenza di Dio, la sua grazia (in greco charis) che trasforma radicalmente la povera ragazza di Nazaret rendendola degna dello sguardo di Dio; e, infine, nel corpo stesso di Maria, la gioia e la grazia prendono un volto, quello dell’Emmanuele, quello del Signore che abita in mezzo al suo popolo.

Alla gratuità di Dio, fa eco l’ascolto di Maria. L’inaudita parola di Dio pronunciata dall’angelo attraversa l’umanità di questa donna, provocando diverse reazioni: in Maria inizia un dialogo interiore, un cammino di riflessione per capire il senso di ciò che ha udito. È un tratto tipico del modo di reagire di Maria e che Luca sottolinea altre volte: «Maria custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Questa reazione attiva di Maria (ben lungi dalla paura di Zaccaria che rende muto l’uomo) permette di porre domande alla Parola e, di conseguenza, aprire un nuovo orizzonte, uno spazio di novità, un salto di qualità nella propria fede. E, d’altra parte, fede e ascolto sono il terreno in cui matura la risposta di Maria alle parola dell’angelo: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (v. 38). Con il suo alla Parola, Maria aderisce alla verità più profonda del suo essere: si sente nient’altro che «schiava» e come tale si presenta, libera e senza pretese, davanti al suo Signore. Solo in un cuore e in un corpo così disponibili la Parola può incarnarsi. È questa la vera beatitudine del credente: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1, 45).

 

Preghiere e racconti

 

Il Rabbi Mendel

Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”. Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare”.

(tratto da Il cammino dell’uomo di Martin Buber).

 

Dove abita Dio?

Dove abita Dio? E la domanda che guida la nostra riflessione, infatti la parola «casa» ricorre ben 14 volte in 2Sam 7, di cui leggiamo solo alcuni versetti nell’odierna liturgia della Parola. Il re Davide considera un atto di giustizia la preoccupazione di dare a Dio una casa stabile, al posto della tenda che ospita l’Arca, il segno visibile della sua alleanza con l’uomo.

L’ingenuità di Davide non sta solo nel presumere una sorta di uguaglianza tra lui e Dio, simbolizzata dalla tipologia dell’abitazione, ma sta soprattutto nel non cogliere la portata del termine stesso: «casa» non è solo una costruzione di cedro (7,2), ma è la discendenza, la stabilità del regno, la paternità, il «trono reso stabile per sempre» (7,16). Tutte queste cose superano la buona volontà di Davide e sono frutto di una elezione divina cui l’uomo può solo aderire o rifiutare.

È Dio a scegliere la dimora adatta a manifestare la sua presenza, nell’attesa della «nuova Gerusalemme» che scende dal cielo, la definitiva «dimora di Dio con gli uomini» (Ap 21,2-3). Maria, la vergine di Nazaret, prefigura sulla terra questa dimora celeste: su di lei soffia lo spirito creatore (Gen 1), su di lei si stenderà come ombra la potenza dell’Altissimo. Maria sarà la casa di Gesù, del Figlio di Dio, del Dio-con-noi.

Dove abita l’uomo là abita Dio. La casa che il Signore sceglie per rivelarsi è l’uomo. Ogni singola vicenda umana diviene luogo di redenzione e di estrema vicinanza dell’Emmanuele, del Dio-con-noi. Né un luogo fisico costruito da mani d’uomo, ne alcun atto di giustizia umana potranno circoscrivere lo spazio del nostro Dio. Egli è libero e spazia di generazione in generazione, tessendo con sempre nuova fantasia i luoghi della sua sempre rinnovata manifestazione.

Le nostre case: luogo della dimora del Signore. «Casa» è anche la nostra dimora, l’abitazione che comunemente ci raccoglie e protegge, il luogo degli affetti più sinceri, dei sacrifici e delle gioie condivise. «Casa» è la storia di ogni singola famiglia. La preghiera di oggi sia anche un’invocazione perché le nostre case siano luoghi in cui il Signore abiti stabilmente. La sua fedeltà rende ogni casa dell’uomo luogo di santità.

Nel nostro cuore egli trova le sue delizie. Come Maria, il discepolo di Gesù lascia che l’Altissimo prenda stabilmente dimora in lui. Domanda che lo Spirito Santo operi in lui il prodigio della nuova creazione e che nel suo cuore, per sempre rinnovato e affidato al Padre, il Figlio dell’uomo riposi e trovi le sue consolazioni.

 

Racconto

La Madonnina stava sola sola,

nascosta come una umile viola,

presso ad un cancello appena chiuso.

Filava con la mano il bianco fuso.

Sua madre, S.Anna, era lontana.

Si era fermata presso una fontana.

Quando un angelo bello del Signore

entrò pian piano senza far rumore.

Alla Madonna le riscosse il cuore.

L’angelo le disse: “Non aver timore”,

Madre di un bel Bambino tu sarai,

quel Bambino Gesù lo chiamerai.

In te verrà lo Spirito di Dio.

Maria, Gabriele Arcangelo sono io.

Allora la Madonna chinò la testa

e l’angelo fece grande festa.

 

Maria, donna gestante

«Rimase con lei circa tre mesi. Poi tornò a casa sua».

Il vangelo stavolta non dice se vi tornò «in fretta», come fu per il viaggio di andata. Ma c’è da supporlo. Da Nazaret era quasi scappata di corsa, senza salutare nessuno. Quell’incredibile chiamata di Dio l’aveva sconvolta. Era come se, improvvisamente, all’interno della sua casetta si fosse spalancato un cratere e lei vi camminasse sul ciglio in preda alle vertigini. E allora, per non precipitare nell’abisso, si era aggrappata alla montagna.

Ma ora bisognava tornare. Quei tre mesi di altura le erano bastati per placare i tumulti interiori. Vicino a Elisabetta aveva portato a compimento il noviziato di una gestazione di cui cominciava lentamente a dipanare il segreto. Ora bisognava scendere in pianura e affrontare i problemi terra terra a cui va incontro ogni donna in attesa. Con qualche complicazione in più. Come dirglielo a Giuseppe? E alle compagne con cui aveva condiviso fino a poco tempo prima i suoi sogni di ragazza innamorata, come avrebbe spiegato il mistero che le era scoppiato nel grembo? Che avrebbero detto in paese?

Sì, anche a Nazaret voleva giungere in fretta. Perciò accelerava l’andatura, quasi danzando sui sassi. Oltretutto, su quei sentieri di campagna, vi si sentiva sospinta come dal vento, di cui, però, le foglie degli ulivi e i pampini delle viti non lasciavano percepire la brezza, nell’immota calura dell’estate di Palestina.

Per placare il batticuore, che pure tre mesi prima non aveva provato in salita, si sedette sull’erba.

Solo allora si accorse che il ventre le si era curvato come una vela. E capì per la prima volta che quella vela non si issava sul suo fragile scafo di donna, ma sulla grande nave del mondo per condurla verso spiagge lontane. Non fece in tempo a rientrare in casa, che Giuseppe, senza chiederle neppure che rendesse più esaurienti le spiegazioni fornitegli dall’angelo, se la portò subito con se. Ed era contento di starle vicino. Ne spiava i bisogni. Ne capiva le ansie. Ne interpretava le improvvise stanchezze. Ne assecondava i preparativi per un natale che ormai doveva tardare.

Una notte, lei gli disse: «Senti, Giuseppe, si muove».

Lui, allora, le posò sul grembo la mano, leggera come battito di palpebra, e rabbrividì di felicità.

Maria non fu estranea alle tribolazioni a cui è assoggettata ogni comune gestante. Anzi, era come se si concentrassero in lei le speranze, sì, ma anche le paure di tutte le donne in attesa. Che ne sarà di questo frutto, non ancora maturo, che mi porto nel seno? Gli vorrà bene la gente? Sarà contento di esistere? E quanto peserà su di me il versetto della Genesi: «Partorirai i figli nel dolore»?

Cento domande senza risposta. Cento presagi di luce. Ma anche cento inquietudini. Che si intrecciavano attorno a lei quando le parenti, la sera, restavano a farle compagnia fino a tardi. Lei ascoltava senza turbarsi. E sorrideva ogni volta che qualcuna mormorava: «Scommetto che sarà femmina».

Santa Maria, donna gestante, creatura dolcissima che nel tuo corpo di vergine hai offerto all’Eterno la pista d’atterraggio nel tempo, scrigno di tenerezza entro cui è venuto a rinchiudersi Colui che i cieli non riescono a contenere, noi non potremo mai sapere con quali parole gli rispondevi, mentre te lo sentivi balzare sotto il cuore, quasi volesse intrecciare anzi tempo colloqui d’amore con te.

Forse in quei momenti ti sarai posta la domanda se fossi tu a donargli i battiti, o fosse lui a prestarti i suoi.

Vigilie trepide di sogni, le tue. Mentre al telaio, risonante di spole, gli preparavi con mani veloci pannolini di lana, gli tessevi lentamente, nel silenzio del grembo, una tunica di carne. Chi sa quante volte avrai avuto il presentimento che quella tunica, un giorno, gliel’avrebbero lacerata. Ti sfiorava allora un fremito di mestizia, ma poi riprendevi a sorridere pensando che tra non molto le donne di Nazaret, venendoti a trovare dopo il parto, avrebbero detto: «Rassomiglia tutto a sua madre». Santa Maria, donna gestante, fontana attraverso cui, dalle falde dei colli eterni, è giunta fino a noi l’acqua della vita, aiutaci ad accogliere come dono ogni creatura che si affaccia a questo mondo. Non c’è ragione che giustifichi il rifiuto. Non c’è violenza che legittimi violenza. Non c’è programma che non possa saltare di fronte al miracolo di una vita che germoglia.

Mettiti, ti preghiamo, accanto a Marilena, che, a quarant’anni, si dispera perché non sa accettare una maternità indesiderata. Sostieni Rosaria, che non sa come affrontare la gente, dopo che lui se n’è andato, lasciandola col suo destino di ragazza madre. Suggerisci parole di perdono a Lucia, che, dopo quel gesto folle, non sa darsi pace e intride ogni notte il cuscino con lacrime di pentimento.

Riempi di gioia la casa di Antonietta e Marco, la quale non risuonerà mai di vagiti, e di’ ad essi che l’indefettibilità del loro reciproco amore è già una creatura che basta a riempire tutta l’esistenza.

Santa Maria, donna gestante, grazie perché, se Gesù l’hai portato nel grembo nove mesi, noi, ci stai portando tutta la vita. Donaci le tue fattezze. Modellaci sul tuo volto. Trasfondici i lineamenti del tuo spirito.

Perché, quando giungerà per noi il dies natalis, se le porte del cielo ci si spalancheranno dinanzi senza fatica sarà solo per questa nostra, sia pur pallida, somiglianza con te.

(Don Tonino Bello, Maria , donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000, 25-27).

Preghiera

Dio eterno,

Dio sempre nuovo,

inafferrabile,

Dio di alleanza,

Dio di libertà,

dove adorarti? dove cercarti? dove attenderti?

dove si annuncia la tua venuta?

La tua Parola ci rassicuri,

o Padre degli uomini,

Dio della promessa,

ora e sempre.

 

Presenza imprevedibile,

Dio di lunga pazienza,

Signore dell’impossibile,

noi non sappiamo ne l’ora ne il luogo

della tua venuta.

Ma, sicuri che il tuo amore ci è dato

per scoprire, per svelare, per generare,

non cessiamo di pregarti:

il tuo Spirito ci guidi alle opere del Regno,

all’incontro con il tuo Figlio Gesù Cristo,

nostro fratello e nostro Signore, per sempre.

(Nicole Berthet)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

 

III Domenica di Avvento (Anno A)

III DOMENICA DI AVVENTO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Isaia 61,1-2.10-11

 

Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore. Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli. Poiché, come la terra produce i suoi germogli e come un giardino fa germogliare i suoi semi, così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti.

v In questo brano sono congiunti due frammenti del c. 61: la vocazione del profeta e la sua missione (vv. 1-2); un canto di gioia al Signore elevato dal profeta a nome di Sion (vv. 10-11). L’epoca di questa profezia è quella del fervore religioso degli anni dopo l’esilio (538 a. C.) e della ricostruzione del tempio (520 a. C.).

Il profeta riconosce che il protagonista nella sua vita è stato lo spirito del Signore. Il dono dello Spirito, ossia della sua forza creatrice e illuminante, per lui è stato come una «unzione» che lo consacra tutto al Signore.

vv. 1-2. La missione del profeta è specificata da alcuni momenti che sono quelli che caratterizzano l’anno del giubileo, chiamato nel nostro testo: «anno di misericordia». La prima fase del giubileo è l’annuncio di una Buona Notizia ai poveri, a coloro, cioè, che hanno come unica sicurezza non il potere politico ma il Signore. Le altre fasi sono effetto della forza di questa parola. Essa ha il potere di sanare ferite profonde, «i cuori spezzati», nella comunità, che rischia di perdere la propria identità, e inoltre ha la forza di rompere le catene che tengono schiavi dei fratelli: una schiavitù in senso fisico, ma anche quella più profonda causata dalla paura della morte. Altro effetto della parola è la scarcerazione dei prigionieri: la comunità di Israele era tornata dall’esilio, ma correva sempre il pericolo della depressione e di continuare a portare il muro della sua prigione nel cuore.

vv. 10-11. Il profeta s’identifica con Sion, la sposa del Signore, e ne descrive la gioia mediante immagini che richiamano la liturgia nuziale (vesti, manto, diadema, gioielli) e metafore che richiamano la terra feconda (semi, vegetazione, giardino). Il giubileo sarà un anno in cui l’uomo sperimenta l’amore misericordioso del Signore, la sua «giustizia». Quest’esperienza salvifica si esprimerà nella lode davanti a tutti i popoli.

 

Seconda lettura: 1 Tessalonicesi 5,16-24

Fratelli, siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.  Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male. Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!

 

v Questa è la prima lettera che Paolo scrive. È indirizzata ad una piccola comunità che l’apostolo aveva catechizzato in poco tempo. Ora continua la sua catechesi per scritto.

Qual è l’atteggiamento interiore di una comunità cristiana in mezzo ai pagani? Innanzi tutto la gioia che nasce da un culto ininterrotto. È lo Spirito che dona la forza di trasformare la vita terrena del cristiano in un autentico culto a Dio. La sua preghiera e il suo ringraziamento sono una corrente che fluisce continuamente.

Tutta la vita cristiana è segnata dalla presenza dello Spirito, perciò Paolo esorta: «non spegnete lo Spirito». La comunità non si opponga, per durezza di cuore o per immoralità, ai diversi carismi con cui lo Spirito la favorisce. Sarà una comunità ricca di discernimento: «vagliate ogni cosa».

L’opera di santificazione non è conclusa con il battesimo. Dio deve completare quest’opera già iniziata. È una santificazione sempre insidiata, per questo Dio deve conservarla: «si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo». La fiducia del cristiano non sta nelle proprie forze ma in «colui che vi chiama» continuamente al suo Regno: egli è fedele e condurrà a compimento ciò che ha incominciato.

Vangelo: Giovanni 1,6-8.19-28

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia».  Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».  Questo avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

 

Il Vangelo in immagini

 

 

Esegesi


Il testo mette insieme due parti ben distinte: i vv. 6-8 presi dal prologo e i vv. 19-28 dal primo dei tre giorni in cui Giovanni dà testimonianza a Gesù.

L’evangelista incomincia a parlare di Giovanni Battista, che ha preceduto di poco la missione di Gesù. Nelle discussioni nelle comunità cristiane dopo la pasqua non si era spesso d’accordo sul compito affidato da Dio al Battista. L’evangelista chiarisce che il Battista ha avuto la missione di «dare testimonianza alla luce» (v. 7). Egli non era la «luce». Solo Gesù è la luce, quella vera. Egli aveva il compito di portare alla fede in Gesù.

I vv. 19-34 parlano della testimonianza del Battista dapprima negativa e indiretta (vv. 19-28), poi positiva in riferimento all’identità e alla missione di Gesù. Egli parla ad una delegazione di sacerdoti e di leviti inviata dai Giudei, cioè al gruppo ostile, che non crede a Gesù, e nel v. 24 entrano in scena anche i farisei: si tratta quindi una testimonianza ufficiale.

Il Battista inizia confessando di non essere né il Cristo, né Elia, né il profeta: tre espressioni di attesa messianica (vv. 19-23). Il Cristo è il Messia; Elia era atteso prima del giorno del Signore; il profeta era aspettato come il nuovo Mosè che avrebbe rinnovato i prodigi dell’esodo (cf. Dt 18,15-18). Con una triplice negazione Giovanni Battista esclude chiaramente di essere colui che il popolo attendeva.

Nel v. 23 egli risponde positivamente e applica a se stesso il testo di Is 40,3: «voce di uno che grida nel deserto». Non era lui la Parola, ma solo una «voce», che doveva gridare per preparare la via al Signore che viene.

I farisei allora gli fanno una domanda sulla sua attività di battezzatore. Il Battista declassa il suo battesimo: «Io battezzo nell’acqua» (v. 26). Egli si sente solo un precursore di uno che è già presente, e che è più importante, ma che i farisei non conoscono.

Il brano si conclude ricordando il luogo della testimonianza di Giovanni: «Betania, al di là del Giordano» (v. 28).

 

Meditazione


Nella liturgia della Parola di questa III domenica di Avvento, un posto particolare è riservato ancora alla testimonianza del Precursore, colui che è chiamato a dare testimonianza alla luce vera che illumina ogni uomo, il Cristo, «perché tutti credano per mezzo di lui» (cfr. Gv 1,7). Ma l’approssimarsi della venuta del Signore offre, a questa domenica di Avvento, una coloritura particolare: la gioia, tema tradizionale nella maggior parte delle antiche liturgie occidentali. Una orazione dell’antica liturgia mozarabica per questa domenica così invita a pregare: «Signore Gesù, che porti la pace in mezzo al turbamento… fa che sempre, in composta serenità, attendiamo la tua venuta, o vigilante Amico, o Protettore, o unico Elargitore della pace». E l’invito alla gioia risuona nel testo di Isaia, come risposta al lieto annuncio di liberazione: «Io gioisco pienamente nel Signore… perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza» (Is 61, 0). Ma anche l’apostolo Paolo, nel testo proposto come seconda lettura, esortando a mantenersi «irreprensibili per la venuta del Signore», invita i credenti a «stare sempre lieti… in ogni cosa rendendo grazie» (1Ts 5,16).

L’autore del quarto vangelo invece ci introduce alla testimonianza del Precursore. Dopo aver richiamato alcuni versetti del prologo, il testo della liturgia inizia con Gv 1,19: «Questa è la testimonianza di Giovanni…». Tutta l’attenzione dell’evangelista è dunque concentrata sul testimone e sulla qualità della sua testimonianza. Ma sorprendente è il modo con cui viene presentata questa testimonianza. Veramente nel quarto vangelo al Battista si addice il testo di Isaia: essere voce di un annuncio che orienta e attrae verso quella Parola di cui il testimone afferma la presenza in mezzo agli uomini e di cui attesta la verità. La domanda posta a Giovanni riguarda la sua identità: «Tu chi sei?… Sei tu il profeta?… Che cosa dici di te stesso?» (cfr. 1,19-22). Ma Giovanni non è il testimone di se stesso. E d’altra parte, paradossalmente, il Battista afferma la sua identità attraverso una negazione, quasi scomparendo per lasciare lo spazio a Colui sul quale deve essere concentrata la ricerca dell’uomo (Gesù domanderà ai due discepoli di Giovanni che lo seguivano: «Chi cercate?»: Gv 1,38). Il Precursore, in qualche modo, ritiene solo curiosità una domanda che riguarda la sua identità. La vera domanda è altrove: chi è Gesù? Solo se si inizia un cammino a partire da questa domanda, che ciascuno deve porsi nella verità, si può giungere alla stessa esperienza del Battista e cioè conoscere Gesù per testimoniarlo. Ed è per questo che il quarto vangelo concentra la nostra attenzione sul verbo testimoniare e attorno a esso fa ruotare tutta la figura di Giovanni.

In Gv 1 ci vengono offerti molti elementi che caratterizzano la testimonianza del Battista. Ne evidenziamo solo alcuni. Anzitutto, come abbiamo già sottolineato, Giovanni è pienamente consapevole che la sua intera vita, e dunque la sua testimonianza, sono totalmente in relazione al Cristo. Di fronte a coloro che lo interrogavano sulla sua identità, Giovanni insiste nel dire chi non è. La sua risposta appare come uno sfondo scuro che crea un contrasto e permette alla luce di manifestarsi: egli è solo «una lampada che arde e risplende» (Gv 5,35), non la luce; è «l’amico dello sposo» (3,29), non lo sposo; è il testimone della verità, non la Verità; è la voce, non la Parola. Certamente una vita che sembra fondarsi su di una negazione ci lascia attoniti; ma è una negazione (una kenosis) necessaria per fare spazio a Gesù. In questa paradossale perdita di identità, Giovanni ritrova se stesso ed è per questo che la sua gioia è piena.

Il Battista esprime, inoltre, la sua relazione con Gesù con un stupenda immagine la quale, nello stesso tempo, rivela un tratto del volto di Cristo, caro al quarto vangelo. Giovanni dice: «A Lui, io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (1,27). Questo gesto simbolico era previsto nella cosiddetta legge del levirato (Dt 25,5-10) e avveniva quando un uomo rinunciava al diritto di riscatto verso la propria cognata, rimasta vedova, per dare una discendenza al fratello morto. Giovanni è consapevole di non poter pretendere di togliere il diritto di matrimonio al legittimo sposo, cioè al Messia, sottomettendolo al rito previsto dalla legge. Ma il gesto simbolico di cui il Precursore non si sente degno è ugualmente il gesto umile dello schiavo. E Giovanni sente di non poter neppure assumersi questo ruolo, perché solo Gesù è il servo del Signore, in quanto è la realizzazione di quel misterioso servo che si è addossato le nostre colpe e che come agnello muto, condotto al macello, pazientemente soffre (cfr. Is 53,7). Ecco perché il Battista indicherà Gesù come l’agnello di Dio (cfr. Gv 1,36). Gesù è lo Sposo; Gesù è il Servo. Due immagini che ritorneranno, nel quarto vangelo, al capitolo 19, nella scena della crocifissione. Giovanni il testimone aveva già visto da lontano il volto pasquale di Cristo e nella oscurità l’aveva testimoniato. Ora alla fine, ai piedi della croce, c’è un altro testimone, il discepolo amato, che vede e che rende testimonianza affinché noi crediamo (19,35). E il discepolo amato è colui che rimane, con la sua testimonianza, finché il Signore Gesù ritorna. In questo discepolo trova spazio la testimonianza della Chiesa, lungo la storia, la nostra personale testimonianza. Tuttavia è il Battista a indicarci, ancora oggi, lo stile di questa testimonianza attraverso una vita che si definisce a partire da Cristo e attraverso una testimonianza che non è preoccupata di se stessa. Il testimone autentico è colui che vive riconoscendo e vedendo Colui che sta in mezzo a noi, e per questo la sua testimonianza orienta. La vita di Giovanni è stata veramente nascosta come quella del seme caduto in terra. Ma il frutto di una testimonianza umile e nascosta resta sempre la gioia; colui che ha seminato, si vede ammesso alla gioia del mietitore. Ancora nel ventre della madre, Giovanni sussultò di gioia (cfr. Lc 1,44). Alla fine della sua vita il testimone potrà dire: «L’amico dello sposo… esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,29-30).

 

 

Preghiere e racconti


Il Vangelo della gioia

«Il Signore è fedele per sempre

rende giustizia agli oppressi,

da il pane agli affamati.

Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,

il Signore rialza chi è caduto,

il Signore ama i giusti,

il Signore protegge lo straniero».

(Sal 145)

 

C’è una splendida invocazione con la quale chiediamo al Padre di poter accogliere, riconoscenti, il Vangelo della gioia.

Viene così indicato il tema che, con modulazioni diverse, percorre con tale insistenza i testi biblici da indurre ad enumerare i termini che appartengono alla famiglia di «santa letizia», e che risuonano continui nella liturgia.

«Rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4, 4.5). Se l’invito alla gioia oggi è perentorio come non mai, non meno chiare sono le indicazioni che ci vengono offerte affinché si possa accogliere fruttuosamente il Vangelo della gioia.

Rischiando forse la semplificazione, potremmo individuare le condizioni di fondo, per esserne destinatari sicuri, in questi tre atteggiamenti: umiltà, fedeltà, utopia. Se poi le categorie astratte ci risultano difficili, possiamo dire che la gioia del Natale viene accordata agli umili, agli uomini fedeli e ai sognatori.

 

Umiltà

Qualche finezza etimologica non guasta. E allora è utile capire che la parola letizia ha la stessa radice di letame.

II verbo latino laetare, infatti, significa fecondare, concimare, rendere fertile. Letame è, appunto, lo strame che rende ubertosa la terra. E letizia è quel sentimento di ricchezza interiore che deriva dal rigoglio spirituale. Così come lieto è un aggettivo il cui significato originario è fecondo, cioè fertile, rigoglioso.

Sembra fuori posto osservare che certi messaggi del cielo si insinuano perfino nelle radici delle parole?

E appare davvero esibizione di bravura far notare che, se nei versetti dei salmi si dice «ascoltino gli umili e si rallegrino», l’abbinamento tra umiltà (espressa dal letame) e letizia non è proprio puramente casuale?

E può definirsi esercitazione sterile quella che sottolinea le tante connessioni tra i poveri e il lieto annunzio che viene ad essi portato?

E può essere giudicato fuori tema il riferimento a Maria, protagonista silenziosa, la quale ha dato la spiegazione di tanta esultanza in Dio suo salvatore proprio nell’umiltà della sua serva? (Lc 1, 47.48).

Ed è indugio sui versanti del moralismo facile il richiamo alla necessità di fare il vuoto dentro di sé, per farsi ricolmare di beni dal Signore?

Del resto tutta quella turba di indigenti che affollano i testi biblici e che sono soccorsi da Dio e che gioiscono per liberazioni raggiunte, non ci dice forse che l’umiltà è la condizione indispensabile perché le speranze di salvezza si tramutino in realtà?

 

Fedeltà

La gioia cristiana deriva da due fontane. La prima è la certezza che Dio è fedele e non viene meno alle sue promesse. Se egli ha assicurato il suo aiuto, si può star certi che non si tira più indietro. Il nostro, insomma, è un Dio di parola. «Il Signore è fedele per sempre»: è il grande attacco del salmo 145 il quale prosegue enumerando emblematicamente le categorie degli umili che confidano in Dio e che non resteranno delusi: dagli oppressi agli orfani, dagli affamati alle vedove, dai carcerati agli stranieri.

«Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio! Non temete, ecco il vostro Dio: giunge la ricompensa divina”».

È il profeta Isaia (35, 3) che esorta i poveri, soprattutto nei momenti dello sconforto, a fare assegnamento sulla fedeltà del Signore. La gioia non tarderà ad irrompere.

La seconda fontana di gioia è la fedeltà che noi dobbiamo conservare nei confronti del Signore, fino a quando egli tornerà: «Siate pazienti fino alla venuta del Signore».

Una pazienza che significa perseveranza, fiducia incrollabile e perdurante, capacità di superare la prova, attitudine alla tenacia anche nelle avversità, forza che non si affievolisce, tempra non scalfibile nel tempo.

A questo punto, non è male riflettere se alle radici di tante nostre tristezze non ci siano forse dei processi patologici di infedeltà, nonostante le mille professioni di fede, e se, di fronte a un Dio di parola, non dovremmo rivedere seriamente certe nostre strutture comportamentali, connotate dal tradimento cronico e dalla slealtà sistematica.

 

Utopia

«Fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35, 10). È la più osata battuta di Isaia. La più incredibile.

Messa al termine di una pagina intrisa di sogni, vibra al limite dell’allucinazione: steppe che fioriscono come narcisi, deserti che risuonano di canzoni, zoppi che saltano come cervi, muti che esplodono negli urli della gioia.

Ma si tratta di intemperanze dovute a un particolare genere letterario, e che, quindi, vanno prosciugate di un abbondante tasso di assurdo perché diventino più assimilabili alle nostre logiche terra terra?

O sono, invece, i primi segnali di quel mondo altro, il più vero, il cui avvento, nonostante i nostri sospiri liturgici, facciamo ancora fatica ad affrettare perché, omologati ai canoni del più gelido realismo, non percepiamo quanto sia umbratile la cosiddetta concretezza delle nostre esperienze?

O sono il banco di prova del nostro gioioso abbandono alla Parola, superato felicemente il quale, Gesù ci giudicherà destinatari di quella beatitudine che è risuonata nel Vangelo: «Beato colui che non si scandalizza di me»?

(Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 67-72)

 

Questa è la mia gioia

Questa è la mia gioia: attendere e guardare

il bordo della strada, dove l’ombra

insegue la luce, e la pioggia cade

nella vigilia dell’estate.

 

Messaggeri mi portano novelle

di cieli sconosciuti,

mi salutano

e s’affrettano lungo la via.

Il mio cuore è lieto, e soave

è il respiro della brezza che passa.

 

Dall’alba all’imbrunire

siedo qui davanti alla mia porta,

e so che all’improvviso arriverà

il momento in cui potrò vedere.

 

E intanto sorrido

e tutto solo canto.

E intanto l’aria si riempie

del profumo della promessa.

 

(R. TAGORE, Poesie. Gitanjali, Roma, Newton, 1988, 83.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

 

Festa dell’Immacolata Concezione (Anno A)

IMMACOLATA CONCEZIONE

Lectio – Anno A

Prima lettura: Gen 3,9-15.20

 

[Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero,] il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».  L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.

 

v Poiché oggi è ammesso da tutti che i primi capitoli della Genesi non ci forniscono una cronaca di avvenimenti, ma contengono una professione di fede circa i rapporti dell’uomo e della sua storia con Dio, dobbiamo cercare di cogliere il messaggio religioso contenuto nella nostra lettura.

Essa contiene soprattutto l’annunzio di una prospettiva di salvezza per l’umanità rappresentata dalla prima coppia umana. L’annunzio è preceduto da un dialogo in cui Dio mette in evidenza l’effetto distruttore del peccato (la rottura del vincolo di dipendenza da Dio, suggerita dal serpente, che prometteva di far diventare gli uomini come Dio, se si fossero ribellati alle sue leggi): perdita del rapporto amicale con Dio, inizio della diffidenza reciproca tra l’uomo e la donna, ingresso della fatica e del dolore nella vita umana, necessità di lottare sempre contro l’insidia perenne del peccato.

L’annunzio apre la prospettiva che, nel futuro, il seme dell’uomo avrebbe sconfitto il seme del serpente. Il sentimento cristiano, guidato da una interpretazione libera di questo testo documentata dalla Volgata, ha capito che, in questa prospettiva di futura vittoria, un posto speciale spettava a Maria.

 

 

Seconda lettura: Ef 1,3-6.11-12

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.

 

v La nostra seconda lettura utilizza una parte della prosa lirica elevata a Dio in onore di Gesù Cristo, con cui si apre la lettera agli Efesini (1,3-14). Sulla sua scelta per questa liturgia ha forse pesato la presenza del termine immacolati, che ricorre nel v. 4.Il senso principale del brano è che Dio merita la nostra lode e il ringraziamento perché egli per primo ci ha ricolmati di ogni sorta di benedizioni valide per sempre, avendo suscitato per noi il suo Figlio Gesù Cristo, da noi riconosciuto come Signore. Più in particolare, Dio va lodato e ringraziato perché, mediante la persona di Gesù Cristo, noi siamo stati chiamati alla santità (cioè a essere santi e immacolati), con un decreto che precede la fondazione del mondo. Senza che ne avessimo alcun diritto naturale, per poter realizzare la nostra chiamata alla santità, Dio ci ha regalato l’adozione a suoi figli, per i meriti di Gesù Cristo. Tutto questo, già per se stesso, può essere inteso come un inno di lode che celebra l’attività salvifica di Dio. Da aggiungere è anche che, avendo posto in Cristo tutta la nostra speranza, sappiamo che erediteremo la totalità delle divine promesse. Come si vede, al centro della nostra lettura c’è che tutti noi cristiani siamo chiamati alla santità, cioè a essere santi e immacolati, a partecipare quindi al modello di esistenza che ha qualificato Maria santissima come immacolata.

 

Vangelo: Lc 1,26-38

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».

A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

 

 

Il Vangelo in immagini

IMMACOLATA ANNO B

 

Esegesi

Tra i testi del Nuovo Testamento che ci parlano di Maria, la madre del Salvatore, il racconto dell’Annunciazione di Gesù è certamente il più ricco di teologia, sicché ad esso si è sempre ispirato lo speciale settore dell’approfondimento teologico che è detto mariologia. Cerchiamo di cogliere questa ricchezza, partendo dall’analisi esegetica dei singoli versetti.

Nei vv. 26-27, l’evangelista stabilisce un rapporto di netta continuità tra il già descritto annuncio della nascita del precursore (Lc l,5ss) e la scena che si accinge a descrivere: ogni singolo avvenimento della storia della salvezza si inquadra perfettamente in un disegno generale concepito e realizzato da Dio. In questo disegno si fronteggiano la grandezza insondabile di Dio, che manda come suo messaggero l’angelo Gabriele (un personaggio a cui nel libro di Daniele era stata affidata una missione riguardante gli avvenimenti messianici), e la piccolezza apparentemente insignificante di Nazareth di Galilea e di una oscura fanciulla che si chiama Maria, promessa sposa di un certo Giuseppe (solo in quest’ultimo personaggio c’è un barlume di riconosciuta nobiltà, perché discende dalla cosa di Davide).

Di Maria è qui sottolineato per ben due volte lo stato di verginità. Per Giuseppe è richiamata la sua appartenenza alla cosa di Davide, da cui doveva venire il Messia.

— Nel v. 28, il saluto dell’angelo, chàire, non è un semplice sinonimo del comune shalom (pace), ma sembra voglia evocare l’accenno alla gioia messianica a cui nei profeti è invitata la figlia di Sion (che significa la nazione ebraica), nell’imminenza dei tempi messianici (Sof 3.14; Gl 2,21.23; Zac 9.9). Il titolo kecharitoméne, con cui Maria è gratificata dall’angelo, non ha certamente il senso di un gentile appellativo (equivalente a una bella fanciulla!), ma sembra si voglia riferire alla missione che a lei Dio vuole affidare e si può ben tradurre: trasformata dal favore divino; la traduzione della Volgata, piena di grazia, rende giustizia alla densità teologica del vocabolo e ha indotto il popolo cristiano a trovare qui incluso un accenno alla verità dell’immacolata concezione. A quella stessa missione sembra debba riferirsi la frase il Signore è con tè; era questa infatti la formula con cui si dava incoraggiamento, nei libri dell’Antico Testamento, ai personaggi scelti da Dio per una qualche missione speciale (Isacco, in Gn 26,3.24; Giacobbe in Gn 28,15; Mosè, in Es 3,12; Gedeone, in Gdc 6,12; ecc.).

— Nel v. 29, il turbamento di Maria, diversamente da quanto è detto per Zaccaria in 1,12, non deriva dalla visione dell’angelo, ma dal senso delle sue parole: Maria dimostra così la sua iniziale consapevolezza di trovarsi davanti a qualcosa di misterioso.

— Nei vv. 30-31, l’angelo, dopo averle rivolto un incoraggiamento, rivela a Maria la missione che Dio vuole affidarle: con parole che richiamano alla mente il testo di Is 7,14, le è detto che essa dovrà dare alla luce un figlio del quale Dio stesso ha già stabilito il nome. L’importanza di questo figlio è già oscuramente accennata nell’implicito riferimento al testo di Isaia e nel fatto che il suo nome è direttamente scelto da Dio.

— Nei vv. 32-33, è dichiarata apertamente la straordinaria identità del futuro figlio di Maria. Questo figlio è descritto con chiaro riferimento al testo di 2Sam 7,8-16: da lì sono presi i termini grande… figlio (di Dio) …cosa… regno (i Davide) …regno senza fine. Il figlio di Maria è qui qualificato come il Messia atteso dai Giudei, ma già il senso delle parole adoperate in ambiente giudaico sembra dilatarsi per accogliere la nuova prospettiva cristiana.

— I vv. 34-35 difficilmente potrebbero spiegarsi, se si intendessero come battute stenografiche di un dialogo tra l’angelo e Maria. Sono però chiarissimi nel trasmetterci il messaggio rivelato che il figlio di Maria è stato concepito verginalmente, cioè senza il contributo di un padre terreno, e che questo stesso figlio di Maria è propriamente figlio di Dio fin dalla sua origine, cioè non in conseguenza della sua elezione alla dignità messianica, ma, grazie alla potenza creatrice dello Spirito Santo, fin dal momento della sua prodigiosa concezione.

— Nei vv. 36-37, l’angelo conferma l’eccezionalità dell’avvenimento annunziato, fornendo un segno capace di renderlo credibile: rivela a Maria la notizia ancora sconosciuta da tutti, che la sterile Elisabetta è diventata feconda nella sua vecchiaia, a dimostrazione che nulla è impossibile a Dio.

— Nel v. 38, che conclude il racconto, l’evangelista ci fa capire che Maria ha pienamente inteso l’alta missione che le è stata affidata, al punto che mette sulle sue labbra parole evocanti alte personalità dell’Antica Alleanza (Abramo, Mosè, Davide, il misterioso Servo di JHWH), che avevano meritato il titolo onorifico di servi del Signore. Proclamandosi serva di Dio, Maria è ben lontana dall’esprimere una semplice rassegnazione a oscuri disegni divini, dichiara piuttosto di essere gioiosamente pronta a collaborare alla imminente salvezza del mondo portata dal suo figlio Gesù.

Dall’esame analitico dei singoli versetti emerge la conclusione che il racconto di Luca ha come scopo principale quello di rivelarci l’identità messianica del figlio di Maria, che però è anche, a titolo specialissimo, figlio di Dio sin dalla sua concezione. In secondo luogo, il racconto ci parla della missione affidata a Maria, sottolineando soprattutto due cose: che l’iniziativa di quanto dovrà accadere appartiene esclusivamente a Dio; che lo stesso Dio ha reso Maria idonea all’assolvimento del compito affidatele mediante la pienezza di grazia. In questa pienezza, il popolo cristiano ha sentito che doveva starci anche l’Immacolata Concezione.

 

Meditazione

La liturgia della Parola di questa festa ci consente di abbracciare in un solo sguardo il mistero della salvezza. Al centro delle letture c’è il testo tratto dalla lettera agli Efesini in cui Paolo medita quale sia il desiderio originario di Dio; la prima lettura, dalla Genesi, descrive la risposta umana, il peccato, che tuttavia non arresta il piano di Dio, ma lo trasforma in una promessa che attraversa la storia fino a compiersi nell’incarnazione del Figlio di Dio, come il racconto di Luca annuncia.

In Cristo il Padre «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi» (Ef 1,4-5). Adamo ed Eva non sanno accogliere questa gratuita iniziativa di Dio. In loro opera l’inganno della tentazione che li induce a ritenere di dover conquistare, in modo autonomo e autosufficiente, ciò che Dio intende dare loro gratuitamente: l’essere per lui figli santi e immacolati. Dopo il peccato Adamo ed Eva sono ancora tentati di percorrere la via dell’autonomia, senza affidarsi alla misericordia del Padre. Si nascondono e, riconoscendosi nudi, intrecciano foglie di fico per farne cinture (cfr. Gen 3,7). È Dio invece a intrecciare per loro una storia di salvezza, rivestendoli di tuniche di pelle (cfr. Gen 3,21) e promettendo loro che, nella lotta contro quel male che sempre insidia la vita umana, un figlio di donna, stirpe della sua stirpe, conseguirà la vittoria.

«Dove sei?», domanda Dio all’uomo peccatore. La risposta che Adamo non sa dare la darà Dio stesso nell’incarnazione del Figlio: siamo in lui, nel Cristo. Essere in Cristo è uno dei temi più cari e ricorrenti in Paolo ed emerge anche nel brano della lettera agli Efesini. «In lui» – l’apostolo lo ripete continuamente – Dio ci ha benedetti, ci ha scelti, ci ha reso eredi… e sempre «in lui» si fonda la nostra speranza e sale al Padre la nostra benedizione e la nostra lode alla sua gloria. Dove sei? Siamo in Cristo.

Tale è anche il segreto della vita di Maria, colei che si lascia totalmente rivestire dalla gratuità di Dio per dare carne a questa grazia che in lei si fa persona e assume un volto umano: «Colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Diversamente da Adamo ed Eva, che oppongono il loro progetto alla promessa di Dio, in Maria tutto è ascolto e recettività dell’agire divino. Si può rileggere il racconto di Luca facendo attenzione ai tre nomi con cui la vergine di Nàzaret viene chiamata. Il primo è quello con cui Gabriele la saluta: «piena di grazia», che traduce un’espressione greca più ricca di sfumature (kecharitoméne). Luca usa qui un participio perfetto di forma passiva. Un perfetto: in greco questo modo verbale indica un’azione passata che ha raggiunto la sua perfezione e perdura nel presente. Maria è stata e rimane oggetto del favore divino. Il participio è di forma passiva e ha come soggetto implicito Dio stesso: viene così posto l’accento sull’agire divino. Essere ricolma della grazia, prima che costituire una qualità di Maria, rivela l’atteggiarsi di Dio nei suoi confronti, il suo modo di guardarla e di incontrarla. Infine, il verbo indica una trasformazione. Non significa semplicemente guardare qualcuno con benevolenza, ma trasformare, in virtù di questo favore, l’oggetto del proprio sguardo, rendendolo amabile. Maria è l’amata da Dio e, in quanto amata, è totalmente rinnovata da questo amore. Il nome usato da Gabriele acquista così la sua pregnanza: da un lato sottolinea la gratuità dell’azione di Dio, dall’altro manifesta la recettività piena e cordiale da parte di Maria.

Solo dopo averla salutata con il nome che viene da Dio, Gabriele la chiama anche con il nome datele dagli uomini. La verità della vita di ciascuno di noi sta nel modo che Dio ha di guardarci e chiamarci. Il nome umano è Maria. Se confrontiamo questa scena con il precedente annuncio rivolto a Zaccaria (Lc 1,5-7.13) emerge una grande differenza. Di Maria non si dice nulla, ne della sua discendenza, ne delle sue qualità morali; nulla neppure di un suo desiderio di maternità. L’unica realtà ricordata è la sua verginità. Due volte, con insistenza, il testo afferma che Maria è vergine (vv. 27 e 28). Tale condizione segnala ancora una povertà: viene annunciata una gravidanza a una vergine, vale a dire a una persona che sembrerebbe del tutto impari rispetto al compito affidatele. Nello stesso tempo questa verginità sottolinea la radicale apertura e docilità di Maria verso l’agire di Dio. Tutto in lei è povertà che si apre ad accogliere la potenza di Colui al quale nulla è impossibile (cfr. v. 37).

Infine nel racconto risuona un terzo nome che Maria stessa si da in risposta al saluto dell’angelo: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (v. 38). Quello di Maria non è un semplice atto di obbedienza. E un modo peculiare di collocarsi davanti al Signore e di entrare nella giusta relazione con lui. L’angelo aveva salutato Maria annunciandole come Dio si relazionava con lei: il Signore è con te, tu sei la piena di grazia, colei che Dio ama e trasforma nel suo amore. Rispondendo, Maria afferma a sua volta come desidera che sia la sua relazione con Dio: sono la «schiava» del Signore. Colei che in tutto dipende dalla sua Parola. Quello di Maria è un atto di fede prima ancora che di obbedienza. Il suo atteggiamento mostra inoltre il legame che sussiste tra fede e umiltà. Non presume di sé; al contrario si domanda «com’è possibile? come posso io?»; di conseguenza si affida, facendo della propria povertà e inadeguatezza lo spazio nel quale il Signore può manifestare la sua potenza. Come canterà nel Magnificat, Dio ha potuto compiere in lei grandi cose, perché ha conosciuto l’umiltà, la piccolezza, il «niente» della sua serva. Dio agisce in lei non a misura della sua piccolezza, ma a misura della grandezza del proprio amore.

Possiamo comprendere il mistero dell’«Immacolata» alla luce di questi tre nomi, che tracciano anche per noi una via di santificazione personale.

 

Preghiere e racconti


La festa dell’Immacolata

«La prima festa dell’anno è l’Immacolata. Non è senza motivo che l’anno liturgico si apra con una visione di bellezza. Nella preghiera liturgica, anzi nella vita stessa della Chiesa il primato è della contemplazione – ogni attività apostolica e anche morale ha termine nella contemplazione della gloria divina, nel silenzio dell’adorazione, nel canto della lode. La Chiesa prima di tutto canta la bellezza. (…) La festa dell’Immacolata è visione di sovrumana bellezza».

(D. Barsotti, Il mistero cristiano nell’anno liturgico, 69).


Maria, vergine dell’attesa

Se andiamo alla ricerca di un motivo esemplare che possa ispirare i nostri passi, e dare agilità alle cadenze del nostro cammino in questo periodo che ci separa dal Natale, dobbiamo assolutamente rifarci alla Madonna. Lei è la Vergine dell’attesa, la Vergine dell’Avvento, la Madre dell’attesa.

Lo sapete che nel Vangelo, prima ancora che ci venga detto il suo nome, viene riferito un fremito d’attesa che ardeva nella sua anima? San Luca, prima ancora di dirci che «il suo nome era Maria» (Lc 1, 26), ci dice un’altra cosa: «In quel tempo l’angelo Gabriele venne mandato ad una ragazza promessa sposa ad un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide» (Lc 1, 26-27).

«Promessa sposa», cioè fidanzata! Noi sappiamo che la parola fidanzata viene vissuta da ogni donna come un preludio di tenerezze misteriose, di attese. Fidanzata è colei che attende. Anche Maria ha atteso; era in attesa, in ascolto: ma di chi? Di lui, di Giuseppe! Era in ascolto del frusciare dei suoi sandali sulla polvere, la sera, quando lui, profumato di vernice e di resina dei legni che trattava con le mani, andava da lei e le parlava dei suoi sogni.

Maria viene presentata come la donna che attende. Fidanzata, cioè. Solo dopo ci viene detto il suo nome. L’attesa è la prima pennellata con cui san Luca dipinge Maria, ma è anche l’ultima. E infatti sempre san Luca il pittore che, negli Atti degli apostoli, dipinge l’ultimo tratto con cui Maria si congeda dalla Scrittura. Anche qui Maria è in attesa, al piano superiore, insieme con gli apostoli; in attesa dello Spirito (At 1, 13-14); anche qui è in ascolto di lui, in attesa del suo frusciare: prima dei sandali di Giuseppe, adesso dell’ala dello Spirito Santo, profumato di santità e di sogni.

Attendeva che sarebbe sceso sugli apostoli, sulla chiesa nascente per indicarle il tracciato della sua missione.

 

Maria, Vergine e Madre dell’attesa

Vedete allora che Maria, nel Vangelo, si presenta come la Vergine dell’attesa e si congeda dalla Scrittura come la Madre dell’attesa: si presenta in attesa di Giuseppe, si congeda in attesa dello Spirito. Vergine in attesa, all’inizio. Madre in attesa, alla fine. E nell’arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l’altra cosi divina, cento altre attese struggenti. L’attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L’attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele. L’attesa del giorno, l’unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L’attesa dell’«ora»: l’unica per la quale non avrebbe saputo frenare l’impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L’attesa dell’ultimo rantolo dell’unigenito inchiodato sul legno. L’attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia. Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all’infinito.

 

Con la lampada accesa

E noi oggi di che cosa parliamo se non di Avvento, di attesa? Voi promettete fede al Signore e con i vostri sospiri, con i vostri sentimenti, con le vostre attese, ricevete le tenerezze misteriose che vi riserva: vigilanti, così come si vive il periodo del fidanzamento, con il tripudio interiore.

Un giorno le nozze dell’Agnello le celebreremo tutti quanti. Saremo tutti invitati, tutti protagonisti. Verrà questo giorno!

Nei tempi gelidi che stiamo vivendo, nell’appannamento dei nostri entusiasmi e nella tristezza dei nostri peccati, non possiamo sentirci mancare il coraggio, al punto da non annunciarvi queste cose con forza, per quanto possano sembrare lontane, utopiche. No, non sono utopie, sono invece i luoghi dove noi realizzeremo veramente la nostra felicità, il nostro bene. Questo vi annunciamo oggi!

Le ragazze che sono davanti a me, sono anche un po’ l’icona di quello che dovremmo essere: con l’abito bianco, con la lampada accesa, in attesa; disponibili non soltanto a tenere la lampada accesa, ma anche a conservare una riserva sufficiente di olio nei recipienti, al punto che quando qualcuno ci rivolge quella preghiera così implorante e così umana che dice: «Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono!», noi possiamo rispondere non come le vergini prudenti: «No, perché non basta ne a noi ne a voi» (Mt 25, 9), ma: «Sì, vogliamo correre il rischio che non basti ne a noi ne a voi».

A voi che oggi non fuggite per la tangente dell’irreale, ma fate una scelta di concretezza, vorrei dire: «Amate il mondo e siate disponibili a dare l’olio alle lampade del mondo, perché anche il mondo possa attendere e possa vivere l’attesa».

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La vera tristezza

Oggi non si attende più. La vera tristezza non è quando ti ritiri a casa la sera e non sei atteso da nessuno, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita. E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio. Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita. E ormai i giochi sono fatti. E nessun’anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci saranno più ne soprassalti di gioia per una buona notizia, ne trasalimenti di stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto, non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere. La vita, allora, scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco. Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere. Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle attese. E forse è vero.

Oggi abbiamo preso, invece, una direzione un tantino barbara: il nostro vissuto ci sta conducendo a non aspettare più, a non avere neppure il fremito di quelle attese che ci riempivano la vita un tempo: quando, non so, aspettavi profumi di mosti, o il cigolare dei frantoi o il grembo di tua madre che si incurvava sotto il peso di una nuova vita, o i profumi dei pampini, degli ulivi, o il profumo di spigo, di mele cotogne. Forse sto scappando anch’io per le tangenti del sogno, però – dite la verità – è così standardizzata la nostra vita, è così incastrata nei diagrammi cartesiani che c’imprigionano e ci stringono all’angolo, che non sappiamo più aspettare. Intuiamo tutti che abbiamo una vita prefabbricata, per cui ci lasciamo vivere, invece di vivere.

 

Una «pro-vocazione»

Oggi l’Avvento c’impegna invece a prendere la storia in mano, a mettere le mani sul timone della storia attraverso la preghiera, l’impegno e starei per dire anche l’indignazione: indignatevi un po’, fratelli e sorelle! Indignatevi, perché abbiamo perso questa capacità; anche noi sacerdoti, anche noi vescovi, non ci sappiamo più indignare per tanti soprusi, tante ingiustizie, tante violenze… Tutto quello che viviamo ora, qui, non è solo una simbologia. Vorrei dirvi, cari fratelli, che questi ragazzi, Antonio e Stefano e poi Barbara e Francesca e Lorella e Miriam, devono diventare per noi una provocazione, uno scrupolo, una spina di inappagamento, messa nel fianco della nostra vita, un’icona, una «pro-vocazione», una chiamata da parte di chi sta un po’ più avanti. Con i gesti anche paradossali delle scelte audaci, ci stimolano ad essere uomini dell’attesa come Maria; ci spingono a non diffidare mai dei sogni, per essere capaci sempre di annunciare al mondo rovesciamenti da troni e innalzamenti dello stereo, come Maria, donna dell’attesa, che ha aspettato questa ricollocazione sui troni della giustizia per tutti coloro che, invece, vivono nel fetore delle stalle e nel sopruso degli egemoni, che schiacciano sempre la gente.

Attesa, attesa, ma di che? Che cosa aspettiamo?

Aspettiamo prima di tutto un cambio per noi, per la nostra vita spirituale, interiore, e poi avvertiamo che stiamo camminando su speroni pericolosi, su rocce che possono farci ruzzolare da un momento all’altro. Forse abbiamo assunto un modo non proprio allineato alla logica delle beatitudini.

Attesa quindi di rinnovamento per noi, attesa di rinnovamento per la storia dell’umanità. Attesa di cambi interiori della nostra mentalità: non siamo ancora capaci di pronunciare una parola forte per dire che la guerra è iniqua, che ogni guerra è iniqua! Ancora ci stiamo trastullando con i concetti della guerra giusta o ingiusta, o della difesa…

Abbiamo nelle mani il Vangelo della non violenza attiva, il codice del perdono, ma siamo ancora cristiani irresoluti, che camminano secondo le logiche della prudenza carnale e non della prudenza dello Spirito. Siamo gente che riesce a dormire con molta tranquillità, pur sapendo che nel mondo ci sono tante sofferenze. Sopportiamo facilmente che, all’interno della nostra città, col freddo che fa, le stazioni siano assediate da terzomondiali o da persone che vivono allo sbando, che non hanno più progetti.

Macché fidanzamento, che sogni, che attese di sandali, che profumi di vernice o di santità! Molta gente odora soltanto della tristezza dei propri sudari.

Fratelli e sorelle, vergini fidanzate, provocate questa gente! Oggi ci sono tante fotografie per voi, tanti lampeggiamenti di flash; sarebbe molto bello che ognuno di voi, con il suo obiettivo allargato, imprimesse la provocazione di un’attesa di cieli nuovi e terre nuove. Anche tu, Stefano, che ti accingi ad entrare nel consesso presbiterale; e tu, Antonio, che ci sei già entrato, che sei già lettore e annunci la parola di Dio e da oggi tocchi anche le patene, le pissidi: tocchi quello che sarà il corpo vivente del Signore. Questo contatto con i vasi sacri, col grano fatto pane, con l’uva fatta vino, ti mette in rapporto con il cosmo, con questa realtà materiale, toccabile, perché il regno di Dio viene costruito non con i fumi delle nostre utopie ma con le pietre che vengono scavate nelle cave della storia, della terra. Scommetto che anche il pane che si mangia nel cielo è intriso delle acque della nostra terra e del grano che viene prodotto dai nostri campi!

Buona attesa, dunque. Il Signore ci dia la grazia di essere continuamente allerta, in attesa di qualcuno che arrivi, che irrompa nelle nostre case e ci dia da portare un lieto annuncio!

(Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 45-54).

 

Benedetta sei Tu, Vergine Maria

Benedetta sei Tu, più grande del cielo, più bella della terra e più profonda di tutta la ragione, chi riesce a esprimere la Tua grandezza? Non c’è niente che sia uguale a Te, Vergine Maria. Ti glorificano gli angeli, Ti lodano i serafini, perché Colui che siede nella gloria è venuto a dimorare nel Tuo corpo. L’amico degli uomini ci ha innalzato fino a Sé, ha preso su di Sé la nostra morte, ci ha donato la vita Colui a cui appartiene onore e lode. Tu, Tu sola, nostra Signora, genitrice di Dio, sei madre della luce. Ti glorifichiamo con cantico di lode.

 

Sei il candelabro che porta la lampada sempre accesa, la luce del mondo, luce da luce senza inizio, Dio da Dio vero, che da Te prese senza mutamento la forma umana, che ci ha illuminati con la Sua venuta, noi che sedevamo nel buio e nell’ombra della morte, Luce che guida i nostri passi sulla via della pace per mezzo del mistero della Sua santa sapienza.

 

Rallegrati, benedetta vergine senza macchia, Tu vaso puro, Tu gloria del mondo, Tu luce intramontabile, Tu tempio indistruttibile, Tu bastone della fede, Tu solido sostegno dei santi. Prega per noi il Tuo figlio diletto, nostro redentore, perché abbia pietà di noi e sia misericordioso, e attraverso la Sua grazia ci siano perdonati i peccati per sempre.

Amen.

(Preghiera etiope)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

 

 

II Domenica di Avvento

II DOMENICA DI AVVENTO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Isaia 40,1-5.9-11

 

«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati».

Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata.

Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato». Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».

 

v Il brano costituisce l’inizio della seconda parte del libro di Isaia che comprende i capitoli 40-55; questo insieme è denominato: «libro della consolazione»; inizia infatti con le parole: «consolate, consolate il mio popolo». L’annuncio della consolazione riguarda la fine della schiavitù del popolo in Babilonia, schiavitù durata circa sessanta anni tra il 597 e il 538 prima di Cristo. L’autore è un profeta anonimo che viene denominato secondo Isaia, il quale ha svolto la sua attività profetica in Babilonia tra le prime vittorie di Ciro che facevano prevedere la caduta dell’impero babilonese e l’editto di liberazione del 538 che consentì un primo ritorno dall’esilio alla patria.

Il passo che forma la lettura contiene l’annuncio del tema, cioè la consolazione e la fine dell’esilio, la presentazione di una voce profetica, infine l’annuncio del ritorno di Dio come guida del suo popolo.

1. Annuncio del tema.

«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati» (Is 40,1-2).

Gerusalemme, emblema del popolo eletto, era stata deportata in esilio e in schiavitù a causa dei suoi peccati, a causa dell’idolatria e delle ingiustizie; qualcuno poteva pensare che questo esilio, vero castigo divino, per le colpe del popolo, non sarebbe più finito, invece nel mezzo dell’esilio risuona il grande annuncio: l’iniquità è stata scontata, la schiavitù dell’esilio è finita, viene la consolazione. Questo annuncio è dato al cuore di Gerusalemme; il parlare al cuore non riguarda soltanto il sentimento, ma anche l’intelligenza e la volontà, riguarda la totalità umana, a cui è rivolta la notizia di gioia: questa gioia consisterà nella liberazione dalla servitù e dall’esilio, consisterà in un nuovo esodo, che rinnoverà l’esodo antico con i suoi prodigi.

2. Presentazione della voce profetica.

«Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata.

Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato» (Is 40,3-5).

Queste espressioni contengono una vocazione profetica. La voce profetica, lasciata volutamente anonima, obbedisce a ciò che è stato detto prima, cioè al comando di recare consolazione. Gli evangeli sinottici citando questo testo secondo la traduzione dei Settanta: «voce di colui che grida nel deserto» lo applicano a Giovanni Battista che annuncia la venuta del Signore. Preparare la via era la consuetudine antica che riguardava un re vittorioso; la strada attraverso cui doveva passare per celebrare il suo trionfo veniva allestita in modo che egli potesse percorrerla senza disagio. L’immagine è qui usata per descrivere il passaggio di Dio stesso alla testa del suo popolo che ritorna dalla terra di esilio alla propria patria; questa strada, che passava nella zona desertica tra la Mesopotamia e la Palestina, doveva essere preparata per poter consentire un ritorno agiato, comodo, gioioso ed esultante, nel quale sarebbe apparsa la gloria del Signore, cioè la sua stessa presenza. Questa descrizione poetica è grandiosa, è la riattualizzazione dell’esodo antico. La profezia fa intravvedere una realtà che supera il puro ritorno geografico degli esiliati nella Palestina e la pura liberazione dalla schiavitù politica; tale liberazione fu infatti assai limitata. La profezia delinea il ritorno della gloria del Signore, che avrà orizzonti diversi da quelli soltanto politici.

3. Annuncio del ritorno di Dio.

«Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40.9-11).

Questo tratto è una variazione e un arricchimento del tema. Il ritorno di Dio alla testa del suo popolo, prima esiliato, è un trionfo; Dio appare come un re potente e insieme come un pastore pieno di tenerezza verso le pecore madri e gli agnellini. Il tema del buon pastore, che percorre la profezia antica, avrà la sua piena realizzazione in Gesù. Questa lettura, che è la profezia di un evento storico determinato, cioè il ritorno del popolo esiliato da Babilonia alla patria, esprime l’attesa e l’annuncio di un altro evento che sarà compreso alla luce del nuovo Testamento.

 

Seconda lettura: 2 Pietro 3,8-14

Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi.  Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta.

Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia.  Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia.

 

v Il brano si trova in quel tratto della lettera che si occupa del tema del ritardo della parusia. Alcuni tra i primi cristiani, infatti, meravigliati per il ritardo del ritorno del Signore, erano impazienti e delusi. L’Autore della lettera con il linguaggio preso dalla letteratura apocalittica del suo tempo da un insegnamento sulla venuta del Signore ed esorta a una attesa giusta e retta.

Il brano può essere diviso in tre parti: una correzione dei criteri di computo del tempo, una descrizione del giorno del Signore, una esortazione alla buona condotta nell’attesa.

1. Correzione dei criteri di computo del tempo.

«Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3.8-9).

Il computo del tempo non è il medesimo presso gli uomini e presso Dio. La trascendenza di lui si riflette anche in questo. Il salmo dice: «Ai tuoi occhi mille anni sono come un giorno» (Sl 90,4) volendo esprimere la grandezza di Dio; il presente testo citando queste parole le applica anche inversamente: un giorno è come mille anni. Benché la parusia sia aspettata da generazioni, questo è un periodo breve e non contraddice alle promesse della prossimità della venuta del Signore. Questa grandezza di Dio che usa una misura del tempo diversa alla nostra, appare anche nel suo amore; la lentezza nell’attuazione della parusia è dovuta alla pazienza, alla longanimità di Dio che vuole la salvezza di tutti e vuole dare a tutti il tempo per pentirsi. Anche la riflessione su questa qualità di Dio aiuta a una corretta impostazione del problema del ritardo della parusia.

2. Descrizione del giorno del Signore.

«Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta. Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia» (2Pt 3,10-13).

L’immagine della venuta del giorno del Signore come quella di un ladro è tradizionale: la troviamo nei vangeli sinottici, in Paolo, nell’Apocalisse. Il giorno viene descritto con le immagini della letteratura apocalittica: la conflagrazione universale per far svanire i cieli e gli elementi. Il senso di tali descrizioni consiste nel preparare la realtà finale, indicata come «nuovi cieli e nuova terra»; la novità è la presenza della giustizia in modo stabile. Il giorno del Signore, dunque, non è soltanto rovina e distruzione, è anche e soprattutto nuova creazione. A questo spettacolo cosmico l’autore congiunge l’esortazione a vivere nella santità della condotta, nella pietà, a cui viene attribuita la virtù di affrettare, di accelerare l’evento del grande giorno.

3. Esortazione alla irreprensibilità.

«Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia » (2Pt 3,14).

L’essere senza macchia era nell’antico Testamento una qualità rituale, cultuale; qui esprime una realtà morale e spirituale, la irreprensibilità si oppone alla condotta dei nemici; comportandosi così i credenti saranno trovati in pace davanti a Dio; una pace che non è sentimento psicologico, ma conformità al piano divino di salvezza.

 

Vangelo: Marco 1,1-8

Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.  Come sta scritto nel profeta Isaia: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.  Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

 

 

Il vangelo in immagini

AVVENTO II AVVENTO ANNO B-1

 

Esegesi

 

Il brano evangelico costituisce l’inizio del vangelo di Marco. Esso presenta immediatamente la persona di Gesù con i suoi titoli, presenta poi la figura di Giovanni Battista, la sua attività, la sua predicazione che contrappone il battesimo di Gesù al proprio.

1. Presentazione della persona di Gesù.

«Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1).

Troviamo in questa densa frase il termine: vangelo, e i titoli di Gesù: Cristo, Figlio di Dio.

Il termine vangelo indica la buona novella destinata a tutti gli uomini, la notizia che definisce la fede cristiana; più che un messaggio proveniente da Dio e riguardante Gesù, il vangelo è la rappresentazione della presenza e dell’azione di Dio presso gli uomini in Gesù. Questa buona notizia dapprima annunciata e predicata è stata poi scritta e si è fissata nei quattro vangeli.

Il titolo Cristo indica, letteralmente, colui che è stato unto, che è stato dedicato e consacrato con una unzione, indica il messia, il salvatore atteso in Israele. Pietro farà la sua solenne professione di fede tributando a Gesù questo titolo (Mc 8,29) e Gesù stesso approverà il titolo nel corso del suo processo (Mc 14,61-62).

Il titolo Figlio di Dio, indicazione della dignità di Gesù, determina la struttura del vangelo di Marco, ritornandovi nei punti fondamentali. Collocato qui all’inizio, esso ritorna alla fine in bocca a un pagano, all’ufficiale romano, come una confessione di fede (Mc 15,39). Nel corso del vangelo questo titolo è rivelato da Dio stesso nel battesimo di Gesù (Mc 1,11) e nella trasfigurazione (Mc 9,7), è divulgato dai demoni (Mc 3,11; 5,7) e costituisce il tema della condanna davanti al Sinedrio (Mc 14,61-62).

2. Presentazione di Giovanni Battista.

«Come sta scritto nel profeta Isaia: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati» (Mc 1,2-5).

La presentazione del Precursore viene fatta mediante la citazione del testo di Isaia contenuto nella prima lettura, del testo di Esodo 23,30 e di Malachia 3,1. Giovanni appare come colui che prepara e precede la venuta del Messia. L’attività che egli esercita, insieme con la predizione, è l’annuncio e la pratica di un battesimo di penitenza. Tale atto aveva la sua ispirazione nei bagni e nelle abluzioni che venivano praticate nel giudaismo con scopo di purificazione rituale delle macchie e delle impurità legali. Il rito del precursore si distingue da tali osservanze in quanto ha carattere di unicità, non è ripetibile ed è offerto e ricevuto come preparazione al giudizio, al battesimo della fine dei tempi; esso indica la necessità della conversione e ha come scopo il perdono dei peccati accordato da Dio. La gente che andava a farsi battezzare da Giovanni, infatti, riconosceva e confessava i propri peccati con le parole oltre che con l’atto di sottoporsi al battesimo.

3. Il battesimo di Giovanni e il battesimo di Gesù.

«Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo » (Mc 1,6-8).

Dopo la descrizione di Giovanni, ricalcata su quella di Elia, viene la proclamazione che contrappone il precursore a Gesù sulla base del loro battesimo: Giovanni battezza con acqua. Gesù battezzerà con Spirito Santo. La qualificazione dell’attività di Gesù come battezzatore in Spirito Santo designa non singoli atti o momenti, ma l’opera totale del Signore, essa è nel suo insieme un battesimo con Spirito Santo, cioè una effusione dello Spirito che santifica attraverso i sacramenti e i carismi da lui donati.

 

Meditazione

Il tema che unisce le tre letture è quello della preparazione della venuta del Signore. Occorre preparare la via per il nuovo esodo che il Signore guiderà (Isaia); bisogna convertirsi, prima della venuta gloriosa del Signore, nel tempo di vita che il Signore concede a ciascuno (2Pt). Il vangelo presenta Giovanni che nel deserto prepara la strada al Messia con la sua stessa vita, con la sua predicazione e il suo ministero.

L’evangelo interpella il credente su come accogliere nella propria esistenza il Signore che viene. Anzitutto con l’ascolto della parola di Dio contenuta nella Scrittura. L’inizio del vangelo è nell’Antico Testamento (Mc 1,1-3) e Giovanni è anzitutto colui che compie nella sua carne e nella sua vita la parola profetica. La Scrittura ci conduce a Cristo. Ma la parola di Dio conduce anche a riconoscere i propri peccati (Mc 1,5). Di fronte al Signore che viene, noi riconosciamo che le nostre vie non sono le sue e siamo spinti a conversione, a cambiare strada, a mutare direzione di vita per ritornare al Signore. Poi si tratta di ritrovare l’essenziale. Giovanni è figura di essenzialità e semplificazione: di lui si dice la sobrietà del cibo e la povertà del vestire. L’essenzialità del suo messaggio spirituale è connessa all’essenzialità del suo vivere, del suo essere corpo, voce, attesa. Egli può chiedere di convertirsi e di preparare la strada al Signore perché vive in prima persona tali realtà. Giovanni non si limita a preparare una strada al Signore, ma la diviene nel suo corpo, nella sua persona. La traiettoria della sua vita diventa la parabola che Gesù stesso seguirà. Giovanni è il «precursore» non solo nel senso che viene prima di Gesù, ma anche nel senso che il percorso esistenziale che egli vive sarà anche quello, con tutte le grandi differenze legate alle due persone, che Gesù conoscerà. Infine Giovanni è presentato nell’umiltà, ulteriore realtà che consente l’incontro con il Signore. Il ministero del Battista è riferito a colui a cui egli apre la strada, è tutto teso a lui: egli è il messaggero di fronte al Veniente, la voce di fronte alla Parola, il servo di fronte al Signore, colui che battezza con acqua di fronte a colui che battezzerà con lo Spirito santo.

Quest’ultimo aspetto suggerisce un ulteriore spunto: Giovanni, figura essenziale per Gesù secondo la comune testimonianza dei quattro vangeli, rinvia anche alla necessaria mediazione di un uomo per poter preparare la strada al Signore. Giovanni, che precede Gesù e nella cui scia Gesù si porrà, è figura di accompagnamento spirituale. Così questa pagina, che presenta gli inizi del vangelo, diviene anche memoria degli inizi della fede del cristiano: memoria del battesimo, dell’azione dello Spirito, dell’ascolto della Parola, della mediazione di paternità spirituale di un uomo.

Il vangelo di Marco inizia nel deserto. È nel deserto che Giovanni grida e annuncia. Nel luogo marginale e decentrato, di solitudine e silenzio, di ascesi e di ritiro. Tanto che verrebbe da chiedersi: a chi grida Giovanni?  E perche? A che scopo? Non è folle tutto ciò? Eppure la sua voce trova nel deserto lo spazio per farsi sentire e proprio nel deserto manifesta la sua forza profetica: lontana dai centri del potere (politico e religioso), la parola ritrova la sua limpidezza e genuinità, la sua forza e autorevolezza, la sua capacità di aprire strade e orizzonti, di dare senso e speranza, ovvero, di essere profetica. Nel deserto la parola può purificarsi e liberarsi dalle mistificazioni e smascherare con chiarezza gli idoli, può decongestionarsi dai luoghi comuni e dalle frase fatte, dai conformismi e dagli accomodamenti. Essa appare piena di senso e attrae la gente, non induce ad averne paura anche se è esigente; spinge le persone a un esodo, a un cammino nel deserto per incontrare il Signore, a un cammino verso Giovanni, o meglio, verso Colui che sta per venire e di cui Giovanni e la sua parola sono segno. E quel cammino fa già parte della preparazione della strada del Signore.

 

Preghiere e racconti


Il Precursore di Gesù

San Gregorio Magno commenta che il Battista “predica la retta fede e le opere buone … affinché la forza della grazia penetri, la luce della verità risplenda, le strade verso Dio si raddrizzino e nascano nell’animo onesti pensieri dopo l’ascolto della Parola che guida al bene” (Hom. in Evangelia, XX, 3, CCL 141, 155).

Il Precursore di Gesù, posto tra l’Antica e la Nuova Alleanza, è come una stella che precede il sorgere del Sole, di Cristo, di Colui, cioè, sul quale  secondo un’altra profezia di Isaia  “si poserà lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore” (Is 11,2).Nel Tempo dell’Avvento, anche noi siamo chiamati ad ascoltare la voce di Dio, che risuona nel deserto del mondo attraverso le Sacre Scritture, specialmente quando sono predicate con la forza dello Spirito Santo. La fede, infatti, si fortifica quanto più si lascia illuminare dalla Parola divina, da “tutto ciò che  come ci ricorda l’apostolo Paolo  è stato scritto prima di noi… per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza” (Rm 15,4).

Il modello dell’ascolto è la Vergine Maria: “contemplando nella Madre di Dio un’esistenza totalmente modellata dalla Parola, ci scopriamo anche noi chiamati ad entrare nel mistero della fede, mediante la quale Cristo viene a dimorare nella nostra vita. Ogni cristiano che crede, ci ricorda sant’Ambrogio, in un certo senso concepisce e genera il Verbo di Dio” (Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 28).Cari amici, “la nostra salvezza poggia su una venuta”, ha scritto Romano Guardini (La santa notte. Dall’Avvento all’Epifania, Brescia 1994, p. 13). “Il Salvatore è venuto dalla libertà di Dio… Così la decisione della fede consiste… nell’accogliere Colui che si avvicina” (ivi, p. 14). “Il Redentore  aggiunge  viene presso ciascun uomo: nelle sue gioie e angosce, nelle sue conoscenze chiare, nelle sue perplessità e tentazioni, in tutto ciò che costituisce la sua natura e la sua vita” (ivi, p. 15).

Alla Vergine Maria, nel cui grembo ha dimorato il Figlio dell’Altissimo, e che mercoledì prossimo, 8 dicembre, celebreremo nella solennità dell’Immacolata Concezione, chiediamo di sostenerci in questo cammino spirituale, per accogliere con fede e con amore la venuta del Signore.

(BENEDETTO XVI, Le parole del Papa alla recita dell’Angelus, 05.12.2010)


Il cristiano è un prigioniero

Prigioniero di una vita: la vita di Cristo. Non è il propagandista di un’idea, ma il membro di un corpo che vive e che vuole crescere.

Prigioniero di un pensiero: non è un libero pensatore, né il propagandista di un’idea, ma la voce di un altro: “la voce del Padrone”.

Prigioniero di uno slancio: di un desiderio a misura di Dio, che vuole salvare ciò che è perduto, guarire ciò che è malato, unire ciò che è separato, perpetuamente ed universalmente.

Essere cristiano è essere prigioniero di uno stato di fatto, prigioniero di dimensioni che da ogni lato non sono più le nostre, prigioniero, se posso dire, di una libertà che ha scelto in anticipo per noi.

È in questa cattività che il missionario deve annunciare il Cristo che egli vive, annunciare un messaggio che ha ricevuto e che non deve modificare; trasmettere una salvezza che non viene da lui e che ha la misura del mondo intero. Quel Cristo che egli vive, non può modificarlo. Ne è prigioniero. Quel messaggio, non può modificarlo. Ne è prigioniero. Quella salvezza non può restringerla. Ne è prigioniero.

(Madeleine DELBREL, Noi delle strade, Milano, Gribaudi, 2008, 19-20).

 

Il deserto

«Il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce […] Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che “Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio”».

(Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 50-51).

 

La nascita della voce

«Giovanni sembra posto nel mezzo, quasi limite dei due Testamenti, dell’Antico e del Nuovo. Quello che ho detto, che in certo modo è il limite, lo afferma lo stesso Signore dicendo: «La Legge e i Profeti fino a Giovanni» (Lc 16,16). Impersona così l’Antico e annuncia il Nuovo. […] La lingua di Zaccaria si scioglie perché nasce la voce; infatti a Giovanni che ormai annunziava il Signore, è chiesto: «Tu chi sei?» ed egli rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto» (Gv 1,22-23). Giovanni era la voce, il Signore, invece, «in principio era la Parola» (Gv 1,1); Giovanni voce nel tempo, Cristo in principio Parola eterna. Togli la parola; che cos’è la voce? Se non ha nulla di comprensibile è soltanto rumore. La voce senza la parola colpisce l’orecchio, ma non edifica il cuore […] E poiché è difficile distinguere la parola dalla voce, anche Giovanni fu creduto Cristo. La voce fu creduta parola, ma la voce confessò chi era per non recar danno alla Parola. Disse: «Io non sono il Cristo, né Elia, ne un profeta» (Gv 1,20-22). Gli fu chiesto: «Dunque chi sei?». Disse: «Io sono la voce di uno che grida nel deserto: preparate la via al Signore» (Gv 1,23). «Voce di uno che grida nel deserto», voce di uno che spezza il silenzio. «Preparate la via al Signore»; è come se dicesse: «Per questo grido, per introdurre lui, [il Signore,] nel cuore, ma non accetta di venire laddove io voglio farlo entrare se non gli preparate una via». Che cosa vuol dire «preparate la via», se non: «innalzate suppliche degne?». Che cosa vuol dire «preparate la via», se non «siate umili nei vostri pensieri?». Da lui stesso prendete esempio di umiltà. È ritenuto il Cristo, dice di non essere ciò che è creduto e non sfrutta l’errore altrui per la propria gloria […] Si umiliò, vide dove stava la sua salvezza: comprese di essere una lampada ed ebbe timore perché non venisse spenta dal vento della superbia».

(AGOSTINO, Discorso 293, 2-3, in Opere di Sant’Agostino, Discorsi 5, pp. 224-226).

 

Cammino

Nel chiaro-oscuro del mio cuore

dove nascono le mie decisioni,

me ne rendo conto:

la strada stretta del tuo Vangelo

è la sola che mi allarga

alle mie piene dimensioni di umanità.

Ma quanto è compromettente, Signore,

il tuo strano cammino luminoso!

Ed è per questa ragione che in esso mi impegno

con tanta prudenza,

un po’ in avanti, un po’ indietro,

un’azione che si ferma

prima di raggiungere l’assoluto,

una parola taciuta prima di coinvolgermi

in un’accettazione definitiva,

una mano tesa timidamente

e subito ritirata,

per paura di essere preso sul serio

per un “sì” che dice impegno.

Avanzare su questa strada,

mi rendo conto, Signore,

è lo stesso che perdersi

perché conduce al limite estremo

dell’offerta di sé,

della trasformazione interiore,

dell’umiltà e dello sguardo favorevole,

e del mettersi in ginocchio per servire il prossimo!

(A. HARI – C. SINGER, In cammino Natale, Bologna, EDB, 2005).

 

Carissimo Dio,

Ho un po’ di tempo libero e ho pensato di scriverti una lettera. Dio,…ho scritto il tuo nome e son rimasto un po’ in silenzio…ma non cancello niente…Dio. Ti dicevo che sento tante parole belle…I preti, quando arriva il tempo d’avvento, dicono che “Tu sei con noi”. Sì, ripetono: “Dio è con noi”. Io, a dir la verità, non ci credo più di tanto. In realtà le cose son ben diverse. Non può essere vero che Tu sei con noi….Cioè, vorrei sapere, da parte di chi stai? Perché non puoi stare con tutti….siamo così diversi… se è vero che stai con gli uni…non puoi stare con gli altri…non ti guarderebbero più in faccia….Insomma, forse è meglio non sapere con chi stai…così viviamo pensando che ci stai…ma forse non ci stai. O Dio, dove sei?…

Ecco il tuo silenzio. Quel silenzio che non dice niente. Dio mi lasci da solo nella sala di attesa. Sembra che non vuoi aprirmi la tua porta, che possa riscaldarmi al tuo fuoco…Io so che tu parli. Così almeno mi hanno detto. Io, a volte, tento di entrare in sintonia con te….ma, niente….non sento proprio niente…..

Ieri con me c’ era un uomo nella sala di attesa. Alla fine si è stancato di aspettare ed è andato via. Mi ha detto  che forse era una tua furbizia. Che Tu dici che ci sei, ma in realtà Tu non vuoi parlare con noi. Quest’uomo anche mi ha detto che se Tu in realtà pensi veramente di arrivare un giorno, basta farli una telefonata. Così sarà più semplice e la smetti di giocare con noi…e, ti prego,…non farci aspettare troppo…

Io ti racconto tutto questo perché così sai come andiamo quaggiù… Tanti preferiscono fare altre cose mentre aspettano. Altri hanno aspettato qualcuno che si è fatto trovare senza tanta fatica………..

Ma, io preferisco aspettare Te: spero la tua venuta. A volte penso che Tu in realtà vieni da noi ma siamo noi che non ti riconosciamo. Forse non arrivi vestito come mi avevano detto…

Ecco, Dio, in questa situazione mi trovo, cercandoti ancora. Sì, io ti cerco. Ma devi sapere che cerco anche altre cose…..e ho paura che, magari, Tu arrivi proprio quando io sono andato a “prendermi un po’ d’aria”…Sempre che esco, torno a casa con più cose.

Ma, Dio, io ti cerco. Continuo a guardare in alto per vederti arrivare….ma sto pensando che forse dovrei guardare in basso…..oppure  guardare più dentro di me??? Beh! Non lo so…

Un abbraccio Dio, non mi mancare,

 

L’uomo d’avvento

Preghiera

Mi sorprende anche quest’anno la tua promessa, Signore: mentre sono in cammino con la Chiesa, per prepararmi al natale, sentire che sei tu ad aprirmi una strada per la conversione.

Mi apri una strada raggiungendomi con la tua Parola: mentre io la ascolto spesso stancamente e senza entusiasmo, tu mi ricordi che l’incontro con essa è più forte della potenza degli imperi e dei grandi di questo mondo e che trasforma anche la mia vita in storia di salvezza. Insegnami ad ascoltare, insegnami il silenzio.

Mi apri una strada promettendo di abbattere monti e colmare valli. Se non fosse perché lo dici tu, sarei tentato di pensare che si tratti per me di una battaglia persa in partenza: che io non smetta, Signore, di lottare contro le montagne dell’orgoglio, dell’ira, dei vizi e non mi spaventi per le lacune della mia risposta poco generosa.

Mi apri una strada indicandomi i tanti deserti che trovo intorno a me e gli spazi vuoti che la nostra carità non sa mai colmare: che io possa, Signore, fare la mia parte, senza scoraggiarmi per il tanto che non posso e non so fare.

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

– G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999

I Domenica di Avvento (annoA)

I DOMENICA DI AVVENTO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Isaia 63,16-17.19; 64,2-7

 

Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, cosi che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità. Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti. Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo, tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti.

Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te,  abbia fatto tanto per chi confida in lui. Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie. Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.

Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani.

 

v Nel suo contesto originario di «preghiera penitenziale», questo testo composito di Isaia, può essere considerato come una riflessione sulla storia della salvezza. Da una parte essa si sofferma su quanto Dio ha fatto per il popolo biblico («Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te abbia fatto tanto per chi confida in lui»). Dall’altra confessa le incorrispondenze e le infedeltà che, lungo la sua storia, questo stesso popolo ha accumulato, fino a trasformare l’identità di Dio «padre» e «redentore» in un avversario che di esso più non si prende cura («Avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità… ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore»).

Certo, il tempo di avvento non è tempo penitenziale come la quaresima. L’avvento è il tempo della preghiera, dell’attesa, della gioia messianica, il tempo mariano per eccellenza. Tuttavia, questo testo contiene una preghiera che proprio la liturgia dell’avvento ci propone con frequenza, riferendola alla nascita di Gesù («Se tu squarciassi i cieli e scendessi!»).

Come pure, in questo tempo liturgico ci verrà proposto con più assiduità (nelle letture della messa e della Liturgia delle ore) il libro del profeta Isaia. Per la sua promessa di salvezza e per le sue profezie messianiche — che si realizzeranno in Gesù — Girolamo non esitava a chiamare questo profeta «il primo degli evangelisti».

Il termine «redentore», riferito a Dio, traduce l’ebraico goèl, che si applicava a colui che si impegnava a riscattare un parente venduto come schiavo o a vendicarne la morte. Israele, schiavo dei suoi peccati e delle sue infedeltà, tende le mani a Dio per ricordargli che lui solo può diventare suo goèl, «redentore», come lo era stato al tempo della schiavitù egiziana e all’epoca dell’esilio in Babilonia. Questo intervento è motivato dal rapporto filiale che lega Israele a JHWH «Tu sei nostro padre», anche se non ancora nel senso pieno del NT), e che lega ogni uomo alla divinità (noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani).

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 1,3-9


 

Fratelli, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!

Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza.  La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!

 

v «Grazia» e «pace» sono le parole con le quali Paolo inizia il suo scritto ai Corinzi e con le quali abitualmente saluta i destinatari delle sue lettere. Il termine charis (in greco, «grazia») va compreso in tutta la sua portata salvifica: esso indica il dono, il favore che Dio fa all’uomo, soprattutto attraverso la persona di Gesù, il salvatore dell’umanità. Il termine eirène (in greco, «pace») indica invece la nuova condizione di vita in cui la salvezza ha collocato il credente: una condizione di perdono, di riconciliazione, di amicizia con Dio e di fraternità con il prossimo. Essa, tuttavia, si realizzerà pienamente solo quando «la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo» sarà totale e definitiva.

Il brano — come si vede anche per il vangelo — è stato scelto e proposto per questo richiamo alla venuta del Signore, che san Paolo ama chiamare con il termine greco parousìa («presenza», «venuta» del Signore). Si tratta della seconda venuta del Signore. E, come dicevamo sopra, l’avvento ci propone, per queste due prime domeniche la riflessione su questa seconda venuta, suggerendoci gli atteggiamenti e le disposizioni per meglio prepararla.

 

Vangelo: Marco 13,33-37


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

 

Esegesi

 

Il brano evangelico contiene la conclusione del «Discorso escatologico» che, nei vangeli sinottici, precede il racconto della passione. L’averlo scelto per questo tempo di avvento — che ha inizio con questa domenica — è motivato dal fatto che le prime due domeniche di questo tempo liturgico sono orientate alla riflessione sulla seconda venuta del Signore, quella finale. I testi della celebrazione eucaristica (comprese le preghiere) ci collocano quasi alla fine del tempo e del mondo e ci propongono gli atteggiamenti da avere per andare incontro al Signore Gesù. Le altre due domeniche (la III e la IV) sono invece dedicate alla preparazione della venuta storica di Gesù di Nazareth nel suo natale.

La parola chiave del brano evangelico è il verbo «vegliare». Nel suo significato etimologico esso indica «scacciare il sonno», «stare svegli» (in greco, agrypnèo), soprattutto nel momento in cui il sonno — inteso anche nel significato di assopimento spirituale — sembra vincere ogni resistenza che gli viene opposta (vedi Salmo 13,4: «…conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte»). È, quindi, il verbo che meglio descrive il cristiano come uomo di attesa e di avvento, nonostante le molte tentazioni a fermarsi, a voltarsi indietro, ad assopirsi.

Accanto a questo verbo, il brano evangelico ne propone altri, come «fare attenzione» (ripetuto quattro volte in questo discorso di Gesù:  vv. 5.9.23.33) e «vigilare» (v. 35, in greco, gregorèo, quasi un sinonimo di «vegliare»). Si tratta di un richiamo molto importante per il credente: è, infatti, un momento particolare e decisivo quello della venuta del Signore — chiamato con il termine greco kairòs, che significa il tempo esatto, il momento preciso della salvezza — e il credente non vi può giungere impreparato, rischiando il fallimento totale della propria esistenza. «Alla sera, a mezzanotte, al canto del gallo, al mattino»: queste quattro indicazioni cronologiche indicano la suddivisione delle ore della notte presso i Romani in quattro veglie (corrispondenti ai quattro turni di guardia — o «vigiliae» — delle sentinelle dalle 18 alle 6 del mattino). Gli Ebrei, invece, dividevano la notte in tre veglie.

 

Meditazione


La venuta escatologica del Signore: questo il centro dell’annuncio che proviene dalla pagina evangelica. In Isaia troviamo l’implorazione che il Signore intervenga e porti la salvezza a un popolo che vive nell’angoscia e nelle tenebre; nel vangelo Gesù chiede di vigilare in vista della venuta finale del Figlio dell’uomo che accadrà nella notte del mondo; Paolo, rivolgendosi a una comunità lacerata da divisioni, ribadisce che il nome dei cristiani è «quelli che attendono la manifestazione di Gesù Cristo» (1Cor 1,7).

L’annuncio della venuta del Signore e il comando di vigilare interrogano il credente sul suo rapporto con il tempo. Rapporto molto problematico per noi che «non abbiamo tempo» e particolarmente drammatico oggi che il futuro ha cambiato di segno e da sinonimo di promessa è divenuto sinonimo di minaccia. Sicché suscita paura più che speranza, incita al ripiegamento su di sé e non allo slancio creativo e progettuale.

La vigilanza richiesta non si limita alla veglia nella notte, ma vuole condurre l’uomo a essere all’altezza della propria umanità e della propria fede. Vigilare significa avere i sensi svegli, resistere al rischio dell’ottundimento che il trascorrere del tempo può far nascere. Significa aderire alla realtà, senza fuggire nell’immaginazione e nell’idolatria; significa essere responsabili verso se stessi, il proprio corpo, la cose e le relazioni, gli altri, la propria condotta, il proprio ministero, e infine verso Dio stesso. E ciò che si oppone al lasciarsi andare e all’indifferenza.

Colui che vigila assume coscientemente il proprio ministero e lavora svolgendo il compito che gli è stato affidato. La vigilanza è fedeltà alla terra nella piena coscienza di essere alla presenza di Dio. La vigilanza nasce da un’unificazione della persona di fronte al Signore che la conduce a essere lucida, presente a se stessa, alla realtà, agli altri. Il vescovo è «colui che veglia» (epískopos) sul gregge affidategli. Ma la vigilanza è una responsabilità di tutti i cristiani, che non può essere delegata all’uno o all’altro: «Quello che dico a voi lo dico a tutti: vigilate!» (v. 37).

La vigilanza è la matrice di ogni virtù cristiana, la tela di fondo che da unità alla fede. Un padre del deserto ha affermato: «Non abbiamo bisogno di nient’altro che di uno spirito vigilante» (abba Poemen). E Basilio: «Proprio del cristiano è vigilare ogni giorno e ogni ora ed essere pronto nel compiere perfettamente ciò che è gradito a Dio, sapendo che all’ora che non pensiamo il Signore viene». La vigilanza conduce il cristiano a una memoria mortis non disperata, ma vissuta alla luce del Signore che viene.

Costitutivo della vigilanza è l’attenzione («State attendi»: v. 33). Si tratta di una tensione interiore di tutta la persona verso il fine assegnato alla vita. È un movimento di unificazione personale estremamente dinamico: è il fondamento spirituale dell’azione. L’attenzione è già preghiera: è invocazione, anelito, implorazione, ma poi anche discernimento, riconoscimento, contemplazione della presenza del Signore.

Colpisce che secondo la parabola dell’uomo partito per un lungo viaggio, il momento del suo ritorno sarà nella notte. Tempo in cui occorre tenere gli occhi ben aperti, in cui è più difficile non lasciarsi sopraffare dal sonno, in cui occorre lottare contro la pesantezza del corpo e dell’animo. In cui più che mai si deve attuare la vocazione dei cristiani ad essere luce. La notte è simbolo di tempi bui, di tenebre interiori e storiche, personali e comunitarie, civili ed ecclesiali. La venuta del Signore non le abolisce, ma è proprio in esse che egli viene già oggi, nel quotidiano della vita. Si tratta di abitare la notte acuendo lo sguardo spirituale, lottando contro la pigrizia, vigilando. La notte è il tempo della tentazione e questo tempo è il nostro oggi. L’attesa della venuta del Signore diviene così sforzo di discernimento dei segni della sua presenza.

 

Preghiere e racconti


Uomini di avvento

«La salvezza è una sola: che noi ricominciamo a ricordare e ad accettare umilmente quello che noi siamo. E siamo uomini, e a noi è affidato e concesso avere come destino Dio stesso; a noi sin dall’inizio Dio ha donato la sua vita divina, e per questo il nostro divenire umano deve compiersi nello splendore fiammeggiante di Dio.

[…] Dobbiamo soltanto diventare sensibili a quell’anelito del nostro cuore, -sempre oppresso e pure mai del tutto soffocato, e più esperto di qualunque astuzia-, che vuole proteggere se stesso. In questo modo siamo già veri uomini dell’avvento, che lasciano realmente che Dio venga in loro e hanno per lui un interrogativo sempre pronto; uomini che cercano il tenue apparire del volto di Dio non soltanto nel passato, ma anche nel proprio futuro, trovando proprio in questo il Dio della loro storia. Avremo anche una sensibilità per Dio in tutto ciò che ci attende come destino di una vita matura: le tenebre del dolore e della solitudine; la notte delle amare delusioni, dove tutte le stelle sognate cadono dal cielo; il vuoto bruciante della rinuncia e della bontà mai ricambiata. Tutto quello che ci può togliere i nostri orizzonti familiari, che smantella le istituzioni della nostra sicurezza borghese e ci strappa al nostro suolo, tutto ciò noi lo sperimenteremo come forme diverse del Dio che si avvicina. Così, la nostra fede diventerà quella fede che Dio ama sopra ogni cosa (ha detto una volta Péguy): una speranza tutta tesa, senza difese, al Dio che viene.

[…] (Allora) capiremo, anche se confusamente, che nell’avvento di Dio c’ è insieme l’avvento mirabile della nostra propria esistenza, come l’amore di Dio ha misteriosamente progettato sin dall’inizio (cf. Ef 1,4). Chiaro avvento dell’interiore mistero di grazia della creatura, avvento dell’uomo nuovo nell’avvento di Dio. Allora potremo anche noi alzare la nostra testa, stanca e sopraffatta (cf. Lc 1,28), accendere le nostre lampade e cantare i nostri canti, piano e origliando se già canta con noi colui che è il nostro beato futuro: DIO».

(J.B. METZ Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974, 37-42).

 

Attenzione e vigilanza

Giocando sull’assonanza fra prosoché (attenzione) e proseuché (preghiera) l’antica tradizione cristiana ha affermato lo stretto legame tra queste due realtà: «L’attenzione che cerca la preghiera troverà la preghiera: la preghiera infatti segue all’attenzione ed è a questa che occorre applicarsi» (Evagrio Pontico). In tempi più recenti Simone Weil, riprendendo Malebranche, ha parlato dell’attenzione in termini di preghiera. L’attenzione è la preghiera naturale che l’uomo fa alla verità interiore perché gli si disveli. L’attenzione è faticosa e dolorosa e nell’animo umano vi è qualcosa che vi si oppone con grande veemenza, molto più violentemente di quanto alla carne ripugni la fatica.

All’attenzione si accompagna la vigilanza. Il «vigilante» è l’uomo sveglio, non addormentato, non intontito, è l’uomo lucido e critico, non passivo, è l’uomo responsabile e cosciente. È l’uomo che si lascia colpire e interpellare dagli eventi. Come dimenticare che l’esperienza che ha condotto il Budda allo stato di «svegliato», di «illuminato», è passata attraverso la presa di coscienza della tragica esperienza della malattia, della vecchiaia e della morte? L’homo vigilans è presente a sé e agli altri, alle realtà umane e storiche, ha radici in se stesso e non attende dall’esterno di sé la conferma al proprio agire e alla propria identità. È l’uomo paziente e perseverante, profondo, capace di dare continuità ad una scelta… Non stupisce che un padre del deserto abbia detto: «L’unica cosa di cui abbiamo bisogno è uno spirito vigilante» (Abba Poemen). All’opposto dell’homo vigilans si colloca l’homo dormiens, colui che resta al di qua delle proprie possibilità, che ha paura, che vive orizzontalmente più che in profondità, che si disperde in mille cose da fare o in tante cose da possedere, che è pigro e negligente, che trascina la sua vita come se fosse illimitata considerandola un divertissement.

È colui che non ha passione, è nella sonnolenza, cioè nella morte. Nella mitologia greca Hypnos (Sonno) è gemello di Thanatos (Morte)! Il vigilante è colui che lotta contro il sonno e dunque contro la morte ponendosi come uomo di luce.

(Luciano MANICARDI, La vita interiore oggi. Emergenza di un tema e sue ambiguità, Magnano, Qiqajon, 1999, 20-21).

 

Il desiderio della venuta del Signore

Noi aspettiamo il giorno anniversario della nascita di Cristo: il nostro spirito dovrebbe come slanciarsi, pazzo di gioia, incontro al Cristo che viene, tutto teso in avanti con un ardore impaziente, quasi incapace di contenersi e di sopportare ritardo… Chiedo per voi, fratelli, che il Signore, prima di apparire al mondo intero, venga a visitarvi nel vostro intimo. Questa venuta del Signore, sebbene nascosta, è magnifica, e getta l’anima che contempla nello stupore dolcissimo dell’adorazione. Lo sanno bene coloro che ne hanno fatto l’esperienza; e piaccia a Dio che quelli che non l’hanno fatta ne provino il desiderio!

(GUERRICO D’IGNY, Sermoni per l’avvento del Signore, II, 2-4).

 

L’attesa, una maniera di vivere

«La nascita è un’attesa

ma, contrariamente

a ciò che si vorrebbe credere,

l’attesa non è una parentesi:

è una maniera di vivere…».

(Jean DEBRUYNE, Nascere, Ed. Paoline).

 

Essere svegli

Un giovane chiese al maestro: “Che cosa devo fare per salvare il mondo?”.

Il saggio rispose: “Tutto quello che serve per far sorgere il sole domani mattina”

“Ma allora a cosa servono le mie preghiere e le mie buone azioni, il mio impegno?”.

Il saggio lo guardò con tranquillità e gli rispose: “Ti servono ad essere ben sveglio quando sorgerà il sole”.

 

La vigilanza

Il credente si prepara alla lotta spirituale con la vigilanza: il NT chiede a più riprese di essere sobri e temperanti, di stare in guardia, di vegliare, di stare svegli, di stare  attenti, di essere pronti. La vigilanza è atteggiamento umano e spirituale con cui l’uomo è presente a se stesso e a Dio: è attitudine di lucidità e di criticità che lo mantiene perseverante e non distratto, non dissipato. L’uomo vigilante è attento a tutto il reale, lucido nei confronti di se stesso e della realtà, attento agli eventi e agli incontri, sollecito al proprio ministero, responsabile, capace di pazienza e di profondità. Al contrario, chi non vigila è un uomo addormentato, intontito, che vive sotto il segno della paura, della superficialità, della pigrizia e della negligenza. È l’uomo che teme il faccia a faccia con se stesso, che preferisce la tenebra alla luce, che evita di mettersi in discussione e di confrontarsi… In obbedienza al comando del Signore («Vegliate e pregate per non soccombere nella tentazione»: Matteo 26,41), la tradizione spirituale ha associato la vigilanza alla lotta spirituale e alla preghiera, che di tale lotta è l’arma per eccellenza, ed ha fatto della vigilanza l’arte della purificazione dei pensieri, della “custodia del cuore”, il momento fondamentale della lotta contro il peccato. È dunque ovvio che, nella formazione alla lotta spirituale, occorre condurre alla adesione alla realtà (e anzitutto alla realtà propria, personale, riconoscendo e dando il nome alle lacune, alle debolezze e alle negatività che ci abitano) e alla strutturazione dello spazio interiore (educando a leggere, pensare, interpretare gli eventi, dialogare interiormente). E questo, naturalmente, mentre si introduce all’ascolto della Parola di Dio nella Scrittura, dunque alla conoscenza del Signore.

(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI [PIEMONTE-VALLE D’AOSTA], Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 143-144).

 

Vigilanza nella solitudine

Poco tempo fa un prete mi ha detto di avere annullato l’abbonamento al New York Time perché si era accorto che le continue cronache di guerre, di delitti, di giuochi di potere e di manipolazioni politiche non facevano altro che disturbargli la mente ed il cuore, impedendogli di meditare e di pregare.

È una storia triste, perché fa nascere il sospetto che solo cancellando il mondo vi si possa vivere, che soltanto circondandosi di una calma spirituale, da noi stessi creata, si possa condurre una vita spirituale. Una vera vita spirituale, invece, fa esattamente il contrario: ci rende tanto vigili e consapevoli del mondo che ci circonda, che tutto ciò che esiste e che accade entra a far parte della nostra contemplazione e della nostra meditazione, invitandoci a rispondere liberamente e senza timore.

È questa vigilanza nella solitudine che muta la nostra esistenza. La differenza sta tutta nel modo in cui guardiamo e ci rapportiamo alla nostra storia personale, attraverso la quale il mondo ci parla.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 44-45).

 

Tu vegli su noi

Mio Dio, io sono convinto che tu vegli

su coloro che sperano in te,

e che non si può mancare di nulla

quando da te si attende ogni cosa,

per cui ho deciso di vivere in avvenire

senza alcuna preoccupazione

e di deporre in te

tutte le mie inquietudini…

Gli uomini possono spogliarmi

dei beni e dell’onore,

le malattie possono togliermi

le forze e i mezzi per servirti,

io posso perfino perdere

la tua grazia col peccato,

io non perderò mai la speranza,

ma la conserverò

fino all’ultimo istante

della mia vita.

(Jean Guitton, Preghiere per L’Anno Santo).

 

Preghiera

Signore del giorno e della notte,

Dio del cielo e della terra,

si avvicina l’ora della tua venuta.

Non lasciarci intorpidire in un’attesa sonnolenta.

Desta i nostri cuori alla Parola

che non cessi di rivolgerci

attraverso i secoli dei secoli.

 

Padrone dello spazio e del tempo,

nostro Dio, nostro Padre,

non lasciarci riaddormentare:

rendici attenti all’occasione di salvezza che ci offri,

a questi segni incipienti del Regno del tuo Figlio

che vive presso di te e tra noi

ora e sempre.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

– G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

Cristo Re dell’universo (anno A)

CRISTO RE DELL’UNIVERSO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Ezechiele 34,11-12.15-17

 

Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine.

Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia. A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.

 

v La pericope consolatoria fa parte dei quattro oracoli sul tema del «pastore»: il primo è un oracolo minaccioso contro gli indegni pastori d’Israele (34,1-10), il secondo, da cui è estrapolato il brano in questione presenta JHWH come pastore di salvezza (34,1-16); il terzo ritorna a minacciare i cattivi pastori (34,17-22); il quarto è la promessa della venuta

di Davide come pastore e principe.

Il Signore rassicura il suo popolo: egli stesso interverrà a riorganizzare la comunità a lui fedele, togliendola ai cattivi pastori, e verrà a prendersi cura personalmente di ciascuno dei suoi. La parola del Signore Dio diventa motivo di speranza per il suo popolo, egli sarà per i suoi eletti come il pastore che ama il suo gregge e passa continuamente in mezzo ad esso per assicurarsi che nessuno manchi. Recupererà le pecore dovunque esse siano disperse e le ricondurrà nei verdi pascoli. Le passerà in rassegna una ad una, si renderà conto dei bisogni di ciascuna: curerà quella malata, fascerà quella ferita, ricondurrà all’ovile quella smarrita, ma non si dimenticherà neppure della grassa e della forte. Tutte pascerà con giustizia e per tutte emetterà il suo giudizio separando le pecore e le capre.

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 15,20-26.28


Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.

Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.  E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

 

v Il capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi, che presenta una profonda riflessione di Paolo sul grande tema teologico della risurrezione dei morti, occupa un posto centrale nell’economia della lettera stessa e spesso viene considerato come uno dei punti focali per la lettura e l’interpretazione di tutto lo scritto.

Il capitolo si articola in due grandi parti: la prima (vv. 1-34), della quale fanno parte i versetti che si proclama nella seconda lettura della liturgia eucaristica di questa domenica, affronta l’interrogativo di fondo sulla risurrezione dei cristiani, affermando e motivando la loro speranza nella risurrezione di Cristo, «primizia» di coloro che sono morti; la seconda (vv. 35-58) analizza il problema circa la «modalità» della risurrezione dei corpi e ne sottolinea la differenza rispetto alla condizione umana e terrena.

Paolo intende mettere in evidenza il legame fra la risurrezione di Cristo e la futura risurrezione dei credenti. La risurrezione di Gesù non è un fatto isolato e unico. Cristo è bensì il primo di quanti lo seguiranno sulla stessa via. Gesù è primizia, il primo frutto del campo. Egli non è il primo solo in ordine cronologico, ma è il primo in ordine di un «inizio»: dopo di lui, che comincia, verranno tutti gli altri. Il rapporto è intrinseco, in forza di Cristo risorto anche gli altri risorgeranno: egli è il principio attivo, la causa della risurrezione di quanti sono a lui intimamente legati.

Il parallelismo con Adamo serve a Paolo per spiegare il legame del credente con Cristo e si serve di una concezione teologica assodata: la trasmissione del peccato di Adamo. Detto questo, Paolo fa riferimento agli eventi della fine: venuta gloriosa di Cristo (parusia), realizzazione completa del suo dominio regale su ogni forza contraria, regno conclusivo di Dio. Paolo nella descrizione assume lo stile convenzionale dell’escatologia e dell’apocalisse: la fine, la sconfitta delle potenze malvagie; ma gli eventi ultimi sono caratterizzati da Cristo, dalla sua apparizione e dal suo dominio regale; la risurrezione dei credenti fa parte del suo futuro di vincitore.

Paolo accenna anche ad alcune fasi che hanno fatto pensare che egli prospettasse una fase del regno di Cristo caratterizzata dalla risurrezione dei credenti distinta da quella ultima del regno di Dio. In realtà l’unica vera distinzione di tempi è quella tra Cristo, il primo, e i credenti. La scansione successiva serve solo all’autore per sottolineare la ricchezza dell’evento che, iniziato con la risurrezione di Cristo, avrà il suo compimento definitivo nel futuro del suo regno pienamente realizzato, che comporta la risurrezione o la vittoria sulla morte e che sfocia in Dio.

 

Vangelo: Matteo 25,31-46


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.

Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.  Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.  Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.  E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

 

Il vangelo in immagini

XXXIV DOM TEMP ORD CRISTO RE ANNO A

 

Esegesi


Questa pagina evangelica riporta la chiusura del discorso escatologico, sulla venuta del Figlio dell’uomo, con una descrizione grandiosa della scena del giudizio finale (vv. 31-46). S’impone all’attenzione per la forza del suo messaggio e per la suggestione della sua scenografia, ricca e colorita, e per la presenza di un duplice dialogo.

Si tratta di un testo di largo respiro universalistico che presenta l’appartenenza al regno come concreta conseguenza della reale accoglienza del fratello bisognoso. Il dramma del giudizio si svolge secondo due momenti preceduti da una introduzione (vv. 31-33) che presenta la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo, la convocazione dei popoli e la loro separazione.

La parte centrale (vv. 34-45) presenta il dialogo del re prima con quelli di destra e poi con quelli di sinistra; la conclusione descrive l’esecuzione delle sentenze con la doppia via a cui si avviano giusti e ingiusti. Il giudice è chiamato «Figlio dell’uomo» e «re». La presentazione di Gesù di Nazareth è solenne e gloriosa; egli è il Messia perseguitato, crocifisso e ucciso e che ora si presenta glorioso e risorto. È il Figlio dell’uomo non più legato alla debolezza e alla fragilità della condizione umana, ma è il re vittorioso, il giudice universale del mondo intero.

Un giudice, tuttavia che pronuncia il giudizio a partire dalla croce e quindi dalla logica dell’amore donato e offerto per la salvezza di tutta l’umanità. Il re che giudica svela il vero senso dell’amore apparso nel crocifisso: sterile, vuoto e senza senso per i più, ma fonte infinita di redenzione e di grazia.

La pagina evangelica ci rivela dunque il vero volto di «Cristo Re» e ci suggerisce la vera identità dell’uomo da lui redento: un uomo che si fa guidare solo dall’amore verso i fratelli e che proprio a partire da questo amore (o dall’assenza di amore) verrà giudicato.

L’immagine del re che giudica sul trono si confonde con quella del pastore che vigila e custodisce il suo gregge, rendendo il testo pienamente aderente al messaggio biblico dell’Antico Testamento. Risalta pure l’opposizione fra i due gruppi che sono in relazione con il re che siede sul trono: quelli che stanno alla sua destra e quelli che stanno alla sua sinistra. Opposizione che sarà ripresa e scandita alla fine del brano con la «benedizione» per i primi e con la «maledizione» per i secondi; con l’ingresso nel regno «preparato per voi fin dalla creazione del mondo» per i primi, con l’abbandono nel fuoco eterno «preparato per il diavolo e i suoi angeli» per i secondi; con l’identificazione dei primi con «i miei fratelli più piccoli» e con la presentazione lapidaria dei secondi chiamati «quelli».

L’elenco delle situazioni di bisogno alle quali corrispondono l’opera prestata o negata segue ancora uno schema di raggruppamento a due e percorre in modo sintetico tutta la condizione umana e bisognosa dell’uomo.

In questo testo Matteo sottolinea l’importanza di rendere conto a Cristo di tutte le azioni «fatte o non fatte», alla luce di quanto era stato già anticipato nel grande discorso della montagna (Mt 7,21-23). Matteo sottolinea inoltre che l’essenziale della vita cristiana non sta nel dire o nel confessare Cristo a parole, ma nel praticare l’amore concreto per i poveri, i forestieri e gli oppressi.

Ogni aiuto che si presta al prossimo in una situazione di bisogno è un aiuto dato a Gesù stesso, ha un valore permanente e imperituro, ci rende pronti per la vita eterna e ci apre le porte del regno dei cieli. L’omissione o il rifiuto di aiuto causa la rovina nel giudizio e conduce al castigo eterno.

 

Meditazione


Questa ultima domenica dell’anno liturgico presenta un messaggio escatologico centrato su un intervento di Dio che è di giudizio. Nella prima lettura Dio annuncia che egli in persona opererà un giudizio sul suo popolo, non solo nei confronti dei capi (montoni e capri), ma di ciascun membro del popolo (pecore). Il vangelo presenta Gesù quale re e giudice escatologico che separa pecore e capre, che opera il giudizio su ogni uomo basandolo sulla concreta prassi di carità. Paolo parla dell’estensione della signoria di Cristo Risorto che raggiungerà il suo apice nella sottomissione della potenza della morte che imperversa nella creazione sottomettendola a caducità.

Il giudizio è elemento centrale della fede cristiana. L’annuncio del giudizio vuole suscitare la responsabilità del credente nel mondo affinché la sua prassi unifichi misericordia e giustizia. La sua portata universale, per cui riguarda ogni uomo, va intesa anche nel senso di giudizio di tutto l’uomo, ovvero, come sguardo di Dio che fa emergere il bene e il male che abitano nel cuore dello stesso uomo: «Il medesimo uomo è in parte salvato e in parte condannato» (Ambrogio, In Ps. CXVIII Expositio, 57). Affinché Dio sia tutto in tutti, affinché solo l’amore resti e non ci sia più il male occorre il fuoco purificatore dell’incontro con il Signore che bruci ciò che in noi è contrario all’amore.

L’evocazione matteana del giudizio, con l’elemento determinante della sorpresa dei giudicati, mette a nudo il cuore dell’uomo e conduce il lettore del vangelo a interrogarsi sulla qualità della sua prassi.

Il giudizio è anche l’atto attraverso cui Dio può instaurare la sua giustizia e la sua signoria sulla storia e sull’umanità. Il giudizio è misura di giustizia divina nei confronti di tutti coloro che nella storia sono stati oppressi e sfruttati dagli uomini, che nella vita sono stati soltanto vittime, senza soggettività, senza voce, senza diritti.

Il giudizio rileva in particolare l’omissione, il peccato del non fare. Ovvero, il peccato più diffuso e che più facilmente si può coprire con giustificazioni e scuse. Il «non amare» è il grande peccato: Dio ci giudica nel malato o nel carcerato che non visitiamo, nel bisognoso di cui non ci prendiamo cura, nell’altro che non amiamo. Se il giudizio di Dio è il suo sguardo che vede ciò che abita nel cuore dell’uomo, esso smaschera anzitutto ciò che non abbiamo voluto vedere: esso vede il nostro vedere e il nostro non-vedere.

Questo sguardo di Dio giudica anche il tipo di sguardo che abbiamo sul povero e sul bisognoso. Giudica il nostro giudicare l’altro per cui un carcerato è uno che ha ciò che si merita, lo straniero è uno che disturba la nostra tranquillità, il malato è uno che sconta i suoi peccati… Il giudizio divino giudica il nostro chiudere le viscere a chi è nel bisogno (1Gv 3,17).

L’universalità del giudizio emerge anche dal fatto che si fonda sulla valutazione di gesti umani, umanissimi, fatti (o non fatti) da credenti e da non credenti. I semplici gesti di aiuto, carità e vicinanza espressi in Mt 25,31-46 costituiscono una sorta di grammatica elementare dell’umana relazione con l’altro. Una grammatica senza la quale non si potrà mai comporre una frase veramente cristiana. Il volto supplice dell’altro mi interpella: l’uomo è colui che risponde di un altro uomo.

Negli esempi di aiuto e prossimità enumerati nel testo evangelico vi è un aspetto spesso trascurato nella riflessione: la capacità di lasciarsi aiutare, di lasciarsi avvicinare, toccare, curare. La capacità e l’umiltà di lasciarsi amare fattivamente. Una capacità che rivela una dimensione di povertà più radicale della malattia o della fame o della nudità e che si chiama umiltà. L’umiltà che può nascere dalle umiliazioni operate dalla vita o procurate dagli uomini.

Come imparare a fare il bene agli altri? Dal proprio desiderio, risponde Gesù quando dice di fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi (Mt 7,12). E il desiderio che abbiamo è di essere amati, raggiunti dagli altri nel nostro bisogno. Così, «colui che fa del bene al suo prossimo, fa del bene a se stesso, e colui che sa amare se stesso, ama anche gli altri» (Antonio, Lettera IV,7).

 

Preghiere e racconti


Che cosa è tuo?

«A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro. Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso posto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riservato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti. Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi. Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sareb-be bisognoso.

Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che te li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti. Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno?

Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente. Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno. E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito.

Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur potendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra. Così commetti ingiustizia contro altrettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.

(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG 31,276B-277A).


Bellezza oltre ogni descrizione

Uno dei romanzi più noti di André Gide (1869-1951) s’intitola La sinfonia pastorale. Il libro è ambientato nella Svizzera di lingua francese negli anni Novanta (1890) e narra la storia di una complessa relazione fra un pastore protestante e Gertrude, una ragazza cieca dalla nascita.

Di particolare interesse è il modo in cui il pastore prova a comunicare a Gertrude cose come la bellezza dei prati alpini, trapuntati di fiori dai colori sgargianti, e la maestà delle montagne dalle cime innevate. Egli prova a descrivere i fiori azzurri che crescono sulla riva del fiume paragonandoli al colore del cielo, ma deve rendersi subito conto che lei non può vedere il cielo per apprezzare il paragone. In questo suo lavoro egli si sente continuamente frustrato dalla limitatezza del linguaggio che usa per far conoscere la bellezza e lo stupore della natura alla giovane cieca. Ma le parole sono il solo strumento di cui dispone. Non può che perseverare sapendo di poter comunicare solo a parole una realtà che non può mai essere completamente espressa con parole.

Allora ecco un nuovo e insperato sviluppo. Un oculista della vicina città di Losanna ritiene che la ragazza possa essere operata agli occhi in modo da ottenere la vista. Dopo tre settimane trascorse nella casa di cura, ella torna a casa, dal pastore. Adesso può vedere e sperimentare da sola le immagini che il pastore aveva cercato di comunicarle solo attraverso le parole.

“Appena ho acquistato la vista – ella disse – i miei occhi si sono aperti su un mondo più stupendo di come avrei mai potuto sognare che fosse. Sì, davvero, non mi sarei mai immaginata che la luce del giorno fosse così brillante, l’aria così limpida e il cielo così vasto”.

La realtà sorpassa di gran lunga la descrizione verbale. La pazienza del pastore e le sue goffe parole non avrebbero mai potuto descrivere adeguatamente il mondo che la ragazza non poteva vedere da sola, il mondo che chiedeva di essere sperimentato piuttosto che meramente descritto.

Per il cristiano, il mondo presente contiene indizi e segnali di un altro mondo, un mondo che possiamo cominciare a sperimentare ora, ma che conosceremo nella sua pienezza solo alla fine.

(Alister Mc Grafth, Il Dio sconosciuto, Cinisello Balsamo, 2002, 35-37).

«Voglio che sia una regina: la mia mamma”»

«C’era una volta, tanti secoli fa, una città famosa. Sorgeva in una prospera vallata e, siccome i suoi abitanti erano decisi e laboriosi, in poco tempo crebbe enormemente. Era insomma una città felice nella quale tutti vivevano in pace. Ma un brutto giorno, i suoi abitanti decisero di eleggere un re. Suonate le trombe, gli araldi li riunirono tutti davanti al Municipio. Non mancava nessuno. Lo squillo di una tromba impose il silenzio su tutta l’assemblea. Si fece avanti allora un tipo basso e grasso, vestito superbamente. Era l’uomo più ricco della città. Alzò la mano carica di anelli scintillanti e proclamò: “Cittadini! Noi siamo già immensamente ricchi. Non ci manca il denaro. Il nostro re deve essere un uomo nobile, un conte, un marchese, un principe, perché tutti lo rispettino per il suo alto linguaggio”.

“No! Vattene! Fatelo tacere’ Buuu”. I meno ricchi della città cominciarono una gazzarra indeserivibile. “Vogliamo come re un uomo ricco e generoso che ponga rimedio ai nostri problemi!”.

Nello stesso tempo, i soldati issarono sulle loro spalle un gigante muscoloso e gridarono: “Questo sarà il nostro re! Il più forte!”.

Nella confusione generale, nessuno capiva più niente. Da tutte le parti scoppiavano grida, minacce, applausi, armi che s’incrociavano.

Suonò di nuovo la tromba. Un anziano, sereno e prudente, sali sul gradino più alto e disse: “Amici, non commettiamo la pazzia di batterci per un re che non esiste ancora. Chiamiamo un innocente e sia lui ad eleggere un re tra di noi”.

Presero un bambino e lo condussero davanti a tutti. L’anziano gli chiese: “Chi vuoi che sia il re di questa città così grande?”.

Il bambinetto li guardò tutti, si succhiò il pollice e poi rispose: “I re sono brutti. Io non voglio un re. Voglio che sia una regina: la mia mamma”».

(B. Ferrero, C’è qualcuno lassù, Torino, LDC, 1993, 12-13).

 

Tutto gli sarà sottomesso

Colui che ci ha uniti a sé e che si è unito a noi e che in tutto è divenuto uno con noi, fa suo tutto ciò che è nostro. Il nostro sommo bene è la sottomissione al divino, quando tutta la creazione sarà concorde con se stessa e «ogni ginocchio si piegherà davanti a lui, gli esseri del cielo, della terra e degli inferi e ogni lingua proclamerà che Gesù Cristo è il Signore» (Fil 2,10-11).

Allora, quando la creazione sarà divenuta un solo corpo e tutti saranno uniti gli uni agli altri in lui, per mezzo dell’obbedienza, indirizzerà a se stesso l’obbedienza che il suo corpo rivolgeva al Padre. […] La sottomissione del corpo della chiesa è rivolta a colui che abita nel corpo. E poiché tutto ciò che è sarà salvato in lui e poiché salvezza significa sottomissione, come il salterio ci invita a pensare (cfr. Sal 8,6; 36,7; 61,1.5), di conseguenza questo passo dell’Apostolo ci insegna a credere che non ci sarà niente al di fuori dei salvati. Il testo ci indica questo attraverso la purificazione della morte e la sottomissione del Figlio, perché tutte queste parole sono in accordo le une con le altre: il fatto che non ci sarà più morte e il fatto che tutti saranno in vita. Ora la vita è il Signore, il quale, secondo la parola dell’Apostolo, introduce tutto il suo corpo presso il Padre quando rimette la regalità a Dio Padre. Il suo corpo, come è stato detto molte volte, è tutta la natura umana alla quale è stato unito. E in questo senso che Paolo ha chiamato il Signore «mediatore tra Dio e gli uomini» (1 Tm 2,5). Colui che è nel Padre e che è venuto in mezzo agli uomini compie l’opera di mediazione unendo tutti a lui e attraverso di lui al Padre, come dice il Signore nell’evangelo indirizzandosi al Padre: «affinché tutti siano uno come tu, Padre, sei in me e io in te, anch’essi siano uno in noi» (Gv 17,21). Chiaramente questo passo proclama che, unendoci a lui che è nel Padre, egli ci procura attraverso se stesso l’unione con il Padre.

(GREGORIO DI NISSA, Quando avrà sottomesso a sé ogni cosa, PG 44,1317D-1320C).

 

«Venite, benedetti del padre mio»

Allora il Re dirà a quelli che saranno alla sua destra «Venite, benedetti del padre mio: ereditate il regno che è stato apparecchiato dalla fondazione del mondo. Perché io ebbi fame, e voi mi deste da mangiare; ebbi sete, e vo mi deste da bere; fui forestiero, e voi mi accoglieste; ignudo, e mi rivestiste; infermo, e m rivisitaste; in prigione, e voi veniste a me». I giusti risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo noi veduto aver fame, aver sete; quando ti abbiamo veduto forestiero, o ignudo, o malato, o in prigione?». E il Re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutte le volte che l’avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, è a me che voi l’avete fatto».

Quale speranza! Tutti coloro che scopriranno che il loro prossimo era lo stesso Gesù appartengono, dunque, alla moltitudine di quelli che ignorano il Cristo o l’hanno dimenticato. E nondimeno sono essi, i diletti. Non è in potere di alcuno, tra coloro che portano la carità nel cuore, di non servire il Cristo. Taluno che crede odiarla gli ha consacrato la vita; poiché Gesù è travestito e mascherato in mezzo agli uomini, nascosto nei poveri, negli infermi, lei prigionieri, nei forestieri. Molti che lo servono ufficialmente, non seppero mai chi egli è; ma molti che non conoscono neppur di nome, udranno l’ultimo giorno le parole che spalancheranno loro le porte della gioia: «Ero io, quei figliuoli, ero io, quegli operai; io piangevo su quel letto di ospedale; ero quell’assassino nella sua cella, quando tu lo consolavi».

(E. MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950, 126).

 

Il samaritano

“Un uomo scivolò e cadde in una buca. Vide un prete che si ritrovava a passare da lì e gli chiese aiuto per uscire dalla fossa. Il religioso lo benedisse, ma proseguì per la sua strada. Qualche ora dopo giunse un medico. L’uomo lo pregò di aiutarlo: il medico però, si limitò a guardare i graffi dell’altro e a compilare una ricetta, dicendogli di acquistare quelle medicine nella farmacia più vicina. Alla fine, arrivò un tizio che non aveva mai visto prima. Di nuovo, la vittima chiese aiuto e lo sconosciuto si calò nella buca. “E adesso? Siamo entrambi intrappolati quaggiù!” Fu allora che il soccorritore disse: “No, non è così! Io conosco bene questo posto e so come uscire dalla fossa.”

(Paulo COELHO, Aleph, Romanzo Bompiani, Milano, 2011, 38)

 

Giudizio finale

Tu giudicaci tutti

come se tutti fossimo bambini

che giocano con la vita

in questo cortile assurdo e prodigioso.

 

Quando giunge la notte,

raccoglici tutti

nel calore della tua Casa

per sempre.

 

E pianta di bellezza imperitura

il vecchio cortile amato…

(Pedro Casaldáliga)

 

Preghiera

Signore, abbiamo compreso con la parola tagliente e vera, che oggi ci hai donato, che l’essenziale della vita non è confessarti a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri e per quelli che sono stati favoriti dalla vita. Questo significa fare la volontà del Padre tuo, vivere di te, forse anche da parte di coloro che non ti conoscono bene. Signore Gesù, tu ti identifichi con i perseguitati, con i poveri, con i deboli. Tu ci hai dato un esempio chiaro di vita, che hai racchiuso nel vangelo e specie nelle beatitudini pronunciate sul Monte.

Il segno che è arrivato il tuo regno si trova nel fatto che in te l’amore concreto di Dio raggiunge i poveri, gli emarginati, non a causa dei loro meriti, bensì in ragione stessa della loro condizione d’esclusi, d’oppressi, perché tu sei dio e perché questi che sono considerati ultimi sono i primi “clienti” tuoi e del Padre tuo.

Aiutaci, Signore, a capire che trascurare quest’amore concreto per i poveri, i forestieri, i prigionieri, coloro che sono nudi o che hanno fame, significa non vivere secondo la fede del regno ed escluderli dalla sua logica. Mancare all’amore è rinnegare te, perché i poveri sono tuoi fratelli e lo sono appunto a motivo della loro povertà.

Facci capire fino in fondo che essi sono il luogo privilegiato della tua presenza e di quella del Padre tuo celeste.

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

 

XXXIII Domenica del tempo Ordinario (Anno A)

XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Proverbi 31,10-13.19-20.30-31

 

Una donna forte chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore. In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto. Gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita. Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani. Stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso. Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero. Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare. Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani e le sue opere la lodino alle porte della città.

 

v Il Libro dei Proverbi è una collezione di detti sapienziali, riguardanti il retto comportamento di tutte le categorie umane, dal tempo di Salomone (10,1-22,26:25-29) fino a dopo l’esilio (circa il 500 d.C.): vi si esprime la saggezza del popolo ebreo, ispirandosi nei più antichi, preferibilmente alla concezione sapienziale profana degli orientali, nei recenti più esplicitamente all’etica della religiosità javistica. A quest’ultima categoria appartiene sia il Prologo (cc. 1-9), sia l’epilogo (31,10-31); il quale è un piccolo poema in versi acrostici (ognuno dei quali, cioè, inizia con una lettera dell’alfabeto ebraico): ha come tema l’elogio della donna veramente «saggia» dal punto di vista morale, sociale, religioso. Qui vengono riportati i versi più significativi.

v. 10: «Una donna forte chi potrà trovarla?».

L’interrogativo enfatico mette in risalto il valore di una donna che ha in sé tutte le qualità di cui il poeta sta per tessere l’elogio: è inestimabile come «le perle preziose»!

v. 11 : «In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto». Spiega in che consiste la sua preziosità: contribuisce al benessere della famiglia ed è fonte di gioia per il suo sposo.

v. 13-19: «Si procura lana e lino… Stende la sua mano alla conocchia».

Esemplifica la sua cooperazione: confeziona tele e vesti, compra campi e vi coltiva vigne, vende i prodotti, ne fornisce i suoi di casa.

v. 20: «Apre le sue palme al misero».

Come nel v. 13 essa si prodiga per la felicità del suo consorte, così ora estende la sua generosità ai concittadini più poveri, in piena sintonia col consiglio dei sapienti: «chi ha l’occhio generoso sarà benedetto, perché dona del suo pane al povero» (22,9.22-23).

v. 30: «Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare».

In conclusione viene in risalto la dote specifica che la rende degna della lode più grande, cioè la rettitudine delle sue opere: agisce con solerzia e accortezza (vv. 14-19.25), parla con prudenza e bontà (v. 26), veste se stessa e i suoi con decoro (vv. 21.25); realizza quella che è la vera «sapienza» in armonia col timore santo del Signore. Ha molto di più

che la semplice avvenenza femminile. La sua fama non resterà circoscritta tra i rioni; arriverà alle «porte della città», dove si radunano i notabili e gli uomini di affari; ne sarà coinvolto anche suo marito (v. 23): «le sue opere la lodino alle porte della città».

 

Seconda lettura: 1 Tessalonicesi 5,1-6


Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire.  Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.  Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.

 

v In questa lettera S. Paolo si intrattiene con i Tessalonicesi (Macedoni, che egli aveva evangelizzato da poco) sulle liete notizie che ha ricevuto attraverso Timoteo riguardanti la loro fede e il loro affettuoso ricordo (3,6-10). La presenza ostile dei Giudei in mezzo a loro gli aveva procurato serie preoccupazioni (3,14-15). Adesso ringrazia di cuore il Signore. Arriva a esclamare: «voi nostra gioia e nostra corona!» (2,19). Col medesimo affetto nella seconda parte (cc. 4-5) richiama le fondamentali esortazioni per una vita autenticamente cristiana: perseveranza nelle norme dateci dal Signore Gesù, purezza di costumi, sincera carità fraterna, laboriosità, pace con tutti, e in particolare vigilanza serena (4,13-18) e costante per quanto riguarda «il giorno del Signore» (5,1-6).

v. 1 : «Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva». Dopo aver risposto, pare, a una preoccupazione dei Tessalonicesi sulla risurrezione dei defunti prima della Parusia, Paolo si premura di rassicurarli su un aspetto fondamentale riguardante quel giorno: la sua assoluta imprevedibilità (era ormai un dato risaputo: Mt 24,36.43; Ap 16,15), e insieme la sua ineludibilità: nessun essere umano ne potrà sfuggire, «nessuno scamperà» (v. 3).

v. 3: «E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà». Gli uomini un giorno potranno illudersi di aver raggiunto nelle loro realizzazioni l’apice dell’efficienza e della stabilità e si esalteranno come i costruttori della torre di Babele, o azzarderanno previsioni apocalittiche, ma il credente in Cristo guarderà alle loro affermazioni con indomabile scetticismo, «Il cielo e la terra passeranno, ma non le mie parole» (Mt 24,35).

v. 6: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri». È la logica conclusione, a cui si devono attenere costantemente «i figli del giorno», i discepoli del maestro divino e del suo fedelissimo apostolo: perseverare in tutte le virtù già ricordate (4,9-12) e attendere con fiducia e gioia l’ora della palingenesi finale.

 

Vangelo: Matteo 25,14-30

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:  «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.  Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.  Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.  Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.

Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

 

Il Vangelo in immagini

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Esegesi


Gesù ha parlato della grande tribolazione all’avvicinarsi del suo ritorno glorioso sulla terra (24,1-35), ha messo in guardia i discepoli perché si trovino pronti, con le lampade accese, in quel fatidico incontro con lo sposo divino (24,36-25,13); occorreva quindi precisare il compito che si esigeva da loro per essere giudicati degni di partecipare alla gloria del suo regno (valorizzazione dei doni ricevuti, opere di vero amore per i fratelli – 25,31-46).

Il discorso originario probabilmente risale a una situazione più generica, forse in risposta a quei seguaci che, salendo con lui da Gerico — città di Lazzaro — verso Gerusalemme si interrogavano sull’imminenza del suo regno (Lc 19,11-13): badate, avrà detto Gesù, a eseguire fedelmente i compiti che vi avrà affidato il Signore supremo; è importante che egli vi trovi solerti e efficienti in qualunque tempo vorrà apparire; saprà ricompensare abbondantemente chi gli è stato fedele e manderà a mani vuote o punirà chi non avrà adempiuto il suo volere. Era un avvertimento per tutti, sia i discepoli sia gli amici di Lazzaro (i farisei), che dopo la conversione di costui lo accompagnavano (Lc 19,1-10).

Matteo, inserendo il racconto nell’ultimo discorso del maestro, lo rende più solenne menzionando «i talenti» (somma ingente di fronte alle «mine» di cui parla Luca 19,13), e più chiaro del parallelo di Mc 13,34 e finisce per applicarlo alla comunità cristiana forse un po’ in crisi, ma ricca di carismi e di nuove possibilità di espansione.

v. 15: «A uno diede cinque talenti, a un altro due … secondo le capacità di ciascuno». Un talento sarebbe computato 6.000 dracme greche, corrispondenti a 6.000 denari ebraici; e, poiché un denaro equivaleva alla paga di una giornata lavorativa, 5 talenti risulterebbero una somma per allora ingente: il compenso di 30.000 giornate lavorative; mentre una mina sarebbe solo 1/60 di talento, che era la somma consegnata a ciascuno dei servi in Lc 19. L’intento del donatore è quello di far fruttare le sue proprietà durante la sua assenza, e perciò fa affidamento sull’abilità dei suoi collaboratori: consegna di più a chi può rendere di più; di meno agli altri, in proporzione.

vv. 16-17: «Colui che aveva ricevuto cinque talenti…ne guadagnò altri cinque…».

I primi due comprendono bene il progetto del loro padrone e si danno da fare per raddoppiare la loro somma. Il testo non dice nulla sulle modalità seguite per raggiungere il loro scopo. Al narratore importava piuttosto mostrare la solerzia di quei due per rispondere al desiderio del loro signore. «Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone» (v. 18).

v. 19: «Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò… a chi aveva guadagnato altri cinque talenti disse: “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto».

Il padrone dimostra al primo e al secondo servo che hanno raddoppiato i talenti tutta la sua compiacenza. Sono stati leali e fedeli, ciascuno in proporzione del denaro ricevuto e della loro abilità, «il poco»: saranno ricompensati tutti e due nel «molto» con grandi onori e promozioni.

v. 24: «Colui che aveva ricevuto un solo talento disse: “Signore, so che sei un uomo duro… Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra».

Il terzo servitore espone anzitutto il giudizio che ha del suo padrone. Lo ritiene un personaggio esoso e intransigente, «che miete dove non ha seminato» e che sarebbe stato capace di esigere il suo talento anche nell’eventualità di una qualsiasi perdita. Non ha quindi osato trafficarlo. Altro che servo abile e devoto!

v. 26: «Il padrone gli rispose: Servo malvagio… avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri».

Non ha tenuto conto del suo desiderio e della sua fiducia. Non ha osato correre il minimo rischio per accontentarlo. Si è lasciato guidare solo dal suo egoismo e dalla paura; era così semplice mettere a frutto la sua somma presso un fidato banchiere per ricavarne almeno gli interessi!

v. 28: «Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti». Un simile uomo, dice quel signore, non è più degno di essere al mio servizio; sia privato del talento ricevuto, che sarà consegnato in premio a chi si è impegnato generosamente per il mio piano; lui sia ormai dimesso dalla mia azienda. Fuori metafora è chiaramente descritta la situazione dei credenti che attendono l’incontro finale col loro supremo Signore.

v. 29: «Perché a chiunque ha, verrà dato… E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».

Gesù dice: ai suoi seguaci sono stati conferiti grandi doni di grazia e di luce: i suoi esempi e i suoi sublimi insegnamenti, i carismi dello Spirito, «i preziosi talenti», da mettere a frutto nella loro vita e in seno alla comunità; era suo desiderio che si adoperassero con impegno in santità e testimonianza evangelica. Non tutti però si sono premurati di compiacerlo. Chi per paura, chi per ignavia, molti si sono contentati di crogiolarsi nei belli sentimenti e di tenere solo per sé il luminoso messaggio dell’eterna salvezza. Saranno esemplarmente ripagati: gli uni ammessi in quel giorno all’immensa gioia del loro Signore, gli altri espulsi dove è tenebra e strider di denti.

 

Meditazione


Il legame tra prima lettura e vangelo emerge se si considera che il testo di Proverbi non descrive solamente il tipo di donna che il sapiente, al termine del percorso di formazione e studio, delinea per i suoi allievi come moglie ideale, ma se si coglie quella figura femminile nella sua valenza simbolica per cui designa a un tempo la sapienza e il sapiente, ovvero, il dono e il frutto che tale dono suscita nell’uomo. Al cuore del ritratto della donna forte vi è la responsabilità. Responsabilità che si configura, tra l’altro, come affidabilità (Pr 31,11), laboriosità (31,13.19), vigilanza (31,27), generosità (31,20). E responsabilità è anche parola chiave per cogliere la differenza di comportamento tra i due tipi di servi nella parabola evangelica: il servo buono e fedele (Mt 25,21.23) e il servo malvagio e pigro (Mt 25,26). La responsabilità cristiana è coscienza del dono ricevuto e fedeltà ad esso. Anzi, più radicalmente, fedeltà al Donatore.

Secondo Ireneo di Lione, il denaro affidato dal padrone ai suoi servi significa il dono della vita accordato da Dio agli uomini. Dono che è anche compito e che chiede di non essere sprecato o ignorato o disprezzato, ma accolto con gratitudine attiva e responsabile. Paolo scrive: «Che cosa hai che non hai ricevuto?» (1Cor 4,7). Potremmo aggiungere che non solo ciò che abbiamo, ma anche ciò che siamo è dono di Dio. Noi siamo dono.

In questa luce vi è un aspetto del giudizio che incombe su chi non ha fatto fruttare i talenti ricevuti che non ha a che fare anzitutto con la prospettiva escatologica (Mt 25,30), ma già qui e ora con il rischio di sprecare la vita, di non viverla, di sciuparla «fino a farne una stucchevole estranea» (Constantinos Kavafis). Il rischio è quello di una vita insignificante, di una vita non vissuta.

L’idea essenziale che unifica i tre casi di servi che ricevono talenti in misura diversa è che in ogni caso, per ciascuno, all’origine vi è un dono che proviene da un altro, e che ciascuno riceve secondo la propria capacità. Si tratta dunque di un dono «personalizzato». Il dono affidatemi mi rivela a me stesso. Entrare nella logica del paragone e magari nella recriminazione, distoglie l’uomo dall’unica attività veramente sensata: conoscere se stesso e conoscere Dio, il Donatore, riconoscendo e accogliendo i doni ricevuti.

È una finezza psicologica la sottolineatura che è il servo che ha nascosto il denaro per paura è quello che ha ricevuto meno degli altri. Questi fatica ad accettare la propria minore forza-capacità rispetto ad altri è maggiormente esposto al rischio di cadere nell’invidia e nel risentimento. L’adesione al principio-realtà, ovvero, l’accettazione della realtà così come si presenta, in noi e fuori di noi, è allora misura salvifica umanamente e spiritualmente.

Investire il denaro ricevuto significa esporsi al rischio di perdite che dovrebbero poi essere rimborsate al padrone: la paura del servo, che lo ha paralizzato, è anche paura del rischio. Ed essendo evidente che questa parabola non vuole insegnare l’uso del denaro e non può essere usata per un’apologia di un sistema economico che assolutizzi il profitto, ecco che la paura di eventuali perdite va intesa come paura della vita che nasce da un’immagine di Dio distorta. Il desiderio di sicurezza, la paura di spendersi, il timore del giudizio altrui, hanno neutralizzato in quest’uomo la volontà di Dio che era che egli cercasse un guadagno (Mt 25,27) con il denaro ricevuto: e quel cercare un guadagno avrebbe significato anche un suo vivere, lavorare, rischiare, gioire e soffrire, insomma, un suo dare senso all’esistenza.

Dio vuole che l’uomo viva e cerchi la felicità, che osi la propria unicità e la propria umanità, che non si lasci paralizzare da paure e da immagini di Dio distorte. Il dono impegnativo che Dio affida all’uomo è anche la sua fiducia nei confronti dell’uomo.

Contrario di fedeltà (Mt 25,21.23) nella parabola, è pigrizia (Mt 25,26). Il pigro è colui su cui non si può fare affidamento, colui che delega, che spreca il proprio tempo, l’irresponsabile, colui che non assume la vita e la fede come compito di cui rispondere a Dio.

 

Preghiere e racconti

 

Ognuno di noi è un originale fatto da Dio

C’è una vecchia trazione giudeo-cristiana secondo la quale Dio manda ognuno di noi in questo mondo con un messaggio speciale da consegnare, con uno speciale atto d’amore da compiere. Il tuo messaggio e il tuo atto d’amore sono affidati soltanto a te, il mio è affidato soltanto a me. Se questo messaggio debba raggiungere solo poche persone o tutti gli abitanti di una città o il mondo intero dipende esclusivamente dalla scelta di Dio. L’unica cosa importante è essere convinti che ognuno di noi è adeguatamente equipaggiato: tu hai i doni giusti per consegnate il tuo messaggio ed io ho i doni appositamente scelti per consegnare il mio.

Un aspetto particolare della verità di Dio è stato messo nelle tue mani, e Dio ti ha chiesto di condividerlo con ognuno di noi, e lo stesso vale per me. Proprio perché tu sei unico, la tua verità è data soltanto a te e nessun altro può dire al mondo la tua verità, o compiere per gli altri il tuo atto d’amore. Solo tu hai tutti i requisiti per essere e fare ciò che devi essere e fare. Solo io ho tutto ciò che è necessario per portare a termine il compito per cui sono stato inviato in questo mondo.

Sarebbe inutile e anche sciocco confrontare me stesso con te. Ognuno di noi è unico, non esistono fotocopie o cloni di nessuno di noi. Un simile confronto significherebbe la morte dell’accettazione di sé. Guarda la tua mano: le dita non sono di uguale lunghezza. Se lo fossero, tu non potresti di fatto afferrare una mazza da baseball o lavorare ai ferri. Allo stesso modo, alcuni sono alti e altri bassi, alcuni hanno un talento e altri un dono diverso. Tu sei fatto su misura per realizzare il tuo compito, e così tu non sei me e io non sono te. E questo è bene, è meraviglioso. Noi dobbiamo non solo accettare, ma anche esaltare le nostre differenze. Il mondo custodisce gelosamente gli originali, e ognuno di noi è un originale fatto da Dio.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 23-24).

 

Utilizzare tutti i miei talenti

Nel II secolo d.C., sant’Ireneo scrisse che «la gloria di Dio è una persona che vive in pienezza». Non ti è mai capitato di fare un regalo a qualcuno e poi venire a sapere che l’altro non l’ha mai usato? Forse avresti voluto chiedere: «Non ti è piaciuto il mio regalo? Perché non l’hai usato?». Forse Dio desidera porci qualche domanda sui doni che ci ha fatto. Quando diciamo nel Padre Nostro: «Sia fatta la tua volontà!», sono certo che parte di questo volere è che io mi sforzi di utilizzare tutti i miei talenti. So che Dio vuole che io sviluppi i miei sensi, le mie emozioni, la mia mente, la mia volontà ed il mio cuore nel modo più completo. «La gloria di Dio è una persona che vive in pienezza».

Qualcosa dentro di me sa con certezza che il nostro amore per Dio viene sicuramente misurato dal nostro impegno nel compiere queste due cose: amare gli altri come amiamo noi stessi e fare la volontà di Dio in ogni cosa.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 70).


Racconto

Ricordo spesso un lungo racconto che si trovava, ai miei tempi nell’antologia delle medie: è la storia di un ragazzo che nella scuola, la vecchia media o forse addirittura il vecchio ginnasio, era un fallimento totale. La sua incapacità, ad esempio, di distinguere i verbi transitivi da quelli intransitivi, scoraggiava il suo professore di lettere, che ci vedeva il segno di una radicale incapacità intellettuale. Poi, mortogli il padre, quel ragazzo abbandonò la scuola e se lo risucchiò la vita. Qualche anno dopo il vecchio professore fu preso dal capriccio di farsi lui un po’ di vino, di vero vino di uva e si recò al mercato all’ingrosso per comperare appunto quella partita di uva che gli abbisognava. Ma qui scoprì quanto inetto egli fosse in cose di questo genere e quanto poco gli valesse il suo latino ad affrontare le cose concrete della vita. E qui gli capitò di imbattersi proprio in quel ragazzo, ormai uno splendido giovanotto, che subentrato al padre nella gestione di un suo commercio, sul mercato era di casa e ci si moveva come un pesce nell’acqua: conosciuto il problema se ne prese cura lui e quello che non era riuscito al vecchio professore con tutto il suo sapere, riuscì in pochi minuti all’allievo fallito nella scuola ma riuscito nella vita. E prima di lasciarlo si prese persino lo sfizio di una innocente ironia: “Professore – gli chiese – mi tolga una curiosità, i verbi transitivi sono quelli che passano o che non passano?”

 

Nessuno dica: «Ho un solo talento e non posso fare niente»

Nella parabola dei talenti quelli che presentano i guadagni riconoscono con animo grato ciò che è loro e ciò che è del padrone. L’uno dice: «Signore mi hai dato cinque talenti» (Mt 25,20) e l’altro: «due» mostrando che avevano ricevuto da lui la possibilità di lavorare, che gliene erano molto grati e attribuivano tutto a lui. Che disse allora il padrone? «Bene, servo buono – è proprio di una persona buona mostrare interesse per il prossimo – e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25,21); con queste parole mostrò tutta la beatitudine. L’altro servo non si comportò così; come si comportò? «Sapevo che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura ho nascosto il tuo talento: ecco qui il tuo (Mt 25,24-25). Che cosa disse allora il padrone? «avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri» (Mt 25,27), cioè avresti dovuto parlare, esortare, consigliare. Ma non danno ascolto. Questo non ti riguarda. Che cosa ci potrebbe essere di più mite? […]

Ascoltiamo queste parole. Finché c’è tempo, diamoci cura della nostra salvezza, prendiamo l’olio per le lampade, mettiamo a frutto il talento. Se siamo inoperosi, se viviamo nella pigrizia, nessuno là in alto avrà compassione di noi, per quanto ci lamentiamo. Condannò se stesso chi aveva le vesti immonde e nulla gli fu d’aiuto. Chi aveva un solo talento restituì quello che aveva ricevuto in deposito e così fu condannato. Le vergini supplicarono, si presentarono e bussarono alla porta, ma tutto fu inutile e vano. Sapendo questo, offriamo denaro, impegno, aiuto, ogni cosa per renderci utili al prossimo. I talenti qui indicano le possibilità di ciascuno per quanto riguarda l’aiuto, il denaro, l’insegnamento o altre cose del genere. Nessuno dica: «Ho un solo talento e non posso fare niente». Anche con un solo talento puoi farti onore. Non sei più povero di quella vedova (cfr. Lc 21,2), né più incolto di Pietro e di Giovanni che erano ignoranti e illetterati, ma poiché diedero prova di zelo e fecero tutto nell’interesse comune, conquistarono il cielo. Nulla è così caro a Dio quanto vivere per il bene comune. Per questo Dio ci ha dato mani, piedi, forza fisica, mente e intelligenza, per servirci di tutto questo per la nostra salvezza e a utilità del prossimo.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento sul vangelo di Matteo, om. 78,2, PG 58,713-715).

 

L’amore è il più grande talento umano

«Per coloro che non hanno amato, la vecchiaia è un inverno di solitudine. L’amore, il più grande talento umano, era stato sotterrato perché non si perdesse, e alla fine andò perduto davvero. Nessuno venne o se ne prese cura. Rimase soltanto una persona priva di amore e sola nell’attesa della morte.

Per coloro che hanno amato, la vecchiaia è il momento del raccolto. I semi di amore piantati con così grande cura tanti anni prima, sono maturati col tempo. La persona che ama è circondata, al tramonto della vita, dalla presenza e dall’affetto degli altri. Il bene ripaga sempre. Ciò che era stato donato in modo così spontaneo e gioioso, è stato restituito con gli interessi».

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995,69).

 

I talenti

E perché tu comprenda bene, colui al quale furono affidati cinque talenti è un maestro; colui a cui ne fu affidato uno è un discepolo. Ma se il discepolo dicesse: «Sono un semplice discepolo, non corro pericoli», e nascondesse la parola, comune e spoglia, ricevuta da Dio, e non pensasse di ammonire, di parlar con franchezza, di rimproverare, di correggere, se possibile, ma la nascondesse in terra: è davvero terra e cenere questo cuore che seppellisce la grazia di Dio! Se dunque la nascondesse per pigrizia o per malvagità, non lo scuserebbe nulla il dire: «Ho un solo talento». Hai un solo talento? Dovevi aggiungerne un altro e raddoppiare il tuo talento; se ne avessi aggiunto un altro, non saresti rimproverato. A colui che presentò due talenti, infatti, non fu detto: «Perché non ne porti cinque?», ma fu ritenuto degno degli stessi premi dati a colui che ne presentò cinque. E perché? Perché fece fruttare ciò che aveva e pur avendo ricevuto meno di quello che ne aveva avuti cinque, non per questo si abbandonò all’infingardaggine usando il poco che aveva per ozieggiare. Non dovevi guardare i due talenti; piuttosto dovevi guardare a lui che, avendone due, imitò quello che ne aveva cinque, e così tu devi imitare quello che ne aveva due. Se per chi è ricco e non fa parte delle sue ricchezze sta già preparato il castigo, per chi può esortare quanto vuole e non lo fa, non ci sarà forse un castigo maggiore? In quel caso si nutre il corpo, in questo l’anima: ivi si impedisce la morte temporanea, qui la morte eterna.

(Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli ebrei, 30,2).

 

Ogni uomo semplice

Ogni uomo  semplice porta in cuore un sogno,

con amore ed umiltà potrà costruirlo.

Se davvero tu saprai vivere umilmente,

più felice tu sarai anche senza niente.

Se vorrai ogni giorno con il tuo sudore,

una pietra dopo l’altra in alto arriverai.

Nella vita semplice troverai la strada

che la calma donerà al tuo cuore puro.

E le gioie semplici sono le più belle,

sono quelle che alla fine sono le più grandi.

Dai e dai ogni giorno con il tuo sudore,

una pietra dopo l’altra in alto arriverai.

(Dal film Fratello sole, sorella luna, di F. Zefirelli)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.