V DOMENICA DI QUARESIMA Lectio – Anno B

Prima lettura: Geremia 31,31-34

Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.

Gesù Cristo, l’abbiamo constatato, è ormai pronto a consegnarsi al disegno del Padre, perché, come aveva in precedenza detto: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (4,34). Tutto ciò sfocia nell’atto della stipula di una nuova alleanza, di cui ai suoi tempi il profeta Geremia aveva avvertito la necessità: «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore» (31,31-32).

Infatti Geremia aveva preso coscienza di quanto fosse difficile per il suo popolo vivere da popolo di Dio, nella fedeltà e nel rispetto della legge. D’altra parte, egli stesso era stato rifiutato in qualità di messaggero di Dio da coloro che avrebbero dovuto ascoltarlo. Di che cosa allora si sente la necessità? Dio pensa a dare all’alleanza, atto con cui Egli si è «legato» e fatto «soggiogare» alla fedeltà nei confronti dei discendenti d’Abramo, una forza tale da renderla «più intima dell’intimo dell’uomo». Si tratta di una legge di cui non ci si può accontentare di vedere scritta in codici cartacei o su tavole di pietra o altro materiale, quasi a essere rassicurati sulla sua perennità, bensì di una legge posta nel cuore stesso dell’uomo: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (31,33).

Il profeta di Anatot non conosce certamente lo Spirito Santo come noi dopo la rivelazione di Gesù Cristo, benché in quanto profeta ne abbia fatto un’esperienza eccezionale. Eppure è lo Spirito che sarà chiamato «nuova legge» e lo stesso profeta veterotestamentario ne sente come il forte desiderio di attingere a questa maggiore luce. In fondo, anch’egli, come i Greci del Vangelo, domanda più chiarezza e si rallegra nella speranza che un giorno il cuore di ogni uomo, finalmente risanato dal limite del peccato e purificato da tutte le angosce, possa riconoscere in Dio il salvatore e il liberatore senza problemi: «Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» (31,34).

Seconda lettura: Ebrei 5,7-9

Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

Il brano evangelico ci presenterà un Gesù perfettamente disposto all’obbedienza di fronte alla volontà salvifica del Padre suo e Padre nostro. Su questo medesimo tenore si situa anche la breve pericope tratta dalla Lettera agli Ebrei. L’autore della Lettera, infatti, non trascura di segnalare quella che è una delle componenti di ogni uomo; l’angoscia di doversi consegnare alla morte, perché da essa «nullo homo vivente può scappare», come dice Francesco d’Assisi. Di tale angoscia fu partecipe anche Gesù e «nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7).

Questo senso di solidarietà è totale, perché ci viene prospettato in primo luogo un Gesù che prega e supplica il Padre durante la sua vita terrena, nella quale ha incontrato chissà quante volte il pallore della morte, lo squallore della miseria, la disperazione della malattia incurabile. Inoltre, al suo supplicare egli aggiunse «grida e lacrime», in sequenza incessante, per rimarcare il grado dell’offerta della propria vita, in qualità di “sommo sacerdote” che s’immola a vantaggio dell’umanità. E il Padre, che ha il potere di donare la vita e di riprenderla, esaudì il Figlio, in quanto gli era gradito tutto ciò che da Lui era compiuto. Dunque, per questa sua relazione spirituale, Cristo è stato esaudito, come poi precisano i vv. 8 e 9: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».

L’offerta di Cristo, in realtà costituisce un sacrificio efficace che il Padre ha gradito, poiché la sua volontà è stata rispettata: la stessa disponibilità dimostrata da Cristo gli ha consentito di intervenire trasformandone la vita (Gesù «reso perfetto») in opera di completa mediazione della salvezza divina per quanti, sul modello del Maestro, si faranno “obbedienti”.

Vangelo: Giovanni 12,20-33

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

 

Esegesi

Prima di entrare nel vivo del brano, proviamo a tracciare, seguendo il racconto dell’evangelista Giovanni, le coordinate entro le quali s’inquadra il brano di questa domenica. Nel primo versetto del capitolo 12 leggiamo: «Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti». Gesù, infatti, a quel che dice il quarto Vangelo, si recava spesso a Gerusalemme per pregare e insegnare nel Tempio, avendo «punto d’appoggio» la casa di Lazzaro, nel villaggio di Betania, distante un paio di chilometri dalla capitale. Durante la cena che fu consumata a casa di Lazzaro, Maria, una delle sue sorelle, compì un gesto «profetico»: l’unzione dei piedi del Maestro. La narrazione prosegue con la descrizione di un altro atto «profetico», che coinvolse parte della folla venuta per il pellegrinaggio pasquale: «Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!» (12,12-13).

In questo contesto avviene l’incontro tra Gesù e i Greci, i quali chiedono a Filippo di essere presentati al Maestro. Il Vangelo, però, si nota subito, purtroppo non ci dice se il dialogo tra Gesù e coloro che hanno chiesto di vederlo si sia verificato, tuttavia ci riferisce le parole pronunciate da Lui appena Andrea e Filippo lo informano della richiesta espressa da questi Greci: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (12,23-28a).

Dal tenore di queste parole emerge un Gesù perfettamente cosciente non solo della morte imminente (i suoi avversari hanno tramato di ucciderlo dopo Pasqua, ma Gesù li «costringerà» ad anticipare), bensì anche del fatto che la morte non costituisce affatto una sconfitta. Anzi, Gesù adopera termini che fanno presagire, da parte sua, l’ansia di portare a compimento quella missione, affidatagli dal Padre, di cui più volte ha parlato: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16-17). Che il Padre desideri salvare l’umanità attraverso suo Figlio Gesù è la «buona notizia» da annunciare, ossia la glorificazione da rendere manifesta mediante il mistero pasquale che Gesù è, in un certo qual senso, ansioso di adempiere, come dimostra l’espressione: «Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!».

Perciò Egli, che è il Rivelatore, allude appena a una parabola, quella del chicco di grano caduto in terra: esso produce molto frutto qualora muoia. Detto altrimenti, soltanto l’obbedienza alla volontà salvifica del Padre si rivela feconda di «risultati» positivi, che operano la trasformazione dal chicco singolo a una spiga carica di chicchi, risorgendo da quella stessa terra in cui è morto il chicco originario. Ad accompagnare questa parabola c’è un detto che ne ricorda di analoghi presso i Sinottici. Il senso non è difficile: di fronte a Gesù, che muore per poi risorgere, ciascun credente viene sollecitato a valutare la vita attuale in rapporto a quella eterna. E perdere la vita significa mettersi al servizio di Gesù, per essere là dove Lui si trova, sulla croce come nella gloria, per godere della riconoscenza del Padre.

Alla fine delle parole di Gesù si sente una «voce dal cielo». Non ci soffermiamo molto su questo, ricordando casi analoghi nella Bibbia (ad esempio in Es 19, At 2, Ap 5, i racconti del battesimo di Gesù e la trasfigurazione), in cui la voce divina, in relazione a teofanie, risulta indescrivibile e irriferibile per gli esseri umani. Ma tale voce è proprio rivolta alla folla e non a Gesù. È questo il motivo per cui Egli si preoccupa subito di «interpretarla»: Gesù sa già perché è venuto nel mondo, mentre chi lo circonda non si rende conto del valore e della sostanza della sua missione. In realtà, il compimento del mistero pasquale si caratterizza per il giudizio che esprime sul principe di questo mondo, ossia su Satana e su tutto il complesso della sua negatività.

Dal desiderio espresso dai Greci di incontrarlo, dunque, emerge la prontezza di Gesù nel dichiararsi disponibile, nonostante la sofferenza che ne seguirà, a morire, perché quel desiderio è segno di un’umanità che ha sete della salvezza e della conoscenza della verità.

Meditazione

Siamo ormai alle soglie della Settimana Santa. La quinta domenica di Quaresima ci viene incontro quasi per un ultimo momento di sosta e di raccoglimento prima di stringerci attorno al Signore Gesù che entra in Gerusalemme. Sono gli ultimi giorni terreni di Gesù; domenica prossi­ma lo accompagneremo agitando con le nostre mani le palme mentre entra nella città santa; passeranno alcuni giorni e verrà prima catturato, poi condannato e quindi messo a morte. Sono gli eventi della settimana centrale nella vita delle comunità cristiane. La Chiesa, che già da molti giorni ci sta preparando a questi eventi, insiste perché ciascuno di noi sia pronto per la celebrazione del grande mistero della morte e risurre­zione di Gesù.

La proposta di questa domenica, attraverso il Vangelo di Giovanni, pone sulle nostre labbra la stessa domanda che alcuni greci, presenti tra la folla dei pellegrini recatasi a Gerusalemme per la Pasqua, posero a Filippo e Andrea: «Vogliamo vedere Gesù». È una richiesta che faccia­mo nostra particolarmente in questo tempo e in questi giorni. C’è una spiritualità dei giorni della Passione, che è anzitutto non tralasciare la persona di Gesù, il Signore. Perciò, in questa settimana è bene che i nostri occhi possano ogni giorno leggere una pagina evangelica, maga­ri del racconto della Passione, per poter comprendere il cuore, i pen­sieri, i sentimenti e l’amore di Gesù. È un momento di grazia per cia­scuno di noi. Quando Filippo e Andrea riferiscono a Gesù la richiesta dei due greci, egli risponde che è giunta la sua «ora». Quell’ora che «non era ancora arrivata» durante le nozze di Cana, che «stava venen­do» nell’incontro con la samaritana al pozzo di Giacobbe, quella «ora» per cui Gesù era venuto sulla terra, ora sta per giungere nella sua pie­nezza. È un’ora del tutto diversa da quella che aspettiamo noi, quella del trionfo, della riscossa, dell’affermazione di se stessi, della vittoria sugli altri.

Per Gesù è l’ora della sua passione e morte. Non c’era mai stata per lui l’ora dell’interesse per sé, sebbene più volte avesse subito la tentazione di fuggire il pericolo della cattura che vedeva avvicinarsi sempre più, oppure di allontanarsi da Gerusalemme come gli stessi discepoli più volte lo avevano esortato a fare. L’ora, ormai giunta, non era certo un momento facile per Gesù. Era anzi fortemente drammatico, tanto da fargli esclamare: «L’anima mia è turbata; e che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». E decise di restare, anzi di entrare a Gerusalemme anche se questo gli sarebbe costato la morte. Ne era ben consapevole. Più volte l’aveva detto, scandalizzando anche i più vicini a lui. Nel tempio lo ripete a tutti i presenti, sotto forma di parabola: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Per lui non era bastato venire sulla terra, era necessario donare la vita sino alla fine, sino all’ultimo istante, sino all’ultima goccia. Bisognava che apparisse dinanzi a tutti l’incredi­bile amore del Padre e del Figlio.

Gesù non ha cercato la morte. Al contrario, ha condiviso l’angoscia di ogni uomo davanti l’ultimo atto dell’esistenza. Nella Lettera agli Ebrei abbiamo ascoltato: «Cristo, nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva sal­varlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito». Tuttavia — ed è qui il grande mistero della Croce — l’obbedienza al Padre e l’amore per gli uomini erano per Gesù più preziosi della sua stessa vita. Non era venuto sulla terra per «rimanere solo», bensì per portare «molto frutto». L’unica via per portare frutto, ossia per racco­gliere i dispersi, viene indicata da Gesù nel brano evangelico: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna». Sono parole che sembrano incompren­sibili, e per certi versi lo sono; esse suonano totalmente estranee al comune sentire, da risultare indecifrabili dal punto di vista del linguag­gio. Tutti amiamo conservare la vita, custodirla, preservarla, risparmiar­la dalla fatica; nessuno è portato ad «odiarla», come invece sembra suggerire il testo evangelico. Basti pensare alle cure che abbiamo per il nostro corpo. E non parlo di quella ordinaria attenzione per la salute. Mi riferisco a quelle sofisticate attenzioni che riserviamo all’estetica e all’apparire, e per le quali non badiamo a spese né ad energie.

Il Vangelo parla un altro linguaggio; potrebbe apparire duro, eppu­re a guardarci bene dentro è profondamente realista Il senso dei due termini (odiare e amare) è da intendersi sulla scia della stessa vita di Gesù, del suo modo di comportarsi e di voler bene, del suo modo di impegnarsi, di pensare e di preoccuparsi. Insomma, Gesù ha vissuto tutta la sua vita amando gli uomini più di se stesso. La morte in croce rappresenta l’ora in cui questo amore si manifesta nella sua pienezza. Sì, la croce è l’ora della salvezza; potremmo dire che è il momento culminante dell’intera storia umana, il punto più alto di amore che l’uo­mo ha potuto e possa esprimere.

E forse è proprio questa l’ora di cui parla la profezia di Geremia quando prevede «giorni nei quali il Signore con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderà un’alleanza nuova» (31, 31). Sono poche parole, ma rappresentano uno dei vertici spirituali del Primo Testamento: l’antico patto del Sinai giunge al suo compimento in una «alleanza nuova» che il Signore stabilisce con il suo popolo. Gesù stesso rievocherà durante l’ultima cena questa profezia di Geremia, quando definirà la coppa pasquale come «il calice della nuova alleanza». Tale nuova alleanza non sarà più scritta su tavole di pietra ma nel cuore stesso degli uomini, come aveva annunciato Geremia. E il primo cuore su cui essa è scritta è quello stesso di Gesù sulla croce, squarciato dalla lancia, quel cuore effonde tutto il suo sangue sino all’ultima goccia. Come restare distanti e freddi di fronte a tale amore? Come dimentica­re quest’uomo appeso sulla croce e passare oltre? Come resistere ad una passione così alta che ha portato un uomo a dare tutta la sua vita sino alla morte in croce? Ecco perché Gesù può dire: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me!» (Gv 12, 32). È la grazia che chie­diamo in questi giorni. La chiediamo per ciascuno di noi personalmen­te e per tutte le nostre comunità cristiane perché si lascino conformare il cuore da quell’amore. È la grazia che chiediamo anche per il mondo perché gli uomini, guardando quel volto crocifisso, si commuovano e possano scoprire che l’amore è più forte di ogni presunta forza umana, è più forte di ogni potere violento, è più forte di ogni egocentrismo nazionale o di gruppo. Da quella croce, da quel cuore squarciato, sgor­ga la fonte della salvezza per il mondo intero.

Preghiere e racconti

La potatura

«D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E lí, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio lí, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).

Grande albero e piccolissimo grano

«[Nella Chiesa esiste] La tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri. E questo non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio vale sempre la parabola del grano di senape (cf. Mc 4,31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale. Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».

(J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione in Divinarum Rerum Notitia. Studi in onore del Card. Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).

II seme delle domande

Dio mio, sono venuto con il seme delle domande!

Le seminai e non fiorirono.

Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte,

ma il vento non le sfoglia!

Dio mio, sono Lazzaro!

Piena d’aurora, la mia tomba

dà al mio carro neri puledri.

Dio mio, resterò senza domanda e con risposta

vedendo i rami muoversi!

(F. Garcia Lorca).

Il seme e il frutto

Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra

nel grembo materno

e aspetta devotamente: esso comincia a lottare,

un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole

cresce, diventa grande e forte

abbraccia con la corona verde delle sue foglie

finché tutto intero splende al sole

diventa gemma e fiorisce un fiore.

E nella fioritura, seme dopo seme,

c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.

E tu pianti nuovamente i mille semi,

e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.

Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli

abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro

guida verso casa i pensieri e pensa:

tutto ciò era nel primo seme.

(Christian Morgenstern).

La croce

“La croce -scriveva Simone Weil-  è la nostra patria…nessuna foresta porta un tale albero, con questo fiore, con queste foglie e questo seme… Se noi acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va. In quel momento Dio non ha più niente da fare e neppure noi, se non attendere. Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso nuziale, che gli abbiamo accordato”.

Chi mi vuoi servire mi segua

«Chi mi vuoi servire mi segua» (Gv 12,26). Che cosa significa «mi segua», se non mi imiti? «Cristo, infatti, patì per noi», dice l’apostolo Pietro, «lasciandoci un esempio, affinché seguiamo le sue orme» (1Pt 2,21). Questo è il senso delle parole: «Chi mi vuoi servire mi segua». E con quale frutto? con quale ricompensa? con quale premio? «E dove sono io, dice, là sarà anche il mio servo». Amiamolo disinteressatamente e la ricompensa del nostro servizio sarà quella di essere con lui. Come si può star bene senza di lui, o male con lui? Ascolta ciò che vien detto in maniera più chiara. «Se uno mi serve, il Padre mio lo onorerà» (Gv 12,26). Con quale onore, se non con quello di poter essere suo figlio? Ciò che ha detto sopra: «Dove sono io, là sarà anche il mio servo» è la spiegazione delle parole: «II Padre mio lo onorerà». Quale maggior onore può ricevere il figlio adottivo che quello di essere là dove è il Figlio unico, non fatto uguale a lui nella divinità, ma associato a lui nell’eternità?

Dobbiamo chiederci che cosa si intenda per servire Cristo, servizio al quale viene riservata una così grande ricompensa. […] Servono Gesù Cristo coloro che non cercano i propri interessi, ma quelli di Gesù Cristo. «Mi segua» vuol dire: segua le mie vie, non le sue, così come altrove sta scritto: «Chi dice di essere in Cristo, deve camminare come egli ha camminato» (1Gv 2,6). Così, ad esempio, se uno porge il pane a chi ha fame, deve farlo animato dalla misericordia, non per vanità, non deve cercare in quel gesto nient’altro che l’opera buona, senza che la sinistra sappia ciò che fa la destra (cfr. Mt 6,3), in modo che l’opera di carità non debba essere sciupata da secondi fini. Chi opera in questo modo, serve Cristo e giustamente sarà detto di lui: «Ogni volta che avete fatto questo a uno dei miei più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Chi compie per Cristo non solamente opere di misericordia corporali, ma qualsiasi opera buona – e qualsiasi opera è buona quando obbedisce alle parole «il fine di tutta la Legge è Cristo, a giustizia di ognuno che crede» (Rm 10,4) — egli è servo di Cristo e giungerà fino a quella grande opera di carità che consiste nel dare la propria vita per i fratelli, che equivale a darla a Cristo.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 51,11,12, NBA XXIV, pp. 1022-1024).

Io pure sarò vigna

Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.

Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: « Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti.

Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo ».

E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: « I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni ».

E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».

E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.

(K. GIBRAN, Il Profeta).

Piccolo seme

Ho imparato

che non muore

chi lascia dietro di sé

un seme

se c’è qualcuno a custodire

il piccolo seme verde

e a crescerlo nel cuore

sotto un dolore di neve

e a lasciarlo crescere ancora

nel sole senza tramonto dell’amore

finché diventa

un albero grande che da ombra e frutti

e altri semi.

Signore, vorrei lasciargli

un piccolo seme verde

e vorrei, Signore, lasciargli la neve e il sole.

(Preghiere di Mamma e Papa, Gribaudi, Torino, 1989).

Preghiera

Anche noi ti vogliamo vedere, Gesù, in quest’ora in cui, come seme, affondi nella terra del nostro dolore e germogli in turgida spiga, speranza di messe abbondante. Tu sveli come è dolce morire per chi ama e si dona con gioia. Perdere la vita con te e per te è trovarla. Allora anche il pianto fiorisce in sorriso.

Nelle tue piaghe troviamo rifugio e in esse trova senso ogni umano patire. Solo guardando te, troviamo la forza di un abbandono fidente nelle mani paterne di Dio. Purifica gli occhi del nostro cuore, fino a che non come in uno specchio né in maniera confusa, ma in un eterno e amoroso faccia a faccia ti vedremo così come tu sei. Amen.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia. Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

Comunità monastica Ss. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

QUARESIMA V QUARESIMA ANNO B

IV DOMENICA DI QUARESIMA Lectio – Anno B

Prima lettura: 2Cronache 36,14-16.19-23

In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme. Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.

Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni». Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».

È Il brano che conclude la storia d’Israele scritta dal Cronista. È una specie di grido di trionfo per la restaurazione della casa del Signore, il suo tempio. Egli ricorda innanzi tutto la situazione degli ultimi anni di vita della città di Gerusalemme prima del 587 a.C. al tempo del re Sedecia (vv. 14-16). È un tempo di vera apostasia dalla religione dei padri, dal culto del vero Dio. Si disprezza la parola di Dio annunciata dai profeti; il luogo santo, dove si adora l’unico Dio, viene profanato. Nonostante la premura di Dio e il suo costante amore per il popolo, questi non volle convertirsi. La situazione si fece talmente tragica che il Signore dovette intervenire.

Egli li abbandonò in mano ai babilonesi che incendiarono la città massacrarono la popolazione e il resto lo deportarono in esilio, lontano dalla patria. Ma anche nelle tenebre più fitte, appare la misericordia del Signore che dona ancora una parola per mezzo del profeta Geremia, il quale annuncia il termine dell’esilio (vv. 19-21).

Nella terza parte del brano si riporta l’editto di Ciro, re di Persia, che proclamava nel 538 a.C. la liberazione degli ebrei e l’ordine di ricostruire il tempio. La storia del popolo, eletto da Dio, continua, perché la misericordia di Dio rimane stabile nonostante l’enormità del peccato del popolo e dei suoi capi. Un segno di questa risurrezione del popolo è il nuovo tempio ricostruito, in cui saranno riportati i vasi sacri custoditi in Babilonia (cf. v. 18), rendendo possibile nuovamente il culto a Dio (vv. 22-23).

Seconda lettura: Efesini 2,4-10

Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.  Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.

 

Paolo pone la bontà di Dio all’origine della sua azione salvifica: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato» (v. 4). Il luogo dove si può sperimentare ora questa misericordia è la Chiesa. La salvezza è descritta come un passaggio dalla morte alla vita. Questa ci viene donata «per grazia», gratuitamente, per pura bontà di Dio (vv. 5-6).

Noi siamo solidali con Cristo. Mediante il battesimo, partecipiamo già alla sua vittoria sulla morte e abbiamo una vita nuova, ma la forza della sua risurrezione si estenderà anche ai nostri corpi (v. 6). Quest’opera salvifica in Gesù Cristo ha come scopo la maggior gloria di Dio. Nell’eternità sarà manifesto ciò che già ora è realizzato (v. 7).

Dando uno sguardo al passato, Paolo annuncia il suo vangelo: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede» (v. 8). L’uomo con le sue forze non riesce ad uscire dalle sabbie mobili del peccato. Solo la mano di Dio può risollevarlo. L’agire di Dio è del tutto gratuito (v. 9).

Le opere non sono il principio, ma il fine dell’esistenza cristiana: «Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (v. 10). Anche le nostre «opere buone», che faremo, procedono dalla grazia e sono state «preparate» da Dio per facilitarne l’adempimento. Dio ha voluto la nuova condizione perché l’uomo potesse realizzarle.

Vangelo: Giovanni 3,14-21

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Esegesi

Con questo brano inizia la rivelazione del piano salvifico del Padre: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (vv. 14-15). Si notino due verbi: «bisogna» e «sia innalzato». Il primo verbo «bisogna» esprime la volontà salvifica di Dio di donarci la vita in Cristo: la croce non è un incidente di percorso. Il secondo verbo «sia innalzato» indica appendere ad una croce, ma anche innalzare su un trono, la pienezza della regalità. L’episodio del serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto (Nm 21,8-9) è presentato da Giovanni come segno tipico dell’innalzamento del Figlio dell’uomo e della vita eterna donata a chi guarda, vale a dire a chi crede in lui.

Segue una meditazione pasquale dell’evangelista sulla parola di Gesù, avendo anche sullo sfondo la figura di Isacco. Contemplando Gesù innalzato sulla croce, si scopre l’amore sorprendente di Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (v. 16). È un amore che si concretizza nel dare e nel mandare (v. 17). Dio ama il mondo come si trova ora, lontano da lui e in pericolo di perire.

Quello che può privare gli uomini della vita, il loro grande peccato, è il rifiuto di credere in Gesù. Di fronte alla sua missione si opera la discriminazione tra gli uomini, che credono e si salvano, o non credono e si condannano. Ma il kerygma di Giovanni ha proprio lo scopo di portare alla fede chi non crede.

Il giudizio è in rapporto alla rivelazione personale di Cristo. È lui la luce: «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (v. 19). Le tenebre sono la situazione di rifiuto di Dio e la chiusura dell’uomo schiavo del suo egoismo. Gli uomini scelgono. Chi si pone dalla parte della luce, sperimenta un giudizio di salvezza. Chi invece si colloca dalla parte delle tenebre, sperimenta un giudizio di condanna: un’esistenza destinata alla perdizione, perché le sue opere sono malvagio. La luce è una forza giudicante e a nessuno piace sentirsi rinfacciare le proprie opere cattive. Ma c’è anche «chi fa la verità» (v. 21). Questi è colui  che rinnega la sua situazione di peccato, accoglie la parola di Gesù e crede in lui. Queste sono le opere che l’uomo può compiere solo con l’aiuto di Dio (v. 21).

Meditazione

Siamo oltre la metà del pellegrinaggio quaresimale e la liturgia della Chiesa, interrompendo per un momento l’austerità di questo tempo, ci invita a ‘rallegrarci’. La liturgia della Chiesa attenua persino il colore dei paramenti liturgici, dal viola passa al ‘rosaceo’, per sottolineare questo stacco di letizia che annuncia la Pasqua del Signore. Tale esor­tazione, se in passato comportava la sospensione dell’austerità, non vuole comunque spingere verso un senso di spensieratezza o di super­ficiale e ottimistico senso della vita. Al contrario, la liturgia conoscendo bene le difficoltà e i problemi dei giorni degli uomini, è consapevole del bisogno che abbiamo di un annuncio di letizia vera. Ed ecco, nel mezzo del cammino quaresimale, l’esortazione a rallegrarsi; il motivo è l’avvicinarsi della Pasqua, ossia la vittoria del bene sul male, della vita sulla morte. Questo è il vero annuncio di gioia che la liturgia ci porta. La vittoria del bene sul male deve risuonare ovunque, e in particolare su quei popoli che sono straziati dalla guerra e dalla violenza; come pure sui numerosi poveri e abbandonati che popolano il nostro piane­ta. È necessario ridare speranza anche alle città del mondo ricco, spesso stravolte da un clima di violenza e di aggressività. La mentalità consu­mista, che porta a centrare tutto su se stessi e sulla propria immediata soddisfazione, ha come sbocco inevitabile uno stile di vita concorren­ziale e violento. L’uomo e la donna consumisti, costretti a vivere in una perenne corsa a consumare e a soddisfare qualsiasi desiderio, sono travolti dalla spirale inarrestabile dell’amore per se stessi, che è sempre radice di violenza. Si rallegra colui che trova un senso nella sua vita e porta avanti una speranza che non si arresta davanti il male. Ricordiamo sempre il detto di Gesù ricordato negli Atti degli Apostoli, che la gioia viene dal dare più che dal ricevere (At 20,35).

Il bisogno di ritrovare una dimensione religiosa ed etica, che inter­rompa in qualche modo il circolo vizioso della violenza e che dia senso alla vita, si fa sempre più urgente, e non solo per la salvezza di ogni singola persona ma anche per quella della stessa società. Il secondo libro delle Cronache (la prima lettura della liturgia) ci aiuta a leggere la situazione odierna. L’autore sacro lega la caduta di Gerusalemme e il susseguente periodo di schiavitù in Babilonia all’infedeltà del popolo ai comandi del Signore: «In quei giorni tutti i capi di Giuda, i sacerdo­ti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà… si beffarono dei messag­geri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il suo culmi­ne, senza più rimedio». I nemici di Israele incendiarono il Tempio, demolirono le mura di Gerusalemme e gli scampati alla morte furono deportati. Con il linguaggio proprio della teologia della storia, la Scrittura sottolinea lo stretto rapporto tra il calo della tensione morale dell’intero popolo, con la conseguente degenerazione e fine della con­vivenza civile. L’esempio di quello che accade con Israele ci aiuta a ritornare al Signore, a riprendere in mano le Scritture e a riflettere sul senso vero della vita, del proprio agire e del proprio operare. Per que­sto il tempo quaresimale torna opportuno ogni anno.

Il Vangelo di Giovanni che viene annunciato in questa domenica dà una risposta alla domanda che scaturisce da una storia travagliata come quella di Israele: la riposta è Gesù, morto e risorto, mandato dal Padre per salvare il mondo. Anche Nicodemo si sentì rispondere in questo modo con il richiamo all’episodio del serpente innalzato da Mosè nel deserto che salvò la vita degli israeliti morsi dai serpenti velenosi: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». Già il libro della Sapienza aveva intuito in quell’episodio un segno della salvezza e dell’amore di Dio quando aveva cantato il serpente di bronzo definendolo «un segno di salvezza a ricordo del precetto della tua legge. Infatti, chi si volgeva a guardar­lo era salvato non per mezzo dell’oggetto che vedeva ma da te, salva­tore di tutti» (16, 6-7).

Quel serpente posto sull’asta anticipa il segno della croce di Cristo ‘innalzata’ in mezzo all’umanità. Gesù ‘innalzato’, nel linguaggio di Giovanni, non è un’immagine tesa a suscitare commiserazione. Quell’asta innalzata, quella croce piantata sul Golgota è, soprattutto, fonte di vita, una fonte generosa, gratuita e abbondante. Quella croce è la risposta di Dio ai serpenti di oggi e di sempre, allo smarrimento e alla confusione, all’odio tra fratelli, alla morte come unico sbocco appa­rente: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Chiunque viene colpito dai morsi velenosi dei serpenti, basta che rivol­ga gli occhi verso quell’uomo ‘innalzato’ e trova guarigione. Gesù stes­so dirà più avanti proprio a Gerusalemme: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32).

La salvezza, come anche il senso della vita, non viene da noi. Ci è donata dall’alto. La presenza del male è una realtà a tal punto persi­stente da indurre ad un ragionevole fatalismo pessimista. In effetti, con le sole nostre forze come potremmo sradicare il male e la sua più terri­bile conseguenza che è la morte? C’è da dire che il male nel mondo non è uno sfortunato destino che si abbatte sul mondo, contro cui è impossibile intervenire. Il male nasce dalle oscurità profonde del prin­cipe del male e dalle sue opere di morte, che spesso popolano la vita degli uomini. Sembrano risuonare le parole scritte nel Prologo: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo… venne fra i suoi, e i suoi non l’hanno accolto» (1, 9.11). Così anche nelle parole rivolte a Nicodemo leggiamo: «La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvage» (3, 19). C’è pertanto una responsabilità nell’allargare o nel perpetuare la presenza del male nel mondo che va compresa e quindi recisa. Agli uomini non è chiesto l’impossibile opera di un’auto liberazione dal male. È chiesto solo di alzare lo sguardo da se stessi e di guardare un po’ più in alto, di non restare nel buio dell’egocentrismo e accogliere quella luce che Dio ha inviato nel mondo, di non bloccar­si nell’amore per sé e accorgersi che il vero amore arriva da Dio e scen­de sulla terra.

Anche l’apostolo Paolo, nella lettera agli Efesini, ci ricorda l’irruzio­ne di questo amore: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche risusci­tato e ci ha fatto sedere nei cieli» (2,4). Come non ‘rallegrarsi’ di que­ste parole? La liturgia di questa domenica, piena della letizia dell’amo­re di Dio, continua a guidarci verso l’avvenimento della salvezza del mondo, il mistero pasquale della morte e risurrezione di Gesù.

Preghiere e racconti

Il miracolo sempre rinnovato

Dio non morirà il giorno in cui non crederemo più in una divinità personale, ma saremo noi a morire il giorno in cui la nostra vita non sarà più pervasa dallo splendore del miracolo sempre rinnovato, le cui fonti sono oltre ogni ragione.

(D. Hammarskjold)

Un ragazzo miope

Un tempo conoscevo un giovanotto che soffriva di una miopia grave sin dalla nascita e che, per questo motivo, riusciva a vedere solo gli oggetti a poche decine di centimetri da lui. Quando gli insegnanti delle scuole che, via via, frequentava avvisavano i genitori, questi ragionavano che alla sua età loro non avevano avuto bisogno degli occhiali e che, quindi, non ne avrebbe avuto bisogno nemmeno lui. Così, il ragazzo era cresciuto nell’unico mondo che la sua vista ridotta gli permetteva di vedere, giungendo al punto di spiegarsi tale mondo nei termini che gli consentiva la miopia. Ad esempio, perché gli insegnanti a scuola scrivono sulla lavagna? Non certo per gli allievi, dato che questi non riescono a leggere fino alla lavagna, bensì come appunti personali, come traccia da seguire durante le lezioni. E perché in città i cartelli con i nomi delle vie vengono affissi sulle case e sui lampioni così in alto che è impossibile leggerli? Perché lassù i guidatori degli autobus, dalla loro elevata posizione di guida, riescono a leggerli per i passeggeri che glielo chiedono.

Un giorno questo ragazzo, ormai diciottenne, si recò da un oculista. Il medico lo fece sedere e gli fece provare diverse lenti correttive. Trovate quelle più adatte, invitò il giovane a guardare fuori dalla finestra. «Accidenti!», esclamò il ragazzo restando senza fiato: per la prima volta riusciva a vedere il cielo azzurro con degli sbuffi di nuvole bianche; vedeva finalmente i volti sorridenti delle persone, i pannelli pubblicitari e i cartelli stradali. Qualche tempo dopo, il giovane mi confidò: «Fu la seconda esperienza più bella della mia vita». Naturalmente gli chiesi quale fosse la prima, e la sua risposta fu: «Il giorno in cui iniziai a credere in Gesù. Quando finalmente lo presi sul serio e vidi che Dio era veramente mio Padre, quando vidi che questo è veramente il bel mondo di Dio, quando vidi me stesso come un figlio del cuore di Dio e quando sentii il calore del suo amore, quando vidi gli altri come miei fratelli e sorelle nella famiglia umana di nostro Padre. Questa fu una grande svolta, l’esperienza più radicale e più bella di tutta la mia vita. Fu come l’inizio di una vita nuova. So che cosa intende san Paolo quando dice che la fede fa di noi una creatura nuova».

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 48-49).

Ciò che fa la differenza

Mi chiedo unicamente se il Cristo buono ed evangelico ai cristiani basta. E se gli basta c’è ancora bisogno di fede o non v’è più nulla da credere? Se vi è qualcosa da credere ritengo, però, non sia di molto diverso da quanto i cristiani hanno da sempre annunciato e quindi che il risorto vive, siede alla destra del Padre, tornerà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà mai fine. Questo chi non crede, ma conosce il cristianesimo, lo sa molto bene poiché proprio in questo non crede ed è questo che fa la differenza. Sul resto bene o male ci si accorda.

(Salvatore Natoli, Il cristianesimo di un non credente).

Credo

Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero

che non mi seduce con un miracolo

e che non mi opprime con la sua autorità.

Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà,

che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male,

che non accetta compromessi,

ma che benedice la follia di chi lo segue.

Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione,

che non rimette a posto le cose dall’alto,

che non esercita la giustizia degli uomini.

Credo in un Dio che si lascia tradire,

che al mio no risponde con un bacio silenzioso,

credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.

Credo in un Dio che non ho inventato io,

che non soddisfa i miei bisogni,

che non dice e fa quello che voglio io,

un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.

Credo in un Dio vero,

che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità,

che si fa piccolo, debole indifeso

perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.

Credo in un Dio che gioca a nascondino

perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo,

credo in un Dio che mi si fa vicino,

che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.

Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.

(Ester Battista).

Mi chiamate Redentore

Mi chiamate Redentore

e non vi fate redimere.

Mi chiamate Luce

e non mi vedete.

Mi chiamate Via

e non mi seguite.

Mi chiamate Vita

e non mi desiderate.

Mi chiamate Maestro

e non mi credete.

Mi chiamate Sapienza

e non m’interrogate.

Mi chiamate Signore

e non mi servite.

Mi chiamate Onnipotente

e non vi fidate di me.

Se un giorno non vi riconosco

non vi meravigliate.

(Iscrizione nel duomo di Lubecca).

II dubbio, la verità e Cristo

Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiano e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.

(F. Dostoevskij).

Il lungo cammino verso casa

«Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale è ricevere il perdono di Dio. C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo. Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie tenebre sono troppo grandi per essere dissolte. Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò come garzone. Ma voglio davvero essere restituito alla piena responsabilità di figlio? Voglio davvero essere totalmente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Ho fiducia in me stesso e in una redenzione così radicale? Voglio rompere con la mia ribellione profondamente radicata contro Dio e arrendermi in modo così assoluto al suo amore da far emergere una persona nuova? Ricevere il perdono esige la volontà totale di lasciare che Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e rinnovamento. Fin quando voglio fare anche soltanto una parte di tutto questo da solo, mi accontento di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone. Come garzone posso ancora mantenere le distanze, ribellarmi, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarmi della paga. Come figlio prediletto devo rivendicare la mia piena dignità e cominciare a prepararmi a diventare io stesso il padre».

(H.J.M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia, Queriniana, 2004, 78-79).

L’anima soffre e anela al Signore

Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.

Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi.

Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.

Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.

E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.

(Don Tonino Bello).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia. Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

Comunità monastica Ss. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

IV Domenica di Quaresima Anno B

III DOMENICA DI QUARESIMA Lectio – Anno B

Prima lettura: Esodo 20,1-17

In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile:  Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti. Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano. Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato. Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà. Non ucciderai. Non commetterai adulterio. Non ruberai. Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».

Il testo del Decalogo nel libro dell’Esodo è preceduto, al cap. 19, dalla grandiosa teofania in cui il Signore rivela la sua presenza sul Sinai, la «montagna sacra» (19,23). Soltanto Mosè, in rappresentanza del popolo raccoglie le «Dieci parole» che racchiudono la volontà del Signore e le riferirà agli Israeliti, che prometteranno di osservarle accettando l’alleanza (24.3). All’inizio del cap. 20 il Decalogo è introdotto bruscamente, senza collegamento diretto quanto precede. Improvvisamente, Dio parla: risalta cosi l’assoluta libertà dell’iniziativa divina.

Il Decalogo

Non deve stupire la difficoltà a individuare con sicurezza nel testo i dieci comandamenti come sono formulati nei catechismi. Già nella seconda stesura (nel Deuteronomio) il Decalogo presenta qualche differenza: è poi citato con notevole libertà nei Profeti, nei Salmi, in altri  scritti dell’Antico Testamento, nei Vangeli. Basta questo a farci comprendere che la legge del Signore, benché scolpita sulle «tavole di pietra», non deriva da questo la sua solidità, e che non è il rispetto esteriore e formale della «lettera» che conta, ma l’accordo interiore del «cuore» alla parola di Dio.

Otto comandamenti su dieci hanno una forma negativa, e questa lista di divieti può urtare qualcuno. Ma tutto cambia se riflettiamo che dire «cosa non bisogna fare» ci lascia molto più liberi. Dio pone dei divieti certo; ma è vietato solo ciò che priva noi e gli altri della libertà; la violenza, l’assassinio, l’adulterio, il furto, la falsa testimonianza. Per il resto, Dio non obbliga; cosa bisogna fare, è lasciato alla nostra libertà. Dio non comanda nemmeno di essere adorato, non chiede sacrifici (cf. Is 1,12-13; Ger 7 22): lo stesso comandamento del sabato, più che imporre una pratica religiosa, comanda di non fare qualcosa, di astenersi dal lavoro.

Note esegetiche

vv. 2-3: In positivo, la prima parola del Decalogo — il 1° comandamento nella tradizione dell’Ebraismo – non è precisamente un comandamento, e impegna Dio piuttosto che l’uomo. Dio si presenta, offre le sue credenziali: non chiede di essere obbedito senza essere conosciuto. Per questo può dire «non avrai altri dèi»: non basta confessare che Dio è uno, la Bibbia non predica un monoteismo filosofico, astratto, «numerico». La Bibbia dice chi è Dio, raccontando quello che ha fatto per noi. È il Dio che libera anzi il Dio che ha liberato te, oggi: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto». Tutto il Decalogo discende da questa affermazione iniziale, come un torrente dalla montagna.

vv. 4-6: La formulazione del divieto dell’idolatria è in stretto collegamento con il racconto della creazione in Gn 1. Dio ha fatto cielo terra e mare e ciò che contengono; ha fatto l’uomo a sua immagine; ha dato all’uomo il compito di sottomettere la terra. Nell’idolatria, l’ordine è stravolto: l’uomo adora le creature (astri, animali…) invece di dominarle, sostituisce all’immagine creata da Dio immagini di idoli fatte con le sue mani. Invece di adorare Colui che lo ha fatto, l’uomo adora la cosa che ha fatto. Questo rovesciamento della verità – questa menzogna – è proibito, perché Dio è geloso: la gelosia dell’amore che ha scelto l’uomo e stabilito l’alleanza, amore sovrabbondante di grazia, mille volte più del castigo (v. 5b-6). Tutti i peccati previsti nel Decalogo hanno radice nell’idolatria.

v. 7: Invano (lašawe) indica il vuoto, la falsità, anche la magia. «Pronunciare invano il Nome» significa trattare Dio come un idolo: qualcosa di manipolabile, di cui l’uomo possa impadronirsi per strumentalizzarlo ai suoi fini. La stessa parola è usata nell’8° comandamento: la falsa testimonianza contro il fratello, immagine di Dio, è grave come il falso culto a Dio. Una pietà esteriormente corretta e ossequiente alle regole, cui non corrisponda la giustizia nei rapporti con gli altri, riduce a menzogna il Nome del Signore.

v. 8-11 : Il comandamento del sabato è la chiave di volta del Decalogo. Come il quarto, è formulato in positivo («ricordati»); come gli altri, è anche negativo («non farai alcun lavoro…»); come il primo, è motivato con la creazione (nel Deuteronomio invece, con il ricordo della schiavitù in Egitto). Non si interrompe il lavoro, banalmente, perché è bene riposarsi; ma piuttosto per imitare, quale immagine di Dio, il riposo del settimo giorno della creazione. Si tratta quindi della più alta realizzazione dell’essere uomo: il sabato è un comandamento che riguarda Dio (la «prima tavola»), ma è anche quello che con maggiore insistenza parla della comunità umana («né tu, né tuo figlio….»), e l’unico in cui esplicitamente sia citato lo straniero. Il sabato è la legge più specifica che caratterizza l’identità ebraica, e insieme la più universale, perché l’ebreo è chiamato a condividere la santità del sabato con tutta la creazione, senza distinzioni di sesso, di condizione sociale (lo schiavo), di appartenenza etnica o religiosa (lo straniero) e perfino umana (il bestiame). Anche qui c’è l’accenno all’idolatria: il potere di «fare», di costruire opere (idoli) con le proprie mani, rischia di precipitare l’uomo in un delirio di onnipotenza, se non interviene la pausa del sabato a ricondurre tutto al Creatore.

v. 12: Il quarto comandamento, come la «prima parola», rivolge l’uomo verso l’origine. Il «padre e la madre» sono l’anello di congiunzione fra l’uomo di oggi e ciò che lo ha preceduto, fino all’origine prima; attraverso padre e madre, nella tradizione ebraica e non solo, si trasmette la memoria dell’azione di Dio in favore del popolo, a partire dall’Esodo, e in favore dell’umanità, a partire dalla creazione. Perciò questo comandamento è l’unico che parli di un «premio», una conseguenza positiva per l’uomo: la vita, dono di Dio dalla creazione in poi, cui l’uomo e la donna partecipano nel generare il figlio. Adamo generò un figlio a sua immagine (Gn 5,3): il potere di generare, purificato dalla pretesa di onnipotenza possessiva e iscritto nell’onore (kavôd: la gloria, riservata a Dio) reso all’origine, si oppone al fare del lavoro, che deve essere interrotto nel giorno di sabato per non diventare costruzione di idoli.

vv. 13-16: Da qui, i comandamenti della «seconda tavola» che riguardano i rapporti umani. Non uccidere, esteso a ogni forma di violenza; non commettere adulterio, perché l’amore sponsale è figura del rapporto unico fra Dio e il popolo. Non dire falsa testimonianza, in parallelo con il v. 7.

v. 17: Il nono e il decimo comandamento sono nella tradizione ebraica uno solo: il Decalogo si conclude penetrando nel segreto del cuore, dove si nasconde il desiderio. Non è il desiderio in sé che è peccato, ma il desiderio contro giustizia: volere tutto, senza riconoscere alcun ostacolo, nemmeno nella sfera di ciò che attiene all’altro. Al fondo, è ancora la pretesa di sostituirsi a Dio, in una volontà di potenza accaparratrice che non lascia spazio all’amore, che non lascia vivere, che trascina inesorabilmente alla distruzione.

Seconda lettura: 1Corinzi 1,22-25

Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.  Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.

 

La prima lettera ai Corinzi si apre con la polemica fra l’Apostolo e gli avversari che hanno introdotto divisioni e contrasti all’interno della comunità. Paolo difende con passione sia l’unità del Vangelo di Cristo, sia la corrispondenza della sua predicazione con questo Vangelo. A propria difesa, Paolo non invoca la «sapienza del discorso», ma la fedeltà alla croce di Cristo, che non deve essere «resa vana» (v. 17). L’argomentare di Paolo procede con l’audace contrapposizione fra la «sapienza degli uomini» e la «stoltezza» della parola della croce (vv. 18-21). A questa antitesi fra la parola di Dio e la parola del mondo si collega il proclama di «Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (v. 23).

Note esegetiche

v. 22: «Giudei» e «Greci» (o «Gentili»: v. 23) rappresentavano al tempo di Paolo le due parti dell’umanità, contrapposte non tanto dal punto di vista religioso, quanto per il modo di porsi di fronte alla realtà. I Giudei, per credere, chiedono «segni» (semeia; miracoli, prodigi), prove storiche su cui poggiare la loro fede; i Greci cercano «sapienza» (sofia), per essere razionalmente convinti.

v. 23: Un’avversativa, «noi invece…», sottolinea l’assoluta novità della predicazione di Paolo: «Cristo crocifisso», e introduce il secondo binomio: scandalo/stoltezza. Alla «prova» chiesta dai Giudei si contrappone la «pietra d’inciampo» (skàndalon), alla razionalità dei Greci la «stoltezza della croce» (morì an).

v. 24: Il contrasto fra le due coppie di termini opposti è risolto nel cuore dell’annuncio, accolto dai «chiamati», sia Giudei che Greci: per loro la debolezza della croce mostra la potenza di Dio, e la stoltezza ne rivela la sapienza. La comprensione della fede consente di leggere la realtà con occhi nuovi e di riconoscere l’azione di Dio nella dedizione incondizionata di Colui che «amò i suoi fino alla fine» (Gv 13,1). Il Crocifisso è «il luogo dell’agire divino potentemente e sapientemente salvifico e tale appare agli occhi dei credenti» (G. BARBAGLIO, La Prima Lettera ai Corinzi, EDB 1996, p. 143).

v. 25: All’opposizione stoltezza/sapienza viene accostata qui quella debolezza/forza. Non si tratta di anteporre la sapienza di Dio a quella umana dichiarandone la superiorità, ma di una alternativa assoluta fra due contrari. Non si tratta nemmeno di paragonare semplicemente due punti di vista opposti, che provocano visioni fra loro incompatibili. La morte sulla croce rimane follia e il Cristo consegnato ai carnefici mostra la sua debolezza, liberamente scelta; ma sono la debolezza e la follia di chi soccombe alla violenza piuttosto che farsene complice, di chi vince l’odio con la sovrabbondanza dell’amore, di chi viene a guarire dall’interno il cuore malato dell’uomo. In questo, la debolezza si mostra più forte della forza, e la stoltezza più sapiente della sapienza.

Vangelo: Giovanni 2,13-25

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».  Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.

Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che

egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

Esegesi

La «purificazione del tempio», che i Sinottici collocano poco prima della Passione, è narrata da Giovanni all’inizio del ministero pubblico. L’evangelista vuole così sottolineare subito sia la grande novità del messaggio di Gesù, sia la continuità ideale con la predicazione dei profeti d’Israele. L’episodio si inserisce chiaramente in un contesto pasquale, nella prima delle tre Pasque di Gesù a Gerusalemme ricordate da Giovanni.

Si distinguono due brevi scene, ciascuna seguita da un versetto di commento; a conclusione, un sommario storico aggiunge una riflessione sulla fede autentica.

vv. 13-16: La prima scena è la cacciata dei mercanti dal Tempio.

La notazione temporale e geografica è precisa: la Pasqua «dei Giudei», così differenziata dalla Pasqua cristiana, segnala una situazione di distacco tra la comunità cristiana e la sinagoga, già definitiva al tempo della stesura del Vangelo. Gesù è tuttavia un ebreo osservante, e da Cafarnao — posta sul lago sotto il livello del mare — «sale» a Gerusalemme, a 800 m. di altezza.

I pellegrini che provenivano da ogni parte, non solo dalla Giudea, dovevano procurarsi in loco gli animali da offrire in sacrificio e pagare la tassa di mezzo siclo al Tempio. Spesso però essi disponevano solo di denaro romano o di altri paesi, monete non ammesse al Tempio perché coniate con effigi pagane. Era quindi necessaria, per lo svolgimento delle pratiche religiose, la presenza nelle vicinanze del Tempio di cambiavalute e mercanti di bestiame. La parola qui usata (hieròn) indica il recinto sacro, esterno al Tempio vero e proprio e comprendente il cosiddetto «cortile dei pagani», dove era consentito l’ingresso anche ai non israeliti. Sembra quindi eccessiva la severità di Gesù, oltre che inconsueta rispetto al comportamento mite che la tradizione gli attribuisce.

Tuttavia nulla è casuale o fuori luogo nel Vangelo di Giovanni. Il gesto di Gesù è chiaramente simbolico, che non vuol dire romanzato o fantasioso, ma al contrario, l’atto spettacolare rinvia a significati profondi e ricchi di conseguenze per la vita della comunità. Gesù si inserisce nella tradizione profetica e ne riprende linguaggio e atteggiamenti; il suo scopo non è scardinare il culto israelitico, ma riportarlo alla purezza originaria, impedire che l’osservanza esteriore di pratiche abituali scada nella superstizione e nel formalismo.

Le sue parole sono una citazione quasi letterale di passi dell’Antico Testamento (cf. Zac 14,21; Sal 69,10; Ger 7,11). Alcuni commentatori notano una sottile intenzione sociale, nella linea del profeta Amos: mentre rovescia i banchi dei cambiavalute e caccia il bestiame grosso, Gesù si mostra più paziente verso i venditori di colombe, animali offerti in sacrificio dai poveri. Notare il possessivo: «la casa del Padre mio», indizio di un rapporto unico di figliolanza tra Gesù e il Padre.

v. 17: Il versetto è il commento posteriore dell’evangelista, il ricordo interpretante che a posteriori, alla luce della Pasqua e sulla falsariga della rilettura dell’Antico Testamento, spiega il senso dell’evento. Sono commenti tipici di Giovanni (cf. v. 22): anche nei Sinottici è sottolineata la comprensione post-pasquale dei gesti e delle parole di Gesù, che solo alla luce della risurrezione rivelano il loro pieno significato; qui c’è in più la riflessione cosciente, la consapevolezza che la distanza temporale dall’evento ha peso per l’ermeneutica e consente una comprensione progressiva della rivelazione.

Nella citazione del Sal 69,10 il verbo è cambiato dal presente «divora» al futuro «divorerà», per esplicitarne il valore di annuncio profetico della Passione.

vv. 18-21: I giudei rispondono, non tanto alle parole quanto ai gesti di Gesù. Presentati da Giovanni come gli avversari di Gesù, essi tuttavia hanno ben capito che il suo comportamento ricalca quello dei profeti, perciò gli chiedono un «segno» che ne attesti l’autorità. Gesù, come spesso avviene in Giovanni, risponde in forma enigmatica. Non rifiuta di dare il segno, ma invece di ricorrere a un prodigio come si aspettavano i giudei, propone loro una sfida che può essere letta su due livelli di senso, e che lascia quindi gli avversari davanti alla scelta tra la fede e l’incredulità. L’imperativo «distruggete» sta per un condizionale, come in molti oracoli profetici; Gesù gioca sul doppio senso tra il Tempio di pietre e il Tempio del suo corpo, e lascia intendere sia il nuovo Tempio dell’era messianica, sia la sua risurrezione. La parola usata nel v. 19 non è la stessa dei vv. 14-15; naòs è la costruzione al centro del Tempio, con il Santo dei Santi, il luogo in cui abita Dio.

I giudei si fermano al primo livello, quello immediato: manca loro la fede necessaria a operare il salto di senso, per giungere al secondo livello, la spiegazione dell’evangelista nel v. 21.

v. 22: Anche i discepoli però non capiscono tutto subito: Giovanni sottolinea che solo dopo hanno capito il compimento della Scrittura.

vv. 23-25: Il sommario storico distingue i diversi livelli della fede.  Molti credettero vedendo i segni: è già un primo passo rispetto all’incredulità dei giudei, ma non è ancora la fede autentica. Per questo Gesù non si fida pienamente: sa che non tutti reggeranno alla prova della Passione e della morte e che non tutti sapranno leggere le Scritture. La sua venuta è anche per il giudizio, nel senso inteso qui: per svelare ciò che sta nel cuore degli uomini e porli davanti alla scelta fondamentale e sincera.

Meditazione

«Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme», nota l’evangelista Giovanni. Anche per noi si sta avvicinando la Pasqua e l’Eucaristia di questa terza domenica di Quaresima ci unisce nuova­mente al gruppo degli discepoli che accompagnano Gesù. Nella settima­na appena conclusa ci siamo forse distratti dal cammino del Signore perché presi da noi stessi e dagli impegni della vita. Come i discepoli di allora, anche noi spesso siamo concentrati più sulle nostre preoccupa­zioni che su quelle del Vangelo. L’egocentrismo ci spinge sempre lon­tano dal Signore e dai suoi fratelli. Ma le domeniche tornano. E torna­no come le tappe del cammino: ci radunano assieme e ci immergono nell’itinerario che la Parola di Dio traccia per noi. Non siamo un popo­lo che cammina nelle tenebre. Il Signore non ci fa mancare la luce che illumina i nostri passi. La lettura dell’antica alleanza presenta le ‘dieci parole’, cioè, i Dieci Comandamenti. Sono le parole che costituiscono il fondamento della fede del popolo di Dio. Anche noi le abbiamo ascoltate sin dalla nostra infanzia, e fanno parte del ‘primo’ bagaglio religioso.

I Dieci Comandamenti, a guardarli con attenzione, non sono semplicemente una serie di alte e universali norme morali. Sono molto di più: in essi si esprime il contenuto fondamentale da cui dipendono tutta la legge e i profeti, ossia l’amore per il Signore e l’amore per il prossimo. Le prime ‘parole’ delineano il rapporto del popolo con il suo Dio: un rapporto d’amore esclusivo. Quando il Signore ordina: «Non avrai altri dèi di fronte a me», non propone una fredda definizione di tipo mono­teistico, bensì una richiesta di amore totale. È vero che non sarà mai possibile per noi raggiungere la qualità dell’amore di Dio, ma siamo chiamati a partecipare ad esso. «Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli», dice Gesù. La proibizione di avere immagini risponde alla esclusività che Dio pretende dal suo popolo: il suo amore è troppo personale e intenso per ammettere altri ‘amori’. Lo stesso si può dire dei credenti che si fabbricano idoli cui sacrificare la propria vita. Solo il Signore è degno di lode e di fede. Il sabato — continua il testo biblico — è il giorno del riposo, o meglio, della festa con Dio e con i fratelli. Per noi, cristiani, il giorno di festa e del riposo è quello della risurrezione di Gesù. La domenica è dunque il giorno grande ed eter­no: anticipa il paradiso, annunzia la gioia, è fonte di godimento, muove alla contemplazione.

Segue la seconda parte del Decalogo ove si elencano sette comanda­menti che delineano il corretto modo di vivere i rapporti tra gli uomini. Anche qui non si tratta unicamente di norme morali, bensì di indica­zioni tese a preservare l’immagine di Dio inscritta nel cuore degli uomi­ni. Sono sette parole che descrivono i limiti estremi da non valicare. Perciò, questi ‘comandi’, prima di essere una legge che verrebbe sanci­ta da un castigo, esprimono una esigenza d’amore, di un amore non parziale o fiacco, come può essere il nostro, ma di un amore esclusivo ed esigente, com’è quello di Dio: «Io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso», dice lo stesso Signore.

Il Vangelo presenta la scena della cacciata dei venditori dal tempio, che si potrebbe interpretare come una manifestazione di santa gelosia da parte di Gesù, il quale si rimette alla gelosia di Dio. Del resto dice il profeta: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà», cioè, sento dentro di me, come un dovere estremo, la difesa della dignità del Signore. Infatti, Gesù, appena vide il tempio invaso da venditori, nota l’evangelista Marco, fece una cordicella e cominciò a sferzarli e a rovesciare i loro banchetti. È un Gesù che non picchia nessuna persona ma, con una indignazione risoluta, non tollera che nessuno inquini la santità del tempio, la casa del Padre, lì dove Dio ha posto la sua dimora. Gesù sa bene che in un tempio ove si tollerano piccoli commerci di piccoli ven­ditori, si arriva a comprare qualcosa così importante come è la vita di un uomo per soli trenta denari.

Ma qual è il mercato che scandalizza Gesù? Qual è la compra-vendi­ta che Gesù non può sopportare? Senza dubbio la lettera di questa pagina evangelica interpella il nostro modo di gestire gli edifici di culto, affinché diventino davvero luoghi di preghiera e di incontro con Dio e non piuttosto luoghi sciatti e pieni di confusione. Bisogna impa­rare da questo Vangelo la responsabilità che hanno le nostre comunità perché non siano palestre per il proprio egocentrismo o per quant’al­tro che non riguardi lo «zelo per la casa del Signore». Tuttavia, c’è un altro mercato sul quale è importante porre la nostra attenzione: è quel­lo che si svolge dentro i cuori. Ed è un mercato che scandalizza ancor più il Signore Gesù perché il cuore è il vero tempio che Dio vuole abi­tare. Tale mercato riguarda il modo di concepire e di condurre la vita. Quante volte la vita viene ridotta ad una lunga ed avara compra-vendita, senza più la gratuità dell’amore! Quante volte dobbiamo constatare, a partire da noi stessi, il rarefarsi della gratuità, della generosità, della benevolenza, della misericordia, del perdono, della grazia! La ferrea legge dell’interesse personale, o di gruppo, o di nazione, sembra presiedere inesorabilmente la vita degli uomini. Tutti, chi più chi meno, siamo impegnati a trafficare per noi stessi e per il nostro guadagno; e non badiamo se da tale pratica crescono le erbe velenose dell’arroganza, dell’insaziabilità e della voracità. Quel che conta e quel che vale è il proprio personale guadagno; a qualsiasi prezzo.

Gesù entra ancora una volta nella nostra vita, come entrò nel tempio, e manda all’aria le bancarelle dei nostri interessi meschini e riafferma il primato assoluto di Dio. È lo zelo che Gesù ha per ognuno di noi, per il nostro cuore, per la nostra vita perché si apra ad accogliere Dio. Il Vangelo è la «spada a doppio taglio» di cui parla la Lettera agli Ebrei, che penetra sin nelle midolla per separarci dal male. Purtroppo capita non di rado di metterci dalla parte di quei responsabili dei luoghi sacri come il tempio, i quali, al vedere un ‘laico’ qual era Gesù agire dentro l’area sacra, si scandalizzano e chiedono ragione di tale brusco e ‘irriverente’ intervento. «Quale segno ci mostri per fare queste cose?», chiedono a Gesù. È la sorda opposizione che ancora facciamo di fronte all’invadenza del Vangelo nella nostra vita. Il male e il peccato, l’orgoglio e l’egoismo, cercano tutti i modi per ostacolare la presenza dell’amore nella vita del mondo. Eppure è proprio nell’accogliere l’amore del Signore che noi troviamo la salvezza. E più che mai necessario lasciarci sferzare dal Vangelo per essere liberati dalla legge del mercato, ed entrare così nel tempio dell’amore che è Gesù stesso.

Preghiere e racconti

Breve apologo insegnato dal Vedanta

Una vecchia leggenda indù racconta che vi fu un tempo in cui tutti gli uomini erano dèi. Ma essi abusarono talmente della loro divinità che Brahma, il signore degli dèi, decise di togliere loro il potere divino e di nasconderlo in un posto dove sarebbe stato loro impossibile ritrovarlo. Il grande problema fu dunque di trovargli un nascondiglio.

Quando gli dèi minori furono convocati in Consiglio per risolvere il problema, gli proposero così: «Seppelliamo la divinità dell’uomo nella terra!»

Ma Brahma rispose: «No, non sarà sufficiente, perché l’uomo la scaverà e la troverà…».

Allora gli dèi replicarono: «In questo caso, gettiamo la divinità nel più profondo degli oceani!» Ma Brahma rispose di nuovo: «No! Perché presto o tardi l’uomo esplorerà le profondità di tutti gli oceani, ed è certo che un giorno la troverà e la riporterà in superficie…!».

E gli dèi minori conclusero: «Non sappiamo più dove nasconderla, perché non sembra esistere, sulla terra o nel mare, un posto in cui un giorno l’uomo non possa arrivare…».

Allora Brahma disse: «Ecco quello che faremmo della divinità dell’uomo: la nasconderemo nel più profondo di se stesso, perché è il solo posto in cui non penserà mai di cercare…».

Da allora, l’uomo ha fatto il giro della terra, ha esplorato, scalato, si è immerso e scavato… alla ricerca di qualcosa che si trova in lui…

Il segreto del nostro cuore

Siamo così tornati al mistero del nostro cuore, che è il centro della nostra vita e identità umana. È nel cuore che le nostre idee, intuizioni, emozioni e decisioni più profonde hanno la loro sorgente. Ma è anche nel cuore che spesso ci alieniamo di più da noi stessi. Sappiamo poco o nulla del nostro cuore. Giriamo alla larga, come se ne avessimo paura. Ciò che è più intimo ci spaventa di più. Proprio dove siamo più veramente noi stessi, siamo spesso estranei a noi stessi. È questo il lato doloroso del nostro ‘essere uomini’. Non riusciamo a conoscere i nostri centri nascosti, e ci capita perfino di vivere e morire senza sapere chi siamo in realtà. Se ci chiediamo perché pensiamo, sentiamo e agiamo in una data maniera, spesso non sappiamo rispondere, e dimostriamo così che siamo forestieri perfino in casa nostra.

Il mistero della vita spirituale è che Gesù vuole incontrarci nel segreto del nostro cuore, per farci conoscere il suo amore, liberarci dalle nostre paure e farci conoscere la nostra personalità più profonda. Nel segreto del nostro cuore, perciò, possiamo imparare non solo a conoscere Gesù ma anche, attraverso Gesù, a conoscere noi stessi. Se ci rifletti su un istante, vedrai un’interazione tra l’amore di Dio che ti si rivela e una crescita costante nella conoscenza che hai di te stesso. Ogni volta che lasci penetrare l’amore di Dio più profondamente nel tuo cuore, perdi un po’ della tua ansietà, e ogni volta impari a conoscerti meglio e brami di essere più conosciuto dal tuo Dio che ti ama.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 75).

Il nuovo tempio per l’incontro con Dio Gesù

«Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), dice il Signore. Volgiti a Dio con tutto il tuo cuore, lasciando questo misero mondo, e l’anima tua troverà pace. Impara a disprezzare ciò che sta fuori di te, dandoti a ciò che è interiore, e vedrai venire in te il regno di Dio. Esso è, appunto, «pace e letizia nello Spirito Santo» (Rm 14,17); e non e concesso ai malvagi.

Se gli avrai preparato, dentro di te, una degna dimora, Cristo verrà a te e ti offrirà il suo conforto. Infatti ogni lode e ogni onore, che gli si possa fare, viene dall’intimo (Sal 44,14); e qui sta il suo compiacimento.

Per chi ha spirito di interiorità è frequente la visita di Cristo; e, con essa, un dolce discorrere, una gradita consolazione, una grande pace e una familiarità straordinariamente bella. Via, anima fedele, prepara il tuo cuore a questo sposo, cosicché si degni di venire presso di te e di prendere dimora in te. Egli dice infatti: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e verremo a lui e abiteremo presso di lui» (Gv 14,23). Accogli, dunque Cristo e non far entrare in te nessun’altra cosa.

Se avrai Cristo, sarai ricco, sarai pienamente appagato. Sarà lui a provvedere vedere e ad agire fedelmente per te. Cristo «resta in eterno» (Gv 12,4) e sta fedelmente accanto a noi, sino alla fine.

(Imitazione di Cristo).

40 giorni nel deserto

Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.

Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire. Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo. Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua. Tu devi tornare nella solitudine”.

L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un convento?”

“No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.

Angeli smemorati

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.

Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.

Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.

E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.

Se solo si guardassero “dentro”!

Il luogo della lotta: il cuore

La vita spirituale procede da un centro intimo, un organo centrale, una radice dell’essere umano che la Bibbia chiama “cuore”. Nell’antropologia biblica il cuore è la sede della vita psicologica e morale, dunque della vita interiore.

Luogo dell’intelligenza e della memoria, della volontà e del desiderio, dell’amore e del coraggio, come di molti altri sentimenti, il cuore è l’organo che meglio rappresenta la vita nella sua totalità: esso designa ciò che per noi è la “persona”, soprattutto la “coscienza” personale. Luogo intimo nell’uomo ma scrutato e discreto da Dio, esso è il luogo del sorgere della fede, dell’accoglienza della Parola di Dio e dei doni divini: lo Spirito santo (Galati 4,6), l’amore di Dio (Romani 5,5),  la pace di Cristo la pace di Cristo (Colossesi 3,15). Il Cristo stesso abita per la fede nel cuore dell’uomo (Efesini 3,17) e dal cuore sale a Dio la risposta umana in forma di amore, preghiera, invocazione (Galati 4,6; Efesini 5,19; Colossesi 3,16; Marco 12,30). Luogo dell’incontro fra Dio e uomo, il cuore è anche, secondo la Bibbia, la sede di cupidigie e di passioni: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive» (Marco 7,21-23): così il cuore diviene il luogo della lotta spirituale, del combattimento interiore dove si scontrano le tendenze di peccato e l’azione della grazia di Dio. Il cuore può indurirsi nel rifiuto di ascoltare e accogliere la Parola di Dio (Matteo 13,15; Atti 28,27), può chiudersi alla compassione (Marco 3,5), può essere incapace di comprendere e di discernere (Marco 6,52; 8,17-21), può essere doppio, cioè insincero, menzognero (Atti 8,21; Giacomo 1,8; 4,8), nutrire odio e rancore (Levitico 19,17), gelosia e invidia (Giacomo 3,14). Prima di essere consumato esteriormente, nei gesti e nelle azioni, il peccato viene consumato nel cuore (cfr. Matteo 5,28). Si tratta allora, di far spazio allo Spirito santo perché Dio possa unificare (Salmo 86,11; Geremia 32,39), purificare (Salmo 51,12), circoncidere (Deuteronomio 10,16; 30,6), rinnovare (Ezechiele 36,26-27), ricreare (Salmo 51,12) il cuore dell’uomo. Ecco dunque il cuore come luogo della lotta invisibile, luogo dove può avvenire la decisione del ritorno a Dio e l’accoglienza della grazia che rende possibile tale ritorno, e dove avviene anche la scelta a favore della vita e la rottura con il peccato.

(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 142-143).

Un cuore chiuso

Ti aspettavo, Signore,

ma non sei venuto.

L’attesa è stata lunga,

e solo tardi ho capito

che non eri entrato

perché il cuore non ti aspettava.

Avevi bussato alla porta:

«Alzati, amica mia,

mia bella e vieni!

Perché l’inverno è passato,

è cessata la pioggia,

i fiori sono apparsi nei campi,

la stagione del canto è tornata

e si sente cantare la tortora.

Aprimi!».

Ma il cuore era chiuso,

appiattito su orizzonti terreni.

Ma quando sei finalmente entrato,

vincendo la mia sordità,

ho capito, Signore,

che il cuore si popola di idoli

quando tu scompari,

e che tu abiti, soltanto,

dove ti si lascia entrare.

Se preghi per te soltanto,

preghi per il tuo interesse.

S. Ambrogio

(Vittorio PERI, Pregare è dire sì, Elle Di Ci-Velar, 2005).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia. Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

Comunità monastica Ss. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

QUARESIMA III QUARESIMA ANNO B

II DOMENICA DI QUARESIMA Lectio – Anno B

Prima lettura: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18

In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».  Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».

Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.  L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».

Il libro della Genesi si divide in due parti; la prima (1-11) contiene la rivelazione sulle origini del mondo e dell’umanità; la seconda (12-50) contiene le storie dei Patriarchi. Il brano della lettura fa parte della storia di Abramo e racconta il sacrificio del suo figlio Isacco.

Aspetti di esegesi

Il racconto riguarda Abramo e Isacco; esso sottolinea l’obbedienza di Abramo a Dio, pone al centro la costruzione dell’altare e ritorna a lodare la disponibilità di Abramo ad eseguire il sacrificio del proprio figlio per aderire a Dio, essergli unito e gradito. Il testo biblico riferisce anzitutto il comando di Dio al Patriarca: «In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,1-2). Abramo esegue il volere divino.

«Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Gn 22,9-13).

La descrizione del pellegrinaggio del patriarca con il figlio Isacco verso il monte del sacrificio è un capolavoro narrativo che non è compreso nella lettura (Gn 22,3-8). L’interesse di questo racconto è concentrato sull’atteggiamento di Abramo in rapporto a Dio e in rapporto a Isacco.

Per Abramo il comando divino è incomprensibile: il figlio a lui donato da Dio stesso, l’unico che può condurre a quella posterità che è stata promessa, deve venire restituito a Dio in sacrificio. All’inizio della sua storia ad Abramo era stato chiesto di separarsi dal suo passato (Gn 12,1), ora gli viene chiesto di rinunciare al futuro, all’avvenire, privandosi della discendenza. È la prova che Dio fa di Abramo per sondarne la fiducia e la fedeltà. Viene poi la costruzione dell’altare e la disposizione al compimento dell’immolazione, impedita dall’angelo di Dio.

«L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gv 22,15-18).

Nel seguito della Scrittura Abramo viene più volte esaltato per questo evento. I libri sapienziali lodano la sua forza d’animo e la sua fedeltà: «La sapienza riconobbe il giusto e lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la tenerezza per il suo figlio» (Sap 10,5).

«Abramo nella prova fu trovato fedele» (Si 44,20). La disponibilità a donare il proprio figlio valse ad Abramo l’imputazione della giustizia: «Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare?» (Gc 1,21). L’epistola agli Ebrei interpreta l’episodio come simbolo di risurrezione: «Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco e proprio lui che aveva ricevuto la promessa offrì il suo unico figlio del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di fare risorgere anche dai morti; per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19). In tutto il dramma delle prove di Abramo il culmine del valore si concentra nella fede di lui che lo rende disponibile ad immolare il proprio figlio Isacco per obbedienza a Dio. La parola che gli viene rivolta come elogio a fondamento della benedizione divina: «Non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio per me» (Gv 22,16) prefigura la rivelazione che san Paolo da di Dio Padre in ordine alla nostra salvezza: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32).

Seconda lettura: Romani 8,31-34

Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?  Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!

 

La lettera ai Romani tra il prologo (1,1-15) e l’epilogo (15,14-16,27) si divide in due parti; la prima, dottrinale, svolge l’insegnamento sulla salvezza per mezzo della fede (1,16-11,36); la seconda esorta alla coerenza della vita con l’insegnamento impartito (12,1-15,13). Il testo della lettura si trova al termine del capitolo ottavo nel quale l’apostolo delinea la vita nello Spirito.

Aspetti di esegesi

«Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?  Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8.31b-34).

L’insieme è un inno di fiducia. Inizia con: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi»; significa: dopo tutti i motivi di speranza che abbiamo addotto fin qui, quale conclusione dobbiamo trarre? La conclusione è che non abbiamo nulla da temere, poiché Dio è con noi e perciò nessuno può nuocerci realmente. Dio ha dato il proprio Figlio per noi, e il suo Figlio si è consegnato per noi alla morte; avendoci dato il suo Figlio, non solo il Padre è disposto a darci ogni cosa, come chi avendo dato il più può dare il meno, ma con lui e in lui ha già dato tutto. L’apostolo compie un ultimo sforzo per allontanare da noi ogni timore con una serie di domande. Su queste non vi è interpretazione unanime tra gli studiosi. Infatti vi sono vari modi di separare e punteggiare le frasi; il ritmo di questi versetti è discusso. La frase finale offre il centro della nostra fede: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!»; sono le prove dell’amore di Cristo per noi; morì per giustificarci, risuscitò per associarci alla sua gloria, sta alla destra di Dio per associarci a questa sua condizione, continua a intercedere per noi come sommo sacerdote. Tale è l’efficacia della sua carità verso di noi. La fedeltà di Dio nei confronti di Abramo annunciata nella prima lettura è qui pienamente proclamata.

Vangelo: Marco 9,2-10

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.  Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

Esegesi

Il vangelo di Marco, dopo l’inizio, che descrive la preparazione del ministero di Gesù (1,1-13), si articola in quattro parti; la prima presenta il ministero di Gesù in Galilea (1.14-7,23), la seconda descrive i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea (7,24-10,52); la terza descrive il ministero di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37), la quarta contiene il racconto della passione e delle apparizioni pasquali del Risorto (14,1-16,20). Il brano della lettura si trova nella seconda parte, dopo il secondo racconto della moltiplicazione del pane e la professione di fede di Pietro. È la rivelazione della trasfigurazione del Signore.

Aspetti di esegesi

Questa pericope, nel secondo vangelo, è un momento culminante della rivelazione su Gesù. Poco prima egli, che è stato dichiarato Cristo, cioè Messia da Pietro nella confessione di Cesarea (9,29), e ha risposto a tale dichiarazione dando il primo annuncio della sua passione, cioè mostrando che il suo modo di essere messia consiste nella sofferenza, nella morte e nella risurrezione, ora nella trasfigurazione compie una manifestazione della sua dignità trascendente di Figlio di Dio. Mentre il primo vangelo fa della trasfigurazione una proclamazione di Gesù nuovo Mosè e il terzo vangelo insiste sulla preparazione alla passione vicina, il vangelo di Marco la presenta soprattutto come una epifania gloriosa del Cristo, del messia nascosto; questa scena di gloria, anche se momentanea, manifesta ciò che realmente è e ciò che sarà presto in modo definitivo Gesù che deve sperimentare l’abbassamento e l’umiliazione del servo sofferente.

Gesù sceglie tre dei Dodici: gli stessi scelti per assistere ad altri due momenti importanti: quando il Signore richiama alla vita la figlia di Giairo (Mc 5,37) e nel tempo della preghiera nell’orto degli ulivi prima dell’arresto (Mc 14,33); si tratta di Pietro, che sarà il capo degli apostoli, di Giacomo, il primo dei Dodici che darà la testimonianza del sangue (At 12,2), Giovanni, l’ultimo superstite del gruppo apostolico (Gv 21.23). Conduce questi tre su un «alto monte», fin dall’antichità identificato con il Tabor, che si erge solitario nella pianura di Galilea (alcuni pensano al monte Hermon); e lì compie il prodigio della trasfigurazione. La trasfigurazione è una epifania che si produce senza preparazione, all’improvviso, in un istante; Marco la indica con il verbo che significa «metamorfosi», cambiamento non soltanto esterno nelle qualità sensibili, ma nella stessa sostanza, o meglio, un cambiamento in tutte le qualità esterne con rapporto di effetto rispetto alla essenza; il miracolo consiste nel fatto che la persona divina di Gesù in quel momento partecipò la sua gloria alla sua umanità così che questa apparve gloriosa come dopo la risurrezione e la glorificazione. Gesù rimane identico mostrandosi glorioso. Lo splendore di Gesù è celeste. La visione del Cristo trasfigurato lasciava intendere ai tre apostoli la sua identità divina. I paragoni ingenui e popolari, come il particolare dato da Marco: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere le vesti così bianche» mostra la pratica impossibilità di dare una descrizione adeguata del fenomeno avvenuto davanti ai tre testimoni.

«E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4). Mosè ed Elia che hanno ricevuto ambedue rivelazioni sul monte Sinai (Es 19,33-34; 1Re 19,9-13) rappresentano uno la legge l’altro i profeti, cioè tutta l’economia religiosa dell’antico Testamento e rendono testimonianza al Figlio di Dio che era venuto a dare perfezione alla legge e compimento alle profezie. Essi discorrono con Gesù. Il racconto di Luca dice l’argomento della conversazione, cioè la passione e morte del Signore qualificata come esodo (Lc 9.31).

«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati». Pietro parla; egli è ancora sotto l’impressione della tristezza provata all’annuncio della passione; qui dichiara la sua felicità di trovarsi in quella esperienza nei confronti di Gesù ed esprime il desiderio di rendere permanente quella condizione proponendo di innalzare tre tende una per Gesù, le altre due per Mosè e per Elia apparsi nella visione in conversazione con il Signore (Mc 9,5-6). È quasi un tentativo ingenuo di fermare Gesù sul monte nella trasfigurazione per impedirgli di compiere il suo itinerario verso la passione.

«Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). La nuvola luminosa è il segno della presenza e della manifestazione di Dio; la voce di Dio Padre che dichiara: questo è il mio Figlio, rivelando l’identità di Gesù; sono le stesse parole pronunciate nella teofania del battesimo che inaugurava il ministero pubblico del Signore (Mc 1,11); essa ha un prezioso complemento: «ascoltatelo»; egli infatti è il nuovo e definitivo profeta, il perfetto rivelatore del Padre. La nuvola splendente e la voce dal cielo costituiscono il vertice della manifestazione e rivelazione.

Come la teofania avvenuta nel battesimo di Gesù inaugurava la prima fase del suo ministero, così la teofania della trasfigurazione da inizio, con il sigillo divino, al secondo periodo. «E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,8-10).

Gesù ritorna nel suo aspetto abituale e si avvia verso Gerusalemme ove darà compimento all’opera della redenzione. L’evento si conclude con la stessa semplicità con cui era iniziato. I tre testimoni conservano nel loro cuore il ricordo della esperienza cui sono stati chiamati, di cui leggiamo l’eco nella seconda lettera di Pietro: «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).

Meditazione

Come avviene per ogni cammino, anche per quello quaresimale viene tracciato un itinerario simbolico che comporta alcuni spazi significativi da attraversare o da raggiungere perché quel misterioso viaggio che la liturgia ci fa compiere possa realmente trasformare la nostra vita. In qualche modo l’itinerario quaresimale obbedisce a una sorta di geografia spirituale: è scandito da alcuni luoghi la cui valenza coinvolge in profondità la nostra vita, collocandola appunto nello spazio dello Spirito. Abbiamo infatti iniziato il cammino collocandoci con Gesù nel deserto, il luogo della solitudine e della verità, dove sono messi alla prova i nostri desideri più profondi e dove vengono purificati perché si trasformino nei desideri dello Spirito, nei desideri del Figlio. E, d’altra parte, nella aridità del deserto, abbiamo contemplato proprio il volto del Figlio di Dio nella sua drammatica solidarietà con la fragilità umana. Il passaggio nel deserto è tuttavia necessario per raggiungere un altro luogo, la città simbolica di Gerusalemme, il luogo del compimento della promessa: solo lì, sul Golgota e di fronte al sepolcro vuoto, potremo contemplare in tutta la sua trasparenza il volto di un Dio che ci ha tanto amati da donare se stesso per riscattarci dalla schiavitù del peccato. Ma tra il deserto e Gerusalemme c’è ancora un altro luogo che ci viene donato come tappa, in cui, allo stesso tempo, viviamo un momento di riposo e ritroviamo la forza di riprendere il cammino. Questo luogo è un monte: un luogo appartato ed elevato, dal quale si ha la grazia di raggiungere, con un unico sguardo, quella meta a cui si arriva solo con fatica, passo dopo passo, alla fine del viaggio. È il monte della trasfigurazione in cui ci viene anticipata la gioia della luce pasquale, in cui possiamo fissare lo sguardo sullo splendore del Padre che si riflette nel volto Figlio amato ed aprirci all’ascolto della sua Parola.

Siamo introdotti a questa esperienza dal racconto dell’evangelista Marco, il quale colloca l’episodio della trasfigurazione quasi al centro della sua narrazione, all’interno di quel cammino verso Gerusalemme che Gesù compie con i suoi discepoli. È un cammino in cui il discepolo stesso è plasmato dal Maestro ma lungo il quale si rivela anche tutta la fatica della sequela, le resistenze e le paure del discepolo di fronte al destino di Gesù. Infatti i versetti che ci narrano l’esperienza della trasfigurazione sono collocati subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (Mc 8,31) e la reazione di Pietro (dietro la quale è nascosta la subdola logica di satana), in cui il discepolo si ribella a questa prospettiva poco degna di un Messia, cercando di impedire questo assurdo viaggio (8,32-33). La trasfigurazione diventa allora come un dono, come uno sguardo di speranza su questo faticoso cammino. È come una ulteriore risposta alla domanda centrale del vangelo di Marco: «Ma voi, chi dite che io sia?» (8,29). Sul monte viene rivelato al discepolo il volto misterioso di quel Messia che cammina verso Gerusalemme.

Notiamo solo alcuni elementi del racconto. Anzitutto, paradossalmente, questo racconto deve piuttosto essere ‘contemplato’, visto, per essere veramente ‘ascoltato’. Marco stesso se ne rende conto: la parola umana non può narrare la gloria di Dio. Solo il linguaggio della parola stessa di Dio, la sua forza evocativa capace di lasciarci affacciare nel mondo di Dio, può farci intuire qualcosa della doxa, della gloria, che si riflette sul volto di Gesù. In qualche modo è appropriato il commento alla reazione di Pietro: «non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati» (9,6).

Pietro, Giacomo e Giovanni (i discepoli che ricompaiono anche nel racconto del Getsemani, Mc 14,32-42, episodio con il quale il nostro ha molte somiglianze), sono condotti da Gesù su questo alto monte, in disparte. E lui che li prende con sé, che fa loro il dono di fermarsi in disparte, nella solitudine del monte. Non dobbiamo mai dimenticare questo: salire sul monte e stare con Gesù non è qualcosa che può decidere il discepolo, programmarlo fissando al Signore un appuntamento in base ai propri desideri; il discepolo può solamente accogliere quell’invito che gli viene rivolto, nello stupore e nella gioia, e lasciarci condurre per mano.

Ciò che avviene sul monte è una esperienza sconvolgente (e Marco nota che i discepoli erano spaventati) : «fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (9,3). Su questo monte tutto diventa luce, tutto diventa sguardo. Al centro c’è un volto, il volto di Gesù: e questo volto rivela tutta la sua bellezza. Marco tenta di descrivere questa luce: non è luce naturale, ma splendore. È il colore delle realtà celesti ed escatologiche, è la gloria di Dio, il suo mistero che, paradossalmente, si rivela subito dopo in quella «nube che coprì (i discepoli) con la sua ombra» (9,6).

Ma ciò che sorprende nel racconto della trasfigurazione è un altro elemento che entra all’improvviso e orienta la dinamica della scena. E l’elemento della Parola e l’atteggiamento conseguente dell’ascolto. Gesù, nella sua trasfigurazione, non è solo: «apparve (ai discepoli) Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (9,4). C’è un dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia: queste due figure, simbolo della Legge e dei Profeti, ci ricordano le manifestazioni del Sinai in cui Dio si è rivelato attraverso il dono della sua Parola. E questi due grandi profeti convergono (conversavano) verso Gesù: in Gesù giungono a compimento le attese, l’alleanza, la Legge. Gesù è la Parola piena e definitiva di Dio. Dunque, dal Volto il discepolo è invitato a passare alla Parola. E questo passaggio si compie attraverso l’invito stesso del Padre che orienta il discepolo all’ascolto: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7).

Per il discepolo il passaggio dal Volto alla Parola non è senza resistenze. La contemplazione appagante di Gesù fa dire a Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia» (9,5). L’allusione alla festa dei Tabernacoli (le tre capanne), colorata nel giudaismo post-esilico di forte messianismo, innesta nella proposta di Pietro una pretesa: quella di anticipare il compimento post-pasquale e di fissarlo. E in fondo la tentazione di localizzare il mistero, prolungare l’istante benedetto e fissare per sempre la storia. Ma è anche la pretesa di costruire una dimora per Dio, una dimora in cui poter abitare assieme a questo Gesù e vedere ormai tutto alla sua luce, senza più la fatica di proseguire un cammino così incerto e duro. Ancora una volta emerge nel discepolo la protesta contro quell’annuncio così assurdo che Gesù ripeterà subito dopo (Mc 9,30-32). Proprio nella parola del Figlio, l’amato, quel Figlio che Dio dona all’uomo (e qui è chiara l’allusione alla richiesta di Dio ad Abramo narrata in Gen 22,1-18, la prima lettura della liturgia), è possibile fare sempre questa esperienza di trasfigurazione, sempre scoprire il volto di Gesù.

Al discepolo è richiesto di riprendere il cammino con questa Parola da seguire e da ascoltare. Il discepolo non è solo lungo la via che conduce a Gerusalemme. Marco nota alla fine dell’episodio: «guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro» (9,8). Con il discepolo c’è ancora Gesù; lui lo ha condotto sul monte e lui lo fa discendere continuando a camminare assieme, per guidarlo a quella meta che è anche la sua. Il discepolo non ha nulla da temere in questo cammino. Può far sue le parole di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31). Veramente, alla luce del volto di Gesù e nell’ascolto della sua parola, anche il nostro volto e quello dei nostri fratelli diventano belli; anche la nostra vita, gli eventi che la compongono, anche quelli più difficili da accogliere, le nostre contraddizioni e le nostre fatiche, le cose che amiamo, i desideri più nascosti, tutto può diventare luminoso e trasfigurato: le ombre non scompaiono, ci sono, ma non spaventano più perché lo sguardo riesce a raggiungere la meta. Veramente quel volto di luce ha la forza di illuminare ogni realtà.

Preghiere e racconti

Il Tabor e il Getsemani

Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità. Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore. Laggiù amore e dolore si fondono.

Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta. La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2). La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44). La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani. Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.

(Henri J.M. NOWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 140).

Domenica della Trasfigurazione

L’odierna domenica, la seconda di Quaresima, è detta della Trasfigurazione, perché il Vangelo narra questo mistero della vita di Cristo. Egli, dopo aver preannunciato ai discepoli la sua passione, “prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,1-2). Secondo i sensi, la luce del sole è la più intensa che si conosca in natura, ma, secondo lo spirito, i discepoli videro, per un breve tempo, uno splendore ancora più intenso, quello della gloria divina di Gesù, che illumina tutta la storia della salvezza. San Massimo il Confessore afferma che “le vesti divenute bianche portavano il simbolo delle parole della Sacra Scrittura, che diventavano chiare e trasparenti e luminose” (Ambiguum 10: PG 91, 1128 B).

Dice il Vangelo che, accanto a Gesù trasfigurato, “apparvero Mosè ed Elia che conversavano con lui” (Mt 17,3); Mosè ed Elia, figura della Legge e dei Profeti. Fu allora che Pietro, estasiato, esclamò: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia” (Mt 17,4). Ma sant’Agostino commenta dicendo che noi abbiamo una sola dimora: Cristo; Egli “è la Parola di Dio, Parola di Dio nella Legge, Parola di Dio nei Profeti” (Sermo De Verbis Ev. 78,3: PL 38, 491). Infatti, il Padre stesso proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” (Mt 17,5).

La Trasfigurazione non è un cambiamento di Gesù, ma è la rivelazione della sua divinità, “l’intima compenetrazione del suo essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il Padre, Gesù stesso è Luce da Luce” (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 357). Pietro, Giacomo e Giovanni, contemplando la divinità del Signore, vengono preparati ad affrontare lo scandalo della croce, come viene cantato in un antico inno: “Sul monte ti sei trasfigurato e i tuoi discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua gloria, affinché, vedendoti crocifisso, comprendessero che la tua passione era volontaria e annunciassero al mondo che tu sei veramente lo splendore del Padre”.

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’angelus, 20.03.2011).

L’immagine tra luce e ombra

La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione. Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili. Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata. La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce. Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte. Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata. L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti. Tutto il resto deve essere svelato e illuminato. Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre. […] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa. La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile. I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.

I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori. Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato. Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini. Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore. L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati. È piuttosto essa a illuminare. La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori. L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie. Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.

L’immagine è tra la luce e l’ombra. E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra. In ogni caso la rivelazione non è il riflettore. La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo. I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce. È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.

La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.

(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E. AFFINATI et al., Saper sperare.  Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).

Una sola tenda

Gesù condusse con lui tre suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigurò alla loro presenza per cui il suo volto divenne splendente come la viva luce del sole. Erano dunque essi quei tali che erano presenti e che non avrebbero visto la morte prima di vedere il Signore nel suo regno. Alla fine del mondo però tutti avranno lo splendore che il Signore mostrò in se stesso. Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo.

Sta scritto: Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso (Fil 3,21). Ecco, egli sul monte rifulse come il sole (Mt 17,2), ma non era ancora risorto. Non era ancora morto ma pur nella carne era Dio e con la carne non ancora risorta, grazie al potere divino, compiva le azioni che voleva […].

Apparvero poi Mosè ed Elia, si misero ai fianchi del Signore e conversavano con lui. San Pietro provava gioia in quella solitudine, era stanco della turbolenza del genere umano. Vedeva il monte, vedeva il Signore, Mosè ed Elia. Erano lassù solo coloro che erano a lui simili nell’aspetto. Godeva di vivere quieto senza preoccupazioni, e felice, disse al Signore: Signore, è bello per noi starcene qui. Perché dovremmo scendere dal monte in mezzo alle preoccupazioni e non preferiamo restare qui nella gioia? È bello per noi starcene qui. Se vuoi, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia. Pietro, non sapendo ancora come doveva parlare, voleva fare una separazione. Credeva fosse bene ciò che diceva. Ma che cosa fece il Signore? Fece scendere una nuvola dal cielo e ricoprì tutti, come se volesse dire a Pietro: «Perché vuoi fare tre tende? Eccone una sola». Allora udirono una voce dalla nube: Questo è il mio Figlio diletto, perché non paragonassero a lui Mosè e Elia e credessero che il Signore fosse da ritenersi come uno dei profeti, mentre era il Signore dei profeti: Questo è il mio Figlio, ascoltatelo. All’udire questa voce i discepoli caddero bocconi. Ma il Signore si avvicinò, li rialzò ed essi non videro altro che il solo Gesù.

(AGOSTINO, Discorso 79/A, 1-2, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp. 576-578)

Riconoscere Cristo

Nella Bibbia ci sono pagine molto belle sulla realtà del fatto che non si può vedere Dio in volto perché si morirebbe subito, si conoscerebbe la verità, e per l’uomo la conoscenza improvvisa e totale di tutta la verità significa la morte. C’è un passo meraviglioso, in cui Dio asseconda la richiesta di Mosè di mostrarsi e si fa vedere da lui, ma solo di spalle. Mosè è probabilmente il patriarca, il profeta che incontra più da vicino Dio, quello col quale Lui dimostra la maggiore intimità. Stanno insieme a lungo sul monte Sinai, al momento della consegna delle tavole della legge. Dio vuole compiacere Mosè quanto possibile, ma non si può mostrare che di spalle, per non uccidere il suo amico.

La realtà di Dio è che si nasconde, anche nella natura. Quando si rivela e si proclama non dice: “Io ho la verità”, ma: “Io sono la verità”, che significa tutt’altro. Spesso è l’uomo che si rifiuta di riconoscerlo, come Ponzio Pilato, che si volta dall’altra parte, e questa è la sua vera colpa: aver incontrato Cristo e non averlo voluto riconoscere.

(Piegiorgio ODIFFREDI – Sergio VALZANI, La via lattea, Longanesi, Milano, 2008, 44-45).

Ancora e sempre sul monte di luce

Ancora e sempre sul monte di luce

Cristo ci guidi perché comprendiamo

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D. M. Turoldo)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Comunità monastica Ss. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003

QUARESIMA II QUARESIMA ANNO B

VII DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio – Anno B

Prima lettura: Isaia 43,18-19.21-22.24-25

 

Così dice il Signore: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi. Invece tu non mi hai invocato, o Giacobbe; anzi ti sei stancato di me, o Israele. Tu mi hai dato molestia con i peccati, mi hai stancato con le tue iniquità. Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati».

 

 

Questa lettura è tratta dalla seconda parte del libro di Isaia, dalla sezione che annunzia la liberazione dalla schiavitù in Babilonia e il ritorno nella terra dei padri (cc. 40-44).

I vv. 18-19 contengono una esortazione a dimenticare il passato e ad aprirsi alla speranza, volgendo lo sguardo verso il futuro. La dimenticanza del passato qui intesa non è certamente quella che riguarda le imprese salvifiche di Dio, poiché quella memoria deve invece nutrire la fede nel futuro. Bisogna invece dimenticare quel modo di ricordare che alletta l’immaginazione e imprigiona la volontà, distogliendola dalle decisioni che riguardano il presente. Il profeta esorta a volgere lo sguardo verso il futuro, perché Dio è sul punto di fare una cosa nuova. Con immagine poetica, il momento attuale è paragonato alla primavera, quando sugli alberi germogliano le gemme e si preparano a sbocciare. Con altre immagini poetiche di grande effetto, è detto che si apriranno strade nel deserto e sgorgheranno sorgenti di acqua nella steppa, intendendo dire che sarà reso possibile il ritorno degli esiliati attraverso il deserto e la steppa.

— Il v. 21 dice quale sarà l’effetto più bello del ritorno dall’esilio: il popolo eletto tornerà a cantare le lodi di Dio nella sua terra.

— I vv. 22 e 24-25 assicurano che Dio stesso farà quello che ha raccomandato di fare al suo popolo: cancellerà dalla sua memoria i misfatti di Israele, non ricorderà più i suoi peccati. Ciò vuol dire che il popolo rientrato dall’esilio inizierà a vivere in piena armonia con il suo Dio. Come si vede, le grandi novità e la remissione dei peccati di questa profezia hanno avuto pieno adempimento nella persona di Gesù, secondo la nostra lettura evangelica.

 

Seconda lettura: Corinzi 1,18-22

 

Fratelli, Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è «sì» e «no». Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu «sì» e «no», ma in lui vi fu il «sì». Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono «sì». Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria. È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori.

La nostra seconda lettura appartiene alla seconda lettera di S. Paolo ai Corinzi, che eccelle tra le opere dell’antica letteratura greca. Il nostro brano si distingue in essa per la sua commossa eloquenza.

Paolo è venuto a sapere che, nella comunità di Corinto, dei mestatori si agitano per scalzare ogni suo credito e il suo prestigio di apostolo. Sfruttano per questo ogni pretesto, tra cui il fatto che egli non ha mantenuto la promessa di ritornare a Corinto, dopo che se ne era allontanato per il suo dovere apostolico. Mettono in ridicolo quel suo promettere e non mantenere, quasi che, per lui, il «sì» equivalga al «no». Paolo replica dichiarando che quest’accusa, per lui e per i suoi collaboratori Silvano e Timoteo, rasenta l’assurdità: essi non possono mescolare il «sì» e il «no», perché contraddirebbero il vangelo di Gesù Cristo (cf. Mt 5,37) e contraddirebbero soprattutto l’esempio personale del Signore Gesù, che in tutta la sua vita ha sempre obbedito prontamente al Padre, al punto che egli può essere definito un unico continuo «sì» (vv. 18-20).

In tal modo, il contenuto di un’accusa che, in se stessa, poteva essere considerata un trascurabile pettegolezzo, fornisce a Paolo l’occasione per riflettere sul comportamento di Gesù Cristo nei confronti del Padre. E su questa riflessione si innesta l’esortazione ai Corinzi di saper dire sempre il loro «Amen» (cioè il loro «sì») a tutto ciò che Dio può a loro chiedere. Questa deve essere per tutti noi una norma continua, perché tutti, seguaci di Cristo abbiamo ricevuto l’unzione, che ci ha assimilati a lui per mezzo dello Spirito (vv. 21-22).

Anche questi pensieri si armonizzano con il messaggio della lettura evangelica, che parla della novità portata tra gli uomini da Gesù e dal suo vangelo.

Vangelo: Marco 2,1-12

 

Gesù entrò di nuovo a Cafàrnao, dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la Parola. Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico. Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figlio, ti sono perdonati i peccati».  Erano seduti là alcuni scribi e pensavano in cuor loro: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?». E subito Gesù, conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate queste cose nel vostro cuore? Che cosa è più facile: dire al paralitico “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Alzati, prendi la tua barella e cammina”? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te – disse al paralitico –: alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua».  Quello si alzò e subito prese la sua barella e sotto gli occhi di tutti se ne andò, e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».

 

 

Esegesi

Il racconto della guarigione di un paralitico introduce, nel vangelo di Marco, la sezione delle così dette dispute galilaiche, che vanno da 2,1 a 3,6. La sezione, che segue quella in cui è descritta l’accoglienza trionfale di Gesù da parte delle folle della Galilea (1,14-15), ci fa conoscere il crescente contrasto che si stabilisce tra Gesù e le guide religiose del popolo ebraico. Motivo fondamentale del contrasto è il potere che Gesù si attribuisce, in qualità di figlio dell’uomo (cioè di Messia), di voler riportare al senso originario le disposizioni della legge mosaica, di saperne dare una interpretazione nuova, di portare a compimento la rivelazione fatta ai padri e di realizzare l’attesa messianica.

— I vv. 1-2 ci danno la cornice dell’avvenimento: Gesù è rientrato a Cafarnao ed è probabilmente ospite nella casa dei discepoli Simone e Andrea. Gran numero di gente è accorsa per ascoltarlo ed egli «annunziava loro la parola»; proclamava, cioè il suo vangelo.

— I vv. 3-4 descrivono, con vivace semplicità, l’azione di quattro uomini che, impediti di giungere a Gesù a causa della folla, dal tetto scoperchiato gli calano davanti un paralitico. Il gesto era così eloquente per se stesso, che non aveva bisogno di parole esplicative: ciò che si chiedeva era la guarigione dello sventurato. Né i padroni di casa né  Gesù accennano a una protesta per i danni inferti all’edificio e per l’interruzione imposta al discorso. Sembra di capire che i primitivi narratori dell’episodio abbiano visto che c’era continuità essenziale tra l‘annunzio della parola e la guarigione dei malati. La stretta unione di queste due cose è chiaramente espressa in questa frase di Luca, che parla della missione affidata da Gesù ai Dodici: «E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi» (Lc 9,2).

— Il v. 5 è teologicamente molto ricco, perché, ci presenta Gesù nella pienezza dei suoi poteri speciali: egli vede la fede del malato e dei suoi portatori; garantisce al paralitico la remissione dei peccati. La fede è vista da Gesù nel gesto del paralitico e dei suoi portatori che si affidano totalmente a lui, superando ogni ostacolo e senza neppure il bisogno di parlare. Per rispondere a quella fede, Gesù attinge al massimo del suo potere concessogli dal Padre: accoglie il paralitico con l’appellativo tenero di figliolo e gli da l’annunzio che gli sono rimessi i peccati. Con queste parole, Gesù non stabilisce uno stretto rapporto tra peccati personali e malattia in quel sofferente, ma richiama certamente alla memoria il principio a tutti noto che la radice prima di tutti mali dell’uomo consiste nel peccato. Contemporaneamente annunzia che egli per questo è venuto: per sconfiggere il peccato e iniziare una nuova fase della storia umana.

A questo punto, i vv. 6-7 interrompono il racconto del miracolo e introducono la presenza degli scribi (che rappresentano l’intera categoria delle guide spirituali del popolo) questi sono ben lontani dall’accettare l’insegnamento di Gesù e, in cuor loro, non esitano ad accusarlo di bestemmia. Il loro atteggiamento è dunque in netto contrasto con la dispo-nibilità a credere della folla.

Nei vv. 8-9, opponendosi all’incredulità degli scribi, Gesù svela i suoi poteri sovrumani: legge nei loro pensieri (ciò che è possibile solo a Dio) e presenta il suo intervento sulla malattia come prova del suo potere di rimettere i peccati.

Nei vv. 10-11, alle parole seguono i fatti: Gesù comanda al paralitico di prendere lui stesso il suo giaciglio e di andarsene a casa. Dice anche che questo miracolo dimostrerà con evidenza che egli, in qualità di figlio dell’uomo (cioè di Messia), ha davvero il potere di rimettere i peccati. Viene così enunciato il principio che i miracoli di Gesù sono segni visibili di avvenimenti e realtà che trascendono ciò che si tocca e si vede: l’evangelista Giovanni chiamerà infatti segni tutti i miracoli di Gesù.

Nel v. 12, che conclude il nostro racconto, la folla esprime il suo stupore dichiarando la sua apertura alla fede: dicendo che non hanno mai visto nulla di simile, insinuano che in Gesù si sta realizzando qualcosa di assolutamente nuovo, vale a dire l’attesa messianico-escatologica. Nulla è detto degli scribi, suggerendo così che essi sono rimasti murati nella loro incredulità.

Meditazione

Le letture di oggi si aprono con quella bella pagina del libro di Isaia, pronunciate da un profeta, chiamato dagli studiosi per convenzione Secondo Isaia (perché le sue parole sono raccolte nella seconda parte del libro di Isaia, dal capitolo 40 al capitolo 55), che vive nella difficile situazione dell’esilio babilonese. Sono parole sorprendenti, perché in contrasto con la sfiducia e la rassegnazione che Israele vive a Babilonia. Dio non è insensibile al dolore e allo smarrimento degli uomini, neppu­re lascia il suo popolo prigioniero del peccato e della sfiducia. Ma spesso nei momenti difficili non si sa sollevare lo sguardo da se stessi, si è come imprigionati dal proprio io, rimpiangendo un passato che sembra più felice dell’oggi, impauriti davanti a un futuro incerto. «Non ricordate più le cose passate, non pensate più a quelle antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43, 18-19). Il Secondo Isaia ripete più volte parole simili e oggi le ripete a noi. Abbiamo bisogno di queste parole, perché spesso non ci accorgiamo dell’opera di Dio, della forza creatrice della sua parola. Rimaniamo pri­gionieri del pessimismo, perché aprire gli occhi e il cuore al Signore e alla sua opera impegna e libera dall’abitudine a guardare solo se stessi e il proprio piccolo mondo. Nel sacramento della riconciliazione, ma anche all’inizio di ogni liturgia eucaristica, noi riceviamo quel perdono gratuito, di cui abbiamo ascoltato: «Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati». Ecco da dove parte la «cosa nuova» che Dio è venuto a creare: un perdono immeritato che crea in ognuno un cuore nuovo e una vita nuova.

Il Vangelo di oggi, che vede di nuovo Gesù a Cafarnao nella casa di Pietro, realizza il grande dono del perdono di Dio annunciato dai pro­feti attraverso Gesù, che libera dal peccato e guarisce. Tante persone si radunano e si dirigono verso quella casa. Nei loro volti si legge la voglia di star bene e di essere finalmente felici. Anche se solo un gruppo rie­sce ad entrare, il clima è comunque di festa. La presenza di Gesù allar­ga sempre il cuore alla speranza, crea tranquillità e gioia. In verità quelle persone si erano accorte che stava sorgendo una cosa nuova. E infatti la loro attenzione si era rivolta verso quel giovane profeta. Certo, vedendo tutta questa folla accalcarsi davanti alla casa dove sta Gesù, viene da chiedersi: non dovrebbe essere così per ogni nostra parroc­chia, per ogni nostra chiesa, per ogni nostra comunità? Non dovrebbe essere il cuore di ciascuno di noi come una porta per chiunque ha biso­gno di amore e di sostegno?

Il Vangelo parla di un gruppetto di uomini che portano un malato davanti a Gesù. Sembra suggerire a noi, spesso distratti ed egocentrici, che i malati e i poveri hanno bisogno che qualcuno li aiuti, che stia loro vicino, che si interessi davvero della loro vita e della loro condizione e li sappia portare da Gesù. In quegli uomini noi vediamo i discepoli di Gesù, che con generosità e intelligenza portano davanti a lui il dolore del mondo ovunque essi sono. Quel gruppetto di amici veri, non riu­scendo ad entrare nella casa ove stava Gesù a motivo della grande folla, si arrampicano sul tetto (i tetti erano in realtà a forma di terrazza, spes­so fatta di travi, coperte di canne, rami, sterpi e terra, a una distanza l’una dall’altra da rendere possibile l’apertura di uno spazio sufficiente per calarvi un grande cesto), lo scoperchiano e con delle corde calano il malato davanti a Gesù. Davvero, l’amore non conosce ostacoli, fa tro­vare strade anche le più impensate, rende intelligenti! E così quel mala­to viene posto al centro di quella casa. Per la gente è il centro fisico, per Gesù diviene il centro delle sue attenzioni. Appena lo vede e vede la fede dei suoi amici, lo accoglie e gli dice: «Figlio, ti sono perdonati i tuoi peccati». Sono parole di perdono, ossia di un’accoglienza che tocca le radici della nostra vita.

Ma c’è una grande incomprensione. Come può perdonare quell’uo­mo? Solo Dio perdona. Egli bestemmia e quindi si contrappone a Dio stesso. Nel perdono e nella guarigione si rivela la forza del regno di Dio a cui Gesù ha dato inizio. Tuttavia tra i presenti c’è chi pensa che quell’uomo ha bisogno di salute, non di perdono. No, potremmo dire: anche i malati, i deboli, i poveri hanno un cuore, hanno un’anima. E la malattia tocca spesso anche l’interno dell’uomo, non solo l’esterno. Essi non sono un caso sanitario o sociale da risolvere, non hanno biso­gno solo di assistenza, sono fratelli e sorelle da accogliere e da amare fino in fondo. Parafrasando un’affermazione evangelica si potrebbe dire: non di solo pane vivono i poveri, ma anche di amore. Sì, i poveri hanno bisogno di affetto e di compagnia. Gli scribi, quelli di ieri e quel­li di oggi, attenti solo a se stessi e scrupolosamente osservanti della legge, si scandalizzano di una misericordia così larga, di cui solo Dio sarebbe capace. Essi accettano anche che si dia qualcosa a quel malato, persino la guarigione, ma non il perdono. Insomma, i bisognosi vanno aiutati, non messi a tavola con noi. I cuori avari di quel mondo e del nostro non riescono ad accettare una misericordia senza limiti. Gesù, invece, che ama senza confini, non getta un’elemosina a quel malato e poi va via; si commuove e guarisce quel malato nel cuore e nel corpo; al perdono aggiunge la guarigione: «Dico a te, alzati, prendi la tua barella e va a casa tua». La parola di Gesù compie il miracolo di donare la guarigione totale a quel malato reintegrandolo nella sua piena dignità. Quel malato aveva bisogno, come ciascuno di noi, di perdono e di guarigione. Del resto a che serve la salute fisica se si è cattivi nel cuore? A che serve guadagnare il mondo intero, se poi si perde l’anima? Eppure noi siamo arrivati sino a coniare quel povero e ridicolo detto: «quando c’è la salute, c’è tutto!».

Il Vangelo insegna che la vita sarà migliore se mettiamo al centro dei nostri pensieri il Signore e i poveri. E metterli al centro vuol dire sentir­li come nostri parenti. Ma come, i poveri nostri parenti? Si potrebbe obiettare. Sì, questo è il vero cambiamento richiesto a noi e al mondo intero. E non è un caso che Gesù usi il termine «fratello» per indicare sia i discepoli che i poveri: è la manifestazione di un legame inscindibi­le tra Chiesa e poveri. Aveva ragione la gente di Cafarnao nel dire: «Non abbiamo mai visto nulla di simile». In effetti anche oggi, noi e il mondo, abbiamo bisogno di vedere cose come queste, abbiamo bisogno di vede­re che i poveri e i malati siano messi al centro delle nostre preoccupa­zioni e siano risanati nel cuore e nel corpo. Se pensiamo al dramma di un mondo diviso tra pochi ricchi e un numero sempre crescente di poveri, comprendiamo quanto ci sia bisogno che questo Vangelo sia ancora annunciato e soprattutto realizzato. E necessario continuare ad ascoltarlo e a proclamarlo. Se questo avviene, anche noi potremo vivere la gioia di quella gente di Cafarnao. Per questo, come dice Paolo ai Corinzi, anche il nostro parlare sia «sì», lo stesso «sì» con il quale Dio ha realizzato in Gesù tutte le sue promesse. È il «sì» dell’ascolto del Signore, dell’«Amen» di un’adesione piena alla sua misericordia, che vuole la salvezza di tutti gli uomini. Lo diciamo spesso «Amen» nelle risposte della preghiera, ma è necessario che quell’amen si dica nella vita, perché il mondo sia pervaso dall’amore di Dio per tutti.

Preghiere e racconti

L’ascolto del deserto

“L’Arabo, quando giunge in mezzo al deserto, ferma il cammello, scende e mette l’orecchi sulla sabbia.

– Che fai?

– Ascolto il deserto.

– Sì, ascolto il deserto che piange. E piange, perché vorrebbe essere una immensa, sconfinata prateria”.

E vennero conducendo a lui un paralitico che era portato da quattro persone (Mc 2,3)

La guarigione di questo paralitico raffigura la salvezza dell’anima la quale, sospirando verso Cristo dopo la lunga inerzia dell’ozio carnale, ha dapprima bisogno dell’aiuto di tutti per essere sollevata e portata a Cristo, cioè dell’aiuto dei buoni medici che le ispirano la speranza della guarigione e intercedono per lei. A buon diritto viene riferito che il paralitico era condotto da quattro persone; sia perché sono i quattro libri del Santo Vangelo che convalidano la parola e l’autorità di chi diffonde il Vangelo; sia perché sono quattro le virtù che infondono sicurezza allo spirito e lo portano alla salvezza. Di tali virtù si parla quando si loda l’eterna sapienza: «Temperanza e prudenza ella insegna, e giustizia e for-tezza delle quali niente c’è di più necessario per gli uomini nella vita» (Sap 8,7). Alcuni, penetrando il senso di questi nomi, chiamano tali virtù prudenza, fortezza, temperanza e giustizia.

E non riuscendo a portarlo davanti a lui per la folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli stava (Mc 2,4).

Desiderano presentare a Cristo il paralitico, ma ne sono impediti dalla folla che li preme da ogni parte. Accade ugualmente sovente all’anima, dopo l’inerzia del torpore carnale, che, volgendosi a Dio e desiderando essere rinnovata dalla medicina della grazia celeste, sia ritardata dagli ostacoli delle antiche abitudini. Spesso, quando l’anima è immersa nella dolcezza della preghiera interiore e intrattiene quasi un soave colloquio con il Signore, sopraggiunge la folla dei pensieri terreni e impedisce che lo sguardo dello spirito veda Cristo. Che cosa dobbiamo fare in tali frangenti? Non dobbiamo certamente restar fuori e in basso dove tumultano le folle; dobbiamo salire sul tetto della casa nella quale Cristo insegna, cioè dobbiamo tentare di raggiungere le altezze della sacra Scrittura e meditare, di giorno e di notte, con il salmista, la legge del Signore.

«Come» infatti «potrà un giovane serbare puro il proprio cammino? Nel custodire — dice il salmista — le tue parole» (Sal 118,9).

(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang. Marc., I, Mc 2,3-4. In BEDA, Commento al Vangelo di Marco, Vol. 1, Roma, Città Nuova Editrice, 1970, p. 71-72).

Confermarsi l’un l’altro nella fede

«Decisi di porre fine alla mia vita, che era stata estremamente egoista e immorale. Ero talmente infelice che volevo farla finita con tutto. Volevo morire per affogamento. Immaginavo l’oceano come un’ampia madre d’acqua che mi avrebbe cullato sulle onde e ripulito nelle sue acque.

Giunsi sulla riva dell’oceano, dove dovevo morire. Camminai tutta sola lungo la spiaggia deserta. Quel giorno, però, l’oceano non era una distesa d’acqua calda e materna. Il tempo era brutto, e la distesa d’acqua era una bestia ringhiosa. Dentro di me sapevo di dover morire, di farla finita con tutto, e se dovevo darmi a una bestia ringhiosa, anziché gettarmi nelle braccia di una grande madre, che così fosse.

Camminavo sulla spiaggia sabbiosa e stavo per girarmi per entrare in acqua, quando udii una voce molto chiara, che sembrava venire da dentro di me. Era molto distinta e chiara. La voce mi chiedeva di fermarmi, di girarmi e guardare in basso. C’era qualcosa di irresistibile in quell’ordine, perciò feci quanto mi veniva richiesto. Vedevo solo le onde dell’oceano che, giungendo a riva, cancellavano le mie impronte sulla sabbia. La voce tornò a farsi sentire: “Così come le acque cancellano le tue impronte, allo stesso modo il mio amore e la mia misericordia hanno cancellato ogni traccia dei tuoi peccati. Ti rivoglio nel mio amore, ti chiamo alla vita e all’amore, non alla morte”.

Fu come un raggio di luce accecante nell’oscurità che a quell’epoca costituiva la mia vita. Mi allontanai dall’acqua e da qualsiasi pensiero di morte. Con il continuo amore e aiuto di Gesù, ho trovato una vita bella e piena di soddisfazione. Ora vivo e amo.

Ma non avevo mai raccontato a nessuno, proprio a nessuno, ciò che mi accadde quel giorno sulla spiaggia. Tutta la mia vita è stata cambiata per sempre da questa esperienza. Ciononostante temevo che, se l’avessi condivisa, qualcuno avrebbe potuto dirmi che era tutto un sogno, un inganno. Qualcuno potrebbe dirmi che non volevo realmente morire, perciò mi sono inventata una voce che mi dicesse ciò che davvero volevo sentirmi dire.

Da allora, una parte così grande della mia vita, della vita buona e bella che ho trovato, è talmente fondata su quel momento, che non potrei metterne a rischio la sacralità affidandola a mani che potrebbero essere dure e insensibili. Non tollererei di permettere che qualcuno prenda il mio segreto più sacro e lo metta in ridicolo.

Dopo avere letto il tuo libro, ho pensato che avresti capito, perciò ho voluto condividere tutto questo con te. Alla fine del tuo libro hai scritto che raccontare la tua storia è stato il tuo dono d’amore per noi. Ti prego, dunque, di accettare il racconto di questa mia storia come il mio dono d’amore per te».

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 174-175).

Le mie mani

Le mie mani, coperte di cenere, segnate dal mio peccato e da fallimenti,

davanti a te, Signore, io le apro, perché ridiventino capaci di costruire

e perché tu ne cancelli la sporcizia.

Le mie mani, avvinghiate ai mie possessi e alle mie idee già assodate,

davanti a te, o Signore, io le apro, perché lascino andare i miei tesori…

Le mie mani, pronte a lacerare e a ferire, davanti a te, o Signore,

io le apro, perché ridiventino capaci di accarezzare.

Le mie mani, chiuse come pugni di odio e di violenza, davanti a te,

o Signore, io le apro, deponi in loro la tua tenerezza.

Le mie mani, si separano da loro peccato, davanti a te, o Signore,

io le apro: attendo il tuo perdono.

(Charles Singer).

Sofferenza materia prima della redenzione

Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.

Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.

Tu dici del tuo amico:

lo porto nel mio cuore,

mi vergogno per lui del suo peccato,

la sua sofferenza mi fa male.

È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.

Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito. Egli li ha tutti riuniti in Sé:

portando tutti i loro peccati,

soffrendo tutte le loro sofferenze,

morendo della loro morte.

Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, « cancellali », le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia morte. Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzione.

(M. QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).

II ramo da riattaccare

Buddha fu un giorno minacciato di morte da un bandito chiamato Angulimal. «Sii buono ed esaudisci il mio ultimo desiderio», disse Buddha. «Taglia un ramo di quell’albero». Con un colpo solo di spada l’altro eseguì quanto richiesto, poi domandò: «E ora che cosa devo fare?». «Rimettilo a posto» ordinò Buddha. Il bandito rise. «Sei proprio matto se pensi che sia possibile una cosa del genere». «Invece il matto sei tu, che ti ritieni potente perché sei capace di far del male e distruggere. Quella è roba da bambini. La vera forza sta nel creare e risanare».

(Racconto buddista)

Dalla vita di Antonio

Ebbene, Atanasio dice di Antonio, una volta che questi divenne padre spirituale rinomato per la santità:

«Antonio fu come un medico donato da Dio all’Egitto. Chi venne da lui triste e non se ne andò gioioso? Chi si presentò a lui in lacrime per i propri morti e non abbandonò presto il lutto? Chi arrivò in collera e non cambiò la sua ira in amicizia? Quale povero, schiacciato dallo sfinimento non arrivò a capire, attraverso le sue parole e avendolo visto, il disprezzo delle ricchezze e la consolazione della povertà? Quale monaco scoraggiato non fu reso più forte dopo aver parlato con lui? Chi venne a lui nelle tentazioni del demonio e non trovò riposo? Chi venne tormentato da pensieri malvagi e non si sentì pacificato nell’animo?» (Vita di Antonio, 87).

(Luciano MANICARDI, La paternità spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 301-308).

Il Perdono

O Signore,

per vivere Te in mezzo agli uomini,

uno dei più grandi rischi da prendere è quello di perdonare,

di dimenticare il passato dell’altro.

Perdonare e ancora perdonare,

ecco ciò che libera il passato e immerge nell’istante presente.

Amare è presto detto.

Vivere l’amore che perdona, è un’altra cosa.

Non si perdona per interesse,

non si perdona mai perché l’altro sia cambiato dal nostro perdono.

Si perdona unicamente per seguire Te.

In vista del perdono oserei pregarti, o Gesù,

con la tua ultima preghiera:

Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.

E questa preghiera ne farà nascere un’altra:

Padre, perdona me, perché così spesso anch’io non so ciò che faccio.

Fa’ che sappia ricominciare sempre di nuovo a convertire il mio cuore:

per essere testimone di un avvenire.

(Regola di Taizé)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006-.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

Per approfondire… VII DOM TEMP ORD ANNO B

VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Prima Lettura
Lv 13,1-2.45-46

Dal libro del Levìtico

Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: 
«Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli. 
Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. 
Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».

Salmo responsoriale (Sal 31)

Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall’angoscia.

Beato l’uomo a cui è tolta la colpa 
e coperto il peccato. 
Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto 
e nel cui spirito non è inganno.

Ti ho fatto conoscere il mio peccato, 
non ho coperto la mia colpa. 
Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità» 
e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato.

Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti! 
Voi tutti, retti di cuore, gridate di gioia!

Seconda Lettura
1Cor 10,31-11,1

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi

Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. 
Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. 
Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.

Acclamazione al Vangelo
(Lc 7,16)

Alleluia, alleluia.

Un grande profeta è sorto tra noi, 
e Dio ha visitato il suo popolo.

Alleluia.

Vangelo: Mc 1,40-45

Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». 
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.


commento al Vangelo

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio – Anno B

Prima lettura: Giobbe 7,1-4.6-7

Giobbe parlò e disse: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario?

Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”.

La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene».

Il capitolo settimo del libro di Giobbe inizia con una plastica descrizione di chi è destinato a morte precoce in preda a malattie dolorose (Gb 7,1-10).  Se leggiamo oltre ai pochi versetti riportati dalla liturgia anche il versetto 5 e fino al versetto 10, riusciamo a capire meglio il messaggio di questa pericope. Il libro di Giobbe non è di facile lettura e i pochi versetti ritagliati dal contesto rischiano di essere completamente incomprensibili. Con l’aggiunta degli altri versetti possiamo ritrovare alcuni temi fondamentali a tutto il libro: la caducità della vita umana, il non senso di una vita provata dall’angoscia e dal dolore; Dio l’unico vero interlocutore e responsabile della vita, per cui la domanda che nasce dal dolore non può che essere rivolta a Lui. Il «vedere» di Giobbe e di Dio.

Le osservazioni di Giobbe ondeggiano fra l’universale e il personale in un sapiente alternarsi, che esprime il dramma interiore del personaggio. «L’uomo non compie forse un duro servizio» (Gb 7,1). Il paragone della vita è il servizio militare (cf. Gb 14,14) duro, senza possibilità di respiro, di momenti di serenità, perché la fatica strema e di conseguenza il momento di riposo è agitato. A rafforzare tale immagine l’autore prende a paragone il mercenario (cf. Gb 14,6) e lo schiavo. La felicità è un’illusione, mentre la realtà della vita è come l’attesa della mercede per il mercenario (cf. Dt 14,15) e un poco d’ombra sognata dallo schiavo (Gb 7,2). Dice il Siracide: «Una sorte penosa è disposta per ogni uomo, un giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della loro nascita dal grembo materno al giorno del loro ritorno alla madre comune» (Sir 40,l-2).

Dalle considerazioni generali Giobbe passa a parlare in prima persona applicando a sé i paragoni precedenti. Egli insiste sull’insonnia. La notte lacerata dal dolore della malattia è ancora più penosa della giornata spesa nella fatica. Le ore della notte sembrano interminabili, non c’è nemmeno la speranza, l’illusione; «La notte si fa lunga» (Gb 7,49): la sentinella attende il mattino, ma per chi è malato e l’attesa è la morte non c’è nemmeno questo conforto. La notte, quando le ansie sono irrefrenabili, si prolunga, i giorni, invece, «scorrono più veloci d’una spola», ma non conducono che a una morte prematura, senza speranza (Gb 7,6; cf. 3,6, 9,25).

Giobbe descrive la sua malattia con immagini che fanno pensare alla tomba: «La mia carne si è rivestita di vermi e croste terrose, la mia pelle si raggrinza e si squama» (Gb 7,5; cf. 19,20; Ab 3,16). La malattia di Giobbe, oltre ad essere dolorosa, è ripugnante, così che Giobbe si ritrova abbandonato da tutti e incompreso anche dagli amici, che vorrebbero consolarlo. Giobbe è consapevole di questo e si rivolge sempre e soltanto a Dio,  come il responsabile ultimo della vita. A lui alza il grido: «Ricordati» della caducità della vita umana. Se i pochi giorni di vita devono essere tanto turbati dal dolore e dall’angoscia, perché vivere? La vita, l’unica vita conosciuta per esperienza, cioè quella terrena, ha termine completo con la morte: «Chi discende nello sheol non ne risale. Non tornerà più nella sua casa e non lo rivedrà più la sua dimora» (Gb 7, 9b-10). L’immagine del vedere è molto insistente sia riferita a Giobbe che a Dio; sarà proprio il «vedere» Dio, in un’esperienza di fede singolare nella Bibbia, che insiste sull’ascolto, che farà ammutolire Giobbe (Gb 42,5).

Seconda lettura: 1 Corinzi 9,16-19.22-23

Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!  Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.

Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero.

Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.

 

Paolo, dopo aver apertamente rivendicato il suo assoluto distacco dalle ricompense materiali, che per altro dovrebbero essergli dovute come predicatore, ribadisce che il compito di evangelizzare corrisponde a un mandato divino e non a una sua iniziativa. Egli è spinto a predicare come risposta a un comando divino, che urge e al quale non si può sfuggire. Vengono in mente le parole del profeta Geremia (20,9): «Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».

Paolo si domanda quale sarà il suo merito, se il predicare non dipende da lui, ma dalla necessità di rispondere alla chiamata divina, alla quale è impossibile sottrarsi. E risponde che il merito sarà per lui la rinuncia ai diritti che il Vangelo gli conferisce. Egli ha scelto di predicare gratuitamente e di mantenersi con i frutti del suo lavoro per non essere di peso ad alcuno e per non portare alcun detrimento alla predicazione del Vangelo (cf. 1Ts 2.9).

Paolo per predicare vuole essere completamente libero, ma per farsi volontariamente schiavo del Signore che gli ha dato il mandato e per servire coloro ai quali egli deve predicare. Il Vangelo, infatti, si deve predicare rispettando l’assoluta libertà dei destinatari, senza nessuna imposizione. Per farsi capire è però necessario trovare un linguaggio adatto e soprattutto fare breccia nell’esperienza di ciascuno. Paolo dunque proclama di essersi messo in sintonia con tutti quelli che deve raggiungere con la predicazione, tenendo conto delle loro concezioni culturali e religiose e della loro condizione sociale (1Cor 9.19-22). Il Vangelo non va predicato e basta. Esso va vissuto e partecipato insieme con coloro che lo accettano liberamente quando viene loro annunciato (1Cor 9,23).

Vangelo: Marco 1,29-39

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».  E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

Esegesi

La pericope del Vangelo di Marco che leggiamo oggi è formata da tre episodi: la guarigione della suocera di Simone (Mc 1,29,32; cf. Mt 8,14s; Lc 4,38s); guarigioni compiute da Gesù di sera (Mc 1.32-34; Mt 8.16s; Lc 4.40s); partenza per un luogo solitario per pregare e nuova partenza da lì per tornare a predicare in altri villaggi (Mc 1,35-39; cf. Lc 4,42-44; Mc 1,39 cf. Mt 4,23).

Gesù, uscito dalla sinagoga, subito (euthùs) dice il testo greco, si recò in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La casa di Simone si può interpretare come il punto di riferimento dei discepoli in quel periodo: Gesù si comporta in modo familiare con la suocera di Simone, entra da lei, la prende per mano ed ella, appena guarita, si mette a servirli.

Pietro ha una suocera (penthera), ne deduciamo che era sposato al tempo della sua chiamata (cf. 1Cor 9,5) dove si accenna che la moglie lo seguiva nei suoi viaggi missionari.

Gerolamo deduce dal fatto che la moglie non è nominata che essa era morta (Adversus lovinianum 1.26 (Pl 23,257), ma nulla nel testo avalla tale deduzione. I testi antichi, infatti, non nominavano mai le donne, a meno che fosse strettamente necessario, come per la suocera, che del resto rimane nell’anonimato.

Il verbo puresso, avere la febbre (Mc 1,30) si trova solo qui e in Mt 8,14 in tutto il Nuovo Testamento ed è un verbo poco usato anche nel greco classico.

Molto sobria la presentazione del miracolo, raccontato senza riportare nessuna parola di Gesù; è sottolineato solo il suo gesto di gentilezza e di aiuto: «la fece alzare prendendola per mano». In Matteo Gesù tocca la mano della donna che si alza da sola e in Luca comanda alla febbre di lasciarla.

La donna «li serviva» (Mc 1,31): la guarigione è stata subitanea e completa tanto che ella può tornare immediatamente ai suoi compiti di sempre. Il mettersi a servirli, (Matteo usa il singolare «servirlo» autoi, invece di autols) è un gesto di gratitudine verso Gesù e, come già accennato, un segno della familiarità goduta da Gesù e dai discepoli in quella casa.

Il secondo episodio è collegato al precedente da una annotazione temporale: venuta la sera (opsias de genomenes), quando il sole era tramontato (ote edu o ellos [Mc 1,32]), precisa Marco, vale a dire a sabato terminato, vengono portati davanti alla porta della casa dove stava Gesù «tutti i malati e gli indemoniati».

Dalmonion (Mc 1,34.39; 3,15,22; 6.13; 7,26.29s; 9,38; 16,9) è un sostantivo formato dal neutro dell’aggettivo daimonios che nel greco classico significa «potere divino», mentre più tardi prende il significato, usato dal Nuovo Testamento, di «spirito cattivo».

«Tutta la città era riunita davanti alla porta» (Mc 1,33), si tratta di un’iperbole, ma che fa pensare a una folla molto numerosa.

Marco dice che Gesù guarì molti e scacciò molti demoni, mentre al versetto 32 aveva detto che gli avevano portato «tutti» i malati: si tratta probabilmente di un semitismo e quindi l’evangelista non fa distinzione tra i due termini; Matteo (8,16) traspone i due termini: portarono «molti malati» e guarì «tutti», mentre Luca (4,40b) dice: «Egli imponendo su ciascuno le mani, li guariva».

Gesù non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano (Mc 1,34). È ricorrente in Marco l’ingiunzione di Gesù di non parlare della sua identità. Vengono tacitati i demoni (1, 25.34; 3,1 Is): viene imposto il silenzio dopo miracoli strepitosi (1, 44; 5.43; 7.36; 8.26), dopo la confessione di Pietro (8,30), dopo la trasfigurazione (9,9); Gesù da istruzioni segrete ai discepoli sul «mistero del Regno di Dio» (4,10-12), su ciò che contamina l’uomo (7,17-23); sulla preghiera (9.28s), sulle sofferenze messianiche (8,31, 9, 31; 10, 33s) e sulla parusia (13, 3-37). Su questi dati è stata elaborata la teoria del «segreto messianico», vale a dire che Gesù ha tenuto segreta la sua messianità durante il periodo della vita terrena e non è stato capito dai discepoli anche quando l’ha a loro rivelata (9,9). Soltanto con la risurrezione ha inizio la percezione di ciò che egli è veramente. Tale teoria risale a W. Wrede (Das Messiosgeheimnis in den Evangelien, 1901) ed ha segnato la successiva discussione sulla cristologia di Marco, anche dopo l’ampia continuazione della forma in cui era stata formulata da questo autore.

Il terzo episodio inizia anch’esso, come il precedente, con una annotazione di tempo. Là si trattava della sera, subito dopo il tramonto, qui è l’inizio del giorno, al primo albeggiare. Gesù si reca in un luogo solitario (apelthen eis eremon topon) per pregare (proseucheto) (Mc 1,35). Questo episodio è narrato solo da Marco, mentre è Luca che sottolinea di più la preghiera di Gesù. Egli ci presenta come abituale il ritirarsi di Gesù dalla folla per pregare: «Egli si ritirava in luoghi solitari e pregava» (Lc 5,21). Prima di scegliere i dodici: «egli se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte a pregare Dio» (Lc 6,12). Mentre è un’altra volta sulla montagna a pregare avviene la trasfigurazione (cf. Lc 9, 28-29). A volte Gesù se ne sta in disparte a pregare anche quando è solo con i discepoli (Lc 9.18; 11,1; 22.41s).

Nulla ci è detto della preghiera uscita dalla bocca di Gesù all’alba di un giorno che seguiva una sera passata a guarire malati e liberare posseduti dal demonio. Possiamo pensare, sulla scia della tradizione biblica, che Gesù abbia fatto propri il grido, l’invocazione, il lamento degli afflitti che non aveva potuto raggiungere, insieme al ringraziamento per l’opera finora compiuta secondo il volere del Padre. Tale opera è predicare. I miracoli sono un segno che accompagna la predicazione che il Regno di Dio è vicino (cf. Mc 1,15).

Gesù, infatti, ai discepoli che lo cercano in nome della folla, che probabilmente sperava in altre guarigioni, risponde: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38).

«E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1,39; cf. 1,34; 7,29; 16,9). È degno di nota che Marco non dica nulla del contenuto della predicazione, ma sottolinei le opere di Gesù, in particolare la cacciata dei demoni, che è segno della vicinanza del regno di Dio (cf. Mt 12,28).

Meditazione

L’evangelista Marco apre il suo Vangelo narrando la prima giornata di Gesù a Cafarnao. È come una giornata tipo di Gesù. E ci appare subito molto diversa dalle nostre giornate, segnate spesso dalla monotonia, dalla tristezza, dalla banalità, e talora dal nonsenso. Altre volte invece è la durezza e la drammaticità della vita a prendere il sopravvento. E sen­tiamo vere anche per noi le parole scritte nel libro di Giobbe: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario?» (Gb 7,1). Se poi il nostro sguardo si allarga verso coloro che sono più direttamente toccati dalla violenza, dall’ingiustizia, dalla malattia e dalla guerra, il lamento di Giobbe assu­me un valore ancor più tragico: «A me sono toccati mesi di illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: quando mi alzerò? La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba… Ricordati che un soffio è la mia vita; il mio occhio non rivedrà più il bene» (7, 6-7). La vita degli uomini è davvero dura, ci dice questo brano della Scrittura. Lo constatiamo soprattutto di questo tempi, in cui la crisi economica colpisce tanti, soprattutto i più poveri. Ebbene, la «giornata di Cafarnao», potremmo dire, quella che oggi ci è stata annunciata dal Vangelo, entra dentro le nostre giornate per infondervi forza ed ener­gia, quasi come il lievito che messo nella pasta la fermenta tutta.

Dopo aver scacciato uno spirito impuro da un poveretto mentre si trovava nella sinagoga di Cafarnao, Gesù si reca nella casa di Simone e Andrea, dove probabilmente come altre volte cercava un po’ di tran­quillità e di pace. Ma non fa in tempo ad entrare in casa che subito gli prospettano un caso: la suocera di Simone è febbricitante. Senza frap­porre tempo Gesù si avvicina a lei e la guarisce; non dice nessuna paro­la, neppure una preghiera, la prende per mano e la fa alzare. E una narrazione semplice che contiene però tutta la forza vittoriosa di Gesù contro il male. Non è solo un caso che l’evangelista per indicare la gua­rigione della donna usi lo stesso verbo che usa per la resurrezione di Gesù (Mc 16,6). La risposta della donna — «essa li serviva» — non è un semplice gesto di grata cortesia, ma la «diaconia» (questo è il verbo usato per indicare quello che la donna si è messa a fare), ossia il servizio al Signore e ai fratelli. In questa guarigione sono in certo modo presen-ti tutte le altre, sia quelle che Gesù farà nel corso della sua vita terrena sia quelle dei discepoli di allora e di ogni tempo. Infatti, subito l’evangelista allarga la scena e passa dalla guarigione di una singola persona alle guarigioni di tanti. Non siamo più nella casa di Simone, ma alla porta della città. In un giorno Gesù è entrato in ogni luogo di vita: la sinagoga, luogo della preghiera, la casa, la porta della città, luogo dell’incontro. Il Vangelo di Gesù non ha confini. Egli va ovunque, non solo da coloro che se lo aspettano o che lo conoscono. Gesù è venuto a lottare contro il male, contro ogni tipo di male, sia fisico che mentale-psichico, con la su parola e la sua opera. Emerge già qui, nella prima pagina del Vangelo, e così deve essere nella vita della Chiesa, quella «compassione» per i deboli, per i malati, per i poveri, per le folle stanche e sfinite di cui spesso sentiremo parlare nei Vangeli delle prossime domeniche e che riassume in certo modo tutta la missione di Gesù.

Viene spontaneo pensare ai milioni di persone colpite dalla guerra, dalla fame che vagano cercando una porta a cui bussare, e constatare con indicibile tristezza che sempre più spesso il loro durissimo pellegrinaggio è stroncato dalla ferrea chiusura di tutte le porte delle case degli uomini. E come non pensare anche alle porte delle nostre chiese par-rocchiali e chiedersi: sono le loro porte come quella della casa di Cafarnao? Riescono le nostre chiese ancora a radunare davanti a sé tutta la città? e se, come più spesso accade, sono approdo di speranza per poveri e disperati sanno, quelle porte, aprirsi per consolare e guarire? come vengono trattati quei mendicanti che si fermano davanti alle porte per chiedere l’elemosina?

E c’è anche un altro interrogativo che ci riguarda personalmente: non siamo noi tutti, chi in un modo chi un altro, tutti malati? San Girolamo, commentando questo brano evangelico, non esita a dire che ciascuno di noi è malato, febbricitante: «Quando sono colto dall’ira, ho la febbre; anzi, ogni vizio è febbre». Tutti siamo malati e febbricitanti, quindi bisognosi di affollarci davanti alla porta della casa del Signore. E il Vangelo non sembra neppure chiedere una particolare chiarezza di coscienza. Tutta quella folla non sapeva bene cosa ci fosse dietro quella porta, ma certo aveva riposto solo in quel luogo la sua speranza; del resto tutte le altre porte erano rimaste chiuse. Ora in tanti speravano che di lì uscisse un aiuto, qualcuno che li sollevasse dalla condizione triste in cui versavano. L’evangelista dice che Gesù ne guarì molti. E quando tutti erano andati via, guariti e rincuorati, Gesù continuò la sua giornata. Noi ci saremmo forse ritirati stanchi ma orgogliosi e soddisfatti. Gesù uscì e si recò in un luogo appartato, per pregare. Quel momento era, in verità, il culmine e la fonte di tutte le sue giornate, di tutto ciò che faceva. Era la sua prima e fondamentale opera. E possiamo allora immaginare la preghiera notturna di Gesù dopo che, per un giorno intero, aveva toccato con mano le angosce e le speranze di tanta gente. L’intimità con il Padre non era una fuga dal mondo e dalla vita per godersi finalmente un po’ di tranquillità, che pure sarebbe stata ben meritata. Molto più verosimilmente tali incontri erano colloqui appassionati (forse anche drammatici) tra il Figlio e il Padre sulla mis­sione che aveva ricevuto, sulle condizioni del mondo, sulla salvezza di tutti coloro che Gesù aveva incontrato e su quella degli altri che avreb­be dovuto e voluto incontrare ancora. Questo può spiegare la sua rea­zione quando i discepoli, dopo averlo raggiunto, gli dicono che tutti lo cercano: «Andiamocene altrove, — risponde — nei villaggi vicini, perché io predichi anche là». Gesù non si ferma in una sola casa, in un solo gruppo, in un clan, in una sola nazione; e non esce da una sola porta. Egli vuole visitare tutte le case e tutte le città, perché ovunque c’è biso­gno del Vangelo. E vuole che i discepoli, di ieri e di oggi, non si chiu­dano in una sterile autoreferenzialità, ma sentano l’urgenza di conti­nuare a comunicare il vangelo ovunque nel mondo.

Lo capì bene Paolo: «Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!». La comunicazione del Vangelo è una responsabilità da sem­pre affidata ad ogni singolo credente e ad ogni singola comunità cristia­na. E forse è proprio questa responsabilità la medicina che ci fa alzare dalle febbri dell’egocentrismo e che ci permette di aiutare e guarire chiunque ha bisogno di salvezza. Una Chiesa senza missione, senza annuncio del Vangelo, è una Chiesa autoreferenziale, che parla sempre di se stessa e a se stessa, ed è destinata ad inaridirsi. Quel «guai» non è una minaccia, ma un monito sì, perché nella Bibbia il «guai» è usato per i lamenti funebri. Una comunità che non vive la passione missiona­ria, si celebra già il suo funerale. Paolo lo sapeva bene, perché aveva esperimentato su di sé la forza del vangelo del Signore morto e risorto. Per questo l’apostolo «si è fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno». Questa fu la sua vita, che per noi rimane una domanda e una sfida.

Preghiere e racconti

Non passate oltre davanti alla sofferenza umana

«Cari giovani, che l’amore di Dio per noi aumenti la vostra gioia e vi spinga a rimanere vicini ai meno favoriti.

Voi che siete molto sensibili all’idea di condividere la vita con gli altri, non passate oltre davanti alla sofferenza umana, dove Dio vi attende affinché offriate il meglio di voi stessi: la vostra capacità di amare e di compatire. Le diverse forme di sofferenza che, lungo la Via Crucis, sono sfilate davanti ai nostri occhi sono chiamate del Signore per edificare la vita seguendo le sue orme e fare di noi i segni della sua consolazione e salvezza. «Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente  questi sono elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso». Auspico che sappiamo accogliere queste lezioni e metterle in pratica. Volgiamo lo sguardo perciò a Cristo, appeso sul ruvido legno, e chiediamogli che ci insegni questa sapienza misteriosa della croce, grazie alla quale l’uomo vive».

(Viaggio apostolico di sua santità Benedetto XVI a Madrid (Spagna) in occasione della XXVI Giornata mondiale della gioventù (18-21 agosto 2011). Via crucis con i giovani nella Plaza de Cibeles – Madrid, 19 agosto 2011).

Amare le domande, vivere le risposte

Dio non ci chiede di soffocare la nostra curiosità o di smettere di indagare la questione della sofferenza; credo che si debba riflettere continuamente su questa domanda per avere nuove intuizioni e trovare un nuovo significato. A questo proposito, rileggo spesso il consiglio del poeta Rainer Maria Rilke:

“..sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e …cerca di amare le domande per quelle che sono… Non cercare le risposte, che non ti possono essere date perché non saresti capace di viverle. Il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora. Forse gradualmente, senza accorgertene, un lontano giorno la vita stessa ti condurrà alla risposta”.

(Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1999; cit.: J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 139).

Diventare l’amato – Spezzato

La nostra prima, più spontanea risposta alla sofferenza è quella di evitarla, tenerla a distanza, ignorarla, aggirarla o negarla. La sofferenza, sia fisica, mentale o emotiva è quasi sempre sperimentata come una sgradita intrusione delle nostre vite, qualcosa che non dovrebbe esserci. È difficile, se non impossibile, vedere qualcosa di positivo nella sofferenza; deve essere allontanata a tutti i costi.

Se questo è l’istintivo atteggiamento verso la nostra fragilità, non c’è da stupirsi se favorirla può sembrare a prima vista masochismo. Tuttavia, la mia personale esperienza di sofferenza mi ha insegnato che il primo passo verso la salute non è un passo lontano dal dolore, ma un passo verso il dolore. Quando infatti il nostro “essere spezzati” è proprio come una intima parte del nostro essere, così come il nostro “essere scelti”, e il nostro “essere benedetti”, dobbiamo aver l’ardire di domare la nostra paura e di familiarizzare con essa. Sì, dobbiamo trovare il coraggio di abbracciare il nostro “essere spezzati”, fare del nostro più temuto nemico un amico e rivendicarlo come un compagno intimo.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 75-76).

Il cancro è il mio “angelo”, afferma un Cardinale cinese

Dopo che gli è stato diagnosticato un tumore ai polmoni lo scorso anno, il Cardinale Paul Shan Kuo-hsi non si è scoraggiato, e anzi ha voluto ispirare altri ad affrontare la vita con coraggio.

Il Cardinale gesuita, Vescovo emerito di Kaohsiung ed ex presidente della Conferenza Episcopale Regionale Cinese a Taiwan, ha iniziato il suo viaggio “Addio alla mia vita” a ottobre.

La sua prima meta è stata Hsinchu, sulla costa nord-occidentale di Taiwan, e da allora ha visitato le altre sei diocesi dell’isola.

“Ho trattato il cancro come il mio ‘piccolo angelo'”, ha detto il Cardinale a ZENIT in un’intervista telefonica. “Mi guida a dire alle persone che dovremmo avere il coraggio di affrontare le sfide della nostra vita”.

Il viaggio è terminato mercoledì, quando il porporato ha visitato la Fu Jen Catholic University di Taipei, che gli ha offerto un riconoscimento per il suo amore per la vita.

Il Cardinale Shan Kuo-hsi, che ha compiuto 84 anni domenica, ha affermato di essere “molto felice di essere un testimone del Vangelo” all’ultimo stadio della sua vita.

Il Cardinale ha detto di aver visitato il 22 novembre un centro per tossicodipendenti a Taitung e di aver incontrato 300 ospiti della struttura. “Il cancro – ha detto loro – mi ha fatto capire che trovandomi nell’ultimo stadio della mia vita dovrei fare del mio meglio per contribuire alla società”.

Il porporato ha pregato per gli ospiti del centro e ha auspicato che la gente dimostri “amore” per risolvere i problemi della propria vita quotidiana.

La diagnosi del cancro del Cardinale Shan Kuo-hsi è arrivata nel luglio 2006. Il porporato ha detto a quanti ha incontrato di essere rimasto scioccato e che gli era stato detto che aveva ancora 4 o 5 mesi di vita.

“All’inizio ho chiesto al Signore ‘Perché io?’. Quando mi sono calmato, ho riconosciuto che è la volontà di Dio”, ha osservato. “Voleva che io aiutassi gli altri condividendo la mia esperienza personale con loro”.

“Ora penso ‘Perché non io?’. Un Cardinale non ha il privilegio di essere in salute per sempre!”, ha aggiunto.

Dopo la sua morte, ha spiegato, il suo corpo fertilizzerà la terra di Taiwan, ma la sua anima tornerà a Dio.

Il Cardinale cinese ha lodato l’eroico esempio di Papa Giovanni Paolo II, che ha fatto del suo meglio per vivere anche gli ultimi minuti della sua vita con dignità.

(Paul Shan Kuo-hsi è nato nella provincia di Hebei, nel nord della Cina. Ha lasciato la Cina continentale dopo essersi unito ai Gesuiti nel 1946. E’ stato ordinato sacerdote nelle Filippine nel 1955. E’ stato nominato Vescovo di Hualien, Taiwan, nel 1979 e Vescovo di Kaohsiung nel 1991. Creato Cardinale nel 1998, si è ritirato nel gennaio 2006).

La prospettiva della sofferenza e della morte

Guardare in faccia la sofferenza e la morte e farne l’esperienza personale, nella speranza di una nuova vita nata da Dio: ecco il segno di Gesù e di ogni essere umano che voglia condurre una vita spirituale a sua imitazione. È il segno della croce: segno di sofferenza e di morte, ma anche di speranza in un rinnovamento totale.

Dio ha mandato Gesù in terra per fare di noi persone libere e ha scelto la compassione come via per giungere alla libertà. È una scelta molto più radicale di quanto tu possa a prima vista immaginare. Significa infatti che Dio ha voluto liberarci non già sottraendoci alla sofferenza, ma condividendola con noi. Gesù è il «Dio che soffre con noi». Potremmo quasi dire che è il «Dio che ha simpatia per noi», se il termine ‘simpatia’, che etimologicamente significa appunto ‘sofferenza condivisa’, non avesse ormai perduto molto del suo significato originario. Così, quando diciamo: «Hai la mia simpatia», intendiamo non esporci troppo ed esprimiamo anzi una specie di condiscendenza verso gli altri. È per questo che preferisco usare la parola ‘compassione’, che è più calda e più intima e indica meglio il partecipare alle sofferenze del prossimo, il sentirsi davvero un essere umano che soffre con i fratelli.

L’amore di Dio che Gesù vuole mostrarci lo vediamo chiaramente nella sua scelta di farsi compagno e partecipe delle nostre sofferenze, permettendoci così di trasformare queste sofferenze in un mezzo di liberazione. Probabilmente conosci bene le obiezioni sollevate da quelli che trovano difficile o impossibile credere in Dio. Come può Dio amare davvero il mondo, se poi permette tante spaventose sofferenze? Se Dio ci ama veramente, perché non elimina dal mondo guerre, povertà, fame, malattie, persecuzioni, torture e tutti i mali che ci affliggono? Se Dio s’interessa personalmente di me, perché sto così male? Perché mi sento sempre così solo? Perché non riesco a trovare lavoro? Perché la mia vita è così inutile?

I poveri hanno imparato davvero a conoscere Gesù e a vedere in lui il Dio che condivide le loro sofferenze. In Gesù che soffre e che muore essi trovano il segno più evidente che Dio li ama di un grande amore e che mai li abbandonerà. E loro compagno nella sofferenza. Se sono poveri, sanno che era povero anche Gesù; se hanno paura, sanno che aveva paura anche Gesù; se sono percossi, sanno che fu percosso anche Gesù; se sono torturati a morte, sanno che anche Gesù soffrì il loro crudele destino. Per essi, Gesù è l’amico fedele che percorre insieme a loro la via dolorosa della sofferenza e li conforta. È solidale con loro. Li conosce, li comprende e, quando più acuto è il loro dolore, li stringe a sé.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 32-33).

«Subito gli parlano di lei, ed egli, avvicinatesi, la fece alzare prendendola per mano»

Luca scrive nel suo Vangelo che essi «lo pregarono in favore di lei, ed egli, chinatesi sopra di lei, comandò alla febbre» (Lc 4, 38-39). Il Salvatore alle volte cura gli ammalati quando è pregato, alle volte cura di propria iniziativa, mostrando di accogliere sempre le invocazioni dei fedeli contro l’oppressione dei vizi e anche contro quelle colpe di cui essi non si rendono conto affatto. E lo fa dando loro modo di accorgersene, o liberando amorevolmente i richiedenti anche dalle colpe che non sanno di aver commesso, come appunto supplica il salmista: «chi conosce i delitti? Signore, liberami dalle colpe occulte» (Sal 18,13).

Immediatamente la febbre la lasciò, ed ella li serviva (Mc 1,31).

È naturale che, quando torna la salute, coloro che prima erano febbricitanti denuncino uno stato di debolezza e sentano le conseguenze della malattia; quando è il Signore col suo comando che ridona la salute, questa ritorna in un momento. Anzi, non solo torna la salute, ma essa è accompagnata da tanto vigore che la donna è subito in grado di mettersi a servire coloro che l’avevano aiutata. Per dirla con linguaggio figurato, le membra che avevano servito all’impurità e all’ingiustizia per dar frutti di morte, servono ora alla giustizia in vista della vita eterna (cf. Rm 6,19).

(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang. Marc., I, Mc 1,29-31, in BEDA, Commento al Vangelo di Marco. Traduzione, introduzione e note di Salvatore Aliquò, Vol. 1, Città Nuova Editrice, Roma 1970, p. 61-63).

Dammi coraggio

Ti prego: non togliermi i pericoli, ma aiutami ad affrontarli.

Non calmar le mie pene, ma aiutami a superarle.

Non darmi alleati nella lotta della vita… eccetto la forza che mi proviene da te.

Non donarmi salvezza nella paura, ma pazienza per conquistare la mia libertà.

Concedimi di non essere un vigliacco usurpando la tua grazia nel successo;

ma non mi manchi la stretta della tua mano nel mio fallimento.

Quando mi fermo stanco sulla lunga strada e la sete mi opprime sotto il solleone;

quando mi punge la nostalgia di sera e lo spettro della notte copre la mia vita,

bramo la tua voce, o Dio, sospiro la tua mano sulle spalle.

Fatico a camminare per il peso del cuore carico dei doni che non ti ho donati.

Mi rassicuri la tua mano nella notte, la voglio riempire di carezze, tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(Rabindranath Tagore)

Preghiera per il servizio

Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo. Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia. Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dubbio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza. Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritrova, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.

(Madre Teresa di Calcutta)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006-.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

 

IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio – Anno B

IV Domenica Tempo Ordinario Lectio – Anno B

Prima lettura: Deuteronomio 18,15-20

Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto.  Avrai così quanto hai chie-sto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.  Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli co-manderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene do-manderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».

Tutta la fede biblica è fondata sulla parola di Dio, feconda come la pioggia e la neve (cf. Is 55,10-11). Ed è di sempre il problema che essa sia autentica ed efficace. La prima lettura riporta il passo del Deuteronomio che fa risalire a Mosè l’origine dei profeti, gli inviati di Dio a portare la sua parola, e che ha suscitato pure l’attesa del Messia come profeta. Il di-scorso è in bocca a Mosè che parla a Israele, al di là del Giordano di fronte a Gerico, sul modo di comunicare con Dio.  Nei versetti che precedono il brano liturgico (Dt 18,9-14), egli esclude perentoriamente che possa farlo l’uomo, perché i suoi mezzi sono del tutto inadeguati e falsi. Sacrifici uma-ni, divinazione, sortilegio, magia, evocazione dei morti, spiritismo, indovini, incantatori, ecc. sono un «abominio» davanti a Dio. Solo Dio può comunicare con l’uomo in modo au-tentico.  Ecco allora la promessa, che risponde alla richiesta già fatta dagli Israeliti al Sinai: dopo Mosè, Dio stesso continuerà a parlare ad Israele, mediante la figura del profeta, del quale tratteggia così le caratteristiche. Lo susciterà Lui stesso, quindi ne garantirà la vocazione e il carisma. Sarà un fratello tra fratelli e starà in mezzo a loro: sarà cioè, non uno stravagante, ma una persona normale che vive dentro alle situazioni normali, perché di esse deve capire il senso, per vivere davvero secondo Dio. Sarà suo porta-parola: «Gli porrò in bocca le mie parole…». E come tale dovrà essere ascoltato.  Dio poi prospetta un possibile duplice falso profeta: quello che parla falsamente a nome di Dio e quello che parla in nome di falsi dei. In entrambi i casi è comminata la pena di morte, spiegabile con la rigidità dei tempi e non certo da riesumare. Testimonia comunque l’im-portanza data alla parola di Dio. E può far riflettere se la mentalità moderna, assai severa contro le trasgressioni di ordine economico e materiale, non sia invece troppo indifferente e permissiva di fronte agli scandali e alle corrosioni dei valori morali.  Mosè usa sempre il singolare, un profeta, ma con significato collettivo, riferito a tutto il profetismo. Egli stesso, del resto, condivide il suo spirito profetico con i 70 Anziani (Nm 11,16-30 e Es 18,21-26) e ad essi e ai Leviti dà in consegna la Legge, da custodire, ripetere e attualizzare continuamente (Dt 10,8-9 e 31,9-13.24-27).  Il singolare ha pure fatto attendere il Cristo, come Profeta per eccellenza, come appare da interrogativi dei Giudei (cf. Gv 1,21.25). Gesù di Nazaret lo è effettivamente. Venuto da Dio, si è fatto vero fratello tra fratelli, partecipe del nostro essere e della nostra storia: «Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).

Seconda lettura: 1Corinzi 7,32-35

Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per esse-re santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza devia-zioni.

La seconda lettura riporta uno stralcio delle risposte di Paolo alle domande scritte, su matrimonio e verginità, fattegli pervenire dalla comunità di Corinto e concentrate in 1Cor 7. Un legame col tema dell’annuncio e dell’ascolto della parola di Dio c’è nelle distinzioni che l’apostolo fa tra quello che dice lui e quello che ha detto il Signore. Anche lui cerca la parola autentica o quantomeno la traduzione autentica della parola di Cristo nella vita vis-suta. Quanto alle vergini, delle quali parla in questo brano, ha infatti premesso: «Non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e me-rita fiducia» (1Cor 7,25). Parla quindi come un convertito, ma assunto alla dignità di apo-stolo. E dà consigli per un comportamento lineare nel proprio stato di vita, conforme alla propria vocazione, senza preoccupazioni che dividano l’animo. Questo lo vede più facile in chi non è sposato, come la vergine, perché si preoccupa delle cose del Signore. Mentre chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, di come piacere alla moglie o al marito. Proteso alla trascendenza e alle realtà ultime, per cose del mondo egli intende quelle prov-visorie di questa vita che passa e per cose del Signore quelle dei valori più profondi ed eterni. Ma non è a senso unico quanto dice. Perché appena prima ha raccomandato: «Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei sciolto da donna? Non andare a cercarla» (1Cor 7,27). E all’inizio ha scritto: «Vorrei che tutti fossero come me: ma ciascuno ha il proprio dono da Dio» (1Cor 7,7). Importante è vivere secondo il dono ricevuto.  Paolo dunque invita ciascuno a vedere il proprio stato di vita come una vocazione da parte del Signore, alla quale dare risposta con una vita autentica, coerente e non divisa. E ciò è possibile solo nell’ascolto consapevole, continuo e profondo della parola di Dio.

Vangelo: Marco 1,21-28

In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spi-rito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venu-to a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furo-no presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegna-mento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbedisco-no!».  La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

Esegesi

La liberazione di un indemoniato è il primo miracolo che Marco racconta. Con esso egli introduce la descrizione di un sabato tipico di Gesù a Cafarnao. Ma in primo piano mette il suo insegnamento, lui che poi si sofferma più sui fatti che sui discorsi. Riporta, infatti, un episodio accaduto durante la liturgia della parola, nel culto sinagogale. E sviluppa il rac-conto in tre momenti, che mostrano come la parola nuova di Cristo ha provocato e com-piuto il miracolo.  Dapprima (vv. 21-22), riferisce sommariamente l’insegnamento di lui nella sinagoga e lo stupore di tutti, perché lo fa «con autorità» e non come gli scribi.  Poi racconta il miracolo (vv. 23-26), compiuto dopo uno scontro verbale con un uomo, che si è messo a gridargli contro. L’uomo è posseduto da uno «spirito immondo», detto così perché lo spinge lontano da Dio e a comportamenti indegni. Egli riconosce che Gesù, all’opposto, è «il santo di Dio», cioè tutto dedito a lui e rivestito delle sue perfezioni. Lo deve aver percepito dalle sue parole e dai suoi atteggiamenti. E si è messo in agitazione perché avverte lucidamente che ciò comporta la rovina del dominio diabolico. Ma con ar-roganza contesta a Cristo il diritto di intromettersi, usando un plurale col quale si identifi-ca con tutte le potenze demoniache e nel quale pare voler coinvolgere anche gli uditori, presumendoli dalla sua parte. Al demonio Gesù prima comanda di tacere e poi di uscire da quell’uomo. Ciò avviene tra convulsioni e grida ancora più forti, provocate dal potere sconvolgente della parola di Dio. Si è trattato di un esorcismo, ma si può dire che tante re-sistenze a Dio sono fatte di contorcimenti e strepiti di vario genere, che si placano solo a partire dal silenzio delle nostre parole e dal lasciarsi prendere dalla forza della parola di Dio.  Infine (vv. 27-28) Marco torna sulla meraviglia generale, ancora più grande dopo il mi-racolo, accompagnata da timore reverenziale, di fronte alla potenza di Dio, e da interroga-tivi su che cosa questo significhi per tutti nella lotta contro il demonio.  La risposta viene dalla differenza, rimarcata in tutto il racconto, fra l’insegnamento di Gesù e quello degli scribi. Gli scribi insegnavano, commentando i testi sacri, con tante sot-tigliezze, elucubrazioni, accomodamenti interessati, per i quali si appellavano alle tradi-zioni e ai maestri umani: un insegnamento formalistico e sterile, che può ripetersi fra i cri-stiani. Gesù invece insegna con autorità. Cioè, egli parla a nome proprio, con la propria autorità divina: «Ma io vi dico…». Parla con la coerenza della vita, diversamente dagli scri-bi e farisei, che dicono e non fanno (cf. Mt 23,2-3). E la sua parola produce quello che af-ferma, in particolare ha la forza di contrapporsi al demonio e di vincerlo. Perché egli va al valore originario della parola di Dio e la propone come una semente da sviluppare, non come una teoria sulla quale dissertare o come un formalismo da assumere.

Meditazione

Subito dopo la chiamata dei primi discepoli, Gesù manifesta che cosa significa che il regno di Dio è iniziato con la sua parola e la sua opera: insegnamento e liberazione dal ma-le, guarigione. Va nella sinagoga di Cafarnao, cittadina importante sul lago di Galilea, sta-zione di frontiera del territorio di Erode Antipa, a quel tempo governatore della Galilea in nome dei Romani, sede di una guarnigione romana, città di com¬mercio con una popola-zione mista.Gesù entra nel giorno di sabato nella sinagoga, nel luogo della pre¬ghiera, e si mette ad insegnare, come ogni domenica continua ad inse¬gnare nel luogo dove la comunità cristia-na si riunisce per la Liturgia Eucaristica. Ciò si inserisce perfettamente nella struttura della preghie¬ra sinagogale. Gesù doveva essere conosciuto a Cafarnao, come è cono¬sciuto da noi, e con tutta probabilità il capo della sinagoga lo invitava a spiegare la Scrittura proprio per questo. Un episodio analogo avverrà nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,16 ss.; Mc 6,1-6). L’insegnamento di Gesù provoca reazioni di stupore, perché sempre il Vangelo suscita stupore in chi lo ascolta con il cuore e non distrattamente. L’autorevolezza di Gesù è quella di una parola che tocca il cuore e suscita domande, non come quelle parole che talvolta si pronunciano, e che non interro¬gano nessuno, perché sono o troppo teoriche o troppo ba-nali. La sua parola suscita una reazione persino in un uomo posseduto dal male.L’impurità di quell’uomo indica lontananza da Dio, che è il puro e il santo per eccellen-za. Ma Gesù non lo disprezza, non lo allontana, come farebbe il nostro mondo davanti a gente che porta in sé i segni del male e del dolore. Non si arrabbia anche quando viene of-feso da quell’uomo. Egli capisce che le sue parole violente esprimono paura, lacerazione interiore, incapacità a liberarsi da solo dallo spirito del male. Anzi Gesù coglie in esse una domanda di guarigione. «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?, grida con violenza quell’uomo, sentendosi minacciato da Gesù e dal suo insegnamento. Sì, il be-ne eccessivo appare una minaccia per chi è abituato al male fino ad esserne posseduto. Quanta ironia in questa pagina del Vangelo: uno spirito impuro, sentendosi minacciato, ri-conosce in Gesù il Santo di Dio, mentre quelli che stanno attorno a lui, convinti di cono-scerlo, a contatto della sua figura santa, non sanno riconoscerlo. Così avviene spesso anche nella vita dei cristiani, che si abituano a vivere con Gesù senza però riconoscerne la forza di amore e di guarigione.Gesù ordina allo spirito impuro di uscire da quel corpo, tutto sommato incolpevole. L’autorità di Gesù vince il male, vince la terribile frattura che sconquassa quell’uomo. Gesù lotta autorevolmente contro il male, non si lascia intimorire da esso, comanda che la vita di Dio entri nelle strutture vitali, nel corpo, nella mente, nel cuore, nelle viscere degli uomini incate¬nate dal male, un male tanto forte da spaccare, lacerare l’uomo. «Taci! Esci», egli di-ce. Taci! — quasi che il male stesso parli attraverso l’uomo. E poi: «esci»!, quasi a dire che questo spazio non è tuo; nella vita di quest’uo¬mo hai preso troppo spazio; esci e lascia il posto di Dio. La parola di Gesù vince il male, lo ridimensiona, creando spazio a Dio dentro quest’uomo dal quale è stato cacciato ciò che esclude Dio. L’uomo, immagine di Dio, non può essere abitato dal male per sempre. Il male è forte nel mondo e nella vita degli uomini, e non sempre se ne è consapevoli, perché tutti presi da se stessi, incapaci di fermarsi, di ri-flettere, perché il male fa paura e fa chiudere gli occhi, allontana gente interessata solo al proprio benes¬sere. Esorcismo senza gesti magici, senza formule magiche, quello di Gesù. Basta la sua parola autorevole. Non che questa uscita, questo svuo¬tamento sia indolore. Strazio, urla. Si ha l’impressione comunque di un taglio netto, rapido. Di un autentico strappo. La parola di Gesù, portatrice della forza del bene, vince anche il male più resisten-te.«Tutti furono presi da timore» di fronte a Gesù. Una emozionata meraviglia, profonda, è il primo sentimento degli astanti, che si inter¬rogano seriamente su Gesù e sul suo inse-gnamento. Che cosa succede qui adesso? Che cosa è questo? Una nuova dottrina? Perché questo scossone nella vita di quell’uomo… e nella nostra? Nuovo, diverso da quello degli scribi: un insegnamento autorevole e nuovo. Qual è la novità che balza evidente al primo sguardo? L’insegnamento di Gesù è subito e soprattutto lotta diretta contro lo spirito im-puro, contro il male che abita negli uomini, facendola indebitamente da padrone. La paro-la di Gesù è allora una forza che cambia, perché entra nella vita degli uomini, anche nei peggiori, perché nessuno è così posseduto dal male da essere del tutto lontano da Dio. An-zi Gesù è venuto proprio per rendere possibile a tutti l’incontro con Dio, che è perdono e guari¬gione. Per questo Gesù, subito dopo aver chiamato i discepoli, incontra i malati e tra essi per primi gli indemoniati. Il Regno di Dio comincia a realizzarsi nel fare posto a Dio nella vita degli uomini, nello scacciare il male perché il bene penetri dovunque senza resi-stenze.Gesù entra nella vita degli uomini, innanzitutto nello spazio religioso per eccellenza: la sinagoga, dove si predica abitualmente la Parola di Dio. Gesù indica una nuova, entusia-smante dimensione del rapporto con Dio, che scuote gli uomini, anche quelli che pensano di conoscerlo. Egli mette in discussione radicalmente la struttura religiosa tradizionale, provocando la guarigione degli uomini dal male. E gli uomini sono scossi, si meravigliano, cosicché alcuni saltano nella fede, mentre altri si trincerano in un atteggiamento difensivo, ostile. Lo stupore è ambivalente e, solo, non basta per compiere il salto della fede. Infatti l’ostilità è la reazione evidente nell’episodio di Gesù che parla nella sinagoga di Nazaret (Mc 6,1-6). Gesù è davvero il profeta annunciato a Mosè nel libro del Deuteronomio. Pro-prio a lui Dio ha «messo in bocca le sue parole», perché possano liberare il mondo dal ma-le. Il regno di Dio ha preso avvio e continua a manifestarsi ogni volta che viene comu-nicato il Vangelo di Gesù. Forse non si è sempre consapevoli della forza di bene che il Si-gnore ha posto nelle mani dei suoi discepoli. Per questo si vive in modo rassegnato e pes-simista, come se il male fosse così forte da non poter essere sconfitto. Forse, come avverte l’apostolo Paolo, siamo troppo presi dalle preoccupazioni quotidiane, che ci assillano più di prima, e non poniamo mente e cuore alla forza del Vangelo del regno. Forse dovremmo preoccuparci di più di piacere al Signore, facendoci scuotere dalla sua parola, perché essa ci converta a lui e al bene, liberando anche noi dal male che si annida nei cuori.

Preghiere e racconti

Dire Dio oggi

La parola ha dato la possibilità all’uomo di coltivare la propria ricchezza interiore e di condividerla con chi gli stava vicino. La parola ha permesso all’essere umano di creare un’intensità e una complessità di relazioni che è unica, almeno nel nostro mondo conosciu-to. È stata proprio la parola ad averci permesso di tramandare – attraverso la scrittura – le esperienze più complesse e dunque ad averci aiutato a costruire la memoria, che è il gran-de patrimonio della nostra specie. Nella parola è racchiuso il mistero della relazione con Dio. C’è una voce che chiama – la Sua – e una voce – la nostra – che può scegliere se ri-spondere o meno. Il rapporto con Dio non è un rapporto passivo, bensì quello tra due vo-lontà vive e autonome. […] La delusione, l’amarezza, la depressione che tante persone esprimono al giorno d’oggi nei riguardi della vita, delle aspettative tradite, sono proprio dovuto al fatto che la parola si è ritirata, e le poche rimaste hanno perso il loro legame pro-fondo con la verità. Così, dire Dio oggi vuol dire soprattutto proporre l’idea di un’esistenza come scelta tra una vita autentica – che segue le parole della Rivelazione – e una vita rappresentata – pla-smata dalle contingenze del proprio tempo, tra una vita posseduta e una vita consumata.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Torino, Lindau, 2011, 148-149)

L’enigma del male

«Dobbiamo essere consapevoli», dice Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, «che siamo fragili, esposti al grande enigma del male. Non ci sono per l’uomo luoghi sicuri, “paradisi”. Coscienti del nostro limite, dobbiamo respingere ogni pretesa di onnipo-tenza. Non si tratta, per questa catastrofe, di incolpare Dio, ma neanche noi uomini. Con la fede, possiamo dire che Dio vuole vincere il male con noi, e l’esito finale sarà la trasfigura-zione dell’universo».

(Da «Famiglia Cristiana», 2005, 3).


Sofferenza materia prima della redenzione

Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.Tu dici del tuo amico:lo porto nel mio cuore,mi vergogno per lui del suo peccato,la sua sofferenza mi fa male.È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito. Egli li ha tutti riuniti in Sé: portando tutti i loro peccati, soffrendo tutte le loro sofferenze, morendo della loro morte.Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, «cancellali», le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia morte. Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzione.

(M. QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).

Il ramo da riattaccare

Buddha fu un giorno minacciato di morte da un bandito chiamato Angulimal. «Sii buono ed esaudisci il mio ultimo desiderio», disse Buddha. «Taglia un ramo di quell’albe-ro». Con un colpo solo di spada l’altro eseguì quanto richiesto, poi domandò: «E ora che cosa devo fare?». «Rimettilo a posto» ordinò Buddha. Il bandito rise. «Sei proprio matto se pensi che sia possibile una cosa del genere». «Invece il matto sei tu, che ti ritieni potente perché sei capace di far del male e distruggere. Quella è roba da bambini. La vera forza sta nel creare e risanare».

(Racconto buddista)

Si stupivano della sua dottrina

Entrarono in Cafarnao, e subito, entrato di sabato nella sinagoga insegnava loro, insegnava af-finché abbandonassero gli ozi del sabato e cominciassero le opere del Vangelo. Egli li am-maestrava come uno che ha autorità, non come gli scribi. Egli non diceva, cioè «questo dice il Signore», oppure «chi mi ha mandato così parla»: ma era egli stesso che parlava, come già prima aveva parlato per bocca dei profeti. Altro è dire «sta scritto», altro dire «questo dice il Signore», e altro dire «in verità vi dico».Guardate altrove. «Sta scritto — egli dice — nella legge: Non uccidere, non ripudiare la sposa». Sta scritto: da chi è stato scritto? Da Mosè, su comandamento di Dio. Se è scritto col dito di Dio, in qual modo tu osi dire «in verità vi dico», se non perché tu sei lo stesso che un tempo ci dette la legge? Nessuno osa mutare la legge, se non lo stesso re. Ma la leg-ge l’ha data il Padre o il Figlio? […] Qualunque cosa tu risponda, l’accetterò volentieri: per me, infatti, l’hanno data ambedue. Se è il Padre che l’ha data, è lui che la cambia: dunque il Figlio è uguale al Padre, poiché la muta insieme a colui che l’ha data. Se l’uno l’ha data e l’altro la muta è con uguale autorità che essa è stata data e che viene ora mutata: infatti nessuno che non sia il re può mutare la legge.Si stupivano della sua dottrina. Perché, mi chiedo, insegnava qualcosa di nuovo, diceva cose mai udite? Egli diceva con la sua bocca le stesse cose che aveva già detto per bocca dei profeti. Ecco, per questo si stupivano, perché esponeva la sua dottrina con autorità, e non come gli scribi. Non parlava come un maestro, ma come il Signore: non parlava per l’auto-rità di qualcuno più grande di lui, ma parlava con la sua propria autorità. Insomma egli parlava e diceva oggi quello che già aveva detto per mezzo dei profeti. «Io che parlavo, ec-co, sono qui» [Is 52,6].

(GIROLAMO (347-420), Commento al vangelo di Marco, 2)

Il silenzio di Dio

Il problema del male con la sua enorme portata di sofferenza prova a fondo la fiducia in Dio del credente e «…molti si arrestano perché dicono: Forse c’è qualcuno là di sopra, però se ci fosse davvero tanto male non ci sarebbe, dunque… Qui la fede entra nella sua agonia più profonda» è posta di fronte al silenzio di Dio e sembra non aver attenuanti, non aver parole che siano sufficienti, appare… «intrinsecamente insicura, non è fondata, come diceva Agostino: la mia fede non è fondata, non è un fondamento, la mia fede sta appesa alla croce. La mia fede non da alcuna sicurezza. L’esperienza del silenzio di Dio conduce sull’orlo del «forse», un «forse» che per Andrè Neher «sta all’inizio della silenziosa vertigi-ne della libertà»».

(C.M. MARTINI, Prima sessione della Cattedra dei non credenti, 1987).

Di fronte a fenomeni come la guerra in Terra Santa, il male, la sofferenza, come si può spiegare l’Amore misericordioso del Creatore?

Intervista al Padre Aurelio:

«Da sempre la sofferenza è la grande e inquietante domanda che sfida la fede in un Dio buono. È significativo che proprio nella terra del Santo, dove il Signore ha scritto la sua storia di amore e alleanza con un popolo da Lui scelto in vista della salvezza di tutti, pro-prio in quella terra la pace sembra non aver mai trovato casa. Dai tempi dei patriarchi, all’Esodo e all’entrata in quella terra, come in tutta la storia successiva, il popolo di Israele sembra non avere mai avuto pace. Ben si addice il pianto e lamento di Gesù sopra Gerusalemme: “Oh, se tu, proprio tu, avessi riconosciuto almeno in questo tuo giorno le cose necessarie alla tua pace! Ma ora es-se sono nascoste agli occhi tuoi” (Lc 19,42).Dio ha fatto buone tutte le cose, come afferma il ritornello alla fine di ogni giorno della creazione: “E Dio vide ciò che aveva fatto ed era cosa buona” (cfr. Gen 1). La Parola del Si-gnore risponde al mistero del male che lacera l’umanità, non con una teoria, ma con la sot-tolineatura di quella libertà che gli uomini, cedendo al tentatore, hanno indirizzato al male anziché al bene, cadendo così nella maledizione (cfr. Gen 3). Eppure è proprio di fronte a questa estrema miseria che si rivela l’infinita misericordia di Dio. S. Paolo la riassume in una frase: “Dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia”. Il Signore si è messo da subito alla ricerca della pecora smarrita (“Adamo, dove sei?”): con una pazienza e tenerezza immensa, parlando e intervenendo molte volte e in diversi modi, per mezzo dei suoi inviati e attraverso gli eventi della storia. Un amore gratuito che si è rivelato in modo sommo e inimmaginabile nell’incarnazione del Figlio di Dio. Tutta la vita di Gesù, soprattutto la sua morte e risurrezione è la risposta definitiva di Dio al perché della sofferenza e del male del mondo. “Dio è amore”, ed è la lontananza da Lui che precipita l’uomo nella morte del male, dell’odio, della violenza cie-ca. “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!”, dirà Gesù morente sulla croce, croce che concentra tutto il male fisico, morale e spirituale che c’è nel mondo. Lui ha voluto prendere su di sé questo male e sconfiggerlo con la Risurrezione, rive-lando così che l’Amore e la Vita di Dio, sono più grandi del peccato, dell’odio, di ogni forma di male.(Intervista fatta da Zenit al padre Aurelio Pérez, Superiore generale dei Figli dell’Amore misericordioso (FAM), 13 gennaio 2009).

Le preghiere della vita

Tu che vuoi che vinciamo il male con il bene e che preghiamo per chi ci perseguita abbi pietà dei miei nemici, Signore, e di me; e conducili con me nel tuo regno celeste. Tu che gradisci le preghiere dei tuoi servi, gli uni per gli altri, ricorda la tua grande be-nevolenza: abbi pietà di coloro che si ricordano di me nelle loro preghiere e che io ricordo nelle mie. Tu che guardi alla buona volontà e alle opere buone, ricordati, Signore, come se ti pre-gassero, di quelli che per giusta ragione, per piccola che sia, non dedicano un tempo alla preghiera.Ricorda Signore, i bambini, gli adulti e i giovani, i maturi e i vegliardi, gli affamati, gli assetati e gli ignudi, i malati, i prigionieri e gli stranieri, i senza amici e i senza sepoltura, i vecchi e i malati, i posseduti dal demonio, i tentati di suicidio, i torturati dallo spirito im-mondo, i disperati e i dubbiosi nell’anima e nel corpo, i deboli, i sofferenti in prigionie e tormenti, i condannati a morte; gli orfani, le vedove, i viandanti, le partorienti e i lattanti, chi si trascina nella schiavitù, nelle miniere e nei ceppi, o nella solitudine. (Lancelot Andrewes, in Le preghiere dell’umanità, Brescia, 1993).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:-

Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006-.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

III DOMENICA TEMPO ORDINARIO lectio Anno B

III domenica lectio – Anno B

Prima lettura: Giona 3.1-5.10

Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: «Alzati, va’ a Nìnive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico». Giona si alzò e andò a Nìnive secondo la parola del Si-gnore. Nìnive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona comin-ciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Nìnive sarà distrutta». I cittadini di Nìnive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dal-la loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.

* Incontrare Dio e farlo incontrare anche agli altri è l’idea fondamentale della prima lettu-ra.

Senza addentrarci nel ginepraio dei problemi sollevati dal testo, consideriamo Giona un libro più da meditare che da studiare. Vogliamo solo ricordare che il libro, annoverato di solito tra i profeti, è collocato oggi da molti studiosi tra i libri didattici. Infatti, diversamen-te dagli altri testi profetici, non presenta una raccolta di oracoli, limitandosi a quello scarno annuncio: «Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta» che rimangono le uniche parole del suo messaggio. L’assenza di oracoli è felicemente compensata dalla vita stessa del profeta che annuncia più con i fatti che con le parole, a tal punto da poter affermare che tutta la sua vi-cenda diventa epifania di Dio. L’insegnamento allora non sta tanto nelle parole, quanto piuttosto nella trama che rivela così il suo intento didattico.  Il brano liturgico propone un profeta che ha già sperimentato sulla sua pelle il significa-to della conversione: non voleva recarsi a Ninive ad annunciare la salvezza ai pagani, ha voluto fare di testa sua. Si è ritrovato solo, in mezzo al mare, con l’unica possibilità: quella di morire annegato. L’amorosa provvidenza divina lo salva (è il significato del grosso pe-sce) e li riporta al punto di partenza.  Troviamo ora Giona in seconda edizione, riveduta e migliorata. Di nuovo gli è rivolto l’invito del Signore che lo invia a Ninive con un ultimatum; « Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta » (v. 4). Il numero 40 indica un tempo opportuno per fare qualcosa e prendere de-cisioni, indica un’occasione decisiva e forse irripetibile. È il momento di grazia per i Nini-viti. Di fatto costoro accolgono l’occasione e, sebbene pagani, acconsentono al Dio di Giona con un’adesione plebiscitaria che interessa re e animali, due estremi per indicare tutti.  Il brano liturgico salta i vv. 6-9 che mostrano l’itinerario di conversione dei Niniviti.  La conclusione del v. 10 sottolinea: — Dio si qualifica come Dio della vita perché vuole la salvezza di ogni uomo e di tutti gli uomini (universalismo). — Dio si serve degli uomini per operare i suoi prodigi (collaborazione): Dio ha voluto aver bisogno degli uomini. Finché Giona privatizzava la sua vita, lontano da Dio, non solo non poteva essere utile agli altri, ma neppure realizzava la propria persona. Aderendo al programma divino, da una parte Giona realizza se stesso perché fa il profeta e dall’altra diviene elemento e tramite di salvezza per gli altri. Così è ciascun uomo quando accetta di far parte dell’organigramma divino.  A questo punto parrebbe di poter concludere il libro di Giona, visto che la sua missione ha avuto successo, convertendo prima se stesso e poi i Niniviti. Ma terminando così, sem-brerebbe che la conversione sia un tornare indietro una volta sola, il lasciarsi convincere da Dio una volta per tutte. Il che non è proprio vero. Lo ricorda il capitolo che segue: la con-versione è un’opera continua. Lo afferma, per aliam viam anche la seconda lettura.

Seconda lettura: 1Corinti 7,29-31

Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno mo-glie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!

* La conversione è uno stato di premurosa e amorosa attenzione alla volontà di Dio, un impegno a sintonizzare sempre più e sempre meglio la propria vita alle esigenze del Re-gno di Dio. Ogni attaccamento morboso viene bocciato, così come risulta un perditempo ogni cocciutaggine a perpetuare ciò che è effimero. Potrebbe essere questa una chiave di lettura del minuscolo brano liturgico proposto come seconda lettura.  A partire dal cap. 7 della prima lettera ai Corinti, Paolo, apostolo e catecheta, risponde ai quesiti che la comunità gli aveva sottoposto. Il primo di essi trattava del matrimonio e della verginità. Paolo ribadisce il valore del matrimonio (forse contro tendenze che lo sva-lutavano) anche se la verginità sembra rispondere ad un ideale maggiore (cf. v. 7). La cosa più importante, al di là di possibili gerarchie, consiste nel rispondere alla vocazione del Si-gnore (cf. v. 17 ss.).  Il brano liturgico è racchiuso tra due affermazioni di transitorietà: «il tempo si è fatto bre-ve» e «passa infatti la figura di questo mondo!». All’interno sono elencate alcune situazioni e il loro contrario (aver moglie / non aver moglie; piangere / non piangere…).  Paolo non intende fare previsioni cronologiche, quando afferma che il tempo è breve. Egli ha di mira il Signore morto e risorto che ha dato avvio ad una situazione nuova e de-finitiva: siamo ormai nel tempo finale, quello definitivo. In altre parole, non c’è da aspet-tarsi nulla di nuovo perché la vera novità, quella definitiva, è Lui, il Signore risorto. Se siamo alla svolta finale, significa che la realtà prende senso e colore solo alla luce di Cristo risorto. Viene tolto il plusvalore che normalmente viene attribuito alle situazioni (sposarsi, piangere, possedere), soprattutto se considerate solo nel loro aspetto esteriore (possibile traduzione del greco schema, reso in italiano con «scena», v. 31). Ciò che rimane, oltre il tempo, è l’attaccamento a Cristo Signore, la configurazione a Lui nel mistero pasquale. Il brano è quindi una calda esortazione a orientare tutto e a orientarsi definitivamente verso Lui. Anche questo è conversione. Paolo ha il merito di averci insegnato un altro aspetto del mai esaurito tema della conversione.

Vangelo: Marco 1,14-20


Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro pa-dre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

Esegesi


Le letture bibliche della presente domenica sono caratterizzate dalla duplice nota: la conversione è accoglienza dell’invito divino al rinnovamento; tale rinnovamento porta però sulla strada della solidarietà: alcuni annunciano ad altri la loro esperienza di salvezza, per-ché tutti ne possono beneficiare. C’è lievitazione per tutti.  La preziosità del brano evangelico poggia sul duplice motivo di novità: incontriamo le prime parole di Gesù riportate dal Vangelo secondo Marco (vv. 14 -15), cui segue la prima azione di Gesù, quella di convocare alcune persone, introducendole al suo seguito, con lo scopo di allargare la cerchia con nuove persone, per la costruzione di una nuova famiglia,quella della Chiesa (vv. 16-20).  1. Quando Gesù incomincia a parlare, fa riferimento a qualcosa che si è concluso e, più ancora, ad una novità che irrompe nella storia e alla quale bisogna prepararsi. Tutto que-sto è espresso con la categoria a noi nota anche se non sempre molto familiare, come «re-gno di Dio». Si tratta di un tema centrale che il novello predicatore propone subito al suo uditorio. Ma è pure una chiave interpretativa per aprire in parte il mistero della sua per-sona. Egli, certamente «rabbi» e pure «profeta» come lo chiama la gente (cf Mc 6,14s; 8,28), si definisce piuttosto come l’annunciatore del Regno, colui che con la parola dice che il Re-gno è presente e con la sua azione lo visibilizza. Mc 1,15, diventa sotto questo aspetto par-ticolarmente illuminante.  Mediante le coordinate spazio-temporali l’annuncio di Gesù viene situato in un contesto geografico ben preciso, la Galilea, e in un contesto storico definito, l’arresto del Battista, il quale, in veste di precursore, era stato l’ultima voce autorevole capace di invitare gli uo-mini ad un rinnovamento, espresso esternamente con l’abluzione battesimale. Spentasi questa voce profetica, ben si può dire: «II tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo».  Numerosi commentatori sono concordi nel leggere in queste parole la visione riassunti-va del pensiero di Gesù, non necessariamente la citazione ad litteram delle sue parole. È certo comunque che esse segnano il trapasso da un’epoca ad un’altra, da un atteggiamento di fiduciosa attesa ad uno di imminente realizzazione. Infatti nel dire «il tempo è compiu-to» si capisce che un processo è arrivato al suo termine dopo uno sviluppo più o meno lungo. Nel linguaggio di Mc l’espressione fa riferimento al tempo preparatorio dell’A.T. e presuppone la conoscenza delle varie tappe del piano divino, collegate tra loro da quella continuità che in Dio è semplice unità, nell’uomo è progressiva rivelazione. Solo Gesù, pienezza della rivelazione, può dire che il tempo preparatorio è giunto al suo termine e so-lo dopo la Pasqua, pienezza della manifestazione di Gesù, la comunità dei credenti può aderire alla verità secondo cui lui, figlio dell’uomo e figlio di Dio, da inizio ad un’epoca nuova.    Questo tempo allora non è un chronos ma un kairos, vale a dire, non una successione di attimi fuggenti qualitativamente simili ad altri, bensì un’occasione unica da vivere ora nel-la sua interezza ed esclusività, perché questo tempo che «è compiuto» (al perfetto in greco per indicare un’azione del passato ma con effetti presenti) è la porta di accesso alla situa-zione nuova, che Paolo chiama «pienezza dei tempi» (Gal 4,4) e che Marco riconosce nella presenza del Regno di Dio. Infatti il verbo greco enghiken si può tradurre tanto «è vicino», «è arrivato», quanto «è giunto», «è presente».  La venuta del Regno di Dio deve essere veramente qualcosa di straordinario se esige un cambiamento radicale espresso dall’imperativo «convertitevi» che unito al seguente «cre-dete al vangelo» indica che passato e presente non si possono mescolare; lo conferma lin-guisticamente il termine greco «metanoia» che allude ad un cambiamento di mentalità (nous = mente), corrispondente all’ebraico shub che esprime il ritorno da una strada sba-gliata, ovviamente per imboccare quella giusta. Bisogna cambiare o ritornare per aderire con cuore nuovo al «vangelo».  2. Alle prime parole di Gesù segue la prima azione. Anch’essa merita attenzione, pro-prio per capire le intenzioni di Gesù. La conversione appena annunciata ha bisogno di mediatori, di persone che abbiano sperimentato per prime che cosa significhi. Due coppie di fratelli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, colti nella quotidianità del loro lavoro, sono chiamati ad un nuovo servizio. Non dovranno più interessarsi di pesci, ma di uomi-ni, non tirarli fuori dall’acqua, ma da una vita scialba e insulsa. Devono prospettare loro «il Regno» che è l’amorosa presenza di Dio nella storia, così come è dato percepirlo con la ve-nuta di Gesù.  Con la chiamata dei primi discepoli alla sequela di Gesù, si pongono le basi della co-munità ecclesiale. Alcuni punti sono di grande attenzione: — Sono persone coinvolte nel Regno. Se l’annuncio del Regno è stata la ‘passione’ di Gesù, anche loro dovranno avere a cuore la diffusione del Regno. — Sono persone chiamate ad una vita di comunione, con Gesù prima di tutto e poi tra lo-ro. Esse non aderiscono ad un programma, ad un ‘manifesto’, ma ad una persona.— I chiamati, rispondono con un’adesione personale, pronta e totale. Si aderisce con tutta la vita e per sempre. Non sono ammessi lavoratori part time.— Il gruppo non ha nulla della setta. È vero che all’inizio sono solo quattro, ma poi diven-teranno dodici e tutti avranno come compito primario l’annuncio del Regno, la sua diffu-sione in mezzo agli uomini (cf. 6,6ss). Ciò vuol dire che la loro esperienza di incontro con il Signore e di vita con Lui diventa l’oggetto del loro annuncio. Andranno a presentare una persona, quella verso la quale vale la pena orientare tutta la propria vita. Sono dei ‘convertiti’ che avranno la passione di con-vertire altre persone. Per la stessa causa. Per il Regno. Perché Dio sia tutto in tutti.

Meditazione

Da questa domenica la liturgia ci fa ascoltare il Vangelo di Marco, il primo dei Vangeli. Marco a Roma raccolse la predicazione dell’aposto¬lo Pietro e, intorno all’anno 70, la ordinò nel suo Vangelo, che divenne poi di riferimento per i Vangeli di Matteo e Luca. Oggi ci viene propo¬sto l’inizio della vita pubblica di Gesù e le sue prime parole. Giovani Battista era stato arrestato da Erode e ucciso. Il Signore sente giunto il suo tempo, il tempo del re-gno di Dio, che egli è venuto ad inaugurare con la buona notizia, il vangelo di Dio. Anche il mondo di oggi ha biso¬gno di questa buona notizia in un tempo dove solo le cattive noti-zie fanno cronaca. Le parole di questa buona notizia sono semplici, piene di speranza, ma anche impegnative: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo».È giunto a compimento il tempo dell’attesa, quello preparato da Dio mediante i sapienti e i profeti di Israele, rappresentato da Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti. Ora è il tempo del regno di Dio che pren¬de avvio con la vita e le opere del Signore Gesù. Gesù non co-mincia da Gerusalemme, la capitale della provincia romana di Giudea, ma dalla periferia, la Galilea, la più settentrionale delle tre regioni abitate dal popolo d’Israele. Ai tempi di Gesù la Galilea era diventata una regione malfamata a motivo di forti infiltrazioni pagane che contaminavano la purezza della fede e la correttezza dei riti ebraici. Terra anche di gente rivoltosa, mal sopportata dai romani, che allora governavano la Palestina. Ma Gesù, proprio da questa terra periferica e lontana dalla capitale, inizia la predicazione del Regno di Dio; qui raccoglie i primi seguaci e qui, da risorto, attenderà i discepoli per il «secondo» inizio della predicazione evangelica. Insomma, la Galilea sembra assurgere a terra simbo-lica per ogni missione evangelica. Si potrebbe dire che se c’è da scegliere un luogo da cui partire per annunciare il Vangelo, que¬sto dev’essere il luogo periferico, marginale, escluso, disprezzato, pove¬ro, che non conta nulla. Nella «Galilea delle genti» si sentì risuonare per la prima volta il Vangelo, la buona notizia. Qui, dove poveri, pagani ed emarginati, zelati rivoluzionari si mescolavano, Gesù cominciò a dire: «il tempo è compiuto», ossia sono fini-ti i giorni nei quali la violen¬za, l’odio, l’abbandono, l’ingiustizia e l’inimicizia hanno il so-pravvento, e sono iniziati gli ultimi tempi, quelli della vittoria di Dio sul demonio, del be-ne sul male, della vita sulla morte. La storia degli uomini subisce una svolta: «il Regno di Dio è vicino», annuncia Gesù.Il tempo di Dio irrompe nella vita degli uomini in modo inaspettato, mettendo in di-scussione le abitudini e i tempi consolidati di ciascuno. Questo inizio chiede una scelta in un mondo di uomini e donne trasci¬nati dal conformismo, in cui si ha paura di scegliere, di impegnarsi per qualcosa che non sia solo a proprio vantaggio. Due sono le richieste di questo inizio: «Convertitevi e credete nel Vangelo». La novità del Vangelo di Gesù inizia con una richiesta rivolta a ciascuno personal¬mente, che è anche il segreto rivoluzionario del cristianesimo. Per cambiare il mondo non si deve innanzitutto chiedere agli altri di cam¬biare, ma bisogna cominciare da se stessi. Conversione è infatti cambia¬mento di se stessi, del proprio cuore, dei sentimenti, dei pensieri, dell’agire. Insomma un vero sovver-timento di se stessi. Oggi è facile ed istintivo pretendere che gli altri cambino, ma Gesù lo chiede per prima cosa a ciascuno dei suoi discepoli. Solo così si può vivere da cristiani, al-trimenti si è come tutti, conformisti nel lamento e nella rassegnazio¬ne, senza sogni e senza visioni per sé e per il mondo. La conversione tuttavia non è un atto magico, ma una rispo-sta al Signore che parla agli uomini. Essa comincia quando si «crede al Vangelo», smetten-do di cre¬dere solo in se stessi. La fede nasce e cresce in una chiamata, come avvenne quel giorno sul lago di Galilea, quando Gesù incontrò Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni. Erano pescatori, un mestiere che per¬metteva una vita dignitosa. In ambedue le situazioni tutto comincia con il «vedere» di Gesù, come avevamo ascoltato già domenica nel Vangelo di Giovanni. Gesù «vede», non è distratto, si accorge di noi, ci guarda nella quotidianità delle diverse occupazioni, cogliendo il desiderio di una vita migliore. Non disprezza il la-voro di quegli uomini, ma rivolge loro un invito: «Venite dietro a me, vi farò diventare pe-scatori di uomi¬ni». «Venite dietro a me» è l’invito alla sequela, ad andare dietro a Gesù, non davanti. Davanti sta lui. Il discepolo lo segue per poter imi¬tarlo, essere come lui, smet-tere di fare il protagonista e il padrone della sua vita. Seguire Gesù è la vita del cristiano, per il quale non esiste un tempo di apprendimento dopo il quale si diventa maturi e si smette di seguire Gesù, perché si è diventati maestri. Chi non rimane discepolo per tutta la vita, sarà un pessimo maestro. Poi segue una promessa: «Vi farò diventare pescatori di uomini». Gesù vuole trasformare la vita di quei pescatori, e insegnerà loro un nuovo modo di lavorare, non solo per sé, bensì per gli altri. Il mondo ha bisogno di pescatori, di gente che nel mare cerca uomini e donne che si uniscano con loro a Gesù. È l’inizio della missio-ne. Fin dal primo momento il Signore mostra che chiamata e missione vanno di pari passo. Infatti non esiste cristiano autentico che non sia anche uno che comunica il Vangelo ricevu-to, come non esiste Chiesa se non missionaria.Lo possiamo capire bene dalla vicenda di Giona, profeta difficile che non accetta di buon grado la chiamata di Dio, anche perché lo voleva mandare a Ninive, la capitale di un grande impero, la grande nemica di Israele. Per questo era fuggito una prima volta, ma poi aveva accetta¬to di annunciare la Parola di Dio dopo essere stato salvato dall’abisso della morte. Il testo evidenzia la grandezza della città, che Giona cominciò a percorrere. La sor-presa fu grande: non era ancora arrivato a percorrerne la metà, che già i cittadini di Ninive «credettero a Dio» e si convertirono. Avevano ascoltato la parola di Dio proclamata da Giona e questo aveva cambiato il loro cuore. La parola di Dio compie il mira¬colo della conversione se viene ascoltata. E Dio mostra la sua grande misericordia davanti a un po-polo che ascolta. Erano lontani da Dio, erano nemici di Israele, eppure Dio si preoccupò di loro, perché Dio si accorge della forza del male e cerca uomini che possano essere suoi pro-feti, comunicare che è possibile cambiare, cessare di compiere il male ascoltando la parola di Dio e facendo il bene.«Il tempo si è fatto breve», dice Paolo ai cristiani di Corinto. «D’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quel¬li che piangono, come se non piangesse-ro; quelli che gioiscono come se non gioissero; quelli che comprano come se non possedes-sero; quel¬li che usano i beni del mondo come se non li usassero pienamente; passa infatti la figura di questo mondo» (7, 29-31). Gli affetti, il pianto, il godere, il comprare, l’usare… spesso esauriscono le nostre giornate, la nostra mente, la nostra vita, a tal punto da rin-chiuderla come in una rete inestricabile. C’è come una corsa inarrestabile verso il vivere indi¬viduale, con il problema centrale dell’affermazione di sé, con il culto scatenato del proprio corpo, con la paura di invecchiare, di non preva¬lere… Dopo la fine delle ideologie e dei sogni sul mondo, sembra che l’unica vera passione sia l’amore per se stessi e l’unico vero oltranzismo sia l’individualismo. Il Signore viene dentro questa rete ingarbugliata che imprigiona, mortifica e intristisce con sempre più violenza la nostra vita per scioglierla e per allargarla. Gesù vuole ampliare il nostro cuore all’amore per tante altre persone, vuole che piangiamo non solo su noi stessi ma che ci uniamo semmai al pianto di coloro che so-no nell’affli¬zione, vuole che la gioia non sia riservata a pochi fortunati ma che tanti possa-no gioire, vuole che i beni di questo mondo non siano privilegio di alcuni, perché essi sono destinati da Dio a tutti. È quello che intuiro¬no i quattro discepoli, dopo aver ascoltato l’in-vito di Gesù. Il Vangelo è «la» parola sulla nostra vita: indica a ciascuno la sua vocazione, la sua strada, il suo cammino. Quei quattro, anche se non lo avevano capito appieno, si fi-darono di quella chiamata e, «subito, lasciarono le reti e lo seguirono». Il Regno di Dio ini-zia in questo modo, sulle rive del lago di Galilea. E continua lungo la storia con la stessa logica: la parola di Gesù, il Vangelo, percorre le rive delle tante Galilee di oggi cercando uomini e donne disponibili a diventare «pescatori di uomini».

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006-.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

 

Epifania del Signore

EPIFANIA DEL SIGNORE

Lectio – Anno A

Prima lettura: Isaia 60,1-6

 

Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio. Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te, verrà a te la ricchezza delle genti. Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Màdian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore.

v La prima lettura, tratta dal profeta Isaia, inizia una sezione di tre capitoli che celebra la gloria di Gerusalemme, riflesso della gloria del Signore, che brilla su di lei. Il profeta scrive questi capitoli all’epoca del ritorno degli ebrei dall’esilio di Babilonia, quando Gerusalemme è ancora un cumulo di macerie. Il ritorno però è un segno che il Signore non si è dimenticato del suo popolo e della sua città. Lo sguardo del profeta, che ha presente le grandi cose che Dio ha fatto per il suo popolo Israele, a cominciare dall’uscita dall’Egitto, dal dono della Tôrâ (Legge, insegnamento, guida) al Sinai, dalla prima entrata nella terra promessa, si spinge al di là della ricostruzione immediata di Gerusalemme e la vede trasfigurata dalla presenza del Signore.

A lei faranno ritorno tutti i suoi figli dispersi ed essa sarà raggiante, come una madre è felice quando può riabbracciare i suoi figli che sono stati lontani e provati da vicende dolorose.

A Gerusalemme, nella quale brilla la gloria di Dio, guarderanno non solo i suoi figli, ma tutte le genti: «Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere» (Is 60,3). Noi cristiani in particolare, che, come leggiamo nel brano della seconda lettura, siamo coeredi della promessa di Dio ad Abramo e al popolo di Israele, non possiamo dimenticare l’amore di Dio per la Gerusalemme terrestre, adducendo l’alibi che puntiamo il nostro sguardo sulla Gerusalemme celeste.

Il cammino che porterà tutti i popoli ad acclamare il Signore con una sola voce e a servirlo, non facendosi guerra, magari proprio sul modo con cui si serve il Signore, ma «appoggiandosi spalla a spalla» (cf. Sof 3,9) è faticoso e prima della risurrezione incontra la croce.

 

Seconda lettura: Efesini 3,2-3a.5-6

Fratelli, penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero. Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo.

 

v Nel brano della seconda lettura, tratto dalla lettera agli Efesini, Paolo predica con entusiasmo che per grazia di Dio gli è stato rivelato il mistero della salvezza. Questo mistero rivelato per mezzo dello Spirito Santo consiste nel fatto che i «gentili», vale a dire i pagani, coloro che non hanno ancora conosciuto Dio, sono chiamati in Gesù Cristo a «partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa». Di quale eredità e promessa si tratta? Con chi i pagani formano un solo corpo? Con Israele erede della promessa di Abramo. «Se poi siete di Cristo allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3.29), dice chiaramente Paolo nella lettera al Galati rivolto ai pagani convertiti.

«In te saranno benedette tutte le genti» (Gen 12,3) dice Dio ad Abramo dopo avergli promesso una discendenza numerosa e una terra. La scelta particolarissima di Abramo è in vista dell’universalità; attraverso Abramo la benedizione è per tutte le genti. Dio sceglie per sé una persona e un popolo, ma per rendergli segno e benedizione per tutta l’umanità. Con l’annuncio del vangelo di Gesù Cristo, dice Paolo entusiasta e pieno di gratitudine verso il Signore, la promessa di Dio ad Abramo sta rivelandosi in maniera più chiara.

Da notare l’insistenza di Paolo in questo brano della lettera agli Efesini sul fatto che non si tratta di un piano di Dio diverso da quello che ha incominciato ad essere rivelato nella promessa fatta ad Abramo. Dio è fedele alla sua promessa; egli ha scelto Israele come figlio primogenito (Es 4,22) e non lo ripudia, non lo priva della sua eredità, ora che attraverso il vangelo di Gesù Cristo sono chiamati ad essere figli di Dio anche gli appartenenti ad altri popoli, che, attraverso Gesù Cristo, diventano partecipi della stessa promessa e formano con Israele lo stesso corpo.

L’eredità di Israele e dei cristiani è unica, ma non è come le eredità materiali che non possono essere possedute tutte intere da più persone; si tratta di un’eredità spirituale che si moltiplica attraverso la partecipazione.

Dobbiamo anche noi come Paolo essere entusiasti del dono di Dio di averci introdotto nella promessa di Abramo, attraverso Gesù e impegnarci a mettere in pratica quello che Dio ci chiede in cambio. La chiamata comporta sempre un compito: ciascuno ha il suo e dobbiamo aiutarci gli uni gli altri a realizzarlo.

 

Vangelo: Matteo 2,1-12

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”». Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

 

 

Il vangel.o in immagini

NATALE EPIFANIA DEL SIGNORE ANNO B

 

Esegesi

Il brano del Vangelo che la liturgia propone oggi è costruito intorno a due centri geografici: Gerusalemme e Betlemme, verso i quali confluiscono i Magi, protagonisti del racconto, e dai quali si dipartono per tornare là donde erano venuti.

Chi sono i Magi? Matteo è molto sobrio su questi personaggi, non dice niente della loro identità. Accenna che giunsero da «oriente». Le numerose identificazioni posteriori sono basate sui cosiddetti vangeli aprocrifi e su leggende agiografiche raccontate e scritte per edificare. Tali tradizioni vanno accolte in questa luce. Esse servono nella misura in cui aiutano a contemplare il mistero divino nascosto nella nascita di Gesù o a trarre degli insegnamenti di vita, ma non devono alimentare curiosità fuori luogo, che sviano dal centro del messaggio evangelico.

L’evangelista, che tralascia volutamente di precisare l’identità dei personaggi, indica chiaramente lo scopo del loro viaggio. Sono alla ricerca del re dei Giudei e, giunti a Gerusalemme, chiedono: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».

Una stella è stata per i Magi il segno di un intervento divino e una chiamata a cui hanno prontamente risposto mettendosi in cammino verso la capitale del territorio dei giudei. Alcuni Padri della chiesa, fra cui Giustino, Ireneo e Origine, accostano il versetto di Matteo «Abbiamo visto spuntare la sua stella» (Mt 2,2) con il passo del libro dei Numeri in cui Balaam, il profeta chiamato a maledire Israele, ma di cui poi è costretto ad intessere le lodi, dichiara: «Una stella procede da Giacobbe, si alza uno scettro in Israele» (Num 24,17). Accostare i due passi di Matteo e del libro dei Numeri, significa tener fisso lo sguardo sul modo in cui, entro la discendenza di Abramo, si uniscono figli di Israele e figli delle genti, mistero di cui parla Paolo nella seconda lettura (Cf. Piero STEFANI, Sia santificato il tuo nome. Commenti ai vangeli della domenica. Anno A, Marietti, Genova 1986, 48-50).

La creazione è mezzo di rivelazione e per intuire la presenza di Dio può bastare una stella, ma per scoprire il Messia d’Israele occorre l’illuminazione delle Scritture, che verranno anche consultate direttamente per sapere il luogo dove trovare «il re dei giudei».

Il re Erode rimane turbato dalle parole dei Magi ed è turbata, sottolinea l’evangelista, «tutta Gerusalemme». Il verbo greco tarasso nella forma semplice e passiva è usato da Matteo solo due volte, qui e in 14,26 dove sono i discepoli che si turbano per la visione di Gesù che cammina sulle acque; lo stesso verbo è usato da Luca per esprimere la reazione di Zaccaria (Lc 1,12) alla visione dell’angelo e di Maria alle parole che il messaggero di Dio le rivolge, anzi in questo caso l’evangelista usa una forma, che compare solo in questo versetto in tutto il Nuovo Testamento, composta con la preposizione dià che fa assumere al verbo stesso un significato rafforzativo (Lc 1,29).

Si tratta del turbamento, fatto di meraviglia e anche di sconcerto di fronte all’irrompere del divino, che attrae, ma incute anche timore. Interessante la sottolineatura dell’evangelista che «il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme». Il turbamento di Erode, infatti, si può interpretare come semplice paura di perdere il potere, che scatenerà le successive reazioni negative; quello di Gerusalemme, invece, avverte i lettori che si tratta di una manifestazione di Dio in continuità con quelle precedenti narrate dalle Scritture. L’evangelista riconosce in Gerusalemme il centro della rivelazione divina. Essa è la città scelta da Dio, per così dire, come sua dimora, in essa Dio ha fatto una casa a Davide e là ha permesso a Salomone di costruirgli il tempio. Essa è centrale nella storia dell’alleanza di Dio con Israele e non si può prescindere da essa nell’allargamento della rivelazione da Israele alle genti.

Erode per rispondere alla domanda dei Magi sul luogo in cui doveva nascere il Messia consulta gli esperti delle Scritture, che rispondono con una citazione del profeta Michea: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele» (Mt 5,1; Mt 2,6).

Erode, per avere notizie sul Messia di Israele, sceglie la strada corretta: consultare le Scritture; egli, però, non mette in contatto direttamente i magi con gli interpreti delle Scritture stesse. Si fa lui stesso mediatore fra loro e la parola divina. È Erode che si informa e che chiama «segretamente» i magi. Egli adotta le forme di un complotto; vuole assicurarsi di avere le informazioni in segreto, per usarle a suo piacimento. La sua è una mediazione indebita; un appropriarsi a proprio vantaggio della rivelazione.

I magi, informati dalle parole profetiche, riprendono il cammino e ritrovano anche la guida della stella. Molto sobria la descrizione della visita dei magi al bambino trovato con «Maria sua madre». Ella è testimone silenziosa dell’umanità di questo bambino, attorno al quale si verificano prodigi e la cui nascita va posta in relazione al messaggio divino contenuto nelle Scritture.

I magi portano dei doni. Sulla simbologia dei doni si è concentrata una lunga ricerca. In particolare i magi sono stati identificati in numero di tre proprio perché tre sono i doni. Essi, inoltre, sono stati identificati come re sulla scia dei versetti 10-11 del salmo 71 (72), che la liturgia fa leggere oggi; «I re di Tarsis e delle isole portino tributi, i re di Saba e di Seba offrano doni. Tutti i re si prostrino a lui, lo servano tutte le genti».

Si tratta di un salmo in cui si celebrano le doti di giustizia, rettitudine, capacità di governo, assunzione della difesa dei poveri e degli oppressi del re ideale di Israele, che è sempre e soltanto luogotenente di Dio. Stabilire la giustizia, come via alla pace è il compito del «re dei giudei» secondo i Salmi e diversi altri passi biblici. A lui guarderanno i popoli della terra, ma il loro prostrarsi di fronte al «re dei giudei» o il loro andare a Gerusalemme, come insistono i profeti, non sarà perché costretti da un potere oppressivo, ma perché anche a loro sarà dato di seguire, come Israele, le vie di Dio a gloria di Dio stesso. Questa prospettiva è chiara nel brano di Isaia che fa da sfondo alla presentazione del dono dei magi: «Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Màdian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore» (Is 60,6).

Nell’applicare a Gesù i testi biblici, che parlano del re ideale e dello shalom realizzato, non dobbiamo privarli della loro carica escatologica, vale a dire dell’allusione ad un ulteriore e definitivo intervento divino verso il quale dobbiamo ancora camminare, perché termine della storia.

Anche i magi, avvertiti in sogno di non passare da Erode, rientrano per altra via al loro paese.

Anonimi sono entrati nel Vangelo e anonimi ne escono. L’attenzione dell’evangelista non è su di loro, ma sul bambino la cui identità si palesa solo attraverso la corretta lettura delle Scritture.

 

Meditazione

La solennità della nascita del Signore Gesù e quella della Epifania sono due misteri profondamente legati, tanto che anticamente non erano separati nella celebrazione liturgica. Sono la rivelazione dell’unico mistero del Figlio di Dio che viene tra gli uomini portando loro la luce; se il Natale sottolinea maggiormente la manifestazione del Figlio di Dio nella sua nascita nella carne, l’Epifania mette in risalto la dimensione universale di questo evento salvifico. Ma ambedue le feste sono rivelazione dell’unico mistero di Dio che assume la nostra umanità per salvarla (e nella tradizione orientale la festa della Epifania è chiamata appunto Teofania, manifestazione di Dio).

Nella tradizione liturgica occidentale, in questo giorno è stato progressivamente privilegiato il tema della universalità della chiamata alla salvezza, aspetto sottolineato sia con la scelta del testo di Isaia (il pellegrinaggio dei popoli verso Gerusalemme) sia soprattutto con il racconto dei Magi, saggi pagani che intraprendono un lungo viaggio per adorare il re dei Giudei. E su quest’ultima narrazione, tramandataci solo dall’evangelista Matteo, soffermiamo la nostra attenzione.

Il racconto della venuta dei Magi a Gerusalemme e a Betlemme è costruito da Matteo sulla base di due linee interpretative che si intersecano e formano la trama interiore della narrazione. La prima è strettamente legata al ricco sottofondo biblico, fatto di allusioni, testi, immagini (si pensi alla portata simbolica della stella, come allusione a Nm 24,7, oppure al riferimento al testo di Is 60), a cui Matteo fa continuamente riferimento. La seconda linea interpretativa orienta a leggere i racconti dell’infanzia, all’interno del vangelo di Matteo, come una sorta di prologo all’intero racconto, capace di lasciarci intravedere i temi che in seguito saranno sviluppati. E in questa prospettiva la narrazione dei Magi acquista una luce sorprendentemente ‘pasquale’, in quanto preannuncia il dramma del destino del Messia di Betlemme, crocifisso a Gerusalemme, risorto e costituito Signore (kyrios) di tutti i popoli, adorato quale Figlio di Dio dalla comunità cristiana, popolo dell’alleanza aperto al

mondo dei lontani (e in Mt 27,54, sarà proprio un pagano, il centurione, a proclamare il crocifisso quale Figlio di Dio).

Potremmo cogliere il centro dinamico del racconto nella domanda iniziale che i saggi venuti dall’oriente pongono ad Erode e ai capi del popolo; «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei?» (v. 2). Questo interrogativo supera il contesto preciso della ricerca dei Magi e assume un contenuto teologico più ampio che potrebbe essere formulato così: da dove viene il Messia?

Nella sua narrazione, Matteo offre una risposta articolata a questo interrogativo: dalla domanda iniziale formulata dai Magi, passando attraverso una rilettura dei testi biblici (con la quale viene sottolineata la necessaria mediazione della Scrittura) e oscillando tra due luoghi simbolici (Gerusalemme e Betlemme), si giunge a una rivelazione del volto stesso di Dio nel suo progetto di salvezza per tutta l’umanità. Il filo conduttore di questa progressiva manifestazione è offerto, d’altra parte, dalla affascinante ricerca dei Magi, dal loro cammino misterioso sotto il segno di una ‘stella’, cammino ritmato dai tre verbi, vedere – venire – adorare, che sono la forza interiore della loro ricerca: «Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (v. 2). In contrasto con la verità e la gioia della ricerca dei Magi, viene sottolineata la reazione inaspettata e carica di paura di Erode e dell’intera città di Gerusalemme e il passaggio dal turbamento a una ricerca piena di ambiguità. Erode incarna così una ricerca falsa che ha come presupposto la chiusura e l’incredulità, la paura e il turbamento. L’avvertimento suona chiaro: non basta possedere la Scrittura se non c’è un cuore aperto alla ricerca e alla rivelazione della regalità del Messia.

La ricerca dei Magi, a cui la stella apparsa all’inizio diventa guida e conferma di ciò che le Scritture attestano, si conclude nella gioia e nella adorazione. È la gioia che sgorga dalla consapevolezza che il faticoso cammino di ricerca ha un reale fondamento nella fedeltà di Dio; è la gioia del compimento, della meta raggiunta; è la gioia messianica della presenza di Dio che fortemente contrasta con il turbamento di chi non sa gioire dell’approssimarsi della visita di Dio. E questa gioia si trasforma in adorazione, appena «videro il bambino con Maria sua madre» (v. 11). E mediante l’offerta dei doni, questa adorazione esprime il riconoscimento del potere di questo re e bambino.

Come nota J. Goldstain, la storia dei Magi «è la nostra storia; è la storia del credente che risponde alla chiamata di Dio che gli giunge in mezzo alla confusione di questo mondo e che, nonostante le notti dello Spirito che deve attraversare, persevera nel suo cammino. Dio spesso si nasconde e raramente si svela a quelli che vuole chiamare al suo servizio, giusto quel tanto per spingerli a un primo passo che dovranno proseguire, come i Magi, nella oscurità, nella fedeltà e nella fede, fino all’incontro faccia a faccia». I Magi sono davvero l’icona dell’uomo che cerca, dell’uomo che è inquieto, come direbbe s. Agostino, finché il suo cuore non trova riposo in Dio. In questi Magi che fanno del viaggio il senso della loro vita trova voce ogni uomo che desidera conoscere e incontrare il volto di Dio e nella avventura di questi uomini, nel modo con cui percorrono una via, nelle domande che essi sanno porre, nei poveri segni che hanno a disposizione, nel loro sguardo, ognuno di noi può scoprire un aiuto per il suo cammino di fede. Un cammino che richiede sempre novità, apertura, rischio per vie inaspettate. I Magi, infatti, arrivano per una strada, ma ritornano al loro paese per un’altra. C’è in qualche modo, una strada vecchia, ‘di prima’, che parte dal proprio paese (il luogo dell’origine, della propria storia, delle proprie sicurezze) e conduce a Dio. E c’è una strada nuova (dopo l’incontro) che parte dalla scoperta del volto di Dio e riporta al proprio paese. I Magi saranno tornati nella loro terra con il volto di quel bambino nei loro occhi, ma soprattutto con la consapevolezza che nelle mani di quel bambino ormai tutta la loro vita – e anche la loro faticosa ricerca – era racchiusa, custodita, salvata, pacificata. Veramente i Magi sono per noi dei maestri nella ricerca del volto di Dio.

 

Preghiere e racconti

 

Il sapore della speranza

Se a Natale i cristiani ricordano che il Messia Gesù è nato a Betlemme in una condizione di povertà e che solo poveri pastori lo hanno riconosciuto, l’Epifania (che per l’Oriente cristiano è la grande festa legata alla Natività) ci ricorda che alcuni uomini che non avevano la fede nel Dio di Israele, alcuni sapienti, sono stati anch’essi coinvolti dall’evento della nascita di Gesù. Pagani, appartenenti non al popolo eletto ma alle genti e alle culture d’Oriente, eppure uomini capaci di una ricerca, di una lotta anti-idolatrica, di una lettura dei segni dei tempi, di inseguire una speranza che abita tutta la storia umana. Si sono messi in cammino, hanno lasciato il noto dei loro luoghi per seguire una stella e giungere poi allo stesso centro: il Messia Gesù. Avevano un “orientamento”, potremmo dire, e seguendolo con tutto il proprio essere, con convinzione e perseveranza, pronti ad affrontare l’ignoto, sono giunti alla fine della loro ricerca. Ecco il significato dell’Epifania: la buona notizia del cristianesimo non si identifica con una cultura, ma è universale, perché ogni essere umano e ogni cultura possono, nell’uomo Gesù che ha raccontato Dio, trovare la verità dell’uomo, può cogliere l’altro come destinatario di attenzione, di vicinanza, di amore. […] Ma questi sapienti dell’Oriente hanno costituito anche per gli ambienti più semplici l’immagine dell’alterità: se, infatti, lo stesso Gesù appena nato è sempre stato raffigurato come “uno di noi”, bianco, con gli occhi chiari, i magi hanno rappresentato – per colore della pelle, per cavalcatura usata, per abiti e abitudini – il simbolo del diverso, dello straniero che si fa prossimo. Forse anche per questo un tempo l’Epifania era una festa “estesa”, dilatata. Quando il Natale invitava all’intimità del singolo nucleo famigliare, tanto l’Epifania veniva allargata a parenti, vicini, persone sole, agli emarginati: una festa contrassegnata dalla generosità, dalla gratuità del dono.

(Enzo BIANCHI, Ogni cosa alla sua stagione, Einaudi, Torino, 2010, 75-77).

Una pasqua annunciata

 

«Alza gli occhi intorno e guarda; tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano» (Is 60,4).

 

«Al vedere la stella essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il Bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese». (Mt 2, 10-12).

 

Un proverbio, preso dai miei ricordi d’infanzia, suona: «la Pasqua-Epifania tutte le feste si porta via». Ciò che allora mi sembrava incomprensibile, era lo strano accoppiamento dell’Epifania con la Pasqua.

Il Gesù bambino adorato dai magi che già richiama il Gesù crocifisso e risorto. Il Figlio di Maria e Giuseppe ancora infante, cioè senza parola, che come in una rapida dissolvenza cinematografica, cede il posto al Cristo Signore, alfa e omega della storia, Parola unica ed ultima dell’amore universale del Padre.

Poi, col passare degli anni, ne ho capito il motivo e so che non potrebbe essere diversamente. L’Epifania del Dio-bambino ai magi, cioè il suo manifestarsi ai lontani e ai pagani, è già un primo squarcio di luce che lacera il velo del tempio che separava e nascondeva il «Santo dei santi». La lacerazione di quel velo sarà totale e definitiva nell’evento pasquale, quando l’urto dell’onda luminosa del Risorto romperà le anguste barriere di separazione tra cielo e terra, tra vita e morte, tra uomo e uomo. Così l’Epifania del Natale è il primo bagliore di una Pasqua ormai annunciata. E la Pasqua è l’annuncio della totale epifania di Dio finalmente realizzata.

 

Cercare Dio

Oggi è la festa degli infaticabili cercatori di Dio, degli inarrestabili pellegrini dell’Assoluto, incamminati verso cieli nuovi e terra nuova: «I tuoi figli vengono da lontano» (Is 60, 4).

A qualunque popolo, razza, religione e cultura appartengano, tutti lo possono trovare perché Egli, che è la meta, si è fatto anche strada. Visto il collegamento tra Epifania e Pasqua, non sarebbe male commentare quella preghiera che si pronuncia nella liturgia del venerdì santo per coloro che, pur non credendo in Dio, vivono con bontà e rettitudine di cuore. È splendida: «Dio, tu hai messo nel cuore degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti trovano hanno pace: fa’ che, al di là di ogni ostacolo, tutti riconoscano i segni della tua bontà e, stimolati dalla testimonianza della nostra vita, abbiano la gioia di credere in te, unico vero Dio e padre di tutti gli uomini».

I magi sono il simbolo di tutti coloro che affrontano un lungo percorso ad ostacoli senza cedere ai tentativi di depistaggio o disorientamento, senza lasciarsi catturare dagli ambigui sorrisi del potere. E il loro viaggio non termina, come ci aspetteremmo, con il raggiungimento del traguardo sognato. «Videro il Bambino con Maria sua Madre» e così, si potrebbe concludere, vissero felici e contenti. No. Dopo aver offerto i loro doni, «per un’altra strada fecero ritorno al loro paese».

Da allora sarà sempre così per chi lo ha trovato e poi vuole rimanere con lui: bisogna saper cambiare strada, per non perderlo; anzi, per non perdersi.

 

Avvicinarsi a Dio

Festa anche dei lontani, degli stranieri, degli esclusi dal sistema. L’apparire della luce di Dio tra le nostre tenebre capovolge i sistemi dei pesi e delle misure da noi stabiliti. Trasforma i meccanismi di esclusione e inclusione da noi codificati. Ci sono «lontani» che diventano «vicini», e «primi» che diventano «ultimi». Ci sono pii e osservanti delle leggi e maestri di morale che escono dal tempio senza essere perdonati; e peccatori, prostitute ed empi samaritani che diventano modelli di santità. Non è l’etichetta che conta. Le vecchie carte d’identità, per lui, sono tutte scadute e vanno rinnovate con… altri criteri.

Se i magi riescono a incontrare e adorare Gesù, è perché Dio, per rivelarsi, «non fa preferenze di persone», non chiede prima la tessera di appartenenza politica o religiosa, non discrimina in base ai titoli di studio o ai diplomi di benemerenza. Non valuta insomma le condizioni di staticità o i piedistalli del passato. Egli va incontro e svela il suo volto a quanti si spingono sulle piste del futuro e aprono i varchi dell’esodo. Si fa trovare nella casa di ogni uomo reso «infante», senza capacità o diritto di parola e di difesa.

Si fa identificare da chi ha già deciso di assomigliarli. E gli si può assomigliare solo lasciando la nostra strada, oltre che la sicurezza della nostra casa, per seguire i suoi sentieri e le sue tracce.

 

Leggere i segni di Dio

Festa di chi sa leggere i segni. Una “stella”, guidava i magi nel loro faticoso cammino.

Quanti segni anche per noi, nella natura, negli eventi del tempo, nel cuore dell’uomo, possono diventare frecce direzionali, raggi luminosi che discretamente, nel cuore della notte, orientano i nostri timidi passi verso un paese, sempre incompiuto, dove c’è spazio per ogni uomo: quell’uomo che è lo spazio stesso di Dio.

Soprattutto il Bambino, scoperto e adorato nella povertà di un villaggio da questi curiosi investigatori del mistero, è i1 segno che dobbiamo indagare tra le case e le baracche della terra, se vogliamo rintracciare i preziosi lembi del cielo. È lui il vero cielo, e ne dobbiamo intuire la presenza oltre il velo di ogni persona, dietro le quinte di ogni scena storica. Davanti a Gesù i magi non dicono nulla. Di fronte a lui solo silenzio, ginocchia che si piegano, vita che diventa dono: mirra, oro, incenso. È Gesù crocifisso, risorto, glorificato. Compendio dei misteri dolorosi, gaudiosi e gloriosi della vita umana. Epifania di Dio, pellegrino sulle strade dell’uomo. Epifania dell’uomo, quando si fa pellegrino sulle strade di Dio. Un monito per le nostre comunità affinché, come popolo di «magi pellegrini», non indugino nei palazzi di Erode, nelle accademie dell’immobilismo, nei labirinti delle ricerche a tavolino, ma affrontino la strada della concretezza quotidiana e forzino la marcia verso quell’alto monte dove il Signore, eliminata per sempre la coltre della morte e fatto cadere l’ultimo velo che impedisce la completezza della sua definitiva epifania, ha già preparato il festoso banchetto della vita e della pace per tutti i popoli.

(Don Tonino Bello, Avvento. Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 97-102).

Gloria a te,

altissimo Signore,

che ti sei fatto umile Bambino.

Gloria a te,

invisibile Dio,

che ci hai mostrato il tuo Volto.

Gloria a te,

infinito Padre,

che hai scelto una Donna

per rivelare la tua bellezza.

Gloria a te,

immenso Creatore,

che accogli la fede

e l’adorazione dei Magi.

Gloria a te,

onnipotente Bambino,

che ti manifesti alle genti

in semplicità e umiltà.

Gloria a te,

misericordioso Dio,

che doni a tutti pietà e tenerezza.

Gloria a te,

divino Sovrano

del cielo e della terra…

Apri a tutti gli uomini

le porte del tuo Regno.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

– T. BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.