V DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Geremia 31,31-34

 

  Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.

 

  • Gesù Cristo, l’abbiamo constatato, è ormai pronto a consegnarsi al disegno del Padre, perché, come aveva in precedenza detto: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (4,34). Tutto ciò sfocia nell’atto della stipula di una nuova alleanza, di cui ai suoi tempi il profeta Geremia aveva avvertito la necessità: «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore» (31,31-32).

Infatti Geremia aveva preso coscienza di quanto fosse difficile per il suo popolo vivere da popolo di Dio, nella fedeltà e nel rispetto della legge. D’altra parte, egli stesso era stato rifiutato in qualità di messaggero di Dio da coloro che avrebbero dovuto ascoltarlo. Di che cosa allora si sente la necessità? Dio pensa a dare all’alleanza, atto con cui Egli si è «legato» e fatto «soggiogare» alla fedeltà nei confronti dei discendenti d’Abramo, una forza tale da renderla «più intima dell’intimo dell’uomo». Si tratta di una legge di cui non ci si può accontentare di vedere scritta in codici cartacei o su tavole di pietra o altro materiale, quasi a essere rassicurati sulla sua perennità, bensì di una legge posta nel cuore stesso dell’uomo: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (31,33).

Il profeta di Anatot non conosce certamente lo Spirito Santo come noi dopo la rivelazione di Gesù Cristo, benché in quanto profeta ne abbia fatto un’esperienza eccezionale. Eppure è lo Spirito che sarà chiamato «nuova legge» e lo stesso profeta veterotestamentario ne sente come il forte desiderio di attingere a questa maggiore luce. In fondo, anch’egli, come i Greci del Vangelo, domanda più chiarezza e si rallegra nella speranza che un giorno il cuore di ogni uomo, finalmente risanato dal limite del peccato e purificato da tutte le angosce, possa riconoscere in Dio il salvatore e il liberatore senza problemi: «Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» (31,34).

 

Seconda lettura: Ebrei 5,7-9

     Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

 

  • Il brano evangelico ci presenterà un Gesù perfettamente disposto all’obbedienza di fronte alla volontà salvifica del Padre suo e Padre nostro. Su questo medesimo tenore si situa anche la breve pericope tratta dalla Lettera agli Ebrei. L’autore della Lettera, infatti, non trascura di segnalare quella che è una delle componenti di ogni uomo; l’angoscia di doversi consegnare alla morte, perché da essa «nullo homo vivente può scappare», come dice Francesco d’Assisi. Di tale angoscia fu partecipe anche Gesù e «nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7).

Questo senso di solidarietà è totale, perché ci viene prospettato in primo luogo un Gesù che prega e supplica il Padre durante la sua vita terrena, nella quale ha incontrato chissà quante volte il pallore della morte, lo squallore della miseria, la disperazione della malattia incurabile. Inoltre, al suo supplicare egli aggiunse «grida e lacrime», in sequenza incessante, per rimarcare il grado dell’offerta della propria vita, in qualità di “sommo sacerdote” che s’immola a vantaggio dell’umanità. E il Padre, che ha il potere di donare la vita e di riprenderla, esaudì il Figlio, in quanto gli era gradito tutto ciò che da Lui era compiuto. Dunque, per questa sua relazione spirituale, Cristo è stato esaudito, come poi precisano i vv. 8 e 9: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».

L’offerta di Cristo, in realtà costituisce un sacrificio efficace che il Padre ha gradito, poiché la sua volontà è stata rispettata: la stessa disponibilità dimostrata da Cristo gli ha consentito di intervenire trasformandone la vita (Gesù «reso perfetto») in opera di completa mediazione della salvezza divina per quanti, sul modello del Maestro, si faranno “obbedienti”.

 

Vangelo: Giovanni 12,20-33

 

     In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

 

Esegesi

Prima di entrare nel vivo del brano, proviamo a tracciare, seguendo il racconto dell’evangelista Giovanni, le coordinate entro le quali s’inquadra il brano di questa domenica. Nel primo versetto del capitolo 12 leggiamo: «Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti». Gesù, infatti, a quel che dice il quarto Vangelo, si recava spesso a Gerusalemme per pregare e insegnare nel Tempio, avendo «punto d’appoggio» la casa di Lazzaro, nel villaggio di Betania, distante un paio di chilometri dalla capitale. Durante la cena che fu consumata a casa di Lazzaro, Maria, una delle sue sorelle, compì un gesto «profetico»: l’unzione dei piedi del Maestro. La narrazione prosegue con la descrizione di un altro atto «profetico», che coinvolse parte della folla venuta per il pellegrinaggio pasquale: «Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!» (12,12-13).

In questo contesto avviene l’incontro tra Gesù e i Greci, i quali chiedono a Filippo di essere presentati al Maestro. Il Vangelo, però, si nota subito, purtroppo non ci dice se il dialogo tra Gesù e coloro che hanno chiesto di vederlo si sia verificato, tuttavia ci riferisce le parole pronunciate da Lui appena Andrea e Filippo lo informano della richiesta espressa da questi Greci: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (12,23-28a).

Dal tenore di queste parole emerge un Gesù perfettamente cosciente non solo della morte imminente (i suoi avversari hanno tramato di ucciderlo dopo Pasqua, ma Gesù li «costringerà» ad anticipare), bensì anche del fatto che la morte non costituisce affatto una sconfitta. Anzi, Gesù adopera termini che fanno presagire, da parte sua, l’ansia di portare a compimento quella missione, affidatagli dal Padre, di cui più volte ha parlato: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16-17). Che il Padre desideri salvare l’umanità attraverso suo Figlio Gesù è la «buona notizia» da annunciare, ossia la glorificazione da rendere manifesta mediante il mistero pasquale che Gesù è, in un certo qual senso, ansioso di adempiere, come dimostra l’espressione: «Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!».

Perciò Egli, che è il Rivelatore, allude appena a una parabola, quella del chicco di grano caduto in terra: esso produce molto frutto qualora muoia. Detto altrimenti, soltanto l’obbedienza alla volontà salvifica del Padre si rivela feconda di «risultati» positivi, che operano la trasformazione dal chicco singolo a una spiga carica di chicchi, risorgendo da quella stessa terra in cui è morto il chicco originario. Ad accompagnare questa parabola c’è un detto che ne ricorda di analoghi presso i Sinottici. Il senso non è difficile: di fronte a Gesù, che muore per poi risorgere, ciascun credente viene sollecitato a valutare la vita attuale in rapporto a quella eterna. E perdere la vita significa mettersi al servizio di Gesù, per essere là dove Lui si trova, sulla croce come nella gloria, per godere della riconoscenza del Padre.

Alla fine delle parole di Gesù si sente una «voce dal cielo». Non ci soffermiamo molto su questo, ricordando casi analoghi nella Bibbia (ad esempio in Es 19, At 2, Ap 5, i racconti del battesimo di Gesù e la trasfigurazione), in cui la voce divina, in relazione a teofanie, risulta indescrivibile e irriferibile per gli esseri umani. Ma tale voce è proprio rivolta alla folla e non a Gesù. È questo il motivo per cui Egli si preoccupa subito di «interpretarla»: Gesù sa già perché è venuto nel mondo, mentre chi lo circonda non si rende conto del valore e della sostanza della sua missione. In realtà, il compimento del mistero pasquale si caratterizza per il giudizio che esprime sul principe di questo mondo, ossia su Satana e su tutto il complesso della sua negatività.

Dal desiderio espresso dai Greci di incontrarlo, dunque, emerge la prontezza di Gesù nel dichiararsi disponibile, nonostante la sofferenza che ne seguirà, a morire, perché quel desiderio è segno di un’umanità che ha sete della salvezza e della conoscenza della verità.

 

Meditazione

Siamo ormai alle soglie della Settimana Santa. La quinta domenica di Quaresima ci viene incontro quasi per un ultimo momento di sosta e di raccoglimento prima di stringerci attorno al Signore Gesù che entra in Gerusalemme. Sono gli ultimi giorni terreni di Gesù; domenica prossi­ma lo accompagneremo agitando con le nostre mani le palme mentre entra nella città santa; passeranno alcuni giorni e verrà prima catturato, poi condannato e quindi messo a morte. Sono gli eventi della settimana centrale nella vita delle comunità cristiane. La Chiesa, che già da molti giorni ci sta preparando a questi eventi, insiste perché ciascuno di noi sia pronto per la celebrazione del grande mistero della morte e risurre­zione di Gesù.

La proposta di questa domenica, attraverso il Vangelo di Giovanni, pone sulle nostre labbra la stessa domanda che alcuni greci, presenti tra la folla dei pellegrini recatasi a Gerusalemme per la Pasqua, posero a Filippo e Andrea: «Vogliamo vedere Gesù». È una richiesta che faccia­mo nostra particolarmente in questo tempo e in questi giorni. C’è una spiritualità dei giorni della Passione, che è anzitutto non tralasciare la persona di Gesù, il Signore. Perciò, in questa settimana è bene che i nostri occhi possano ogni giorno leggere una pagina evangelica, maga­ri del racconto della Passione, per poter comprendere il cuore, i pen­sieri, i sentimenti e l’amore di Gesù. È un momento di grazia per cia­scuno di noi. Quando Filippo e Andrea riferiscono a Gesù la richiesta dei due greci, egli risponde che è giunta la sua «ora». Quell’ora che «non era ancora arrivata» durante le nozze di Cana, che «stava venen­do» nell’incontro con la samaritana al pozzo di Giacobbe, quella «ora» per cui Gesù era venuto sulla terra, ora sta per giungere nella sua pie­nezza. È un’ora del tutto diversa da quella che aspettiamo noi, quella del trionfo, della riscossa, dell’affermazione di se stessi, della vittoria sugli altri.

Per Gesù è l’ora della sua passione e morte. Non c’era mai stata per lui l’ora dell’interesse per sé, sebbene più volte avesse subito la tentazione di fuggire il pericolo della cattura che vedeva avvicinarsi sempre più, oppure di allontanarsi da Gerusalemme come gli stessi discepoli più volte lo avevano esortato a fare. L’ora, ormai giunta, non era certo un momento facile per Gesù. Era anzi fortemente drammatico, tanto da fargli esclamare: «L’anima mia è turbata; e che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». E decise di restare, anzi di entrare a Gerusalemme anche se questo gli sarebbe costato la morte. Ne era ben consapevole. Più volte l’aveva detto, scandalizzando anche i più vicini a lui. Nel tempio lo ripete a tutti i presenti, sotto forma di parabola: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Per lui non era bastato venire sulla terra, era necessario donare la vita sino alla fine, sino all’ultimo istante, sino all’ultima goccia. Bisognava che apparisse dinanzi a tutti l’incredi­bile amore del Padre e del Figlio.

Gesù non ha cercato la morte. Al contrario, ha condiviso l’angoscia di ogni uomo davanti l’ultimo atto dell’esistenza. Nella Lettera agli Ebrei abbiamo ascoltato: «Cristo, nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva sal­varlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito». Tuttavia — ed è qui il grande mistero della Croce — l’obbedienza al Padre e l’amore per gli uomini erano per Gesù più preziosi della sua stessa vita. Non era venuto sulla terra per «rimanere solo», bensì per portare «molto frutto». L’unica via per portare frutto, ossia per racco­gliere i dispersi, viene indicata da Gesù nel brano evangelico: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna». Sono parole che sembrano incompren­sibili, e per certi versi lo sono; esse suonano totalmente estranee al comune sentire, da risultare indecifrabili dal punto di vista del linguag­gio. Tutti amiamo conservare la vita, custodirla, preservarla, risparmiar­la dalla fatica; nessuno è portato ad «odiarla», come invece sembra suggerire il testo evangelico. Basti pensare alle cure che abbiamo per il nostro corpo. E non parlo di quella ordinaria attenzione per la salute. Mi riferisco a quelle sofisticate attenzioni che riserviamo all’estetica e all’apparire, e per le quali non badiamo a spese né ad energie.

Il Vangelo parla un altro linguaggio; potrebbe apparire duro, eppu­re a guardarci bene dentro è profondamente realista Il senso dei due termini (odiare e amare) è da intendersi sulla scia della stessa vita di Gesù, del suo modo di comportarsi e di voler bene, del suo modo di impegnarsi, di pensare e di preoccuparsi. Insomma, Gesù ha vissuto tutta la sua vita amando gli uomini più di se stesso. La morte in croce rappresenta l’ora in cui questo amore si manifesta nella sua pienezza. Sì, la croce è l’ora della salvezza; potremmo dire che è il momento culminante dell’intera storia umana, il punto più alto di amore che l’uo­mo ha potuto e possa esprimere.

E forse è proprio questa l’ora di cui parla la profezia di Geremia quando prevede «giorni nei quali il Signore con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderà un’alleanza nuova» (31, 31). Sono poche parole, ma rappresentano uno dei vertici spirituali del Primo Testamento: l’antico patto del Sinai giunge al suo compimento in una «alleanza nuova» che il Signore stabilisce con il suo popolo. Gesù stesso rievocherà durante l’ultima cena questa profezia di Geremia, quando definirà la coppa pasquale come «il calice della nuova alleanza». Tale nuova alleanza non sarà più scritta su tavole di pietra ma nel cuore stesso degli uomini, come aveva annunciato Geremia. E il primo cuore su cui essa è scritta è quello stesso di Gesù sulla croce, squarciato dalla lancia, quel cuore effonde tutto il suo sangue sino all’ultima goccia. Come restare distanti e freddi di fronte a tale amore? Come dimentica­re quest’uomo appeso sulla croce e passare oltre? Come resistere ad una passione così alta che ha portato un uomo a dare tutta la sua vita sino alla morte in croce? Ecco perché Gesù può dire: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me!» (Gv 12, 32). È la grazia che chie­diamo in questi giorni. La chiediamo per ciascuno di noi personalmen­te e per tutte le nostre comunità cristiane perché si lascino conformare il cuore da quell’amore. È la grazia che chiediamo anche per il mondo perché gli uomini, guardando quel volto crocifisso, si commuovano e possano scoprire che l’amore è più forte di ogni presunta forza umana, è più forte di ogni potere violento, è più forte di ogni egocentrismo nazionale o di gruppo. Da quella croce, da quel cuore squarciato, sgor­ga la fonte della salvezza per il mondo intero.

 

L’immagine della domenica

 

CAMMINO DI CARABIAS (MORAL DE HORNUEZ-SEGOVIA)    –    2015

 

«Esistere è un fatto,

vivere è un’arte».

(Frédéric Lenoir)

 


Preghiere e racconti

La potatura

«D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E lí, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio lí, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).

 

Il chicco di grano, icona di una vita che si fa feconda

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato.

In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (…). Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!» (…). Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (…).

Alcuni stranieri chiedono agli apostoli: Vogliamo vedere Gesù. Una richiesta dell’anima eterna dell’uomo che cerca, che arriva fino a noi, sulla bocca di molti, spesso senza parole, e ci chiede: Mostrami il tuo Dio, fammi vedere in chi credi davvero. Perché Dio non si dimostra, con alte catechesi o ragionamenti, si mostra. Mostrando mani d’amore e occhi limpidi, una vita abitata da lui.

Gesù risponde portando gli interlocutori su di un altro piano, oltre il suo volto, proponendo una immagine indimenticabile: Volete capire qualcosa di me? Guardate un chicco di grano. Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Il vero volto, la verità del chicco consiste nella sua storia breve e splendida.

È bellissimo che Gesù adoperi il paragone del seme di frumento: non si tratta di un’allegoria esterna, lontana, separata, ma significa che ciò che Gesù sta dicendo, ciò che con la sua vita sta mostrando è inscritto nelle leggi più profonde della vita. La vita delle creature più semplici risponde alle stesse leggi della nostra vita spirituale: Vangelo e vita sono la stessa cosa, reale e spirituale coincidono. E come il chicco di grano è profezia di pane, così Gesù afferma: anch’io sono un pane per la fame del mondo.

Se cerchiamo il centro della piccola parabola del seme, la nostra attenzione è subito attratta dal forte verbo «morire»: Se il chicco non muore, se invece muore… Ma l’accento logico e grammaticale della frase cade invece su due altri verbi, sono loro quelli principali: Rimanere solo o produrre molto frutto. Il senso della vita di Cristo, e quindi di ogni uomo, si gioca sul frutto, sulla fecondità, sulla vita abbondante che lui è venuto a portare (Gv 10,10). Non è il morire che dà gloria a Dio, ma la vita in pienezza.

Fiorire non è un sacrificio. Il germe che spunta dal chicco altro non è che la parte più intima e vitale del seme; non uno che si sacrifica per l’altro, ma l’uno che si trasforma nell’altro; non perdita ma incremento. Seme e germe non sono due entità diverse, ma la tessa cosa: muore una forma ma per rinascere in una forma più piena ed evoluta. In una logica pasquale.

La seconda immagine che Gesù offre di sé, oltre al chicco, è la croce: Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me. Io sono cristiano per attrazione, sedotto dalla bellezza dell’amore di Cristo. La suprema bellezza del mondo è quella accaduta sulla collina fuori Gerusalemme, quando l’infinito amore si lascia inchiodare in quel niente di legno e di terra che basta per morire. E poi risorgere, germe di vita immortale. Perché ciò che si oppone alla morte non è la vita, è l’amore.

(Ermes Ronchi)

 

Tutti attirati da lui

Come domenica scorsa, anche il brano del vangelo secondo Giovanni previsto per oggi dalla liturgia ci presenta una riflessione sulla passione e morte di Gesù. Il contesto è quello della terza e ultima Pasqua vissuta da Gesù a Gerusalemme, quando ormai i sommi sacerdoti hanno preso la decisione di condannarlo a morte (cf. Gv 11,53), e dopo il suo ingresso messianico nella città santa acclamato da molta folla (cf. Gv 12,12-19).

Come in occasione di ogni grande festa, erano saliti a Gerusalemme anche dei greci (héllenes), dei non ebrei, dunque dei pagani, i quali avevano certamente sentito parlare di Gesù, del suo carattere profetico, della sua autorevolezza nel rivolgersi alla gente. Gesù ha conosciuto un certo successo, che gli ha procurato fama, oltre che acerrimi nemici.

Questo successo inquieta soprattutto gli uomini religiosi, impazienti di frenare ed estinguere il movimento nato dalla predicazione di Gesù. Costoro poco prima erano arrivati a dire: “Ecco, tutto il mondo gli va dietro!” (Gv 12,19), chiedendo dunque di fare qualcosa di definitivo riguardo a Gesù, di risolvere la questione una volta per tutte.

I pagani presenti a Gerusalemme, interessati a incontrare Gesù, avvicinano Filippo (il discepolo con un nome greco, proveniente da Betsaida di Galilea, città abitata da molti greci) e gli chiedono: “Vogliamo vedere Gesù”. Ciò però non è facile, perché incontrare dei pagani nella città santa, da parte di un rabbi, non è conforme alla Legge, non rispetta le regole di purità.

Filippo, titubante, va a riferirlo ad Andrea, il discepolo più intimo di Gesù, il primo chiamato alla sequela secondo il quarto vangelo (cf. Gv 1,37-40); poi, insieme, i due decidono di presentare la richiesta a Gesù. Quest’ultimo, ascoltandoli, nella sua capacità di riflettere e di leggere gli avvenimenti percepisce che tale domanda è una profezia che riguarda i pagani: anche loro potranno essere suoi discepoli, credere in lui e fare parte della sua comunità.

La sua vita sta volgendo alla fine, la morte è decretata dalle legittime autorità della comunità religiosa, della sua “chiesa”, ma Gesù riesce a vedere oltre la morte, anzi riesce a vedere nella sua morte una fecondità inaudita: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. L’ora della morte in croce è l’ora della gloria, dell’epifania del suo amore vissuto all’estremo per gli uomini tutti (cf. Gv 13,1).

Quell’ora di cui a Cana aveva detto alla madre: “La mia ora non è ancora giunta” (Gv 2,4), quell’ora che aveva annunciato come prossima e verso la quale andava con desiderio, quell’ora che era “la sua ora” (Gv 7,30; 8,20), finalmente è arrivata. Questa è l’ora decisiva, che inaugura un nuovo tempo per la fede, per l’adorazione di Dio (cf. Gv 4,21.23), per la salvezza dei morti e dei vivi (cf. Gv 5,25-29).

Per rivelarla, Gesù ricorre a una breve similitudine, pronunciata con grande autorità: “Amen, amen io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Ecco la necessitas della passione e morte, della croce. La sua morte è una semina, nella quale il seme deve cadere a terra, essere sotterrato, morire come seme e dare origine a una nuova pianta che moltiplica i semi nella spiga. Così Gesù legge la propria morte e così ci rivela che anche per noi, uomini e donne alla sua sequela, diventa necessario morire, cadere a terra e anche scomparire per dare frutto.

È una legge biologica, ma è anche il segno di ogni vicenda spirituale: la vera morte è la sterilità di chi non dà, di chi non spende la propria vita ma vuole conservarla gelosamente, mentre il dare la vita fino a morire è la via della vita abbondante, per noi e per gli altri. Il cristiano che vuole essere servo del Signore, che dice di amare il Signore, deve semplicemente accogliere questa morte, accettare questa caduta, abbracciare questo nascondimento. E allora non sarà solo, ma avrà Gesù accanto a sé, sarà preceduto da Gesù, che lo porterà dove egli è, cioè nel grembo di Dio, nella vita eterna.

Con questa fede, con questa convinzione Gesù, anche se turbato dalla morte imminente, sa dire “amen”, sa dire “sì” a quell’ora che è la sua. Per questo anche la preghiera di Gesù così espressa dai sinottici: “Abba! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!” (Mc 14,36; cf. Mt 26,39; Lc 22,42), nel quarto vangelo diventa un grido di vittoria: “Per questo sono giunto a quest’ora” e un’invocazione: “Padre, glorifica il tuo Nome”. Ed ecco che, in risposta, scende su di lui dal cielo una voce, come promessa e sigillo: “L’ho glorificato e lo glorificherò presto!”.

È la voce del Padre il quale conferma al Figlio Gesù che quell’ora della croce è l’ora della gloria. Per questo Gesù può esclamare: “Ora avviene il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo è gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra”, come il serpente innalzato da Mosè (cf. Nm 21,4-9; Gv 3,14), “attirerò tutti a me”. Tutti, giudei e greci, tutti attirati da lui potranno vederlo, ma sulla croce, mentre dona la vita l’umanità intera. Questa la risposta di Gesù a chi vuole vederlo!

(Enzo Bianchi)

 

Grande albero e piccolissimo grano

«[Nella Chiesa esiste] La tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri. E questo non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio vale sempre la parabola del grano di senape (cf. Mc 4,31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale. Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».

(J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione in Divinarum Rerum Notitia. Studi in onore del Card. Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).

 

II seme delle domande

Dio mio, sono venuto con il seme delle domande!

Le seminai e non fiorirono.

Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte,

ma il vento non le sfoglia!

Dio mio, sono Lazzaro!

Piena d’aurora, la mia tomba

dà al mio carro neri puledri.

Dio mio, resterò senza domanda e con risposta

vedendo i rami muoversi!

(F. Garcia Lorca).

 

Il seme e il frutto

Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra

nel grembo materno

e aspetta devotamente: esso comincia a lottare,

un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole

cresce, diventa grande e forte

abbraccia con la corona verde delle sue foglie

finché tutto intero splende al sole

diventa gemma e fiorisce un fiore.

E nella fioritura, seme dopo seme,

c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.

E tu pianti nuovamente i mille semi,

e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.

Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli

abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro

guida verso casa i pensieri e pensa:

tutto ciò era nel primo seme.

(Christian Morgenstern).

 

La croce

“La croce -scriveva Simone Weil-  è la nostra patria…nessuna foresta porta un tale albero, con questo fiore, con queste foglie e questo seme… Se noi acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va. In quel momento Dio non ha più niente da fare e neppure noi, se non attendere. Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso nuziale, che gli abbiamo accordato”.

 

Chi mi vuol servire mi segua

«Chi mi vuoi servire mi segua» (Gv 12,26). Che cosa significa «mi segua», se non mi imiti? «Cristo, infatti, patì per noi», dice l’apostolo Pietro, «lasciandoci un esempio, affinché seguiamo le sue orme» (1Pt 2,21). Questo è il senso delle parole: «Chi mi vuol servire mi segua». E con quale frutto? con quale ricompensa? con quale premio? «E dove sono io, dice, là sarà anche il mio servo». Amiamolo disinteressatamente e la ricompensa del nostro servizio sarà quella di essere con lui. Come si può star bene senza di lui, o male con lui? Ascolta ciò che vien detto in maniera più chiara. «Se uno mi serve, il Padre mio lo onorerà» (Gv 12,26). Con quale onore, se non con quello di poter essere suo figlio? Ciò che ha detto sopra: «Dove sono io, là sarà anche il mio servo» è la spiegazione delle parole: «II Padre mio lo onorerà». Quale maggior onore può ricevere il figlio adottivo che quello di essere là dove è il Figlio unico, non fatto uguale a lui nella divinità, ma associato a lui nell’eternità?

Dobbiamo chiederci che cosa si intenda per servire Cristo, servizio al quale viene riservata una così grande ricompensa. […] Servono Gesù Cristo coloro che non cercano i propri interessi, ma quelli di Gesù Cristo. «Mi segua» vuol dire: segua le mie vie, non le sue, così come altrove sta scritto: «Chi dice di essere in Cristo, deve camminare come egli ha camminato» (1Gv 2,6). Così, ad esempio, se uno porge il pane a chi ha fame, deve farlo animato dalla misericordia, non per vanità, non deve cercare in quel gesto nient’altro che l’opera buona, senza che la sinistra sappia ciò che fa la destra (cfr. Mt 6,3), in modo che l’opera di carità non debba essere sciupata da secondi fini. Chi opera in questo modo, serve Cristo e giustamente sarà detto di lui: «Ogni volta che avete fatto questo a uno dei miei più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Chi compie per Cristo non solamente opere di misericordia corporali, ma qualsiasi opera buona – e qualsiasi opera è buona quando obbedisce alle parole «il fine di tutta la Legge è Cristo, a giustizia di ognuno che crede» (Rm 10,4) — egli è servo di Cristo e giungerà fino a quella grande opera di carità che consiste nel dare la propria vita per i fratelli, che equivale a darla a Cristo.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 51,11,12, NBA XXIV, pp. 1022-1024).

 

Io pure sarò vigna

Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.

Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: « Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti.

Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo ».

E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: « I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni ».

E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».

E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.

(K. GIBRAN, Il Profeta).

 

Piccolo seme

Ho imparato

che non muore

chi lascia dietro di sé

un seme

se c’è qualcuno a custodire

il piccolo seme verde

e a crescerlo nel cuore

sotto un dolore di neve

e a lasciarlo crescere ancora

nel sole senza tramonto dell’amore

finché diventa

un albero grande che da ombra e frutti

e altri semi.

Signore, vorrei lasciargli

un piccolo seme verde

e vorrei, Signore, lasciargli la neve e il sole.

(Preghiere di Mamma e Papa, Gribaudi, Torino, 1989).

 

Preghiera

Anche noi ti vogliamo vedere, Gesù, in quest’ora in cui, come seme, affondi nella terra del nostro dolore e germogli in turgida spiga, speranza di messe abbondante. Tu sveli come è dolce morire per chi ama e si dona con gioia. Perdere la vita con te e per te è trovarla. Allora anche il pianto fiorisce in sorriso.

Nelle tue piaghe troviamo rifugio e in esse trova senso ogni umano patire. Solo guardando te, troviamo la forza di un abbandono fidente nelle mani paterne di Dio. Purifica gli occhi del nostro cuore, fino a che non come in uno specchio né in maniera confusa, ma in un eterno e amoroso faccia a faccia ti vedremo così come tu sei. Amen.

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Bertorello.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B

IV DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: 2Cronache 36,14-16.19-23

 

In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme. Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.

  Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni». Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».

 

  • È Il brano che conclude la storia d’Israele scritta dal Cronista. È una specie di grido di trionfo per la restaurazione della casa del Signore, il suo tempio. Egli ricorda innanzi tutto la situazione degli ultimi anni di vita della città di Gerusalemme prima del 587 a.C. al tempo del re Sedecia (vv. 14-16). È un tempo di vera apostasia dalla religione dei padri, dal culto del vero Dio. Si disprezza la parola di Dio annunciata dai profeti; il luogo santo, dove si adora l’unico Dio, viene profanato. Nonostante la premura di Dio e il suo costante amore per il popolo, questi non volle convertirsi. La situazione si fece talmente tragica che il Signore dovette intervenire.

Egli li abbandonò in mano ai babilonesi che incendiarono la città massacrarono la popolazione e il resto lo deportarono in esilio, lontano dalla patria. Ma anche nelle tenebre più fitte, appare la misericordia del Signore che dona ancora una parola per mezzo del profeta Geremia, il quale annuncia il termine dell’esilio (vv. 19-21).

Nella terza parte del brano si riporta l’editto di Ciro, re di Persia, che proclamava nel 538 a.C. la liberazione degli ebrei e l’ordine di ricostruire il tempio. La storia del popolo, eletto da Dio, continua, perché la misericordia di Dio rimane stabile nonostante l’enormità del peccato del popolo e dei suoi capi. Un segno di questa risurrezione del popolo è il nuovo tempio ricostruito, in cui saranno riportati i vasi sacri custoditi in Babilonia (cf. v. 18), rendendo possibile nuovamente il culto a Dio (vv. 22-23).

 

Seconda lettura: Efesini 2,4-10

 

   Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.  Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.

 

  • Paolo pone la bontà di Dio all’origine della sua azione salvifica: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato» (v. 4). Il luogo dove si può sperimentare ora questa misericordia è la Chiesa. La salvezza è descritta come un passaggio dalla morte alla vita. Questa ci viene donata «per grazia», gratuitamente, per pura bontà di Dio (vv. 5-6).

Noi siamo solidali con Cristo. Mediante il battesimo, partecipiamo già alla sua vittoria sulla morte e abbiamo una vita nuova, ma la forza della sua risurrezione si estenderà anche ai nostri corpi (v. 6). Quest’opera salvifica in Gesù Cristo ha come scopo la maggior gloria di Dio. Nell’eternità sarà manifesto ciò che già ora è realizzato (v. 7).

Dando uno sguardo al passato, Paolo annuncia il suo vangelo: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede» (v. 8). L’uomo con le sue forze non riesce ad uscire dalle sabbie mobili del peccato. Solo la mano di Dio può risollevarlo. L’agire di Dio è del tutto gratuito (v. 9).

Le opere non sono il principio, ma il fine dell’esistenza cristiana: «Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (v. 10). Anche le nostre «opere buone», che faremo, procedono dalla grazia e sono state «preparate» da Dio per facilitarne l’adempimento. Dio ha voluto la nuova condizione perché l’uomo potesse realizzarle.

 

Vangelo: Giovanni 3,14-21

 

    In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

 

Esegesi

 

Con questo brano inizia la rivelazione del piano salvifico del Padre: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (vv. 14-15). Si notino due verbi: «bisogna» e «sia innalzato». Il primo verbo «bisogna» esprime la volontà salvifica di Dio di donarci la vita in Cristo: la croce non è un incidente di percorso. Il secondo verbo «sia innalzato» indica appendere ad una croce, ma anche innalzare su un trono, la pienezza della regalità. L’episodio del serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto (Nm 21,8-9) è presentato da Giovanni come segno tipico dell’innalzamento del Figlio dell’uomo e della vita eterna donata a chi guarda, vale a dire a chi crede in lui.

Segue una meditazione pasquale dell’evangelista sulla parola di Gesù, avendo anche sullo sfondo la figura di Isacco. Contemplando Gesù innalzato sulla croce, si scopre l’amore sorprendente di Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (v. 16). È un amore che si concretizza nel dare e nel mandare (v. 17). Dio ama il mondo come si trova ora, lontano da lui e in pericolo di perire.

Quello che può privare gli uomini della vita, il loro grande peccato, è il rifiuto di credere in Gesù. Di fronte alla sua missione si opera la discriminazione tra gli uomini, che credono e si salvano, o non credono e si condannano. Ma il kerygma di Giovanni ha proprio lo scopo di portare alla fede chi non crede.

Il giudizio è in rapporto alla rivelazione personale di Cristo. È lui la luce: «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (v. 19). Le tenebre sono la situazione di rifiuto di Dio e la chiusura dell’uomo schiavo del suo egoismo. Gli uomini scelgono. Chi si pone dalla parte della luce, sperimenta un giudizio di salvezza. Chi invece si colloca dalla parte delle tenebre, sperimenta un giudizio di condanna: un’esistenza destinata alla perdizione, perché le sue opere sono malvagio. La luce è una forza giudicante e a nessuno piace sentirsi rinfacciare le proprie opere cattive. Ma c’è anche «chi fa la verità» (v. 21). Questi è colui che rinnega la sua situazione di peccato, accoglie la parola di Gesù e crede in lui. Queste sono le opere che l’uomo può compiere solo con l’aiuto di Dio (v. 21).

 

Meditazione

 

Siamo oltre la metà del pellegrinaggio quaresimale e la liturgia della Chiesa, interrompendo per un momento l’austerità di questo tempo, ci invita a ‘rallegrarci’. La liturgia della Chiesa attenua persino il colore dei paramenti liturgici, dal viola passa al ‘rosaceo’, per sottolineare questo stacco di letizia che annuncia la Pasqua del Signore. Tale esor­tazione, se in passato comportava la sospensione dell’austerità, non vuole comunque spingere verso un senso di spensieratezza o di super­ficiale e ottimistico senso della vita. Al contrario, la liturgia conoscendo bene le difficoltà e i problemi dei giorni degli uomini, è consapevole del bisogno che abbiamo di un annuncio di letizia vera. Ed ecco, nel mezzo del cammino quaresimale, l’esortazione a rallegrarsi; il motivo è l’avvicinarsi della Pasqua, ossia la vittoria del bene sul male, della vita sulla morte. Questo è il vero annuncio di gioia che la liturgia ci porta. La vittoria del bene sul male deve risuonare ovunque, e in particolare su quei popoli che sono straziati dalla guerra e dalla violenza; come pure sui numerosi poveri e abbandonati che popolano il nostro piane­ta. È necessario ridare speranza anche alle città del mondo ricco, spesso stravolte da un clima di violenza e di aggressività. La mentalità consu­mista, che porta a centrare tutto su se stessi e sulla propria immediata soddisfazione, ha come sbocco inevitabile uno stile di vita concorren­ziale e violento. L’uomo e la donna consumisti, costretti a vivere in una perenne corsa a consumare e a soddisfare qualsiasi desiderio, sono travolti dalla spirale inarrestabile dell’amore per se stessi, che è sempre radice di violenza. Si rallegra colui che trova un senso nella sua vita e porta avanti una speranza che non si arresta davanti il male. Ricordiamo sempre il detto di Gesù ricordato negli Atti degli Apostoli, che la gioia viene dal dare più che dal ricevere (At 20,35).

Il bisogno di ritrovare una dimensione religiosa ed etica, che inter­rompa in qualche modo il circolo vizioso della violenza e che dia senso alla vita, si fa sempre più urgente, e non solo per la salvezza di ogni singola persona ma anche per quella della stessa società. Il secondo libro delle Cronache (la prima lettura della liturgia) ci aiuta a leggere la situazione odierna. L’autore sacro lega la caduta di Gerusalemme e il susseguente periodo di schiavitù in Babilonia all’infedeltà del popolo ai comandi del Signore: «In quei giorni tutti i capi di Giuda, i sacerdo­ti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà… si beffarono dei messag­geri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il suo culmi­ne, senza più rimedio». I nemici di Israele incendiarono il Tempio, demolirono le mura di Gerusalemme e gli scampati alla morte furono deportati. Con il linguaggio proprio della teologia della storia, la Scrittura sottolinea lo stretto rapporto tra il calo della tensione morale dell’intero popolo, con la conseguente degenerazione e fine della con­vivenza civile. L’esempio di quello che accade con Israele ci aiuta a ritornare al Signore, a riprendere in mano le Scritture e a riflettere sul senso vero della vita, del proprio agire e del proprio operare. Per que­sto il tempo quaresimale torna opportuno ogni anno.

Il Vangelo di Giovanni che viene annunciato in questa domenica dà una risposta alla domanda che scaturisce da una storia travagliata come quella di Israele: la riposta è Gesù, morto e risorto, mandato dal Padre per salvare il mondo. Anche Nicodemo si sentì rispondere in questo modo con il richiamo all’episodio del serpente innalzato da Mosè nel deserto che salvò la vita degli israeliti morsi dai serpenti velenosi: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». Già il libro della Sapienza aveva intuito in quell’episodio un segno della salvezza e dell’amore di Dio quando aveva cantato il serpente di bronzo definendolo «un segno di salvezza a ricordo del precetto della tua legge. Infatti, chi si volgeva a guardar­lo era salvato non per mezzo dell’oggetto che vedeva ma da te, salva­tore di tutti» (16, 6-7).

Quel serpente posto sull’asta anticipa il segno della croce di Cristo ‘innalzata’ in mezzo all’umanità. Gesù ‘innalzato’, nel linguaggio di Giovanni, non è un’immagine tesa a suscitare commiserazione. Quell’asta innalzata, quella croce piantata sul Golgota è, soprattutto, fonte di vita, una fonte generosa, gratuita e abbondante. Quella croce è la risposta di Dio ai serpenti di oggi e di sempre, allo smarrimento e alla confusione, all’odio tra fratelli, alla morte come unico sbocco appa­rente: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Chiunque viene colpito dai morsi velenosi dei serpenti, basta che rivol­ga gli occhi verso quell’uomo ‘innalzato’ e trova guarigione. Gesù stes­so dirà più avanti proprio a Gerusalemme: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32).

La salvezza, come anche il senso della vita, non viene da noi. Ci è donata dall’alto. La presenza del male è una realtà a tal punto persi­stente da indurre ad un ragionevole fatalismo pessimista. In effetti, con le sole nostre forze come potremmo sradicare il male e la sua più terri­bile conseguenza che è la morte? C’è da dire che il male nel mondo non è uno sfortunato destino che si abbatte sul mondo, contro cui è impossibile intervenire. Il male nasce dalle oscurità profonde del prin­cipe del male e dalle sue opere di morte, che spesso popolano la vita degli uomini. Sembrano risuonare le parole scritte nel Prologo: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo… venne fra i suoi, e i suoi non l’hanno accolto» (1, 9.11). Così anche nelle parole rivolte a Nicodemo leggiamo: «La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvage» (3, 19). C’è pertanto una responsabilità nell’allargare o nel perpetuare la presenza del male nel mondo che va compresa e quindi recisa. Agli uomini non è chiesto l’impossibile opera di un’auto liberazione dal male. È chiesto solo di alzare lo sguardo da se stessi e di guardare un po’ più in alto, di non restare nel buio dell’egocentrismo e accogliere quella luce che Dio ha inviato nel mondo, di non bloccar­si nell’amore per sé e accorgersi che il vero amore arriva da Dio e scen­de sulla terra.

Anche l’apostolo Paolo, nella lettera agli Efesini, ci ricorda l’irruzio­ne di questo amore: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche risusci­tato e ci ha fatto sedere nei cieli» (2,4). Come non ‘rallegrarsi’ di que­ste parole? La liturgia di questa domenica, piena della letizia dell’amo­re di Dio, continua a guidarci verso l’avvenimento della salvezza del mondo, il mistero pasquale della morte e risurrezione di Gesù.

 

L’immagine della Domenica

Il Gran Sasso d’Italia    –    2005

 

«Se un uomo viene a chiederti aiuto e assistenza, non dirgli “Abbi fede in Dio”. Fa come se Dio non esistesse e come se, sulla terra, ci fossi soltanto tu a poterlo aiutare».

(Rabbi Moshe Lev di Sasov)

 

 


Preghiere e racconti

Il miracolo sempre rinnovato

Dio non morirà il giorno in cui non crederemo più in una divinità personale, ma saremo noi a morire il giorno in cui la nostra vita non sarà più pervasa dallo splendore del miracolo sempre rinnovato, le cui fonti sono oltre ogni ragione.

(D. Hammarskjold)

 

Ognuno di noi è il figlio prediletto del Padre

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna (…). Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio. Questo versetto è il punto sorgivo e il perno attorno al quale danza la storia di Dio con l’uomo. Dio ha amato, un passato che perdura e fiorisce nell’oggi, verità che assorbe ogni cosa: tutta la storia biblica inizia con un “sei amato” e termina con un “amerai” (P. Beauchamp). È la lieta notizia da ripeterci ad ogni risveglio, ad ogni difficoltà, ad ogni sfiducia. Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama. Che cos’è l’amore? Ossigeno della vita. Il nucleo incandescente del Vangelo è la bellezza dell’amore di Dio (Ev. Ga. 36) che Gesù ha mostrato, vissuto, donato. È questo il fuoco che deve entrare in noi, la cosa più bella, più grande, più attraente, più necessaria, più convincente e radiosa (Ev. Ga.35).

Tanto da dare suo Figlio. Nel Vangelo “amare” si traduce sempre con un altro verbo, umile, breve, di mani e non di emozioni: “dare”. Dio altro non fa che eternamente considerare ogni uomo più importante di se stesso. «Il mondo sappia che li hai amati come hai amato me» (Gv 17,23), il Padre ama me come ha amato Cristo, con la stessa passione, la stessa fiducia, la stessa gioia, con in più tutte le delusioni che io so procurargli. Ognuno è il figlio prediletto di Dio. Cristo, venuto dal Padre come intenzione di bene, nella vita datore di vita, ci chiama ad escludere dall’immagine che abbiamo di Lui, a escludere per sempre, qualsiasi intenzione punitiva, qualsiasi paura. L’amore non fa mai paura, e non conosce altra punizione che punire se stesso. E non solo l’uomo, è il mondo intero che è amato, dice Gesù, la terra, gli animali e le piante e la creazione tutta. E se Egli ha amato il mondo e la sua bellezza fragile, allora anche tu amerai il creato come te stesso, lo amerai come il prossimo tuo.

Dio non ha mandato il Figlio per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato. A Dio non interessa istruire processi contro di noi, neppure per assolverci, ora o nell’ultimo giorno. La vita degli amati non è a misura di tribunale, ma a misura di fioritura e di abbraccio. Dio ha tanto amato, e noi come lui: quando amo in me si raddoppia la vita, aumenta la forza, sono felice. Ogni mio gesto di cura, di tenerezza, di amicizia porta in me la forza di Dio, spalanca una finestra sull’infinito. Dio ha tanto amato, e noi come Lui: ci impegniamo non per salvare il mondo, l’ha già salvato Lui, ma per amarlo; non per convertire le persone, lo farà Lui, ma per amarle. Se non c’è amore, nessuna cattedra può dire Dio, nessun pulpito. Non c’è più il ponte che ricollega la terra al cielo, il motore che fa ripartire la storia, una storia con sapore di Dio.

(Ermes Ronchi)

 

Cristo, dono per la vita degli uomini

La storia di salvezza è guidata dall’amore misericordioso di Dio per il suo popolo peccatore. Questa misericordia si manifesta nell’evento che segna la fine dell’esilio babilonese (I lettura), conosce il suo vertice nel dono del Figlio a un’umanità peccatrice (vangelo) e trova un suo sacramento nel battesimo: esso infatti situa il cristiano nell’orizzonte del dono incommensurabile di Dio (II lettura). “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”. Cristo, come dono di Dio, è sacramento e narrazione dell’amore di Dio e, nell’itinerario da Dio all’uomo, l’amore del Padre (il Donatore) diviene l’amore del Figlio (il Dono che dona se stesso) e diviene amore nell’uomo (il donatario). Il dono che Cristo è, è asimmetrico, non cerca reciprocità: “Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi” (Gv 15,9); “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 13,34): il movimento della donazione divina non diviene un circolo asfittico e chiuso nell’infernale bipolarità “io-tu, tu-io” sempre esposta al rischio della violenza e della sopraffazione, ma resta aperto a un terzo di cui tende a far fiorire la soggettività e a servire la vita. Questo dono è decentrante rispetto al Donatore e si risolve in vita del donatario. L’amore che tale dono narra non è totalitario e obbligante, non pretende gratitudine, ma rispetta la libertà e la vita dell’uomo. La salvezza, non la condanna, è il fine dell’invio del Figlio da parte del Padre (cf. Gv 3,17). Questa è l’intenzione paterna di Dio, il senso del suo amore che si esprime nel dono del Figlio. E questo agire divino è normante per la chiesa. Anch’essa è mandata tra gli uomini non per giudicarli, ma per essere segno di salvezza e per narrare loro l’unica cosa salvifica e necessaria: la misericordia di Dio. Di fronte a uomini che spesso sentono la vita come condanna, la chiesa ha il compito di narrare la misericordia divina, di fare opera di liberazione, di dare senso, respiro e vivibilità.

Il dono del Figlio è volto a dare vita, non morte, agli uomini (cf. Gv 3,16). Cristo, in quanto dono per la vita degli uomini, ha vissuto la sua intera esistenza donando la propria vita, e così ha generato alla vita, ha trasmesso e suscitato vita. E questo è culminato nella morte di croce, che Giovanni chiama “innalzamento” (3,14). Come Mosè, obbedendo al comando misericordioso di Dio, innalzò il serpente nel deserto perché chi lo guardava trovasse vita e guarigione, così l’innalzamento del Figlio dell’uomo è il compimento della misericordia divina per la salvezza dei credenti (cf. 3,14-15; Nm 21,4-9). Se nel serpente innalzato il credente era condotto a riconoscere il proprio peccato guardando in faccia il simulacro di chi lo aveva punito con i suoi morsi, nel Cristo innalzato il credente vede la misericordia di Dio che perdona i suoi peccati manifestando un amore unilaterale e universalmente salvifico.

La pro-esistenza di Cristo non ha evitato il rifiuto che gli è stato opposto. Se la salvezza è destinata a tutti, solo alcuni accedono alla fede e alla conoscenza del dono di Dio in Cristo. Tale dono può essere misconosciuto e rigettato. Ma questo rifiuto non sopprime la qualità di dono che il Cristo è e conferma che esso è a servizio della libertà del donatario. Qui si rivela che il dono di Dio – gratuito ma non neutrale – diviene appello alla fede. Non a caso la prima menzione dell’amore di Dio nel quarto vangelo (3,16) è accompagnata da cinque rimandi alla fede (o alla non-fede) dell’uomo (3,15.16.18). E la distinzione tra adesione e non adesione diviene discernimento tra luce e tenebre, tra opere fatte “in Dio” (3,21) e opere maligne (3,19: fatte nel Maligno). Questa distinzione non si situa sul piano morale e comportamentale (non si tratta di opere buone e cattive), ma designa una presa di posizione negativa di fronte all’inviato di Dio. E allora si comprende che l’unica opera essenziale secondo il quarto vangelo sia la fede. La querelle tra fede e opere è così risolta da Giovanni: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29).

(Luciano Manicardi)

 

Un ragazzo miope

Un tempo conoscevo un giovanotto che soffriva di una miopia grave sin dalla nascita e che, per questo motivo, riusciva a vedere solo gli oggetti a poche decine di centimetri da lui. Quando gli insegnanti delle scuole che, via via, frequentava avvisavano i genitori, questi ragionavano che alla sua età loro non avevano avuto bisogno degli occhiali e che, quindi, non ne avrebbe avuto bisogno nemmeno lui. Così, il ragazzo era cresciuto nell’unico mondo che la sua vista ridotta gli permetteva di vedere, giungendo al punto di spiegarsi tale mondo nei termini che gli consentiva la miopia. Ad esempio, perché gli insegnanti a scuola scrivono sulla lavagna? Non certo per gli allievi, dato che questi non riescono a leggere fino alla lavagna, bensì come appunti personali, come traccia da seguire durante le lezioni. E perché in città i cartelli con i nomi delle vie vengono affissi sulle case e sui lampioni così in alto che è impossibile leggerli? Perché lassù i guidatori degli autobus, dalla loro elevata posizione di guida, riescono a leggerli per i passeggeri che glielo chiedono.

Un giorno questo ragazzo, ormai diciottenne, si recò da un oculista. Il medico lo fece sedere e gli fece provare diverse lenti correttive. Trovate quelle più adatte, invitò il giovane a guardare fuori dalla finestra. «Accidenti!», esclamò il ragazzo restando senza fiato: per la prima volta riusciva a vedere il cielo azzurro con degli sbuffi di nuvole bianche; vedeva finalmente i volti sorridenti delle persone, i pannelli pubblicitari e i cartelli stradali. Qualche tempo dopo, il giovane mi confidò: «Fu la seconda esperienza più bella della mia vita». Naturalmente gli chiesi quale fosse la prima, e la sua risposta fu: «Il giorno in cui iniziai a credere in Gesù. Quando finalmente lo presi sul serio e vidi che Dio era veramente mio Padre, quando vidi che questo è veramente il bel mondo di Dio, quando vidi me stesso come un figlio del cuore di Dio e quando sentii il calore del suo amore, quando vidi gli altri come miei fratelli e sorelle nella famiglia umana di nostro Padre. Questa fu una grande svolta, l’esperienza più radicale e più bella di tutta la mia vita. Fu come l’inizio di una vita nuova. So che cosa intende san Paolo quando dice che la fede fa di noi una creatura nuova».

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 48-49).

 

Ciò che fa la differenza

Mi chiedo unicamente se il Cristo buono ed evangelico ai cristiani basta. E se gli basta c’è ancora bisogno di fede o non v’è più nulla da credere? Se vi è qualcosa da credere ritengo, però, non sia di molto diverso da quanto i cristiani hanno da sempre annunciato e quindi che il risorto vive, siede alla destra del Padre, tornerà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà mai fine. Questo chi non crede, ma conosce il cristianesimo, lo sa molto bene poiché proprio in questo non crede ed è questo che fa la differenza. Sul resto bene o male ci si accorda.

(Salvatore Natoli, Il cristianesimo di un non credente).

 

Credo

Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero

che non mi seduce con un miracolo

e che non mi opprime con la sua autorità.

Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà,

che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male,

che non accetta compromessi,

ma che benedice la follia di chi lo segue.

Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione,

che non rimette a posto le cose dall’alto,

che non esercita la giustizia degli uomini.

Credo in un Dio che si lascia tradire,

che al mio no risponde con un bacio silenzioso,

credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.

Credo in un Dio che non ho inventato io,

che non soddisfa i miei bisogni,

che non dice e fa quello che voglio io,

un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.

Credo in un Dio vero,

che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità,

che si fa piccolo, debole indifeso

perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.

Credo in un Dio che gioca a nascondino

perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo,

credo in un Dio che mi si fa vicino,

che mi viene incontro e mi dice: “ti amo”.

Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.

(Ester Battista).

 

L’infinito amore misericordioso di Dio

Nel nostro itinerario verso la Pasqua, siamo giunti alla quarta domenica di Quaresima. E’ un cammino con Gesù attraverso il «deserto», cioè un tempo in cui ascoltare maggiormente la voce di Dio e anche smascherare le tentazioni che parlano dentro di noi. All’orizzonte di questo deserto si profila la Croce. Gesù sa che essa è il culmine della sua missione: in effetti, la Croce di Cristo è il vertice dell’amore, che ci dona la salvezza. Lo dice Lui stesso nel Vangelo di oggi: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15).

Il riferimento è all’episodio in cui, durante l’esodo dall’Egitto, gli ebrei furono attaccati da serpenti velenosi, e molti morirono; allora Dio comandò a Mosè di fare un serpente di bronzo e metterlo sopra un’asta: se uno veniva morso dai serpenti, guardando il serpente di bronzo, veniva guarito (cfr Nm 21,4-9).

Anche Gesù sarà innalzato sulla Croce, perché chiunque è in pericolo di morte a causa del peccato, rivolgendosi con fede a Lui, che è morto per noi, sia salvato. «Dio infatti – scrive san Giovanni – non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).

Commenta sant’Agostino: «Il medico, per quanto dipende da lui, viene per guarire il malato. Se uno non sta alle prescrizioni del medico, si rovina da solo. Il Salvatore è venuto nel mondo … Se tu non vuoi essere salvato da lui, ti giudicherai da te stesso» (Sul Vangelo di Giovanni, 12, 12: PL 35, 1190).

Dunque, se infinito è l’amore misericordioso di Dio, che è arrivato al punto di dare il suo unico Figlio in riscatto della nostra vita, grande è anche la nostra responsabilità: ciascuno, infatti, deve riconoscere di essere malato, per poter essere guarito; ciascuno deve confessare il proprio peccato, perché il perdono di Dio, già donato sulla Croce, possa avere effetto nel suo cuore e nella sua vita.

(Benedetto XVI, Angelus, 18-03-2012).

 

Mi chiamate Redentore

Mi chiamate Redentore

e non vi fate redimere.

Mi chiamate Luce

e non mi vedete.

Mi chiamate Via

e non mi seguite.

Mi chiamate Vita

e non mi desiderate.

Mi chiamate Maestro

e non mi credete.

Mi chiamate Sapienza

e non m’interrogate.

Mi chiamate Signore

e non mi servite.

Mi chiamate Onnipotente

e non vi fidate di me.

Se un giorno non vi riconosco

non vi meravigliate.

(Iscrizione nel duomo di Lubecca).

 

II dubbio, la verità e Cristo

Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiano e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.

(F. Dostoevskij).

 

Il lungo cammino verso casa

«Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale è ricevere il perdono di Dio. C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo. Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie tenebre sono troppo grandi per essere dissolte. Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò come garzone. Ma voglio davvero essere restituito alla piena responsabilità di figlio? Voglio davvero essere totalmente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Ho fiducia in me stesso e in una redenzione così radicale? Voglio rompere con la mia ribellione profondamente radicata contro Dio e arrendermi in modo così assoluto al suo amore da far emergere una persona nuova? Ricevere il perdono esige la volontà totale di lasciare che Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e rinnovamento. Fin quando voglio fare anche soltanto una parte di tutto questo da solo, mi accontento di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone. Come garzone posso ancora mantenere le distanze, ribellarmi, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarmi della paga. Come figlio prediletto devo rivendicare la mia piena dignità e cominciare a prepararmi a diventare io stesso il padre».

(H.J.M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia, Queriniana, 2004, 78-79).

 

L’anima soffre e anela al Signore

Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.

Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi.

Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.

Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.

E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.

(Don Tonino Bello).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Bertorello.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

IV DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B

III DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Esodo 20,1-17

 

   In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti. Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano. Ricordati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato. Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà. Non ucciderai. Non commetterai adulterio. Non ruberai. Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».

 

  • Il testo del Decalogo nel libro dell’Esodo è preceduto, al cap. 19, dalla grandiosa teofania in cui il Signore rivela la sua presenza sul Sinai, la «montagna sacra» (19,23). Soltanto Mosè, in rappresentanza del popolo raccoglie le «Dieci parole» che racchiudono la volontà del Signore e le riferirà agli Israeliti, che prometteranno di osservarle accettando l’alleanza (24.3). All’inizio del cap. 20 il Decalogo è introdotto bruscamente, senza collegamento diretto quanto precede. Improvvisamente, Dio parla: risalta cosi l’assoluta libertà dell’iniziativa divina.

     Il Decalogo

Non deve stupire la difficoltà a individuare con sicurezza nel testo i dieci comandamenti come sono formulati nei catechismi. Già nella seconda stesura (nel Deuteronomio) il Decalogo presenta qualche differenza: è poi citato con notevole libertà nei Profeti, nei Salmi, in altri scritti dell’Antico Testamento, nei Vangeli. Basta questo a farci comprendere che la legge del Signore, benché scolpita sulle «tavole di pietra», non deriva da questo la sua solidità, e che non è il rispetto esteriore e formale della «lettera» che conta, ma l’accordo interiore del «cuore» alla parola di Dio.

Otto comandamenti su dieci hanno una forma negativa, e questa lista di divieti può urtare qualcuno. Ma tutto cambia se riflettiamo che dire «cosa non bisogna fare» ci lascia molto più liberi. Dio pone dei divieti certo; ma è vietato solo ciò che priva noi e gli altri della libertà; la violenza, l’assassinio, l’adulterio, il furto, la falsa testimonianza. Per il resto, Dio non obbliga; cosa bisogna fare, è lasciato alla nostra libertà. Dio non comanda nemmeno di essere adorato, non chiede sacrifici (cf. Is 1,12-13; Ger 7 22): lo stesso comandamento del sabato, più che imporre una pratica religiosa, comanda di non fare qualcosa, di astenersi dal lavoro.

     Note esegetiche

  1. 2-3: In positivo, la prima parola del Decalogo — il 1° comandamento nella tradizione dell’Ebraismo – non è precisamente un comandamento, e impegna Dio piuttosto che l’uomo. Dio si presenta, offre le sue credenziali: non chiede di essere obbedito senza essere conosciuto. Per questo può dire «non avrai altri dèi»: non basta confessare che Dio è uno, la Bibbia non predica un monoteismo filosofico, astratto, «numerico». La Bibbia dice chi è Dio, raccontando quello che ha fatto per noi. È il Dio che libera anzi il Dio che ha liberato te, oggi: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto». Tutto il Decalogo discende da questa affermazione iniziale, come un torrente dalla montagna.
  2. 4-6: La formulazione del divieto dell’idolatria è in stretto collegamento con il racconto della creazione in Gn 1. Dio ha fatto cielo terra e mare e ciò che contengono; ha fatto l’uomo a sua immagine; ha dato all’uomo il compito di sottomettere la terra. Nell’idolatria, l’ordine è stravolto: l’uomo adora le creature (astri, animali…) invece di dominarle, sostituisce all’immagine creata da Dio immagini di idoli fatte con le sue mani. Invece di adorare Colui che lo ha fatto, l’uomo adora la cosa che ha fatto. Questo rovesciamento della verità – questa menzogna – è proibito, perché Dio è geloso: la gelosia dell’amore che ha scelto l’uomo e stabilito l’alleanza, amore sovrabbondante di grazia, mille volte più del castigo (v. 5b-6). Tutti i peccati previsti nel Decalogo hanno radice nell’idolatria.
  3. 7: Invano (lašawe) indica il vuoto, la falsità, anche la magia. «Pronunciare invano il Nome» significa trattare Dio come un idolo: qualcosa di manipolabile, di cui l’uomo possa impadronirsi per strumentalizzarlo ai suoi fini. La stessa parola è usata nell’8° comandamento: la falsa testimonianza contro il fratello, immagine di Dio, è grave come il falso culto a Dio. Una pietà esteriormente corretta e ossequiente alle regole, cui non corrisponda la giustizia nei rapporti con gli altri, riduce a menzogna il Nome del Signore.
  4. 8-11 : Il comandamento del sabato è la chiave di volta del Decalogo. Come il quarto, è formulato in positivo («ricordati»); come gli altri, è anche negativo («non farai alcun lavoro…»); come il primo, è motivato con la creazione (nel Deuteronomio invece, con il ricordo della schiavitù in Egitto). Non si interrompe il lavoro, banalmente, perché è bene riposarsi; ma piuttosto per imitare, quale immagine di Dio, il riposo del settimo giorno della creazione. Si tratta quindi della più alta realizzazione dell’essere uomo: il sabato è un comandamento che riguarda Dio (la «prima tavola»), ma è anche quello che con maggiore insistenza parla della comunità umana («né tu, né tuo figlio….»), e l’unico in cui esplicitamente sia citato lo straniero. Il sabato è la legge più specifica che caratterizza l’identità ebraica, e insieme la più universale, perché l’ebreo è chiamato a condividere la santità del sabato con tutta la creazione, senza distinzioni di sesso, di condizione sociale (lo schiavo), di appartenenza etnica o religiosa (lo straniero) e perfino umana (il bestiame). Anche qui c’è l’accenno all’idolatria: il potere di «fare», di costruire opere (idoli) con le proprie mani, rischia di precipitare l’uomo in un delirio di onnipotenza, se non interviene la pausa del sabato a ricondurre tutto al Creatore.
  5. 12: Il quarto comandamento, come la «prima parola», rivolge l’uomo verso l’origine. Il «padre e la madre» sono l’anello di congiunzione fra l’uomo di oggi e ciò che lo ha preceduto, fino all’origine prima; attraverso padre e madre, nella tradizione ebraica e non solo, si trasmette la memoria dell’azione di Dio in favore del popolo, a partire dall’Esodo, e in favore dell’umanità, a partire dalla creazione. Perciò questo comandamento è l’unico che parli di un «premio», una conseguenza positiva per l’uomo: la vita, dono di Dio dalla creazione in poi, cui l’uomo e la donna partecipano nel generare il figlio. Adamo generò un figlio a sua immagine (Gn 5,3): il potere di generare, purificato dalla pretesa di onnipotenza possessiva e iscritto nell’onore (kavôd: la gloria, riservata a Dio) reso all’origine, si oppone al fare del lavoro, che deve essere interrotto nel giorno di sabato per non diventare costruzione di idoli.
  6. 13-16: Da qui, i comandamenti della «seconda tavola» che riguardano i rapporti umani. Non uccidere, esteso a ogni forma di violenza; non commettere adulterio, perché l’amore sponsale è figura del rapporto unico fra Dio e il popolo. Non dire falsa testimonianza, in parallelo con il v. 7.
  7. 17: Il nono e il decimo comandamento sono nella tradizione ebraica uno solo: il Decalogo si conclude penetrando nel segreto del cuore, dove si nasconde il desiderio. Non è il desiderio in sé che è peccato, ma il desiderio contro giustizia: volere tutto, senza riconoscere alcun ostacolo, nemmeno nella sfera di ciò che attiene all’altro. Al fondo, è ancora la pretesa di sostituirsi a Dio, in una volontà di potenza accaparratrice che non lascia spazio all’amore, che non lascia vivere, che trascina inesorabilmente alla distruzione.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 1,22-25

 

      Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.  Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.

 

  • La prima lettera ai Corinzi si apre con la polemica fra l’Apostolo e gli avversari che hanno introdotto divisioni e contrasti all’interno della comunità. Paolo difende con passione sia l’unità del Vangelo di Cristo, sia la corrispondenza della sua predicazione con questo Vangelo. A propria difesa, Paolo non invoca la «sapienza del discorso», ma la fedeltà alla croce di Cristo, che non deve essere «resa vana» (v. 17). L’argomentare di Paolo procede con l’audace contrapposizione fra la «sapienza degli uomini» e la «stoltezza» della parola della croce (vv. 18-21). A questa antitesi fra la parola di Dio e la parola del mondo si collega il proclama di «Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (v. 23).

Note esegetiche

  1. 22: «Giudei» e «Greci» (o «Gentili»: v. 23) rappresentavano al tempo di Paolo le due parti dell’umanità, contrapposte non tanto dal punto di vista religioso, quanto per il modo di porsi di fronte alla realtà. I Giudei, per credere, chiedono «segni» (semeia; miracoli, prodigi), prove storiche su cui poggiare la loro fede; i Greci cercano «sapienza» (sofia), per essere razionalmente convinti.
  2. 23: Un’avversativa, «noi invece…», sottolinea l’assoluta novità della predicazione di Paolo: «Cristo crocifisso», e introduce il secondo binomio: scandalo/stoltezza. Alla «prova» chiesta dai Giudei si contrappone la «pietra d’inciampo» (skàndalon), alla razionalità dei Greci la «stoltezza della croce» (morì an).
  3. 24: Il contrasto fra le due coppie di termini opposti è risolto nel cuore dell’annuncio, accolto dai «chiamati», sia Giudei che Greci: per loro la debolezza della croce mostra la potenza di Dio, e la stoltezza ne rivela la sapienza. La comprensione della fede consente di leggere la realtà con occhi nuovi e di riconoscere l’azione di Dio nella dedizione incondizionata di Colui che «amò i suoi fino alla fine» (Gv 13,1). Il Crocifisso è «il luogo dell’agire divino potentemente e sapientemente salvifico e tale appare agli occhi dei credenti» (G. BARBAGLIO, La Prima Lettera ai Corinzi, EDB 1996, p. 143).
  4. 25: All’opposizione stoltezza/sapienza viene accostata qui quella debolezza/forza. Non si tratta di anteporre la sapienza di Dio a quella umana dichiarandone la superiorità, ma di una alternativa assoluta fra due contrari. Non si tratta nemmeno di paragonare semplicemente due punti di vista opposti, che provocano visioni fra loro incompatibili. La morte sulla croce rimane follia e il Cristo consegnato ai carnefici mostra la sua debolezza, liberamente scelta; ma sono la debolezza e la follia di chi soccombe alla violenza piuttosto che farsene complice, di chi vince l’odio con la sovrabbondanza dell’amore, di chi viene a guarire dall’interno il cuore malato dell’uomo. In questo, la debolezza si mostra più forte della forza, e la stoltezza più sapiente della sapienza.

 

Vangelo: Giovanni 2,13-25

 

 

       Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».  Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.

Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

 

Esegesi

 

La «purificazione del tempio», che i Sinottici collocano poco prima della Passione, è narrata da Giovanni all’inizio del ministero pubblico. L’evangelista vuole così sottolineare subito sia la grande novità del messaggio di Gesù, sia la continuità ideale con la predicazione dei profeti d’Israele. L’episodio si inserisce chiaramente in un contesto pasquale, nella prima delle tre Pasque di Gesù a Gerusalemme ricordate da Giovanni.

Si distinguono due brevi scene, ciascuna seguita da un versetto di commento; a conclusione, un sommario storico aggiunge una riflessione sulla fede autentica.

  1. 13-16: La prima scena è la cacciata dei mercanti dal Tempio.

La notazione temporale e geografica è precisa: la Pasqua «dei Giudei», così differenziata dalla Pasqua cristiana, segnala una situazione di distacco tra la comunità cristiana e la sinagoga, già definitiva al tempo della stesura del Vangelo. Gesù è tuttavia un ebreo osservante, e da Cafarnao — posta sul lago sotto il livello del mare — «sale» a Gerusalemme, a 800 m. di altezza.

I pellegrini che provenivano da ogni parte, non solo dalla Giudea, dovevano procurarsi in loco gli animali da offrire in sacrificio e pagare la tassa di mezzo siclo al Tempio. Spesso però essi disponevano solo di denaro romano o di altri paesi, monete non ammesse al Tempio perché coniate con effigi pagane. Era quindi necessaria, per lo svolgimento delle pratiche religiose, la presenza nelle vicinanze del Tempio di cambiavalute e mercanti di bestiame. La parola qui usata (hieròn) indica il recinto sacro, esterno al Tempio vero e proprio e comprendente il cosiddetto «cortile dei pagani», dove era consentito l’ingresso anche ai non israeliti. Sembra quindi eccessiva la severità di Gesù, oltre che inconsueta rispetto al comportamento mite che la tradizione gli attribuisce.

Tuttavia nulla è casuale o fuori luogo nel Vangelo di Giovanni. Il gesto di Gesù è chiaramente simbolico, che non vuol dire romanzato o fantasioso, ma al contrario, l’atto spettacolare rinvia a significati profondi e ricchi di conseguenze per la vita della comunità. Gesù si inserisce nella tradizione profetica e ne riprende linguaggio e atteggiamenti; il suo scopo non è scardinare il culto israelitico, ma riportarlo alla purezza originaria, impedire che l’osservanza esteriore di pratiche abituali scada nella superstizione e nel formalismo.

Le sue parole sono una citazione quasi letterale di passi dell’Antico Testamento (cf. Zac 14,21; Sal 69,10; Ger 7,11). Alcuni commentatori notano una sottile intenzione sociale, nella linea del profeta Amos: mentre rovescia i banchi dei cambiavalute e caccia il bestiame grosso, Gesù si mostra più paziente verso i venditori di colombe, animali offerti in sacrificio dai poveri. Notare il possessivo: «la casa del Padre mio», indizio di un rapporto unico di figliolanza tra Gesù e il Padre.

  1. 17: Il versetto è il commento posteriore dell’evangelista, il ricordo interpretante che a posteriori, alla luce della Pasqua e sulla falsariga della rilettura dell’Antico Testamento, spiega il senso dell’evento. Sono commenti tipici di Giovanni (cf. v. 22): anche nei Sinottici è sottolineata la comprensione post-pasquale dei gesti e delle parole di Gesù, che solo alla luce della risurrezione rivelano il loro pieno significato; qui c’è in più la riflessione cosciente, la consapevolezza che la distanza temporale dall’evento ha peso per l’ermeneutica e consente una comprensione progressiva della rivelazione.

Nella citazione del Sal 69,10 il verbo è cambiato dal presente «divora» al futuro «divorerà», per esplicitarne il valore di annuncio profetico della Passione.

  1. 18-21: I giudei rispondono, non tanto alle parole quanto ai gesti di Gesù. Presentati da Giovanni come gli avversari di Gesù, essi tuttavia hanno ben capito che il suo comportamento ricalca quello dei profeti, perciò gli chiedono un «segno» che ne attesti l’autorità. Gesù, come spesso avviene in Giovanni, risponde in forma enigmatica. Non rifiuta di dare il segno, ma invece di ricorrere a un prodigio come si aspettavano i giudei, propone loro una sfida che può essere letta su due livelli di senso, e che lascia quindi gli avversari davanti alla scelta tra la fede e l’incredulità. L’imperativo «distruggete» sta per un condizionale, come in molti oracoli profetici; Gesù gioca sul doppio senso tra il Tempio di pietre e il Tempio del suo corpo, e lascia intendere sia il nuovo Tempio dell’era messianica, sia la sua risurrezione. La parola usata nel v. 19 non è la stessa dei vv. 14-15; naòs è la costruzione al centro del Tempio, con il Santo dei Santi, il luogo in cui abita Dio.

I giudei si fermano al primo livello, quello immediato: manca loro la fede necessaria a operare il salto di senso, per giungere al secondo livello, la spiegazione dell’evangelista nel v. 21.

  1. 22: Anche i discepoli però non capiscono tutto subito: Giovanni sottolinea che solo dopo hanno capito il compimento della Scrittura.
  2. 23-25: Il sommario storico distingue i diversi livelli della fede. Molti credettero vedendo i segni: è già un primo passo rispetto all’incredulità dei giudei, ma non è ancora la fede autentica. Per questo Gesù non si fida pienamente: sa che non tutti reggeranno alla prova della Passione e della morte e che non tutti sapranno leggere le Scritture. La sua venuta è anche per il giudizio, nel senso inteso qui: per svelare ciò che sta nel cuore degli uomini e porli davanti alla scelta fondamentale e sincera.

 

Meditazione

 

«Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme», nota l’evangelista Giovanni. Anche per noi si sta avvicinando la Pasqua e l’Eucaristia di questa terza domenica di Quaresima ci unisce nuova­mente al gruppo dei discepoli che accompagnano Gesù. Nella settima­na appena conclusa ci siamo forse distratti dal cammino del Signore perché presi da noi stessi e dagli impegni della vita. Come i discepoli di allora, anche noi spesso siamo concentrati più sulle nostre preoccupa­zioni che su quelle del Vangelo. L’egocentrismo ci spinge sempre lon­tano dal Signore e dai suoi fratelli. Ma le domeniche tornano. E torna­no come le tappe del cammino: ci radunano assieme e ci immergono nell’itinerario che la Parola di Dio traccia per noi. Non siamo un popo­lo che cammina nelle tenebre. Il Signore non ci fa mancare la luce che illumina i nostri passi. La lettura dell’antica alleanza presenta le ‘dieci parole’, cioè, i Dieci Comandamenti. Sono le parole che costituiscono il fondamento della fede del popolo di Dio. Anche noi le abbiamo ascoltate sin dalla nostra infanzia, e fanno parte del ‘primo’ bagaglio religioso.

I Dieci Comandamenti, a guardarli con attenzione, non sono semplicemente una serie di alte e universali norme morali. Sono molto di più: in essi si esprime il contenuto fondamentale da cui dipendono tutta la legge e i profeti, ossia l’amore per il Signore e l’amore per il prossimo. Le prime ‘parole’ delineano il rapporto del popolo con il suo Dio: un rapporto d’amore esclusivo. Quando il Signore ordina: «Non avrai altri dèi di fronte a me», non propone una fredda definizione di tipo mono­teistico, bensì una richiesta di amore totale. È vero che non sarà mai possibile per noi raggiungere la qualità dell’amore di Dio, ma siamo chiamati a partecipare ad esso. «Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli», dice Gesù. La proibizione di avere immagini risponde alla esclusività che Dio pretende dal suo popolo: il suo amore è troppo personale e intenso per ammettere altri ‘amori’. Lo stesso si può dire dei credenti che si fabbricano idoli cui sacrificare la propria vita. Solo il Signore è degno di lode e di fede. Il sabato — continua il testo biblico — è il giorno del riposo, o meglio, della festa con Dio e con i fratelli. Per noi, cristiani, il giorno di festa e del riposo è quello della risurrezione di Gesù. La domenica è dunque il giorno grande ed eter­no: anticipa il paradiso, annunzia la gioia, è fonte di godimento, muove alla contemplazione.

Segue la seconda parte del Decalogo ove si elencano sette comanda­menti che delineano il corretto modo di vivere i rapporti tra gli uomini. Anche qui non si tratta unicamente di norme morali, bensì di indica­zioni tese a preservare l’immagine di Dio inscritta nel cuore degli uomi­ni. Sono sette parole che descrivono i limiti estremi da non valicare. Perciò, questi ‘comandi’, prima di essere una legge che verrebbe sanci­ta da un castigo, esprimono una esigenza d’amore, di un amore non parziale o fiacco, come può essere il nostro, ma di un amore esclusivo ed esigente, com’è quello di Dio: «Io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso», dice lo stesso Signore.

Il Vangelo presenta la scena della cacciata dei venditori dal tempio, che si potrebbe interpretare come una manifestazione di santa gelosia da parte di Gesù, il quale si rimette alla gelosia di Dio. Del resto dice il profeta: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà», cioè, sento dentro di me, come un dovere estremo, la difesa della dignità del Signore. Infatti, Gesù, appena vide il tempio invaso da venditori, nota l’evangelista Marco, fece una cordicella e cominciò a sferzarli e a rovesciare i loro banchetti. È un Gesù che non picchia nessuna persona ma, con una indignazione risoluta, non tollera che nessuno inquini la santità del tempio, la casa del Padre, lì dove Dio ha posto la sua dimora. Gesù sa bene che in un tempio ove si tollerano piccoli commerci di piccoli ven­ditori, si arriva a comprare qualcosa così importante come è la vita di un uomo per soli trenta denari.

Ma qual è il mercato che scandalizza Gesù? Qual è la compra-vendi­ta che Gesù non può sopportare? Senza dubbio la lettera di questa pagina evangelica interpella il nostro modo di gestire gli edifici di culto, affinché diventino davvero luoghi di preghiera e di incontro con Dio e non piuttosto luoghi sciatti e pieni di confusione. Bisogna impa­rare da questo Vangelo la responsabilità che hanno le nostre comunità perché non siano palestre per il proprio egocentrismo o per quant’al­tro che non riguardi lo «zelo per la casa del Signore». Tuttavia, c’è un altro mercato sul quale è importante porre la nostra attenzione: è quel­lo che si svolge dentro i cuori. Ed è un mercato che scandalizza ancor più il Signore Gesù perché il cuore è il vero tempio che Dio vuole abi­tare. Tale mercato riguarda il modo di concepire e di condurre la vita. Quante volte la vita viene ridotta ad una lunga ed avara compra-vendita, senza più la gratuità dell’amore! Quante volte dobbiamo constatare, a partire da noi stessi, il rarefarsi della gratuità, della generosità, della benevolenza, della misericordia, del perdono, della grazia! La ferrea legge dell’interesse personale, o di gruppo, o di nazione, sembra presiedere inesorabilmente la vita degli uomini. Tutti, chi più chi meno, siamo impegnati a trafficare per noi stessi e per il nostro guadagno; e non badiamo se da tale pratica crescono le erbe velenose dell’arroganza, dell’insaziabilità e della voracità. Quel che conta e quel che vale è il proprio personale guadagno; a qualsiasi prezzo.

Gesù entra ancora una volta nella nostra vita, come entrò nel tempio, e manda all’aria le bancarelle dei nostri interessi meschini e riafferma il primato assoluto di Dio. È lo zelo che Gesù ha per ognuno di noi, per il nostro cuore, per la nostra vita perché si apra ad accogliere Dio. Il Vangelo è la «spada a doppio taglio» di cui parla la Lettera agli Ebrei, che penetra sin nelle midolla per separarci dal male. Purtroppo capita non di rado di metterci dalla parte di quei responsabili dei luoghi sacri come il tempio, i quali, al vedere un ‘laico’ qual era Gesù agire dentro l’area sacra, si scandalizzano e chiedono ragione di tale brusco e ‘irriverente’ intervento. «Quale segno ci mostri per fare queste cose?», chiedono a Gesù. È la sorda opposizione che ancora facciamo di fronte all’invadenza del Vangelo nella nostra vita. Il male e il peccato, l’orgoglio e l’egoismo, cercano tutti i modi per ostacolare la presenza dell’amore nella vita del mondo. Eppure è proprio nell’accogliere l’amore del Signore che noi troviamo la salvezza. E più che mai necessario lasciarci sferzare dal Vangelo per essere liberati dalla legge del mercato, ed entrare così nel tempio dell’amore che è Gesù stesso.

 

 

L’immagine della domenica

 

Camminando verso san Pietro (Roma)   –    2024

 

«La terra, se guardata a lungo, vi costringe a guardare il cielo».

 

(Victor Hugo)


Preghiere e racconti

Breve apologo insegnato dal Vedanta

Una vecchia leggenda indù racconta che vi fu un tempo in cui tutti gli uomini erano dèi. Ma essi abusarono talmente della loro divinità che Brahma, il signore degli dèi, decise di togliere loro il potere divino e di nasconderlo in un posto dove sarebbe stato loro impossibile ritrovarlo. Il grande problema fu dunque di trovargli un nascondiglio.

Quando gli dèi minori furono convocati in Consiglio per risolvere il problema, gli proposero così: «Seppelliamo la divinità dell’uomo nella terra!»

Ma Brahma rispose: «No, non sarà sufficiente, perché l’uomo la scaverà e la troverà…».

Allora gli dèi replicarono: «In questo caso, gettiamo la divinità nel più profondo degli oceani!» Ma Brahma rispose di nuovo: «No! Perché presto o tardi l’uomo esplorerà le profondità di tutti gli oceani, ed è certo che un giorno la troverà e la riporterà in superficie…!».

E gli dèi minori conclusero: «Non sappiamo più dove nasconderla, perché non sembra esistere, sulla terra o nel mare, un posto in cui un giorno l’uomo non possa arrivare…».

Allora Brahma disse: «Ecco quello che faremmo della divinità dell’uomo: la nasconderemo nel più profondo di se stesso, perché è il solo posto in cui non penserà mai di cercare…».

Da allora, l’uomo ha fatto il giro della terra, ha esplorato, scalato, si è immerso e scavato… alla ricerca di qualcosa che si trova in lui…

 

Il Vangelo di questa terza domenica di Quaresima riferisce – nella redazione di san Giovanni – il celebre episodio di Gesù che scaccia dal tempio di Gerusalemme i venditori di animali e i cambiamonete (cfr Gv 2,13-25). Il fatto, riportato da tutti gli Evangelisti, avvenne in prossimità della festa di Pasqua e destò grande impressione sia nella folla, sia nei discepoli. Come dobbiamo interpretare questo gesto di Gesù? Anzitutto va notato che esso non provocò alcuna repressione dei tutori dell’ordine pubblico, perché fu visto come una tipica azione profetica: i profeti infatti, a nome di Dio, denunciavano spesso abusi, e lo facevano a volte con gesti simbolici. Il problema, semmai, era la loro autorità. Ecco perché i Giudei chiesero a Gesù: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (Gv 2,18), dimostraci che agisci veramente a nome di Dio.

La cacciata dei venditori dal tempio è stata anche interpretata in senso politico-rivoluzionario, collocando Gesù nella linea del movimento degli zeloti. Questi erano, appunto, “zelanti” per la legge di Dio e pronti ad usare la violenza per farla rispettare. Ai tempi di Gesù attendevano un Messia che liberasse Israele dal dominio dei Romani. Ma Gesù deluse questa attesa, tanto che alcuni discepoli lo abbandonarono e Giuda Iscariota addirittura lo tradì. In realtà, è impossibile interpretare Gesù come un violento: la violenza è contraria al Regno di Dio, è uno strumento dell’anticristo. La violenza non serve mai all’umanità, ma la disumanizza.

Ascoltiamo allora le parole che Gesù disse compiendo quel gesto: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. E i discepoli allora si ricordarono che sta scritto in un Salmo: “Mi divora lo zelo per la tua casa” (69,10). Questo salmo è un’invocazione di aiuto in una situazione di estremo pericolo a causa dell’odio dei nemici: la situazione che Gesù vivrà nella sua passione. Lo zelo per il Padre e per la sua casa lo porterà fino alla croce: il suo è lo zelo dell’amore che paga di persona, non quello che vorrebbe servire Dio mediante la violenza. Infatti il “segno” che Gesù darà come prova della sua autorità sarà proprio la sua morte e risurrezione. “Distruggete questo tempio – disse – e in tre giorni lo farò risorgere”. E san Giovanni annota: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,20-21). Con la Pasqua di Gesù inizia un nuovo culto, il culto dell’amore, e un nuovo tempio che è Lui stesso, Cristo risorto, mediante il quale ogni credente può adorare Dio Padre “in spirito e verità” (Gv 4,23). Cari amici, lo Spirito Santo ha iniziato a costruire questo nuovo tempio nel grembo della Vergine Maria. Per sua intercessione, preghiamo perché ogni cristiano diventi pietra viva di questo edificio spirituale.

(Le parole del Papa Benedetto XVI alla recita dell’Angelus, 11-III-2012)

Sei casa del Padre, non fare mercato del tuo cuore

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!» (…). Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».

E io, come vorrei il mondo, cosa sogno per la nostra casa grande che è la terra? Che sia Casa del Padre, dove tutti sono fratelli, o casa del mercato (Gv2,16), dove tutti sono rivali? È questa l’alternativa davanti alla quale oggi mi mette Gesù. E la sua scelta è così chiara e convinta da farlo agire con grande forza e decisione: si prepara una frusta e attraversa l’atrio del tempio come un torrente impetuoso, travolgendo uomini, animali, tavoli e monete. Mi commuove in Gesù questa combattiva tenerezza: in lui convivono la dolcezza di una donna innamorata e la determinazione, la forza, il coraggio di un eroe sul campo di battaglia (C. Biscontin).

Un gesto infiammato, carico di profezia: Non fate della casa del Padre mio una casa di mercato! Non fare del mercato la tua religione, non fare mercato della fede. Non adottare con Dio la legge scadente della compravendita, la logica grezza del baratto dove tu dai qualcosa a Dio (una Messa, un’offerta, una rinuncia…) perché lui dia qualcosa a te. Dio non si compra e non si vende ed è di tutti.

La casa del Padre, che Gesù difende con forza, non è solo l’edificio del tempio, ma ancor più è l’uomo, la donna, l’intero creato, che non devono, non possono essere sottomessi alle regole del mercato, secondo le quali il denaro vale più della vita. Questo è il rischio più grande: profanare l’uomo è il peggior sacrilegio che si possa commettere, soprattutto se povero, se bambino, se debole, i principi del regno. «Casa di Dio siete voi, se conservate libertà e speranza» (Eb 3,6). Casa, tempio, tenda grembo di Dio sono uomini e donne che custodiscono nel mondo il fuoco della speranza e della libertà, la logica del dono, l’atto materno del dare. Tempio di Dio è l’uomo: non farne mercato! Non umiliarlo sotto le leggi dell’economia. Non fare mercato del cuore! Sacrificando i tuoi affetti sull’altare del denaro. Non fare mercato di te stesso, vendendo la tua dignità e la tua onestà per briciole di potere, per un po’ di profitto o di carriera.

Ma l’esistenza non è questione di affari: è, e non può che essere, una ricerca di felicità. Che le cose promettono e non mantengono. È solo nel dare e nel ricevere amore che si pesa la felicità della vita. I Giudei allora: quale segno ci mostri per fare così? Gesù risponde portandoli su di un altro piano: Distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedificherò. Non per una sfida a colpi di miracolo e di pietre, ma perché vera casa di Dio è il suo corpo. E ogni corpo d’uomo è divino tempio: fragile, bellissimo e infinito. E se una vita vale poco, niente comunque vale quanto una vita. Perché con un bacio Dio le ha trasmesso il suo respiro eterno.

(Ermes Ronchi)

Il nostro corpo, tempio per rendere culto a Dio

 

  1. Il tempo di quaresima iniziato nel deserto della prova, la vita ha un senso o no, e proseguito sul monte della trasfigurazione, il senso della vita si è fatto parola e volto in un tu di nome Gesù, oggi fa tappa a Gerusalemme, nel tempio. Osserviamo attentamente lo svolgimento dei fatti. Gesù entra nel cortile dei gentili e vi trova la seguente situazione: «gente che vendeva buoi, pecore e colombe e…i cambiamonete» (Gv 2,14). I primi vendevano animali per il sacrificio, il particolare dei buoi e delle pecore è proprio a Giovanni, e i secondi, dietro un minimo compenso, scambiavano la moneta romana, non spendibile per le cose del tempio a motivo del suo contenere l’effigie dell’imperatore con la scritta che lo proclamava divino, con la moneta ufficiale di Tiro. Alla costatazione della situazione segue la reazione da parte di Gesù: il farsi una frusta di cordicelle, lo scacciare i mercanti, il gettare per terra il denaro e il rovesciare i banchi dei cambiamonete (Gv 2, 15). Al gesto segue la motivazione: «Portate via di qui tutte queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato» (Gv 2,16). Motivazione che qualifica il gesto come atto profetico, in sintonia con Geremia che lamenta che la casa di Dio sia ridotta a una spelonca di ladri (Ger 7,11) e con la scrittura di Zaccaria: «In quel giorno non vi saranno più commercianti nella casa del Signore delle schiere» (Zc 14,21). Atto profetico che i discepoli rileggeranno come generato da uno zelo che costantemente ha divorato Gesù (Gv 2,17; Sal 69,10) e che finirà per farlo divorare: la passione per Dio suo Padre, per la casa di suo Padre, per le cose di suo Padre. Gesto che in Gesù ha una connotazione unica a motivo della sua relazione unica con il Padre, è il gesto di un Figlio lucidamente consapevole che non si danno istituzioni religiose esenti dal grande rischio di tramutarsi in comitato di affari. Tocca alla profezia ricordare che ogni tempio di ogni luogo può divenire in nome del denaro prigione e sfruttamento del divino e non luogo di possibile incontro con il divino. Di questo tempio non rimarrà pietra su pietra, il futuro non gli appartiene.

 

  1. L’interpretazione profetica e filiale del gesto di Gesù non esaurisce la gamma dei significati ad esso connessi. A questo introduce la seconda parte della pericope giovannea che inizia con una domanda dei Giudei, prosegue con la risposta di Gesù e si conclude con un singolare accenno ai discepoli quale memoria storica dell’evento. La domanda è: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?» (Gv 2,18). Il gesto della purificazione del tempio (Mal 3,1s) è tale da esigere una controprova in grado di rendere ragione alla vera domanda: con quale autorità hai fatto questo? Gesù non si sottrae alla risposta: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19) ma, in stile tipicamente giovanneo, la pone su un piano completamente diverso da quello dei suoi interlocutori. Quest’ultimi intendevano il tempio di pietra, Gesù il «tempio del suo corpo» (Gv 2,21). E nuovi scenari si aprono, il purificatore del tempio è il tempio stesso di Dio non fatto da mano d’uomo. Il corpo di Gesù è la dimora del Padre, è il luogo attraverso cui il Padre si fa compagnia umana rendendosi udibile e visibile, è il luogo attraverso cui l’uomo incontra Dio e da cui sale al Padre l’unico sacrificio gradito: il dono libero, amante e incondizionato di sé che purifica l’uomo da ogni suo male. Solo l’amore rende casti e capaci di amare. In Gesù viene dichiarata conclusa l’era dei sacrifici, l’uomo non sacrifichi l’uomo per nessuna ragione, tantomeno religiosa; e neppure sacrifichi gli animali, non a caso vengono cacciati buoi e pecore dal tempio del loro sacrificio. Dio in Gesù si racconta come dedizione fino alla morte, questo il Dio che merita resurrezione; Dio in Gesù racconta l’uomo a sua immagine e somiglianza, dedizione fino alla morte, questo l’uomo che merita resurrezione. Altra cosa sacra gradita a Dio non esiste.

 

  1. «Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero» (Gv 2,22). Il compito delle Chiese è posto, essere nella storia la memoria che il corpo di Gesù è il tempio di Dio, in quella carne Dio si rende contemporaneo all’uomo e l’uomo è posto al cospetto di Dio. E ancora essere nella storia la memoria che il Dio spiegato da quel corpo è straniero a considerare l’uomo e l’animale come oggetto di sacrificio, solo il gratuito dono di sé per il bene dell’altro è ciò che conta. E infine essere nella storia la memoria che a similitudine di Gesù-Tempio ogni corpo è costituito tempio di Dio: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi?» (1Cor 6,19). Memoria dunque della propria corporeità come luogo in cui il Padre per il Figlio nello Spirito continua a fare di sé il dono di sé all’altro fino a rimanerne distrutto. Non abbiamo altro tempio che il corpo per rendere Dio presente all’uomo, un corpo che vibra di premura, un corpo destinato al terzo giorno della resurrezione. Per queste ragioni il Gesù di Giovanni dichiarerà concluso il conflitto dei templi di pietra (Gv 4,21-24). Una lezione da ripassare costantemente.

(Giancarlo Bruni)

 

Il segreto del nostro cuore

Siamo così tornati al mistero del nostro cuore, che è il centro della nostra vita e identità umana. È nel cuore che le nostre idee, intuizioni, emozioni e decisioni più profonde hanno la loro sorgente. Ma è anche nel cuore che spesso ci alieniamo di più da noi stessi. Sappiamo poco o nulla del nostro cuore. Giriamo alla larga, come se ne avessimo paura. Ciò che è più intimo ci spaventa di più. Proprio dove siamo più veramente noi stessi, siamo spesso estranei a noi stessi. È questo il lato doloroso del nostro ‘essere uomini’. Non riusciamo a conoscere i nostri centri nascosti, e ci capita perfino di vivere e morire senza sapere chi siamo in realtà. Se ci chiediamo perché pensiamo, sentiamo e agiamo in una data maniera, spesso non sappiamo rispondere, e dimostriamo così che siamo forestieri perfino in casa nostra.

Il mistero della vita spirituale è che Gesù vuole incontrarci nel segreto del nostro cuore, per farci conoscere il suo amore, liberarci dalle nostre paure e farci conoscere la nostra personalità più profonda. Nel segreto del nostro cuore, perciò, possiamo imparare non solo a conoscere Gesù ma anche, attraverso Gesù, a conoscere noi stessi. Se ci rifletti su un istante, vedrai un’interazione tra l’amore di Dio che ti si rivela e una crescita costante nella conoscenza che hai di te stesso. Ogni volta che lasci penetrare l’amore di Dio più profondamente nel tuo cuore, perdi un po’ della tua ansietà, e ogni volta impari a conoscerti meglio e brami di essere più conosciuto dal tuo Dio che ti ama.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 75).

 

Il nuovo tempio per l’incontro con Dio Gesù

«Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), dice il Signore. Volgiti a Dio con tutto il tuo cuore, lasciando questo misero mondo, e l’anima tua troverà pace. Impara a disprezzare ciò che sta fuori di te, dandoti a ciò che è interiore, e vedrai venire in te il regno di Dio. Esso è, appunto, «pace e letizia nello Spirito Santo» (Rm 14,17); e non e concesso ai malvagi.

Se gli avrai preparato, dentro di te, una degna dimora, Cristo verrà a te e ti offrirà il suo conforto. Infatti ogni lode e ogni onore, che gli si possa fare, viene dall’intimo (Sal 44,14); e qui sta il suo compiacimento.

Per chi ha spirito di interiorità è frequente la visita di Cristo; e, con essa, un dolce discorrere, una gradita consolazione, una grande pace e una familiarità straordinariamente bella. Via, anima fedele, prepara il tuo cuore a questo sposo, cosicché si degni di venire presso di te e di prendere dimora in te. Egli dice infatti: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e verremo a lui e abiteremo presso di lui» (Gv 14,23). Accogli, dunque Cristo e non far entrare in te nessun’altra cosa.

Se avrai Cristo, sarai ricco, sarai pienamente appagato. Sarà lui a provvedere vedere e ad agire fedelmente per te. Cristo «resta in eterno» (Gv 12,4) e sta fedelmente accanto a noi, sino alla fine.

(Imitazione di Cristo).

 

40 giorni nel deserto

Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.

Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire. Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo. Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua. Tu devi tornare nella solitudine”.

L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un convento?”

“No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.

 

Angeli smemorati

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.

Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.

Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.

E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.

Se solo si guardassero “dentro”!

 

Il luogo della lotta: il cuore

La vita spirituale procede da un centro intimo, un organo centrale, una radice dell’essere umano che la Bibbia chiama “cuore”. Nell’antropologia biblica il cuore è la sede della vita psicologica e morale, dunque della vita interiore.

Luogo dell’intelligenza e della memoria, della volontà e del desiderio, dell’amore e del coraggio, come di molti altri sentimenti, il cuore è l’organo che meglio rappresenta la vita nella sua totalità: esso designa ciò che per noi è la “persona”, soprattutto la “coscienza” personale. Luogo intimo nell’uomo ma scrutato e discreto da Dio, esso è il luogo del sorgere della fede, dell’accoglienza della Parola di Dio e dei doni divini: lo Spirito santo (Galati 4,6), l’amore di Dio (Romani 5,5),  la pace di Cristo la pace di Cristo (Colossesi 3,15). Il Cristo stesso abita per la fede nel cuore dell’uomo (Efesini 3,17) e dal cuore sale a Dio la risposta umana in forma di amore, preghiera, invocazione (Galati 4,6; Efesini 5,19; Colossesi 3,16; Marco 12,30). Luogo dell’incontro fra Dio e uomo, il cuore è anche, secondo la Bibbia, la sede di cupidigie e di passioni: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive» (Marco 7,21-23): così il cuore diviene il luogo della lotta spirituale, del combattimento interiore dove si scontrano le tendenze di peccato e l’azione della grazia di Dio. Il cuore può indurirsi nel rifiuto di ascoltare e accogliere la Parola di Dio (Matteo 13,15; Atti 28,27), può chiudersi alla compassione (Marco 3,5), può essere incapace di comprendere e di discernere (Marco 6,52; 8,17-21), può essere doppio, cioè insincero, menzognero (Atti 8,21; Giacomo 1,8; 4,8), nutrire odio e rancore (Levitico 19,17), gelosia e invidia (Giacomo 3,14). Prima di essere consumato esteriormente, nei gesti e nelle azioni, il peccato viene consumato nel cuore (cfr. Matteo 5,28). Si tratta allora, di far spazio allo Spirito santo perché Dio possa unificare (Salmo 86,11; Geremia 32,39), purificare (Salmo 51,12), circoncidere (Deuteronomio 10,16; 30,6), rinnovare (Ezechiele 36,26-27), ricreare (Salmo 51,12) il cuore dell’uomo. Ecco dunque il cuore come luogo della lotta invisibile, luogo dove può avvenire la decisione del ritorno a Dio e l’accoglienza della grazia che rende possibile tale ritorno, e dove avviene anche la scelta a favore della vita e la rottura con il peccato.

(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 142-143).

 

Un cuore chiuso

Ti aspettavo, Signore,

ma non sei venuto.

L’attesa è stata lunga,

e solo tardi ho capito

che non eri entrato

perché il cuore non ti aspettava.

Avevi bussato alla porta:

«Alzati, amica mia,

mia bella e vieni!

Perché l’inverno è passato,

è cessata la pioggia,

i fiori sono apparsi nei campi,

la stagione del canto è tornata

e si sente cantare la tortora.

Aprimi!».

Ma il cuore era chiuso,

appiattito su orizzonti terreni.

Ma quando sei finalmente entrato,

vincendo la mia sordità,

ho capito, Signore,

che il cuore si popola di idoli

quando tu scompari,

e che tu abiti, soltanto,

dove ti si lascia entrare.

 

Se preghi per te soltanto,

preghi per il tuo interesse.

  1. Ambrogio

(Vittorio PERI, Pregare è dire sì, Elle Di Ci-Velar, 2005).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

III DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B

II DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18

 

   In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».  Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».

  Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.  L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».

 

  • Il libro della Genesi si divide in due parti; la prima (1-11) contiene la rivelazione sulle origini del mondo e dell’umanità; la seconda (12-50) contiene le storie dei Patriarchi. Il brano della lettura fa parte della storia di Abramo e racconta il sacrificio del suo figlio Isacco.

Aspetti di esegesi

Il racconto riguarda Abramo e Isacco; esso sottolinea l’obbedienza di Abramo a Dio, pone al centro la costruzione dell’altare e ritorna a lodare la disponibilità di Abramo ad eseguire il sacrificio del proprio figlio per aderire a Dio, essergli unito e gradito. Il testo biblico riferisce anzitutto il comando di Dio al Patriarca: «In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,1-2). Abramo esegue il volere divino.

«Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Gn 22,9-13).

La descrizione del pellegrinaggio del patriarca con il figlio Isacco verso il monte del sacrificio è un capolavoro narrativo che non è compreso nella lettura (Gn 22,3-8). L’interesse di questo racconto è concentrato sull’atteggiamento di Abramo in rapporto a Dio e in rapporto a Isacco.

Per Abramo il comando divino è incomprensibile: il figlio a lui donato da Dio stesso, l’unico che può condurre a quella posterità che è stata promessa, deve venire restituito a Dio in sacrificio. All’inizio della sua storia ad Abramo era stato chiesto di separarsi dal suo passato (Gn 12,1), ora gli viene chiesto di rinunciare al futuro, all’avvenire, privandosi della discendenza. È la prova che Dio fa di Abramo per sondarne la fiducia e la fedeltà. Viene poi la costruzione dell’altare e la disposizione al compimento dell’immolazione, impedita dall’angelo di Dio.

«L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gv 22,15-18).

Nel seguito della Scrittura Abramo viene più volte esaltato per questo evento. I libri sapienziali lodano la sua forza d’animo e la sua fedeltà: «La sapienza riconobbe il giusto e lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la tenerezza per il suo figlio» (Sap 10,5).

«Abramo nella prova fu trovato fedele» (Si 44,20). La disponibilità a donare il proprio figlio valse ad Abramo l’imputazione della giustizia: «Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare?» (Gc 1,21). L’epistola agli Ebrei interpreta l’episodio come simbolo di risurrezione: «Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco e proprio lui che aveva ricevuto la promessa offrì il suo unico figlio del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di fare risorgere anche dai morti; per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19). In tutto il dramma delle prove di Abramo il culmine del valore si concentra nella fede di lui che lo rende disponibile ad immolare il proprio figlio Isacco per obbedienza a Dio. La parola che gli viene rivolta come elogio a fondamento della benedizione divina: «Non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio per me» (Gv 22,16) prefigura la rivelazione che san Paolo da di Dio Padre in ordine alla nostra salvezza: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32).

 

Seconda lettura: Romani 8,31-34

 

Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?  Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!

 

  • La lettera ai Romani tra il prologo (1,1-15) e l’epilogo (15,14-16,27) si divide in due parti; la prima, dottrinale, svolge l’insegnamento sulla salvezza per mezzo della fede (1,16-11,36); la seconda esorta alla coerenza della vita con l’insegnamento impartito (12,1-15,13). Il testo della lettura si trova al termine del capitolo ottavo nel quale l’apostolo delinea la vita nello Spirito.

Aspetti di esegesi

«Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?  Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8.31b-34).

L’insieme è un inno di fiducia. Inizia con: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi»; significa: dopo tutti i motivi di speranza che abbiamo addotto fin qui, quale conclusione dobbiamo trarre? La conclusione è che non abbiamo nulla da temere, poiché Dio è con noi e perciò nessuno può nuocerci realmente. Dio ha dato il proprio Figlio per noi, e il suo Figlio si è consegnato per noi alla morte; avendoci dato il suo Figlio, non solo il Padre è disposto a darci ogni cosa, come chi avendo dato il più può dare il meno, ma con lui e in lui ha già dato tutto. L’apostolo compie un ultimo sforzo per allontanare da noi ogni timore con una serie di domande. Su queste non vi è interpretazione unanime tra gli studiosi. Infatti vi sono vari modi di separare e punteggiare le frasi; il ritmo di questi versetti è discusso. La frase finale offre il centro della nostra fede: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!»; sono le prove dell’amore di Cristo per noi; morì per giustificarci, risuscitò per associarci alla sua gloria, sta alla destra di Dio per associarci a questa sua condizione, continua a intercedere per noi come sommo sacerdote. Tale è l’efficacia della sua carità verso di noi. La fedeltà di Dio nei confronti di Abramo annunciata nella prima lettura è qui pienamente proclamata.

 

Vangelo: Marco 9,2-10

 

  In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.  Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

 

Esegesi

 

Il vangelo di Marco, dopo l’inizio, che descrive la preparazione del ministero di Gesù (1,1-13), si articola in quattro parti; la prima presenta il ministero di Gesù in Galilea (1.14-7,23), la seconda descrive i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea (7,24-10,52); la terza descrive il ministero di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37), la quarta contiene il racconto della passione e delle apparizioni pasquali del Risorto (14,1-16,20). Il brano della lettura si trova nella seconda parte, dopo il secondo racconto della moltiplicazione del pane e la professione di fede di Pietro. È la rivelazione della trasfigurazione del Signore.

Aspetti di esegesi

Questa pericope, nel secondo vangelo, è un momento culminante della rivelazione su Gesù. Poco prima egli, che è stato dichiarato Cristo, cioè Messia da Pietro nella confessione di Cesarea (9,29), e ha risposto a tale dichiarazione dando il primo annuncio della sua passione, cioè mostrando che il suo modo di essere messia consiste nella sofferenza, nella morte e nella risurrezione, ora nella trasfigurazione compie una manifestazione della sua dignità trascendente di Figlio di Dio. Mentre il primo vangelo fa della trasfigurazione una proclamazione di Gesù nuovo Mosè e il terzo vangelo insiste sulla preparazione alla passione vicina, il vangelo di Marco la presenta soprattutto come una epifania gloriosa del Cristo, del messia nascosto; questa scena di gloria, anche se momentanea, manifesta ciò che realmente è e ciò che sarà presto in modo definitivo Gesù che deve sperimentare l’abbassamento e l’umiliazione del servo sofferente.

Gesù sceglie tre dei Dodici: gli stessi scelti per assistere ad altri due momenti importanti: quando il Signore richiama alla vita la figlia di Giairo (Mc 5,37) e nel tempo della preghiera nell’orto degli ulivi prima dell’arresto (Mc 14,33); si tratta di Pietro, che sarà il capo degli apostoli, di Giacomo, il primo dei Dodici che darà la testimonianza del sangue (At 12,2), Giovanni, l’ultimo superstite del gruppo apostolico (Gv 21.23). Conduce questi tre su un «alto monte», fin dall’antichità identificato con il Tabor, che si erge solitario nella pianura di Galilea (alcuni pensano al monte Hermon); e lì compie il prodigio della trasfigurazione. La trasfigurazione è una epifania che si produce senza preparazione, all’improvviso, in un istante; Marco la indica con il verbo che significa «metamorfosi», cambiamento non soltanto esterno nelle qualità sensibili, ma nella stessa sostanza, o meglio, un cambiamento in tutte le qualità esterne con rapporto di effetto rispetto alla essenza; il miracolo consiste nel fatto che la persona divina di Gesù in quel momento partecipò la sua gloria alla sua umanità così che questa apparve gloriosa come dopo la risurrezione e la glorificazione. Gesù rimane identico mostrandosi glorioso. Lo splendore di Gesù è celeste. La visione del Cristo trasfigurato lasciava intendere ai tre apostoli la sua identità divina. I paragoni ingenui e popolari, come il particolare dato da Marco: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere le vesti così bianche» mostra la pratica impossibilità di dare una descrizione adeguata del fenomeno avvenuto davanti ai tre testimoni.

«E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4). Mosè ed Elia che hanno ricevuto ambedue rivelazioni sul monte Sinai (Es 19,33-34; 1Re 19,9-13) rappresentano uno la legge l’altro i profeti, cioè tutta l’economia religiosa dell’antico Testamento e rendono testimonianza al Figlio di Dio che era venuto a dare perfezione alla legge e compimento alle profezie. Essi discorrono con Gesù. Il racconto di Luca dice l’argomento della conversazione, cioè la passione e morte del Signore qualificata come esodo (Lc 9.31).

«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati». Pietro parla; egli è ancora sotto l’impressione della tristezza provata all’annuncio della passione; qui dichiara la sua felicità di trovarsi in quella esperienza nei confronti di Gesù ed esprime il desiderio di rendere permanente quella condizione proponendo di innalzare tre tende una per Gesù, le altre due per Mosè e per Elia apparsi nella visione in conversazione con il Signore (Mc 9,5-6). È quasi un tentativo ingenuo di fermare Gesù sul monte nella trasfigurazione per impedirgli di compiere il suo itinerario verso la passione.

«Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). La nuvola luminosa è il segno della presenza e della manifestazione di Dio; la voce di Dio Padre che dichiara: questo è il mio Figlio, rivelando l’identità di Gesù; sono le stesse parole pronunciate nella teofania del battesimo che inaugurava il ministero pubblico del Signore (Mc 1,11); essa ha un prezioso complemento: «ascoltatelo»; egli infatti è il nuovo e definitivo profeta, il perfetto rivelatore del Padre. La nuvola splendente e la voce dal cielo costituiscono il vertice della manifestazione e rivelazione.

Come la teofania avvenuta nel battesimo di Gesù inaugurava la prima fase del suo ministero, così la teofania della trasfigurazione da inizio, con il sigillo divino, al secondo periodo. «E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,8-10).

Gesù ritorna nel suo aspetto abituale e si avvia verso Gerusalemme ove darà compimento all’opera della redenzione. L’evento si conclude con la stessa semplicità con cui era iniziato. I tre testimoni conservano nel loro cuore il ricordo della esperienza cui sono stati chiamati, di cui leggiamo l’eco nella seconda lettera di Pietro: «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).

 

Meditazione

 

Come avviene per ogni cammino, anche per quello quaresimale viene tracciato un itinerario simbolico che comporta alcuni spazi significativi da attraversare o da raggiungere perché quel misterioso viaggio che la liturgia ci fa compiere possa realmente trasformare la nostra vita. In qualche modo l’itinerario quaresimale obbedisce a una sorta di geografia spirituale: è scandito da alcuni luoghi la cui valenza coinvolge in profondità la nostra vita, collocandola appunto nello spazio dello Spirito. Abbiamo infatti iniziato il cammino collocandoci con Gesù nel deserto, il luogo della solitudine e della verità, dove sono messi alla prova i nostri desideri più profondi e dove vengono purificati perché si trasformino nei desideri dello Spirito, nei desideri del Figlio. E, d’altra parte, nella aridità del deserto, abbiamo contemplato proprio il volto del Figlio di Dio nella sua drammatica solidarietà con la fragilità umana. Il passaggio nel deserto è tuttavia necessario per raggiungere un altro luogo, la città simbolica di Gerusalemme, il luogo del compimento della promessa: solo lì, sul Golgota e di fronte al sepolcro vuoto, potremo contemplare in tutta la sua trasparenza il volto di un Dio che ci ha tanto amati da donare se stesso per riscattarci dalla schiavitù del peccato. Ma tra il deserto e Gerusalemme c’è ancora un altro luogo che ci viene donato come tappa, in cui, allo stesso tempo, viviamo un momento di riposo e ritroviamo la forza di riprendere il cammino. Questo luogo è un monte: un luogo appartato ed elevato, dal quale si ha la grazia di raggiungere, con un unico sguardo, quella meta a cui si arriva solo con fatica, passo dopo passo, alla fine del viaggio. È il monte della trasfigurazione in cui ci viene anticipata la gioia della luce pasquale, in cui possiamo fissare lo sguardo sullo splendore del Padre che si riflette nel volto Figlio amato ed aprirci all’ascolto della sua Parola.

Siamo introdotti a questa esperienza dal racconto dell’evangelista Marco, il quale colloca l’episodio della trasfigurazione quasi al centro della sua narrazione, all’interno di quel cammino verso Gerusalemme che Gesù compie con i suoi discepoli. È un cammino in cui il discepolo stesso è plasmato dal Maestro ma lungo il quale si rivela anche tutta la fatica della sequela, le resistenze e le paure del discepolo di fronte al destino di Gesù. Infatti i versetti che ci narrano l’esperienza della trasfigurazione sono collocati subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (Mc 8,31) e la reazione di Pietro (dietro la quale è nascosta la subdola logica di satana), in cui il discepolo si ribella a questa prospettiva poco degna di un Messia, cercando di impedire questo assurdo viaggio (8,32-33). La trasfigurazione diventa allora come un dono, come uno sguardo di speranza su questo faticoso cammino. È come una ulteriore risposta alla domanda centrale del vangelo di Marco: «Ma voi, chi dite che io sia?» (8,29). Sul monte viene rivelato al discepolo il volto misterioso di quel Messia che cammina verso Gerusalemme.

Notiamo solo alcuni elementi del racconto. Anzitutto, paradossalmente, questo racconto deve piuttosto essere ‘contemplato’, visto, per essere veramente ‘ascoltato’. Marco stesso se ne rende conto: la parola umana non può narrare la gloria di Dio. Solo il linguaggio della parola stessa di Dio, la sua forza evocativa capace di lasciarci affacciare nel mondo di Dio, può farci intuire qualcosa della doxa, della gloria, che si riflette sul volto di Gesù. In qualche modo è appropriato il commento alla reazione di Pietro: «non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati» (9,6).

Pietro, Giacomo e Giovanni (i discepoli che ricompaiono anche nel racconto del Getsemani, Mc 14,32-42, episodio con il quale il nostro ha molte somiglianze), sono condotti da Gesù su questo alto monte, in disparte. E lui che li prende con sé, che fa loro il dono di fermarsi in disparte, nella solitudine del monte. Non dobbiamo mai dimenticare questo: salire sul monte e stare con Gesù non è qualcosa che può decidere il discepolo, programmarlo fissando al Signore un appuntamento in base ai propri desideri; il discepolo può solamente accogliere quell’invito che gli viene rivolto, nello stupore e nella gioia, e lasciarci condurre per mano.

Ciò che avviene sul monte è una esperienza sconvolgente (e Marco nota che i discepoli erano spaventati) : «fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (9,3). Su questo monte tutto diventa luce, tutto diventa sguardo. Al centro c’è un volto, il volto di Gesù: e questo volto rivela tutta la sua bellezza. Marco tenta di descrivere questa luce: non è luce naturale, ma splendore. È il colore delle realtà celesti ed escatologiche, è la gloria di Dio, il suo mistero che, paradossalmente, si rivela subito dopo in quella «nube che coprì (i discepoli) con la sua ombra» (9,6).

Ma ciò che sorprende nel racconto della trasfigurazione è un altro elemento che entra all’improvviso e orienta la dinamica della scena. E l’elemento della Parola e l’atteggiamento conseguente dell’ascolto. Gesù, nella sua trasfigurazione, non è solo: «apparve (ai discepoli) Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (9,4). C’è un dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia: queste due figure, simbolo della Legge e dei Profeti, ci ricordano le manifestazioni del Sinai in cui Dio si è rivelato attraverso il dono della sua Parola. E questi due grandi profeti convergono (conversavano) verso Gesù: in Gesù giungono a compimento le attese, l’alleanza, la Legge. Gesù è la Parola piena e definitiva di Dio. Dunque, dal Volto il discepolo è invitato a passare alla Parola. E questo passaggio si compie attraverso l’invito stesso del Padre che orienta il discepolo all’ascolto: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7).

Per il discepolo il passaggio dal Volto alla Parola non è senza resistenze. La contemplazione appagante di Gesù fa dire a Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia» (9,5). L’allusione alla festa dei Tabernacoli (le tre capanne), colorata nel giudaismo post-esilico di forte messianismo, innesta nella proposta di Pietro una pretesa: quella di anticipare il compimento post-pasquale e di fissarlo. E in fondo la tentazione di localizzare il mistero, prolungare l’istante benedetto e fissare per sempre la storia. Ma è anche la pretesa di costruire una dimora per Dio, una dimora in cui poter abitare assieme a questo Gesù e vedere ormai tutto alla sua luce, senza più la fatica di proseguire un cammino così incerto e duro. Ancora una volta emerge nel discepolo la protesta contro quell’annuncio così assurdo che Gesù ripeterà subito dopo (Mc 9,30-32). Proprio nella parola del Figlio, l’amato, quel Figlio che Dio dona all’uomo (e qui è chiara l’allusione alla richiesta di Dio ad Abramo narrata in Gen 22,1-18, la prima lettura della liturgia), è possibile fare sempre questa esperienza di trasfigurazione, sempre scoprire il volto di Gesù.

Al discepolo è richiesto di riprendere il cammino con questa Parola da seguire e da ascoltare. Il discepolo non è solo lungo la via che conduce a Gerusalemme. Marco nota alla fine dell’episodio: «guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro» (9,8). Con il discepolo c’è ancora Gesù; lui lo ha condotto sul monte e lui lo fa discendere continuando a camminare assieme, per guidarlo a quella meta che è anche la sua. Il discepolo non ha nulla da temere in questo cammino. Può far sue le parole di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31). Veramente, alla luce del volto di Gesù e nell’ascolto della sua parola, anche il nostro volto e quello dei nostri fratelli diventano belli; anche la nostra vita, gli eventi che la compongono, anche quelli più difficili da accogliere, le nostre contraddizioni e le nostre fatiche, le cose che amiamo, i desideri più nascosti, tutto può diventare luminoso e trasfigurato: le ombre non scompaiono, ci sono, ma non spaventano più perché lo sguardo riesce a raggiungere la meta. Veramente quel volto di luce ha la forza di illuminare ogni realtà.

 

L’immagine della domenica

CATENA DEL GRAN SASSO D’ITALIA (AQ)   –   2005

 

«Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere….

A che pro, allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo, devi prendere nota delle difficoltà del tuo cammino; finché sali, puoi vederle. Nella discesa, non le vedrai più, ma saprai che ci sono, se le avrai osservate bene. Si sale, si   vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto.

Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto.

Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere».

(Renè Daumal)

 

 

Preghiere e racconti

Il Tabor e il Getsemani

Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità. Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore. Laggiù amore e dolore si fondono.

Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta. La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2). La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44). La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani. Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 140).

 

Così il Signore ha sognato il volto dell’uomo

Dall’abisso di pietre al monte della luce, dalle tentazioni nel deserto alla trasfigurazione. Le prime due domeniche di Quaresima offrono la sintesi del percorso che la vita spirituale di ciascuno deve affrontare: evangelizzare le nostre zone d’ombra e di durezza, liberare tutta la luce sepolta in noi. In noi che siamo, assicura Gesù, luce del mondo. Guardate a lui e sarete raggianti e non avrete più volti oscuri, cantava il salmista.

Aveva iniziato in Galilea la sua predicazione con la bella notizia che il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi, diceva, e credete che Lui è qui e guarisce la vita. Oggi il Vangelo mostra gli effetti della vicinanza di Dio: vedere il mondo in altra luce e reincantare la bellezza della vita.

Gesù porta i tre discepoli sopra un monte alto. La montagna è la terra che penetra nel cielo, il luogo dove si posa il primo raggio di sole e indugia l’ultimo; i monti sono, nella Bibbia, le fondamenta della terra e la vicinanza del cielo, il luogo che Dio sceglie per parlare e rivelarsi. E si trasfigurò davanti a loro. E le sue vesti divennero splendenti, bianchissime. Anche la materia è travolta dalla luce. Pietro ne è sedotto, e prende la parola: che bello essere qui, Rabbì! Facciamo tre capanne.

L’entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita: che bello! ci fanno capire che la fede per essere pane nutriente, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un “che bello!” gridato a pieno cuore. Avere fede è scoprire, insieme a Pietro, la bellezza del vivere, ridare gusto a ogni cosa che faccio, al mio svegliarmi al mattino, ai miei abbracci, al mio lavoro. Tutta la vita prende senso, ogni cosa è illuminata: il male e il buio non vinceranno, il fine della storia sarà positivo. Dio vi ha messo mano e non si tirerà indietro.

Ciò che seduce Pietro non è lo splendore del miracolo o il fascino dell’onnipotenza, ma la bellezza del volto di Gesù, immagine alta e pura del volto dell’uomo, così come lo ha sognato il cuore di Dio. Intuisce che la trasfigurazione non è un evento che riguarda Gesù solo, ma che si tratta di un paradigma che ci riguarda tutti e che anticipa il volto ultimo dell’uomo, è «il presente del nostro futuro» (come Tommaso d’Aquino chiama la speranza).

Infine il Padre prende la parola ma per scomparire dietro la parola del Figlio: «Ascoltate Lui». Sali sul monte per vedere e sei rimandato all’ascolto. Scendi dal monte e ti rimane nella memoria l’eco dell’ultima parola: Ascoltate Lui. Nostra vocazione è liberare, con gioiosa fatica, tutta la bellezza di Dio sepolta in noi. E il primo strumento per la liberazione della luce è l’ascolto della Parola.

(Ermes Ronchi)

 

Domenica della trasfigurazione di Gesù

La seconda domenica di Quaresima è tradizionalmente la domenica della trasfigurazione di Gesù, ovvero il polo opposto alla prima, dedicata alle tentazioni di Gesù. Quest’anno leggiamo il racconto presente nel vangelo secondo Marco, e siccome abbiamo commentato ormai tantissime volte l’inesauribile mistero della trasfigurazione del Signore, ci prenderemo anche un po’ di libertà, per dire qualcosa su alcuni interventi critici riguardo al linguaggio e allo stile di papa Francesco.

Ma iniziamo con il contestualizzare l’evento: un evento storico, non un mito! Al centro del vangelo Gesù ha fatto per la prima volta alla sua comunità l’annuncio della sua passione, morte e resurrezione ormai prossime, suscitando l’incomprensione da parte di Pietro (cf. Mc 8,31-33), e ha anche detto con forza alla folla che la sequela deve passare attraverso la croce (cf. Mc 8,31-37).

Il discepolo di Gesù non può pensare di essere esente dalla croce, non può rifiutarla come scandalo e vergogna, perché, se si vergognerà di Gesù crocifisso, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui alla sua venuta gloriosa (cf. Mc 8,38). Venuta gloriosa che chiuderà la storia, ma della quale – annuncia Gesù stesso – alcuni potranno vedere un’anticipazione (cf. Mc 9,1).

“Sei giorni dopo” queste parole, dunque nel settimo giorno, “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni”, i discepoli a lui più vicini e intimi (testimoni della resurrezione della figlia di Giairo: cf. Mc 5,37; testimoni dell’agonia di Gesù, della sua de-figurazione nell’orto del Getsemani: cf. Mc 14,33), “e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli”.

Ed ecco il grande mistero: Matteo scrive che “il suo volto brillò come il sole” (Mt 17,2), Luca che “l’aspetto del suo volto divenne altro” (Lc 9,29). Marco invece è molto discreto, ci dice solo che Gesù “fu trasfigurato (metemorphóte) davanti a loro”, per un’azione divina (espressa al passivo), e così “le sue vesti divennero splendenti, bianchissime, tanto che nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”.

Ciò che è avvenuto è indicibile, chi può descriverlo adeguatamente? Qui Marco, affinché il lettore comprenda la straordinarietà dell’evento, si serve di un’immagine efficace, espressa in modo semplice, in vernacolo, facendo uso di uno stile che ci può anche sorprendere. L’evangelista più antico parla un greco semplice, non padroneggia questa lingua in modo tale da renderla elegante, come invece fa Luca, e per questo si serve del paragone, appena citato, con il lavoro del lavandaio.

Certamente i tre evangelisti sinottici, pur con le loro differenze di stile, non sapevano narrare la trasfigurazione di Gesù con la profondità teologica dei padri della chiesa greca, quando leggeranno questo bianco splendente come “energie increate” presenti nel corpo di Gesù, il Figlio di Dio. Tuttavia il messaggio di Marco ha la stessa qualità teologica degli altri due, e la teofania da lui presentata non risulta più povera o mancante.

Evidenzio questo, pensando al modo di esprimersi di papa Francesco, criticato e spesso anche disprezzato perché a volte si esprime effettivamente in vernacolo, in modo da essere capito da tutti, servendosi di un linguaggio semplice, lontano dal dettato di una lezione teologica. Attenzione, dunque, e “chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!” (Mc 4,9), come Gesù ha più volte ripetuto…

Il bianco è la luce, è il colore del mondo celeste (cf. Dn 7,9), del cielo aperto, e niente sulla terra gli si avvicina. Anche gli angeli della resurrezione (cf. Mc 16,5 e par.; Gv 20,12) e quelli dell’ascensione al cielo, secondo l’iconografia tradizionale, sono vestiti di bianco. Insomma, luminosità straordinaria! Gesù appare dunque trasfigurato, e dal suo corpo emana luce, come la emanava il volto di Mosè (cf. Es 34,29-35), come la emana il Figlio dell’uomo nelle visioni apocalittiche di Giovanni (cf. Ap 1,12-16). Accanto a Gesù “apparve Elia con Mosè, e conversavano con Gesù”: la Profezia e la Legge, delle quali Gesù è interprete e compimento.

Di fronte a tale “visione”, Pietro parla in modo inappropriato, balbetta, non sa cosa dire, se non che occorrerebbe fermare, arrestare quell’evento, renderlo definitivo. Così tutto sarebbe compiuto senza la passione e la croce… Ma questo “congelamento” dell’esperienza non è possibile, e infatti una nube luminosa copre tutti i presenti, mentre una voce proveniente da essa proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Dt 18,15).

Se al battesimo la voce del Padre era risuonata solo per Gesù (cf. Mc 1,11), qui invece la rivelazione è anche per i tre discepoli. E l’invito è quello decisivo per ogni discepolo di Gesù, di ogni tempo: occorre ascoltare lui, il Figlio, che è il Kýrios, il Signore! Ascoltare lui, non le proprie paure, non i propri desideri, non le proprie immagini e proiezioni su Dio. Sì, anche per vedere e ascoltare Dio (“Shema‘…”: Dt 6,4) ormai occorre vedere e ascoltare Gesù.

E subito dopo nessuna luce, nessuna voce, nessuna presenza: solo Gesù con i tre discepoli, Gesù con loro come lo era stato sempre. Un uomo, un compagno che scende dal monte per compiere il suo cammino verso Gerusalemme, verso la morte che attende ogni giusto, ogni vero figlio di Dio.

(Enzo Bianchi)

 

La Trasfigurazione

L’odierna domenica, la seconda di Quaresima, è detta della Trasfigurazione, perché il Vangelo narra questo mistero della vita di Cristo. Egli, dopo aver preannunciato ai discepoli la sua passione, “prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,1-2). Secondo i sensi, la luce del sole è la più intensa che si conosca in natura, ma, secondo lo spirito, i discepoli videro, per un breve tempo, uno splendore ancora più intenso, quello della gloria divina di Gesù, che illumina tutta la storia della salvezza. San Massimo il Confessore afferma che “le vesti divenute bianche portavano il simbolo delle parole della Sacra Scrittura, che diventavano chiare e trasparenti e luminose” (Ambiguum 10: PG 91, 1128 B).

Dice il Vangelo che, accanto a Gesù trasfigurato, “apparvero Mosè ed Elia che conversavano con lui” (Mt 17,3); Mosè ed Elia, figura della Legge e dei Profeti. Fu allora che Pietro, estasiato, esclamò: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia” (Mt 17,4). Ma sant’Agostino commenta dicendo che noi abbiamo una sola dimora: Cristo; Egli “è la Parola di Dio, Parola di Dio nella Legge, Parola di Dio nei Profeti” (Sermo De Verbis Ev. 78,3: PL 38, 491). Infatti, il Padre stesso proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” (Mt 17,5).

La Trasfigurazione non è un cambiamento di Gesù, ma è la rivelazione della sua divinità, “l’intima compenetrazione del suo essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il Padre, Gesù stesso è Luce da Luce” (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 357). Pietro, Giacomo e Giovanni, contemplando la divinità del Signore, vengono preparati ad affrontare lo scandalo della croce, come viene cantato in un antico inno: “Sul monte ti sei trasfigurato e i tuoi discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua gloria, affinché, vedendoti crocifisso, comprendessero che la tua passione era volontaria e annunciassero al mondo che tu sei veramente lo splendore del Padre”.

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’angelus, 20.03.2011).

 

L’immagine tra luce e ombra

La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione. Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili. Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata. La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce. Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte. Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata. L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti. Tutto il resto deve essere svelato e illuminato. Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre. […] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa. La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile. I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.

I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori. Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato. Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini. Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore. L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati. È piuttosto essa a illuminare. La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori. L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie. Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.

L’immagine è tra la luce e l’ombra. E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra. In ogni caso la rivelazione non è il riflettore. La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo. I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce. È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.

La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.

(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E. AFFINATI et al., Saper sperare.  Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).

 

Una sola tenda

Gesù condusse con lui tre suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigurò alla loro presenza per cui il suo volto divenne splendente come la viva luce del sole. Erano dunque essi quei tali che erano presenti e che non avrebbero visto la morte prima di vedere il Signore nel suo regno. Alla fine del mondo però tutti avranno lo splendore che il Signore mostrò in se stesso. Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo.

Sta scritto: Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso (Fil 3,21). Ecco, egli sul monte rifulse come il sole (Mt 17,2), ma non era ancora risorto. Non era ancora morto ma pur nella carne era Dio e con la carne non ancora risorta, grazie al potere divino, compiva le azioni che voleva […].

Apparvero poi Mosè ed Elia, si misero ai fianchi del Signore e conversavano con lui. San Pietro provava gioia in quella solitudine, era stanco della turbolenza del genere umano. Vedeva il monte, vedeva il Signore, Mosè ed Elia. Erano lassù solo coloro che erano a lui simili nell’aspetto. Godeva di vivere quieto senza preoccupazioni, e felice, disse al Signore: Signore, è bello per noi starcene qui. Perché dovremmo scendere dal monte in mezzo alle preoccupazioni e non preferiamo restare qui nella gioia? È bello per noi starcene qui. Se vuoi, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia. Pietro, non sapendo ancora come doveva parlare, voleva fare una separazione. Credeva fosse bene ciò che diceva. Ma che cosa fece il Signore? Fece scendere una nuvola dal cielo e ricoprì tutti, come se volesse dire a Pietro: «Perché vuoi fare tre tende? Eccone una sola». Allora udirono una voce dalla nube: Questo è il mio Figlio diletto, perché non paragonassero a lui Mosè e Elia e credessero che il Signore fosse da ritenersi come uno dei profeti, mentre era il Signore dei profeti: Questo è il mio Figlio, ascoltatelo. All’udire questa voce i discepoli caddero bocconi. Ma il Signore si avvicinò, li rialzò ed essi non videro altro che il solo Gesù.

(AGOSTINO, Discorso 79/A, 1-2, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp. 576-578)

 

Riconoscere Cristo

Nella Bibbia ci sono pagine molto belle sulla realtà del fatto che non si può vedere Dio in volto perché si morirebbe subito, si conoscerebbe la verità, e per l’uomo la conoscenza improvvisa e totale di tutta la verità significa la morte. C’è un passo meraviglioso, in cui Dio asseconda la richiesta di Mosè di mostrarsi e si fa vedere da lui, ma solo di spalle. Mosè è probabilmente il patriarca, il profeta che incontra più da vicino Dio, quello col quale Lui dimostra la maggiore intimità. Stanno insieme a lungo sul monte Sinai, al momento della consegna delle tavole della legge. Dio vuole compiacere Mosè quanto possibile, ma non si può mostrare che di spalle, per non uccidere il suo amico.

La realtà di Dio è che si nasconde, anche nella natura. Quando si rivela e si proclama non dice: “Io ho la verità”, ma: “Io sono la verità”, che significa tutt’altro. Spesso è l’uomo che si rifiuta di riconoscerlo, come Ponzio Pilato, che si volta dall’altra parte, e questa è la sua vera colpa: aver incontrato Cristo e non averlo voluto riconoscere.

(Piegiorgio ODIFFREDI – Sergio VALZANI, La via lattea, Longanesi, Milano, 2008, 44-45).

 

Ancora e sempre sul monte di luce

Ancora e sempre sul monte di luce

Cristo ci guidi perché comprendiamo

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

 

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

 

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

 

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

 

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D. M. Turoldo)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

II DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B

I DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Genesi 9,8-15

 

   Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra». Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne».

 

  • L’Alleanza di Dio con Noè è una retroproiezione dell’alleanza sinaitica, fino ai primordi della storia umana, quindi con i lontani antenati del popolo ebraico. Di fatti Noè, tramite suo figlio Sem, è il capostipite degli undici «patriarchi» postdiluviani che sfociano in Abramo, il padre del popolo eletto e di tutti i credenti (Gn 11,10-26; Rm 4,11).

In realtà Dio aveva benedetto l’uomo fin dal primo istante della sua esistenza (Gn 1,28,31) solo che la caduta sembrava avere interrotti i loro rapporti, ma con Noè la storia ricomincia da capo. Dio benedice Noè e la sua discendenza (cf. Gn 9,1), depone la sua ira anche se non l’ha mai avuta e torna amico dell’uomo e di tutti gli esseri del creato. Non farà più sentire la sua collera e la sua vendetta su di loro (diluvio) anche se questi di nuovo dovessero abbandonare le vie della rettitudine e del bene.

Il Dio dell’antico Testamento scopre il suo vero volto: sembra che faccia promesse a una sola famiglia, ma le fa a tutti gli uomini poiché in quella famiglia c’è raccolta tutta la nuova umanità.

Il «segno» che ricorda il patto che Dio stabilisce con l’uomo è l’arcobaleno. C’era anche prima della comparsa di Noè, ma d’ora in poi ricorderà agli uomini la parola di Dio, la sua bontà misericordiosa che si stenderà sul loro presente e sul loro avvenire. Ogni volta che apparirà sarà un segno di propiziazione e di salvezza.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 3,18-22

 

    Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua. Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.

 

  • La I Lettera di Pietro, sebbene di carattere pastorale, non è dei più facili testi del nuovo Testamento. Soprattutto il brano della liturgia odierna.

I cristiani debbono saper sopportare pazientemente le derisioni, le ingiurie, le persecuzioni che vengono dai loro vecchi commilitoni (3,8-18), facendosi forti della testimonianza di Gesù che ha patito sofferenze mortali per i peccati degli altri, tra i quali una volta si trovavano anche loro, i destinatari dello scritto petrino.

Ma in Gesù la morte non è stata la sua fine in assoluto, ma solo della sua esistenza nella carne, cioè in una condizione di fragilità e debolezza (cf. Mt 26,41). Morendo non ha fatto altro che passare a una vita nuova, dominata, in contrapposizione alla precedente, dallo «spirito» perciò spirituale. È questa condizione esistenziale che gli ha consentito di «salire» nel mondo di Dio, nei cieli dove ha conseguito una sovranità che lo pone al di sopra degli stessi Principati e delle Potenze. Addirittura Gesù è passato alla destra di Dio, siede al suo fianco, partecipa della sua potestà giudiziaria.

Il potere di Gesù giudice, secondo l’autore, è universale, si estende a tutti gli uomini, «ai vivi e ai morti» (ivi, 4.6), ma prima della giustizia essi sono chiamati a sperimentare la sua salvezza. A tal proposito l’autore inserisce una notizia che si trova riferita solo nel suo scritto: la visita del Cristo risorto agli spiriti che si trovavano ancora incatenati nello Sheol, nel regno dei morti, in prigione, quindi in attesa di essere liberati.

I destinatari di questa azione liberatrice non sono i giusti dell’antico Testamento, ma i contemporanei di Noè, per di più quelli che non credettero alla sua iniziativa e per tale rifiuto furono puniti.

Chi siano questi spiriti ai quali Gesù va ad annunziare la salvezza non e facile a determinarsi. Se i «demoni», di cui parla il Libro di Enoc o gli «angeli», oppure «i figli di Dio» che si invaghirono delle figlie degli uomini di cui parla Genesi 6,1-6 rimane problematico. Ad ogni modo sono sempre esseri impenitenti e la salvezza messianica è accordata anche a loro: persino ai «peccatori più inveterati di tutti i tempi, anche della preistoria» (Bibbia e Catechismo, Paideia, 1999, p. 163).

 

Vangelo: Marco 1,12-15

 

    In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di

Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel

Vangelo».

 

Esegesi

Gesù inizia la sua attività messianica con un rito preliminare, il battesimo, a cui fa seguito un periodo di raccoglimento e di riflessione, un breve «noviziato», che termina con un pronunciamento programmatico.

Il battesimo è una scelta e una risposta determinante anche nella vita di Gesù, ma prima di mettersi all’opera ha bisogno di fare un po’ di chiarezza nel suo animo, di comprendere più a fondo il senso della chiamata che l’ha raggiunto in precedenza, di capire la maniera più opportuna di darle esecuzione. Il deserto, quindi, la solitudine, la preghiera, l’ascolto della parola non potranno non contribuire a portare luce sulla sua situazione interiore.

Un profeta sembra che abbia una veste d’obbligo da indossare, un atteggiamento inconfondibile da assumere, quello della severità, del rimprovero, quando non dell’asprezza, come Giovanni dava a vedere. A prima vista le dimostrazioni di potenza sembravano rispondere all’agire divino più di quello della mitezza, dell’umiltà, del nascondimento, ma nella tradizione biblica aveva preso posto una figura insolita che raggiungeva il successo passando attraverso le umiliazioni e le sofferenze. Un’immagine che a Gesù era stata fatta balenare nel battesimo e che ora nel deserto cerca di vagliare. L’alternativa pertanto era tra il discendente davidico e il «servo di JHWH».

Il luogo di ritiro di Gesù è precisato solo vagamente. Dall’esperienza sinaitica il «deserto» era diventato il luogo privilegiato dell’incontro dell’uomo con Dio. Qui Mosè aveva parlato a tu per tu con il Signore e qui i profeti avevano invitato il popolo a ritrovare o a rinnovare l’intesa con l’Altissimo (cfr. Os 2,16-22; Gr 2,2-3; Dt 8,2; Ez 16,23). Non per nulla Gesù «è spinto» (Matteo dice «fu condotto») nel deserto dallo Spirito. Quindi si tratta di una prova, di un confronto, di una verifica impostagli da Dio stesso. È un esame che egli dovrà compiere sul suo orientamento vocazionale e sull’attuazione che intende dargli.

I vangeli non fanno la cronaca di questo soggiorno di Gesù nel deserto; più sobrio di tutti è ancora Marco che ricorda appena la notizia. In tutti i modi segnala la durata e ricorda il combattimento spirituale che Gesù ebbe a sostenere con Satana. Il numero «quaranta» è già convenzionale; denota soltanto un periodo di tempo appropriato per valutare una certa esperienza. Gli israeliti sono lasciati vagare per quarant’anni nel deserto per verificare la loro fedeltà a JHWH (Es 16,35; Nm 14,33-34); Mosè rimane con Dio sul monte per 40 giorni «senza mangiare pane e bere acqua» (Es 24,18; 34.28); Giosuè e i suoi compagni impiegano 40 giorni per esplorare il paese di Canaan (Nm 13,25); Ezechiele giacerà sul fianco sinistro 40 giorni per scontare l’empietà d’Israele (4,6); Gesù risorto apparirà ai discepoli per lo spazio di 40 giorni (At 1,9).

Le «prove» o tentazioni che Gesù subisce nel deserto hanno la durata necessaria per verificare la scelta compiuta. Marco non lo dice chiaramente come gli altri due sinottici, ma stringe tutta la singolare esperienza di Gesù in questo soggiorno nel deserto nel verbo «peirazomenos», «per essere tentato», che la volgata traduce con un imperfetto «et tentabatur», si può dire iterativo, come a indicare che non fu una prova sporadica, ma persistente per tutto il tempo trascorso nel deserto. Se si volesse essere più precisi occorrerebbe dire che si tratta di una tentazione che durerà tutta la sua esistenza terrestre poiché la proposta divina troverà sempre reazioni contrarie, fino al Golgota.

La tentazione è una prova che gli evangelisti, in linea con la tradizione, attribuiscono all’Avversario del bene, a Satana. Marco non dice di più, poiché Satana è un personaggio noto ai suoi lettori. Per l’uomo biblico anche il male ha un punto di partenza, un principio. Satana è una creatura che si è ribellata a Dio e si è messa a ostacolare la realizzazione della sua opera, soprattutto la felicità dell’uomo. Egli comparirà spesso nel nuovo Testamento, ma la sua identità o identificazione si fa sempre più problematica alla luce della nuova esegesi. La tentazione, ricorda Giacomo, scaturisce innanzitutto dall’intimo di ciascun uomo e raccoglie le voci del proprio egoismo in contrapposizione al piano di Dio e al bene comune. Queste voci sono quelle che Gesù cerca di fare rientrare per far spazio alla proposta del padre. Matteo dice che sono voci di facile prestigio, di spettacolarità, di potenza e di gloria, ma egli deve sapere che il percorso segnato da Dio è fatto di prestazioni scomode, onerose, umilianti. Deve capirlo e soprattutto accettarlo.

Marco sorvola i temi della tentazione e ne segnala in anticipo la vittoria poiché menziona accanto a Gesù la presenza delle «fiere» e ricorda il servizio prestato dagli «angeli». Due «dettagli» che riportano alla situazione delle origini prima del peccato quando l’uomo era in pace con le fiere e godeva dell’amicizia di Dio (cfr. Is 11,6-9). Il «paradiso» si poteva considerare riaperto, come Gesù segnalerà tra breve a Natanaele (cf. Gv 1,51). Il Cristo si scontra con il suo grande avversario ossia con le resistenze interiori che insorgono contro il cammino impostagli dallo Spirito, ma assapora già le primizie della vittoria che alla fine conseguirà.

Il secondo quadro di Mc 1,12-15 segnala l’apertura dell’attività messianica di Gesù. Essa coincide più metodologicamente che realmente con la scomparsa di scena di Giovanni Battista. La missione di Gesù è singolare, unica; non si confonde, meno ancora si commescola con quella di alcun altro. Egli comincia a parlare quando tutti gli altri tacciono. Con lui si «compiono i tempi» dell’attesa ovvero della preparazione e incomincia la realizzazione della salvezza. E solo lui è il mediatore degli uomini presso Dio. Molti profeti l’hanno preceduto ma nessuno può stargli a fianco, a fargli ombra poiché solo da lui proviene il dono di Dio. Infatti nella scena della trasfigurazione compaiono accanto a lui Mosè ed Elia, ma dopo le parole del Padre «questi è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo» entrambi si eclissano e sulla scena rimane «Gesù solo» (Mc 9,7-8).

Il teatro della prima apparizione di Gesù contrariamente alle attese è la Galilea. Un richiamo non casuale poiché non era la terra più indicata per tali attuazioni. I fatti non si potevano smentire, bisognava però confermarli e, se fosse stato possibile, apporvi l’avallo delle Scritture. Marco si accontenta di riferire il fatto, Matteo fa appello, anche se arbitrariamente, a un detto di Isaia (8,23-9.1).

I temi della predicazione di Gesù sono il vangelo, il regno di Dio, la conversione quale condizione per accogliere l’uno e l’altro. Il «vangelo di Dio» è un’espressione propria di Marco e designa «la buona novella che Dio intende far pervenire agli uomini», cioè l’avvenuta realizzazione delle sue promesse, la fine di qualsiasi malinteso e delle incomprensioni che si erano verificate nel tempo tra l’uomo e Dio e tra gli uomini tra di loro. Il tutto equivaleva all’instaurazione del regno di Dio. Non è che il Signore avviava un suo particolare dominio sulla terra, sugli uomini; il suo progetto al contrario era realizzare tra gli esseri del creato una convivenza come quella che regnava ipoteticamente nel suo mondo. Essi saranno più attenti alla sua parola e comprensivi gli uni verso gli altri.

Le condizioni per entrare nel regno di Dio, vederlo realizzato sulla terra è credere, riconoscere cioè nella parola di Gesù una proposta che viene dall’alto e conformare ad essa la propria condotta. La conversione non è un mutamento passeggero ma radicale; si tratta di cambiare modo di pensare e più ancora di agire; deporre le proprie aspirazioni egoistiche e acquistare quelle di Dio che sono solo desideri di bene.

Il termine greco metanoia è sinonimo di mutazione di pensiero ma più che nei riguardi della divinità nei confronti dei propri simili. Il regno di Dio si realizza quando gli uomini tentano di capirsi e riescono ad amarsi tra di loro come li ama Dio. Il regno porta la denominazione di Dio ma deve essere realizzato dagli uomini.

 

Meditazione

 

Nelle tre letture con cui la liturgia della Parola di questa prima domenica ci introduce nel tempo quaresimale (quel tempo che un antico inno chiama tempus acceptabile, tempo favorevole che deve essere accolto come momento di grazia nel cammino di conversione di ogni credente), c’è un forte richiamo al tema della alleanza, della comunione e della fedeltà di Dio all’uomo e al mondo che ha creato. Il segno dell’arco di Dio sulle nubi ricongiunge il cielo alla terra e ristabilisce quel legame interrotto dal peccato del primo uomo, Adamo. È una alleanza tra Dio e l’uomo e «con ogni essere che vive in ogni carne» (Gen 9,15).

Lo sguardo di speranza a cui l’arco sulle nubi orienta si spinge fino ad abbracciare ogni creatura e Dio stesso fissa il suo sguardo su questo segno di comunione per fare memoria della sua fedeltà: «Io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna… e non ci saranno più le acque… per distruggere ogni carne» (9,16.15).

La memoria dell’alleanza eterna assume nella storia della salvezza il volto di Gesù, il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo; nel racconto delle tentazioni Gesù si rivela come colui che, tentato nella sua carne di uomo, si affida totalmente alla parola del Padre e vince ogni idolatria, ristabilendo quell’armonia impressa da Dio nella sua creazione. La vittoria di Cristo sul male che tenta di distruggere ogni legame tra Dio e la sua creazione è radicale: raggiunge il luogo in cui questo male dimora, strappando da esso ogni creatura. La fedeltà di Dio all’uomo è così annunciata sino agli inferi (cfr. IPt 3,19-29). È il mistero pasquale del Cristo morto e risorto che la liturgia ci fa intravedere fin dall’inizio del cammino quaresimale; ma è il mistero a cui ogni credente partecipa mediante il battesimo, diventando segno di questa alleanza nuova ed eterna in Cristo.

Tra i tre testi scritturistici proposti dalla liturgia, certamente quello che maggiormente caratterizza la prima domenica di quaresima è il racconto delle tentazioni di Gesù. In questa prospettiva, l’icona cristologica che il racconto evangelico ci tratteggia è come uno squarcio sul cammino di sequela che il discepolo di Gesù è chiamato a rinnovare nel tempo quaresimale; collocare all’inizio di questo cammino il racconto delle tentazione, diventa allora un richiamo alla essenzialità e alla verità della propria scelta. Si è posti di fronte alla serietà dell’impegno battesimale, mediante la consapevolezza di ciò che quotidianamente comporta il vivere da figli in sintonia con la volontà del Padre; si è condotti dallo Spirito nel deserto per prendere coscienza di questa presenza misteriosa che guida i nostri passi ed educa la nostra libertà nelle scelte secondo Dio (il discernimento spirituale) ; si è invitati ad accogliere con umiltà la nostra debolezza, sapendo che essa è stata accolta e trasfigurata da Cristo stesso; si è messi in guardia da ogni forma di idolatria che intacca il servizio all’unico Signore e che rende la nostra vita divisa interiormente; si è educati a camminare pazientemente verso la Pasqua, accogliendo nel volto di Cristo tentato e nel volto di Cristo trasfigurato l’unica e inaudita bellezza del Dio che si dona all’uomo per strapparlo alla morte e comunicargli la vita.

Il ciclo delle letture dell’anno B ci presenta il racconto delle tentazioni secondo la versione di Marco. Lo scontro tra Gesù e lo spirito del male, narrato da Matteo e Luca attraverso una descrizione fortemente drammatica e mediante un martellante dialogo in cui si alternano le suggestioni diaboliche e i testi della Scrittura, è raccontato da Marco in due soli versetti. L’essenzialità della narrazione, spogliata di ogni elemento descrittivo, rende ancora più brusco il passaggio dalla esperienza di pienezza del battesimo (dopo aver udito la parola del Padre, «Tu sei il Figlio mio, l’amato», Gesù viene spinto «subito» nel deserto). E, d’altra parte, nei due versetti di Marco abbiamo tutti gli elementi necessari per definire questo ‘inaudito’ episodio del cammino di Gesù: lo Spirito che «lo sospinge nel deserto»; il deserto come luogo della prova; i quaranta giorni, come tempo di prova; la tentazione e il tentatore. Satana. In più Marco aggiunge: «(Gesù) stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano» (v. 13). Possiamo dire che in questa prospettiva il racconto diventa quasi una icona in cui ogni elemento acquista una portata simbolica, sia in rapporto a Gesù, sia in rapporto al lettore. Sottolineiamo alcuni elementi.

Anzitutto la collocazione dell’esperienza delle tentazioni tra il battesimo e l’inizio del ministero pubblico di Gesù appare significativa; diventa come lo squarcio iniziale di tutta la vicenda terrena di Cristo, il suo rapporto con il Regno e la sua relazione con quell’umanità di cui ha assunto totalmente la fragilità e la povertà. E qui possiamo anche comprendere, sotto un’altra angolatura, la collocazione delle tentazione subito dopo il battesimo. Al Giordano, Gesù si mescola ai peccatori che vanno da Giovanni per farsi battezzare; è appunto la solidarietà con l’uomo peccatore che si manifesta in modo drammatico proprio nel racconto delle tentazioni. Così collocata all’inizio del vangelo, l’esperienza del deserto appare non solo come il primo atto pubblico di Gesù (quasi un solenne ‘sì’ al Padre e all’uomo) , ma come il quadro entro il quale si svolgerà tutto il suo ministero, fino alla croce. Vediamo così che lo Spirito, donato al battesimo, non separa Gesù dalla storia e dalle sue ambiguità, dalle sue contraddizioni; al contrario, colloca Gesù all’interno della storia e all’interno della lotta che in essa si svolge. E proprio qui si rivela in profondità e nella totale trasparenza dalle ambiguità che affascinano l’uomo ciò che il Padre dice in Mc 1,11: «Tu sei il Figlio mio, l’amato». Inoltre, se teniamo presente la ricca simbologia biblica degli elementi del racconto (che ci rimanda al cammino di Israele nel deserto e all’ingresso nella terra promessa), allora possiamo scorgere nella successione battesimo – tentazioni nel deserto – proclamazione del Regno, una sorta di cammino in cui Gesù ripercorre la storia di Israele: passaggio attraverso le acque del Mar Rosso, permanenza nel deserto per quarant’anni, ingresso nella Terra promessa sotto la guida di Giosuè.

Pur nella loro scarna essenzialità descrittiva, i personaggi presentati da Marco ci rivelano ciò che avviene nell’esperienza della tentazione. Gesù è delineato come l’icona dell’uomo ‘spirituale’, che sa discernere secondo lo Spirito. E questo non perché è collocato in uno spazio immateriale e estraneo alla drammatica situazione umana, quasi sottratto alla fatica di ogni scelta o esente dalla prova, ma perché ci insegna a scegliere secondo Dio, donandoci i criteri per un reale discernimento ‘spirituale’. Gesù accetta la sfida della tentazione e attraverso di essa scopre in profondità la sua identità di Figlio di Dio, quel nome udito nella teofania del battesimo. Accanto a Gesù vi è la misteriosa presenza dello Spirito. È lui a condurre (a «sospingere», ekbalein) Gesù nel cuore stesso della lotta, nella solitudine del deserto, il luogo dell’esperienza della fragilità umana; qui, e non altrove, matura il discernimento e lo Spirito sta a fianco di Gesù in questo cammino, quasi a guidarlo per mano, facendosi presente nella forza della Parola donata come arma per combattere la suggestione diabolica (aspetto presente nei racconti di Luca e Matteo). E infine, di fronte a Gesù, vi è il tentatore, che Marco chiama Satana. Esso appare come la proposta alternativa alla parola di Dio, la contro-proposta subdola, affascinante, falsa, idolatrica, che abusa della debolezza dell’uomo, lo tenta nella sua carne per raggiungere il cuore. Satana vuole distruggere il rapporto confidenziale e obbedienziale tra uomo e Dio, presentare Dio come nemico dell’uomo, geloso della libertà e delle possibilità che gli sono offerte. E più l’immagine di Dio crea paura nell’uomo, più lo minaccia diventando ingombrante e soffocante, più il tentatore è sicuro della riuscita della sua opera: separare, creare un progetto contrario a Dio, illusorio, in cui l’uomo è schiavo del proprio idolo, vittima del suo «essere come Dio» (cfr. Gen 3,5).

Da questa esperienza Gesù non fugge: accettando la nostra umanità (e la fragilità di cui la tentazione è elemento costitutivo), in essa riporta la vittoria su ogni idolatria che mira a separare l’uomo da Dio. E Marco sottolinea, quasi visivamente, il frutto di questa vittoria: è l’armonia ristabilita tra il mondo creato e il mondo sovrumano, di cui Gesù, e in esso ogni uomo, è testimone.

Veramente «il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino». A noi non resta che entrare con Gesù in questo luogo di prova per lasciarci trasformare a sua immagine; non resta che accogliere l’invito «convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15).

 

L’immagine della domenica

 

Lago di Pusiano (Lecco)   –    2024

 

«L’anima fortunatamente

 ha un interprete,

spesso inconsapevole,

ma fedele: lo sguardo».

(Charlotte Brontë)

 


Preghiere e racconti

 

Quaresima 2024

«Per vivere con serietà l’ascesi quaresimale, siamo invitati ad assumere tre impegni: la carità, che accorcia le distanze tra i fratelli e rende attenti alle necessità dei poveri; la preghiera, che nel frastuono ritaglia spazi di silenzio e irriga l’esistenza dell’uomo; il digiuno, che ordina i sensi e contribuisce a dare il giusto valore alle cose». Questa esortazione la scrive il segretario generale della CEI mons. Giuseppe Baturi nella Guida al tempo di Quaresima, che assieme ai relativi sussidi liturgici è stata curata dall’Ufficio Liturgico Nazionale con la collaborazione del Settore per l’Apostolato Biblico dell’Ufficio Catechistico Nazionale, del Servizio per la Pastorale delle Persone con Disabilità e di Caritas Italiana.

Nell’introduzione, dopo alcune coordinate storiche, una riflessione sulla riscoperta del battesimo ci parla di questo tempo «come segno sacramentale della nostra conversione, di ritorno al Signore contrassegnato da un intenso proposito spirituale, nel quale i battezzati sono chiamati a fare esperienza di Cristo e testimoniarlo con la vita». Il cammino di conversione che viene chiesto, però, «non può essere ristretto al solo aspetto morale, benché sempre importante», ma va percorso mediante opere di penitenza e soprattutto di carità. È un tempo esigente, dice il documento, «perché ci vorrà forza di speranza e di verità per poter riflettere sulla propria vita e decidere il cambiamento mediante la celebrazione del sacramento della Penitenza, che consentirà di rialzare lo sguardo verso lo splendore della Pasqua».

Dopo i prefazi quaresimali, preghiere che sgorgano dalla Parola di Dio e mettono in luce elementi che configurano l’esperienza cristiana della fede, la guida propone come cantare la Quaresima, puntando alla scelta testi «pertinenti teologicamente e degni da un punto di vista letterario, e allo stesso tempo comprensibili dalle assemblee a cui sono destinati», oltre che melodie semplici ed essenziali «per aiutare i fedeli a immergersi nel “digiuno” quaresimale». Infine, alcune parole sono dedicate a come vivere la Quaresima. In particolare, tra le pratiche per verificare il nostro cammino di fede c’è, insieme al digiuno e la preghiera, l’elemosina: «durante questa Quaresima chiediamo al Signore di convertire il nostro modo di “fare” elemosina, chiediamo il coraggio di avvicinarci al prossimo con gesti di gentilezza».

 

Dai sassi emerge la vita, crediamo nell’amore

In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

Nel giardino di pietre che è il deserto, nuovo spettrale giardino dell’Eden, Gesù vince il vecchio, spento sguardo sulle cose (le tentazioni) e ci aiuta a seminare occhi nuovi sulla vita. Que sueño el de la vita: sobre aquel abiso petreo! Che sogno quello della vita e sopra quale abisso di pietre (Miguel de Unamuno). Il deserto e il regno, la sterilità e la fioritura, la morte e la vita: i versetti di Marco dipingono nella prima pagina del suo vangelo i paesaggi del cuore dell’uomo.

Gesù inizia dal deserto: dalla sete, dalla solitudine, dall’angoscia delle interminabili notti. Sceglie di entrare da subito nel paesaggio della nostra fatica di vivere. Ci sta quaranta giorni, un tempo lungo e simbolico. Si fa umanità lungo le piste aride delle mie faticose traversate. In questo luogo di morte Gesù gioca la partita decisiva, questione di vita o di morte. Il Messia è tentato di tradire la sua missione per l’uomo: preferire il suo successo personale alla mia guarigione.

Resiste, e in quei quaranta giorni la pietraia intorno a lui si popola. Dai sassi emerge la vita. Una fioritura di creature selvatiche, sbucate da chissà dove, e presenze lucenti di angeli a rischiarare le notti. Da quando Gesù lo ha abitato, non c’è più deserto che non sia benedetto da Dio, dove non lampeggino frammenti scintillanti di regno. Il regno di Dio è simile a un deserto che germoglia la vita, un rimettere al mondo persone disgregate e ferite. Un’energia trasformativa risanante cova tra le pietre di ogni nostra tristezza, come una buona notizia: Dio è vicino convertitevi e credete nel Vangelo. Credete nell’amore. All’inizio di Quaresima, come ai tornanti della vita, queste parole non sono una ingiunzione, ma una promessa. Perché ciò che converte il cuore dell’uomo è sempre una promessa di più gioia, un sogno di più vita. Che Gesù racchiude dentro la primavera di una parola nuova, la parola generatrice di tutto il suo messaggio: il regno di Dio è vicino.

Il Regno di Dio è il mondo nuovo come Dio lo sogna, e si è fatto vicino da quando Dio è venuto ad abitare, con amore, il nostro deserto. Gesù non viene per denunciare, ma per annunciare, viene come il messaggero di una novità straordinariamente promettente. Il suo annuncio è un ‘sì’, e non un ‘no’: è possibile per tutti vivere meglio, vivere una vita buona bella beata come la sua.

Per raggiungerla non basta lo sforzo, devi prima conoscere la bellezza di ciò che sta succedendo, la grandezza di un dono che viene da fuori di noi. E questo dono è Dio stesso, che è vicino, che è dentro di te, mite e possente energia, dentro il mondo come seme in grembo di donna. E il suo scopo è farti diventare il meglio di ciò che puoi diventare.

(Ermes Ronchi)

 

“Convertitevi e credete nel Vangelo!”

Nel Il vangelo di questa I domenica di Quaresima è breve: quattro versetti, anche se in realtà mi concentrerò quasi esclusivamente sui primi due, avendo commentato i vv. 14-15 poche domeniche fa (III domenica del tempo Ordinario). I vv. 12-13 sono molto intensi, capaci di comunicarci l’essenziale sulle tentazioni di Gesù, anche se nel nostro immaginario è impressa, dunque da noi memorizzata, la narrazione più drammatica e più precisa dei vangeli secondo Matteo e Luca (cf. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13).

Concentriamoci dunque sul racconto di Marco. Gesù è stato battezzato nel fiume Giordano da Giovanni, il suo maestro, e nell’uscire dall’acqua ha visto i cieli aprirsi, lo Spirito di Dio scendere su di lui con la dolcezza di una colomba (cf. Mc 1,9-10) e, soprattutto, ha sentito una dichiarazione rivolta a lui solo. Dal cielo, infatti, dal luogo dimora di Dio, lo raggiunge una voce che proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho messo tutta la mia gioia” (Mc 1,11; cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Is 42,1). È la voce del Padre, che gli conferma il proprio amore e la sua identità di Figlio amato; è la voce che lo abilita, con la forza dello Spirito, “compagno inseparabile di Cristo” (Basilio di Cesarea), alla missione pubblica tra i figli di Israele.

Ma appena questo è avvenuto, “subito” (euthýs) lo Spirito disceso su di lui lo spinge dove i cieli non sono aperti, bensì chiusi; lo spinge nel deserto, dove è presente più che mai il diavolo, Satana, il tentatore, la cui missione è dividere e separare, soprattutto da Dio. Gesù entra così in una zona d’ombra, entra nella prova, perché il deserto è terra di prova, di tentazione.

Lo era stato per Israele, “battezzato” e uscito dalle acque del mar Rosso; lo era stato per Mosè e per Elia; lo era stato per quanti erano andati nel deserto per preparare una strada al Signore (cf. Is 40,3), combattendo da “figli della luce” contro il demonio e la sua tenebra; lo era stato per Giovanni il Battista. Gesù dunque sta camminando sulle tracce lasciate dagli inviati di Dio, e in tal modo sa che deve prepararsi a quella che sarà la prova, la lotta quotidiana, fino alla morte. In quel deserto di Giuda, accanto al mar Morto, tra quelle rocce aride, Gesù “dimora quaranta giorni, continuamente tentato da Satana”.

La sua è una lotta corpo a corpo, della quale nessuno è spettatore; è una lotta interiore attraverso la quale deve imparare l’obbedienza del Figlio – “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8), legge con intelligenza l’autore della Lettera agli Ebrei – e vincere il tentatore che si oppone alla venuta del Regno nel modo in cui Dio lo vuole e che Gesù deve assumere e fare suo, fino a rivestirsene. Marco non ci dice nulla di preciso su queste tentazioni che gli altri evangelisti, in una sorta di midrash, racconteranno come lotta contro le tre libidines dell’eros, della ricchezza e del potere, insomma lotta contro una manifestazione mondana, prepotente e arrogante del Regno.

L’evangelista più antico mette invece l’accento sul fatto che Gesù è costantemente tentato, per quaranta giorni, senza mai cedere a una visione trionfalistica della venuta del Regno. Pienamente sottomesso al Padre, creatura tra le creature non umane del deserto (rocce, pietre, arbusti, rettili, volatili, bestie selvagge), Gesù è in profonda comunione con tutta la creazione. È come collocato al centro di essa, è il vero Adamo come Dio l’ha voluto, capace di vivere riconciliato e in pace con tutte le creature e con tutta la terra.

Gesù appare come l’uomo mite, armonioso, rappacificato con il cielo e la terra, così da inaugurare l’era messianica profetizzata da Isaia: “Il lupo dimorerà con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme … Il leone si ciberà di paglia come il bue, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera, il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso” (Is 11,6-8). Sì, è il Regno messianico promesso da Dio a tutta la terra, che certamente è veniente. Gesù lo inaugura nel deserto, per questo subito dopo può proclamare: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino”.

Ma occorre ricordare che questa “armonia” e questa “pace” sono a caro prezzo: il prezzo della kénosis, dello svuotamento e dell’abbassamento di colui che “era in condizione di Dio e svuotò se stesso (heautòn ekénosen)”, diventando uomo e spogliandosi delle sue prerogative divine, invece di tenerle gelosamente per se stesso e di considerarle un privilegio (cf. Fil 2,6-7). Proprio in questa profonda umiliazione, che è testimonianza della sua tentazione vera, reale (non un teatrino esemplare per noi!), Gesù fa pace tra cielo e terra, sicché le creature del cielo, gli angeli, nel deserto gli si accostano e lo servono. Lo riconoscono quale Dio nella carne di un uomo: Gesù da Nazaret, il figlio di Maria.

Gesù, amato in pienezza dell’amore del Padre dichiaratogli nell’ora del battesimo e accompagnato dallo Spirito santo, è ormai operante quale vincitore su Satana, sul male, sulla malattia, sulla morte. È il Messia veniente che porta la vita; basta dunque seguirlo, accogliendo il suo invito pressante che riassume in sé tutto il vangelo appena iniziato: “Convertitevi e credete nel Vangelo!”.

(Enzo Bianchi)

 

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA QUARESIMA 2024

Attraverso il deserto Dio ci guida alla libertà

 

Cari fratelli e sorelle!

Quando il nostro Dio si rivela, comunica libertà: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). Così si apre il Decalogo dato a Mosè sul monte Sinai. Il popolo sa bene di quale esodo Dio parli: l’esperienza della schiavitù è ancora impressa nella sua carne. Riceve le dieci parole nel deserto come via di libertà. Noi li chiamiamo “comandamenti”, accentuando la forza d’amore con cui Dio educa il suo popolo. È infatti una chiamata vigorosa, quella alla libertà. Non si esaurisce in un singolo evento, perché matura in un cammino. Come Israele nel deserto ha ancora l’Egitto dentro di sé – infatti spesso rimpiange il passato e mormora contro il cielo e contro Mosè –, così anche oggi il popolo di Dio porta in sé dei legami oppressivi che deve scegliere di abbandonare. Ce ne accorgiamo quando ci manca la speranza e vaghiamo nella vita come in una landa desolata, senza una terra promessa verso cui tendere insieme. La Quaresima è il tempo di grazia in cui il deserto torna a essere – come annuncia il profeta Osea – il luogo del primo amore (cfr Os 2,16-17). Dio educa il suo popolo, perché esca dalle sue schiavitù e sperimenti il passaggio dalla morte alla vita. Come uno sposo ci attira nuovamente a sé e sussurra parole d’amore al nostro cuore.

L’esodo dalla schiavitù alla libertà non è un cammino astratto. Affinché concreta sia anche la nostra Quaresima, il primo passo è voler vedere la realtà. Quando nel roveto ardente il Signore attirò Mosè e gli parlò, subito si rivelò come un Dio che vede e soprattutto ascolta: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele» (Es 3,7-8). Anche oggi il grido di tanti fratelli e sorelle oppressi arriva al cielo. Chiediamoci: arriva anche a noi? Ci scuote? Ci commuove? Molti fattori ci allontanano gli uni dagli altri, negando la fraternità che originariamente ci lega.

Nel mio viaggio a Lampedusa, alla globalizzazione dell’indifferenza ho opposto due domande, che si fanno sempre più attuali: «Dove sei?» (Gen 3,9) e «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). Il cammino quaresimale sarà concreto se, riascoltandole, confesseremo che ancora oggi siamo sotto il dominio del Faraone. È un dominio che ci rende esausti e insensibili. È un modello di crescita che ci divide e ci ruba il futuro. La terra, l’aria e l’acqua ne sono inquinate, ma anche le anime ne vengono contaminate. Infatti, sebbene col battesimo la nostra liberazione sia iniziata, rimane in noi una inspiegabile nostalgia della schiavitù. È come un’attrazione verso la sicurezza delle cose già viste, a discapito della libertà.

Vorrei indicarvi, nel racconto dell’Esodo, un particolare di non poco conto: è Dio a vedere, a commuoversi e a liberare, non è Israele a chiederlo. Il Faraone, infatti, spegne anche i sogni, ruba il cielo, fa sembrare immodificabile un mondo in cui la dignità è calpestata e i legami autentici sono negati. Riesce, cioè, a legare a sé. Chiediamoci: desidero un mondo nuovo? Sono disposto a uscire dai compromessi col vecchio? La testimonianza di molti fratelli vescovi e di un gran numero di operatori di pace e di giustizia mi convince sempre più che a dover essere denunciato è un deficit di speranza. Si tratta di un impedimento a sognare, di un grido muto che giunge fino al cielo e commuove il cuore di Dio. Somiglia a quella nostalgia della schiavitù che paralizza Israele nel deserto, impedendogli di avanzare. L’esodo può interrompersi: non si spiegherebbe altrimenti come mai un’umanità giunta alla soglia della fraternità universale e a livelli di sviluppo scientifico, tecnico, culturale, giuridico in grado di garantire a tutti la dignità brancoli nel buio delle diseguaglianze e dei conflitti.

Dio non si è stancato di noi. Accogliamo la Quaresima come il tempo forte in cui la sua Parola ci viene nuovamente rivolta: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). È tempo di conversione, tempo di libertà. Gesù stesso, come ricordiamo ogni anno la prima domenica di Quaresima, è stato spinto dallo Spirito nel deserto per essere provato nella libertà. Per quaranta giorni Egli sarà davanti a noi e con noi: è il Figlio incarnato. A differenza del Faraone, Dio non vuole sudditi, ma figli. Il deserto è lo spazio in cui la nostra libertà può maturare in una personale decisione di non ricadere schiava. Nella Quaresima troviamo nuovi criteri di giudizio e una comunità con cui inoltrarci su una strada mai percorsa.

Questo comporta una lotta: ce lo raccontano chiaramente il libro dell’Esodo e le tentazioni di Gesù nel deserto. Alla voce di Dio, che dice: «Tu sei il Figlio mio, l’amato» (Mc 1,11) e «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3), si oppongono infatti le menzogne del nemico. Più temibili del Faraone sono gli idoli: potremmo considerarli come la sua voce in noi. Potere tutto, essere riconosciuti da tutti, avere la meglio su tutti: ogni essere umano avverte la seduzione di questa menzogna dentro di sé. È una vecchia strada. Possiamo attaccarci così al denaro, a certi progetti, idee, obiettivi, alla nostra posizione, a una tradizione, persino ad alcune persone. Invece di muoverci, ci paralizzeranno. Invece di farci incontrare, ci contrapporranno. Esiste però una nuova umanità, il popolo dei piccoli e degli umili che non hanno ceduto al fascino della menzogna. Mentre gli idoli rendono muti, ciechi, sordi, immobili quelli che li servono (cfr Sal 114,4), i poveri di spirito sono subito aperti e pronti: una silenziosa forza di bene che cura e sostiene il mondo.

È tempo di agire, e in Quaresima agire è anche fermarsi. Fermarsi in preghiera, per accogliere la Parola di Dio, e fermarsi come il Samaritano, in presenza del fratello ferito. L’amore di Dio e del prossimo è un unico amore. Non avere altri dèi è fermarsi alla presenza di Dio, presso la carne del prossimo. Per questo preghiera, elemosina e digiuno non sono tre esercizi indipendenti, ma un unico movimento di apertura, di svuotamento: fuori gli idoli che ci appesantiscono, via gli attaccamenti che ci imprigionano. Allora il cuore atrofizzato e isolato si risveglierà. Rallentare e sostare, dunque. La dimensione contemplativa della vita, che la Quaresima ci farà così ritrovare, mobiliterà nuove energie. Alla presenza di Dio diventiamo sorelle e fratelli, sentiamo gli altri con intensità nuova: invece di minacce e di nemici troviamo compagne e compagni di viaggio. È questo il sogno di Dio, la terra promessa verso cui tendiamo, quando usciamo dalla schiavitù.

La forma sinodale della Chiesa, che in questi anni stiamo riscoprendo e coltivando, suggerisce che la Quaresima sia anche tempo di decisioni comunitarie, di piccole e grandi scelte controcorrente, capaci di modificare la quotidianità delle persone e la vita di un quartiere: le abitudini negli acquisti, la cura del creato, l’inclusione di chi non è visto o è disprezzato. Invito ogni comunità cristiana a fare questo: offrire ai propri fedeli momenti in cui ripensare gli stili di vita; darsi il tempo per verificare la propria presenza nel territorio e il contributo a renderlo migliore. Guai se la penitenza cristiana fosse come quella che rattristava Gesù. Egli dice anche a noi: «Non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano» (Mt 6,16). Si veda piuttosto la gioia sui volti, si senta il profumo della libertà, si sprigioni quell’amore che fa nuove tutte le cose, cominciando dalle più piccole e vicine. In ogni comunità cristiana questo può avvenire.

Nella misura in cui questa Quaresima sarà di conversione, allora, l’umanità smarrita avvertirà un sussulto di creatività: il balenare di una nuova speranza. Vorrei dirvi, come ai giovani che ho incontrato a Lisbona la scorsa estate: «Cercate e rischiate, cercate e rischiate. In questo frangente storico le sfide sono enormi, gemiti dolorosi. Stiamo vedendo una terza guerra mondiale a pezzi. Ma abbracciamo il rischio di pensare che non siamo in un’agonia, bensì in un parto; non alla fine, ma all’inizio di un grande spettacolo. Ci vuole coraggio per pensare questo» (Discorso agli universitari, 3 agosto 2023). È il coraggio della conversione, dell’uscita dalla schiavitù. La fede e la carità tengono per mano questa bambina speranza. Le insegnano a camminare e, nello stesso tempo, lei le tira in avanti (Cfr Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Milano 1978, 17-19).

Benedico tutti voi e il vostro cammino quaresimale.

Roma, San Giovanni in Laterano, 3 dicembre 2023, I Domenica di Avvento.

FRANCESCO

 

Il deserto nella città

Quando partii per il deserto avevo veramente lasciato tutto, com’è l’invito di Gesù: famiglia, denaro, casa. Tutto avevo lasciato meno… le mie idee che avevo su Dio e che tenevo ben strette riassunte in qualche grosso libro di teologia che avevo trascinato con me laggiù.

E là sulla sabbia continuavo a leggerle, a rileggerle, come se Dio fosse contenuto in una idea e se avendo belle idee su di Lui potessi comunicare con Lui. Il mio maestro di noviziato mi continuava a dire: “Fratel Carlo, lascia stare quei libri. Mettiti povero e nudo davanti all’Eucarestia. Svuotati, disintellettualizzati, cerca di amare… contempla…”.

Ma io non capivo un bel nulla di ciò che volesse dirmi. Restavo ancorato nelle mie idee.

Per farmi capire, per aiutarmi nello svuotamento mi mandava a lavorare.

Mamma mia!

Lavorare nell’oasi con un caldo infernale non è facile! Mi sentivo distrutto. Quando tornavo in fraternità non ne potevo più. Mi buttavo sulla stuoia nella cappella davanti al Sacramento con la schiena spezzata e la testa che mi faceva male. Le idee si volatilizzavano come uccelli fuggiti dalla gabbia aperta.

Non sapevo più come cominciare a pregare. Arido, vuoto, sfinito: dalla bocca mi usciva solo qualche lamento.

L’unica cosa positiva che provavo e che cominciavo a capire era la solidarietà coi poveri, i veri poveri. Mi sentivo vicino a chi era alla catena di montaggio o schiacciato dal peso del giogo quotidiano. Pensavo alla preghiera di mia madre con cinque figli tra i piedi e ai contadini obbligati a lavorare dodici ore al giorno durante l’estate.

Se per pregare era necessario un po’ di riposo, quei poveri non avrebbero mai potuto pregare. La preghiera, quindi, quella preghiera che avevo con abbondanza praticato fino ad allora, era la preghiera dei ricchi, della gente comoda, ben pasciuta, che è padrona del suo tempo, che può disporre del suo orario. Non capivo più niente, meglio, incominciavo a capire le cose vere. Piangevo! […] E fu proprio in quello stato di autentica povertà che io feci la scoperta più importante della mia vita di preghiera. Volete conoscerla?

La preghiera passa nel cuore, non nella testa. […] Il dolore accettato per amore era come una porta che mi aveva fatto transitare al di là delle cose. Ho intuito la stabilità di Dio.

Ho sempre pensato, dopo di allora, che quella era la preghiera contemplativa. Il dono che Dio fa di sé a chi gli offre la vita come dice il Vangelo: “Chi perde la sua vita la troverà” (Matteo 10,39).

(Carlo CARRETTO, Il deserto nella città, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1986, 29-33).

 

Le due vite

L’ansia, lo stress, la contemplazione, l’abbondanza di pesticidi e di prodotti tossici hanno snaturato i cicli biologici della nostra vita. La ricca, supertecnologica, superlibertaria società occidentale è arrivata al capolinea. È una società fatta di esseri disperati che vagano in un deserto popolato di oggetti e hanno in mente un solo concetto: il diritto alla felicità. Dove felicità significa, soprattutto, pieno assolvimento dei desideri, dei sogni, delle istanze di quella cosa piccola e spesso confusa che si chiama ego. E questa felicità è sempre qualcosa che deve ancora venire e che verrà, sempre e comunque, da qualcosa di esterno. […] Quello che la società ha fatto dimenticare a tutti è che la ricchezza della vita umana si manifesta nelle relazioni –  e nella capacità di fare progetti, di superare ostacoli. La nostra mente, col suo vortice continuo di parole, col suo saper costruire concetti sempre più complessi, ha cancellato la verità fondante della vita, la più semplice: ogni essere umano ha bisogno di essere accolto, amato e di amare.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 14-16)

 

Quaresima!

Mentre la natura, ancora immersa nel torpore dell’inverno,

prepara nel segreto della terra la vitalità della primavera,

tu ci chiedi di rinnovarci nel profondo del cuore

e ci inviti a percorrere l’itinerario della Quaresima.

Ci inviti alla compassione, alla solidarietà verso i poveri,

ai gesti della riconciliazione, della benevolenza, della misericordia.

Ci proponi di ritrovare attraverso la preghiera

un rapporto autentico con te, intessuto di ascolto e di parole.

Ci offri la possibilità, attraverso la pratica del digiuno,

di avvertire quella fame profonda

che rischia di essere coperta dal nostro consumismo, dalla nostra ingordigia,

da tante brame che attraversano la nostra esistenza.

Strada antica, quella della Quaresima,

sentiero battuto da tanti altri cristiani prima di noi.

Tu ci spingi ad affrontarlo con risolutezza ed entusiasmo,

con audacia e con gioia,

perché è un percorso di liberazione,

che ci conduce a sperimentare

la forza e la bellezza della Pasqua.

 

Deserto

«L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di signifi­cato spirituale, sia così importante. Certo, esso è anzitut­to un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: caravah,  luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chorbah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine di­menticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, sen­za piste, senz’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabi­tato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto bibli­co non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’e­rosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piog­ge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escur­sioni termiche fra il giorno e la notte.

Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Nu­meri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’i­niziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dal­l’Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cie­lo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b‑5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale (Genesi 2,8‑15). E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fio­rirà come fiore di narciso» (Isaia 35,1‑2). Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che par­la). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e ri­ceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,1‑14); è nel de­serto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 19‑24); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’ac­qua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel de­serto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa‑Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rin­novare l’alleanza nuziale…

Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra pro­messa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino fati­coso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come ten­tazione. Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimane­re in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patisco­no la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo deser­tico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deu­teronomio 8,2). Il deserto è un’educazione alla cono­scenza di sé, e forse il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Genesi 12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,11‑12; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Anche Gesù vivrà il de­serto come noviziato essenziale al suo ministero: il fac­cia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attac­cato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11). Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico!

Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa. Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già espe­rienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la pau­ra che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della li­bertà. Una libertà che non è situata al termine del cam­mino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi baga­gli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fe­de: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e de­nunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deser­to per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). Il suo cibo è parco, il suo abi­to lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.

Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il de­serto biblico, e, così esso diviene cifra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del creden­te, della stessa contraddittoria esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».

(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 47-51).

 

Soli nel deserto

Per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che vede oltre.  Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo. Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire. Quando mia madre offre degli amaretti di Ladurée a madame de Broglie, non fa che raccontare a sé stessa la storia della sua vita, sgranocchiando il proprio sapore; quando papà beve il caffè leggendo il giornale, si contempla in uno specchio tipo autosuggestione cosciente del metodo Coué; quando Colombe parla delle conferenze di Marian, blatera davanti al riflesso di sé stessa, e quando le persone passano davanti alla portinaia, non vedono nulla perché lì non si vedono riflesse.

Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno.

(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 138-139)

 

Il deserto

Il deserto fu il luogo originario del popolo di Dio, il luogo in cui Gesù fu condotto dallo Spirito quando si ritirò nella solitudine. Ed è anche il luogo a cui la chiesa è chiamata oggi dallo Spirito, come la donna dell’Apocalisse, la quale si ritira nel deserto in attesa che la violenza della persecuzione si attenui. Non sto parlando in primo luogo del deserto dei monaci, ma di quello dei cristiani. Il deserto monastico solitamente è un deserto fisico, ma la vita che il monaco vive in esso è come un sacramento del deserto di tutta la chiesa, uno speciale sacramento in cui egli esprime la propria vocazione, perché a questo è stato chiamato e abilitato dalla grazia. Ma anche la chiesa è in ogni tempo e nella sua interezza addossata al deserto: essa vive in situazione di diaspora oggi più che mai. Noi tutti siamo come sospinti all’indietro da tutte le domande che ci vengono poste e alle quali non sappiamo trovare risposte immediate: siamo spinti in un deserto interiore. Ma nel contempo, ciò costituisce anche un invito ad assumere maggiore consapevolezza della nostra profonda povertà di comprensione, poiché in tal modo siamo ridotti a testimoniare con la sola forza dello Spirito: sarà lui a parlare in noi, non dobbiamo preparare in anticipo la nostra difesa.

(A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, pp. 9-20).

 

«Fuggi, taci e prega»

Arsenio era un romano molto colto, di dignità senatoria, che viveva alla corte dell’imperatore Teodosio come precettore dei principi Arcadio e Onorio. Quando era ancora a corte, l’abate Arsenio pregò Dio con queste parole: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato». Arrivò a lui una voce che diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».

Dopo aver lasciato segretamente Roma, imbarcatesi per Alessandria e ritiratesi a vita solitaria nel deserto, Arsenio tornò, con le stesse parole, a rivolgere la preghiera: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato», e di nuovo sentì una voce che gli diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».

Le parole: «Fuggi, taci e prega», sintetizzano la spiritualità del deserto. Indicano i tre modi di evitare che il mondo ci plasmi a sua immagine e sono, quindi, le tre vie alla vita nello Spirito.

(H.J.M. NOUWEN, La via del cuore, Brescia, 1999, 14).

 

Preghiera

 

Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.

È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, seguendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.

Sono ancora così diviso!

Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza.

Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.

So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me.

La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita.

Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, azioni che siano le tue azioni.

Non vi sono tempi o luoghi senza scelte.

E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.

Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo.

Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quando verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me.

Amen.

(J.M. NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi, Chinellato.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

I QUARESIMA ANNO B

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Giobbe 7,1-4.6-7

 

    Giobbe parlò e disse: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”. La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene».

 

  • Il capitolo settimo del libro di Giobbe inizia con una plastica descrizione di chi è destinato a morte precoce in preda a malattie dolorose (Gb 7,1-10).

Se leggiamo oltre ai pochi versetti riportati dalla liturgia anche il versetto 5 e fino al versetto 10, riusciamo a capire meglio il messaggio di questa pericope. Il libro di Giobbe non è di facile lettura e i pochi versetti ritagliati dal contesto rischiano di essere completamente incomprensibili. Con l’aggiunta degli altri versetti possiamo ritrovare alcuni temi fondamentali a tutto il libro: la caducità della vita umana, il non senso di una vita provata dall’angoscia e dal dolore; Dio l’unico vero interlocutore e responsabile della vita, per cui la domanda che nasce dal dolore non può che essere rivolta a Lui. Il «vedere» di Giobbe e di Dio.

Le osservazioni di Giobbe ondeggiano fra l’universale e il personale in un sapiente alternarsi, che esprime il dramma interiore del personaggio. «L’uomo non compie forse un duro servizio» (Gb 7,1). Il paragone della vita è il servizio militare (cf. Gb 14,14) duro, senza possibilità di respiro, di momenti di serenità, perché la fatica strema e di conseguenza il momento di riposo è agitato. A rafforzare tale immagine l’autore prende a paragone il mercenario (cf. Gb 14,6) e lo schiavo. La felicità è un’illusione, mentre la realtà della vita è come l’attesa della mercede per il mercenario (cf. Dt 14,15) e un poco d’ombra sognata dallo schiavo (Gb 7,2). Dice il Siracide: «Una sorte penosa è disposta per ogni uomo, un giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della loro nascita dal grembo materno al giorno del loro ritorno alla madre comune» (Sir 40,l-2).

Dalle considerazioni generali Giobbe passa a parlare in prima persona applicando a sé i paragoni precedenti. Egli insiste sull’insonnia. La notte lacerata dal dolore della malattia è ancora più penosa della giornata spesa nella fatica. Le ore della notte sembrano interminabili, non c’è nemmeno la speranza, l’illusione; «La notte si fa lunga» (Gb 7,49): la sentinella attende il mattino, ma per chi è malato e l’attesa è la morte non c’è nemmeno questo conforto. La notte, quando le ansie sono irrefrenabili, si prolunga, i giorni, invece, «scorrono più veloci d’una spola», ma non conducono che a una morte prematura, senza speranza (Gb 7,6; cf. 3,6, 9,25).

Giobbe descrive la sua malattia con immagini che fanno pensare alla tomba: «La mia carne si è rivestita di vermi e croste terrose, la mia pelle si raggrinza e si squama» (Gb 7,5; cf. 19,20; Ab 3,16). La malattia di Giobbe, oltre ad essere dolorosa, è ripugnante, così che Giobbe si ritrova abbandonato da tutti e incompreso anche dagli amici, che vorrebbero consolarlo. Giobbe è consapevole di questo e si rivolge sempre e soltanto a Dio,  come il responsabile ultimo della vita. A lui alza il grido: «Ricordati» della caducità della vita umana. Se i pochi giorni di vita devono essere tanto turbati dal dolore e dall’angoscia, perché vivere? La vita, l’unica vita conosciuta per esperienza, cioè quella terrena, ha termine completo con la morte: «Chi discende nello sheol non ne risale. Non tornerà più nella sua casa e non lo rivedrà più la sua dimora» (Gb 7, 9b-10). L’immagine del vedere è molto insistente sia riferita a Giobbe che a Dio; sarà proprio il «vedere» Dio, in un’esperienza di fede singolare nella Bibbia, che insiste sull’ascolto, che farà ammutolire Giobbe (Gb 42,5).

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 9,16-19.22-23

 

  Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!  Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.

 

  • Paolo, dopo aver apertamente rivendicato il suo assoluto distacco dalle ricompense materiali, che per altro dovrebbero essergli dovute come predicatore, ribadisce che il compito di evangelizzare corrisponde a un mandato divino e non a una sua iniziativa. Egli è spinto a predicare come risposta a un comando divino, che urge e al quale non si può sfuggire. Vengono in mente le parole del profeta Geremia (20,9): «Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».

Paolo si domanda quale sarà il suo merito, se il predicare non dipende da lui, ma dalla necessità di rispondere alla chiamata divina, alla quale è impossibile sottrarsi. E risponde che il merito sarà per lui la rinuncia ai diritti che il Vangelo gli conferisce. Egli ha scelto di predicare gratuitamente e di mantenersi con i frutti del suo lavoro per non essere di peso ad alcuno e per non portare alcun detrimento alla predicazione del Vangelo (cf. 1Ts 2.9).

Paolo per predicare vuole essere completamente libero, ma per farsi volontariamente schiavo del Signore che gli ha dato il mandato e per servire coloro ai quali egli deve predicare. Il Vangelo, infatti, si deve predicare rispettando l’assoluta libertà dei destinatari, senza nessuna imposizione. Per farsi capire è però necessario trovare un linguaggio adatto e soprattutto fare breccia nell’esperienza di ciascuno. Paolo dunque proclama di essersi messo in sintonia con tutti quelli che deve raggiungere con la predicazione, tenendo conto delle loro concezioni culturali e religiose e della loro condizione sociale (1Cor 9.19-22). Il Vangelo non va predicato e basta. Esso va vissuto e partecipato insieme con coloro che lo accettano liberamente quando viene loro annunciato (1Cor 9,23).

 

Vangelo: Marco 1,29-39

 

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».  E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

 

Esegesi

La pericope del Vangelo di Marco che leggiamo oggi è formata da tre episodi: la guarigione della suocera di Simone (Mc 1,29,32; cf. Mt 8,14s; Lc 4,38s); guarigioni compiute da Gesù di sera (Mc 1.32-34; Mt 8.16s; Lc 4.40s); partenza per un luogo solitario per pregare e nuova partenza da lì per tornare a predicare in altri villaggi (Mc 1,35-39; cf. Lc 4,42-44; Mc 1,39 cf. Mt 4,23).

Gesù, uscito dalla sinagoga, subito (euthùs) dice il testo greco, si recò in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La casa di Simone si può interpretare come il punto di riferimento dei discepoli in quel periodo: Gesù si comporta in modo familiare con la suocera di Simone, entra da lei, la prende per mano ed ella, appena guarita, si mette a servirli.

Pietro ha una suocera (penthera), ne deduciamo che era sposato al tempo della sua chiamata (cf. 1Cor 9,5) dove si accenna che la moglie lo seguiva nei suoi viaggi missionari.

Gerolamo deduce dal fatto che la moglie non è nominata che essa era morta (Adversus lovinianum 1.26 (Pl 23,257), ma nulla nel testo avalla tale deduzione. I testi antichi, infatti, non nominavano mai le donne, a meno che fosse strettamente necessario, come per la suocera, che del resto rimane nell’anonimato.

Il verbo puresso, avere la febbre (Mc 1,30) si trova solo qui e in Mt 8,14 in tutto il Nuovo Testamento ed è un verbo poco usato anche nel greco classico.

Molto sobria la presentazione del miracolo, raccontato senza riportare nessuna parola di Gesù; è sottolineato solo il suo gesto di gentilezza e di aiuto: «la fece alzare prendendola per mano». In Matteo Gesù tocca la mano della donna che si alza da sola e in Luca comanda alla febbre di lasciarla.

La donna «li serviva» (Mc 1,31): la guarigione è stata subitanea e completa tanto che ella può tornare immediatamente ai suoi compiti di sempre. Il mettersi a servirli, (Matteo usa il singolare «servirlo» autoi, invece di autols) è un gesto di gratitudine verso Gesù e, come già accennato, un segno della familiarità goduta da Gesù e dai discepoli in quella casa.

Il secondo episodio è collegato al precedente da una annotazione temporale: venuta la sera (opsias de genomenes), quando il sole era tramontato (ote edu o ellos [Mc 1,32]), precisa Marco, vale a dire a sabato terminato, vengono portati davanti alla porta della casa dove stava Gesù «tutti i malati e gli indemoniati».

Dalmonion (Mc 1,34.39; 3,15,22; 6.13; 7,26.29s; 9,38; 16,9) è un sostantivo formato dal neutro dell’aggettivo daimonios che nel greco classico significa «potere divino», mentre più tardi prende il significato, usato dal Nuovo Testamento, di «spirito cattivo».

«Tutta la città era riunita davanti alla porta» (Mc 1,33), si tratta di un’iperbole, ma che fa pensare a una folla molto numerosa.

Marco dice che Gesù guarì molti e scacciò molti demoni, mentre al versetto 32 aveva detto che gli avevano portato «tutti» i malati: si tratta probabilmente di un semitismo e quindi l’evangelista non fa distinzione tra i due termini; Matteo (8,16) traspone i due termini: portarono «molti malati» e guarì «tutti», mentre Luca (4,40b) dice: «Egli imponendo su ciascuno le mani, li guariva».

Gesù non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano (Mc 1,34). È ricorrente in Marco l’ingiunzione di Gesù di non parlare della sua identità. Vengono tacitati i demoni (1, 25.34; 3,1 Is): viene imposto il silenzio dopo miracoli strepitosi (1, 44; 5.43; 7.36; 8.26), dopo la confessione di Pietro (8,30), dopo la trasfigurazione (9,9); Gesù da istruzioni segrete ai discepoli sul «mistero del Regno di Dio» (4,10-12), su ciò che contamina l’uomo (7,17-23); sulla preghiera (9.28s), sulle sofferenze messianiche (8,31, 9, 31; 10, 33s) e sulla parusia (13, 3-37). Su questi dati è stata elaborata la teoria del «segreto messianico», vale a dire che Gesù ha tenuto segreta la sua messianità durante il periodo della vita terrena e non è stato capito dai discepoli anche quando l’ha a loro rivelata (9,9). Soltanto con la risurrezione ha inizio la percezione di ciò che egli è veramente. Tale teoria risale a W. Wrede (Das Messiosgeheimnis in den Evangelien, 1901) ed ha segnato la successiva discussione sulla cristologia di Marco, anche dopo l’ampia continuazione della forma in cui era stata formulata da questo autore.

Il terzo episodio inizia anch’esso, come il precedente, con una annotazione di tempo. Là si trattava della sera, subito dopo il tramonto, qui è l’inizio del giorno, al primo albeggiare. Gesù si reca in un luogo solitario (apelthen eis eremon topon) per pregare (proseucheto) (Mc 1,35). Questo episodio è narrato solo da Marco, mentre è Luca che sottolinea di più la preghiera di Gesù. Egli ci presenta come abituale il ritirarsi di Gesù dalla folla per pregare: «Egli si ritirava in luoghi solitari e pregava» (Lc 5,21). Prima di scegliere i dodici: «egli se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte a pregare Dio» (Lc 6,12). Mentre è un’altra volta sulla montagna a pregare avviene la trasfigurazione (cf. Lc 9, 28-29). A volte Gesù se ne sta in disparte a pregare anche quando è solo con i discepoli (Lc 9.18; 11,1; 22.41s).

Nulla ci è detto della preghiera uscita dalla bocca di Gesù all’alba di un giorno che seguiva una sera passata a guarire malati e liberare posseduti dal demonio. Possiamo pensare, sulla scia della tradizione biblica, che Gesù abbia fatto propri il grido, l’invocazione, il lamento degli afflitti che non aveva potuto raggiungere, insieme al ringraziamento per l’opera finora compiuta secondo il volere del Padre. Tale opera è predicare. I miracoli sono un segno che accompagna la predicazione che il Regno di Dio è vicino (cf. Mc 1,15).

Gesù, infatti, ai discepoli che lo cercano in nome della folla, che probabilmente sperava in altre guarigioni, risponde: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38).

«E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1,39; cf. 1,34; 7,29; 16,9). È degno di nota che Marco non dica nulla del contenuto della predicazione, ma sottolinei le opere di Gesù, in particolare la cacciata dei demoni, che è segno della vicinanza del regno di Dio (cf. Mt 12,28).

 

Meditazione

L’evangelista Marco apre il suo Vangelo narrando la prima giornata di Gesù a Cafarnao. È come una giornata tipo di Gesù. E ci appare subito molto diversa dalle nostre giornate, segnate spesso dalla monotonia, dalla tristezza, dalla banalità, e talora dal nonsenso. Altre volte invece è la durezza e la drammaticità della vita a prendere il sopravvento. E sen­tiamo vere anche per noi le parole scritte nel libro di Giobbe: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario?» (Gb 7,1). Se poi il nostro sguardo si allarga verso coloro che sono più direttamente toccati dalla violenza, dall’ingiustizia, dalla malattia e dalla guerra, il lamento di Giobbe assu­me un valore ancor più tragico: «A me sono toccati mesi di illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. Se mi corico dico: quando mi alzerò? La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba… Ricordati che un soffio è la mia vita; il mio occhio non rivedrà più il bene» (7, 6-7). La vita degli uomini è davvero dura, ci dice questo brano della Scrittura. Lo constatiamo soprattutto di questo tempo, in cui la crisi economica colpisce tanti, soprattutto i più poveri. Ebbene, la «giornata di Cafarnao», potremmo dire, quella che oggi ci è stata annunciata dal Vangelo, entra dentro le nostre giornate per infondervi forza ed ener­gia, quasi come il lievito che messo nella pasta la fermenta tutta.

Dopo aver scacciato uno spirito impuro da un poveretto mentre si trovava nella sinagoga di Cafarnao, Gesù si reca nella casa di Simone e Andrea, dove probabilmente come altre volte cercava un po’ di tran­quillità e di pace. Ma non fa in tempo ad entrare in casa che subito gli prospettano un caso: la suocera di Simone è febbricitante. Senza frap­porre tempo Gesù si avvicina a lei e la guarisce; non dice nessuna paro­la, neppure una preghiera, la prende per mano e la fa alzare. E una narrazione semplice che contiene però tutta la forza vittoriosa di Gesù contro il male. Non è solo un caso che l’evangelista per indicare la gua­rigione della donna usi lo stesso verbo che usa per la resurrezione di Gesù (Mc 16,6). La risposta della donna — «essa li serviva» — non è un semplice gesto di grata cortesia, ma la «diaconia» (questo è il verbo usato per indicare quello che la donna si è messa a fare), ossia il servizio al Signore e ai fratelli. In questa guarigione sono in certo modo presen-ti tutte le altre, sia quelle che Gesù farà nel corso della sua vita terrena sia quelle dei discepoli di allora e di ogni tempo. Infatti, subito l’evangelista allarga la scena e passa dalla guarigione di una singola persona alle guarigioni di tanti. Non siamo più nella casa di Simone, ma alla porta della città. In un giorno Gesù è entrato in ogni luogo di vita: la sinagoga, luogo della preghiera, la casa, la porta della città, luogo dell’incontro. Il Vangelo di Gesù non ha confini. Egli va ovunque, non solo da coloro che se lo aspettano o che lo conoscono. Gesù è venuto a lottare contro il male, contro ogni tipo di male, sia fisico che mentale-psichico, con la su parola e la sua opera. Emerge già qui, nella prima pagina del Vangelo, e così deve essere nella vita della Chiesa, quella «compassione» per i deboli, per i malati, per i poveri, per le folle stanche e sfinite di cui spesso sentiremo parlare nei Vangeli delle prossime domeniche e che riassume in certo modo tutta la missione di Gesù.

Viene spontaneo pensare ai milioni di persone colpite dalla guerra, dalla fame che vagano cercando una porta a cui bussare, e constatare con indicibile tristezza che sempre più spesso il loro durissimo pellegrinaggio è stroncato dalla ferrea chiusura di tutte le porte delle case degli uomini. E come non pensare anche alle porte delle nostre chiese par-rocchiali e chiedersi: sono le loro porte come quella della casa di Cafarnao? Riescono le nostre chiese ancora a radunare davanti a sé tutta la città? e se, come più spesso accade, sono approdo di speranza per poveri e disperati sanno, quelle porte, aprirsi per consolare e guarire? come vengono trattati quei mendicanti che si fermano davanti alle porte per chiedere l’elemosina?

E c’è anche un altro interrogativo che ci riguarda personalmente: non siamo noi tutti, chi in un modo chi un altro, tutti malati? San Girolamo, commentando questo brano evangelico, non esita a dire che ciascuno di noi è malato, febbricitante: «Quando sono colto dall’ira, ho la febbre; anzi, ogni vizio è febbre». Tutti siamo malati e febbricitanti, quindi bisognosi di affollarci davanti alla porta della casa del Signore. E il Vangelo non sembra neppure chiedere una particolare chiarezza di coscienza. Tutta quella folla non sapeva bene cosa ci fosse dietro quella porta, ma certo aveva riposto solo in quel luogo la sua speranza; del resto tutte le altre porte erano rimaste chiuse. Ora in tanti speravano che di lì uscisse un aiuto, qualcuno che li sollevasse dalla condizione triste in cui versavano. L’evangelista dice che Gesù ne guarì molti. E quando tutti erano andati via, guariti e rincuorati, Gesù continuò la sua giornata. Noi ci saremmo forse ritirati stanchi ma orgogliosi e soddisfatti. Gesù uscì e si recò in un luogo appartato, per pregare. Quel momento era, in verità, il culmine e la fonte di tutte le sue giornate, di tutto ciò che faceva. Era la sua prima e fondamentale opera. E possiamo allora immaginare la preghiera notturna di Gesù dopo che, per un giorno intero, aveva toccato con mano le angosce e le speranze di tanta gente. L’intimità con il Padre non era una fuga dal mondo e dalla vita per godersi finalmente un po’ di tranquillità, che pure sarebbe stata ben meritata. Molto più verosimilmente tali incontri erano colloqui appassionati (forse anche drammatici) tra il Figlio e il Padre sulla mis­sione che aveva ricevuto, sulle condizioni del mondo, sulla salvezza di tutti coloro che Gesù aveva incontrato e su quella degli altri che avreb­be dovuto e voluto incontrare ancora. Questo può spiegare la sua rea­zione quando i discepoli, dopo averlo raggiunto, gli dicono che tutti lo cercano: «Andiamocene altrove, — risponde — nei villaggi vicini, perché io predichi anche là». Gesù non si ferma in una sola casa, in un solo gruppo, in un clan, in una sola nazione; e non esce da una sola porta. Egli vuole visitare tutte le case e tutte le città, perché ovunque c’è biso­gno del Vangelo. E vuole che i discepoli, di ieri e di oggi, non si chiu­dano in una sterile autoreferenzialità, ma sentano l’urgenza di conti­nuare a comunicare il vangelo ovunque nel mondo.

Lo capì bene Paolo: «Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!». La comunicazione del Vangelo è una responsabilità da sem­pre affidata ad ogni singolo credente e ad ogni singola comunità cristia­na. E forse è proprio questa responsabilità la medicina che ci fa alzare dalle febbri dell’egocentrismo e che ci permette di aiutare e guarire chiunque ha bisogno di salvezza. Una Chiesa senza missione, senza annuncio del Vangelo, è una Chiesa autoreferenziale, che parla sempre di se stessa e a se stessa, ed è destinata ad inaridirsi. Quel «guai» non è una minaccia, ma un monito sì, perché nella Bibbia il «guai» è usato per i lamenti funebri. Una comunità che non vive la passione missiona­ria, si celebra già il suo funerale. Paolo lo sapeva bene, perché aveva esperimentato su di sé la forza del vangelo del Signore morto e risorto. Per questo l’apostolo «si è fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno». Questa fu la sua vita, che per noi rimane una domanda e una sfida.

 

L’immagine della domenica

SARDEGNA        –        2009

 

«Il nostro vero problema è che siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto».

(G. Vannucci)

 


Preghiere e racconti

 

Il nascondimento di Dio

«Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso! ” Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità. E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza».

(BENEDETTO XVI, Meditazione dopo l’atto di venerazione della Sindone, in BENEDETTO XVI  et al., Icona del Sabato Santo, 14-15).

 

Non passate oltre davanti alla sofferenza umana

«Cari giovani, che l’amore di Dio per noi aumenti la vostra gioia e vi spinga a rimanere vicini ai meno favoriti.

Voi che siete molto sensibili all’idea di condividere la vita con gli altri, non passate oltre davanti alla sofferenza umana, dove Dio vi attende affinché offriate il meglio di voi stessi: la vostra capacità di amare e di compatire. Le diverse forme di sofferenza che, lungo la Via Crucis, sono sfilate davanti ai nostri occhi sono chiamate del Signore per edificare la vita seguendo le sue orme e fare di noi i segni della sua consolazione e salvezza. «Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente questi sono elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso». Auspico che sappiamo accogliere queste lezioni e metterle in pratica. Volgiamo lo sguardo perciò a Cristo, appeso sul ruvido legno, e chiediamogli che ci insegni questa sapienza misteriosa della croce, grazie alla quale l’uomo vive».

(Viaggio apostolico di sua santità Benedetto XVI a Madrid (Spagna) in occasione della XXVI Giornata mondiale della gioventù (18-21 agosto 2011). Via crucis con i giovani nella Plaza de Cibeles – Madrid, 19 agosto 2011).

Dio si avvicina con amore e guarisce la vita

Marco presenta il resoconto della giornata-tipo di Gesù, una cronaca dettagliata delle sue fondamentali attività quotidiane: guarire, pregare, annunciare. Guarire. E vediamo come il suo agire prenda avvio dal dolore del mondo: tocca, parla, prende per mano, guarisce. Come il primo sguardo di Gesù si posi sempre sulla sofferenza delle persone, e non sul loro peccato. E la porta della piccola Cafarnao scoppia di folla e di dolore e poi di vitalità ritrovata.

Il miracolo è, nella sua bellezza giovane, il collaudo del Regno, il laboratorio del mondo nuovo: mostra che è possibile vivere meglio, per tutti, e Gesù ne possiede la chiave. Che un altro mondo è possibile e vicino. Che il regno di Dio viene con il fiorire della vita in tutte le sue forme. La suocera di Simone era a letto con la febbre, e subito gli parlarono di lei.

È bello questo preoccuparsi degli apostoli per i problemi e le sofferenze delle persone care, e metterne a parte Gesù, come si fa con gli amici. Non solo la gratuità, quindi, ma anche tutto ciò che occupa e preoccupa il cuore dell’uomo può e deve entrare, a pieno titolo, nel dialogo con Dio nella preghiera.

Gesù ascolta e risponde: si avvicina, si accosta, va verso il dolore, non lo evita, non ha paura. E la prese per mano. Mano nella mano, come forza trasmessa a chi è stanco, come a dire “non sei più sola”, come un padre o una madre a dare fiducia al figlio bambino, come un desiderio di affetto. Chi soffre chiede questo: di non essere abbandonato da chi gli vuole bene, di non essere lasciato solo a lottare contro il male.

E la fece alzare. È il verbo della risurrezione. Gesù alza, eleva, fa sorgere la donna, la riaffida alla sua statura eretta, alla fierezza del fare, alla vita piena e al servizio: per stare bene l’uomo deve dare! Mano nella mano, uomo e Dio, l’infinito e il mio nulla, e aggrapparmi forte: per me è questa l’icona mite e possente della buona novella.

Pregare. Mentre era buio, uscì in un luogo deserto e là pregava. Gesù, pur assediato dalla gente, sa inventare spazi. Di notte! Quegli spazi segreti che danno salute all’anima, a tu per tu con Dio, a liberare le sorgenti della vita, così spesso insabbiate.

Annunciare. I discepoli infine lo rintracciano: tutti ti cercano! E lui: Andiamocene nei villaggi vicini, a predicare anche là. Gesù non cerca il bagno di folla, non si esalta per il successo di Cafarnao, non si deprime per i fallimenti che incontra. Lui avvia processi, inizia percorsi, cerca altri villaggi, altre donne da rialzare, orizzonti più larghi dove poter compiere il suo lavoro: essere nella vita datore di vita, predicare che il Regno è vicino, che «Dio è vicino, con amore, e guarisce la vita».

(Ermes Ronchi)

 

La malattia diviene pertanto, in una prospettiva di fede, un possibile luogo di vangelo

Il confronto con la malattia, con il proprio corpo malato (Giobbe) e con i corpi segnati da malattia di altri uomini e donne (Gesù): questo il tema che unifica la pagina di Giobbe e quella evangelica. E anzitutto emerge la legittimità del linguaggio di protesta e di contestazione da parte dell’uomo quando si trova nella situazione di malattia. Giobbe si ribella alla situazione di disgrazia che si è abbattuta su di lui e grida a Dio la propria rabbia.

Giobbe arriverà a bestemmiare Dio, mostrerà aggressività verso i suoi amici che si rivelano in realtà nemici, “medici da nulla”, ma non conforma il proprio discorso a quello teologicamente corretto dei suoi amici. Giobbe osa esprimere ciò che sente. E Dio stesso, dirà Gb 42,8, gradisce maggiormente le sue invettive che le prediche dei suoi amici. Vi è una legittimità per il malato, nella sua sofferenza, di esprimere una reazione anche di collera, anche irrazionale.

In verità, quell’urlo è la maniera con cui il malato cerca di dirsi nella malattia, cerca di esprimere ciò che sta avvenendo alla propria vita. Ed è un momento positivo e vitale in quanto è il primo passo di un possibile cammino di guarigione, o quanto meno di assunzione della malattia: il malato lotta, chiede “perché?”, inveisce, non si rassegna, non la dà vinta al male.

Questa presa di parola di fronte al male che invade il proprio corpo non va soffocata da chi sta accanto al malato con esortazioni al silenzio o a “non dire così” o a non disturbare, ma va accolta come un momento importante del faticoso processo di assunzione della crisi esistenziale introdottasi nella vita dell’uomo. Come dice ancora Giobbe: “Per il malato c’è la lealtà degli amici, anche se rinnega l’Onnipotente” (Gb 6,14); “per il malato c’è la pietà degli amici, anche quando Dio si mette contro di lui” (Gb 19,21).

L’incontro di Gesù con i malati, presentato nella pagina evangelica anche mediante un sommario che parla dell’attività di cura e di guarigione dei sofferenti come di un’attività consueta di Gesù (cf. Mc 1,32-34), è istruttivo per il discorso spirituale cristiano circa malattia e sofferenza. Gesù non predica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza a Dio, non dice mai che la sofferenza di per sé avvicini maggiormente a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici. Gesù invece lotta contro il male, cerca di farlo arretrare, di ridare salute all’uomo.

Egli si presenta come “medico” (Mc 2,17), attualizzando in sé la potenza del Dio il cui nome è “Colui che ti guarisce” (Es 15,26). E soprattutto l’attività di cura e guarigione che Gesù compie sta all’interno della finalità prima della sua missione: “predicare il vangelo” (cf. Mc 1,38; 1,14), annunciare il Regno di Dio: le guarigioni operate da Gesù appaiono così vangelo in atti e profezia del Regno di Dio. La malattia diviene pertanto, in una prospettiva di fede, un possibile luogo di vangelo.

Gesù non si lascia travolgere dalle folle che vogliono guarigioni, ma cerca e trova spazio e tempo di solitudine e di silenzio per pregare. E sa porre un limite all’attività, sa dire dei no, non si lascia sedurre dal fatto che “tutti lo cercano”. Gesù si rifiuta di divenire un fornitore di prestazioni terapeutiche e sa anche sottrarsi alle richieste che provengono dalla gente.

I gesti che egli compie sono sacramentali, sono trasparenza dell’azione divina, nella misura in cui egli vive la sua missione non tanto cercando di soddisfare i bisogni di coloro cui è inviato, quanto nutrendo la relazione con colui che l’ha inviato. Per questo Gesù prega e rivendica il primato dell’annuncio della parola sull’operare il bene che pure è una caratteristica del suo agire (cf. At 10,38). Del resto: da dove attinge Gesù la sua forza? Da dove attinge la pazienza, la dedizione, l’abnegazione, lo spendersi? Da dove, se non dalla relazione nutrita quotidianamente con il Padre?

(Luciano Manicardi)

 

Amare le domande, vivere le risposte

Dio non ci chiede di soffocare la nostra curiosità o di smettere di indagare la questione della sofferenza; credo che si debba riflettere continuamente su questa domanda per avere nuove intuizioni e trovare un nuovo significato. A questo proposito, rileggo spesso il consiglio del poeta Rainer Maria Rilke:

“..sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e …cerca di amare le domande per quelle che sono… Non cercare le risposte, che non ti possono essere date perché non saresti capace di viverle. Il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora. Forse gradualmente, senza accorgertene, un lontano giorno la vita stessa ti condurrà alla risposta”.

 (Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1999; cit.: J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 139).

 

Diventare l’amato – Spezzato

La nostra prima, più spontanea risposta alla sofferenza è quella di evitarla, tenerla a distanza, ignorarla, aggirarla o negarla. La sofferenza, sia fisica, mentale o emotiva è quasi sempre sperimentata come una sgradita intrusione delle nostre vite, qualcosa che non dovrebbe esserci. È difficile, se non impossibile, vedere qualcosa di positivo nella sofferenza; deve essere allontanata a tutti i costi.

Se questo è l’istintivo atteggiamento verso la nostra fragilità, non c’è da stupirsi se favorirla può sembrare a prima vista masochismo. Tuttavia, la mia personale esperienza di sofferenza mi ha insegnato che il primo passo verso la salute non è un passo lontano dal dolore, ma un passo verso il dolore. Quando infatti il nostro “essere spezzati” è proprio come una intima parte del nostro essere, così come il nostro “essere scelti”, e il nostro “essere benedetti”, dobbiamo aver l’ardire di domare la nostra paura e di familiarizzare con essa. Sì, dobbiamo trovare il coraggio di abbracciare il nostro “essere spezzati”, fare del nostro più temuto nemico un amico e rivendicarlo come un compagno intimo.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 75-76).

 

Il cancro è il mio “angelo”, afferma un Cardinale cinese

Dopo che gli è stato diagnosticato un tumore ai polmoni lo scorso anno, il Cardinale Paul Shan Kuo-hsi non si è scoraggiato, e anzi ha voluto ispirare altri ad affrontare la vita con coraggio.

Il Cardinale gesuita, Vescovo emerito di Kaohsiung ed ex presidente della Conferenza Episcopale Regionale Cinese a Taiwan, ha iniziato il suo viaggio “Addio alla mia vita” a ottobre.

La sua prima meta è stata Hsinchu, sulla costa nord-occidentale di Taiwan, e da allora ha visitato le altre sei diocesi dell’isola.

“Ho trattato il cancro come il mio ‘piccolo angelo'”, ha detto il Cardinale a ZENIT in un’intervista telefonica. “Mi guida a dire alle persone che dovremmo avere il coraggio di affrontare le sfide della nostra vita”.

Il viaggio è terminato mercoledì, quando il porporato ha visitato la Fu Jen Catholic University di Taipei, che gli ha offerto un riconoscimento per il suo amore per la vita.

Il Cardinale Shan Kuo-hsi, che ha compiuto 84 anni domenica, ha affermato di essere “molto felice di essere un testimone del Vangelo” all’ultimo stadio della sua vita.

Il Cardinale ha detto di aver visitato il 22 novembre un centro per tossicodipendenti a Taitung e di aver incontrato 300 ospiti della struttura. “Il cancro – ha detto loro – mi ha fatto capire che trovandomi nell’ultimo stadio della mia vita dovrei fare del mio meglio per contribuire alla società”.

Il porporato ha pregato per gli ospiti del centro e ha auspicato che la gente dimostri “amore” per risolvere i problemi della propria vita quotidiana.

La diagnosi del cancro del Cardinale Shan Kuo-hsi è arrivata nel luglio 2006. Il porporato ha detto a quanti ha incontrato di essere rimasto scioccato e che gli era stato detto che aveva ancora 4 o 5 mesi di vita.

“All’inizio ho chiesto al Signore ‘Perché io?’. Quando mi sono calmato, ho riconosciuto che è la volontà di Dio”, ha osservato. “Voleva che io aiutassi gli altri condividendo la mia esperienza personale con loro”.

“Ora penso ‘Perché non io?’. Un Cardinale non ha il privilegio di essere in salute per sempre!”, ha aggiunto.

Dopo la sua morte, ha spiegato, il suo corpo fertilizzerà la terra di Taiwan, ma la sua anima tornerà a Dio.

Il Cardinale cinese ha lodato l’eroico esempio di Papa Giovanni Paolo II, che ha fatto del suo meglio per vivere anche gli ultimi minuti della sua vita con dignità.

(Paul Shan Kuo-hsi è nato nella provincia di Hebei, nel nord della Cina. Ha lasciato la Cina continentale dopo essersi unito ai Gesuiti nel 1946. E’ stato ordinato sacerdote nelle Filippine nel 1955. E’ stato nominato Vescovo di Hualien, Taiwan, nel 1979 e Vescovo di Kaohsiung nel 1991. Creato Cardinale nel 1998, si è ritirato nel gennaio 2006).

 

La prospettiva della sofferenza e della morte

Guardare in faccia la sofferenza e la morte e farne l’esperienza personale, nella speranza di una nuova vita nata da Dio: ecco il segno di Gesù e di ogni essere umano che voglia condurre una vita spirituale a sua imitazione. È il segno della croce: segno di sofferenza e di morte, ma anche di speranza in un rinnovamento totale.

Dio ha mandato Gesù in terra per fare di noi persone libere e ha scelto la compassione come via per giungere alla libertà. È una scelta molto più radicale di quanto tu possa a prima vista immaginare. Significa infatti che Dio ha voluto liberarci non già sottraendoci alla sofferenza, ma condividendola con noi. Gesù è il «Dio che soffre con noi». Potremmo quasi dire che è il «Dio che ha simpatia per noi», se il termine ‘simpatia’, che etimologicamente significa appunto ‘sofferenza condivisa’, non avesse ormai perduto molto del suo significato originario. Così, quando diciamo: «Hai la mia simpatia», intendiamo non esporci troppo ed esprimiamo anzi una specie di condiscendenza verso gli altri. È per questo che preferisco usare la parola ‘compassione’, che è più calda e più intima e indica meglio il partecipare alle sofferenze del prossimo, il sentirsi davvero un essere umano che soffre con i fratelli.

L’amore di Dio che Gesù vuole mostrarci lo vediamo chiaramente nella sua scelta di farsi compagno e partecipe delle nostre sofferenze, permettendoci così di trasformare queste sofferenze in un mezzo di liberazione. Probabilmente conosci bene le obiezioni sollevate da quelli che trovano difficile o impossibile credere in Dio. Come può Dio amare davvero il mondo, se poi permette tante spaventose sofferenze? Se Dio ci ama veramente, perché non elimina dal mondo guerre, povertà, fame, malattie, persecuzioni, torture e tutti i mali che ci affliggono? Se Dio s’interessa personalmente di me, perché sto così male? Perché mi sento sempre così solo? Perché non riesco a trovare lavoro? Perché la mia vita è così inutile?

I poveri hanno imparato davvero a conoscere Gesù e a vedere in lui il Dio che condivide le loro sofferenze. In Gesù che soffre e che muore essi trovano il segno più evidente che Dio li ama di un grande amore e che mai li abbandonerà. E loro compagno nella sofferenza. Se sono poveri, sanno che era povero anche Gesù; se hanno paura, sanno che aveva paura anche Gesù; se sono percossi, sanno che fu percosso anche Gesù; se sono torturati a morte, sanno che anche Gesù soffrì il loro crudele destino. Per essi, Gesù è l’amico fedele che percorre insieme a loro la via dolorosa della sofferenza e li conforta. È solidale con loro. Li conosce, li comprende e, quando più acuto è il loro dolore, li stringe a sé.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 32-33).

 

«Subito gli parlano di lei, ed egli, avvicinatesi, la fece alzare prendendola per mano»

Luca scrive nel suo Vangelo che essi «lo pregarono in favore di lei, ed egli, chinatesi sopra di lei, comandò alla febbre» (Lc 4, 38-39). Il Salvatore alle volte cura gli ammalati quando è pregato, alle volte cura di propria iniziativa, mostrando di accogliere sempre le invocazioni dei fedeli contro l’oppressione dei vizi e anche contro quelle colpe di cui essi non si rendono conto affatto. E lo fa dando loro modo di accorgersene, o liberando amorevolmente i richiedenti anche dalle colpe che non sanno di aver commesso, come appunto supplica il salmista: «chi conosce i delitti? Signore, liberami dalle colpe occulte» (Sal 18,13).

Immediatamente la febbre la lasciò, ed ella li serviva (Mc 1,31).

È naturale che, quando torna la salute, coloro che prima erano febbricitanti denuncino uno stato di debolezza e sentano le conseguenze della malattia; quando è il Signore col suo comando che ridona la salute, questa ritorna in un momento. Anzi, non solo torna la salute, ma essa è accompagnata da tanto vigore che la donna è subito in grado di mettersi a servire coloro che l’avevano aiutata. Per dirla con linguaggio figurato, le membra che avevano servito all’impurità e all’ingiustizia per dar frutti di morte, servono ora alla giustizia in vista della vita eterna (cf. Rm 6,19).

(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang. Marc., I, Mc 1,29-31, in BEDA, Commento al Vangelo di Marco. Traduzione, introduzione e note di Salvatore Aliquò, Vol. 1, Città Nuova Editrice, Roma 1970, p. 61-63).

 

Dammi coraggio

Ti prego: non togliermi i pericoli, ma aiutami ad affrontarli.

Non calmar le mie pene, ma aiutami a superarle.

Non darmi alleati nella lotta della vita… eccetto la forza che mi proviene da te.

Non donarmi salvezza nella paura, ma pazienza per conquistare la mia libertà.

Concedimi di non essere un vigliacco usurpando la tua grazia nel successo;

ma non mi manchi la stretta della tua mano nel mio fallimento.

Quando mi fermo stanco sulla lunga strada e la sete mi opprime sotto il solleone;

quando mi punge la nostalgia di sera e lo spettro della notte copre la mia vita,

bramo la tua voce, o Dio, sospiro la tua mano sulle spalle.

Fatico a camminare per il peso del cuore carico dei doni che non ti ho donati.

Mi rassicuri la tua mano nella notte, la voglio riempire di carezze, tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(Rabindranath Tagore)

 

Preghiera per il servizio

Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo. Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia. Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dubbio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza. Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritrova, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.

(Madre Teresa di Calcutta)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Deuteronomio 18,15-20

 

       Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto.  Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.  Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».

 

  • Tutta la fede biblica è fondata sulla parola di Dio, feconda come la pioggia e la neve (cf. Is 55,10-11). Ed è di sempre il problema che essa sia autentica ed efficace. La prima lettura riporta il passo del Deuteronomio che fa risalire a Mosè l’origine dei profeti, gli inviati di Dio a portare la sua parola, e che ha suscitato pure l’attesa del Messia come profeta. Il discorso è in bocca a Mosè che parla a Israele, al di là del Giordano di fronte a Gerico, sul modo di comunicare con Dio.

Nei versetti che precedono il brano liturgico (Dt 18,9-14), egli esclude perentoriamente che possa farlo l’uomo, perché i suoi mezzi sono del tutto inadeguati e falsi. Sacrifici umani, divinazione, sortilegio, magia, evocazione dei morti, spiritismo, indovini, incantatori, ecc. sono un «abominio» davanti a Dio. Solo Dio può comunicare con l’uomo in modo autentico.

Ecco allora la promessa, che risponde alla richiesta già fatta dagli Israeliti al Sinai: dopo Mosè, Dio stesso continuerà a parlare ad Israele, mediante la figura del profeta, del quale tratteggia così le caratteristiche. Lo susciterà Lui stesso, quindi ne garantirà la vocazione e il carisma. Sarà un fratello tra fratelli e starà in mezzo a loro: sarà cioè, non uno stravagante, ma una persona normale che vive dentro alle situazioni normali, perché di esse deve capire il senso, per vivere davvero secondo Dio. Sarà suo porta-parola: «Gli porrò in bocca le mie parole…». E come tale dovrà essere ascoltato.

Dio poi prospetta un possibile duplice falso profeta: quello che parla falsamente a nome di Dio e quello che parla in nome di falsi dei. In entrambi i casi è comminata la pena di morte, spiegabile con la rigidità dei tempi e non certo da riesumare. Testimonia comunque l’importanza data alla parola di Dio. E può far riflettere se la mentalità moderna, assai severa contro le trasgressioni di ordine economico e materiale, non sia invece troppo indifferente e permissiva di fronte agli scandali e alle corrosioni dei valori morali.

Mosè usa sempre il singolare, un profeta, ma con significato collettivo, riferito a tutto il profetismo. Egli stesso, del resto, condivide il suo spirito profetico con i 70 Anziani (Nm 11,16-30 e Es 18,21-26) e ad essi e ai Leviti dà in consegna la Legge, da custodire, ripetere e attualizzare continuamente (Dt 10,8-9 e 31,9-13.24-27).

Il singolare ha pure fatto attendere il Cristo, come Profeta per eccellenza, come appare da interrogativi dei Giudei (cf. Gv 1,21.25). Gesù di Nazaret lo è effettivamente. Venuto da Dio, si è fatto vero fratello tra fratelli, partecipe del nostro essere e della nostra storia: «Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).

 

Seconda lettura: 1Corinzi 7,32-35

 

     Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!

Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.

 

  • La seconda lettura riporta uno stralcio delle risposte di Paolo alle domande scritte, su matrimonio e verginità, fattegli pervenire dalla comunità di Corinto e concentrate in 1Cor 7. Un legame col tema dell’annuncio e dell’ascolto della parola di Dio c’è nelle distinzioni che l’apostolo fa tra quello che dice lui e quello che ha detto il Signore. Anche lui cerca la parola autentica o quantomeno la traduzione autentica della parola di Cristo nella vita vissuta.

Quanto alle vergini, delle quali parla in questo brano, ha infatti premesso: «Non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia» (1Cor 7,25). Parla quindi come un convertito, ma assunto alla dignità di apostolo. E dà consigli per un comportamento lineare nel proprio stato di vita, conforme alla propria vocazione, senza preoccupazioni che dividano l’animo. Questo lo vede più facile in chi non è sposato, come la vergine, perché si preoccupa delle cose del Signore. Mentre chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, di come piacere alla moglie o al marito. Proteso alla trascendenza e alle realtà ultime, per cose del mondo egli intende quelle provvisorie di questa vita che passa e per cose del Signore quelle dei valori più profondi ed eterni. Ma non è a senso unico quanto dice. Perché appena prima ha raccomandato: «Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei sciolto da donna? Non andare a cercarla» (1Cor 7,27). E all’inizio ha scritto: «Vorrei che tutti fossero come me: ma ciascuno ha il proprio dono da Dio» (1Cor 7,7). Importante è vivere secondo il dono ricevuto.

Paolo dunque invita ciascuno a vedere il proprio stato di vita come una vocazione da parte del Signore, alla quale dare risposta con una vita autentica, coerente e non divisa. E ciò è possibile solo nell’ascolto consapevole, continuo e profondo della parola di Dio.

 

Vangelo: Marco 1,21-28

 

   In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».  La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

 

Esegesi

La liberazione di un indemoniato è il primo miracolo che Marco racconta. Con esso egli introduce la descrizione di un sabato tipico di Gesù a Cafarnao. Ma in primo piano mette il suo insegnamento, lui che poi si sofferma più sui fatti che sui discorsi. Riporta, infatti, un episodio accaduto durante la liturgia della parola, nel culto sinagogale. E sviluppa il racconto in tre momenti, che mostrano come la parola nuova di Cristo ha provocato e compiuto il miracolo.

Dapprima (vv. 21-22), riferisce sommariamente l’insegnamento di lui nella sinagoga e lo stupore di tutti, perché lo fa «con autorità» e non come gli scribi.

Poi racconta il miracolo (vv. 23-26), compiuto dopo uno scontro verbale con un uomo, che si è messo a gridargli contro. L’uomo è posseduto da uno «spirito immondo», detto così perché lo spinge lontano da Dio e a comportamenti indegni. Egli riconosce che Gesù, all’opposto, è «il santo di Dio», cioè tutto dedito a lui e rivestito delle sue perfezioni. Lo deve aver percepito dalle sue parole e dai suoi atteggiamenti. E si è messo in agitazione perché avverte lucidamente che ciò comporta la rovina del dominio diabolico. Ma con arroganza contesta a Cristo il diritto di intromettersi, usando un plurale col quale si identifica con tutte le potenze demoniache e nel quale pare voler coinvolgere anche gli uditori, presumendoli dalla sua parte. Al demonio Gesù prima comanda di tacere e poi di uscire da quell’uomo. Ciò avviene tra convulsioni e grida ancora più forti, provocate dal potere sconvolgente della parola di Dio. Si è trattato di un esorcismo, ma si può dire che tante resistenze a Dio sono fatte di contorcimenti e strepiti di vario genere, che si placano solo a partire dal silenzio delle nostre parole e dal lasciarsi prendere dalla forza della parola di Dio.

Infine (vv. 27-28) Marco torna sulla meraviglia generale, ancora più grande dopo il miracolo, accompagnata da timore reverenziale, di fronte alla potenza di Dio, e da interrogativi su che cosa questo significhi per tutti nella lotta contro il demonio.

La risposta viene dalla differenza, rimarcata in tutto il racconto, fra l’insegnamento di Gesù e quello degli scribi. Gli scribi insegnavano, commentando i testi sacri, con tante sottigliezze, elucubrazioni, accomodamenti interessati, per i quali si appellavano alle tradizioni e ai maestri umani: un insegnamento formalistico e sterile, che può ripetersi fra i cristiani. Gesù invece insegna con autorità. Cioè, egli parla a nome proprio, con la propria autorità divina: «Ma io vi dico…». Parla con la coerenza della vita, diversamente dagli scribi e farisei, che dicono e non fanno (cf. Mt 23,2-3). E la sua parola produce quello che afferma, in particolare ha la forza di contrapporsi al demonio e di vincerlo. Perché egli va al valore originario della parola di Dio e la propone come una semente da sviluppare, non come una teoria sulla quale dissertare o come un formalismo da assumere.

 

Meditazione

Subito dopo la chiamata dei primi discepoli, Gesù manifesta che cosa significa che il regno di Dio è iniziato con la sua parola e la sua opera: insegnamento e liberazione dal male, guarigione. Va nella sinagoga di Cafarnao, cittadina importante sul lago di Galilea, stazione di frontiera del territorio di Erode Antipa, a quel tempo governatore della Galilea in nome dei Romani, sede di una guarnigione romana, città di com­mercio con una popolazione mista.

Gesù entra nel giorno di sabato nella sinagoga, nel luogo della pre­ghiera, e si mette ad insegnare, come ogni domenica continua ad inse­gnare nel luogo dove la comunità cristiana si riunisce per la Liturgia Eucaristica. Ciò si inserisce perfettamente nella struttura della preghie­ra sinagogale. Gesù doveva essere conosciuto a Cafarnao, come è cono­sciuto da noi, e con tutta probabilità il capo della sinagoga lo invitava a spiegare la Scrittura proprio per questo. Un episodio analogo avverrà nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,16 ss.; Mc 6,1-6). L’insegnamento di Gesù provoca reazioni di stupore, perché sempre il Vangelo suscita stupore in chi lo ascolta con il cuore e non distrattamente. L’autorevolezza di Gesù è quella di una parola che tocca il cuore e suscita domande, non come quelle parole che talvolta si pronunciano, e che non interro­gano nessuno, perché sono o troppo teoriche o troppo banali. La sua parola suscita una reazione persino in un uomo posseduto dal male.

L’impurità di quell’uomo indica lontananza da Dio, che è il puro e il santo per eccellenza. Ma Gesù non lo disprezza, non lo allontana, come farebbe il nostro mondo davanti a gente che porta in sé i segni del male e del dolore. Non si arrabbia anche quando viene offeso da quell’uomo. Egli capisce che le sue parole violente esprimono paura, lacerazione interiore, incapacità a liberarsi da solo dallo spirito del male. Anzi Gesù coglie in esse una domanda di guarigione. «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?, grida con violenza quell’uomo, sentendosi minacciato da Gesù e dal suo insegnamento. Sì, il bene eccessivo appare una minaccia per chi è abituato al male fino ad esserne posseduto. Quanta ironia in questa pagina del Vangelo: uno spirito impuro, sentendosi minacciato, riconosce in Gesù il Santo di Dio, mentre quelli che stanno attorno a lui, convinti di conoscerlo, a contatto della sua figura santa, non sanno riconoscerlo. Così avviene spesso anche nella vita dei cristiani, che si abituano a vivere con Gesù senza però riconoscerne la forza di amore e di guarigione.

Gesù ordina allo spirito impuro di uscire da quel corpo, tutto sommato incolpevole. L’autorità di Gesù vince il male, vince la terribile frattura che sconquassa quell’uomo. Gesù lotta autorevolmente contro il male, non si lascia intimorire da esso, comanda che la vita di Dio entri nelle strutture vitali, nel corpo, nella mente, nel cuore, nelle viscere degli uomini incate­nate dal male, un male tanto forte da spaccare, lacerare l’uomo. «Taci! Esci», egli dice. Taci! — quasi che il male stesso parli attraverso l’uomo. E poi: «esci»!, quasi a dire che questo spazio non è tuo; nella vita di quest’uo­mo hai preso troppo spazio; esci e lascia il posto di Dio. La parola di Gesù vince il male, lo ridimensiona, creando spazio a Dio dentro quest’uomo dal quale è stato cacciato ciò che esclude Dio. L’uomo, immagine di Dio, non può essere abitato dal male per sempre. Il male è forte nel mondo e nella vita degli uomini, e non sempre se ne è consapevoli, perché tutti presi da se stessi, incapaci di fermarsi, di riflettere, perché il male fa paura e fa chiudere gli occhi, allontana gente interessata solo al proprio benes­sere. Esorcismo senza gesti magici, senza formule magiche, quello di Gesù. Basta la sua parola autorevole. Non che questa uscita, questo svuo­tamento sia indolore. Strazio, urla. Si ha l’impressione comunque di un taglio netto, rapido. Di un autentico strappo. La parola di Gesù, portatrice della forza del bene, vince anche il male più resistente.

«Tutti furono presi da timore» di fronte a Gesù. Una emozionata meraviglia, profonda, è il primo sentimento degli astanti, che si inter­rogano seriamente su Gesù e sul suo insegnamento. Che cosa succede qui adesso? Che cosa è questo? Una nuova dottrina? Perché questo scossone nella vita di quell’uomo… e nella nostra? Nuovo, diverso da quello degli scribi: un insegnamento autorevole e nuovo. Qual è la novità che balza evidente al primo sguardo? L’insegnamento di Gesù è subito e soprattutto lotta diretta contro lo spirito impuro, contro il male che abita negli uomini, facendola indebitamente da padrone. La parola di Gesù è allora una forza che cambia, perché entra nella vita degli uomini, anche nei peggiori, perché nessuno è così posseduto dal male da essere del tutto lontano da Dio. Anzi Gesù è venuto proprio per rendere possibile a tutti l’incontro con Dio, che è perdono e guari­gione. Per questo Gesù, subito dopo aver chiamato i discepoli, incontra i malati e tra essi per primi gli indemoniati. Il Regno di Dio comincia a realizzarsi nel fare posto a Dio nella vita degli uomini, nello scacciare il male perché il bene penetri dovunque senza resistenze.

Gesù entra nella vita degli uomini, innanzitutto nello spazio religioso per eccellenza: la sinagoga, dove si predica abitualmente la Parola di Dio. Gesù indica una nuova, entusiasmante dimensione del rapporto con Dio, che scuote gli uomini, anche quelli che pensano di conoscerlo. Egli mette in discussione radicalmente la struttura religiosa tradizionale, provocando la guarigione degli uomini dal male. E gli uomini sono scossi, si meravigliano, cosicché alcuni saltano nella fede, mentre altri si trincerano in un atteggiamento difensivo, ostile. Lo stupore è ambivalente e, solo, non basta per compiere il salto della fede. Infatti l’ostilità è la reazione evidente nell’episodio di Gesù che parla nella sinagoga di Nazaret (Mc 6,1-6). Gesù è davvero il profeta annunciato a Mosè nel libro del Deuteronomio. Proprio a lui Dio ha «messo in bocca le sue parole», perché possano liberare il mondo dal male. Il regno di Dio ha preso avvio e continua a manifestarsi ogni volta che viene comu-nicato il Vangelo di Gesù. Forse non si è sempre consapevoli della forza di bene che il Signore ha posto nelle mani dei suoi discepoli. Per questo si vive in modo rassegnato e pessimista, come se il male fosse così forte da non poter essere sconfitto. Forse, come avverte l’apostolo Paolo, siamo troppo presi dalle preoccupazioni quotidiane, che ci assillano più di prima, e non poniamo mente e cuore alla forza del Vangelo del regno. Forse dovremmo preoccuparci di più di piacere al Signore, facendoci scuotere dalla sua parola, perché essa ci converta a lui e al bene, liberando anche noi dal male che si annida nei cuori.

 

L’immagine della domenica

 

COLLINA DI RIAZA (SEGOVIA)       –       2016

 

«Quando perdi il contatto con la quiete interiore, perdi il contatto anche con te stesso. Quando perdi il contatto con te stesso, ti perdi nel mondo».

(Eckhart Tolle)

 


Preghiere e racconti

 

Dire Dio oggi

La parola ha dato la possibilità all’uomo di coltivare la propria ricchezza interiore e di condividerla con chi gli stava vicino. La parola ha permesso all’essere umano di creare un’intensità e una complessità di relazioni che è unica, almeno nel nostro mondo conosciuto. È stata proprio la parola ad averci permesso di tramandare – attraverso la scrittura – le esperienze più complesse e dunque ad averci aiutato a costruire la memoria, che è il grande patrimonio della nostra specie. Nella parola è racchiuso il mistero della relazione con Dio. C’è una voce che chiama – la Sua – e una voce – la nostra – che può scegliere se rispondere o meno. Il rapporto con Dio non è un rapporto passivo, bensì quello tra due volontà vive e autonome. […] La delusione, l’amarezza, la depressione che tante persone esprimono al giorno d’oggi nei riguardi della vita, delle aspettative tradite, sono proprio dovuto al fatto che la parola si è ritirata, e le poche rimaste hanno perso il loro legame profondo con la verità.

Così, dire Dio oggi vuol dire soprattutto proporre l’idea di un’esistenza come scelta tra una vita autentica – che segue le parole della Rivelazione – e una vita rappresentata – plasmata dalle contingenze del proprio tempo, tra una vita posseduta e una vita consumata.

 

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Torino, Lindau, 2011, 148-149)

Quel Dio che s’immerge nelle nostre ferite

Ed erano stupiti del suo insegnamento. Lo stupore, quella esperienza felice che ci sorprende e scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini, che ci fa entrare nella dimensione della passione, quella che smuove anche le montagne. Salviamo lo stupore, la capacità di incantarci ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che trasmettono la sapienza del vivere, che toccano il centro della vita perché nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.

La nostra capacità di provare gioia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di meravigliarci. Gesù insegnava come uno che ha autorità. Autorevoli sono soltanto le parole che nutrono la vita e la fanno fiorire; Gesù ha autorità perché non è mai contro l’uomo ma sempre in favore dell’uomo, e qualcosa dentro chi lo ascolta lo sa.

Autorevoli e vere sono soltanto le parole diventate carne e sangue, come in Gesù: la sua persona è il messaggio, l’intera sua persona. Come emerge dal seguito del brano: C’era là un uomo posseduto da uno spirito impuro. Il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulle fragilità dell’uomo e la prima di tutte le povertà è l’assenza di libertà, come per un uomo «posseduto», prigioniero di uno più forte di lui.

E vediamo come Gesù interviene: non fa discorsi su Dio, non cerca spiegazioni sul male, Gesù mostra Dio che si immerge nelle ferite dell’uomo; è Lui stesso il Dio che si immerge, come guarigione, nella vita ferita, e mostra che «il Vangelo non è un sistema di pensiero, non è una morale, ma una sconvolgente liberazione» (G. Vannucci).

Lui è il Dio il cui nome è libertà e che si oppone a tutto ciò che imprigiona l’uomo. I demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a demolire prigioni; a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare tutto ciò che non è amore. A rovinare il regno dei desideri sbagliati che si impossessano e divorano l’uomo: denaro, successo, potere, egoismi. A essi, padroni del cuore, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui.

Tace e se ne va questo mondo sbagliato. Va in rovina, come aveva sognato Isaia, vanno in rovina le spade e diventano falci, si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è l’uomo libero e amante. Posso diventarlo anch’io, se il Vangelo diventa per me passione e incanto. Patimento e parto. Allora scopro «Cristo, mia dolce rovina» (Turoldo), che rovina in me tutto ciò che non è amore, che libera le mie braccia da tutte le cose vuote, e che dilata gli orizzonti che respiro.

(Ermes Ronchi)

 

«Che è mai questo?»

  1. Gesù l’annunciatore della vicinanza regale di Dio è la vicinanza regale di Dio, è il farsi prossimo in maniera compiuta di Dio alle attese del povero mondo. Una buona notizia che domanda accoglienza riconoscente e che pone in una nuova condizione, l’ambito dell’amore di Dio. Oggi i chiamati da Gesù entrano con lui nella sinagoga di una città di nome Cafarnao. Di sabato (Mc1,21). E assieme ai presenti nella sinagoga assistono a un primo e singolare porsi in atto della regalità di Dio in Gesù.
  2. Sta scritto: «Entrato nella sinagoga… insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc1,21-22). Gesù è un maestro di sapienza nella cui parola il pensiero, il sentimento e il volere di Dio si rendono presenti in maniera diretta, vera, efficace e decisiva per chi ascolta. Con autorità appunto. Egli non appartiene alle scuole della interpretazione della volontà di Dio, egli è il dirsi e il dire di Dio, e questo lo contraddistingue dagli scribi: «Avete inteso…ma io vi dico» dirà analogamente il Gesù di Matteo.

E il contenuto di tale volontà viene immediatamente raccontato dall’esorcismo che segue, l’ incontro-scontro tra Gesù e uno spirito impuro a cui è nota l’identità di Gesù: «Io so chi tu sei: il Santo di Dio!» (Mc1,24), e so perché ci sei: «Sei venuto a rovinarci» (Mc1,24). L’evangelista legge l’uomo come terreno di contesa tra uno spirito-demone detto impuro a motivo del suo appartenere alla sfera del male totalmente dedito a inserirvi l’uomo, e Gesù detto santo a motivo del suo appartenere alla sfera del bene totalmente dedito a inserirvi l’uomo.

Dio in Gesù è venuto a rovinare chi rovina l’uomo, un chi annidato nell’uomo e di lui padrone (Mc1,23). Uno spirito impuro a cui Gesù ordina: «Taci! Esci da lui! E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui» (Mc 1,25-26). All’evangelista preme sottolineare tre cose. La prima consiste in una visione disincantata dell’uomo nel senso che il suo profondo può essere abitato, qualunque siano i nomi che gli si voglia attribuire, da forze oscure che lo alienano dalla propria verità muovendolo verso sentieri di menzogna, l’odio che genera morte (Gv 8,44s).

La seconda è la proclamazione che Dio nel suo Santo, equivalente di Messia (Gv 6,69; At 3,14; 4,27.30), è più forte di ogni male, è potenza di Dio al cui «esci» segue l’»uscì». E in questo sta l ’insegnare con autorità, il proferire una parola che fa accadere quanto dice, parola che al contempo è ingiunzione di silenzio: «Taci», non è ancora giunto il tempo dei pieni svelamenti della identità di Gesù. Inoltre, detto per inciso, è bene che taccia ora e in ogni tempo una confessione di fede radicalmente sganciata dall’amore e dalla sequela.

Lo spirito impuro è dottrinalmente perfetto, inappuntabile dal punto di vista dell’ortodossia cristologica, ed è diabolicamente perfetto nel volere lucidamente stravolgerla. Infatti confessare Gesù il Santo di Dio è proclamarlo traduzione della passione d’amore di Dio per l’uomo, cosa programmaticamente detestata dal male che fa di tutto per spegnerne la presenza e il messaggio nel cuore dell’uomo felice della rovina dell’uomo.

Diabolico è il sapere ciò che è vero e il sapere di volere negarlo ad occhi aperti. In questa prospettiva la lotta tra Gesù il bene e il male è senza quartiere, e l’uomo ne è il diretto interessato. La terza cosa infine che Marco vuole sottolineare è lo stupore dei presenti nella sinagoga: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo dato con autorità» (Mc1,27). La novità di una parola che con autorità comanda a chi ha sempre comandato rendendo l’uomo panno sporco.

  1. Questo avvenimento accadde di sabato, il giorno consacrato alla proclamazione della parola di Dio nella Legge e nei profeti, e in una sinagoga, il luogo del raduno assembleare per l’ascolto della parola di Dio; questo avvenimento accade oggi di domenica in ogni assemblea attraverso la lettura. Siamo ancora capaci di stupirci di una parola potente che ove accolta è in grado di dire «esci» al male oscuro che impedisce il dilatarsi e l’esprimersi in verità secondo le proprie potenzialità?

Siamo ancora capaci di riconoscere in Gesù il medico della nostra interiorità malata? Il sole che chiede ospitalità nella zona d’ombra di ciascuno per guarirla dagli spiriti impuri che la abitano? Il culto di sé, del denaro, del successo, del possesso incontinente di corpi e di merci, del non senso, del demoniaco e ancora di sensi di colpa che straziano legando il presente a un passato che impedisce futuri diversi.

Lista breve di un lungo elenco a cui è buona notizia un Dio che in Gesù viene a liberare il tuo cuore da ogni spirito impuro, da ogni pensiero, sentimento desiderio e volere non abitati dal sapersi e dal volersi presenza di bene per l’uomo. La qualità della cui vita dipende da chi e da che cosa lo abita.

(Giancarlo Bruni)

 

L’enigma del male

«Dobbiamo essere consapevoli», dice Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, «che siamo fragili, esposti al grande enigma del male. Non ci sono per l’uomo luoghi sicuri, “paradisi”. Coscienti del nostro limite, dobbiamo respingere ogni pretesa di onnipotenza. Non si tratta, per questa catastrofe, di incolpare Dio, ma neanche noi uomini. Con la fede, possiamo dire che Dio vuole vincere il male con noi, e l’esito finale sarà la trasfigurazione dell’universo».

(Da «Famiglia Cristiana», 2005, 3).

 

Sofferenza materia prima della redenzione

Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.

Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.

Tu dici del tuo amico:

lo porto nel mio cuore,

mi vergogno per lui del suo peccato,

la sua sofferenza mi fa male.

È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.

Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito. Egli li ha tutti riuniti in Sé: portando tutti i loro peccati, soffrendo tutte le loro sofferenze, morendo della loro morte.

Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, «cancellali», le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia morte. Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzione.

(M. QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).

 

Si stupivano della sua dottrina

Entrarono in Cafarnao, e subito, entrato di sabato nella sinagoga insegnava loro, insegnava affinché abbandonassero gli ozi del sabato e cominciassero le opere del Vangelo. Egli li ammaestrava come uno che ha autorità, non come gli scribi. Egli non diceva, cioè «questo dice il Signore», oppure «chi mi ha mandato così parla»: ma era egli stesso che parlava, come già prima aveva parlato per bocca dei profeti. Altro è dire «sta scritto», altro dire «questo dice il Signore», e altro dire «in verità vi dico».

Guardate altrove. «Sta scritto — egli dice — nella legge: Non uccidere, non ripudiare la sposa». Sta scritto: da chi è stato scritto? Da Mosè, su comandamento di Dio. Se è scritto col dito di Dio, in qual modo tu osi dire «in verità vi dico», se non perché tu sei lo stesso che un tempo ci dette la legge? Nessuno osa mutare la legge, se non lo stesso re. Ma la legge l’ha data il Padre o il Figlio? […] Qualunque cosa tu risponda, l’accetterò volentieri: per me, infatti, l’hanno data ambedue. Se è il Padre che l’ha data, è lui che la cambia: dunque il Figlio è uguale al Padre, poiché la muta insieme a colui che l’ha data. Se l’uno l’ha data e l’altro la muta è con uguale autorità che essa è stata data e che viene ora mutata: infatti nessuno che non sia il re può mutare la legge.

Si stupivano della sua dottrina. Perché, mi chiedo, insegnava qualcosa di nuovo, diceva cose mai udite? Egli diceva con la sua bocca le stesse cose che aveva già detto per bocca dei profeti. Ecco, per questo si stupivano, perché esponeva la sua dottrina con autorità, e non come gli scribi. Non parlava come un maestro, ma come il Signore: non parlava per l’autorità di qualcuno più grande di lui, ma parlava con la sua propria autorità. Insomma egli parlava e diceva oggi quello che già aveva detto per mezzo dei profeti. «Io che parlavo, ecco, sono qui» [Is 52,6].

(GIROLAMO (347-420), Commento al vangelo di Marco, 2)

 

Il silenzio di Dio

Il problema del male con la sua enorme portata di sofferenza prova a fondo la fiducia in Dio del credente e «…molti si arrestano perché dicono: Forse c’è qualcuno là di sopra, però se ci fosse davvero tanto male non ci sarebbe, dunque… Qui la fede entra nella sua agonia più profonda» è posta di fronte al silenzio di Dio e sembra non aver attenuanti, non aver parole che siano sufficienti, appare… «intrinsecamente insicura, non è fondata, come diceva Agostino: la mia fede non è fondata, non è un fondamento, la mia fede sta appesa alla croce. La mia fede non da alcuna sicurezza. L’esperienza del silenzio di Dio conduce sull’orlo del «forse», un «forse» che per Andrè Neher «sta all’inizio della silenziosa vertigine della libertà»».

(C.M. MARTINI, Prima sessione della Cattedra dei non credenti, 1987).

 

L’uomo vicino alla finestra

Due uomini, entrambi molto malati, occupavano la stessa stanza d’ospedale. A uno dei due uomini era permesso mettersi seduto sul letto per un’ora ogni pomeriggio per aiutare il drenaggio dei fluidi dal suo corpo. Il suo letto era vicino all’unica finestra della stanza. L’altro uomo doveva restare sempre sdraiato. Infine i due uomini fecero conoscenza e cominciarono a parlare per ore. Parlarono delle loro mogli e delle loro famiglie, delle loro case, del loro lavoro, del loro servizio militare e dei viaggi che avevano fatto. Ogni pomeriggio l’uomo che stava nel letto vicino alla finestra poteva sedersi e passava il tempo raccontando al suo compagno di stanza tutte le cose che poteva vedere fuori dalla finestra. L’uomo nell’altro letto cominciò a vivere per quelle singole ore nelle quali il suo mondo era reso più bello e più vivo da tutte le cose e i colori del mondo esterno. La finestra dava su un parco con un delizioso laghetto. Le anatre e i cigni giocavano nell’acqua mentre i bambini facevano navigare le loro barche giocattolo. Giovani innamorati camminavano abbracciati tra fiori di ogni colore e c’era una bella vista della città in lontananza. Mentre l’uomo vicino alla finestra descriveva tutto ciò nei minimi dettagli, l’uomo dall’altra parte della stanza chiudeva gli occhi e immaginava la scena.

In un caldo pomeriggio l’uomo della finestra descrisse una parata che stava passando. Sebbene l’altro uomo non potesse vedere la banda, poteva sentirla. Con gli occhi della sua mente così come l’uomo dalla finestra gliela descriveva. Passarono i giorni e le settimane. Un mattino l’infermiera del turno di giorno portò loro l’acqua per il bagno e trovò il corpo senza vita dell’uomo vicino alla finestra, morto pacificamente nel sonno. L’infermiera diventò molto triste e chiamò gli inservienti per portare via il corpo. Non appena gli sembrò appropriato, l’altro uomo chiese se poteva spostarsi nel letto vicino alla finestra. L’infermiera fu felice di fare il cambio, e dopo essersi assicurata che stesse bene, lo lasciò solo. Lentamente, dolorosamente, l’uomo si sollevò su un gomito per vedere per la prima volta il mondo esterno. Si sforzò e si voltò lentamente per guardare fuori dalla finestra vicina al letto. Essa si affacciava su un muro bianco. L’uomo chiese all’infermiera che cosa poteva avere spinto il suo amico morto a descrivere delle cose così meravigliose al di fuori da quella finestra. L’infermiera rispose che l’uomo era cieco e non poteva nemmeno vedere il muro. ”Forse, voleva farle coraggio.” disse.

 

Di fronte a fenomeni come la guerra in Terra Santa, il male, la sofferenza, come si può spiegare l’Amore misericordioso del Creatore?

Intervista al Padre Aurelio:

«Da sempre la sofferenza è la grande e inquietante domanda che sfida la fede in un Dio buono. È significativo che proprio nella terra del Santo, dove il Signore ha scritto la sua storia di amore e alleanza con un popolo da Lui scelto in vista della salvezza di tutti, proprio in quella terra la pace sembra non aver mai trovato casa. Dai tempi dei patriarchi, all’Esodo e all’entrata in quella terra, come in tutta la storia successiva, il popolo di Israele sembra non avere mai avuto pace.

Ben si addice il pianto e lamento di Gesù sopra Gerusalemme: “Oh, se tu, proprio tu, avessi riconosciuto almeno in questo tuo giorno le cose necessarie alla tua pace! Ma ora esse sono nascoste agli occhi tuoi” (Lc 19,42).

Dio ha fatto buone tutte le cose, come afferma il ritornello alla fine di ogni giorno della creazione: “E Dio vide ciò che aveva fatto ed era cosa buona” (cfr. Gen 1). La Parola del Signore risponde al mistero del male che lacera l’umanità, non con una teoria, ma con la sottolineatura di quella libertà che gli uomini, cedendo al tentatore, hanno indirizzato al male anziché al bene, cadendo così nella maledizione (cfr. Gen 3).

Eppure è proprio di fronte a questa estrema miseria che si rivela l’infinita misericordia di Dio. S. Paolo la riassume in una frase: “Dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia”. Il Signore si è messo da subito alla ricerca della pecora smarrita (“Adamo, dove sei?”): con una pazienza e tenerezza immensa, parlando e intervenendo molte volte e in diversi modi, per mezzo dei suoi inviati e attraverso gli eventi della storia.

Un amore gratuito che si è rivelato in modo sommo e inimmaginabile nell’incarnazione del Figlio di Dio. Tutta la vita di Gesù, soprattutto la sua morte e risurrezione è la risposta definitiva di Dio al perché della sofferenza e del male del mondo. “Dio è amore”, ed è la lontananza da Lui che precipita l’uomo nella morte del male, dell’odio, della violenza cieca. “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!”, dirà Gesù morente sulla croce, croce che concentra tutto il male fisico, morale e spirituale che c’è nel mondo.

Lui ha voluto prendere su di sé questo male e sconfiggerlo con la Risurrezione, rivelando così che l’Amore e la Vita di Dio, sono più grandi del peccato, dell’odio, di ogni forma di male.

(Intervista fatta da Zenit al padre Aurelio Pérez, Superiore generale dei Figli dell’Amore misericordioso (FAM), 13 gennaio 2009).

 

Le preghiere della vita

Tu che vuoi che vinciamo il male con il bene e che preghiamo per chi ci perseguita abbi pietà dei miei nemici, Signore, e di me; e conducili con me nel tuo regno celeste.

Tu che gradisci le preghiere dei tuoi servi, gli uni per gli altri, ricorda la tua grande benevolenza: abbi pietà di coloro che si ricordano di me nelle loro preghiere e che io ricordo nelle mie.

Tu che guardi alla buona volontà e alle opere buone, ricordati, Signore, come se ti pregassero, di quelli che per giusta ragione, per piccola che sia, non dedicano un tempo alla preghiera.

Ricorda Signore, i bambini, gli adulti e i giovani, i maturi e i vegliardi, gli affamati, gli assetati e gli ignudi, i malati, i prigionieri e gli stranieri, i senza amici e i senza sepoltura, i vecchi e i malati, i posseduti dal demonio, i tentati di suicidio, i torturati dallo spirito immondo, i disperati e i dubbiosi nell’anima e nel corpo, i deboli, i sofferenti in prigionie e tormenti, i condannati a morte; gli orfani, le vedove, i viandanti, le partorienti e i lattanti, chi si trascina nella schiavitù, nelle miniere e nei ceppi, o nella solitudine.

(Lancelot Andrewes, in Le preghiere dell’umanità, Brescia, 1993).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

IV DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

III DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: Giona 3.1-5.10

 

  Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: «Alzati, va’ a Nìnive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico». Giona si alzò e andò a Nìnive secondo la parola del Signore. Nìnive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Nìnive sarà distrutta». I cittadini di Nìnive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.

 

  • Incontrare Dio e farlo incontrare anche agli altri è l’idea fondamentale della prima lettura.

Senza addentrarci nel ginepraio dei problemi sollevati dal testo, consideriamo Giona un libro più da meditare che da studiare. Vogliamo solo ricordare che il libro, annoverato di solito tra i profeti, è collocato oggi da molti studiosi tra i libri didattici. Infatti, diversamente dagli altri testi profetici, non presenta una raccolta di oracoli, limitandosi a quello scarno annuncio: «Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta» che rimangono le uniche parole del suo messaggio. L’assenza di oracoli è felicemente compensata dalla vita stessa del profeta che annuncia più con i fatti che con le parole, a tal punto da poter affermare che tutta la sua vicenda diventa epifania di Dio. L’insegnamento allora non sta tanto nelle parole, quanto piuttosto nella trama che rivela così il suo intento didattico.

Il brano liturgico propone un profeta che ha già sperimentato sulla sua pelle il significato della conversione: non voleva recarsi a Ninive ad annunciare la salvezza ai pagani, ha voluto fare di testa sua. Si è ritrovato solo, in mezzo al mare, con l’unica possibilità: quella di morire annegato. L’amorosa provvidenza divina lo salva (è il significato del grosso pesce) e li riporta al punto di partenza.

Troviamo ora Giona in seconda edizione, riveduta e migliorata. Di nuovo gli è rivolto l’invito del Signore che lo invia a Ninive con un ultimatum; « Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta » (v. 4). Il numero 40 indica un tempo opportuno per fare qualcosa e prendere decisioni, indica un’occasione decisiva e forse irripetibile. È il momento di grazia per i Niniviti. Di fatto costoro accolgono l’occasione e, sebbene pagani, acconsentono al Dio di Giona con un’adesione plebiscitaria che interessa re e animali, due estremi per indicare tutti.

Il brano liturgico salta i vv. 6-9 che mostrano l’itinerario di conversione dei Niniviti.

La conclusione del v. 10 sottolinea:

  • Dio si qualifica come Dio della vita perché vuole la salvezza di ogni uomo e di tutti gli uomini (universalismo).
  • Dio si serve degli uomini per operare i suoi prodigi (collaborazione): Dio ha voluto aver bisogno degli uomini.

Finché Giona privatizzava la sua vita, lontano da Dio, non solo non poteva essere utile agli altri, ma neppure realizzava la propria persona. Aderendo al programma divino, da una parte Giona realizza se stesso perché fa il profeta e dall’altra diviene elemento e tramite di salvezza per gli altri. Così è ciascun uomo quando accetta di far parte dell’organigramma divino.

A questo punto parrebbe di poter concludere il libro di Giona, visto che la sua missione ha avuto successo, convertendo prima se stesso e poi i Niniviti. Ma terminando così, sembrerebbe che la conversione sia un tornare indietro una volta sola, il lasciarsi convincere da Dio una volta per tutte. Il che non è proprio vero. Lo ricorda il capitolo che segue: la conversione è un’opera continua. Lo afferma, per aliam viam anche la seconda lettura.

 

Seconda lettura: 1Corinti 7,29-31

 

  Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!

 

  • La conversione è uno stato di premurosa e amorosa attenzione alla volontà di Dio, un impegno a sintonizzare sempre più e sempre meglio la propria vita alle esigenze del Regno di Dio. Ogni attaccamento morboso viene bocciato, così come risulta un perditempo ogni cocciutaggine a perpetuare ciò che è effimero. Potrebbe essere questa una chiave di lettura del minuscolo brano liturgico proposto come seconda lettura.

A partire dal cap. 7 della prima lettera ai Corinti, Paolo, apostolo e catecheta, risponde ai quesiti che la comunità gli aveva sottoposto. Il primo di essi trattava del matrimonio e della verginità. Paolo ribadisce il valore del matrimonio (forse contro tendenze che lo svalutavano) anche se la verginità sembra rispondere ad un ideale maggiore (cf. v. 7). La cosa più importante, al di là di possibili gerarchie, consiste nel rispondere alla vocazione del Signore (cf. v. 17 ss.).

Il brano liturgico è racchiuso tra due affermazioni di transitorietà: «il tempo si è fatto breve» e «passa infatti la figura di questo mondo!». All’interno sono elencate alcune situazioni e il loro contrario (aver moglie / non aver moglie; piangere / non piangere…).

Paolo non intende fare previsioni cronologiche, quando afferma che il tempo è breve. Egli ha di mira il Signore morto e risorto che ha dato avvio ad una situazione nuova e definitiva: siamo ormai nel tempo finale, quello definitivo. In altre parole, non c’è da aspettarsi nulla di nuovo perché la vera novità, quella definitiva, è Lui, il Signore risorto. Se siamo alla svolta finale, significa che la realtà prende senso e colore solo alla luce di Cristo risorto. Viene tolto il plusvalore che normalmente viene attribuito alle situazioni (sposarsi, piangere, possedere), soprattutto se considerate solo nel loro aspetto esteriore (possibile traduzione del greco schema, reso in italiano con «scena», v. 31). Ciò che rimane, oltre il tempo, è l’attaccamento a Cristo Signore, la configurazione a Lui nel mistero pasquale. Il brano è quindi una calda esortazione a orientare tutto e a orientarsi definitivamente verso Lui. Anche questo è conversione. Paolo ha il merito di averci insegnato un altro aspetto del mai esaurito tema della conversione.

 

Vangelo: Marco 1,14-20

 

   Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.

Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

 

Esegesi

 

Le letture bibliche della presente domenica sono caratterizzate dalla duplice nota: la conversione è accoglienza dell’invito divino al rinnovamento; tale rinnovamento porta però sulla strada della solidarietà: alcuni annunciano ad altri la loro esperienza di salvezza, perché tutti ne possono beneficiare. C’è lievitazione per tutti.

     La preziosità del brano evangelico poggia sul duplice motivo di novità: incontriamo le prime parole di Gesù riportate dal Vangelo secondo Marco (vv. 14 -15), cui segue la prima azione di Gesù, quella di convocare alcune persone, introducendole al suo seguito, con lo scopo di allargare la cerchia con nuove persone, per la costruzione di una nuova famiglia,

quella della Chiesa (vv. 16-20).

  1. Quando Gesù incomincia a parlare, fa riferimento a qualcosa che si è concluso e, più ancora, ad una novità che irrompe nella storia e alla quale bisogna prepararsi. Tutto questo è espresso con la categoria a noi nota anche se non sempre molto familiare, come «regno di Dio». Si tratta di un tema centrale che il novello predicatore propone subito al suo uditorio. Ma è pure una chiave interpretativa per aprire in parte il mistero della sua persona. Egli, certamente «rabbi» e pure «profeta» come lo chiama la gente (cf Mc 6,14s; 8,28), si definisce piuttosto come l’annunciatore del Regno, colui che con la parola dice che il Regno è presente e con la sua azione lo visibilizza. Mc 1,15, diventa sotto questo aspetto particolarmente illuminante.

Mediante le coordinate spazio-temporali l’annuncio di Gesù viene situato in un contesto geografico ben preciso, la Galilea, e in un contesto storico definito, l’arresto del Battista, il quale, in veste di precursore, era stato l’ultima voce autorevole capace di invitare gli uomini ad un rinnovamento, espresso esternamente con l’abluzione battesimale. Spentasi questa voce profetica, ben si può dire: «II tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo».

Numerosi commentatori sono concordi nel leggere in queste parole la visione riassuntiva del pensiero di Gesù, non necessariamente la citazione ad litteram delle sue parole. È certo comunque che esse segnano il trapasso da un’epoca ad un’altra, da un atteggiamento di fiduciosa attesa ad uno di imminente realizzazione. Infatti nel dire «il tempo è compiuto» si capisce che un processo è arrivato al suo termine dopo uno sviluppo più o meno lungo. Nel linguaggio di Mc l’espressione fa riferimento al tempo preparatorio dell’A.T. e presuppone la conoscenza delle varie tappe del piano divino, collegate tra loro da quella continuità che in Dio è semplice unità, nell’uomo è progressiva rivelazione. Solo Gesù, pienezza della rivelazione, può dire che il tempo preparatorio è giunto al suo termine e solo dopo la Pasqua, pienezza della manifestazione di Gesù, la comunità dei credenti può aderire alla verità secondo cui lui, figlio dell’uomo e figlio di Dio, da inizio ad un’epoca nuova.

Questo tempo allora non è un chronos ma un kairos, vale a dire, non una successione di attimi fuggenti qualitativamente simili ad altri, bensì un’occasione unica da vivere ora nella sua interezza ed esclusività, perché questo tempo che «è compiuto» (al perfetto in greco per indicare un’azione del passato ma con effetti presenti) è la porta di accesso alla situazione nuova, che Paolo chiama «pienezza dei tempi» (Gal 4,4) e che Marco riconosce nella presenza del Regno di Dio. Infatti il verbo greco enghiken si può tradurre tanto «è vicino», «è arrivato», quanto «è giunto», «è presente».

La venuta del Regno di Dio deve essere veramente qualcosa di straordinario se esige un cambiamento radicale espresso dall’imperativo «convertitevi» che unito al seguente «credete al vangelo» indica che passato e presente non si possono mescolare; lo conferma linguisticamente il termine greco «metanoia» che allude ad un cambiamento di mentalità (nous = mente), corrispondente all’ebraico shub che esprime il ritorno da una strada sbagliata, ovviamente per imboccare quella giusta. Bisogna cambiare o ritornare per aderire con cuore nuovo al «vangelo».

  1. Alle prime parole di Gesù segue la prima azione. Anch’essa merita attenzione, proprio per capire le intenzioni di Gesù. La conversione appena annunciata ha bisogno di mediatori, di persone che abbiano sperimentato per prime che cosa significhi. Due coppie di fratelli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, colti nella quotidianità del loro lavoro, sono chiamati ad un nuovo servizio. Non dovranno più interessarsi di pesci, ma di uomini, non tirarli fuori dall’acqua, ma da una vita scialba e insulsa. Devono prospettare loro «il Regno» che è l’amorosa presenza di Dio nella storia, così come è dato percepirlo con la venuta di Gesù.

Con la chiamata dei primi discepoli alla sequela di Gesù, si pongono le basi della comunità ecclesiale. Alcuni punti sono di grande attenzione:

  • Sono persone coinvolte nel Regno. Se l’annuncio del Regno è stata la ‘passione’ di Gesù, anche loro dovranno avere a cuore la diffusione del Regno.

— Sono persone chiamate ad una vita di comunione, con Gesù prima di tutto e poi tra loro. Esse non aderiscono ad un programma, ad un ‘manifesto’, ma ad una persona.

— I chiamati, rispondono con un’adesione personale, pronta e totale. Si aderisce con tutta la vita e per sempre. Non sono ammessi lavoratori part time.

— Il gruppo non ha nulla della setta. È vero che all’inizio sono solo quattro, ma poi diventeranno dodici e tutti avranno come compito primario l’annuncio del Regno, la sua diffusione in mezzo agli uomini (cf. 6,6ss).

Ciò vuol dire che la loro esperienza di incontro con il Signore e di vita con Lui diventa l’oggetto del loro annuncio. Andranno a presentare una persona, quella verso la quale vale la pena orientare tutta la propria vita. Sono dei ‘convertiti’ che avranno la passione di convertire altre persone. Per la stessa causa. Per il Regno. Perché Dio sia tutto in tutti.

 

Meditazione

 

Da questa domenica la liturgia ci fa ascoltare il Vangelo di Marco, il primo dei Vangeli. Marco a Roma raccolse la predicazione dell’aposto­lo Pietro e, intorno all’anno 70, la ordinò nel suo Vangelo, che divenne poi di riferimento per i Vangeli di Matteo e Luca. Oggi ci viene propo­sto l’inizio della vita pubblica di Gesù e le sue prime parole. Giovani Battista era stato arrestato da Erode e ucciso. Il Signore sente giunto il suo tempo, il tempo del regno di Dio, che egli è venuto ad inaugurare con la buona notizia, il vangelo di Dio. Anche il mondo di oggi ha biso­gno di questa buona notizia in un tempo dove solo le cattive notizie fanno cronaca. Le parole di questa buona notizia sono semplici, piene di speranza, ma anche impegnative: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo».

È giunto a compimento il tempo dell’attesa, quello preparato da Dio mediante i sapienti e i profeti di Israele, rappresentato da Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti. Ora è il tempo del regno di Dio che pren­de avvio con la vita e le opere del Signore Gesù. Gesù non comincia da Gerusalemme, la capitale della provincia romana di Giudea, ma dalla periferia, la Galilea, la più settentrionale delle tre regioni abitate dal popolo d’Israele. Ai tempi di Gesù la Galilea era diventata una regione malfamata a motivo di forti infiltrazioni pagane che contaminavano la purezza della fede e la correttezza dei riti ebraici. Terra anche di gente rivoltosa, mal sopportata dai romani, che allora governavano la Palestina. Ma Gesù, proprio da questa terra periferica e lontana dalla capitale, inizia la predicazione del Regno di Dio; qui raccoglie i primi seguaci e qui, da risorto, attenderà i discepoli per il «secondo» inizio della predicazione evangelica. Insomma, la Galilea sembra assurgere a terra simbolica per ogni missione evangelica. Si potrebbe dire che se c’è da scegliere un luogo da cui partire per annunciare il Vangelo, que­sto dev’essere il luogo periferico, marginale, escluso, disprezzato, pove­ro, che non conta nulla. Nella «Galilea delle genti» si sentì risuonare per la prima volta il Vangelo, la buona notizia. Qui, dove poveri, pagani ed emarginati, zelati rivoluzionari si mescolavano, Gesù cominciò a dire: «il tempo è compiuto», ossia sono finiti i giorni nei quali la violen­za, l’odio, l’abbandono, l’ingiustizia e l’inimicizia hanno il sopravvento, e sono iniziati gli ultimi tempi, quelli della vittoria di Dio sul demonio, del bene sul male, della vita sulla morte. La storia degli uomini subisce una svolta: «il Regno di Dio è vicino», annuncia Gesù.

Il tempo di Dio irrompe nella vita degli uomini in modo inaspettato, mettendo in discussione le abitudini e i tempi consolidati di ciascuno. Questo inizio chiede una scelta in un mondo di uomini e donne trasci­nati dal conformismo, in cui si ha paura di scegliere, di impegnarsi per qualcosa che non sia solo a proprio vantaggio. Due sono le richieste di questo inizio: «Convertitevi e credete nel Vangelo». La novità del Vangelo di Gesù inizia con una richiesta rivolta a ciascuno personal­mente, che è anche il segreto rivoluzionario del cristianesimo. Per cambiare il mondo non si deve innanzitutto chiedere agli altri di cam­biare, ma bisogna cominciare da se stessi. Conversione è infatti cambia­mento di se stessi, del proprio cuore, dei sentimenti, dei pensieri, dell’agire.  Insomma un vero sovvertimento di se stessi. Oggi è facile ed istintivo pretendere che gli altri cambino, ma Gesù lo chiede per prima cosa a ciascuno dei suoi discepoli. Solo così si può vivere da cristiani, altrimenti si è come tutti, conformisti nel lamento e nella rassegnazio­ne, senza sogni e senza visioni per sé e per il mondo. La conversione tuttavia non è un atto magico, ma una risposta al Signore che parla agli uomini. Essa comincia quando si «crede al Vangelo», smettendo di cre­dere solo in se stessi. La fede nasce e cresce in una chiamata, come avvenne quel giorno sul lago di Galilea, quando Gesù incontrò Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni. Erano pescatori, un mestiere che per­metteva una vita dignitosa. In ambedue le situazioni tutto comincia con il «vedere» di Gesù, come avevamo ascoltato già domenica nel Vangelo di Giovanni. Gesù «vede», non è distratto, si accorge di noi, ci guarda nella quotidianità delle diverse occupazioni, cogliendo il desiderio di una vita migliore. Non disprezza il lavoro di quegli uomini, ma rivolge loro un invito: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomi­ni». «Venite dietro a me» è l’invito alla sequela, ad andare dietro a Gesù, non davanti. Davanti sta lui. Il discepolo lo segue per poter imi­tarlo, essere come lui, smettere di fare il protagonista e il padrone della sua vita. Seguire Gesù è la vita del cristiano, per il quale non esiste un tempo di apprendimento dopo il quale si diventa maturi e si smette di seguire Gesù, perché si è diventati maestri. Chi non rimane discepolo per tutta la vita, sarà un pessimo maestro. Poi segue una promessa: «Vi farò diventare pescatori di uomini». Gesù vuole trasformare la vita di quei pescatori, e insegnerà loro un nuovo modo di lavorare, non solo per sé, bensì per gli altri. Il mondo ha bisogno di pescatori, di gente che nel mare cerca uomini e donne che si uniscano con loro a Gesù. È l’inizio della missione. Fin dal primo momento il Signore mostra che chiamata e missione vanno di pari passo. Infatti non esiste cristiano autentico che non sia anche uno che comunica il Vangelo ricevuto, come non esiste Chiesa se non missionaria.

Lo possiamo capire bene dalla vicenda di Giona, profeta difficile che non accetta di buon grado la chiamata di Dio, anche perché lo voleva mandare a Ninive, la capitale di un grande impero, la grande nemica di Israele. Per questo era fuggito una prima volta, ma poi aveva accetta­to di annunciare la Parola di Dio dopo essere stato salvato dall’abisso della morte. Il testo evidenzia la grandezza della città, che Giona cominciò a percorrere. La sorpresa fu grande: non era ancora arrivato a percorrerne la metà, che già i cittadini di Ninive «credettero a Dio» e si convertirono. Avevano ascoltato la parola di Dio proclamata da Giona e questo aveva cambiato il loro cuore. La parola di Dio compie il mira­colo della conversione se viene ascoltata. E Dio mostra la sua grande misericordia davanti a un popolo che ascolta. Erano lontani da Dio, erano nemici di Israele, eppure Dio si preoccupò di loro, perché Dio si accorge della forza del male e cerca uomini che possano essere suoi profeti, comunicare che è possibile cambiare, cessare di compiere il male ascoltando la parola di Dio e facendo il bene.

«Il tempo si è fatto breve», dice Paolo ai cristiani di Corinto. «D’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quel­li che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono come se non gioissero; quelli che comprano come se non possedessero; quel­li che usano i beni del mondo come se non li usassero pienamente; passa infatti la figura di questo mondo» (7, 29-31). Gli affetti, il pianto, il godere, il comprare, l’usare… spesso esauriscono le nostre giornate, la nostra mente, la nostra vita, a tal punto da rinchiuderla come in una rete inestricabile. C’è come una corsa inarrestabile verso il vivere indi­viduale, con il problema centrale dell’affermazione di sé, con il culto scatenato del proprio corpo, con la paura di invecchiare, di non preva­lere… Dopo la fine delle ideologie e dei sogni sul mondo, sembra che l’unica vera passione sia l’amore per se stessi e l’unico vero oltranzismo sia l’individualismo. Il Signore viene dentro questa rete ingarbugliata che imprigiona, mortifica e intristisce con sempre più violenza la nostra vita per scioglierla e per allargarla. Gesù vuole ampliare il nostro cuore all’amore per tante altre persone, vuole che piangiamo non solo su noi stessi ma che ci uniamo semmai al pianto di coloro che sono nell’affli­zione, vuole che la gioia non sia riservata a pochi fortunati ma che tanti possano gioire, vuole che i beni di questo mondo non siano privilegio di alcuni, perché essi sono destinati da Dio a tutti. È quello che intuiro­no i quattro discepoli, dopo aver ascoltato l’invito di Gesù. Il Vangelo è «la» parola sulla nostra vita: indica a ciascuno la sua vocazione, la sua strada, il suo cammino. Quei quattro, anche se non lo avevano capito appieno, si fidarono di quella chiamata e, «subito, lasciarono le reti e lo seguirono». Il Regno di Dio inizia in questo modo, sulle rive del lago di Galilea. E continua lungo la storia con la stessa logica: la parola di Gesù, il Vangelo, percorre le rive delle tante Galilee di oggi cercando uomini e donne disponibili a diventare «pescatori di uomini».

 

L’immagine della domenica

Lago di Pusiano (Lecco)  –    2024

 

 

«La noche sosegada

en par de los levantes de la aurora,

la música callada,

la soledad sonora,

la cena que recrea y enamora».

(Juan de la Cruz, Cántico espiritual B, estrofa 15)

 

 

Preghiere e racconti

 

Il Regno e la guarigione dal male di vivere

Marco ci conduce al momento sorgivo e fresco del Vangelo, a quando una notizia bella inizia a correre per la Galilea, annunciando con la prima parola: il tempo è compiuto, il regno di Dio è qui. Gesù non dimostra il Regno, lo mostra e lo fa fiorire dalle sue mani: libera, guarisce, perdona, toglie barriere, ridona pienezza di relazione a tutti, a cominciare dagli ultimi della fila. Il Regno è Dio venuto come guarigione dal male di vivere, come fioritura della vita in tutte le sue forme.

La seconda parola di Gesù chiede di prendere posizione: convertitevi, giratevi verso il Regno. C’è un’idea di movimento nella conversione, come nel moto del girasole che ogni mattino rialza la sua corolla e la mette in cammino sui sentieri del sole. Allora: “convertitevi” cioè “giratevi verso la luce perché la luce è già qui”. Ogni mattino, ad ogni risveglio, posso anch’io “convertirmi”, muovere pensieri e sentimenti e scelte verso una stella polare del vivere, verso la buona notizia che Dio oggi è più vicino, è entrato di più nel cuore del mondo e nel mio, all’opera con mite e possente energia per cieli nuovi e terra nuova.

Anch’io posso costruire la mia giornata su questo lieta certezza, non tenere più gli occhi bassi sui miei mille problemi, ma alzare il capo verso la luce, verso il Signore che mi assicura: io sono con te, non ti lascio più, non sarai mai più abbandonato. Credete “nel” Vangelo. Non al, ma nel Vangelo. Non basta aderire ad una dottrina, occorre buttarsi dentro, immergervi la vita, derivarne le scelte.

Camminando lungo il lago, Gesù vide… Vede Simone e in lui intuisce Pietro, la Roccia. Vede Giovanni e in lui indovina il discepolo dalle più belle parole d’amore. Un giorno, guarderà l’adultera trascinata a forza davanti a lui, e in lei vedrà la donna capace di amare bene di nuovo. Il Maestro guarda anche me, nei miei inverni vede grano che germina, generosità che non sapevo di avere, capacità che non sospettavo, lo sguardo di Gesù rende il cuore spazioso. Dio ha verso di me la fiducia di chi contempla le stelle prima ancora che sorgano.

Seguitemi, venite dietro a me. Gesù non si dilunga in motivazioni, perché il motivo è lui, che ti mette il Regno appena nato fra le mani. E lo dice con una frase inedita: Vi farò pescatori di uomini. Come se dicesse: “vi farò cercatori di tesori”. Mio e vostro tesoro sono gli uomini. Li tirerete fuori dall’oscurità, come pesci da sotto la superficie delle acque, come neonati dalle acque materne, come tesoro dissepolto dal campo. Li porterete dalla vita sommersa alla vita nel sole. Mostrerete che è possibile vivere meglio, per tutti, e che il Vangelo ne possiede la chiave.

(Ermes Ronchi)

 

Racconto di vocazione

Ognuno di noi, soprattutto se anziano ma non colpito da demenza senile, va sovente con i suoi ricordi al passato, in particolare a quello che è stato l’inizio, il cominciare di una vicenda, di un amore che lo ha segnato per tutta la vita. Anche il cristiano fa questa operazione di cercare nel passato, quasi per riviverla, l’ora della conversione; o meglio, per moltissimi l’ora della vocazione, quando si è diventati consapevoli con il cuore che forse ci era rivolto un monito, che forse il Signore voleva che fossimo coinvolti nella sua vita più di quanto lo eravamo stati fino ad allora. Noi la chiamiamo, appunto, ora della vocazione.

La pagina del vangelo di questa domenica vuole essere proprio un racconto di vocazione in cui può specchiarsi chi predispone tutto per ascoltare la chiamata di Gesù, oppure può essere l’occasione per ricordarla come un evento del passato, che può avere ancora o non avere più forza, addirittura significato. Gesù torna in Galilea, la terra della sua infanzia, per iniziare a proclamare un messaggio che sentiva dentro di sé come una missione da parte di Dio Padre.

Incomincia questa vita di predicazione e di itineranza dopo che Giovanni, il suo rabbi, il suo maestro, colui che lo ha educato nella vita conforme all’alleanza con Dio e lo ha anche immerso nelle acque del Giordano (cf. Mc 1,9), è stato messo in prigione da Erode. È la fine di chi è profeta, e Gesù subito se la trova davanti come necessitas umana: se egli continuerà sulla strada del suo maestro, prima o poi conoscerà la persecuzione e la morte violenta.

Gesù inizia a proclamare la buona notizia, il Vangelo di Dio, nella consapevolezza che il tempo della preparazione, per Israele tempo dell’attesa dei profeti, che il tempo della pazienza di Dio ha raggiunto il suo compimento, come il tempo di una donna gravida. Alla fine della gravidanza c’è il parto, e così Gesù annuncia: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”.

Ecco la sintesi della sua predicazione: c’è l’inizio di un tempo nuovo in cui è possibile far regnare Dio nella vita degli uomini; affinché questo avvenga occorre convertirsi, ritornare a Dio, e poi credere alla buona notizia che è la presenza e la parola di Gesù stesso. Sì, è solo un versetto che dice questa novità, eppure è l’inizio di un tempo che dura ancora oggi e qui: è possibile che Dio regni su di me, su di te, su di noi, e così avviene che il regno di Dio è venuto.

Di fronte a questa gioiosa notizia, ma anche a questa nuova possibilità offerta dalla presenza di Gesù, ci siamo noi uomini e donne, che ancora oggi ascoltiamo il Vangelo. Che cosa facciamo? Come reagiamo? Stiamo forse vivendo quotidianamente, intenti al nostro lavoro, alla nostra occupazione quotidiana per guadagnarci da vivere, poco importa quale sia; oppure siamo in un momento di pausa; oppure siamo con altri a discorrere… Non c’è un’ora prestabilita: di colpo nel nostro cuore, senza che gli altri si accorgano di nulla, si accende una fiammella.

“Chissà? Chissà se sento una voce? Riuscirò a rispondere ‘sì’? Sarà per me questa voce che mi chiama ad andare? Dove? A seguire chi? Gesù? E come faccio? Sarà possibile?”. Tante domande che si intersecano, che svaniscono e ritornano, ma se sono ascoltate con attenzione allora può darsi che in esse si ascolti una voce più profonda di noi stessi, una voce che vien da un aldilà di noi stessi, eppure attraverso noi stessi: la voce del Signore Gesù! È così che inizia un rapporto tra ciascuno di noi e lui, sì, lui, il Signore, presenza invisibile ma viva, presenza che non parla in modo sonoro ma attrae…

Qui nel vangelo secondo Marco questo processo di vocazione è sintetizzato e per così dire stilizzato dall’autore, che narra solo l’essenziale: Gesù passa, vede e chiama; qualcuno ascolta e prende sul serio la sua parola “Seguimi!” e si coinvolge nella sua vita. È ciò che è vero per tutti ed è inutile dire di più: sarebbe solo un inseguire processi psicologici… Ma l’essenziale è stato detto, una volta per tutte: accolta la vocazione, si abbandonano le reti, cioè il mestiere, si abbandonano il padre e la barca, cioè l’impresa famigliare, e così ci si spoglia e si segue Gesù.

Attenzione però: la vocazione è un’avventura piena di grandezza ma anche di miseria! Per comprenderlo, è sufficiente seguire nei vangeli la vicenda di questi primi quattro chiamati. Il primo, Pietro, sul quale Gesù aveva riposto molta fiducia, vivendo vicino a lui spesso non capisce nulla di lui (cf. Mc 8,32; Mt 16,22), al punto che Gesù è costretto a chiamarlo “Satana” (Mc 8,33; Mt 16,23); a volte è distante da Gesù fino a contraddirlo (cf. Gv 13,8); a volte lo abbandona per dormire (cf. Mc 14,37-41 e par.); e infine lo rinnega, dice di conoscere se stesso e di non avere mai conosciuto Gesù (cf. Mc 14,66-72 e par.; Gv 18,17.25-27).

Andrea, Giacomo e Giovanni in molte situazioni non capiscono Gesù, lo fraintendono e non conoscono il suo cuore; i due figli di Zebedeo, in particolare, sono rimproverati aspramente da Gesù quando invocano un fuoco dal cielo per punire chi non li ha accolti (cf. Lc 9,54-55); e sempre essi, al Getsemani, dormono insieme a Pietro. Ma c’è di più, e Marco lo sottolinea in modo implacabile: coloro che qui, “abbandonato tutto seguirono Gesù”, nell’ora della passione, “abbandonato Gesù, fuggirono tutti” (Mc 14,50)…

Povera sequela! Sì, la mia sequela, la tua sequela, caro lettore. Non abbiamo davvero molto di cui vantarci… Dobbiamo solo invocare da parte di Dio tanta misericordia e ringraziarlo perché, nonostante tutto, stiamo ancora dietro a Gesù e tentiamo ancora, giorno dopo giorno, di vivere con lui.

(Enzo Bianchi)

 

Signore, vieni a invitarci

(…) Per essere un buon danzatore, con Te come con tutti,

non occorre sapere dove la danza conduce.

Basta seguire,

essere gioioso,

essere leggero,

e soprattutto non essere rigido.

Non occorre chiederti spiegazioni

sui passi che ti piace fare.

Bisogna essere come un prolungamento,

vivo ed agile, di te.

E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l’orchestra

scandisce.

(…)

Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito,

e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica;

dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza,

che la tua Santa Volontà

è di una inconcepibile fantasia,

e che non c’è monotonia e noia

se non per le anime vecchie,

che fanno tappezzeria

nel ballo gioioso del tuo amore.

Signore, vieni a invitarci.

(…)

Se certe arie sono spesso in minore, non ti diremo

che sono tristi;

se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo

che sono logoranti.

E se qualcuno ci urta, la prenderemo in ridere;

sapendo bene che questo capita sempre quando si danza.

Signore, insegnaci il posto

che tiene, nel romanzo eterno

avviato fra te e noi,

il ballo singolare della nostra obbedienza.

Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni;

in essa quel che tu permetti

da suoni strani

nella serenità di quel che tu vuoi.

Insegnaci a indossare ogni giorno

la nostra condizione umana

come un vestito da ballo che ci farà amare da te,

tutti i suoi dettagli

come indispensabili gioielli.

Facci vivere la nostra vita,

non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato,

non come un match dove tutto è difficile,

non come un teorema rompicapo,

ma come una festa senza fine

in cui l’incontro con te si rinnova,

come un ballo,

come una danza,

fra le braccia della tua grazia,

nella musica universale dell’amore.

Signore, vieni a invitarci.

(Madeleine DELBRÉL, La danza dell’obbedienza, in Noi delle strade, Torino, Gribaudi, 1988, 86-89).

 

Conversione

«Convertitevi e credete all’Evangelo!» (Marco 1,15 ); «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicinissimo!» (Matteo 4,17). La richiesta di conversione è al cuore delle due differenti redazioni del grido con cui Gesù ha dato inizio al suo ministero di predicazione. Collocandosi in continuità con le richieste di ritorno al Signore di Osea, di Geremia e di tutti i profeti fino a Giovanni Battista (cfr. Matteo 3,2), anche Gesù chiede conversione, cioè ritorno (in ebraico teshuvah) al Dio unico e vero. Questa predicazione è anche quella della chiesa primitiva e degli apostoli (cfr. Atti 2,38; 3,19) e non può che essere la richiesta e l’impegno della chiesa di ogni tempo.

 

Il verbo shuv, che appunto significa «ritornare», è connesso a una radice che significa anche «rispondere» e che fa della conversione, del sempre rinnovato ritorno al Signore, la responsabilità della chiesa nel suo insieme e di ciascun singolo cristiano. La conversione non è infatti un’istanza etica, e se implica l’allontanamento dagli idoli e dalle vie di peccato che si stanno percorrendo (cfr. 1 Tessalonicesi 1,9; 1 Giovanni 5,21), essa è motivata e fondata escatologicamente e cristologicamente: è in relazione all’Evangelo di Gesù Cristo e al Regno di Dio, che in Cristo si è fatto vicinissimo, che la realtà della conversione trova tutto il suo senso. Solo una chiesa sotto il primato della fede può dunque vivere la dimensione della conversione. E solo vivendo in prima persona la conversione la chiesa può anche porsi come testimone credibile dell’Evangelo nella storia, tra gli uomini, e dunque evangelizzare. Solo concrete vite di uomini e donne cambiate dall’Evangelo, che mostrano la conversione agli uomini vivendola, potranno anche richiederla agli altri. Ma se non c’è conversione, non si annuncia la salvezza e si è totalmente incapaci di richiedere agli uomini un cambiamento. Di fatto, dei cristiani mondani possono soltanto incoraggiare gli uomini a restare quel che sono, impedendo loro di vedere l’efficacia della salvezza: così essi sono di ostacolo all’evangelizzazione e depotenziano la forza dell’Evangelo. Dice un bel testo omiletico di Giovanni Crisostomo: «Non puoi predicare? Non puoi dispensare la parola della dottrina? Ebbene, insegna con le tue azioni e con il tuo comportamento, o neobattezzato. Quando gli uomini che ti sapevano impudico o cattivo, corrotto o indifferente, ti vedranno cambiato, convertito, non diranno forse come i giudei dicevano dell’uomo cieco dalla nascita che era stato guarito: “È lui?”. “Sì, è lui!” “No, ma gli assomiglia”. “Non è forse lui?”». Possiamo insomma dire che la conversione non coincide semplicemente con il momento iniziale della fede in cui si perviene all’adesione a Dio a partire da una situazione «altra», ma è la forma della fede vissuta.

(Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, 67-70).

 

Vieni, seguimi!

Secondo Girolamo, la parola di vocazione che Gesù pronuncia corrisponde a una nuova creazione. Chi si incontra con Gesù rimane affascinato dal suo volto, scopre la sua realtà e intraprende il cammino di ritorno al Padre.

E subito li chiamò: e quelli, lasciato il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni, lo seguirono. Qualcuno potrebbe dire: — Ma questa fede è troppo temeraria. Infatti, quali segni avevano visto, da quale maestà erano stati colpiti, da seguirlo subito dopo essere stati chiamati? Qui ci vien fatto capire che gli occhi di Gesù e il suo volto dovevano irradiare qualcosa di divino, tanto che con facilità si convertivano coloro che lo guardavano. Gesù non dice nient’altro che «seguitemi», e quelli lo seguono. È chiaro che se lo avessero seguito senza ragione, non si sarebbe trattato di fede ma di temerarietà. Infatti, se il primo che passa dice a me, che sto qui seduto, vieni, seguimi, e io lo seguo, agisco forse per fede?

Perché dico tutto questo? Perché la stessa parola del Signore aveva l’efficacia di un atto: qualunque cosa egli dicesse, la realizzava. Se infatti «egli disse e tutto fu fatto, egli comandò e tutto fu creato» [Sal 148,5], sicuramente, nello stesso modo, egli chiamò e subito essi lo seguirono.

«E subito li chiamò: e quelli subito, lasciato il loro padre Zebedeo…» ecc. «Ascolta, figlia, e guarda, e porgi il tuo orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre: il re desidera la tua bellezza» [Sal 44,11ss.]. Essi dunque lasciarono il loro padre nella barca. Ascolta, imita gli apostoli: ascolta la voce del Salvatore, e trascura la voce carnale del padre. Segui il vero Padre dell’anima e dello spirito, e abbandona il padre del corpo. Gli apostoli abbandonano il padre, abbandonano la barca, in un momento abbandonano ogni loro ricchezza: essi, cioè, abbandonano il mondo e le infinite ricchezze del mondo. Ripeto, abbandonarono tutto quanto avevano: Dio non tiene conto della grandezza delle ricchezze abbandonate, ma dell’animo di colui che le abbandona. Coloro che hanno abbandonato poco perché poco avevano, sono considerati come se avessero abbandonato moltissimo.

(GIROLAMO (347-420), Commento al vangelo di Marco, 2 (Tr.: R. MINUTI-R. MARSIGLIO, Roma, 1965, 35-36).

 

Butto la rete

Signore, la mia sola sicurezza sei tu, come il mare che ho davanti e nel quale butto la rete della mia vita. Anche se finora non ho pescato nulla, anche se a volte non ne ho la voglia, io so, Signore, che se avrò la forza di buttare continuamente questa rete, troverò il senso della verità.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto. Pensieri e lettre spirituali 1977-2005, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 58).

 

Preghiera

Signore, tu hai aperto il mare e sei venuto fino a me;

tu hai spezzato la notte e hai inaugurato per la mia vita un giorno nuovo!

Tu mi hai rivolto la tua Parola e mi hai toccato il cuore;

mi hai fatto salire con te sulla barca e mi hai portato al largo.

Signore, Tu hai fatto cose grandi!

Ti lodo, ti benedico e ti ringrazio, nella tua Parola, nel tuo Figlio Gesù e nello Spirito Santo.

Portami sempre al largo, con te, dentro di te e tu in me,

per gettare reti e reti di amore,

di amicizia, di condivisione,

di ricerca insieme del tuo volto e del tuo regno già su questa terra.

Signore, sono peccatore, lo so, ma anche per questo ti ringrazio, perché tu non sei venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori e io ascolto la tua voce e ti seguo.

Ecco, Padre, lascio tutto e vengo con te…

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi, Chinellato.

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

III DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

II DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 1Samuele 3,3b-10.19

 

  In quei giorni, Samuèle dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio. Allora il Signore chiamò: «Samuèle!» ed egli rispose: «Eccomi», poi corse da Eli e gli disse: «Mi hai chiamato, eccomi!». Egli rispose: «Non ti ho chiamato, torna a dormire!». Tornò e si mise a dormire. Ma il Signore chiamò di nuovo: «Samuèle!»; Samuèle si alzò e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Ma quello rispose di nuovo: «Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!». In realtà Samuèle fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore.

Il Signore tornò a chiamare: «Samuèle!» per la terza volta; questi si alzò nuovamente e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane. Eli disse a Samuèle: «Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”». Samuèle andò a dormire al suo posto. Venne il Signore, stette accanto a lui e lo chiamò come le altre volte: Samuèle, Samuèle!». Samuèle rispose subito: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta». Samuèle crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole.

 

  • Come per ogni personaggio chiamato a svolgere un ruolo importante negli eventi salvifici (Mosè, Giudici, Re, Profeti, ecc.) il racconto biblico si volge a considerare la loro infanzia, insistendo sulla gratuità della loro elezione e chiamata da parte di Dio, allo stesso modo le imprese del Profeta Samuele ed il suo ruolo estremamente decisivo e delicato agli inizi della monarchia (1030 a.C.; 1Sam 4ss.) sono precedute dalla storia della sua nascita e infanzia (primi 3 capitoli di 1Sam). Tre i motivi essenziali che si compongono nel racconto di questa infanzia: (1) sterilità di Anna, madre di Samuele, nascita del figlio impetrato da Dio, e ingresso del bambino nel tempio; (2) comportamento empio dei due figli del sacerdote Eli che fa da efficace contrasto con la docilità del giovane Samuele; (3) la rivelazione di Dio a Samuele. La nostra lettura fa parte di questo ultimo motivo, da riporre però sullo sfondo anche degli altri due.
  1. Annotazioni

— «Samuèle dormiva nel tempio del Signore» (v. 3). Richiamo al fatto che Samuele è stato consacrato per sempre al servizio del Signore, per espressa volontà della madre Anna. Finora il bambino è presentato nella sua dimensione di servitore del tempio, il che non ne fa ancora un profeta, idoneo ad ascoltare la voce di Dio e ad avere delle visioni (v. 7). È col presente episodio che egli riceve tale investitura profetica.

— Il dettaglio «la lampada di Dio non era ancora spenta» (v. 3), oltre che ricordarci che non è ancora mattina (la lampada ardeva di notte davanti al Signore, cf. Lv 24.3-4), serve anche, indirettamente, ad indicare uno dei servizi che il piccolo prestava nel tempio: tenere desta la fiamma della lampada).

— La chiamata avviene presso l’arca di Dio (vv. 3-4). Non si tratta di un sogno, perché il ragazzo viene svegliato dalla voce, e neppure si tratta di «visione» in senso stretto, perché Samuele non vede, ma ascolta solo il Signore.

— Importante l’insistenza sul nome da parte di Dio, come in tutte le sue chiamate (ad es. in Es 3,4: «Mosè. Mosè!»). Le chiamate di Dio non sono mai generiche, anonime, impersonali. Pronunziandone il nome, Dio mostra di conoscere il nucleo più vero e profondo dell’essere e della storia dell’uomo cui si rivolge.

— Ogni chiamata esige una risposta. Anche se il piccolo Samuele crede che quella voce venga dal sacerdote Eli, non per questo la sua obbedienza si mostra meno pronta; anzi è questa docilità al sacerdote Eli («Eccomi») e alle sue indicazioni, che in definitiva lo apre alla rivelazione di Dio.

— «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (vv. 9-10). Appunto la disponibilità all’obbedienza e all’ascolto della parola di Dio costituisce, da parte dell’uomo, la condizione indispensabile per l’investitura e l’esercizio della profezia.

— «Il Signore fu con lui» (v. 19). L’autorità di un profeta non consiste principalmente nella ricchezza di doni e di visioni straordinarie, ma nel fatto che Dio è dalla sua parte. E siccome la sua presenza è fedele e indefettibile, nessuna parola che il profeta pronuncerà in suo nome, potrà rivelarsi fallace o senza valore. Ecco perché nessuna di esse potrà «cadere a terra», cioè rivelarsi vuota e priva di effetto: Dio compie comunque e infallibilmente ciò che ha annunciato per mezzo del suo profeta, ne è il supremo garante.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 6,13c-15a.17-20

 

    Fratelli, il corpo non è per l’impurità, ma per il Signo­re, e il Signore è per il corpo. Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza.  Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impu­rità, pecca contro il proprio corpo.

Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo! 

 

  • Paolo scrive la Prima lettera ai Corinzi probabilmente verso la fine del 55 e gli inizi del 56 d. C. In essa affiorano molteplici questioni e tanti problemi che si sono verificati a partire dalla sua evangelizzazione a Corinto e specie dopo la sua partenza: tra le altre cose si era manifestato un grande relativismo in campo sessuale, che si faceva scudo del principio della libertà cristiana. Dal momento che il Cristo ci ha affrancati da ogni giogo, tutto ci è permesso (6,12). La lettura di oggi contiene una parte importante della risposta dell’Apostolo a questo modo di relativizzare la morale sessuale.
  1. Annotazioni

— «Il corpo non è per l’impurità, ma per il Signo­re» (v. 13b). Nel v. precedente Paolo ha appena citato le parole dei lassisti, tre volte corrette dalle sue: «”Tutto mi è lecito!”. Ma non tutto giova. “Tutto mi è lecito”. Ma io non mi lascerò dominare da nulla. “I cibi sono per il ventre ed il ventre per i cibi”. Ma Dio distruggerà questi e quelli» (vv. 12-13a). Sulla linea di questa decisa contestazione delle tesi dei lassisti, nell’affermare i limiti della libertà ed il rischio che questa si risolva in nuove forme di schiavitù, Paolo procede nel mettere in risalto la dignità del corpo umano nei piani di Dio. Il corpo non è destinato in ultima istanza all’appagamento di istinti sessuali, ma ad essere dimora del Signore ed a essere risuscitato (v. 14); ed il Signore è per il corpo è da intendere nel senso che la salvezza largitaci tramite il sacrificio del Signore si estende anche al corpo. Anche nell’Eucaristia il «corpo del Signore» è dato e sacrificato per la salvezza non solo dell’anima ma anche del corpo del credente.

I vostri corpi sono membra di Cristo (vv. 15-17). L’assurdità del peccato di impudicizia non è nella trasgressione di una norma, ma nel tradimento dell’unione profonda tra il fedele ed il Signore (per cui forma con Lui un solo corpo) sostituendola con l’unione col corpo di una prostituta. Questo tradimento costituisce una vera decadenza della dignità del corpo, è come svenderlo. E d’altra parte il peccato d’impudicizia non si ferma alla sola carne, ma implica un decadimento delle facoltà di tutta la persona, chiamata invece a diventare col battesimo un solo spirito col Signore (v. 17).

Il vostro corpo è tempio dello Spirito santo, che è in voi (v. 19). Analogia di grandissimo significato. Nel mondo pagano i templi erano intangibili perché appartenevano alla divinità. Affermando che il corpo di un battezzato è tempio dello Spirito (implicitamente di tutta la Trinità), si sottolineano due conseguenze di grave peso teologico ed esistenziale: a) la prima è che il corpo è intangibile, non appartiene più a noi (v. 19), pertanto non ne possiamo fare quel che vogliamo, altrimenti lo alieniamo al suo vero proprietario che è Dio; b) come si riscatta uno schiavo e se ne deposita il prezzo in un tempio, così Dio ha riscattato dalla schiavitù anche il nostro corpo, ed ha pagato a caro prezzo (il sangue di Cristo) tale riscatto (v. 20). Dobbiamo esserne riconoscenti e valerci del nostro corpo redento per glorificare Dio. Nessun disprezzo per la nostra corporeità, ma stima, rispetto ed uso orientato alla gloria di Dio.

 

Vangelo: Giovanni 1,35-42

 

  In quel tempo, Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbi – che, tradotto, significa maestro -, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui: erano circa le quattro del pomeriggio.

Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa», che significa Pietro.

 

Esegesi

 

Siamo nel quadro di quella che gli studiosi chiamano «settimana inaugurale» del IV Vangelo. In realtà, dopo l’esordio solenne del Prologo, (1,1-18) gli inizi della vita pubblica e del ministero di Gesù sono scanditi da indicazioni di tempo («il giorno dopo», vv. 29.35.42; «tre giorni dopo» 2,1) che consentono di inquadrare gli eventi dal Battesimo di Gesù alle nozze di Cana nel corso di una settimana. Quadro cronologico che assume gran rilievo teologico in riferimento alla settimana della creazione (cf. Gen 1): col ministero di Gesù si rinnova profondamente il mondo creato da Dio: si tratta di una nuova creazione (cf. Gv 20,22).

  1. Annotazioni

— «Giovanni stava con due…» (v. 35). Riferimento al primo giorno della settimana inaugurale (testimonianza di Giovanni Battista alla dignità superiore di Gesù) e al secondo giorno (battesimo nel Giordano, il Battista presenta Gesù come l’Agnello di Dio e il Figlio di Dio, vv. 29.34). Con la lettura di oggi siamo al terzo giorno; a seguito della testimonianza data dal Battista, due dei suoi discepoli (uno dei quali è Andrea, fratello di Simon Pietro, v. 40) si mettono al seguito di Gesù. Tra Giovanni e Gesù non c’è concorrenza e conflitto, ma continuità, al servizio della missione salvifica di Gesù: è lo stesso Precursore a mediare e, per così dire, incoraggiare il passaggio dal suo seguito al seguito di Gesù.

— «Ecco l’agnello di Dio!» (v. 36). In questo titolo che Giovanni attribuisce a Gesù, confluiscono importanti tratti di teologia dell’Antico Testamento in riferimento alla missione salvifica di Gesù: a) da una parte, il richiamo al «Servo sofferente» di JHWH, che si carica dei dolori degli uomini ed è trafitto per i loro delitti (Is 53); b) dall’altra, il richiamo alla funzione espiatrice e sacrificale dell’agnello nei riti della Legge (Lv 14) e soprattutto nel rito dell’agnello pasquale, che simboleggia la redenzione di Israele (Es 12; At 8,31-35; ecc.). Tutto questo proclama Giovanni, fissando lo sguardo su Gesù: non uno sguardo esterno, ma un vedere «dentro» (greco: en-blepō) penetrando il mistero di Cristo.

— «Che cosa cercate?» (v. 38). Sono le prime parole pronunciate da Gesù nel IV Vangelo. Esse sono rivolte programmaticamente ad ogni uomo: che cosa stai cercando? Ed è un invito al discepolo a chiarire a se stesso il senso del suo cammino nella vita e di che cosa va in cerca. Chi vuole seguire Gesù è animato dal profondo desiderio di scoprire la verità e incontrare qualcuno.

— «Dove dimori?» (v. 38). La domanda ha un senso teologico molto profondo: chiedere «dove» sta Gesù equivale a porre una domanda sulla sua esistenza e origine, sul suo mistero. I discepoli non vogliono sapere «qualcosa», ma conoscere e incontrare Qualcuno.

— «Venite e vedrete» (v. 39). Tappa fondamentale nella sequela cristiana (cf. v. 46: Vieni e vedi). Tale cammino non dipende dalla sola iniziativa dell’uomo, anche se la suppone: l’invito e l’elezione partono dal Signore. Invito non ad un approccio di tipo scolastico (prendere contatto con l’insegnamento di un maestro), ma ad un’esperienza diretta e personale di Gesù che porta il discepolo a credere in lui. Gesù avrebbe potuto soggiogarli con la forza dei suoi miracoli, invece li invita a fare comunione di vita con Lui e col Padre, in cui dimora (cf. 1,18).

— Da questo punto di vista il verbo «vedere» (andarono e videro) assume — come spesso nel IV Vangelo — il senso forte di contemplazione di fede, che porta a «dimorare presso Gesù», ossia ad entrare gradualmente nel suo mistero. Le relazioni eterne del Figlio col Padre e le relazioni d’amore dei discepoli con le Persone divine vengono solitamente espresse nel Vangelo di Giovanni con il verbo meno, che vuol dire «rimanere, dimorare» in e con qualcuno: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). «Rimanete in me ed io in voi» (15,4).

— «Erano circa le quattro del pomeriggio» (v. 39). Alla lettera: «era circa l’ora decima». Notazione cronologica, che oltre ad avere il valore suggestivo di una personale ed emotiva partecipazione ai fatti, vale anche come importante sottolineatura. Quella fu un’ora unica e indimenticabile: fu l’ora della chiamata di Gesù, cui i due primi discepoli aderirono.

— «Abbiamo trovato il Messia» (v. 40). Le successive chiamate si sviluppano «a catena»: l’esperienza di un discepolo attira gli altri, e pone le premesse umane per una successiva chiamata di Gesù. «Trovare» non è semplice incontrare, ma corrisponde al senso denso di «cercare»: epilogo e approdo di un cammino di ricerca. Si noti la progressione dei titoli: precedentemente i discepoli avevano chiamato Gesù semplicemente «Rabbi» o Maestro. Qui dicono di aver trovato il Messia, colui che Israele attendeva come liberatore e salvatore da parte di Dio. Da un titolo all’altro, il cammino di fede è meraviglioso e graduale.

— «Fissando lo sguardo su di lui» (v. 42). Se è Andrea a condurre il fratello da Gesù, la chiamata di Pietro non dipende da questa mediazione di ordine umano. Il primato dell’iniziativa di Gesù anche in questo caso è sottolineato da due tratti; il primo è lo sguardo interiore di Gesù (in gr. enblepō), indice della conoscenza interiore e della radicale trasformazione che esso produce nella vita di lui (vedi anche il caso di Natanaele: «Donde mi conosci?», (v. 48); il secondo è il cambiamento di nome messo in luce fin dal momento della chiamata ed è compito che il Cristo intende affidargli in riferimento alla edificazione della sua Chiesa (cf. Mt 16,16-18): il nome di «Roccia» (Kephas) lo riceve da colui che, stando a Paolo, è la vera roccia (cf. 1Cor 10,4).

 

Meditazione

 

Il racconto evangelico di questa domenica si apre con la figura di Giovanni che si staglia inamovibile e ferma («il giorno dopo stava ancora là») sul limitare di quel Giordano che, il

giorno prima, era stato spettatore privilegiato della discesa dello Spirito su Gesù, Messia ancora sconosciuto a Israele (cfr. Gv 1,29-34). Uno sguardo vivo e penetrante e una mano puntata in direzione dell’«agnello di Dio» che passa, dicono tutta la forza e la grandezza di questo testimone singolare, il cui compito sta tutto nel riconoscere Gesù e additarlo ai suoi discepoli (saranno poi loro a seguire il Maestro, mentre Giovanni, terminata la sua testimonianza, si eclisserà silenziosamente). Giovanni è colui che vede e capisce e, per questo, come un vero testimone, può indicare e annunciare a coloro che ancora non hanno visto e capito.

All’inizio di ogni cammino di discepolato, all’inizio di ogni vocazione, c’è sempre la testimonianza di qualcuno che ci aiuta a percepire la voce di Dio (normalmente non così facile da riconoscere) e a farci intravedere i tratti del suo volto (che rischiano, altrimenti, di rimanere oscuri ai nostri occhi). Così è stato per il giovane Samuele: la guida esperta e sicura dell’anziano Eli lo ha condotto all’incontro con Dio, aiutandolo a discernere la sua voce nell’oscurità della notte (cfr. la prima lettura: 1Sam 3,3ss.). In questo senso, l’accoglienza della testimonianza di un altro bandisce ogni pretesa di scoprire da soli la via da percorrere.

«Ecco l’agnello di Dio!» (v. 36). All’ascolto di questa parola, i due discepoli si mettono subito in movimento sulle tracce di Gesù. L’ascolto precede sempre la sequela e si pone come radice di ogni vera esperienza di Dio: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,10, usato anche come canto al vangelo). È l’atteggiamento primo da assumere nei confronti di quel Dio che chiama e ci dona la sua parola di vita.

Il voltarsi di Gesù e la seguente sua domanda (v. 38) mostrano che, nell’itinerario di ricerca, l’iniziativa rimane sempre sua. «Che cercate?»: sono le prime parole che Gesù pronuncia nel quarto vangelo e sono parole che interrogano e mettono a nudo le motivazioni e i desideri reconditi dei discepoli. Ma sono parole che interpellano e provocano anche i lettori di ogni tempo, anche noi che ci accingiamo a ripercorrere il cammino di sequela che molti altri, prima di noi, hanno già percorso (ed è per questo, forse, che uno dei due discepoli che seguono Gesù rimane anonimo: ognuno può prenderne il posto…).

Alla cruciale e decisiva domanda di Gesù, i discepoli, a loro volta, rispondono ponendo un’altra domanda, anch’essa centrale: «Rabbì, dove dimori?» (v. 38b). È importante iniziare la ricerca, muovere i primi passi nel cammino della fede, con la domanda giusta. La domanda dei discepoli non è infatti banale: essa esprime il desiderio di conoscere l’identità di Gesù, il mistero della sua persona, la qualità della sua vita (troviamo qui il verbo mén?, «dimorare», «rimanere», molto caro al quarto evangelista) . Il seguito del vangelo ci farà poi scoprire dove sta la «dimora» di Gesù, una dimora, tra l’altro, alla quale il Figlio di Dio vuole condurre tutti coloro che il Padre gli ha affidato (cf r. Gv 14,1-4;17,24).

L’esperienza che Gesù invita a fare è annunciata con due dei più semplici ed elementari verbi: «Venite e vedrete» (v. 39). Due azioni tra le più comuni, che coinvolgono piedi e occhi (come le due estremità di una persona), diventano capaci di qualificare tutto un itinerario di fede. Nel linguaggio giovanneo, infatti, «venire a» e «vedere» sono sinonimi di «credere», perché la fede non è altro che un andare verso Gesù e un vedere diversamente, con occhi nuovi, con occhi che sanno andare oltre il velo della carne per cogliere il cuore di una persona.

Il curioso dettaglio dell’«ora decima» (v. 39), in una narrazione così schematica e priva di riferimenti e particolari precisi, indica il segno indelebile, rimasto nella memoria, di quell’incontro che ha cambiato la traiettoria della vita. Da quell’esperienza di profonda intimità e comunione con Gesù (il «dimorare» con lui) nasce poi il bisogno irresistibile di comunicare la scoperta avvenuta, quasi come un fuoco che, una volta acceso, tende per sua natura a propagarsi in modo inarrestabile (Andrea, che conduce il fratello Simone da Gesù, diventa così il primo anello di una lunga catena…).

«Fissando lo sguardo su di lui» (v. 42). La scena si conclude con lo stesso sguardo con cui era iniziata; solo che ora lo sguardo è quello di Gesù. Gesù guarda Pietro allo stesso modo con cui Giovanni aveva prima guardato Gesù (in entrambi i casi il verbo usato è lo stesso: emblépsas). Sembra quasi che Giovanni abbia potuto riconoscere Gesù perché l’ha guardato con i suoi stessi occhi… È in quello sguardo di Gesù, prima ancora che nella sua parola, che è racchiuso per tutti un futuro nuovo e inatteso: «Tu sei… tu ti chiamerai…».

 

L’immagine della domenica

CERVARA DI ROMA (LAZIO)          –          2011

 

«Se la paura bussa alla tua porta, manda ad aprire la fede e vedrai che non c’è nessuno».

 

(Martin Luther King)

 

 

Preghiere e racconti

 

Un mondo migliore

Carissimi giovani,

[…] Desidero anche ricordarvi le parole che Gesù disse un giorno ai discepoli che gli chiedevano: «Rabbì […], dove dimori?». Egli rispose: «Venite e vedrete» (Gv 1,38-39). Anche a voi Gesù rivolge il suo sguardo e vi invita ad andare presso di lui. Carissimi giovani, avete incontrato questo sguardo? Avete udito questa voce? Avete sentito quest’impulso a mettervi in cammino? Sono sicuro che, sebbene il frastuono e lo stordimento sembrino regnare nel mondo, questa chiamata continua a risuonare nel vostro animo per aprirlo alla gioia piena. Ciò sarà possibile nella misura in cui, anche attraverso l’accompagnamento di guide esperte, saprete intraprendere un itinerario di discernimento per scoprire il progetto di Dio sulla vostra vita. Pure quando il vostro cammino è segnato dalla precarietà e dalla caduta, Dio ricco di misericordia tende la sua mano per rialzarvi.

[…] Un mondo migliore si costruisce anche grazie a voi, alla vostra voglia di cambiamento e alla vostra generosità. Non abbiate paura di ascoltare lo Spirito che vi suggerisce scelte audaci, non indugiate quando la coscienza vi chiede di rischiare per seguire il Maestro. Pure la Chiesa desidera mettersi in ascolto della vostra voce, della vostra sensibilità, della vostra fede; perfino dei vostri dubbi e delle vostre critiche. Fate sentire il vostro grido, lasciatelo risuonare nelle comunità e fatelo giungere ai pastori. San Benedetto raccomandava agli abati di consultare anche i giovani prima di ogni scelta importante, perché «spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore» (Regola di San Benedetto III, 3).

Così, anche attraverso il cammino di questo Sinodo, io e i miei fratelli Vescovi vogliamo diventare ancor più «collaboratori della vostra gioia» (2 Cor 1,24). Vi affido a Maria di Nazareth, una giovane come voi a cui Dio ha rivolto il Suo sguardo amorevole, perché vi prenda per mano e vi guidi alla gioia di un «Eccomi» pieno e generoso (cfr Lc 1,38).

Con paterno affetto,

FRANCESCO

Dal Vaticano, 13 gennaio 2017

 

Dove abita Dio?

Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”. Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare”.

(Tratto da Il cammino dell’uomo, di Martin Buber).

 

Un cane come maestro

Un gruppo di sufi disse al loro maestro amato: “Vorremo onorare il maestro che ti ha formato così egregiamente, con una lapide. Chi fu?”. Rispose: “Il mio maestro fu un cane”. E tra la meraviglia generale proseguì: “Un giorno vidi un cane assetato avvicinarsi ad una pozza d’acqua. Ma, vedendo nell’acqua limpida la propria immagine riflessa, scappò via spaventato temendo che fosse un altro cane. Più cresceva la sete, più tentava di avvicinarsi all’acqua, ma sempre l’immagine riflessa lo spaventava. Alla fine si decide: tuffò la testa nell’acqua, l’immagine sparì e bevve. Allora capii che fino a quando avessi avuto davanti a me stesso il mio “io”, mai sarei giunto a capire Dio”.

(Saggezza islamica,  G. Mandel)

 

Incontrare Cristo

«Incontrare Cristo significa mettervi sulla strada dell’esperienza dell’amore, della gioia, della bellezza, della verità. Decidere di non custodire e di non approfondire il segreto dell’incontro con lui equivarrebbe a condannarsi a una vita senza senso e senza amore. Vorrei soprattutto dirvi, non abbiate paura, non abbiate timore di aprirvi a Cristo, di entrare nel suo mistero».

(Card. C.M. Martini).

 

Che cercate?

Gesù si volse e, visto che lo seguivano, dice loro: che cercate? Qui ci si insegna che Dio non previene la nostra volontà coi suoi doni: ma, quando noi abbiamo fatto il primo passo, quando abbiamo offerto la nostra volontà, allora anch’egli ci da molteplici occasioni di salvezza.

Che cercate? E che è questo? Colui che conosce il cuore degli uomini, colui che possiede a fondo i nostri pensieri, questi interroga? Sì, ma non per apprendere (come si potrebbe dire una cosa simile?), ma per metterli più a loro agio con la domanda, per ispirare maggior confidenza, per mostrar loro che li riteneva degni di un colloquio, è probabile infatti che arrossissero e fossero timorosi, perché si sentivano ignoranti, e avevano udito il maestro affermare di lui grandi cose. Volendo allontanare e la vergogna e il timore li interroga: non li lascia giungere in silenzio fino a casa. Essi tuttavia l’avrebbero seguito ugualmente anche se non li avesse interrogati, e tenendogli dietro sarebbero giunti a casa. Perché dunque li interroga? Per la ragione che ho detto: per conciliarsi il loro animo timido ed esitante, ed infondere fiducia.

Essi poi non dimostrarono il loro desiderio soltanto col seguirlo, ma anche con la domanda che gli rivolsero. Lo chiamano infatti Maestro senza aver ancora ne appreso ne udito nulla da lui, annoverandosi senz’altro tra i suoi discepoli e indicando la ragione per cui l’avevano seguito: il desiderio cioè di udire qualcosa di utile. Ma vedi quanta prudenza. Non dissero: Istruiscici su qualche punto di dottrina o insegnaci qualche altra cosa necessaria. Dicono invece: Dove abiti? Desideravano infatti e parlargli e ascoltarlo con tutta calma. Non rimandano perciò a più tardi, non dicono: Verremo domani e ti ascolteremo quando parlerai in pubblico, ma mostrano che avevano grande desiderio di udirlo, tanto da non essere trattenuti neppure dall’ora tarda. Il sole infatti stava per tramontare: Eran circa le quattro, dice. Perciò Cristo non indica loro la casa o il luogo dove abita: li attira invece anche più a sé mostrando di averli accettati come suoi. E neanche dice: Non sarebbe ora il momento di venirmi a trovare, udrete domani quel che volete udire, ora ritornate a casa, o qualcosa di simile, ma parla loro come fossero amici da lungo tempo. […]

Impariamo anche noi sul loro esempio a tutto posporre all’istruzione nelle cose di Dio, a non ritenere inopportuno nessun momento. Anche se è necessario, per questo, andare in casa di estranei, e avvicinare, noi, uomini oscuri, degli uomini grandi, anche intempestivamente, in qualunque momento, non trascuriamo mai un simile commercio. Abbiano il loro tempo fisso il cibo, i bagni, le cene e le altre cose riguardanti la vita quotidiana: ma l’apprendimento della celeste sapienza non abbia ora determinata: tutti i momenti sono buoni.

(GIOVANNI CRISOSTOMO (350-407), Omelie sul vangelo di Giovanni, 18).

 

Chi stiamo cercando?

Ai primi discepoli che, forse ancora incerti e dubbiosi, si mettono al seguito di un nuovo Rabbì, il Signore chiede: « Che cercate? » (Gv 1,38). In questa domanda possiamo leggere altre radicali domande: che cosa cerca il tuo cuore? Per che cosa ti affanni? Stai cercando te stesso o stai cercando il Signore tuo Dio? Stai inseguendo i tuoi desideri o il desiderio di Colui che ha fatto il tuo cuore e lo vuole realizzare come Lui sa e conosce? Stai rincorrendo solo cose che passano o cerchi Colui che non passa? « In questa terra della dissomiglianza, di che cosa dobbiamo occuparci, Signore Dio? Dal sorgere del sole al suo tramonto vedo uomini travolti dai vortici di questo mondo: alcuni cercano ricchezze, altri privilegi, altri ancora le soddisfazioni della popolarità », osservava san Bernardo.10

« Il tuo volto, Signore, io cerco » (Sl 26,8) è la risposta della persona che ha compreso l’unicità e l’infinita grandezza del mistero di Dio e la sovranità della sua santa volontà; ma è anche la risposta, sia pur implicita e confusa, di ogni creatura umana in cerca di verità e felicità. Quaerere Deum è stato da sempre il programma di ogni esistenza assetata di assoluto e di eterno. Molti tendono oggi a considerare mortificante qualunque forma di dipendenza; ma appartiene allo statuto stesso di creatura l’essere dipendente da un Altro e, in quanto essere in relazione, anche dagli altri.

Il credente cerca il Dio vivo e vero, il Principio e il Fine di tutte le cose, il Dio non fatto a propria immagine e somiglianza, ma il Dio che ci ha fatto a sua immagine e somiglianza, il Dio che manifesta la sua volontà, che indica le vie per raggiungerlo: « Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra » (Sl 15,11).

Cercare la volontà di Dio significa cercare una volontà amica, benevola, che vuole la nostra realizzazione, che desidera soprattutto la libera risposta d’amore al suo amore, per fare di noi strumenti dell’amore divino. È in questa via amoris che sboccia il fiore dell’ascolto e dell’obbedienza.

(CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÁ DI VITA APOSTOLICA, Il servizio dell’autorità e l’obbedienza, n. 4).

 

Dio nella quotidianità

A mezzanotte l’aspirante asceta annunciò: «Questo è il tempo di lasciare la mia casa e di andare in cerca di Dio. Ah, chi mi trattenne tanto a lungo in questa illusione?» Dio sussurrò: «Io». Ma l’uomo aveva le orecchie turate. Con un bimbo addormentato al suo seno, sua moglie dormiva placidamente su un lato del letto. L’uomo disse: «Chi siete voi che mi avete ingannato per tanto tempo?» Ancora la voce mormorò: «Essi sono Dio». Ma egli non intese. Il bimbo pianse nel sonno e si strinse accanto alla madre. Allora Dio comandò: «fermati, sciocco, non abbandonare la tua casa!» Ma egli ancora non udì. Dio allora tristemente sospirando, disse: «Perché il mio servo mi abbandona per andare in cerca di me?».

(Tagore)

 

Ricerca di Dio

Ora che ti ho conosciuto, posso dire: se non t’avessi incontrato, credo che avrei dovuto spendere tutta la vita per cercarti.

(O. OLIVIERO, L’amore ha già vinto. Pensieri e lettere spirituali (1977-2005), Milano 2005, 153).

 

La sete di Dio

Un discepolo andò dal suo maestro e gli disse: «Maestro, voglio trovare Dio». E il maestro sorrise. E siccome faceva molto caldo, invitò il giovane ad accompagnarlo a fare un bagno nel fiume. Il giovane si tuffò e il maestro fece altrettanto. Poi lo raggiunse e lo agguantò, tenendolo a viva forza sottacqua. Il giovane si dibattè alcuni istanti, finché il maestro lo lasciò tornare a galla. Quindi gli chiese che cosa avesse desiderato di più mentre si trovava sott’acqua. Il discepolo rispose: «L’aria, evidentemente». «Desideri Dio allo stesso modo e la sua parola allo stesso modo?» gli chiese il maestro. «Se lo desideri così, non mancherai di trovare lui e la sua parola. Ma se non hai in te questa sete ardentissima, a nulla ti gioveranno i tuoi sforzi e i tuoi libri. Non potrai trovare la fede se tu non la desideri come l’aria per respirare».

(Racconto dei Padri del Deserto)

Che cosa cercate?

In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro – dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». (…)

I personaggi del racconto: un Giovanni dagli occhi penetranti; due discepoli meravigliosi, che non se ne stanno comodi e appagati, all’ombra del più grande profeta del tempo, ma si incamminano per sentieri sconosciuti, dietro a un giovane rabbi di cui ignorano tutto, salvo un’immagine folgorante: ecco l’agnello di Dio! Un racconto che profuma di libertà e di coraggio, dove sono incastonate le prime parole di Gesù: che cosa cercate? Così lungo il fiume; così, tre anni dopo, nel giardino: donna, chi cerchi? Sempre lo stesso verbo, quello che ci definisce: noi siamo cercatori d’oro nati dal soffio dello Spirito (G. Vannucci). Cosa cercate? Il Maestro inizia ponendosi in ascolto, non vuole né imporsi né indottrinare, saranno i due ragazzi a dettare l’agenda.

La domanda è come un amo da pesca calato in loro (la forma del punto di domanda ricorda quella di un amo rovesciato), che scende nell’intimo ad agganciare, a tirare alla luce cose nascoste. Gesù con questa domanda pone le sue mani sante nel tessuto profondo e vivo della persona, che è il desiderio: cosa desiderate davvero? qual è il vostro desiderio più forte? Parole che sono «come una mano che prende le viscere e ti fa partorire» (A. Merini): Gesù, maestro del desiderio, esegeta e interprete del cuore, domanda a ciascuno: quale fame fa viva la tua vita? dietro quale sogno cammini? E non chiede rinunce o sacrifici, non di immolarsi sull’altare del dovere, ma di rientrare in sé, ritornare al cuore (reditus ad cor, dei maestri spirituali), guardare a ciò che accade nello spazio vitale, custodire ciò che si muove e germoglia nell’intimo. Chiede a ciascuno, sono parole di san Bernardo, «accosta le labbra alla sorgente del cuore e bevi».

(Ermes Ronchi)

 

Seguire lo stile di vita di Gesù

Secondo il IV vangelo, i primi discepoli di Gesù appartenevano al gruppo dei discepoli che si erano riuniti intorno a Giovanni Battista. Per lo stesso Giovanni non ha costituito nessun problema il fatto che lo abbiano abbandonato e se ne siano andati con Gesù. Poco dopo, quando si sono verificati attriti tra i discepoli di Giovanni e quelli di Gesù (Gv 3, 25-26), Giovanni ha stroncato le rivalità con una frase geniale: “Lui deve crescere; io, invece, diminuire” (Gv 3,30). Il Vangelo non tollera i protagonismi ed i proselitismi.

Quelli che si erano messi a seguire Gesù, volevano vedere dove viveva. Non appena lo hanno visto, sono rimasti con lui e si sono convinti che era il Messia. Il luogo dove uno vive indica lo stile di vita che ha. Gesù ha detto che quelli che vivono con lusso, vivono nei palazzi dei re (Mt 11,8). E questo, il tipo di vita e la maniera di vivere, è ciò che convince e trascina. O, al contrario, quello che scandalizza ed allontana. Inoltre, questo è contagioso. Allo stesso modo, la maniera di vivere che attrae e la sua opposta, quella che disgusta.

In questo racconto, all’inizio della convivenza dei discepoli con Gesù il vangelo di Giovanni mette già la confessione di quei discepoli riguardo alla condizione di Messia (Salvatore e Liberatore) propria di Gesù. E Gesù, fin dal primo momento, cambia il nome al figlio di Giovanni e fratello di Andrea per designarlo d’ora in poi “Pietro”. L’autore del IV vangelo ha scritto questo quando già la figura di Pietro era riconosciuta, nella sua qualità di “pietra” tra i primi cristiani. In definitiva, quello che a quei “seguaci” interessava, non era ciò che Gesù diceva, ma come viveva. Il nostro modo di vivere, il nostro “progetto di vita” è ciò che attrae, impressiona e seduce gli altri. Chi vive in un palazzo, si veste lussuosamente e in maniera appariscente, viaggia in auto di marca, come potrà comunicare il Vangelo?

(p. José María Castillo)

 

 

Tu mi vieni incontro per fissarmi negli occhi

Sono io, Signore, Maestro buono, quel tale che tu guardi negli occhi con intensità di amore. Sono io, lo so, quel tale che tu chiami a un distacco totale da se stesso.

È una sfida. Ecco, anch’io ogni giorno mi trovo davanti a questo dramma: alla possibilità di rifiutare l’amore. Se talvolta mi ritrovo stanco e solo, non è forse perché non ti so dare quanto tu mi chiedi? Se talvolta sono triste, non è forse perché tu non sei il tutto per me, non sei veramente il mio unico tesoro, il mio grande amore? Quali sono le ricchezze che mi impediscono di seguirti e di gustare con te e in te la vera sapienza che dona pace al cuore?

Tu ogni giorno mi vieni incontro sulla strada per fissarmi negli occhi, per darmi un’altra possibilità di risponderti radicalmente e di entrare nella tua gioia. Se a me questo passo da compiere sembra impossibile, donami l’umile certezza di credere che la tua mano sempre mi sorreggerà e mi guiderà là, oltre ogni confine, oltre ogni misura, dove tu mi attendi per donarmi null’altro che te stesso, unico sommo Bene.

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

II DOMENICA TEMPO ORD ANNO B

 

VIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 Prima lettura: Siracide 27, 5-8 (NV) [gr. 27, 4-7]

 

 Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti; così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti. I vasi del ceramista li mette a prova la fornace, così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo. Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore. Non lodare nessuno prima che abbia parlato, poiché questa è la prova degli uomini. 

 

Il testo dei Siracide, ricco di saggezza umana ci aiuta a riflettere su come conoscere gli uomini e come valutare i loro comportamenti e la loro condotta di vita, senza escludere la conoscenza di se stessi. L’uomo, infatti, manifesta la sua vera identità attraverso il suo agire e il suo parlare. II brano biblico, di stile gnomico, ci offre cosi dei criteri molto validi su questo punto attraverso immagini simboliche cariche di significato: quella del vaglio, quella del forno e quella dell’albero fruttuoso.

Come il vaglio separa il grano dalla pula cosi la bontà e la cattiveria degli uomini si manifestano nelle loro riflessioni e nei le loro parole. Come le imperfezioni e le scorie di oggetti e vasi si possono controllare nel momento in cui sono in lavorazione nel forno, così le intenzioni segrete e le passioni umane si rivelano nella discussione appassionata. Infine, come la qualità degli alberi si riconosce dai loro frutti, così i pensieri nascosti e gli orientamenti di vita dell’uomo sono messi in luce dalle parole e dalle azioni. In conclusione, per conoscere bene l’uomo bisogna prima valutare il suo parlare, il suo modo di pensare e il suo agire, senza mai escludere una giusta dose di prudenza, perché la vita intima e segreta di ciascuno solo Dio la conosce a perfezione.

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 15, 54-58

 

Fratelli, quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: «La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!  Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.    

 

Dopo aver approfondito con vari argomenti il tema della risurrezione di Cristo e quello della nostra risurrezione, Paolo ci riconduce al centro della sua riflessione: la vittoria di Cristo sulla morte e sul peccato. Sappiamo che Gesù è già risorto, ma è ancora in lotta con il peccato del mondo e con la morte. È certo però che, alla fine, le potenze del male e della morte saranno sconfitte e il Cristo potrà così consegnare il suo regno al Padre. È questa una visione di grande speranza che coinvolge ogni singolo credente e tutta la chiesa. Cristo risorto, cioè, nel suo trionfo sulla morte non ha voluto rimanere solo, ma ha condiviso il suo ‘segreto’ con la chiesa, invitandola a vincere – solidale con tutta l’umanità – il male sotto ogni forma: l’odio, la paura e la morte.

L’Apostolo per questo esorta ogni credente a rimanere saldi e irremovibili, prodigandosi sempre nell’opera del Signore» (v. 58), perché è fortemente convinto che ogni fatica umana in questo campo non è vana e la speranza della risurrezione è un caposaldo della nostra fede cristiana. La lotta che il cristiano deve ingaggiare con il male a volte potrà recare perdite dolorose ma la certezza della vittoria finale sulla morte e sul peccato è una realtà per noi certa e già ora anticipata nella persona di Cristo.

 

Vangelo: Dal Vangelo secondo Luca 6, 39-45

 

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: 

«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.

Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».       

  

Esegesi

Il testo evangelico mette in luce, facendolo in parabole, la condotta di chi si pone a guida dei propri fratelli. L’insegnamento dì Gesù verte su forti contrasti e si rivolge ai suoi uditori per metterli in guardia contro il pericolo della presunzione che conduce alla rovina, proprio sull’esempio dei farisei che, in fatto di presunzione, non conoscevano rivali. Queste sue parole Gesù le rivolge ai discepoli: si tratta di una parabola – scrive Luca – la quale non ha certo bisogno di spiegazioni perché smantella chiaramente un possibile atteggiamento interiore in chi si trova a esercitare un ministero di guida verso i suoi fratelli. In controluce emerge un forte invito di Gesù all’umiltà, quella vera, per la quale chi è guida non si pone come giudice dei fratelli, ma semmai si espone volentieri alla reciproca correzione fraterna.

Dal discorso parabolico Gesù passa gradualmente a un discorso propositivo: «Il discepolo non è da più del maestro», e a un discorso provocatorio: «Perché guardi la pagliuzza… Come puoi dire al tuo fratello… Ipocrita!» (vv. 41s.), illuminato, infine, dal contrasto tra «l’albero buono» e l’«albero cattivo» (v. 43). L’intendimento di Gesù è quello di suscitare atteggiamenti di vita comunitaria in coloro ai quali egli affida il suo vangelo, cioè la sua proposta di vita nuova. Non si dà vera spiritualità cristiana se non nella pratica dei comandamenti e, ancor più, nell’adesione totale alla novità evangelica.

L’insegnamento di Gesù va dunque dal cuore agli atti esterni e da questi all’intimo del cuore, cioè la condotta esteriore deve coincidere con l’intenzione interiore, che procede da un cuore rinnovato e buono.

Prima di ascoltare questa pagina di Vangelo, l’Acclamazione al Vangelo, ci ha messo sulle labbra una breve preghiera: «Apri, Signore, il nostro cuore e comprenderemo le parole del Figlio tuo». Premessa necessaria! Abbiamo ascoltato alcune parole del Signore apparentemente molto chiare: un cieco non può guidare un altro cieco; perché guardi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello? Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi. Mai come oggi il Vangelo ci sembra tanto comprensibile e ovvio. Ma la comprensione che la liturgia ci ha fatto invocare è un’altra: non è tanto a livello di intelligenza, quanto di cuore; non è tanto un capire quanto un comprendere, cioè un abbracciare con tutto il nostro essere, un fare nostre le parole.

Siamo in quella parte del Vangelo di Luca che si apre con le beatitudini e abbraccia i grandi discorsi sulla legge nuova; non se ne può prendere solo un frammento, come facciamo noi durante la Messa, perché è piuttosto dall’insieme che emerge lo spirito di Gesù, la novità evangelica. Al «fu detto», Gesù oppone ora il suo rivoluzionario «ma io vi dico», che compie e trasforma, nello stesso tempo, la legge antica.

«A voi che ascoltate, io dico…»: così cominciò a parlare quel giorno Gesù (cf. Lc 6, 27) e così dice adesso anche a noi. Che cosa ci dice esattamente?

Si tratta di tre temi: primo, un cieco non può guidare un altro cieco; secondo, è zelo sbagliato voler togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello quando si ha addirittura una trave nell’occhio proprio; terzo, ogni albero si riconosce dai frutti, cioè ogni uomo si riconosce per quello che è veramente, non dalle parole che dice ma dalle opere che compie. Cosa singolare: Gesù mostra di rivolgere, qui, ai suoi discepoli una serie di ammonimenti che, altrove, aveva rivolto, sotto forma di rimprovero, ai farisei. È contro i farisei che aveva esclamato: Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso! (Mt. 15, 14); è ai farisei, soprattutto, che, a più riprese, Gesù aveva gridato il suo «Ipocriti!». Ed ecco che oggi questa terribile esclamazione «Ipocrita!» la ritroviamo in un discorso rivolto ai suoi discepoli e, quindi, anche a noi: Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.

Intorno a questa parola dobbiamo organizzare oggi coraggiosamente un nostro esame di coscienza e lasciarci giudicare dal Vangelo. Forse per la prima volta, saremo costretti ad ammettere, per quanto ci dispiaccia, che siamo tutti degli ipocriti.

Come quasi tutti i discorsi di Cristo, anche questo sull’ipocrisia può avere due applicazioni: una all’intera comunità cristiana e una al singolo credente. Non sono pochi oggi quelli che si sentono chiamati a denunciare la ipocrisia della Chiesa, specie della Chiesa istituzionale, noi sacerdoti compresi. La Chiesa — si afferma — dice e non fa; si scandalizza di certi mali e ne tace altri; denuncia i peccati della società civile, come quelli dell’ingiustizia sociale, senza avere, essa stessa, le mani del tutto pulite; si preoccupa di salvare la vita non nata, ma non fa altrettanto per salvare la vita e la sopravvivenza di chi è già nato.

Quando questa critica non è pura polemica astiosa e interessata, ma viene da gruppi e da istanze profetiche che vogliono sinceramente migliorare la Chiesa, noi dobbiamo prenderle sul serio e lasciarcene interpellare. Attraverso queste cose, è Cristo stesso che chiama la Chiesa a purificarsi sempre più per adeguarsi alla sua parola. Uno dei motivi che indusse Gesù a gridare ai capi del giudaismo del suo tempo il suo terribile «Ipocriti!» fu che essi non sapevano, o non volevano, riconoscere i segni dei tempi (cf. Lc 12, 54ss.). «La Chiesa — si legge in un testo del Vaticano II — confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano e la perseguitano» (GS 44).

Noi cristiani però non faremmo che perpetuare l’errore di voler togliere la pagliuzza dall’occhio altrui, senza rimuovere la trave dal nostro, se ci limitassimo a fare un discorso sull’ipocrisia della società o della Chiesa, senza scendere mai a noi stessi e alla nostra multiforme ipocrisia: una società ipocrita è il risultato di individui ipocriti, come un lago inquinato è il prodotto di tante gocce d’acqua sporche. Il Siracide, nella prima lettura, ci ha esortati oggi proprio a questa autocritica personalissima: Quando si agita un vaglio, restano i rifiuti; così quando un uomo riflette, gli appaiono i suoi difetti. Scorriamo, dunque, un po’ il Vangelo per vedere quali sono, secondo Gesù, le manifestazioni principali dell’ipocrisia e se esse non si riscontrano, per caso, tutte quante, quale più quale meno, nella nostra vita.

Il primo caso è quello ascoltato nel brano odierno: ipocrita è chi trova continuamente da ridire sugli altri, a cominciare forse dall’amico o dall’amica più intimi, e non si pone mai la domanda se ciò che detesta negli altri la vanità, l’egoismo, l’avarizia, l’insincerità, la grettezza — non si trovano, in misura ancora maggiore, in lui stesso. Ipocrita — dice Gesù in un altro contesto — è chi impone agli altri fardelli morali gravissimi, chi pretende che gli altri non si lamentino, non si inquietino mai, che non avanzino mai rivendicazioni, che non dicano mai di essere stanchi, salvo poi a riconoscere, ogni momento, tutti questi diritti a se stessi (c£. Mt. 23, 4). Ipocrita — dice ancora Gesù — è chi paga la decima dei piccoli raccolti, ma non dà alcun peso alle cose veramente importanti della legge: la giustizia verso i poveri, la misericordia e la fedeltà (cf. Mt. 23, 23). Qui davvero ci scopriamo tutti quanti parenti stretti dei farisei. Quanti cristiani credono di essere a posto davanti a Dio, perché pagano la decima della menta e dell’aneto, cioè perché danno un’offerta, magari miserabile, al parroco che passa a benedire la casa, perché accendono ogni tanto una candela a sant’Antonio, perché finanziano un’opera pia, ma non si pongono mai il problema se sono giusti con la famiglia, con i propri dipendenti, se non divorano anch’essi le case delle vedove, imponendo canoni di affitto intollerabili, se esercitano davvero la misericordia con gli uomini e la fedeltà con Dio.

Sugli ipocriti, il Vangelo pronuncia la più terribile delle minacce: Hanno già ricevuto la loro ricompensa! (Mt 6, 2). Come dire: Dio non deve loro più nulla. Quando questo è atteggiamento cosciente e voluto (ma questo avviene raramente), esso è davvero un terribile peccato; è, in pratica, un ateismo, perché significa credere in un Dio che ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non sente; è un dimenticare che il Dio biblico è un Dio vivente e santo che scruta i cuori e legge i pensieri prima che si formino nella mente.

La parola di Dio ci ha condotto attraverso una salutare autocritica; da essa deve sbocciare in noi un desiderio intenso di essere davvero «onesti con Dio», di camminare davanti a lui «in azzimi di sincerità e di verità» (cf. 1 Cor 5, 8). Quando, alla fine del «Padre nostro», diciamo oggi: «Liberaci dal male», è da questo male che dobbiamo chiedere la liberazione: dal male dell’ipocrisia.

Ma non è da noi che possiamo ottenere questo: Gesù è l’azzimo per eccellenza di sincerità e di verità: venendo in noi egli può renderci trasparenti nelle intenzioni e puri nel cuore; può fare di noi una nuova pasta; per questo, infatti, Cristo nostra Pasqua è stato immolato (1 Cor 5, 7).

 

Meditazione

 

      Il paragone dell’albero e dei suoi frutti è un filo conduttore che attraversa le letture d’oggi, compreso il salmo responsoriale. E pure presente molte altre volte nella Bibbia, a cominciare dall’albero della vita e della morte (Gen 2,16s.; 3,1-24). In realtà, in esse è il cuore dell’uomo quello che trasforma l’albero «della conoscenza del bene e del male», di per sé fonte di vita, in un albero di morte. Nel vangelo d’oggi Gesù intreccia i due temi, per farci capire che solo chi ha un cuore buono può essere l’albero buono che produce frutti buoni.

È notevole l’insistenza di Gesù sul bisogno di puntare sull’interiorità dell’uomo, ossia sul suo cuore, e di superare il mero esteriorismo, tipico dei farisei, che egli spesso denuncia (Mt 5,20; 12,2-7; 15,1-20; 23,2-8 ecc.). Nel cuore, infatti, inteso biblicamente, si giocano, secondo lui, le decisioni più profonde dell’uomo, quelle che determinano l’orientamento radicale della vita. Se esso è profondamente radicato in Dio e nella sua parola, non può produrle che frutti buoni. Il cuore si converte così nella sorgente dalla quale sgorgano gli atteggiamenti, le parole e le azioni veramente ‘buoni’. Sant’Agostino aveva capito bene quest’orientamento evangelico quando scriveva: «Ama e fa’ ciò che vuoi». Da un cuore che ama sul serio, che vuole cioè veramente il bene, non può scaturire effettivamente che il bene.

«Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore», gridò ai quattro venti Gesù nel suo discorso della montagna (Mt 6,21). Il suo cuore era certamente in Dio e nel suo gran de progetto d’amore a favore degli uomini. Perciò egli fu l’albero buono per eccellenza, che produsse i migliori frutti di vita per sé e per l’umanità intera. C’è da domandarci se anche il nostro cuore è dove era il suo e non altrove, nelle mille esteriorità della vita. Se facciamo nostro il suo stesso tesoro, certamente la nostra fatica non sarà vana, secondo l’augurio di Paolo (1 Cor 15,58), per ché produrremo gli stessi frutti che egli produsse.


L’immagine della domenica

 
 

AMA LA VITA

Ama la vita così com’è…
Ma non amare mai senza amore.
Non vivere mai senza vita!


(Madre Teresa di Calcutta)

 

 Preghiere e racconti

 

Assemblea nella falegnameria

Raccontano che nella falegnameria si ebbe una volta una strana assemblea. Fu una riunione di utensili (attrezzi) per risolvere le loro differenze. Il martello esercitò la presidenza, ma l’assemblea gli notificò che doveva rinunciare. La causa? Faceva troppo rumore! E, inoltre, passava il tempo battendo. – Il martello accettò la sua colpa, ma chiese che fosse anche espulsa la vite; disse che era necessario dare molti giri perché servisse per qualche cosa. – Davanti a questo attacco, la vite accettò anche, ma a sua volta chiese l’espulsione della lima. Fece vedere che era molto aspra e aveva sempre frizioni con gli altri. – E la lima fu d’accordo, a condizione che fosse espulso il metro che passava il tempo misurando gli altri come se lui fosse l’unico perfetto.

Stando così le cose entrò il falegname, si mise il grembiale e iniziò il suo lavoro. Utilizzò il martello, la lima, il metro e la vite. Finalmente, l’aspro legno iniziale diventò un bellissimo mobile.

Quando la falegnameria restò di nuovo vuota, l’assemblea riprese la deliberazione. Fu allora che prese la parola la sega e disse: “Signori, è rimasto chiaro che abbiamo difetti, ma il falegname lavora con le nostre qualità. È questo che ci fa preziosi. Dunque non dobbiamo pensare ai nostri punti cattivi e concentriamoci nell’utilità dei nostri punti buoni.”

L’assemblea trovò allora che il martello era forte, la vite univa e dava forza, la lima era speciale per affinare e limare le asprezze e osservarono che il metro era preciso ed esatto. Si sentirono tutti un’equipe capace di produrre mobili di qualità. Si sentirono orgogliosi delle loro fortezze e di lavorare insieme.

 

Correzione con amore

Il padre di Mardocheo – il futuro celebre rabbi di Lechowitz – si lamentava della pigrizia del figlio nello studio. In città giunse un santo rabbino. Il padre gli condusse Mardocheo perché lo correggesse. Il rabbino volle rimanere solo col ragazzo, lo strinse al cuore e se lo tenne a lungo affettuosamente vicino. Quando il padre ritornò, il rabbino gli disse: «Ho fatto a Mardocheo un po’ di morale; d’ora in poi la costanza non gli mancherà». Quando, ormai adulto e famoso, Mardocheo, divenuto rabbi di Lechowitz, raccontava questo episodio, diceva: «Ho imparato allora come si convertono gli uomini».

(Racconto ebraico)

 

Chi è carico di colpe non deve ergersi a giudice severo degli altri

Come si può constatare, Gesù non vieta in senso assoluto di giudicare: ci ordina però di togliere prima la trave dal nostro occhio, poi di correggere gli sbagli del nostro fratello. È evidente, infatti, che ognuno di noi conosce meglio le sue condizioni che quelle degli altri: è certo, inoltre, che ognuno di noi vede meglio le cose più grandi che quelle più piccole e ama più se stesso che il prossimo. Se per sollecitudine tu fai questo, abbi cura di te stesso, là dove è più visibile e più grande il peccato. Se invece tu trascuri te stesso, è evidente che tu giudichi tuo fratello non tanto perché egli ti stia a cuore, ma perché hai avversione per lui e vuoi disonorarlo.

Non solo non togli la trave che è nel tuo occhio, ma neppure riesci a vederla; mentre non solo vedi la pagliuzza nell’occhio del fratello, ma l’esamini e pretendi di togliergliela.

II Signore ordina insomma, con questo precetto, che chi è carico di colpe non deve ergersi a giudice severo degli altri, soprattutto quando le colpe di costoro sono trascurabili. Non è che vieti genericamente di giudicare e di correggere, ma ci proibisce di trascurare le nostre colpe e di balzar su ad accusare con rigore gli altri. Agire così non può che aumentare la nostra malvagità, rendendoci doppiamente colpevoli. Chi per abitudine trascura le proprie colpe, benché siano grandi, e si preoccupa, invece, di ricercare e di sindacare con asprezza quelle degli altri, anche se sono piccole e lievi, si danneggia in due modi: prima perché trascura e minimizza i propri peccati, poi perché attira inimicizia e odio su tutti con i suoi giudizi insolenti, e ogni giorno diventa sempre più disumano e crudele.

(Giovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di Matteo XXIII, 2ss.).

 

Con grande misericordia e discrezione

Quelli cui è stata affidata la guida di molti con la loro mediazione devono far progredire i più deboli nel cammino di assimilazione a Cristo, come dice il beato Paolo: «Fatevi miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo» (1 Cor 1,1). Conviene dunque che essi per primi diventino un esempio perfetto praticando quella misura di umiltà che ci è stata consegnata dal Signore nostro Gesù Cristo. Egli dice infatti: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza nell’agire e l’umiltà di cuore siano quindi i caratteri propri di chi presiede la comunità. Se infatti il Signore non si è vergognato di servire i suoi servi, ma ha acconsentito a farsi servo della terra e del fango, che egli stesso ha plasmato e cui ha dato forma umana – dice infatti: «Io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27) – che cosa non dovremo fare noi per i nostri simili prima di crederci giunti a imitarlo? Questa è dunque la prima qualità che deve possedere in così grande misura chi presiede. Sia inoltre misericordioso e sopporti pazientemente quelli che mancano al loro dovere per inesperienza, non passi sotto silenzio i peccati ma sopporti con mitezza chi si comporta come un bambino e gli offra le sue cure con grande misericordia e discrezione. Dev’essere infatti capace di trovare il modo appropriato per curare ogni passione, senza rimproverare con arroganza, ma ammonendo e correggendo con mitezza, come sta scritto (cfr. 2Tm 2,25); sia attento all’oggi, previdente per il domani, capace di lottare con i forti e di portare le infermità dei deboli, di fare e dire ogni cosa per guidare alla perfezione quanti vivono con lui.

(BASILIO DI CESAREA, Regole diffuse 43,1-2, in ID., Le regole, Bose, 1993, pp. 192-193).

 

Un perdonato in mezzo ad altri perdonati

Il Signore è luce, e questo sarà per noi un mezzo impareggiabile per un più intimo incontro con lui. Una cosa è sicura ed è che l’amore di Dio mette il nostro cuore a dura prova. Perché il nostro cuore diventi capace di questo amore, è necessario che sia incessantemente convertito da Cristo. Durante tale conversione, forse fino al temine della nostra vita, dovremo soffrire ora per grettezze, ora per parzialità, ora per errori del nostro amore.

E tenero è il cuore capace di misericordia per tutti gli uomini, compresi noi stessi. La tenerezza ‘battezzata’ resta tenerezza e diventa misericordia. Gesù è interamente questa tenerezza: è la tenerezza per tutto ciò che è bello e buono, perché creazione di Dio; ma, ai tempi stesso, è misericordia, un cuore cioè che conosce la miseria degli splendori creati…, malati di peccato, devastati dal male. Bisogna che non si abbia mai da rimproverare a sé una fermezza che non sia come ‘raddoppiata da un vero calore del cuore e da un’esigente carità. Amiamoci gli uni gli altri nella nostra povertà, nei nostri limiti: essi sono il segno visibile delle misericordie di Dio su di noi. Questa è la fede in spirito e verità. Pensiamo che noi siamo tutti dei poveri e che il Signore ama i poveri, e che noi amiamo proprio lui nei poveri. Per essere vera, questa sensazione interiore della nostra miseria e della misericordia onnipotente, deve essere accompagnata dalla disposizione esteriore di persone che sono largamente perdonate, anche se, un giorno o l’altro, è loro chiesto di essere un pochettino dei ‘perdonanti’. È assumere davanti agli altri l’atteggiamento che assumiamo davanti a Dio. E ciò semplicemente perché noi non siamo altro tra di noi che un peccatore davanti ad altri peccatori, un perdonato in mezzo ad altri perdonati.

(M. Delbrél, Indivisibile amore, Casale Monferrato, 1994,100-102).

 

Correzione fraterna

Ciascuno deve rispondere del fratello, ciascuno è custode del fratello. Un’espressione tipica di questa corresponsabilità è data appunto dalla correzione fraterna. A proposito della quale sarà opportuno fare alcune precisazioni fondamentali:

1. Essere custode non significa comportarsi da spia o poliziotto dell’altro.

2. “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te…”. Bisogna accertare la colpa, prima di tutto. E vedere di che colpa si tratta. Il fratello non pecca contro di te se non ha le tue stesse idee, non condivide le tue simpatie o antipatie, non si arruola per le tue cause. Il fratello non va ripreso per la colpa di non essere a tua immagine e somiglianza, a portare in giro la “sua” faccia, che non coincide con la tua.

Attenti, perciò, a non confondere il peccato con il diverso. A non definire “male” ciò che semplicemente non rientra nei nostri gusti e nei nostri schemi. Attenti, soprattutto, a non intervenire continuamente per delle sciocchezze, per delle cose assolutamente marginali. Certe persone religiose pare possiedano l’arte di “asfissiare”, più che liberare, aiutare, promuovere.

3. La procedura indicata da Matteo (Mt 18,15-20) non va confusa con un processo. Si tratta piuttosto di una mano tesa ostinatamente ma con delicatezza estrema verso l’altro che minaccia di allontanarsi, di separarsi. E non è detto che le fasi debbano essere rigidamente tre. Possono e devono essere molte di più, con tutte le iniziative suggerite dalla fantasia e dal cuore che non si arrende mai, malgrado i ripetuti insuccessi.

4. Prima ancora di far capire al fratello che ha sbagliato, occorre dimostrargli e convincerlo che è amato, nonostante tutto. La carità, la pazienza, la misericordia, la sensibilità, sono la luce indispensabile attraverso la quale il deviante può scoprire il proprio errore di rotta. Più che richiamano all’ordine, occorre richiamarlo a lasciarsi amare.

5. La correzione fraterna implica, oltre che la carità, anche l’umiltà. Umiltà che si traduce nell’abbandono di qualsiasi atteggiamento di superiorità. Il peccatore deve comprendere che chi lo ammonisce è peccatore quanto e più di lui, uno che condivide la sua stessa fragilità e miseria. Non: «Guarda che cosa hai fatto!», ma: «Guarda che cosa siamo capaci di fare…».

6. Il metodo più efficace per far capire l’errore, non è l’impiego delle parole e delle dimostrazioni teoriche o le citazioni di un codice, ma l’illustrazione pratica, personale, della virtù dimenticata, del valore disatteso, dell’ideale calpestato. Meglio sempre gli “annunci” che le “denunce”. Anche perché le denunce possono essere sospette per il fatto stesso che non costano niente. Sovente parliamo e gridiamo troppo, perché la nostra condotta non è abbastanza eloquente. Siamo predicatori implacabili e moralisti insopportabili perché la santità della nostra vita non è tale da costituire una silenziosa condanna di certi difetti e deviazioni. Si può insegnare in maniera efficace anche col silenzio. Sempre che la vita parli, naturalmente.

7. I ruoli non sono mai definiti, ma risultano intercambiabili. Per cui non ti è consentito rivendicare il dovere di criticare l’altro, se non gli concedi il diritto di criticare, a sua volta, i tuoi comportamenti poco corretti.

8. La scomunica e l’esclusione, più che un elemento punitivo, devono costituire un motivo di riflessione e uno stimolo alla conversione. Devono avere una funzione pedagogica, non vendicativa. Non è tanto la comunità che decreta l’esclusione, quanto il fratello, peccatore ostinato, che si pone automaticamente, e pervicacemente, in stato di separazione, fuori dalla comunione. E lui che si scomunica. La comunità non fa altro che prendere atto, dolorosamente. Si tratta, perciò, di «aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato di separazione, perché possa, di conseguenza, ravvedersi. Lo scopo è quello di creare nel peccatore uno stato di disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno» (B. Maggioni). Illuminante, a questo proposito, risulta la cosiddetta “parabola del figliol prodigo”. Comunque, la comunità non deve mai alzare il ponte levatoio. Deve sempre tenere la porta aperta, la luce accesa. Una comunità si rivela cristiana quando non si rassegna alla perdita definitiva di un membro, ma si dimostra sempre pronta ad accogliere, perdonare, riconciliare. E fa tutti i passi possibili e impossibili perché avvenga il ritorno atteso. E ci dovrebbe sempre essere aria di festa, non musi lunghi, quando il fratello, lo sbandato, ricompare all’orizzonte. Teniamo pronta la musica, la tavola imbandita, non i rimbrotti, le accuse.

Tutti siamo al sicuro soltanto quando nessuno è fuori.

9. …E anche quando l’altro si pone fuori dalla comunità, si autoesclude, non per questo hai esaurito il tuo compito. Gli “devi” ancora più amore.

(A. Pronzato, “Tu solo hai parole. Incontri con Gesù nei vangeli”, vol. III, Torino, Gribaudi, 264-269). 

 

Correzione fraterna: la correzione evangelica            

Quando vuoi ammonire qualcuno alle cose belle, prima da’ ristoro al suo corpo e onoralo con una parola colma di amore. Non c’è nulla che renda modesto un uomo e lo persuada a convertirsi dalle cose cattive a quelle buone, come il bene corporale e l’onore dimostratogli da qualcuno.

Un secondo strumento di persuasione è lo sforzo di un uomo a essere lui stesso uno spettacolo lodevole. Colui che ha ottenuto di possedere se stesso per mezzo della preghiera e della vigilanza, potrà facilmente avvicinare il suo compagno alla vita, anche senza la fatica delle parole o l’ammonizione esplicita. Colui che prende le difese dell’oppresso, trova un difensore nel suo Creatore. Colui che presta il suo braccio per aiutare il suo prossimo, riceve il braccio di Dio per lui. Colui che accusa suo fratello per i suoi mali, troverà Dio come suo accusatore. Colui che raddrizza suo fratello nel segreto di una stanza, cura il suo male; ma colui che lo accusa nell’assemblea, rinsalda le sue ferite.

Colui che cura suo fratello in privato, rivela la forza del suo amore; ma colui che lo espone all’occhio dei suoi compagni, fa conoscere la forza della sua propria invidia. L’amico che cura nel segreto, è un medico sapiente; ma colui che cura all’occhio di molti, in verità è uno che ingiuria. Il segno della misericordia è il perdono di qualsiasi offesa, e il segno di una cattiva intelligenza è che si mutino le parole rivolte al peccatore. Colui che accosta la medicina alla correzione, corregge con amore, ma colui che cerca la vendetta è vuoto di amore. Dio corregge nell’amore e non per amore di vendetta. Non sia mai! Perché egli cerca di guarire la sua immagine e non conserva la sua collera. Se sei adirato contro qualcuno, o ardi di zelo a motivo della fede o a motivo delle sue opere cattive, o lo accusi o lo ammonisci, vigila sulla tua anima, perché tutti abbiamo nei cieli un giudice giusto.

Se infatti tu hai pietà e cerchi di convertirlo alla verità, soffrirai sofferenza a causa sua. Con lacrime e con amore gli dirai una o due parole, senza ardere d’ira contro di lui, allontanando da te i segni dell’inimicizia.

L’amore non sa adirarsi, non si irrita, non rimprovera con passione. Il segno dell’amore e della conoscenza è una profonda umiltà che proviene dall’intelligenza dell’intimo. Guarda di non essere dominato dalla passione di coloro che sono ammalati del desiderio di correggere gli altri e che da se stessi vogliono essere i censori e i correttori di tutte le infermità degli uomini. Questa è una dura passione …

In verità, è meglio per te trovarti a cadere nella lussuria, piuttosto che in questa malattia.

(ISACCO DI NINIVE, Un umile speranza, Magnano, Qiqajon, 1999, 198 -200).

 

L’uomo semplice e retto, timorato di Dio

C’è un genere di semplicità che meglio sarebbe chiamare ignoranza. Essa consiste nel non sapere neppure che cosa sia rettitudine. Molti abbandonano l’innocenza della vera semplicità, proprio perché non sanno elevarsi alla virtù e all’onestà. Poiché sono privi della vera prudenza che consiste nella vita buona, la loro semplicità non sarà mai sinonimo di innocenza. 
Perciò Paolo ammonisce i discepoli: «Voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male» (Rm 10, 19). E soggiunge: «Non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia (1 Cor 14, 20).

Per questo anche la stessa Verità ingiunge ai discepoli: «Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10, 16). Ha unito necessariamente l’una e l’altra cosa nel suo ammonimento, in modo che l’astuzia del serpente ammaestri la semplicità della colomba, e la semplicità della colomba moderi l’astuzia del serpente.

Per questo lo Spirito Santo ha manifestato la sua presenza agli uomini sotto forma non soltanto di colomba, ma anche di fuoco. Nella colomba viene indicata la semplicità, nel fuoco l’entusiasmo per il bene. Si mostra nella forma di colomba e nel fuoco perché quanti sono ricolmi di lui, praticano una forma tale di mitezza e di semplicità da infiammarsi d’entusiasmo per le cose sante e belle e di odio per il male.

«Uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male» (Gb 1, 1). Chiunque tende alla patria eterna vive indubbiamente con semplicità e rettitudine: è semplice cioè nell’operare, retto nella fede; semplice nel bene materiale che compie, retto nei beni spirituali che percepisce nel suo intimo. Vi sono infatti certuni che non sono semplici nel bene che fanno, poiché ricercano in esso non la ricompensa all’interno, ma il plauso all’esterno. Perciò ha detto bene un sapiente: «Guai al peccatore che cammina su due strade!» (Sir 2,12). Ora il peccatore cammina su due strade, quando compie quello che è di Dio, ma desidera e cerca quello che è del mondo.

Bene anche è detto: «Temeva Dio ed era alieno dal male»; perché la santa Chiesa degli eletti intraprende nel timore le strade della sua semplicità e rettitudine, ma le conduce a termine nella carità. Uno si allontana completamente dal male, quando per amore di Dio comincia a non voler più peccare. Se invece fa ancora il bene per timore, non si è del tutto allontanato dal male; e pecca per questo, perché sarebbe disposto a peccare, se lo potesse fare impunemente.

Perciò quando si dice che Giobbe teme Dio, giustamente è detto anche che si teneva lontano dal male, poiché mentre la carità sostituisce il timore, la colpa che viene abbandonata dalla coscienza, viene pure calpestata dal proposito della volontà.

(Dal «Commento al libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa: Lib. 1, 2. 36; PL 75, 529-530. 543-544).

 

Preghiera

Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno!

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.


PER L’APPROFONDIMENTO:

VIII DOMENICA TEMPO ORD (C)