XII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Zaccaria 12,10-11;13,1

Così dice il Signore: «Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito. In quel giorno grande sarà il lamento a Gerusalemme, simile al lamento di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo. In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità».     

 

Chi abbia potuto suggerire a Pietro di rispondere in modo esatto, benché non del tutto consapevolmente, se non lo Spirito? Nel passo parallelo di Mt 16,17 Gesù afferma che Pietro ha parlato perché ispirato: «E Gesù: ‘Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli’».

     Lo Spirito fa recuperare all’uomo quelle disposizioni, grazia e consolazione, essenziali per mettersi in comunicazione con Dio. Inoltre, lo Spirito, aprendo gli occhi all’uomo, gli fa incontrare un Dio che si interessa a tal punto di lui da sentirsi trafitto, e lo induce così a trovare consolazione nel pianto della preghiera e dell’implorazione. Ma quando abbiamo visto Dio trafitto se non volgendo il nostro sguardo a Cristo crocifisso, figlio unico e primogenito di Dio morto per noi? Parlando delle Scritture adempiute da Gesù, il vangelo di Giovanni riprende proprio questo concetto: «E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (19,37). Luca inoltre ci descrive le donne che piangevano mentre Gesù si portava al luogo della sua crocifissione: «Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui» (23,27).

     Eppure, le cose non possono terminare con la morte: il riferimento ad Adad-Rimmon lo sottintende. Come nella pianura di Meghiddo i Cananei celebravano la morte di Baal (chiamato anche Adad-Rimmon) con il pianto e ne proclamavano la «rinascita», perché ricominciava con la primavera il cielo della natura, così il pianto effettuato a Gerusalemme

preluderà alla risurrezione del Messia, primavera di un’epoca nuova.

  

Seconda lettura: Galati 3,26-29 

Fratelli, tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.

 

 

Ma che cosa è in grado di produrre la fede? Soltanto il riconoscimento di Gesù in quanto Figlio di Dio e Messia? Quale impatto si verifica? San Paolo, nel piccolo brano che leggiamo in questa domenica, ci illustra in sintesi il grande mistero al quale apparteniamo.

     La prima affermazione riguarda la fede che ci rende figli di Dio, «poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (3,27). Infatti, come esseri umani, abbiamo addosso un vestito disadatto a presentarci al cospetto del Padre buono e misericordioso. Quanto sia importante il vestito nel linguaggio biblico lo si desume dal fatto che esso viene considerato espressione dell’identità della persona. Nella parabola del banchetto nuziale «il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, gli disse: ‘Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale’» (Mt 22,11-12). D’altronde, Paolo invita i cristiani a rivestirsi di Cristo, perché ciò vuol dire rinnovamento della vita: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm 13,14).

     Una volta che ci siamo rivestiti di Cristo e apparteniamo a lui, non possono più sussistere quelle barriere che dividono l’umanità, rendendola infelice e nemica di se stessa. Avere tutti il medesimo «vestito», perciò, spinge l’umanità a riscoprirsi una nel nome di colui che l’ha salvata: «E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1Cor 12,13). Il battesimo si fa dunque strumento di questo processo di unità e di pace, perché si parte tutti dallo stesso punto: l’essere figli di un unico Padre. Infatti, «beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).

     Infine, san Paolo collega l’appartenenza a Cristo con l’essere discendenza di Abramo e, quindi, eredi secondo la promessa fatta da Dio a lui. Gli Ebrei erano giustamente fieri di essere discendenza di Abramo: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno» (Gv 8,33). In verità, ad Abramo era stato promesso di diventare padre di una moltitudine di popoli: «Eccomi: la mia alleanza è con tè e sarai padre di una moltitudine di popoli. Non ti chiamerai più Abram ma ti chiamerai Abraham perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò. E ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te nasceranno dei re» (Gn 17,4-6). A lui, come ci riferisce, ad esempio, Gn 15, fu detto che i suoi discendenti avrebbero avuto in eredità un paese, la terra d’Israele, immagine di quel regno che Dio instaurerà. In conclusione, con parole che lo stesso san Paolo usa in un altro contesto, «se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8,17).

 

Vangelo: Luca 9,18-24

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto». 

Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio».
Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».

              

 

Esegesi

      Durante la sua vita pubblica, Gesù ha sempre cercato di riservarsi dei momenti che non consistessero di solo puro riposo, bensì anche di preghiera o di dialogo con i propri discepoli. Già in questo stesso capitolo Luca ci narra che, al ritorno degli apostoli dalla missione, Gesù li invitò a ritirarsi con lui in disparte. Ma la folla glielo impedì, «costringendo» proprio lui a predicare e a guarire (9,10-11) e, infine, a moltiplicare i pani e i pesci (9,12-17). Questa volta, invece, sembra finalmente che ci sia riuscito, perché il versetto 18 ci informa che egli si trovava solo a pregare e i discepoli gli erano accanto. Ad ogni modo, l’evangelista Luca ci fa notare spesso che Gesù era solito pregare, specialmente nei momenti fondamentali della sua missione: ad esempio, nel giorno del battesimo, egli riceve lo Spirito mentre si trova in preghiera (3,21), oppure alla fine di impegnative fatiche apostoliche (5,16).

     Il Maestro è però anche conscio che un numero sempre maggiore di persone si interrogano sulla sua identità. Giovanni il Battista mandò addirittura i suoi discepoli a chiedere: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (7,20); dopo che la peccatrice fu perdonata in casa di Simone il fariseo, i commensali si domandarono: «Chi è costui che perdona anche i peccati?» (7,49). Persino Erode il tetrarca «sentì parlare di tutti questi avvenimenti e non sapeva che cosa pensare, perché alcuni dicevano: «Giovanni è risuscitato dai morti», altri: «È apparso Elia», e altri ancora: «È risorto uno degli antichi profeti». Ma Erode diceva: «Giovanni l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire tali cose?». E cercava di vederlo» (9,7-9). Erode davvero vide Gesù, ma in una circostanza nella quale non potette ascoltare nessuna sua parola (23,6-12).

     Se altrove molti si erano chiesti chi fosse Gesù, ora è egli stesso che vuole sapere che cosa gli altri pensino di lui. Il «sondaggio» d’opinione viene eseguito interrogando i discepoli, che si dimostrano ben informati, ripetendo quello che era stato detto al tetrarca Erode: «Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto» (9,19). Il parametro è chiaro: per il suo modo di comportarsi e di parlare, Gesù assomiglia tanto a quei profeti che, nell’Antico Testamento, erano stati protagonisti di buona parte della vita religiosa, e non solo, d’Israele. Gesù non può meravigliarsi del fatto che lo si paragoni a un profeta. Nella sinagoga di Nazaret, leggendo Is 61,12, egli dice che è stato consacrato come profeta e spiega il rifiuto dei suoi concittadini verso di lui con esempi tratti dalla vita di Elia ed Eliseo (4,16-27); dopo aver risuscitato il figlio della vedova di Nain, «tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: ‘Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo’» (7,16). In chiave polemica, lo afferma pure il fariseo Simone: «A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sé: ‘Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice’» (7,39).

     Ma poi Gesù diventa curioso di sapere che cosa pensano i suoi discepoli, coloro che l’hanno seguito in giro per la Galilea assistendo a cose straordinarie compiute da lui. Pietro rispose per tutti: «Il Cristo di Dio» (9,20). Finora, nella sua vita pubblica, Gesù era stato chiamato «Cristo» soltanto da esseri non appartenenti al mondo umano, come gli angeli, che in 2,11 ne annunziarono ai pastori la nascita, e come i demoni, che lo riconoscono quale Cristo in 4,41. Ma nessun uomo lo aveva mai chiamato e riconosciuto come tale fin quando Pietro non dichiarò questa sua fede. L’espressione, usata nell’Antico Testamento per indicare il re (cf. 1Sam 24,7.11; 26,9.16.23) o una persona scelta da Dio per svolgere una

missione speciale (Is 45.1), esprime una visione di messia ancora parziale e soltanto legato al momento della gloria umanamente intesa, perciò Gesù sente il bisogno di impedire ai discepoli di affermare ciò in pubblico (la gente, ma neanche i discepoli, non era pronta per una rivelazione del genere), aggiungendovi l’annuncio della passione, morte e risurrezione, unitamente con le severe condizioni per la sequela. Annunciare il Cristo non significa annunciare con le sole parole una dottrina, bensì impegnare la propria psychè (vita) al punto da essere disposti a perderla, come la perse Gesù stesso, per ritrovarla poi nella risurrezione.

 

Meditazione

     Si potrebbe cogliere nella domanda che Gesù rivolge ai discepoli la prospettiva teologica a cui ci orienta la liturgia della Parola di questa domenica: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Lc 9,20). Chi è Gesù per il discepolo? Nella sequela quotidiana dietro questo maestro così discusso, così misterioso, il discepolo ha avuto il coraggio di fissare lo sguardo sul volto autentico di Gesù? E quali tratti di questo volto è riuscito a cogliere? L’interrogativo che Gesù pone ai discepoli incuriosisce anche la gente e inquieta lo stesso Erode (cfr. 9,7-8); le risposte a questa domanda si rincorrono e i modelli biblici sembrano offrire una qualche spiegazione sulla identità di Gesù: è Giovanni «risorto dai morti» (9,7), «altri dicono Elia; altri, uno degli antichi profeti che è risorto» (9,19). Ora però, è Gesù stesso a porre questa domanda e lo fa coinvolgendo i discepoli in una risposta personale: «Ma voi, chi dite che io sia?» (9,20). Pietro si fa portavoce dei suoi compagni e la sua risposta va ben oltre le varie opinioni raccolte tra la gente: per i discepoli Gesù è «il Cristo di Dio» (v. 20). Il discepolo, nella fede, intuisce il mistero che abita Gesù e proclama in lui l’uomo scelto da Dio per l’attuazione delle sue promesse di salvezza. Ma la via che il Messia sceglie per portare a compimento il progetto di Dio, «per riversare sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione» (Zc 12,10), è una via misteriosa che passa attraverso una umiliazione che lascia sconcertato l’uomo perché contrasta con le sue attese di gloria e di potere. Gesù è il Cristo di Dio perché è il Figlio obbediente, il servo umile che ascolta e realizza la Parola, rivelando la fedeltà di Dio al suo popolo, nonostante il suo rifiuto e la sua incredulità. Gesù è il Messia perché è «il Figlio dell’uomo (che) deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (v. 22). Tratteggiando questo volto del Messia così inaudito e scandaloso per l’uomo, Gesù rilegge l’oscura profezia di Zaccaria, portandola a compimento: quel re messianico coperto di ferite è lui stesso, il crocifisso, dal cui fianco aperto usciranno sangue e acqua (cfr. Gv 19,34), segno di quello spirito di grazia e di con-solazione riversato sull’umanità intera (cfr. Zc 12,10). Di fronte a questo volto, il discepolo deve compiere un movimento di conversione, un lungo cammino di purificazione perché siano cancellate quelle pretese dell’uomo che diventano pietra di inciampo e venga accolta la rivelazione del Messia crocifisso.

     Per comprendere il cammino di questo messia rifiutato è necessario attendere il momento in cui si attuerà la profezia: «…guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico» (Zc 12,10, testo citato in Gv 19,37). Tuttavia, dal momento in cui il discepolo ha accettato di rispondere alla domanda di Gesù e compromettersi con la sua via, è già iniziato questo cammino di conversione, perché incessantemente deve volgere lo sguardo verso colui che cammina decisamente verso Gerusalemme (cfr. Lc 9,51), lì dove il Figlio dell’uomo deve essere «ucciso e risorgere il terzo giorno» (9,22). Ora il discepolo deve porsi la domanda: chi è il discepolo che segue questo Messia? Ed è Gesù a rispondere a questo interrogativo nascosto nel cuore di tutti coloro che hanno ascoltato, disorientati e sconcertati, l’annuncio della passione del Messia: «se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (vv. 23-24). L’identità del discepolo si fonde con quella di Gesù e il cammino di Gesù motiva e da qualità al cammino di sequela del discepolo. Si tratta di andare dietro a Gesù, di seguire Gesù, di perdere la propria vita per causa sua. Ciò che costituisce l’identità del discepolo e rende autentica la sua sequela è anzitutto e soprattutto la scoperta del volto di Gesù, l’aver risposto personalmente e in modo irrepetibile a quella chiamata espressa nell’interrogativo: «Ma voi, chi dite che io sia?». Da questa risposta che coinvolge il discepolo nel cuore stesso della sua vita, quella vita che può essere persa o salvata in relazione a Gesù, dipende la serietà della sequela, e nello stesso tempo la sua fatica, la sua sofferenza. Gesù scandisce in tre momenti il cammino del discepolo, tre tappe che rendono autentica ogni sequela. Il punto di partenza è la libertà che nasce dall’incontro con Gesù ed è solo lui che deve essere seguito («se qualcuno vuol venire dietro a me», v. 23).

     Ma per seguire sono necessarie due condizioni: una reale libertà da se stessi e la scelta di affrontare il cammino stesso di Gesù verso Gerusalemme. Rinnegare se stessi in un contesto in cui si parla di realizzazione di sé, può suonare negativo. Gesù non vuole che il discepolo rinunci alla propria umanità, alla bellezza della propria vita. Ma vuole che questa vita sia veramente bella. Infatti proprio quel mondo interiore fatto di pretese di dominio, di violenza, di falsità, quell’amore smodato di sé che ci illude di salvare la propria vita per il solo fatto di tenerla stretta tra le mani, rende la nostra vita brutta, infelice. È questo che deve essere abbandonato per diventare liberi, per vivere da salvati.

     E poi è necessario prendere la propria croce. Anzi Luca aggiunge: ogni giorno (v. 23). Qual è la croce da prender su di sé? Sono le sofferenze che si incontrano nella vita (dolore, malattie, fallimenti ecc.)? Ma può Gesù invitarci a prender ciò che contraddice la dignità dell’uomo? La croce da prendere, la sofferenza da portare (ed è la propria, quella che solo ciascuno di noi può assumere liberamente) non è tanto la sofferenza che nasce dalla relazione con i limiti della natura umana (in qualche modo inevitabile, anche se attraverso di essa possiamo scoprire qualcosa di diverso in noi); è la sofferenza che nasce dalla nostra relazione con Cristo. È la sofferenza di chi lotta per essere fedele a Gesù, di chi ogni giorno fatica nella sua sequela, di chi si scontra con la apparente debolezza delle promesse di Dio,

di chi rischia tutto per obbedire alla logica del vangelo. È la fatica di esser cristiani. La croce non ha senso in sé. Solo in Cristo, nel suo amore sino alla fine, essa acquista un senso. E diventa il paradosso del chicco di grano che per portare frutto deve accettare di essere nascosto sotto terra e morire (cfr. Gv 12,24). Ma ciò che conta è il frutto. Si comprende la morte del seme dal frutto che porta. È il paradosso di una vita perduta perché donata e quindi vissuta in pienezza, cioè salvata (cfr. Lc 9,24 e Gv 12,25). Si comprende la croce dal dono della vita che da essa sgorga.

     La rinuncia e la croce (la fatica di esser discepoli) sono la qualità e l’autenticità della sequela. Ma la sequela non si riduce alla rinuncia e alla croce. Non solo perché la meta della sequela è la gioia, è l’evangelo, una vita salvata, ma soprattutto perché la sequela è camminare dietro a Gesù, è l’esperienza quotidiana della comunione con lui, comunione che è salvezza e perdono. Si rinuncia e si perde per trovare la vita. Ancora una volta siamo richiamati a guardare in avanti (solo così si può camminare), a tenere fisso il nostro sguardo sul volto di Gesù, perché è lui che ci precede ed è lui solo a conoscere la via.

 

Preghiere e racconti

 

«Di Dio oggi nulla posso dirvi»

Dice Angela da Foligno una mistica del secolo XIII al confessore che insisteva perché ella gli spiegasse meglio una sua esperienza mistica, a un certo punto, gli disse: Padre, se tu provassi ciò che ho provato io e poi salissi sul pulpito a predicare, non potresti far altro che dire, rivolto al popolo: “Fratelli, andatevene con la benedizione di Dio perché di Dio oggi nulla posso dirvi”.

Fede e roccia

L’uomo d’oggi, Signore Gesù, è sommerso

dall’appariscenza e dall’effimero,

si lascia incantare da frasi vuote e immagini colorite,

ha perso la capacità di riflettere,

si lascia trascinare da mode e miti

che durano una stagione.

Signore, tu hai scelto Pietro come roccia

non per le sue qualità umane,

ma per la fedeltà alla confessione di fede.

Donaci la fede di Pietro, solida e certa

su cui edificare la tua Chiesa.

Donaci la tua fiducia tale da meritare

in custodia le chiavi del Regno

e confermare nella fede i fratelli vacillanti.

Siamo chiamati a riconoscere il tuo primato

e servirti nell’umiltà.

La fede di Pietro è roccia incrollabile,

modello di chiunque voglia credere nella Verità.

Fa’ che anche noi, come Pietro, possiamo dire:

«Signore, tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

Critica di se stessi

Fedeltà a se stessi? Questo minuscolo sé che cosa contiene di così grande per essergli fedele? Appare spesso così piccolo, altezzoso, supponente, meschinamente interessato … stupido. Affidarsi a questa instabile imbarcazione per attraversare il mare della vita non è certo una garanzia. Gesù lo insegnava a suo modo dicendo: “chi vorrà salvare la propria vita, la perderà”, cioè chi si concentrerà unicamente su se stesso si smarrirà, chi imposterà la sua vita solo sul proprio interesse e sul proprio piacere non guadagnerà ciò che è veramente prezioso nella vita: “Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?”.

Siamo in presenza di un paradosso, c’è qualcosa che si può perdere o che si può guadagnare, e questo qualcosa è la psyché, l’anima spirituale, cioè (dinamicamente considerata) la libertà. Devo fare di tutto per guadagnare la mia anima spirituale, per salvaguardare la mia libertà, perché lo scopo della mia esistenza di uomo consiste esattamente in questo. Ma ecco il paradosso: proprio per guadagnare il centro di me stesso, devo diffidare di me stesso, mi devo superare. La versione della Cei traduce le parole di Gesù in Marco 8,34 in questo modo: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso”, mentre sarebbe meglio rendere il verbo greco aparnéomai con “negare” nel senso di “vincere”, “superare”; se qualcuno vuol venire dietro di me, si deve negare, si deve superare. Non si tratta di rinnegare se stessi quasi in odio a se stessi, ma si tratta di superare i propri interessi particolari per realizzarsi veramente nell’adesione a qualcosa di più grande. Solo uscendo dal mio orizzonte inevitabilmente limitato sarò infatti nella condizione di incontrare qualcosa di più grande e di più stabile del mio piccolo e instabile Io, affidandomi al quale il mio Io nella sua profondità (l’anima spirituale) non si perde, ma si guadagna, si fortifica, si compie. […] Il nostro essere-energia va coltivato, speso, investito: solo così si sviluppano tutte le nostre potenzialità e diventiamo veramente ciò che siamo, cioè liberta che vuole la verità, che vuole aderire alla realtà.

(Vito MANCUSO, La vita autentica, Raffaello Cortina Ed., Milano, 2009, 107-109).

L’incontro con la croce

Nel 1917, allorché Edith Stein era assistente di Edmund Husserl, giunse a Friburgo una notizia dolorosa. Adolf Reinach, anche lui assistente di Husserl, era morto sul campo di battaglia delle Fiandre. Il dolore di Edith Stein fu grande; pensò alla moglie di Reinach. Da Gottinga, la pregarono di ordinare il lascito di Reinach. Edith Stein temeva di rivedere la vedova. Il suo animo era sconvolto: Reinach, che insieme con Husserl costituiva il fulcro del circolo di Gottinga, non viveva più. Attraverso la sua bontà, aveva potuto gettare uno sguardo in quel mondo che le sembrava sbarrato. Il ricordo non la aiutava. Che cosa avrebbe potuto dire alla moglie, certamente in preda alla disperazione? Edith Stein non poteva credere a una vita eterna.

L’atteggiamento rassegnato della signora Reinach la colpì come un raggio di luce che proveniva da quel regno nascosto. La vedova non era abbattuta dal dolore. Nonostante il lutto, era piena di una speranza che la consolava e le dava pace. Di fronte a questa esperienza, andarono in frantumi gli argomenti razionali di Edith Stein. Non la conoscenza chiara e distinta, ma il contatto con l’essenza della verità trasformò Edith Stein. La fede risplendette a lei nel mistero della croce. Era necessario ancora un lungo cammino prima che riuscisse a trarre tutte le conseguenze da questa esperienza. Per una pensatrice come Edith Stein, non era facile tagliare tutti i ponti e osare il salto nella nuova vita. Ma il colpo fu così forte che ancora poco prima della sua morte, parlava in questi termini della sua esperienza al gesuita padre Hirschmann: «Fu il mio primo incontro con la croce e con la forza divina che essa comunica a chi la porta. Vidi per la prima volta, tangibile davanti a me, la chiesa, nata dal dolore del Redentore, nella sua vittoria sul pungolo della morte. Fu il momento in cui andò in frantumi la mia incredulità e risplendette la luce di Cristo, Cristo nel mistero della croce»

(W. HERBSTRITH [ed.], Edith Stein, La Mistica della Croce. Scritti spirituali sul senso della vita, Roma 1987, 87).

Che cosa sei tu per me?

Signore,

che cosa sono io per te,

perché tu voglia essere amato da me

al punto che ti inquieti se non lo faccio,

e mi minacci severamente?

Come se non fosse già una grossa sventura il non amarti!

Dimmi, ti prego,

Signore Dio mio misericordioso,

che cosa sei tu per me?

Dì alla mia anima:

«Io sono la tua salvezza».

Dillo, che io lo senta.

Le orecchie del mio cuore, Signore,

sono davanti a te;

aprile e dì alla mia anima:

«Io sono la tua salvezza».

Rincorrerò questa voce

e così ti raggiungerò;

tu non nascondermi il tuo volto.

(AGOSTINO D’IPPONA, Confessioni I, 5).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

 PER L’APPROFONDIMENTO:

XII DOM TEMP ORD (C)

X DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 1Re 17,17-24

In quei giorni, il figlio della padrona di casa, [la vedova di Sarepta di Sidòne,] si ammalò. La sua malattia si aggravò tanto che egli cessò di respirare. Allora lei disse a Elìa: «Che cosa c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?». Elia le disse: «Dammi tuo figlio». Glielo prese dal seno, lo portò nella stanza superiore, dove abitava, e lo stese sul letto. Quindi invocò il Signore: «Signore, mio Dio, vuoi fare del male anche a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?». Si distese tre volte sul bambino e invocò il Signore: «Signore, mio Dio, la vita di questo bambino torni nel suo corpo». Il Signore ascoltò la voce di Elìa; la vita del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere. Elìa prese il bambino, lo portò giù nella casa dalla stanza superiore e lo consegnò alla madre. Elìa disse: «Guarda! Tuo figlio vive». La donna disse a Elìa: «Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità». 

La pericope che narra la rianimazione del figlio della vedova di Zarepta è parte del “Ciclo di Elia” (1Re 17 — 2Re 2), un insieme di capitoli poco unitario ma che ha l’intento di narrare la vita del profeta attraverso una serie di racconti, alcuni dei quali miracolosi. Il contesto storico nel quale si inserisce anche il nostro brano testimonia la forte polemica che la fede yahwista — e in modo speciale la teologia deuteronomista — devono intrat­tenere contro i culti naturalistici e particolarmente baa­lici che tentavano ancora gli israeliti.

     Elia è l’uomo di Dio che testimonia con la propria vita il giudizio di YHWH. Per questo motivo la vedova, alla quale è appena morto il figlio, reagisce con aggressività («Che c’è tra me e te, o uomo di Dio?»: v. 18) alla presen­za del profeta: questi le ‘rinnova il ricordo’ del suo pec­cato. Il profeta, infatti, come uomo di Dio, rende attuale la presenza di Dio che rivela l’iniquità e fa prendere co­scienza delle colpe commesse. Inoltre il rimprovero che la vedova muove a Elia di avergli fatto morire il figlio rivela quel ‘principio della retribuzione’ molto radicato nella mentalità israelita, secondo il quale non c’è pecca­to che non sia accompagnato da un castigo. A tale prin­cipio si opporranno in modo deciso Geremia ed Ezechie­le (cfr. Ez 14,12; 18; Ger 31,29s.: «In quei giorni non si dirà più: i padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati. Ma ognuno morirà per la propria iniquità»).

     Il miracolo della rianimazione compiuto da Elia con un’azione simbolica quasi magica e con la parola sarà il segno per la vedova della veracità della parola e dell’a­zione profetica di Elia, oltreché la dimostrazione che il Dio della vita è YHWH e non Baal, il Dio vero è YHWH e non Baal. Il brano termina non a caso con una confes­sione di fede della vedova: «Ora veramente so che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità» (v. 24). Nel discorso nella sinagoga (Lc 4,17-27), Gesù parlerà della vedova di Zarepta come esemplare nell’accoglienza della grazia offerta.

 

Seconda lettura:  Galati 1,11-19

 Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. 

Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore.

Nel contesto del severo ammonimento ai Galati, che si sono lasciati traviare da annunciatori d’un falso vangelo, Paolo rivendica l’autorevolezza del proprio annuncio ricorrendo a un’appassionata e commossa rievocazione della propria storia. È la vita stessa di Paolo, in un certo senso, a garantire che il vangelo da lui annunziato non è di origine umana, ma gli è stato rivelato direttamente da Gesù Cristo. E Paolo non nasconde nulla 

della sua vita: non nasconde lo zelo con cui ha perseguitato la chiesa di Dio e, tanto più, non nasconde l’azione di Dio nella sua esistenza, dalla elezione fin dal grembo materno, alla chiamata per grazia, alla scelta che Dio fa di lui come evangelizzatore del suo Figlio tra i pagani.

Ovviamente quando Paolo parla di questa rivelazione ‘diretta’ non vuole necessariamente intendere di aver ricevuto, sulla via di Damasco, tutto in una volta il ‘deposito della fede’. In altri testi, infatti, riprende i termini del racconto eucaristico, per esempio, o del kérygma pasquale così come li ha ricevuti ad Antiochia o a Gerusalemme (cfr. 1 Cor 11,23ss.; 15,1ss.). È più probabile che Paolo in questo contesto si riferisca alla rivelazione d’un nucleo kerigmatico che riguarda la giustificazione di Dio in Gesù Cristo per la fede e non per le opere della Legge. È questa rivelazione la buona novella che gli ha sconvolto la vita.

Resta il fatto che, pur con l’assoluta certezza dell’ori­gine divina del suo vangelo, sale a Gerusalemme per vi­sitare Cefa, ritenendo la comunione nella fede con chi era stato apostolo prima di lui, e testimone della vita, morte e risurrezione di Cristo, una condizione indispen­sabile dell’evangelizzazione. Quattordici anni dopo, Pao­lo ritornerà a Gerusalemme per esporre a Pietro, Giaco­mo e Giovanni il vangelo che predicava ai pagani, per non trovarsi «nel rischio di correre o di aver corso inva­no» (Gal 2,2).

 

Vangelo: Luca 7,11-17

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

 

Esegesi

      Oggi è un piccolo villaggio l’antica città di Naim , ai piedi dell’Hermon, a sud-est di Nazaret. Quasi sulla strada che vi conduce, ancora oggi è possibile scorgere delle tombe scavate nella roccia. È facile pensare che lì era diretto il feretro di cui parla Luca nel brano evangelico di oggi.

1)  La porta della città

Un figlio unico di madre vedova viene condotto alla sepoltura accompagnato da molta folla.

Alla porta della città, questa folla si incontra con un’altra folla che segue Gesù e i suoi discepoli. Chi entra, chi esce. Chi segue il morto, chi l’«Autore della vita», come Pietro chiama Gesù. Tra la vita e la morte c’è una porta. Alla porta c’è Gesù, che attende. Egli è la risurrezione e la vita, chi crede in lui anche se muore, vive.

2) Molta gente

La moltitudine di gente che sta con Gesù e la moltitudine che sta col giovane morto simboleggiano i due schieramenti che appariranno alla destra e alla sinistra del Giudice, nel giudizio universale.

Una è formata dalla moltitudine dei morti, l’altra dalla moltitudine dei vivi in Cristo. Dopo il giudizio si chiuderà per sempre una porta che separerà i figli della perdizione dai figli della risurrezione.

La rivelazione dice che sono molti coloro che seguono la strada larga che conduce alla morte, ed è una «moltitudine immensa» quella che segue l’Agnello, che è Via, Verità e Vita.

3) Figlio unico

Tale era il giovane condotto alla sepoltura. Egli è un simbolo. Di fronte al giudizio di Dio, infatti, ciascuno di noi è »unico» e solo. E tuttavia siamo insieme con una «folla» di fratelli santi che possono accompagnarci all’incontro con Gesù.

Quando siamo »morti» solo spiritualmente, cioè durante la vita ter­rena, beati noi se siamo accompagnati all’incontro con Cristo, perché solo lui può farci rivivere e farci sfuggire alla «seconda morte», come si esprime san Francesco.

Ma purtroppo c’è anche una moltitudine di gente intorno a noi che può farci allontanare dall’Autore della vita.

4) La madre vedova

San Luca accenna alla «compassione» di Gesù per la «madre vedova», che accompagnava suo figlio alla tomba: «vedendola — scrive l’evangeli­sta — il Signore ne ebbe compassione».

Il pensiero di Gesù dovette andare a Maria, vedova di Giuseppe, quando seguirà il suo «unico Figlio» dal Calvario alla tomba scavata nella roccia.

Allora non ci sarà nessuno a fermare il feretro e a consolare sua Madre, dicendole «Non piangere».

5) «Non piangere!»

Come si può dire «non piangere» a una madre vedova che perde l’u­nico figlio?

Quante volte si dicono parole vuote a coloro che soffrono, non sa­pendo cosa fare per dar loro consolazione.

Ma Gesù non dice parole vane; egli sa cosa sta per fare. Solo lui può consolarci quando il nostro cuore langue!

6) Si avvicinò e toccò la bara

La donna che da anni soffriva per il flusso di sangue pensò: se riu­scirò a toccare il suo mantello, guarirò». Lo toccò e fu guarita.

Una forza di vita usciva sempre dalla persona del Figlio di Dio:

quando toccava i ciechi, quanto toccava i lebbrosi, quando toccava i morti.

Ora tocca solo la bara, per toccare poi il giovane morto.

Fortunato quel giovane, che i portatori si fermarono al tocco di Gesù: «accostatosi, toccò la bara, mentre i portatori si fermarono». Se non si fossero fermati, il giovane sarebbe rimasto morto.

Anche questo simboleggia il tocco di Gesù alla «bara» che ci circonda. Gesù tocca la nostra bara ogni volta che sentiamo con le orecchie una parola santa e un buon consiglio, ogni volta che siamo sfiorati da un sacerdote, ogni volta che i nostri occhi guardano una chiesa o una tomba: beati noi se ci fermiamo nella nostra corsa verso morte! Gesù sta per mostrarsi a noi!

7) «Ragazzo, dico a te, àlzati!»

Gesù non disse «rivivi», così come a Lazzaro disse solo: «Lazzaro, vieni fuori».

Ma per «alzarsi» e per «venire fuori», un morto deve essere già vivo.

Gli spettatori gridarono al miracolo quando videro Lazzaro «venire fuori», e il giovane «alzarsi». Ma Gesù, in ambedue i casi, aveva già fatto il suo intervento miracoloso e amoroso, perché Gesù precede sempre i nostri desideri.

Fa pensare che i tre miracoli di risurrezione dai morti — nel vangelo — riguardano dei giovani, ivi compresa una fanciulla.

Ciò fa riflettere sull’assurdità della morte, che stronca chi è nato per vivere; sull’imparzialità della morte, che miete come, dove e quando vuole; sulla fragilità della morte di fronte al Salvatore, che la vince come, dove e quando vuole.

Un giorno, anch’egli giovane Uomo-Dio, la vincerà dopo tre giorni di lotta, e la vincerà per sempre e per tutti quando egli stesso ha stabilito.

8) Il morto si mise seduto e cominciò a parlare

La fanciulla dodicenne fu presa per mano, e Gesù la fece alzare. Lazzaro e il giovane ascoltano la voce della Vita — quasi vento che passa su alberi inariditi e li copre di fiori — e riprendono a vivere!…

Il giovane si alza a sedere, quasi a voler insegnare qualcosa dal fondo della bara. Infatti «cominciò a parlare».

Ma un morto insegna anche senza parlare!

9) Lo restituì a sua madre

Oltrepassata la porta della città e la porta della vita, il giovane ap­parteneva ormai non più alla madre ma al Signore che gli era venuto incontro. E il Signore lo restituisce alla madre che l’aveva perduto.

Poi venne un giorno in cui il giovane morì di nuovo e anche Gesù era morto. Ma ambedue riaprirono gli occhi alla vita eterna.

Quando morì la seconda volta, il giovane, Lazzaro e la fanciulla, fu­rono consegnati da Gesù al Padre di tutti.

10) Timore e gloria

La folla non ebbe timore della morte ma del mistero della vita che distrugge la morte per il volere di un «grande profeta è sorto tra noi». Ma il timore si trasforma ma subito in gioia e in inno di gloria per Dio che «ha visitato il suo popolo».

La gente percepisce che Dio visita il suo popolo non quando arriva la morte che è stipendio del peccato, ma quando dona la vita.

Meditazione

      C’erano due cortei, quel giorno, alla porta di Naim: il corteo della vita e il corteo della morte. Il primo rappre­sentato da Gesù con i suoi discepoli, il secondo dalla po­vera vedova che piange il figlio morto «con molta gente»; ma è soprattutto questo secondo contesto che attira l’at­tenzione e avvolge d’amarezza l’intera scena.

Anche la nostra esistenza è spesso attraversata da questi due cortei: c’è la vita che si afferma in noi, come un istinto che sembra invincibile; ma facciamo ogni giorno esperienza anche di morte, in noi e attorno a noi, in molti modi. Anzi, come quel giorno a Naim è la morte, ancor oggi, che si pone al centro dell’attenzione, spesso togliendoci la pace e facendoci dimenticare tutto il resto, la vita che scorre al presente e quella che ci è promessa nel futuro.

La commozione di Gesù di fronte alle lacrime della vedova è per noi consolantissima speranza: ci dice che il Signore vede la nostra condizione e si commuove, che le sue «viscere di misericordia» non restano insensibili di fronte alla nostra miseria, che egli può trasformare i nostri cortei funebri in danze di lode a lui, autore della vita. Per questo egli può chiederci di «non piangere». E se restituisce la vita al giovane allora la speranza diviene certezza, la certezza che la sua tenerezza ci può restituire «il figlio morto», la gioia della vita, l’amore tradito, la speranza delusa, la fede smarrita.

Tutto questo, in realtà, non è forse già successo nel nostro passato? Quante volte Dio ci ha visitato! Perché continuiamo ancora con le nostre processioni funebri? È amaro e rivolto anche a noi il lamento di Gesù su Gerusalemme: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace… ma non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc 19,42.44). Beati noi, invece, se sapremo lasciarci incontrare alla porta di Naim, per finirla una buona volta con i nostri lamenti e intonare il canto della vita…

Preghiere e racconti

Viscere delle sue viscere

Anche se c’è peccato grave, che non può essere lavato da voi stessi con le lacrime del vostro pentimento, pianga per voi questa madre, la Chiesa, che interviene per ciascuno dei suoi figli come una madre vedova per figli unici; essa infatti compatisce, con una sofferenza spirituale che le è connaturale, quando vede i suoi figli spinti verso la morte da vizi funesti. Noi siamo le viscere delle sue viscere, poiché esistono anche viscere spirituali. Paolo le aveva, lui che diceva: «Sì, fratello! Che io possa ottenere da te questo favore nel Signore; da’ questo sollievo al mio cuore in Cristo!» (Fm 20). Noi siamo le viscere della Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo, fatti con la sua carne e con le sue ossa. Pianga dunque, la tenera madre, e la assista la folla; non solo una folla, ma una folla numerosa compatisca la buona madre. Allora voi vi rialzerete dalla morte, sarete liberati dal sepolcro; i ministri della vostra morte si fermeranno, voi comincerete a dire parole di vita; tutti temeranno, poiché per l’esempio di uno solo molti saranno ristabiliti; e, inoltre, loderanno Dio per averci accordato simili rimedi per evitare la morte.

(Ambrogio, Trattato sul Vangelo di Luca, I,93)

 

La sofferenza di Dio

Alle porte di Naim, Gesù ha «le viscere scosse» dal dolore di una vedova che accompagna alla sepoltura il suo unico figlio. Dice: «Non piangere», e poi risuscita il giovane. Ma, alla tomba di Lazzaro, egli piange, vedendo piangere Maria e i giudei che l’accompagnavano. Perché queste lacrime?, si chiede Newman. Tenerezza spontanea dell’amico, orrore del «soffio della tomba», che in seguito dovrà inghiottire nuovamente Lazzaro: il miracolo che egli com­pie è «una tregua, non una risurrezione». Ma c’è di più: qui Dio stes­so si trova faccia a faccia con la sua propria morte.

(Fr. Varillon, La sofferenza di Dio)

O Madre dei dolori

O Madre dei dolori è il tuo figlio che muore così

e l’Ufficio della flagellazione comincia

e le tue piaghe sono i sacri ornamenti che tu indossi

per la celebrazione del tuo martirio…

Il freddo scivola dolcemente sulla tua croce,

il serpente del primo giorno, l’eternità che si dispiega.

Mia Madre è lì ai tuoi piedi, persa nel sogno del suo figlio

e il No le sale in gola, l’urlo della bestia che sanguina

nel suo figlio offerto, partorendo

di nuovo il corpo minuto della sua angoscia,

il suo figlio di tenebre,

questo viso affilato d’ombra che si nutre

al suo stesso Giardino

con il singhiozzo come un diamante nelle sue dita.

Madre tutta fiorita del tuo dolore

ecco la ghirlanda sgualcita dei suoi occhi attorno a te,

la corolla fremente dei suoi pianti che si apre,

le orde illuminate di tutti i nostri morti attorno ai suoi polsi

ecco le sue lacrime che inchiodano la sua carne sul Legno

ecco la spada del suo Grido sulla tua bocca chiusa

ecco il suo cuore già becchettato dagli uccelli neri

della Collera.

(J. Cayrol, Canto funebre in memoria di Jean Gruber)

Preghiera

Ti benedico, Signore, Dio d’Israele, perché hai visitato e redento il tuo popolo. Ti benedico, Signore, perché hai mutato il mio lamento in danza e la mia veste di sacco in abito di gioia. Ti benedico, Signore, perché non resti indifferente davanti alla mia vita, e mi doni quella misericordia che nasce dalle tue viscere di madre. Ti bene­dico, perché ripenso a ogni giorno della mia storia; ri­penso a ogni volta che mi hai detto «Non piangere!», e io non ho più pianto, e ho visto la vita, e ho visto te che mi ridonavi la vita. Grazie, mio Dio!

Ma ti chiedo anche perdono perché molte di più sono state le volte in cui non ti ho saputo riconoscere tra le misteriose pieghe della mia storia, quando in particola­re mi hai nutrito con pane di lacrime per rivelare in me i segni della tua gloria, o quando mi hai associato al mi­stero della tua morte perché la tua vita risplendesse nelle mie membra. Ti chiedo perdono se in quei momen­ti ho avuto timore della tua opera e ho dubitato della tua promessa di vita. Ora so che quello era il tempo in cui mi hai visitato…

Tu, Padre, che sei il consolatore degli afflitti, tu che il­lumini il mistero della vita e della morte, fammi dono ogni mattino della tua visita, fino al giorno in cui chie­derai anche a me, come chiedesti al tuo Figlio, il dono totale della vita. Allora, nella gioia dello Spirito, vivrò per sempre accanto a te.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

X DOM TEMP ORD (C)

SANTISSIMA TRINITA’

Prima lettura: Proverbi 8,22-31

Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».

 

Che quanto il Padre possiede sia anche tutto del Figlio si può cominciare a capirlo da questo passo, culmine del lungo prologo del libro dei Proverbi (Pr 1,8-9,18). Là il maestro parla della sapienza al discepolo come il padre al figlio e la stessa Sapienza parla di sé due volte (Pr 1,20-32 e 8,1-36), in una personificazione letteraria, non filosofica o teologica. La seconda volta essa fa questo discorso sulla propria origine, preceduto dalla raccomandazione a seguire lei e i suoi insegnamenti (Pr 8,1-21) e seguito dall’invito ad essere ascoltata (Pr 8,32-36). Delle sue origini parla con riferimenti al racconto della creazione di Gen 1 e con importanti approfondimenti su quello che la parola di Dio dice e lo spirito opera. Prima afferma la sua priorità su tutto quanto esiste e poi la sua presenza nell’opera creatrice.

     La priorità su tutto quanto esiste (Pr 8,22-26) pone la Sapienza in rapporto unico con Dio. Da lui, quando nulla ancora esisteva, è stata «creata» (v. 22), nel senso di acquisita e posseduta quasi fosse una persona (cf. Gen 4,1), un’idea resa ancor meglio poi con «generata» (vv. 24s). Da lui fu «costituita» sulle sue opere, con una specie di investitura regale, «dall’eternità» (v. 23) specificata nel senso dei tempi più remoti con le espressioni «fin dal principio, dagli inizi della terra» e «come inizio della sua attività» (v. 22). «Fin dal principio» può esser inteso anche come «alla base» dell’agire divino, aggiungendo alla priorità temporale quella del modello della causa esemplare.

     La presenza nella creazione (Pr 8,27-31) pone la Sapienza in un rapporto speciale con tutte le opere di Dio. «Io ero là» (v. 26) non significa di per sé una presenza attiva. Ma poi «Io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno» (v. 30) dice una partecipazione al compiacimento divino, ripetuto in Gen 1 con «vide che era cosa buona». E il successivo «dilettandomi» presenta la Sapienza anche come suscitatrice della gioia in ogni opera creata da Dio, in generale sul globo terrestre e in particolare «tra i figli dell’uomo» (v. 31). Quest’ultimo aspetto è portato avanti poi da Sir 24 e da Sap 7,22-8,1.

     Il brano liturgico non rivela dunque ancora la Trinità. Ma è tra quelli che più da vicino, nell’Antico Testamento, hanno preparato la rivelazione della seconda Persona come Sapienza e Parola eterna che procede dal Padre e opera in sintonia con lui. Aiuta a capire l’affermazione di Gesù: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (Vangelo), alla luce del prologo di Giovanni che si ispira a questo passo dei Proverbi (Gv 1,1-18 in particolare 1,3-4), come poi anche l’inno cristologico di Col 1,15-20 e l’esordio della lettera agli Ebrei (Eb 1,2-4). E della paternità di Dio apre la prospettiva cosmica, oltre a quella strettamente religiosa.

 

Seconda lettura: Romani 5,1-5

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. 

E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

 

Idea dominante di questo passaggio della lettera ai Romani è la speranza viva accesa in noi dalla giustificazione o recupero dal peccato e dalle mirabili prospettive di vita nuova, per il dono della grazia di Cristo e per l’amore dello Spirito Santo: inizia gli sviluppi che da Rm 5 culminano in Rm 8. Tutta la Trinità vi appare, ma è opera soprattutto dello Spirito Santo il sostegno nel cammino della speranza, nominata qui da Paolo per tre volte, in altrettante riprese del pensiero.

     Prima (vv. 1-2) egli dice che la risposta di fede al dono della grazia di Cristo mette nella pace con Dio, che nella Bibbia vuol dire crescita armoniosa e piena della vita. A tale pace si accompagna un «vanto» particolare, nel senso anche di ambizione, ma nel significato più santo e profondo, quale il gloriarsi per un fondamento sicuro della vita. È un vanto che si proietta nella speranza nientemeno che «nella speranza della gloria di Dio», cioè di arrivare a tutta la ricchezza e lo splendore dell’opera di salvezza voluta dal Padre (cf. Rm 8 ed Ef 1,3-14).

     Poi (vv. 3-4) l’apostolo fa un passo indietro a indicare quasi un supporto pure umano della speranza. Dice infatti che motivo del vanto è anche il travaglio che continua ad essere richiesto al credente per vivere la fede. Perché è un travaglio che costruisce e solidifica la speranza, salendo quattro ideali gradini: dalla tribolazione o persecuzione alla pazienza o capacità di sopportare, dalla pazienza all’irrobustimento della virtù, e da questo alla sicura speranza.

     Infine (v. 5) torna al fondamento divino per il quale la speranza cristiana non può andare delusa: l’amore di Dio nei nostri cuori, cioè nelle profondità più intime delle nostre persone. Si tratta primariamente dell’amore che Dio ha per noi, portato e alimentato dentro di noi dallo Spirito Santo. Ma, al culmine degli sviluppi di questa parte della lettera, Paolo dirà che lo Spirito Santo rende attivi anche noi nella corrispondenza allo stesso amore, in quanto: ci fa gridare «Abbà, Padre!»; sostiene il gemito per la rivelazione al mondo dei figli di Dio, paragonabile alle doglie di un parto; e ci mette dentro con gemiti inesprimibili i desideri e quello che è conveniente domandare per la piena realizzazione dei disegni amorosi di Dio (cf. Rm 8,15-16.22-24,26-27).

 

Vangelo: Giovanni 16,12-15

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

Esegesi 

     In questo brano del secondo discorso dell’ultima Cena (Gv 15-16), Gesù torna sulla promessa dello Spirito Santo. Nel primo discorso ne aveva annunciato l’opera a favore della comunità dei discepoli (Gv 14,16-17.25-26), adesso ne prospetta la testimonianza di fronte al mondo, che opererà in un duplice modo (cf. Gv 15,26): come diretto accusatore del mondo nelle coscienze umane (Gv 16,5-11) e come guida nella testimonianza che anche i discepoli hanno da dare, nel continuo e impegnativo sviluppo dell’esistenza dentro al mondo (la lettura odierna). Destinatario del messaggio sono le comunità cristiane della fine del primo secolo e, insieme con loro, tutte le successive impegnate nella lotta contro il male e nella propria crescita.

     Lo Spirito Santo — dice Gesù — sarà intermediario, lungo la storia, fra le Persone divine e noi. Sta per prendere il suo posto e dirà ai discepoli le cose che egli ora non può dire loro, perché non sono in grado di portarne il peso. Non è che manchino di intelligenza, ma il mistero suo e della Trinità hanno bisogno dell’esperienza vissuta per essere approfonditi. E le esigenze concrete della testimonianza si manifestano alla prova dei fatti, spesso tra ostacoli e persecuzioni: là lo Spirito sarà davvero l’altro Consolatore o Paraclito o Avvocato sostenitore. Questa azione è annunciata con le due frasi: «vi guiderà a tutta la verità» e «vi annuncerà le cose future», o meglio «venute o venienti», perché si tratta non del futuro lontano, ma di quello che istante per istante arriva al nostro presente e che anche noi chiamiamo avvenimenti.

     Questo annuncio e questa guida realizzano la mediazione dello Spirito Santo anzitutto tra la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo, e noi. È Cristo infatti «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). E in riferimento a lui il Paraclito è «lo Spirito della verità» (a questo senso del testo originale è tornata la nuova versione della CEI, correggendo il generico «Spirito di verità» ancora in uso). Infatti: «non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito… prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Quest’ultimo verbo è ripetuto per tre volte alla fine degli ultimi tre versetti: «ananghèlei», un annunciare dall’alto, che vuol dire rivelare e insieme progressivamente attualizzare.

     L’ultimo versetto accenna alla mediazione dello Spirito Santo tra la prima persona della Trinità, il Padre, e noi. Essa passa per l’opera del Figlio. Perché, se lo Spirito guida alla verità tutta intera che è Cristo, prendendo del suo, Gesù aggiunge: «tutto quello che il Padre possiede è mio». Questa estensione si intende bene con il Prologo di Giovanni (Gv 1,1-18), che al Padre attribuisce la creazione e la storia della salvezza, operate e rivelate mediante il Figlio e nel Figlio, l’Unigenito. E spiega l’inserimento liturgico come prima Lettura del brano sulla Sapienza eterna di Dio.

 

Meditazione 

Solennità della Santissima Trinità. Una festa di recente istituzione, storicamente ben databile, che ci aiuta a concentrare l’attenzione in modo specifico sulle persone del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Noi siamo soliti parlare genericamente di Dio, cerchiamo di cogliere i tratti del suo volto a partire dalla sua Parola e in particolar modo a partire dall’esperienza di Gesù, che ce lo ha «rivelato» (Gv 1,18). Ma ‘dimentichiamo’ sia lo Spirito santo sia di fissare lo sguardo sulla ‘vita interna’ di Dio, sulla sua interiorità più profonda… Ardua impresa, si potrebbe obiettare: già è difficile capire cosa si annida nel cuore di un essere umano, figuriamoci in quello di Dio! Ma è Gesù stesso, la nostra via (cfr. Gv 14,6) per eccellenza, che ci abilita e anzi ci stimola a questa ricerca. È possiamo cercare di addentrarci nel segreto della vita intima di Dio a partire dal brano evangelico dell’evangelista Giovanni, tratto dai cosiddetti ‘discorsi d’addio’ – che giustamente qualcuno ha definito ‘discorsi di arrivederci’, in quanto sono finalizzati a nuovo incontro tra noi e Gesù. In questi dialoghi con i suoi discepoli, pronunciati poche ore prima della tragica conclusione della sua esistenza, Gesù ha raccolto i desideri, le preoccupazioni, le consegne e le parole che maggiormente gli stavano a cuore. E se queste espressioni ci vengono presentate a un altissimo livello di densità e di profondità – così come è per ogni testamento – siamo allora invitati a moltiplicare la nostra attenzione e la nostra ricerca. Anche la colletta di questa eucaristia ci esorta affinché «nella pazienza e nella speranza, possiamo giungere alla piena conoscenza di te, che sei amore, verità e vita».

I quattro versetti (Gv 16,12-15) del brano evangelico si aprono con la disincantata affermazione di Gesù ai discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso» (v. 12). Troppi fatti avvenuti nelle ultime ore, troppe parole ancora da rielaborare: troppo… di tutto! Capita a chiunque, in momenti particolarmente densi, di non avere più ‘spazio’ per accogliere altre indicazioni e stimoli dalla vita: ci vuole una pausa e uno stacco. Ma… se non ora, quando?

Gesù non ha più tempo! Il suo tempo, la sua ‘ora’ (cfr. Gv 2,4) è ormai imminente! È stupefacente osservare la signoria con cui Gesù allora apre all’azione dello «Spirito della verità» (v. 13) e richiama la perfetta comunione tra Lui e il Padre: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (v. 15). Gesù appare perfettamente padrone della situazione e del tempo, non introduce ‘a denti stretti’ il Padre e lo Spirito, quasi a rincalzo e a delega di una sua incapacità a compiere tutto quanto si era prefissato. No, egli sa bene – potremmo dire per esperienza diretta e costante – che è divino non solo il donare ma anche il ricevere, l’offrire come anche l’accogliere. Questo è forse il tratto che ci colpisce maggiormente: la piena condivisione di intenti e di operazioni all’interno della Trinità, condivisione che diviene simbolo e modello per la Chiesa e per ogni compagine umana. L’amore si alimenta in un incessante dare e ricevere e Dio stesso vive così! Un vero leader non fa tutto da solo ma cerca collaborazione e apre volentieri lo spazio all’azione di altri, che completano la sua opera, approfondendola e cogliendone tutte le implicazioni (cfr. vv. 13-14). Non c’è traccia di alcuna forma di durezza, rigidità o autosufficienza: Gesù coinvolge in questo circolo addirittura i suoi discepoli, prolungando l’azione della Trinità stessa! C’è da rimanere stupiti e quasi disorientati da tanta stima e generosità!

Il brano della Lettera ai Romani che costituisce la seconda lettura liturgica riprende la medesima immagine: «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato» (5,5). C’è un dono che ci raggiunge e, se accettiamo di accoglierlo con riconoscenza, ci abilita a un’azione missionaria capace di renderci forti e maturi perfino nelle tribolazioni (cfr. vv. 3-4). La delizia di Dio (cfr. Pr 8,30-31; prima lettura), del Padre, del Figlio, dello Spirito santo risulta allora essere quella di coinvolgere in questa dinamica d’amore ogni essere umano, svelandoci in tal modo la elementare e gioiosa essenza della propria intimità. Domandiamo ancora al Dio uno e trino lo stupore e il coraggio di partecipare in pienezza «a questa grazia nella quale ci troviamo» (Rm 5,2).

Preghiere e racconti 

Racconto

Si racconta che un giorno S. Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa, era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità. Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia, vide un bambino che faceva una cosa molto strana: aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino, andava al mare, prendeva l’acqua e la versava nel fosso. E così di seguito. E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede: «Che cos’è che stai facendo?» E il ragazzo: «Voglio mettere tutta l’acqua del mare in questo fosso». S. Agostino sentendo ciò rispose: «Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare. Ma come puoi pensare di riuscirci? Il mare è immenso, e il fosso è piccolo. E poi, con questo cucchiaino non basta la tua vita». E il ragazzo, che era un angelo mandato da Dio, gli rispose: «E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l’infinito mistero di Dio?». Agostino capì che Dio è un grande mistero. E capì che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore, che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.

 

Gloria tibi Trinitas!

Hans Urs von Balthasar ha approfondito una stupenda analogia per parlare dell’azione trinitaria in favore di noi uomini, per parlare della Trinità per come la conosciamo noi in quello che ha fatto per noi uomini. L’analogia è quella del teatro.

 

Pensiamo al teatro, ad un dramma. Pensiamo al rapporto che c’è tra l’Autore del testo del dramma, l’Attore protagonista della scena e il Regista di tutta la scena.

Quanto i tre fanno può essere espresso dai verbi seguenti:

L’Autore genera, concepisce, esprime, formula.

L’Attore incarna, rende vivo, realizza, presta alla parola dell’autore presenza e azione.

Il Regista ispira, suggerisce, dirige, orchestra, armonizza.

Pensiamo ad un dramma in cui i tre sono coinvolti allo stesso modo: perché l’attore è la persona più cara per l’autore, perché nell’attore persona e ruolo coincidono, il dramma cioè è qualcosa in cui non si recita ma si vive, chi fa la parte del re è re davvero, non si muore per finta, ma con vero spargimento di sangue.

La bellezza della rappresentazione dipende tutta dalla sintonia del regista e dell’attore con l’autore. Il pubblico è coinvolto, ci sono ponti fluidi tra platea e scena.

 

Chi sono l’Autore, l’Attore e il Regista del dramma divino che coinvolge l’uomo? Sono proprio il Padre, il Figlio e lo Spirito.

Il Padre genera, esprime, formula, dà tutto ciò che è.

Il Figlio incarna, rende vivo, realizza, dà presenza e azione.

Lo Spirito Santo ispira, suggerisce, dirige, orchestra, unisce nella distanza.

 

La bellezza che attrae, stupisce e coinvolge è la sintonia perfetta, l’unità.

Il Padre non troneggia immobile, giudice sopra il dramma. Il suo testo è il suo stesso piegarsi sulla sua creatura.

L’Attore, il Figlio è ciò che di più caro il Padre abbia. In lui persona e ruolo coincidono perfettamente, non c’è neppure un minuto in cui reciti, vive! Muore e risorge realmente.

Lo Spirito Santo sa cogliere perfettamente lo spirito del testo: è lui! È allo Spirito che il Padre affida il suo testo, è all’interpretazione e alla guida dello Spirito che il Figlio si affida per tradurre in vita il testo.

 

Che il mondo lo voglia o no il suo dramma è dramma trinitario, dramma dell’amore puro dono di sé.

Noi cristiani lo sappiamo, e sappiamo che sta qui il senso vero, ultimo della vita.

Sta a noi lasciarci coinvolgere fino in fondo e portare questo nella vita di ogni giorno.

Gloria tibi Trinitas!

Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito

La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.

Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui. Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose. Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito. Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6]. Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio. A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6). Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.

(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp. 88-90). 

Dio è Amore

Al nonno, professore universitario, che cercava di trasmettergli il concetto che “Dio è onnisciente, onnipotente, non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, insomma è tutto!” il nipotino di cinque anni rivolge a bruciapelo questa domanda inaspettata: “ma senti un po’ nonno, se Dio è tutto perché ha fatto il mondo?

Quando mi raccontarono il fatto rimasi sbalordito, ero appena uscito dalla lettura di due testi, il primo di un fisico, premio Nobel, Steve Weinberg che chiudeva il suo libro sull’origine dell’universo con una frase più o meno simile: quanto più l’universo ci diventa noto, tanto più non riusciamo a spiegarcene il perché, ci resta incomprensibile. Il secondo libro era di un teologo, Hans Urs von Balthasar, il quale affermava che: il mondo rimane per noi incomprensibile non soltanto se Dio non c’è, ma anche se Dio c’è e non è Amore.

La domanda “se Dio è tutto perché ha creato il mondo?” può avere una sola risposta: perché Dio è Amore.

La prima conclusione suona allora così: se il mondo c’è, Dio è Amore. 

Il patto di Dio

Dio ha fatto un patto con noi. Il termine inglese covenant (patto, alleanza) significa ‘con-venire’: Dio vuole venire insieme con noi. In molti dei racconti della Bibbia ebraica, troviamo che Dio appare come un Dio che ci difende contro i nostri nemici, ci protegge contro i pericoli e ci guida alla libertà. Dio è un Dio-per-noi. Quando Gesù viene, si rivela una nuova dimensione dell’alleanza. In Gesù Dio è nato, diviene adulto, vive, soffre e muore come noi. Dio è un Dio-con-noi. Infine, quando Gesù lascia questa terra, promette lo Spirito Santo. Nello Spirito Santo Dio rivela pienamente la profondità del suo patto. Dio vuole essere vicino a noi quanto il nostro respiro, Dio vuole respirare in noi, affinché tutto quello che diciamo, pensiamo o facciamo sia completamente ispirato da Dio. Dio è Dio-in-noi. Il patto di Dio ci rivela dunque quanto Dio ci ami.

(Henri J.M. NOUWEN, Pane per il viaggio, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 59).

Preghiera 

Lode a te, o Dio, che sei Padre, Figlio e Spirito,

che sei il termine eccedente del mio desiderio

e la fonte inesauribile del mio stupore.

Lode a te che hai voluto entrare nella nostra e nella mia storia

per mostrare che la mia solitudine radicale è vinta,

che la mia morte non potrà avvincermi in forma definitiva.

Lode a te che vinci il mio timore di perdermi se ti lascio spazio nel mio cuore.

Lode a te che mi avvolgi nella tua nube

e in essa mi sveli il tuo mistero,

che è il mistero della mia stessa vita ardentemente indagato.

Lode a te che sei l’amore traboccante e perennemente accogli e salvi la mia fragilità.

Lode a te che mi concedi di entrare nella tua comunione

e mi dischiudi possibilità di relazioni vertiginose.

Lode a te che mi conduci sulla via della dedizione

seducendo il mio spirito desideroso di pienezza.

Lode a te che sei il principio, l’ambiente e la meta di tutto quanto io posso fruire.

Lode a te che sei il mio Tutto.

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

TRINITÀ

PENTECOSTE

Prima lettura: Atti 2,1-11

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

L’azione formativa di Gesù sulla comunità apostolica era sostanzialmente completata. Mancava però un elemento, certo non trascurabile, per conferire organicità, profondità, pienezza di vedute e forza di azione. Gesù stesso lo aveva richiamato, esigendo dagli apostoli di non muoversi da Gerusalemme prima del compimento della promessa (cf. At 1,4). In modo esplicito, poi, aveva parlato della forza dello Spirito Santo che li avrebbe resi testimoni a Gerusalemme e nel mondo intero (cf. v. 8).

     Luca ci regala nel secondo capitolo degli Atti due splendide icone, quella dello Spirito (2,1-13) e quella della Parola (2,14-41). La seconda dipende in modo determinante dalla prima: lo Spirito è la forza aggregante che fa di vari gruppi una comunità; la Parola è il dono che la comunità ha il compito di vivere e di comunicare agli altri. La lettura odierna si interessa della prima parte del capitolo, composta da una introduzione, con soggetto e luogo (v. 1), dalla rappresentazione del fatto e delle sue conseguenze sugli interessati (vv. 2-4), e, infine, dall’effetto su scala mondiale (vv. 5-11).

     Il giorno di pentecoste segna il compimento della formazione data da Gesù. La piccola e timorosa comunità ecclesiale sta riunita insieme. Possiamo ritenere che sia la stessa, vista precedentemente raccolta in preghiera e formata da apostoli e laici, da uomini e donne (cf. At 1,14). «Mentre stava compiendosi il giorno…» indica, più che una conclusione (sono appena le ore 9 del mattino), un compimento, come ben suggerisce il verbo greco, symplêroô, allusione al compimento di una storia di promesse e di attese (cf. Lc 9,51).

     L’esperienza dello Spirito avviene mediante i segni teofanici del vento e del fuoco che vengono dal cielo; non si tratta di suggestione umana, bensì di dono dall’alto. L’esperienza è soprattutto interiore, ma c’è bisogno di un riscontro esteriore che documenti la nuova realtà (cf. il caso del paralitico di Mt 9,l-8). Ecco allora il «parlare in altre lingue». Forse per questo nuovo parlare in lingue si propone l’immagine di «lingue come di fuoco». A detta di Fabris, questa immagine è suggerita dalla tradizione giudaica circa il dono della legge o della parola al Sinai. Secondo una tradizione testimoniata da Filone e dai Targumim, la voce di Dio si divise in più lingue (Tg Dt 32,2), addirittura in 70 lingue perché tutte le nazioni potessero comprendere. Luca vuole dire che TUTTI sono ora abilitati dal dono dello Spirito ad essere profeti. La vera identità della comunità non si fonda sulla legge, ma sul comune dono ricevuto E sarà questo dono che permetterà di penetrare la legge e di viverla dall’interno realizzando la profezia di Ger 31,31-34 e di Ez 36,25-28.

     Che sia finito il tempo di gruppi elitari, lo si capisce dal concetto di totalità, ben espresso mediante un elenco di diversi gruppi di giudei che provenendo da varie parti, sentono un solo linguaggio. Si incontra infatti una lista di 13 popoli e paesi che Luca riporta per sottolineare, secondo la geografia imperiale dell’epoca, il senso di universalità. La lista è divisa in tre parti. Dapprima compare un gruppo di tre popoli che si trovano oltre il confine orientale dell’impero: «Siamo parti, medi ed elamiti» segue un secondo gruppo con nove regioni: «abitanti della Mesopotamia…»; un terzo gruppo si differenzia dai precedenti presentandosi così: «Romani qui residenti». Si distingue poi tra «Giudei e proséliti» (differenze etnico-religiose) e «cretesi e arabi», equivalente alla distinzione tra «abitanti delle isole e della terra ferma» (differenza culturale). Come si può osservare, la linea geografica si è mossa dall’area mediorientale per arrestarsi a Roma, dopo essere passata per le zone intermedie che collegano idealmente Gerusalemme con Roma. In quel giorno a Gerusalemme sono convocati i rappresentanti dei futuri cristiani. Insomma, il dono dello Spirito arriva a tutti.

     Lo Spinto non restituisce agli uomini un identico linguaggio ma permette agli apostoli di parlare a individui di ogni lingua e di essere da loro compresi. Si scorge l’intento universalistico della Chiesa che hanno dalla sua origine. Sa missione di portare a tutti i popoli il messaggio del suo Signore.

     Lo Spirito dono del Padre richiesto da Gesù, ha pure una sua ‘sacramentalità’ che la prima lettura si impegna a registrare. Non si tratta di una ‘fotografia’, ma neppure di un vago simbolo. Il testo registra dei fatti arricchiti da quella comprensione piena che permette di cogliere la sostanzialità degli eventi. Una fotografia mostra senza spiegare un simbolo spiega senza mostrare. Dalla combinazione nascono le pagine evangeliche e di tutto il N.T.: felice connubio tra storia e teologia (cf. Dei Verbum, 19).

  

Seconda lettura: Romani 8,8-17 

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 

Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

 

Il cap. 7 si chiudeva con una angosciosa domanda alla ricerca di un liberatore e contemporaneamente con la serena speranza di poterlo trovare in Cristo: a lui veniva indirizzata una preghiera di ringraziamento. Il cap. 8 dà spessore storico-teologico a tale speranza ed ha come tema la nuova condizione esistenziale del credente, ormai liberato dalla potenza del peccato, dalla morte e della legge e in tensione, sotto la guida e la mozione dello Spirito, verso la pienezza della redenzione.

     Lo Spirito è il centro focale del cap. 8: lo si nota anche statisticamente perché ritorna 20 volte in questo capitolo su un totale di 32 in tutta la lettera. Qui, tra l’altro, è posto in antitesi con la carne. L’antitesi Spirito-carne contiene diverse varianti (cf. vv. 4.5.6.8-9.12.13) le quali indicano che la contrapposizione abbraccia l’essere, l’agire, il vivere, l’orientamento, il pensare dell’uomo. Siamo quindi in presenza di determinazioni centrali, essenziali, tanto importanti da determinare il presente e anche il futuro (cf. v. 13).

     L’antitesi paolina non deve essere confusa o assimilata con altre che potrebbero sembrare simili, mentre sono in realtà profondamente diverse. Il mondo greco, per esempio, conosceva l’antitesi tra anima e corpo, la prima spirituale e immateriale, il secondo concreto e materiale. Paolo si orienta molto diversamente: per lui l’antitesi ha carattere dinamico, esistenziale e coglie l’uomo come unità psicofisica e non come composto, alla maniera greca. Per Paolo lo Spirito e la carne sono due opposti dinamismi che orientano radicalmente tutta la vita. Inoltre lo Spirito non rappresenta una possibilità autonoma dell’uomo, un pos-sesso che si ritrova fin dalla nascita solo perché si è uomini, ma è un dono di Dio.

     È di questo dono che bisogna vivere, per non essere debitori alla carne, principio della prassi egocentrica. Paolo ricorda la scelta fatta dai cristiani di Roma e illustra, in modo chiaro, la dimensione trinitaria della vita: «Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene» (v. 9). Non avere lo Spirito equivale a privarsi del dono di Dio, della sua stessa vita, che al v. 10 riprende il nome di ‘giustificazione’, tema ampiamente trattato nei capitoli precedenti. Ora lo stesso tema si arricchisce, sia contenutisticamente perché, si comprende l’azione dello Spirito, sia linguisticamente, perché si introduce il concetto di ‘vita’ (cf. v. 11). Quello di vita è un termine facilmente comprensibile che illustra ulteriormente quello meno comune di giustificazione.

     Dopo aver trattato dell’antitesi Spirito-carne, prende avvio il tema della figliolanza divina che si spinge fino al v. 30 (ben oltre il brano liturgico). L’esperienza dello Spirito è tematizzata come esistenza da figli di Dio. È la vita dinamica, ancora in fase di sviluppo come si vede dal tema dell’attesa, ma già orientata verso la meta. Il v. 14 e la tesi teologica che regge tutto il brano, fondata su due poli, la guida dello Spirito e la figliolanza divina: la seconda dipende dalla prima.

     Lo Spirito, principio di vita nuova in quanto abilita ad essere figli di Dio, è anche principio di preghiera nuova. Tale novità non si limita al solo insegnamento, ma egli stesso prega in noi. Non dice quello che dobbiamo fare, ma lo fa con noi. Egli ci fa dire Abbà. Formula sconosciuta al giudaismo, è invece caratteristica del Figlio di Dio, Gesù Cristo. Lui solo poteva dire in tutta libertà tale titolo (cf. Mc 14,36), e lui solo poteva autorizzare i credenti a ripeterlo (cf. Gal 4,6). Giunge così a conclusione il cammino dell’Antica Alleanza: si era partiti da una paternità rispettosa ma lontana, e si arriva ad una paternità, sempre rispettosa ma confidenziale. Gesù ha insegnato a colloquiare con Dio con il linguaggio semplice, spontaneo e fiducioso del bambino che si rivolse a suo padre chiamandolo teneramente ‘papà’, ‘babbo’. È lo Spirito che fa ripetere questa dolce parola, che infonde il sentimento della figliolanza divina che ci fa sentire figli di Dio (cf. v. 16). Anche da questa prospettiva si coglie la dimensione trinitaria della vita cristiana.

 

Vangelo: Giovanni 14,15-16.23-26

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

 

Esegesi 

     Si comprende la scelta del brano evangelico nel contesto della solennità odierna. Il testo tratta ovviamente dello Spirito Santo, presentando alcuni aspetti della sua molteplice attività. Da quello che Egli fa, veniamo a sapere qualcosa di quello che Egli è. Egli agisce in stretta relazione sia con Gesù e il Padre, sia con la comunità ecclesiale, rappresentata dai discepoli.       

     All’interno dei discorsi di addio Giovanni inserisce cinque affermazioni tipiche e originali sullo Spirito Santo, chiamate spesso dagli studiosi ‘le cinque promesse’. Diamo una essenziale mappa di orientamento. La prima e seconda promessa sono all’interno del primo discorso (14,16-17 e, 14,26), la terza nel secondo discorso (15,26-27), la quarta e la quinta nel terzo discorso (16,5-11 e 16,12-15). Il nostro brano contiene le prime due.

     Vi troviamo, per lo Spirito, il particolare titolo «Paraclito». Esso compare in tutto il NT cinque volte e ricorre solo nei discorsi di addio (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7) e nella prima lettera di Giovanni (1Gv 2,1). Doveva essere un termine noto ai primi destinatari, perché provvisto di articolo determinativo; lo è meno per noi. Il significato base è quello di ‘chiamato presso’ (dal greco kaléo ‘chiamare’ e pará ‘presso’, cf. latino advocatus, italiano ‘avvocato’). Non sembra avesse un significato tecnico, indicando piuttosto un amico o una persona di fiducia ‘chiamata in aiuto’ in occasione di crisi o difficoltà. La radice greca indica anche il conforto, la consolazione che, sappiamo da altri scritti (cf. 1Cor 14,1-3; At 9,31) apparteneva all’attività dello Spirito. Da qui i tentativi di traduzione italiana che propongono «Avvocato» o «Consolatore» (testo ufficiale), cogliendo aspetti veri ma, tutto sommato, sempre parziali. Nell’impossibilità di trovare un equivalente esatto, molti preferiscono usare anche in italiano il termine greco «Paraclito».

     Un’abbagliante luce pasquale si stende sul presente brano e su tutti i discorsi di addio. La dipartita di Gesù non è una partenza senza ritorno, né una partenza infruttuosa. Con la sua morte e risurrezione egli «prepara un posto», cioè rende possibile ai discepoli la comunione con il Padre. Non si tratta, ovviamente di un posto in senso spaziale o geografico, ma di un ‘luogo teologico’ nel senso di immettere i discepoli nel circuito della relazione trinitaria. Il posto potrebbe essere meglio definito come ‘incontro’ con la persona del Padre. Cristo è colui che è via, o mezzo, che rende possibile tale incontro. Quello che è stato Gesù durante la sua presenza fisica, lo sarà lo Spirito nel ‘tempo della Chiesa’. Gesù aiuta i suoi a sbirciare un poco nella vita eterna. Egli diventa la via che conduce al Padre al quale lo lega una relazione unica, espressa precedentemente con una frase lapidaria che vale un trattato di teologia: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Grazie a questa comunione di vita, aggira il problema della inaccessibilità del Padre e ne diventa il rivelatore per eccellenza: «Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9).

     Nonostante queste fulminanti rivelazioni, i discepoli si trovano nella zona d’ombra di smarrimento interiore perché Gesù ha annunciato la sua dipartita. Egli allora enuncia la prima delle cinque promesse dello Spirito (vv. 16-17). Notiamo che Gesù parla di «un altro Paraclito», ovviamente perché ritiene se stesso il primo Paraclito; egli ha assicurato ai discepoli la sua presenza e ha svolto la funzione di guida, compiti che ora trasmette allo Spirito.

     Il v. 26 concentra l’attenzione sulla natura del rapporto misterioso che unisce l’insegnamento dello Spirito e quello di Gesù. Nel «mio nome» indica la perfetta comunione con il Padre e il Figlio nella missione dello Spirito. Se lo Spirito è inviato nel nome di Gesù, allora suo compito sarà quello di rivelare il Cristo, di fare conoscere il suo vero nome di Figlio di

Dio che esprime sotto il mistero della sua persona. L’insegnamento dello Spinto e la sua azione di ricordare hanno un unico e medesimo oggetto: l’insegnamento di Gesù nel suo insieme. Di conseguenza non esiste un insegnamento dello Spirito indipendente da quello di Gesù. Il fatto è di grande importanza teologica perché si dice che lo Spirito non apporta

nulla alla rivelazione di Gesù, il solo che sia LA PAROLA (Logos). L’attività dello Spirito sarà eminentemente attività di interiorizzazione di quello che Gesù ha detto e fatto.

     Esiste quindi una continuità tra l’opera di Gesù e quella dello Spirito, pur nel diverso tipo di presenza. Tale continuità viene evidenziata dall’attività dello Spirito che riprende, per una interiorizzazione e comprensione più matura, l’insegnamento di Gesù (vv. 25-26). Il ‘nuovo Paraclito’ avrà la funzione di continuare, quasi di prolungare, l’attività di Gesù. Vediamo alcuni paralleli: Gesù pregherà il Padre perché lo Spirito rimanga con i credenti per sempre (14,16); attraverso tutto il IV Vangelo si dice che Gesù è stato con i suoi (3,22; 6,3); soprattutto durante l’ultima Cena Gesù richiamerà questi rapporti familiari. In 14,26 si dice che lo Spirito dovrà insegnare; Gesù è sempre stato maestro (6,59; 7,14). Più avanti, fuori dal testo proposto dalla liturgia odierna, in 16,8 lo Spirito mette in luce il peccato del mondo; Gesù non solo è la luce che fuga le tenebre del mondo, ma pure denuncia ripetutamente il peccato dei suoi avversari (8,21).

     Inoltre Gesù rimprovera al mondo di non essersi accorto della presenza dello Spirito nella sua missione terrena: ecco il significato del ‘non vedere’ e quindi del ‘non conoscere’ (cf. v. 17). Il rifiuto di Gesù da parte del mondo, cioè i Giudei, è il rifiuto dello Spirito. In ben altra situazione si trovano i discepoli che hanno accolto Gesù.

     Quello dello Spirito è un dono che Gesù chiede al Padre. Ne viene un bel quadro che raffigura i discepoli in intima relazione con la Trinità. La comunità non è qui sola, né abbandonata alla furia devastatrice del mondo, perché la presenza dello Spirito la conforta rassicurandola che Gesù è sempre con lei, vivo e operante: è un perenne annuncio pasquale. Nasce una nuova famiglia, amata dal Padre, fondata da Gesù, animata dallo Spirito.

Meditazione 

     «Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste» (At 2,l): Luca introduce il racconto della discesa dello Spirito sugli apostoli radunati a Gerusalemme sottolineando che ciò che accade è un evento di compimento. Si compie la Pentecoste, si compiono i cinquanta giorni della Pasqua. Nella discesa dello Spirito Santo giunge a compimento il mistero pasquale, proprio perché lo Spirito ci viene donato per renderci pienamente partecipi della morte e risurrezione del Signore Gesù; del suo amore e dell’amore del Padre che in modo insuperabile la Croce rivela; della vita nuova e risorta che dalla Croce scaturisce.

     San Paolo lo ricorda con vigore nel brano della lettera ai Romani che ascoltiamo come seconda lettura nell’eucaristia di questo giorno. «E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (v. 11). Poco dopo aggiunge: «tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (vv. 14-15).

     Nello Spirito diveniamo eredi di Dio e coeredi di Cristo: quello che lui vive e che costituisce la sua più intima identità – la comunione d’amore con il Padre – ci viene comunicato. Per questo motivo, in un altro passo delle sue lettere, Paolo può affermare che «il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà» (2Cor 3,l7). Infatti, solamente nello Spirito possiamo gridare «Abbà, Padre»; è lo Spirito a donarci la libertà dei figli, unificando la nostra vita e trasformandola in un’esistenza filiale, in un vivere da figli e non più da schiavi. Il che implica riconoscersi figli dello stesso Padre e fratelli tra di noi, chiamati ad accoglierci e a comprenderci nonostante la diversità delle lingue parlate da ciascuno. Il segno della Pentecoste fa di Gerusalemme il compimento di quel desiderio che gli uomini avevano cercato di appagare in modo confuso progettando Babele, come città agognata «per non disperderci su tutta la terra» (cfr. Gen 11,4). Non si può edificare la città di una pacifica convivenza tra gli uomini imponendo a tutti di parlare la medesima lingua. È, al contrario, necessario accogliere il dono dello Spirito che consente di comprendersi continuando ciascuno a parlare la «propria lingua nativa» (cfr. At 2,6.8). Lo Spirito dona la pos-sibilità di questa reciproca comprensione proprio perché insegna a ogni lingua che è sulla terra a gridare – anche in questo caso nella ‘lingua nativa’ della propria cultura e della propria tradizione religiosa – «Abbà, Padre». La dimensione orizzontale della comunione tra gli uomini può fondarsi unicamente sulla dimensione verticale della loro comunione con Dio, riconosciuto Padre di tutti. Quello che avviene nella Gerusalemme descritta dagli Atti prefigura la Gerusalemme profetizzata dall’Apocalisse, costruita non con mattoni tutti uguali come Babele, ma con pietre preziose, ciascuna diversa dall’altra e rilucente della propria bellezza. La Gerusalemme dell’Apocalisse è insieme città e sposa. L’immagine della sposa allude all’unicità della relazione con il Signore; quella della città alla pluralità di relazioni che gli uomini vivono tra loro. Non si può diventare città senza essere sposa, così come l’essere sposa fa di Gerusalemme una vera città. La relazione con Dio nella quale lo Spirito ci conduce, rendendoci suoi figli ed eredi, fonda un diverso modo di essere in relazione tra noi, non più segnato dalla diffidenza e dall’ostilità, o più semplicemente dall’indifferenza, ma aperto all’accoglienza vicendevole, nella tensione incessante a superare gli steccati dell’incomunicabilità e dell’incomprensione.

     Tutto questo non viene semplicemente dallo sforzo umano, ma dall’agire dello Spirito in noi, come frutto maturo della Pasqua di Gesù e dell’amore trinitario che in essa si è manifestato. L’amore fino al compimento (cfr. Gv 13,1) non si arresta prima di giungere a questa soglia, a divenire cioè amore che si compie in noi, consentendoci di amare come siamo stati amati. Anche questo è il dono dello Spirito Santo nella nostra vita: l’amore con il quale il Padre e il Figlio si amano fino a essere una sola cosa, ci viene donato affinché anche noi possiamo divenire uno (cfr. Gv 17,22-23), dimorando stabilmente in questo stesso amore che, direbbe san Paolo, lo Spirito riversa nei nostri cuori (cfr. Rom 5,5).

     Questo è anche l’annuncio fondamentale che ci raggiunge oggi attraverso il brano evangelico di san Giovanni. Anzi, l’evangelista giunge ad affermare qualcosa di ancora più audace e insperato: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (v. 23). Occorre rimanere nell’amore custodendo la parola di Gesù. Non si tratta tanto della necessità di osservare un comando estrinseco, proposto o imposto all’obbedienza della nostra libertà; piuttosto è necessario accogliere nella parola di Gesù un principio vitale, che manifesta la sua efficacia proprio comunicandoci l’amore stesso di Dio che, mediante la parola ascoltata e accolta, viene ad abitare in noi e ci trasforma, rendendoci capaci di amare come lui ci ama. Il ‘come’ va inteso non in senso imitativo, ma fondativo. Non significa tentare come possiamo, confidando in noi stessi e nelle nostre deboli forze, di imitare l’amore di Dio che Gesù ci rivela; significa piuttosto che sul fondamento di quell’amore, che la parola ci testimonia e ci comunica, ancorandoci a esso e non a noi stessi, diveniamo capaci di una misura di amore che altrimenti non sarebbe nelle nostre possibilità. Se custodiamo la parola in noi, la parola stessa ci condurrà a dimorare stabilmente nell’amore. Riprendendo le immagini dei vangeli Sinottici (cfr. soprattutto il discorso parabolico di Mc 4), possiamo dire che la parola è un seme che porta il frutto abbondante dell’amore. Anche se è indispensabile l’accoglienza del terreno buono, il frutto non dipende dalla qualità del terreno, ma dalla potenza racchiusa nel

seme stesso. Giovanni tuttavia non si accontenta di questa affermazione, si spinge oltre: non solo l’amore di Dio rimane in noi come fondamento delle nostre relazioni; il Padre e il Figlio stessi verranno a prendere dimora presso di noi! Non solo l’amore come dono di Dio, ma la sorgente dell’amore, il Donatore stesso – il Dio-Trinità – viene a dimorare in noi per fare della nostra esistenza il tempio della sua Gloria.

     L’alleanza ora davvero si compie. Tra l’uomo e Dio non c’è più solamente un patto stipulato tra due soggetti, come tale sempre esposto all’infedeltà da parte di uno dei due contraenti (in questo caso l’uomo), e non c’è neppure semplicemente una Legge da osservare come condizione del patto stesso. Ora c’è una reciproca appartenenza nella comunione, addirittura un dimorare l’uno nell’altro. L’uomo dimora in Dio che è amore, il Dio-amore dimora nell’uomo. A sigillare il patto non è più l’osservanza della Legge, il cui dono veniva celebrato nella Pentecoste ebraica; ora è lo Spirito stesso che rimane con noi per sempre. È il respiro di Dio che diviene il nostro respiro; il suo cuore intimo e segreto che trasforma il nostro cuore; l’amore tra il Padre e il Figlio che diviene fondamento e nutrimento del nostro stesso amore. L’amore diviene legge interiorizzata in noi dallo Spirito o, in termini capovolti, lo Spirito interiorizza la Legge in noi unificandola intono al comandamento nuovo, sintesi e compimento di tutti i precetti dell’Alleanza.

     Lo Spirito, promette Gesù, rimarrà con noi «per sempre» (cfr. v. 16). Per sempre non indica solamente una durata temporale. Assicura alla nostra vita che lo Spirito rimarrà con noi anche nei tempi e nei luoghi del nostro peccato e della nostra lontananza da Dio, purché custodiamo la parola di Gesù. Non innanzitutto nel senso che le obbediamo fedelmente e senza incrinature (chi di noi ne sarebbe capace?), ma nel senso che diamo credito alla sua promessa, affidandoci alla sua potenza di perdono e di misericordia. Non è una parola qualsiasi quella che dobbiamo custodire, ma quella Parola, l’ultima e definitiva parola pronunciata dal Padre, senza pentimento alcuno, che è la parola della Pasqua, la parola della Croce. Quella Parola che è il Figlio stesso, crocifisso e risorto per noi e per la nostra salvezza. Nel soffio del suo respiro – lo Spirito Santo – il Padre torna a pronunciare in noi la sua Parola che è il Figlio, per conformarci a lui e chiamare anche noi a divenire suoi figli adottivi. Lo Spirito che abbiamo ricevuto, ci ricorda ancora san Paolo, non è uno Spirito da schiavi, tale da imprigionarci nella paura, ma uno Spirito da figli, che liberando il nostro cuore lo introduce nell’affidamento pieno a colui che possiamo invocare con verità e fiducia come il nostro Abbà, il nostro Padre.

Preghiere e racconti

La Pentecoste

La struttura dell’icona ricorda l’Ultima Cena: allora gli apostoli si stringevano intorno a Gesù per accogliere il suo testamento, ora si raccolgono intorno a Maria per perseverare nella preghiera, in attesa dello Spirito Paraclito. La scena si svolge nella stessa stanza che vide Cristo istituire l’Eucaristia, la «camera alta» di Sion. La comunione di quanti credono in Cristo è custodita dalla sollecita premura di Maria, beata perché per prima ha creduto all’adempimento della parola del Signore (cf Lc 1, 45). La Madre di Dio e degli uomini, che ha conosciuto la potenza dello Spirito nell’Annunciazione, rassicura gli apostoli turbati per il forte vento che si abbatte gagliardo e che riempie tutta la casa dove si trovano. Le lingue di fuoco che appaiono, che si dividono e che si posano su ciascuno di loro non provocano nessun incendio, ma illuminano le loro menti e accendono nei loro cuori il fuoco dell’Amore.

In questa Chiesa nascente, lo Spirito Santo riveste di forza gli apostoli, ricorda loro tutte le parole di Cristo e li rende testimoni del Vangelo sino agli estremi confini della terra.

Maria, nuovamente visitata dalla fecondità dello Spirito Santo, diviene Madre della Chiesa, rifugio mirabile dei discepoli che invocano la sua materna protezione.

 

Vieni Spirito Santo.

Vento impetuoso,

fuoco che divora,

ma anche brezza leggera,

scintilla di luce.

Vieni in me.

Parola potente,

ma anche lieve sussurro.

Vieni in me. Fresca cascata,

ma anche rivolo d’acqua che estingue l’arsura…

Dammi occhi nuovi,

dammi ali di libertà,

dammi trasparenza di vita,                

dammi tenerezza e audacia

e attenderò con te,

nella speranza,

il nuovo Giorno.

(Domenica GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografa).

Spirito di Dio

Spirito di Dio, che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell’universo e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti. Questo mondo che invecchia, sfioralo con l’ala della tua gloria.

Spirito Santo, che riempivi di luce i profeti e accendevi parole di fuoco sulla loro bocca, torna a parlarci con accenti di speranza. Frantuma la corazza della nostra assuefazione all’esilio. Ridestaci nel cuore nostalgie di patrie perdute.

Spirito Santo, che hai invaso l’anima di Maria per offrirci la prima campionatura di come un giorno avresti invaso la Chiesa e collocato nei suoi perimetri il tuo nuovo domicilio, rendici capaci di esultanza. Donaci il gusto di sentirci estroversi, rivolti cioè verso il mondo, che non è una specie di Chiesa mancata, ma l’oggetto ultimo di quell’incontenibile amore per il quale la Chiesa stessa è stata costituita.

Spirito di Dio, che presso le rive del Giordano sei sceso in pienezza sul capo di Gesù e l’hai proclamato Messia, dilaga sul tuo corpo sacerdotale, adornalo di una veste di grazia, consacralo con l’unzione e invialo «a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, e a promulgare l’anno di misericordia del Signore» (cfr. Lc 4,18-19).

Spirito Santo, dono del Cristo morente, fa’ che la Chiesa dimostri di averti ereditato davvero. Trattienila ai piedi di tutte le croci, quelle dei singoli e quelle dei popoli. Ispirale parole e silenzi, perché sappia dare significato al dolore degli uomini. Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto, e ripeta col salmo: «Le mie lacrime, Signore, nell’otre tuo raccogli» (Sal 56,9).

(Don Tonino Bello).

La fiamma dello Spirito Santo

«Lo Spirito Santo accende sempre il suo fuoco, questa fiamma leggera, silenziosa, che non distrugge e anzi è carica di forza salvifica. Dicendo questo, però, sorge spontaneo chiedersi: Arde ancora, oggi, nella Chiesa, questa fiamma? […]. Arde ancora nella Chiesa questa fiamma riconciliatrice e salvatrice, oppure è soffocata dalla polvere e dalle macerie di una quantità di abitudini, istituzioni, paure? Il cristianesimo è ancora fuoco e Spirito, oppure alla fine anche nel cristianesimo è rimasta solo acqua? l’acqua sollevata dalle teorie e dai discorsi ispirati, che cercano invano di nascondere con belle parole la perdita di realtà che vi si cela?

Quasi ogni giorno, traversando piazza San Pietro mentre vado al lavoro, mi capita di incontrare giovani provenienti da ogni parte del mondo che non rincorrono la carriera, non vogliono solo mettersi in mostra, ma che sono colmi della gioia della fede e vogliono servire Cristo. In essi riluce la gioia e il coraggio della conversione a Cristo. Da incontri come questi io vedo che, sì, quella fiamma arde.

E quando incontro uomini nel pieno degli anni che, senza darsi grande importanza, giorno per giorno, con grande pazienza e umiltà, con bontà e costanza, portano avanti una vita spesso difficile – potrei raccontare parecchie piccole storie di bontà, di cui continuamente vengo a conoscenza – allora so che, sì, quella fiamma silenziosa e pur tuttavia potente arde ancora oggi.

E quando vedo dei vecchi che non hanno in sé alcuna amarezza ma la pura e matura bontà che viene dalla fede, dalla prossimità a Dio in Cristo, allora so che, sì, anche oggi nella Chiesa non c’è solo acqua, ma la fiamma dello Spirito Santo.

[…] Certo, se da qualche parte scoppia uno scandalo, lo si viene a sapere subito in tutto il mondo. La fiamma dello Spirito Santo non dà notizie mediatiche, ma è qui ed è ciò in cui confidiamo. Rimettiamoci ad essa e voglia la Pentecoste aprire gli occhi del nostro cuore affinché possiamo vederla di nuovo.

[…] La fede è risanamento e salvezza. Ma non possiamo essere salvati dalla fede se non accettiamo anche il dolore della trasformazione. Nella lingua di Gesù Cristo, «fuoco» è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce. Senza questa ardente condivisione della croce non esiste cristianesimo.

Ma il fuoco è anche un’immagine d’amore.

Anzi, in realtà queste due immagini coincidono perché la croce è amore e l’amore è croce: proprio in questo stanno la grandezza e la salvezza, e per averne coscienza la semplice esperienza umana è sufficiente. L’attimo di grande entusiasmo e di coinvolgimento non basta, porta a promesse vuote e a delusioni, se non gli diamo continuità e una forma pura attraverso il quotidiano sopportarsi reciproco e sorreggersi, accettarsi e darsi, maturando un amore reale.

Vieni Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco del tuo amore! È una preghiera temeraria, perché chiediamo di essere incendiati dalla fiamma dello Spirito Santo; ma è anche una grande preghiera di salvezza, perché solo questa fiamma ha potere di salvezza. Se ci sottraiamo a essa per voler conservare la nostra vita attuale, perdiamo proprio la vera vita. Solo la fiamma dello Spirito Santo può salvarci, perché solo l’amore redime.

Amen».

(J. RATZINGER [Benedetto XVI], Spirito e fuoco. Discorso tenuto  nel Duomo di Regensburg, 4 giugno 1995 in J. Ratzinger [Benedetto XVI], Vieni spirito Creatore, Lindau, Torino, 2006, 67-76).

«Vieni!»

La Chiesa ha bisogno della sua perenne pentecoste. Ha bisogno di fuoco nel cuore, di parole sulle labbra, di profezia nello sguardo. La Chiesa ha bisogno d’essere tempio dello Spirito Santo, di totale purezza, di vita inferiore. La Chiesa ha bisogno di risentire salire dal profondo della sua intimità personale, quasi un pianto, una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante cioè dello Spirito Santo, che a noi si sostituisce e prega in noi e  per noi «con gemiti ineffabili», e che interpreta il discorso che noi da soli non sapremmo rivolgere a Dio. La Chiesa ha bisogno di riacquistare la sete, il gusto, la certezza della sua verità e di ascoltare con inviolabile silenzio e con docile disponibilità la voce, il colloquio parlante nell’assorbimento contemplativo dello Spirito, il quale insegna «ogni verità».

E poi ha bisogno la Chiesa di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà, l’onda dell’amore che si chiama carità e che è diffusa nei nostri cuori proprio «dallo Spirito Santo che ci è stato dato». Tutta penetrata di fede, la Chiesa ha bisogno di sperimentare l’urgenza, l’ardore, lo zelo di questa carità; ha bisogno di testimonianza, di apostolato. Avete ascoltato, voi uomini vivi, voi giovani, voi anime consacrate, voi fratelli nel sacerdozio? Di questo ha bisogno la Chiesa. Ha bisogno dello Spirito Santo in noi, in ciascuno di noi, e in noi tutti insieme, in noi Chiesa. Sì, è dello Spirito Santo che, soprattutto oggi, ha bisogno la Chiesa. Dite dunque e sempre tutti a lui: «Vieni!».

(PAOLO VI, Discorso del 29 novembre 1972).

Non lasciarmi senza il tuo Spirito

O Signore, ascolta la mia preghiera. Tu hai promesso ai tuoi discepoli che non li avresti lasciati soli, ma avresti mandato lo Spirito Santo per guidarli e condurli alla piena Verità.

Mi sembra di brancolare nel buio. Ho ricevuto tanto da te, eppure è difficile per me stare semplicemente quieto e presente dinanzi a te. La mia mente è così caotica, così piena di idee disperse, di piani, di memorie, di fantasie. Voglio stare con te e con te soltanto, concentrarmi sulla tua Parola, ascoltare la tua voce e guardare a te mentre ti riveli ai tuoi amici. Ma, anche con le migliori intenzioni, divago pensando a cose meno impor-tanti e scopro che il mio cuore è attirato verso i miei piccoli tesori senza valore.

Non posso pregare senza la potenza dall’alto, la potenza del tuo Spirito. Manda il tuo Spirito, Signore, affinché il tuo Spirito possa pregare in me, possa dire «Signor Gesù» e gridare «Abbà, Padre».

Io aspetto, Signore, sono in attesa, spero. Non lasciarmi senza il tuo Spirito. Dammi il tuo Spirito che unisce e consola. Amen.

(J.M. NOUWEN, Manoscritto inedito, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 243-244).

Credere nello Spirito santo

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Dio, significa per me ammettere fiduciosamente che Dio stesso può farsi presente nel mio intimo, che egli come potenza e forza di grazia può diventare il signore del mio intimo ambivalente, del mio cuore spesso così insondabile. E, ciò che qui è per me particolarmente importante: lo Spirito di Dio non è uno spirito di schiavitù. Egli è comunque lo Spirito di Gesù Cristo, che è lo Spirito di libertà. Questo Spirito di libertà promanava già dalle parole e dalle azioni del Nazareno. I1 suo Spirito è ora definitivamente lo Spirito di Dio, da quando il Crocifisso è stato glorificato da Dio e vive e regna nel modo di essere di Dio, nello Spirito di Dio. Perciò a piena ragione Paolo può dire: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Cor 3,17). E con ciò non s’intende soltanto una libertà dalla colpa, dalla legge e dalla morte, ma anche una libertà per 1’agire, per una vita nella gratitudine, nella speranza e nella gioia. E ciò ad onta di tutte le carenze delle strutture e di tutti i tradimenti del singolo. Questo Spirito di libertà, in quanto Spirito del futuro, mi spinge in avanti: non nell’aldilà della consolazione, ma nel presente della prova.

E poiché so che lo Spirito santo è lo Spirito di Gesù Cristo, io ho anche un criterio concreto per saggiare e discernere gli spiriti. Dello Spirito di Dio non si può più abusare come di una forza divina oscura, senza nome e facilmente equivocabile. No, lo Spirito di Dio è con tutta chiarezza lo Spirito di Gesù Cristo. E ciò significa in modo del tutto concreto che né una gerarchia né una teologia e neppure un fanatismo che vogliano richiamarsi allo «Spirito santo» oltre Gesù, possono requisire lo Spirito di Gesù Cristo. Qui hanno i loro limiti ogni ministero, ogni obbedienza, ogni partecipazione alla vita della teologia, della chiesa e della società.

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Gesù Cristo significa per me, anche di fronte ai molti movimenti carismatici e pneumatici: che lo Spirito non è mai una mia propria possibilità, ma è sempre forza, potenza, dono di Dio – da ricevere con fiducia incondizionata. Egli quindi non è un non santo spirito del tempo, della chiesa, del ministero o dell’entusiasmo; egli è sempre il santo Spirito di Dio, che soffia dove e quando vuole, e non si lascia catturare da nessuno: come giustificazione di un potere assoluto di insegnamento e di governo, di infondate leggi dogmatiche della fede o anche di un fanatismo religioso e di una falsa sicurezza della fede. No, nessuno – né vescovo né professore, né parroco né laico – «possiede» lo Spirito, ma ognuno può invocare di continuo: «Vieni, santo Spirito».

Ma, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io posso, con buone ragioni, credere non certo nella chiesa, ma nello Spirito di Dio e di Gesù Cristo anche in questa chiesa, che è composta da uomini fallibili come lo sono anch’io. E, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io sono preservato dalla tentazione di staccarmi, rassegnato o cinico, dalla chiesa. Poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito io, nonostante tutto, posso dire in buona coscienza: credo la santa chiesa. Credo sanctam ecclesiam.

(H. KUNG, Credo)

Preghiera allo Spirito Santo

Spirito Santo, eterno Amore,

che sei dolce Luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore;

Tu ci guidi qual mano di una mamma;

ma se Tu ci lasci non più d’un passo solo avanzeremo!

Tu sei lo spazio che l’essere mio circonda e in cui si cela.

Se m’abbandoni cado nell’abisso del nulla,

da dove all’esser mi chiamasti.

Tu a me vicino più di me stessa,

più intimo dell’intimo mio.

Eppur nessun Ti tocca o Ti comprende

e d’ogni nome infrangi le catene.

Spirito Santo, eterno Amore.

(Edith Stein [S. Teresa Benedetta della Croce]).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO

PASQUA VIII PENTECOSTE C

ASCENSIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: Atti 1,1-11

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

 

I primi tre versetti del libro degli Atti lo collegano strettamente al terzo vangelo: ne riassumono infatti il contenuto e ripetono il nome del personaggio a cui ambedue i libri sono dedicati: Teofilo (che può essere il nome di un personaggio storico o può essere soltanto il titolo dato al prototipo del cristiano: l’amico di Dio). Il riassunto del terzo vangelo qui proposto si sofferma soprattutto (nell’intero versetto 3) sul fatto che gli Apostoli sperimentarono a lungo e in maniera pienamente convincente che Cristo era tornato a vivere, dopo la sua passione e morte (cioè, era risorto): infatti era apparso a loro ripetutamente, istruendoli sul regno di Dio. L’espressione «per quaranta giorni» deve avere qui un valore simbolico: deve voler significare che l’esperienza del Cristo risorto fu bensì limitata e conclusa nel tempo, ma sufficiente perché agli Apostoli fosse dato un insegnamento pieno sulla missione a loro affidata.

     Nei vv. 4.8 sono quasi condensati, in un unico episodio, il lungo rapporto intercorso tra Gesù risorto e gli Undici e l’insegnamento che essi da lui ricevettero. L’espressione «mentre si trovava a tavola con essi» contiene forse una allusione alla verità indiscutibile della sua risurrezione (non era un fantasma!) e alla familiarità conviviale con cui il risorto si intratteneva con i suoi. Elemento importante dell’insegnamento di Gesù risorto è considerato quello che riguarda lo Spirito Santo, il quale con la sua forza avrebbe portato a compimento la loro formazione di discepoli. Altro elemento importantissimo di quell’insegnamento è

l’orizzonte universale della missione affidata agli Undici da Gesù: «di me sarete testimoni… fino agli estremi confini della terra». L’universalità di questa prospettiva è presentata con grande decisione, tale da far apparire quasi insignificante il desiderio di conoscere i tempi e i momenti della ricostruzione del regno di Israele; quel desiderio è destinato quasi ad annegare nella vastità dei disegni del Padre.

     I versi 9-11 contengono diversi messaggi tra loro coordinati. Il primo è che Gesù ha concluso la sua presenza visibile sulla terra, essendo rientrato nel modo di essere proprio di Dio, come suggerisce la frase: «una nube lo sottrasse ai loro occhi» (la nube è infatti, nell’Antico Testamento, il nascondiglio e insieme il segno della presenza di Dio). Un altro insegnamento è che ormai la testimonianza su Gesù e del suo vangelo è affidata esclusivamente ai suoi discepoli: questo sembra vogliano suggerire i due misteriosi uomini in bianche vesti, che li invitano a non restarsene lì incantati a cercare con lo sguardo colui che fu elevato in alto. Un ultimo insegnamento è che quel Gesù che non è più visibile con gli occhi, tornerà un giorno e sarà di nuovo visibile, nella sua veste di giudice supremo e universale.

 

Seconda lettura: Ebrei 9,24-28; 10,19-23

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza. Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.

 

La lettera agli Ebrei, nel brano che costituisce la nostra seconda lettura, pur non facendo alcun riferimento al racconto del libro degli Atti che include il fatto dell’ascensione del Signore, sembra che ne illustri il profondo significato teologico.

     Come nel libro degli Atti, anche qui è detto che Gesù «è entrato… nel cielo… per comparire ora al cospetto di Dio» (9,24). Per poter approfondire il significato dell’ingresso di Gesù nel cielo, che era un elemento comune della predicazione nella Chiesa primitiva, l’ignoto autore della lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra la persona di Gesù e le pratiche cultuali degli Ebrei, concentrate nel tempio di Gerusalemme. In particolare, qui sembra evocata la festa dell’Espiazione, quella che oggi è per gli ebrei, accanto alla Pasqua, una delle feste religiose più importanti, col nome di jôm Kippùr. Elemento centrale di questa celebrazione era quello che si può chiamare il rito del sangue: il sommo sacerdote, passando oltre il velo che separava il luogo santissimo dalla zona del sacrificio, ungeva il coperchio dell’Arca (detto in ebraico kappòret e tradotto con il termine propiziatorio) con il sangue del vitello e del capro offerti quel giorno in sacrificio per l’espiazione dei peccati dello stesso sacerdote e di tutti gli israeliti (Vedi Levitico, 16). Nella nostra lettura, Gesù Cristo è visto come il celebrante di una nuova festa dell’Espiazione: egli è penetrato nel cielo stesso portando il proprio sangue, quello sgorgato dalla sua persona, e ha ottenuto una volta per tutte di togliere i peccati di molti. Conseguenza grandiosa di questi fatti è che si è aperta una via nuova e vivente, la persona stessa di Gesù Cristo immolatasi per il mondo intero, che consente anche a noi di entrare nel santuario, cioè nella casa di Dio. Perché questo accada è però necessario avere il cuore purificato e il corpo lavato con acqua pura, nella luce della fede e nella professione della speranza: il che vuol dire avere accolto la testimonianza della predicazione apostolica ed essere entrati a far parte della Chiesa voluta da Gesù.

 

Vangelo: Luca 24,46-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio. 

  

Esegesi 

     Chi pensasse di trovare nel vangelo di Luca il racconto circostanziato dell’ascensione al cielo di Gesù, così come in certi apocrifi è raccontata l’ascensione di altri personaggi biblici, resterebbe deluso. Al fatto in se stesso il testo evangelico dedica solo queste parole: «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». Queste parole appartengono alla sezione conclusiva del terzo vangelo, che abbraccia l’intero capitolo 24 e lega tra loro strettamente gli avvenimenti che scandirono un’intera giornata, il «primo giorno dopo il sabato» (24,1): le donne scoprirono la tomba vuota e, ricevuto l’annunzio della risurrezione di Gesù, lo comunicarono agli Undici; anche Pietro andò a vedere la tomba vuota e restò «pieno di stupore»; due discepoli che andavano a Emmaus si imbatterono in Gesù, vennero da lui istruiti sul significato delle Scritture e finirono per riconoscerlo nella frazione del pane; finalmente, a tarda sera, Gesù in persona apparve agli apostoli riuniti, diede loro le ultime istruzioni, affidò a loro la missione della testimonianza, li benedisse e si staccò da loro.

     Come si vede, il tema che riempie tutta la durata di questo specialissimo giorno è quello della risurrezione del Signore Gesù, che si conclude con il mandato, affidato agli Undici, di testimoniarla «sino ai confini della terra».

     Diamo qui di seguito il senso globale del brano conclusivo del terzo vangelo, che costituisce la nostra lettura evangelica, senza indugiare sull’analisi dettagliata delle sue singole frasi.

     Poiché Gesù Cristo è realmente risorto, la sua passione e la sua morte non sono e non debbono considerarsi una sconfitta, ma una vittoria sul peccato, sicché a tutti è adesso accessibile il perdono dei peccati. E se il peccato è stato sconfitto non c’è più ragione che l’umanità continui a camminare nella strada della sua rovina, ma può cambiare strada, può dare inizio alla propria conversione. È per l’appunto questa la missione che Gesù intende affidare ai suoi discepoli: egli vuole che essi siano i suoi testimoni. Cominciando da Gerusalemme, la loro testimonianza dovrà arrivare a tutte le genti. A tutte le nazioni della terra, a tutti i popoli, dovrà arrivare la lieta notizia di Gesù Cristo, che ha predicato il vangelo e per questo è stato inchiodato sulla croce ed è morto, ma il terzo giorno è risorto. Per intraprendere questa missione, i discepoli di Gesù hanno però bisogno di una forza dall’alto, hanno bisogno cioè che scenda su di loro la forza dello Spirito Santo, secondo la promessa già fatta ai profeti per gli ultimi tempi. Dopo aver raccomandato loro di restare in Gerusalemme fino alla discesa dello Spirito, con un’ultima benedizione, Gesù «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». La testimonianza della risurrezione poteva così essere completata con quest’ultimo elemento: l’ingresso di Gesù nella vita divina del cielo. Egli dunque non doveva essere considerato assente o lontano dalla vita degli uomini sulla terra, ma doveva essere considerato sempre vicino quanto Dio lo è a tutta la sua creazione. 

Meditazione 

     La liturgia della parola della solennità odierna ci presenta due racconti del medesimo avvenimento – lo staccarsi definitivo di Gesù, in modo fisico, da questa terra e dai discepoli – narrati dallo stesso autore. Ciò è dovuto alla grande maestria letteraria e teologica dell’evangelista Luca, non certo a una svista! La differenza che salta maggiormente agli occhi è la cronologia: nel brano evangelico l’ascensione avviene la sera stessa di Pasqua (dato storicamente inverosimile, dal momento che nel racconto dei due discepoli di Emmaus siamo già a sera inoltrata), mentre negli Atti degli apostoli si situa alla conclusione di un periodo di quaranta giorni di apparizioni. Tale diversità si spiega a partire da una diversa prospettiva teologica: nell’evangelo tutta l’attenzione è concentrata su Gesù e sulla novità che il giorno di Pasqua porta, non c’è più tempo e spazio per narrare dei discepoli ed è Gesù che domina l’ultima scena; negli Atti degli apostoli è la comunità dei discepoli che diviene soggetto, il tempo è più disteso e si sviluppa il cammino della Chiesa.

     Comunque sia, il fatto si svolge a Gerusalemme, meta del pellegrinaggio terreno di Gesù (cfr. Lc 9,51 ss.) e luogo della sua morte e risurrezione. Lo spazio più sacro della città santa è il tempio, con cui si apre (cfr. 1,8 ss.) e si chiude il racconto evangelico. Ma ora è Gesù stesso il tempio, il luogo dove abita la presenza di Dio e noi siamo portati, insieme con lui, alla destra dell’Altissimo!

     Gerusalemme è anche il luogo dove scenderà lo Spirito santo (cfr. Lc 24,49; At 1,5), che i discepoli devono attendere: si compie l’ultima e principale promessa di Gesù, che introduce alla comunione trinitaria e che abilita alla missione tra le genti. L’Ascensione è pertanto momento di passaggio, di attesa tra la Pasqua e la Pentecoste: c’è il tempo per prepararsi a rendere testimonianza al Signore risorto, che ora siede nei cieli.

     Ma qual è dunque il messaggio, l’incarico a cui sono chiamati i discepoli «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8)? «La conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24,47), la possibilità per ogni uomo di veder rinascere la propria esistenza, di vederla segnata dalla misericordia affinché a tutti si rechi nuovamente misericordia. Il contenuto del messaggio sembra semplice, seppur straordinario; ciononostante, perfino in quel momento, regna l’incomprensione: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (At 1,6). Quanta fatica a staccarsi dai propri progetti, quale conversione chiede tenere insieme il nostro mondo con quello di Dio…

     È lo stesso Gesù a guidare il gruppo nel momento del distacco. Come i patriarchi, si separa da loro mediante la benedizione, un ultimo gesto di sostegno e vicinanza che sostituisce le parole. Se la prima reazione dei discepoli è quella dello sconcerto, della perplessità, del disorientamento, forse anche della nostalgia – «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (At 1,11) – subito subentra l’azione missionaria e della preghiera, da svolgersi nella lode (cfr. Lc 24,53) e nell’attesa del ritorno del Signore: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11). Non c’è pertanto un distacco radicale, una separazione: la tristezza che aveva caratterizzato i discepoli nell’ultima sera trascorsa insieme a Gesù viene rimpiazzata dalla le-tizia di saperlo non nel regno dei morti ma dei viventi, di Dio! Ecco perché l’ultimo gesto nei confronti di Gesù è quello della prostrazione – unico caso in tutto il vangelo di Luca – attraverso il quale si riconosce la divinità del Signore.

     Mi sembra estremamente significativo che il Signore Gesù introduca i discepoli alla predicazione missionaria mediante il richiamo alle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» (Lc 24,46). Nonostante siano compiute, le Scritture restano determinanti per interpretare e conoscere sempre meglio la persona di Gesù: sono il compagno di viaggio dell’autentico discepolo del Signore.

Preghiere e racconti

Trasfigurati dalla speranza

Come si vede, prima componente della speranza, che io propongo, è il dialogo con Dio, da figlio a padre, da povero peccatore a colui che è misericordia infinita; esso va bene tanto nei momenti della gioia quanto in quelli del dolore;  chi non lo conosce, questo dialogo, o l’avesse da tempo sospeso o tralasciato, dovrebbe riprenderlo quanto prima.  Altra componente della speranza: dare più spazio alla parte migliore di noi, che bisogna saper scoprire, far riemergere dal profondo e valorizzare.  La gente, oggi, mitizza volentieri e cerca modelli di vita nei divi del cinema, nei campioni dello sport, negli uomini che hanno successo.  Questa gente , si direbbe, si ispira a Carlyle, che pensò agli “eroi” come a “uomini superiori”, sorti a guidare i popoli:  Meglio ispirarsi al nostro Giambattista Vico, per il quale l’”eroe” è “qui sublimia appetit”, chi cioè tende a cose alte: alla perfezione morale, all’unione con Dio, a promuovere, secondo le proprie possibilità, l’avanzamento di ogni uomo e di tutto l’uomo. C’è davvero maggiore speranza in noi, quando sentiamo più cocente la nostalgia di un’autentica grandezza umana. Quella,  per esempio, che Amleto attribuiva al suo defunto padre, dicendo: “Tutto in lui armonizzava così bene che la natura sembrava alzarsi in punta di piedi e segnarlo a dito dicendo: Quegli era un uomo”.  Oppure l’altra grandezza, di cui un poeta francese: “L’homme est un dieu tombé qui se souvient  des cieux”, l’uomo è un dio decaduto, che ha nostalgia del cielo. Noi siamo infatti una specie di angelo che non ha più le ali, ma se ricordiamo di averle avute e se crediamo che le riavremo, veniamo trasfigurati dalla speranza.

(Albino Lucani [Giovanni Paolo I], Da “Opera Omnia”, voll. VII, Padova, Messaggero, 1975-1976, 540-41).

Racconto

Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: “Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo. Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…

Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo”. 

Guardarsi dentro

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.

Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.

Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.

E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.

Se solo si guardassero “dentro”!

Il cielo

«Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione».

(Joseph Ratzinger [BENEDETTO XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo» (At 1,11)

«[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.

La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E, dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando  in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?

In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?». Leggiamo che quando gli apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita».

(BENEDETTO XVI, Dall’omelia nell’eucaristia celebrata sulla spianata di Cracovia-Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER [BENEDETTO XVI], Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso – col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Dall’omelia nell’eucaristia celebrata sulla Cracovia-Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER [BENEDETTO XVI], Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Preghiera

Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…

Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

 

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12 maggio Ascensione C

PASQUA VII ASCENSIONE C

VI DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 15,1-2.22-29

In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione. Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiòchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agl’idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!».

La liturgia della Parola di questo tempo di Pasqua (anno C) sceglie solitamente per la Prima Lettura brani degli Atti degli Apostoli. Ciò perché in questi brani sono raccontati fatti della chiesa primitiva: così nel tempo di Pasqua si ri-presenta — a livello della liturgia — la nascita della chiesa. Questa nascita è frutto e risultato della risurrezione del Signore. Siccome Egli è risorto, i dodici discepoli e le donne si radunano di nuovo attorno a Lui. Alla fine del tempo pasquale, la solennità di Pentecoste ci fa rivivere la discesa dello Spirito Santo, che realizza e guida la Chiesa.

     Rilievi storico-esegetici

— Nel brano odierno si fa riferimento ad una grave crisi che sta scuotendo la chiesa primitiva. I cristiani che provengono dal mondo giudaico mettono ancora in pratica la legge giudaica e praticano la liturgia del mondo giudaico (la Torah). Il motivo di questa linea di condotta era duplice: primo, il fatto che Gesù stesso aveva ottemperato alla Torah e partecipato alle celebrazioni liturgiche del giudaismo, dato che era un Ebreo: lo stesso avevano fatto gli Apostoli e le donne insieme a Maria Madre di Gesù; secondo, la legge era stata anche rivelata da Dio: era parola e comandamento di Dio. Come la si poteva disattendere? Ecco perché i cristiani venuti dal giudaismo sostenevano che anche i cristiani che provenivano dal mondo pagano fossero tenuti ad osservare la legge giudaica (divina!).

— I primi cristiani, provenienti da ambito non giudaico vivevano ad Antiochia (nella Siria attuale), nella Cilicia (sud-est della Turchia attuale) ed un’altra area dell’Oriente. Essi avvertivano una certa perplessità davanti al fatto di dover osservare precetti biblici del giudaismo: Paolo e Barnaba, infatti, che li avevano portati alla fede cristiana, non ne avevano proprio parlato.

— L’importanza della nostra lettura (decurtata fortemente e privata di una parte notevole: mancano i vv. 3-21) è la seguente: Pietro, Paolo e Barnaba, alla luce della loro fede in Gesù Cristo, ritenevano che ad eccezione di alcune direttive importanti (ad es. il Decalogo), molti comandamenti non avevano se non valore provvisorio, limitato al mondo giudaico, ed erano sostituiti dalla fede in Gesù (Paolo aveva mostrato ciò specialmente nella Lettera ai Galati). Ma questo punto di vista non era chiaro per tutti. Molti lo rifiutavano, specie tra i cristiani della Chiesa Madre di Gerusalemme. Nella lettura noi vediamo come la Chiesa sia

concorde nell’esprimere il suo giusto punto di vista. Certo, Luca ha semplificato le lunghe e dure controversie nel racconto degli Atti. È probabile che ci fosse un clima animato e teso, più che una pacifica, lineare discussione.

     Ma l’importante, qui, è il fatto che emerge: sin dall’inizio alla chiesa si presentarono questioni nuove e imprevedibili, alle quali nessuno sapeva dare subito una risposta. Tuttavia, lo Spirito Santo, l’impegno degli Apostoli e di tutta quanta la Chiesa fecero sì che si approdasse ad una vera e giusta soluzione.

 

Seconda lettura: Apocalisse 21,10-14.22-23

L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina  e la sua lampada è l’Agnello.

Com’è noto, la struttura del libro dell’Apocalisse è caratterizzata dalla serie di sette settenari (7 chiese, 7 sigilli, 7 trombe, 7 visioni, 7 coppe e ancora 7 visioni…). La nostra pericope si colloca all’interno dell’ultimo settenario, che rappresenta, in certo senso, la conclusione di tutta la vicenda della Parola di Dio, da Abramo agli eventi finali. In questo settenario, il cap. 21 descrive la settima visione, quella in cui Giovanni contempla il realizzarsi della profezia di Is 65,17: «Ecco io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente». In realtà, Giovanni vede una creazione trasfigurata, si direbbe in continuità con l’antica creazione, dove però non c’è più il mare (simbolo del male e della forza che fa resistenza alla liberazione dell’esodo…). Nel brano di questa domenica si riportano solo alcuni versetti di questa visione conclusiva, quelli che riguardano la Gerusalemme celeste.

     Chiavi di lettura

     È estremamente arduo entrare nei dettagli simbolici della visione e spiegarli singolarmente. Preferiamo offrire al lettore alcune chiavi di lettura, che chiariscano il senso teologico della descrizione.

     — Prima chiave di lettura: il compimento delle profezie. Ezechiele, nei cc. 40-48 descrive dettagliatamente il Tempio nuovo che sorgerà nella Gerusalemme escatologica. Questa città avrà un nome emblematico: «Il Signore è là» (Ez 48,35). Inoltre Isaia 60 rivolge una promessa a Gerusalemme: «Alzati, rivestiti di luce, perché… su di te risplende il Signore la sua Gloria appare su di te» (vv. 1-2). Quanto era promesso e annunciato come realtà futura dai profeti, ora Giovanni lo contempla come realtà presente. Questa Gerusalemme rappresenta la nuova umanità redenta, intimamente legata a Gesù Cristo, essendo la sposa dell’Agnello (21,9).

Seconda chiave di lettura: ecclesiologica. I fondamenti di questa città celeste sono 12, come in Ezechiele, ma Giovanni precisa che sono i nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello. I Dodici prolungano e realizzano l’unità del popolo di Dio formato dalle dodici tribù. Nel realizzare il suo disegno di salvezza. Dio vuole un accordo profondo ed un progresso all’insegna della continuità. La Chiesa non è che il punto di approdo del cammino del popolo di Israele. La chiesa non è massa di umanità anonima e priva di relazioni. La città ha la sua compattezza e le sue strutture; in essa gli individui sono legati da vincoli, conoscenze, interessi comuni, formando una comunità gioiosa e fraterna.

Terza chiave di lettura: ecumenica. La struttura della città è orientata, in mirabile simmetria, secondo i quattro punti cardinali: oriente, occidente, settentrione e meridione (tre porte per ogni punto cardinale, v. 13). La Chiesa di Dio non è una società chiusa, ripiegata sulla fruizione dei suoi privilegi (la gloria di Dio la illumina  e la sua lampada è l’Agnello, v. 23). La salvezza di cui essa gode si apre a tutta l’umanità e a tutto l’universo. Si potrebbe inoltre osservare che le iniziali dei quattro punti o coordinate universali (anatolé, dysis, àrktos, mesembría) formano esattamente il nome Adam il capostipite di tutta quanta l’umanità. Tutto il genere umano, fino agli estremi confini della terra, è chiamato ad accedere attraverso quelle porte e integrarsi nella luminosa società dei santi.

 

Vangelo: Giovanni 14,23-29

In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

 

Esegesi 

     La pericope è desunta dai cosiddetti «Discorsi di addio» di Gesù nel Vangelo di Giovanni. Si tratta di un complesso di insegnamenti (cc. 13-17) che l’Evangelista avrebbe raccolti da vari momenti del ministero di Gesù e posti sulle sue labbra nel momento più solenne della sua missione terrena (quando passa dalla sua esistenza terrena a quella celeste), una specie di testamento spirituale che illumina in retrospettiva tutto il senso della vita e dell’opera di Gesù. Nella nostra lettura è presentato lo Spirito Consolatore, inviato dal Padre, in preparazione alla ormai vicina Pentecoste.

     Annotazioni

     — «Se uno mi ama, osserverà la mia parola… (v. 23). Questa verità, qui enunciata in termini positivi, viene poi ribadita in termini negativiChi non mi ama, non osserva le mie parole», v. 24) e ripresa più avanti: «Se mi amaste, vi rallegrereste…» (v. 28). Questo amore, di cui parla Gesù, deve possedere due condizioni o prove di autenticità: 1. chi ama Gesù, osserva le sue parole, vale a dire vive di esse; 2. chi ama Gesù si rallegra che Gesù vada al Padre, cioè sia nella gloria, perché lì Egli si trova nella «casa del Padre» anche in quanto uomo.

     — «Vedremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (v. 23). Chi ama Gesù e vive, cioè realizza pienamente, le sue parole, diventa un tempio, nel quale dimora Dio. L’inabitazione di Dio nell’anima degli uomini costituisce uno dei doni più grandi che Dio possa elargire a noi sulla terra. In modo misterioso l’anima diventa «cielo sulla terra».

     — «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome…» (vv. 25-26). Dal greco (paráclétos): non solo nel senso dell’avvocato che difende gli uomini, ma anche nel senso di colui che parla e intercede in loro favore. «Paraclito» nel senso che noi siamo sostenuti e protetti da lui.

     — «Vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (v. 26). Lo Spirito Santo ci proteggerà perché ci farà capire la parola di Gesù, che non è altro che la parola stessa del Padre (v. 24). Svolgerà questo compito dando calore, forza e intelligibilità a tale parola nella nostra vita. Riporta alla memoria quella parola, non come qualcosa di dimenticato, ma come realtà riscoperta a livello più profondo di fede e di gioia cristiana.

     — «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (v. 27). Il prezioso bene della pace è dono di Gesù, è lui che ce lo lascia. Dove c’è Dio, ivi è la pace. Questa pace, intimamente commessa con la presenza di Dio, può sussistere anche in mezzo agli assalti o alle insidie del male, anche in mezzo alle sofferenze. Spesso i Santi parlano dell’esperienza di questa pace profonda, che nessuno al mondo può toglierci.

     —«Vado e tornerò da voi…» (vv. 28-29). Gesù non si sottrae che al contatto materiale, corporeo con noi. Ma egli ritornerà in due modi: primo, con lo Spirito Santo; secondo, alla fine dei tempi come Risorto nella sua gloria.

 

Meditazione 

     La prima e la seconda lettura di questa sesta domenica di Pasqua ci offrono due immagini simboliche di Gerusalemme. Nel racconto degli Atti è la sede di un incontro, che la tradizione successiva definirà ‘concilio di Gerusalemme’, attraverso il quale la prima comunità cristiana dovrà assumere una decisione fondamentale per la sua storia successiva: se imporre o meno ai cristiani provenienti dal mondo pagano l’obbligo della circoncisione e dell’osservanza integrale della legge mosaica. Il brano dell’Apocalisse ci porta invece a contemplare già la Gerusalemme celeste, che viene da Dio e risplende della sua gloria. Una

città perfetta, aperta a tutte le tribù di Israele (ma è un linguaggio simbolico per affermare che tutti i popoli della terra vi trovano ospitalità come nella loro vera patria). Anche le me-diazioni di ogni tipo – quelle religiose come il tempio, quelle cosmiche come il sole e la luna – vengono meno, poiché cedono il passo all’immediatezza della presenza di Dio e dell’Agnello, simbolo con il quale l’Apocalisse allude sempre al Signore Gesù crocifisso e risorto. Dio e l’Agnello sono il suo tempio e la sua luce. Se ora noi abbiamo bisogno di segni per incontrare il mistero di Dio e percepire la sua presenza nella nostra storia, allora potremo contemplare Dio faccia a faccia, senza più mediazioni. Se ora abbiamo bisogno di essere illuminati per camminare verso Dio, allora sarà Dio stesso a farsi nostra luce. Se ora

viviamo la nostra appartenenza ecclesiale come luogo di distinzione tra coloro che credono e coloro che non credono o vivono altre appartenenze religiose, allora scopriremo Gerusalemme come luogo di incontro di tutti i popoli. La città, infatti, ha porte aperte verso ogni punto cardinale; da ogni confine della terra i popoli vi giungeranno e potranno accedervi, come ricorda anche il salmo responsoriale:

 

Ti lodino i popoli, o Dio,

ti lodino i popoli tutti.

La terra ha dato il suo frutto.

Ci benedica Dio, il nostro Dio,

ci benedica Dio e lo temano

tutti i confini della terra (Sal 66,6-8).

 

     L’Apocalisse stessa, nei versetti che seguono immediatamente quelli proclamati dal lezionario liturgico, insiste nel descrivere queste porte sempre aperte e verso tutti: «le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni» (vv. 24-26). Nella città non potrà entrare niente di falso e di impuro, ma «solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello» (v. 27). È lui, infatti, l’Agnello, la vera porta, in virtù del suo mistero pasquale. La sua mediazione salvifica si rende presente nella storia attraverso la comunità cristiana, fondata sulla testimonianza apostolica dei Dodici, che porta a compimento l’elezione di Israele e delle sue tribù. I nomi delle Dodici tribù sono infatti scritti sopra le dodici porte, così come i nomi dei Dodici apostoli sui dodici basamenti della città santa. Il simbolismo è ricco, complesso, ma affascinante: la salvezza di Dio, attraverso l’elezione di Israele e della Chiesa, si apre – come queste porte rivolte a oriente e a settentrione, a mezzogiorno e a occidente – per accogliere tutti i popoli, secondo la promessa di Gesù custodita nei vangeli: «Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio» (Lc 13,29).

     Proprio perché la vera porta è l’Agnello, e nella sua Pasqua la salvezza di Dio può essere annunciata a tutte le genti, la comunità storica di Gerusalemme giunge a decidere, nel discernimento guidato dallo Spirito Santo (cfr. At 15,28), che non è necessario imporre la circoncisione ai convertiti dal paganesimo. Infatti, afferma Pietro nella riunione di Gerusalemme (in un passo che la lettura liturgica omette): «Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati, così come loro» (v. 11). Per la sua grazia, non per altro.

     Queste due immagini di Gerusalemme, che le prime due letture dell’eucaristia ci offrono, evocano in fondo la Chiesa in tutto il suo mistero. È una comunità che cammina nella storia, come ci ricordano gli Atti, e in questa sua dimensione è attraversata da tensioni e visioni differenti, sempre impegnata in un faticoso discernimento spirituale della volontà di Dio, chiamata a decisioni che possono anche mutare nel tempo e adattarsi a differenti contesti storici e culturali. Nello stesso tempo, annuncia l’Apocalisse, c’è una dimensione misterica della Chiesa, un suo scendere dall’alto e dal mistero di Dio, che già la abita e la trasfigura nella sua luce, per renderla «una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino» (Ap 21,11). È soprattutto per farne sacramento di salvezza per tutti i popoli, nonostante tutti i suoi l imiti storici.

     Noi siamo in cammino verso la Gerusalemme celeste per scoprire – ma solo a condizione di essere già per via, protesi verso la meta – che è Gerusalemme stessa a scendere verso di noi in tutta la sua bellezza, per compiere il nostro desiderio e il nostro pellegrinaggio. In questo cammino, come ci ricorda Gesù nell’evangelo di Giovanni, dobbiamo portare con noi un bagaglio sobrio, essenziale ma indispensabile. Innanzitutto una parola da osservare e custodire, o meglio, quella parola che è Gesù stesso come rivelazione definitiva del Padre. Dimorando in lui e nel suo amore siamo certi di essere già in comunione con il Padre, anche nel tempo del nostro pellegrinaggio. A consentirci di rimanere nella Parola c’è il dono dello Spirito Santo – il secondo bene essenziale da portare con sé – che ci insegna ogni cosa ricordando tutto ciò che il Signore Gesù ci ha detto. Quello dello Spirito è un insegnare ricordando, consentendoci di approfondire la rivelazione di Gesù e anche di discernere nella sua luce le decisioni da assumere di volta in volta, di fronte ai problemi che man mano insorgono lungo il cammino. Appunto come accade nel concilio di Gerusalemme, quando le decisioni vengono prese sulla base di quanto «è parso bene allo Spirito Santo e a noi» (v. 28). Un terzo bene da portare con sé è la pace donata dal Signore, che vince ogni turbamento e timore. 

     Non mancano infatti lungo la via rischi, pericoli, ostilità, scelte coraggiose da assumere. Tutto può però essere affrontato senza paura, nella pace che è dono del Signore e non del mondo, e che dunque possiamo accogliere se siamo disponibili a una comunione con il Signore che ci converte dalle logiche mondane per farci aderire sempre di più al suo stesso ‘sentire’.

     Preparando in questo modo il bagaglio per il viaggio ci si accorge tuttavia che si porta con sé un bene infinitamente più grande: la presenza stessa di Dio che cammina con noi e in noi. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Già lungo il cammino si gusta anticipatamente ciò che ci attende al suo compimento: il Padre e il Figlio abitano in noi così come il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello abitano nel cuore della Gerusalemme celeste.

 

Preghiere e racconti 

«Quando lo Spirito Santo verrà, v’insegnerà ogni cosa» (Gv 14,26).

Cari figli, non si tratta qui di come questa o quella guerra sarà composta, o se il grano crescerà bene. No, no, figli, non così. Ma quell’«ogni cosa» significa tutte le cose che ci sono necessario per una vera vita divina e per una segreta conoscenza della verità e della malvagità della natura. Seguite Dio e camminate per la santa e retta via, cosa che certe persone non fanno: quando Dio le vuole dentro, esse escono e quando le vuole fuori, entrano; ed è tutta una cosa a rovescio. Queste sono «tutte le cose», tutte le cose che ci sono necessarie interiormente ed esteriormente, sono il conoscere profondamente e intimamente, puramente e chiaramente i nostri difetti, l’annientamento di noi stessi, grandi rimproveri per come restiamo lontani dalla verità e dannosamente ci attacchiamo alle piccole cose.

Lo Spirito Santo c’insegna a inabissarci in una profonda umiltà e a raggiungere una totale sottomissione a Dio e a tutte le creature. Questa è una scienza in cui sono racchiuse tutte le scienze di cui si ha bisogno per la vera santità. Questa sarebbe vera umiltà, senza commenti, non a parole o in apparenza, ma reale e profonda. Possiamo noi disporci in tal modo che ci venga dato in verità lo Spirito Santo! In ciò Dio ci aiuti. Amen.

(GIOVANNI TAULERO, I sermoni, Milano, 1997, 233s.).

Lo Spirito di Dio

Senza lo Spirito Santo, se, cioè, lo Spirito non ci plasma interiormente e noi non ricorriamo a lui abitualmente, praticamente può darsi che camminiamo al passo di Gesù Cristo, ma non con il suo cuore. Lo Spirito ci rende conformi nell’intimo al vangelo di Gesù Cristo e ci rende capaci di annunziarlo esternamente (con la vita). Il vento del Signore, lo Spirito Santo, passa su di noi e deve imprimere ai nostri atti un certo dinamismo che gli è proprio, uno stimolo cui la nostra volontà non rimane estranea, ma che la trascende. Dio ci donerà lo Spirito Santo nella misura in cui accoglieremo la Parola, ovunque la sentiremo.

Dovrebbe esserci in noi una sola realtà, una sola verità, uno Spirito onnipotente che si impossessi di tutta la nostra vita, per agire in essa, secondo le circostanze, come spirito di carità, spinto di pazienza, spirito di dolcezza, ma che è l’unico Spirito, lo Spirito di Dio. Tutti i nostri atti dovrebbero essere la continuazione di una medesima incarnazione. Bisognerebbe che consegnassimo tutte le nostre azioni allo Spirito che è in noi, in modo tale che si possa riconoscere in ciascuna di esse il suo volto. Lo Spirito non chiede che questo. Non è venuto in noi per riposarsi; egli è infaticabile, insaziabile nell’agire; una sola cosa può impedirglielo: il fatto che noi, con la nostra cattiva volontà, non glielo permettiamo, oppure non gli accordiamo abbastanza fiducia e non siamo fino in fondo convinti che egli ha una sola cosa da fare: agire. Se lo lasciassimo fare, lo Spirito sarebbe assolutamente instancabile e di tutto si servirebbe. Basta un nulla a spegnere un focherello, mentre un fuoco avvampante consuma ogni cosa. Se noi fossimo gente di fede, potremmo consegnare allo Spirito tutte le azioni della giornata, qualunque siano: le trasformerebbe in vita.

(M. DELBRÊL, Indivisibile amore. Frammenti di lettere, Casale Monferrato, 1994, 43-45, passim).

Preghiera per la pace

Signore, noi abbiamo ancora le mani insanguinate dalle ultime guerre mondiali, così che non ancora tutti i popoli hanno potuto stringerle fraternamente fra loro;

 Signore, noi siamo oggi tanto armati come non lo siamo mai stati nei secoli prima d’ora, e siamo così carichi di strumenti micidiali da potere, in un istante, incendiare la terra e distruggere forse anche l’umanità;

 

Signore, noi abbiamo fondato lo sviluppo e la prosperità di molte nostre industrie colossali sulla demoniaca capacità di produrre armi di tutti i calibri e tutte rivolte a uccidere e a sterminare gli uomini nostri fratelli; così abbiamo stabilito l’equilibrio crudele della economia di tante Nazioni potenti sul mercato delle armi alle Nazioni povere, prive di aratri, di scuole e di ospedali;

 Signore, noi abbiamo lasciato che rinascessero in noi le ideologie, che rendono nemici gli uomini fra loro: il fanatismo rivoluzionario, l’odio di classe, l’orgoglio nazionalista, l’esclusivismo razziale, le emulazioni tribali, gli egoismi commerciali, gli individualismi gaudenti e indifferenti verso i bisogni altrui;

 Signore, noi ogni giorno ascoltiamo angosciati e impotenti le notizie di guerre ancora accese nel mondo;

 Signore, è vero! Noi non camminiamo rettamente! Signore, guarda tuttavia ai nostri sforzi, inadeguati, ma sinceri, per la pace nel mondo! Vi sono istituzioni magnifiche e internazionali; vi sono propositi per il disarmo e la trattativa;

 Signore, vi sono soprattutto tante tombe che stringono il cuore, famiglie spezzate dalle guerre, dai conflitti, dalle repressioni capitali; donne che piangono, bambini che muoiono; profughi e prigionieri accasciati sotto il peso della solitudine e della sofferenza; e vi sono tanti giovani che insorgono perché la giustizia sia promossa e la concordia sia legge delle nuove generazioni;

 Signore, Tu lo sai, vi sono anime buone che operano il bene in silenzio, coraggiosamente, disinteressatamente e che pregano con cuore pentito e con cuore innocente; vi sono cristiani, e quanti, o Signore, nel mondo che vogliono seguire il Tuo Vangelo e professano il sacrificio e l’amore;

 Signore, Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace.

 (Paolo VI)

Porremo la nostra dimora presso di lui

Io e il Padre, dice il Figlio, verremo a lui, cioè all’uomo santo, e porremo la nostra dimora presso di lui (Gv 14,23) […] E l’Apostolo dice chiaramente che Cristo abita per la fede nei nostri cuori (Ef 3,l7). Non fa meraviglia se il Signore Gesù è lieto di abitare [nell’anima], che è come un cielo per la cui conquista ha lottato e per la quale non si è limitato, come per gli altri cieli, a dire una parola perché essi fossero creati. Dopo le sue fatiche, manifestò il suo desiderio e disse: Questo è il mio riposo per sempre; qui abiterò poiché l’ho scelto [Sal 131 (132),14]. E beata colei alla quale è detto: Vieni, mia eletta, e porrò in te il mio trono (Ct 2,10-13).

Perché ora sei triste, anima mia, e perché gemi su di me? Pensi di trovare anche tu un posto per il Signore dentro di te? [cfr. Sal 41 (42),6] E quale posto in noi è degno di una tale gloria ed è in grado di accogliere la sua maestà? Potessi almeno adorarlo nel luogo dove si sono fermati i suoi passi! Chi mi darà di poter almeno seguire le tracce di un’anima santa che si è scelta come sua dimora? Se potesse degnarsi di infondere nella mia anima l’unzione della sua misericordia e così stenderla come una tenda, la quale quando viene unta, si dilata, perché anch’io possa dire: Ho corso per la via dei tuoi comandamenti quando tu hai dilatato il mio cuore [Sal 118 (119), 32], potrò forse anch’io mostrare in me stesso se non una grande sala tutta pronta, dove possa mettersi a tavola con i suoi discepoli, almeno un posticino ove possa adagiare la testa (cfr. Mt 8,20). Guardo da lontano quelli veramente beati di cui è detto: Abiterò in loro e con loro camminerò (2Cor 6,16) […]

È necessario che l’anima cresca e si dilati per poter contenere Dio. Ora, la sua larghezza corrisponde al suo amore, come dice l’Apostolo: Dilatatevi nella carità (2Cor 6,13). Infatti, poiché l’anima, essendo spirito, non ha affatto quantità, tuttavia la grazia le dona ciò che non ha la natura. Essa infatti cresce, ma spiritualmente; cresce non nella sostanza, ma nella virtù; cresce anche nella gloria; cresce, infine, e progredisce fino a formare l’uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (cfr. Ef 4,13); cresce anche come tempio santo del Signore. La quantità di ciascuna anima corrisponde alla misura della sua carità in modo tale che è grande quando ha una grande carità, piccola quando ne ha poca, se non ne ha affatto è nulla, come dice Paolo: Se non ho la carità, non sono niente (ICor 13,12).

(BERNARDO DI CHIARAVALLE, Discorsi sul Cantico 27,8-10, PL 183,918-919).

Preghiera

Signore Gesù, tu chiedi l’amore

come condizione

per l’inabitazione della Trinità,

l’amore che è adesione alla tua Parola.

Ma come possiamo amarti

se non siamo dentro la logica del tuo amore?

Se non sentiamo in noi il fuoco

di questo amore grande e misterioso

che supera ogni limite

e sa affrontare ogni avversità?

Noi non possiamo produrre tale amore,

possiamo solo accoglierlo come dono.

Aiutaci a saperci guardare dentro,

per scorgere in noi la presenza del tuo amore.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA VI DI PASQUA C

V DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 14,21-27

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.

Paolo e i suoi collaboratori sono presentati come missionari itineranti, che predicano la parola di Dio. Essi non prendono dimora stabile in nessuna comunità, ma vanno di paese in paese.

     Quando è necessario essi ritornano nelle comunità evangelizzate per «fortificare» (lett. confermare) nella fede i discepoli. «Confermare» è un termine che diventa tipico nel linguaggio missionario delle primitive comunità cristiane (cf. At 15,32-41; 16,5; Rom 1,11; 1 Ts 3,2.13). Il tema della conferma della fede si trova già nel Vangelo lucano: «confermare i fratelli» è la missione affidata da Gesù a Pietro (cf. Lc 22,32).

     Le tribolazioni sono la grande tentazione della fede per i discepoli. Le sofferenze possono portare alla disperazione e indurre a non avere più fiducia nell’avvento del regno di Dio e a rinunciare a lavorare per esso.

     Il regno di Dio è indicato qui come una realtà escatologica, nella quale si entra «attraverso molte tribolazioni». È presentato come realtà futura, nella quale i discepoli devono ancora entrare. Chiesa e regno non si identificano: essi sono nella Chiesa, ma non ancora nel Regno. Sono ancora nel regime della «fede» e della «speranza», che si possono perdere a causa delle tribolazioni…

     Paolo e Barnaba si preoccupano di dare una struttura stabile alla comunità e costituiscono degli «anziani», che le governino, mentre loro continuano ad andare in nuovi paesi a predicare la parola di Dio. Paolo e Barnaba stanno compiendo la missione fra i pagani, che numerosi hanno abbracciato la fede. Il giungere alla fede nel Signore è un dono gratuito di Dio, come essi riconoscono e dichiarano davanti alla comunità (cf. At 14,27).

 

Seconda lettura: Apocalisse 21,1-5  

Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.  Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».

La sezione dell’apocalisse che inizia col capitolo 21 e termina a 22,5, è l’ultimo grande affresco della profezia di Giovanni. Si tratta di una conclusione radiosa, conseguenza di un intervento diretto e creatore di Dio. I versetti che leggiamo oggi sono l’introduzione a questa sezione. Essi vanno letti non come una previsione del futuro, ma come una esortazione alla speranza e all’attesa dell’intervento definitivo di salvezza di Dio.

     Giovanni ha la visione di un cielo nuovo e una terra nuova. Si tratta di una novità dovuta all’intervento creatore di Dio, come lo era stato all’inizio, non solo di una trasformazione, infatti il cielo e la terra di prima «erano scomparsi». Il riferimento è ad Isaia (65,17; cf. 66,22). «Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra».

     La visione continua con quella della «Gerusalemme nuova». In Isaia Dio promette «farò di Gerusalemme una gioia del suo popolo, un gaudio». La salvezza escatologica della visione di Giovanni è universale e particolare al tempo stesso. Rispecchia il movimento creatore e salvatore di Dio che attraversa tutta la rivelazione biblica. Dio è creatore dell’universo e Padre di tutte le creature che popolano la terra, ma Dio al tempo stesso si sceglie un popolo, Israele, e una città, Gerusalemme, come possesso e dimora amati e riservati in modo particolare per sé.

     La nuova Gerusalemme è presentata nella visione «come una sposa adorna per il suo sposo» (cf. Is 52,1; 61,10).

     Nella terra e cielo nuovi Dio ha la sua dimora stabile. Questo fa la differenza con il cielo e la terra di prima dove Dio aveva dimora, ma nascosta «dalla tenda». Solo in visione e da parte di alcuni scelti da lui per delle missioni particolari, come Mosé, ci poteva essere un contatto per così dire, più diretto. La dimora definitiva di Dio fra gli uomini sarà lo svelamento di quella stessa presenza di Dio nella tenda in mezzo o alla guida del suo popolo in questo mondo che deve passare. La dimora, in greco skené, ha le stesse consonanti della parola ebraica skekinà, che indica l’immanenza di Dio che sta insieme al suo popolo e condivide, se così si può dire, la sua stessa vita tanto da andare in esilio con lui.

     Il segno della dimora definitiva di Dio col suo popolo e l’umanità “giusta” sarà l’assenza di ogni sofferenza, morte, lutto, dolore (cf. Is 35,10; 65,19; Ger 31,16).

 

Vangelo: Giovanni 13,31-33a.34-35

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

 

Esegesi 

     Nei primi due versetti della pericope che leggiamo oggi Gesù parla della glorificazione del «Figlio dell’uomo» ormai avvenuta e annuncia che Dio è glorificato in lui.

     Giovanni collega il discorso della glorificazione di Gesù con il dono dello Spirito. In 7,39 afferma che non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. I credenti ricevono lo Spirito del Signore glorificato, e solo dopo questo dono «si ricordano» (12,16) e capiscono le parole di Gesù.

     La glorificazione del Figlio è opera del Padre, al quale appartiene la gloria. I segni miracolosi compiuti da Gesù presentano questo movimento dinamico: essi avvengono a gloria di Dio e le persone che vi assistono lodano il Padre, Dio di Israele (cf. Mt 9,8; 15,31; Mc 2,12;). Gesù insiste su questa dinamica intrinseca alla glorificazione del Padre, che a sua volta glorifica il Figlio e che è glorificato attraverso il Figlio (Gv 8,54). C’è un intreccio inestricabile fra le due glorificazioni, ma il termine ultimo è sempre il Padre. «Padre glorifica il tuo nome» (Gv 12,28). «Padre è giunta l’ora, glorifica il Figlio, perché il Figlio glorifichi te» (17,1).

     Per Giovanni la glorificazione di Gesù è strettamente legata alla passione. Egli dice infatti all’annuncio della passione: «È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23). Gesù si sottomette a passione per amore, in obbedienza al Padre. Egli dà l’esempio dell’amore più grande: «dare la vita». «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Questa è la misura dell’amore che i discepoli debbono avere gli uni verso gli altri.

     «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati». Gesù propone sé stesso come esempio di adempimento in misura totale del comandamento grande di Lev 19,18: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Ne sottolinea l’attualità ai discepoli: «Vi do’ un comandamento nuovo», un comandamento che va messo in pratica sempre in forma nuova a seconda delle circostanze in cui una persona si trova. La novità per i discepoli è il dovere di imitare Gesù nel suo dono senza misura.

     Gesù si rivolge ai discepoli chiamandoli affettuosamente «figlioletti» (teknía). Questo termine ricorre solo qui nel vangelo di Giovanni, ma è un’espressione tipica della Prima Lettera a lui attribuita (1Gv 2,12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21), che ravvicina al genere letterario sapienziale dei Proverbi (cf. Pv 1,8; 2,1; 3,1; 4,1; 8,32): un padre-maestro si rivolge ai suoi discepoli-figli e con affetto e passione dà loro gli insegnamenti. Il diminutivo «figlioletti», anziché il più usuale «figli», indica l’interesse e l’amore di chi parla o scrive verso i destinatari del suo insegnamento.

 

Meditazione 

La pericope evangelica che la liturgia propone nella quinta domenica di Pasqua dell’anno C è, come sempre, tolta dal suo contesto biblico per ‘rivivere’ in un nuovo contesto che è quello liturgico. Senza contraddire il contesto biblico, cerchiamo di far risuonare questo testo di Giovanni all’interno della celebrazione pasquale che la Chiesa vive nei Cinquanta giorni, i quali costituiscono un unico grande giorno di festa.

Nella pagina degli Atti degli Apostoli (prima lettura) troviamo la narrazione della missione di Paolo e Barnaba, in particolare di come essi cercarono di dare solidità e struttura alle comunità da loro fondate, istituendo in ogni Chiesa alcuni anziani. Quello che ci viene qui narrato è dunque uno sforzo di evangelizzazione, accompagnato dalla preoccupazione di organizzare anche in modo ‘istituzionale’ le comunità locali — e tuttavia si afferma che quando i due apostoli ritornarono ad Antiochia, la comunità dalla quale erano partiti, «riferirono tutto ciò che Dio aveva operato per mezzo loro» (At 14,27). Ecco un aspetto pasquale al quale la Chiesa sempre si deve convertire: imparare a vedere sempre, nella sua vita, la presenza dell’azione di Dio.

Il brano tratto dal libro dell’Apocalisse (seconda lettura) ci può aiutare a cogliere il contesto pasquale sullo sfondo del quale interpretare le parole di Gesù che troviamo nel vangelo.

Ecco: faccio nuove tutte le cose!

L’Apocalisse riprende un’immagine molto bella, già usata in precedenza per parlare della fine della storia (cfr. Ap 7,17): Dio che asciuga ogni lacrima dal volto dell’umanità. E aggiunge qui un elenco di situazioni concrete che alla fine e nel fine della storia non ci saranno: «Non vi sarà più morte né lutto e grida e dolore» (Ap 21,5). Le lacrime che saranno asciugate non sono quelle dei grandi eventi della storia, ma quelle dei lutti e delle tribolazioni che ogni uomo e ogni donna hanno vissuto nella loro concreta esistenza.

Nel fine e nella fine della storia, nel disegno di Dio, queste realtà non ci sono più. Dio non le ha mai volute e alla fine della storia le cancella, perché il suo desiderio originario alla fine non può che vincere contro ogni ‘nemico’. Il brano termina con un’affermazione che ci proietta nel testo evangelico: «Ecco: faccio nuove tutte le cose». La storia conoscerà una svolta, ma tale svolta è opera di Dio. A partire da questo annuncio, spostiamo la nostra attenzione sul brano evangelico, per contemplare come, dove e quando quest’azione di Dio trova conferma, quando la Parola di Dio si dimostra degna di fede/fedele e veritiera (cfr. Ap 21,5).

Anche il testo del Vangelo parla di una ‘cosa nuova’, un comandamento nuovo, che Gesù dona ai suoi discepoli. In realtà non si tratta di una novità dal punto di vista del contenuto: il comando dell’amore è già presente nell’Antico Testamento sia in riferimento a Dio (Dt 6,5), sia in riferimento al prossimo (Lv 19,18.34). La novità sta nel ‘come’. Si tratta di un comando, ‘amatevi’, che interessa l’avvenire, fondato sopra un fatto avvenuto nel passato: ‘come io ho amato voi’. L’amore dei discepoli è possibile perché sono stati preceduti dall’amore di Gesù: «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4,19). In Gv 15,9 Gesù descriverà così qual è l’amore con il quale egli ha amato i discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». È in questo amore, con il quale il Padre ha amato Gesù e che Gesù a sua volta ha indirizzato verso i suoi discepoli, che i discepoli stessi devono ‘rimanere’.

La novità di questo comandamento, allora, è la novità della Pasqua, nella quale Dio crea qualcosa di nuovo proprio in Gesù, primogenito dell’umanità e terra nuova che l’Apocalisse canta con stupore. Anche se collocato in un discorso di Gesù ambientato nella cena che ha preceduto la passione e quindi la Pasqua, questo testo, come ogni testo dei vangeli, viene trasfigurato dalla luce pasquale. Ma ci dice anche qualcosa di più circa la ‘novità’ che è stata resa possibile dalla Pasqua di Gesù e che ‘oggi’ la Chiesa può celebrare nel suo cammino nella storia dell’umanità.

Gloria, sequela, amore

Nel brano si susseguono tre temi molto significativi — la gloria, la sequela, il comandamento dell’amore — che corrispondono nel testo a suddivisioni ben riconoscibili, e anche a una scansione temporale ben precisa.

La gloria. Nell’Antico Testamento la ‘gloria’ — termine che in ebraico indica la ‘pesantezza’, la ‘consistenza’ — è il manifestarsi di Dio nella storia. La gloria è la presenza di Dio visibile nella storia dell’umanità. Nel testo di Giovanni si parla del Padre che è glorificato in Gesù e di Gesù che è glorificato da parte del Padre. In Gesù, nella sua Pasqua, continua dunque il medesimo ‘stile’ del Dio dell’Esodo, un Dio che agisce nella storia in favore del suo popolo e dell’umanità. Questo primo tema fa riferimento al tempo della Pasqua di Gesù.

La sequela. Il secondo tema è quello del seguire il Signore. Su esso sembra che ci sia incomprensione tra il maestro e i suoi (cfr. 13,36-38). Gesù afferma che ora i discepoli non lo possono seguire dove egli va, sulla sua via (Gv 13,33.36) e il v. 36 è ancora più chiaro: ora i discepoli non possono seguire Gesù. Lo potranno fare però in un secondo momento, dopo la sua Pasqua. Non possono amarsi vicendevolmente come Gesù li ha amati prima che egli li abbia amati fino alla fine (Gv 13,1). Devono accettare questo suo gesto estremo di amore per poter diventare capaci di essere veramente suoi discepoli e di seguirlo. Il tempo di cui si sta parlando è il presente dei discepoli, prima della Pasqua di Gesù.

Il comandamento dell’amore. Ora si capisce perché Gesù introduca a questo punto il tema del comandamento nuovo. Gesù indica qui la via che i discepoli devono percorrere per poterlo seguire, per andare dove lui va, cioè verso la Pasqua: è l’amore fino alla fine, a somiglianza del suo. Prima della Pasqua questo amore è ‘sconosciuto’ ai loro occhi e non sono in grado di percorrere quella via. Solo dopo, dopo la Pasqua di Gesù e il dono dello Spirito, potranno essere veramente discepoli.

La sequela non è frutto dell’impegno dei discepoli, ma è quella ‘cosa nuova’, quella via nel deserto che Dio ha aperto nella storia dell’umanità. Senza la strada aperta da Dio in Gesù, che è la via (Gv 14,6), non ci può essere sequela autentica. Allora questa parola di Gesù è situata in un ‘terzo tempo’, che viene dopo la sua Pasqua e il dono dello Spirito, e condurrà i discepoli alla verità tutta intera. È il tempo della Chiesa.

 

Preghiere e racconti 

Affamati d’amore

Oggi non abbiamo più neppure il tempo per guardarci, per parlarci, per darci reciprocamente gioia, e ancor meno per essere ciò che i nostri figli si aspettano da noi, che un marito si aspetta dalla moglie e viceversa. E così siamo sempre meno in contatto gli uni con gli altri. Il mondo va in rovina per mancanza di dolcezza e di gentilezza. La gente è affamata d’amore, perché siamo tutti troppo indaffarati.

(Madre Teresa di Calcutta)

«Vi do un comandamento nuovo».

Poiché c’era da aspettarsi che i discepoli, sentendo tali discorsi e considerandosi abbandonati, si lasciassero prendere dalla disperazione, Gesù li consola, munendoli, per la loro difesa e protezione, della virtù che è alla radice di ogni bene, cioè della carità. È come se dicesse: «Vi rattristate perché io me ne vado? Ma se vi amerete l’un l’altro, sarete più forti». E perché non disse proprio così? Perché impartì loro un insegnamento molto più utile: «In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli». Con queste parole fece capire che la sua eletta schiera non avrebbe dovuto mai sciogliersi, dopo aver ricevuto da lui questo segno distintivo. Lui lo rese nuovo, con la maniera stessa in cui lo formulò. Difatti precisò: «Come io ho amato voi» […].

E, trascurando qualsiasi accenno ai miracoli che essi avrebbero compiuto, dice che sarebbero stati riconosciuti dalla loro carità. Sai perché? Perché la carità è il più grande segno che distingue i santi: essa è la prova sicura e infallibile di ogni santità. Soprattutto con la carità noi tutti conseguiamo la salvezza. In questo soprattutto egli afferma consistere l’essere suoi discepoli. Proprio a motivo della carità tutti vi loderanno, vedendo che imitate il mio amore. I pagani certamente non si commuovono tanto di fronte ai miracoli come di fronte alla vita virtuosa. E niente educa alla virtù come la carità. Essi infatti chiamarono spesso impostori gli operatori di miracoli, ma non possono mai trovare qualcosa da criticare in una vita integra.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul vangelo di Giovanni, 57,3s.).

Ama con umiltà e rispetto

La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui.

(Thomas Merton).

«Amerai il prossimo tuo come te stesso» (cfr. Mt 22,37-39).

 Comincio a sperimentare che un amore di Dio totale e incondizionato rende possibile un amore del prossimo visibilissimo, sollecito e attento. Ciò che spesso io definisco ‘amore del prossimo’ si dimostra troppo spesso un’attrazione sperimentale, parziale o provvisoria, di solito molto instabile e fuggevole. Ma se il mio obiettivo è l’amore di Dio, si può sviluppare anche un profondo amore per il prossimo. Altre due considerazioni possono spiegarlo meglio.

Prima di tutto, nell’amore di Dio scopro ‘me stesso’ in modo nuovo. In secondo luogo, non scopriremo solo noi stessi nella nostra individualità, ma scopriremo anche i nostri fratelli umani perché è la gloria stessa di Dio che si manifesta nel suo popolo in una ricca varietà di forme e di modi. L’unicità del prossimo non si riferisce a quelle qualità peculiari, irrepetibili da individuo a individuo, ma al fatto che l’eterna bellezza e l’eterno amore di Dio divengono visibili in quelle creature umane uniche, insostituibili, finite. È precisamente nella preziosità dell’individuo che si rifrange l’amore eterno di Dio, diventando la base per una comunità d’amore. Se scopriremo la nostra stessa unicità nell’amore di Dio e se potremo affermare che possiamo essere amati perché l’amore di Dio dimora in noi, potremo allora arrivare agli altri, in cui scopriremo una nuova ed unica manifestazione dello stesso amore, entrando in intima comunione con loro.

(H.J.M.NOUWEN, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista,  Brescia, 1998, 82s.).

Cogliere il mistero di Dio

Fratelli, non temete il peccato degli uomini, amate l’uomo anche nel suo peccato, perché questa immagine dell’amore di Dio è anche il culmine dell’amore sopra la terra. Amate tutta la creazione divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia. Amate ogni fogliuzza, ogni raggio di sole! Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa! Se amerai tutte le cose, coglierai in esse il mistero di Dio. Coltolo una volta, comincerai a conoscerlo senza posa ogni giorno di più e più profondamente. E finirai per amare tutto il mondo di un amore ormai totale e universale.

(Fedor Dostoevskij, da I fratelli Karamazov).

Cercare la verità…amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle confessioni di sant’Agostino.

 

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

 

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

 

Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

 

Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

 

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio Mazzi, Preghiere di un prete di strada).

 

L’amore basta all’amore 

Quando l’amore ti chiama, seguilo,

anche se ha vie ripide e dure.

Quando dalle sue ali ne sarai avvolto,

abbandonati a lui;

anche se la sua lama potrà ferirti.

Quando ti parla, credigli,

anche se la sua voce potrà disperdere i tuoi sogni.

Perché più l’amore ti colpirà,

più tu maturerai.

Perché l’amore non deve dar nulla, se non se stesso,

né coglier nulla, se non da se stesso.

Perché amarsi l’un l’altro,

non è far dell’amore una prigione.

Perché l’amore non possiede, né deve essere posseduto.

Perché l’amore basta all’amore.

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA V DI PASQUA C

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

III DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 5,27-32.40-41

In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo». Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono». Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.

Questo compito di pascere gli agnelli, ossia di dare come cibo al popolo la dottrina predicata da Cristo, viene contestato espressamente a Pietro e agli apostoli dalle autorità di Gerusalemme. Un primo incidente si era già verificato in precedenza, quando Pietro e Giovanni guarirono lo storpio che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del Tempio (At 3). In quell’occasione, mentre Pietro teneva un discorso, sopraggiunsero i sacerdoti e il comandante delle guardie del Tempio per arrestare i due apostoli, che avevano suscitato la fede in circa cinquemila uomini (At 4,1-4). Pietro non esitò a parlare con franchezza di Gesù davanti alle autorità, ricevendo soltanto il solenne ammonimento di non evangelizzare più (4,13-17). Pietro e Giovanni, però, altrettanto decisamente risposero: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi piuttosto che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (4,19-20).

     Tenendo presente quest’antefatto, divengono più chiare le parole di rimprovero che il sommo sacerdote rivolge agli apostoli. Ma costoro riprendono l’argomento della volta precedente: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (5,29). Senz’altro viene da porsi quest’interrogativo: come mai un gruppo di persone sprovvedute, o almeno così giudicate, ha tale franchezza nel parlare ai capi del popolo, toccando il tasto ancora dolente della morte di Gesù? Da dove nasce questo coraggio di «obiettare»? L’unica risposta accettabile e che non necessita di molti commenti proviene dalle loro stesse parole: «E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono» 5,32). Lo Spirito quindi è l’anima di queste persone, a cui un giorno il Maestro disse: «Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc12,11-12). E nemmeno la fustigazione li fece recedere, piuttosto considerarono un onore e perfetta letizia l’essere stati percossi a causa di Gesù Cristo e del suo Vangelo (cf. Mt 5,10-11 e Gc 1,2-4).

 

Seconda lettura: Apocalisse 5,11-14

Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli». E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.

 L’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto ha dominato sempre l’attività degli apostoli. Essi però aggiungono che «Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati» (At 5,31 ). Quest’innalzamento nella gloria il libro dell’Apocalisse ce lo descrive con il suo tipico linguaggio simbolico. Gesù è chiamato Agnello, e come tale entra in scena al v. 6 del capitolo 5. Egli è al contempo «ritto», per indicare che è risorto e possiede tutta la forza che gli deriva dalla risurrezione, e «come immolato» (anche se sarebbe meglio tradurre «come ammazzato»), per sottolineare che egli ha pure tutte le virtualità che provengono dalla sua passione e morte. In virtù di tutto ciò, l’Agnello è in grado di «prendere il libro e di aprirne i sigilli» (5,9), ossia di saper leggere il piano di Dio.

     Il veggente assiste a uno spettacolo straordinario: un numero infinito di angeli, insieme agli esseri viventi e ai vegliardi, che lodano l’Agnello, di cui si ricorda ancora una volta la sua passione e morte violenta, ma in più si dice che è degno di ricevere una serie di prerogative e riconoscimenti. L’aggettivo «degno» non deve trarre in inganno: esso non si riferisce a valori morali, bensì alla capacità, da lui detenuta, di ricevere da Dio la potenza di agire, la ricchezza delle risorse divine, la sapienza nel condurre la storia e la forza di vincere il male, e dagli uomini l’onore, cioè la riconoscenza della sua azione di salvezza, insieme alla gloria e alla benedizione nella preghiera e nella liturgia.

     Ciò in effetti avviene al v. 13, quando ogni essere creato nei cieli (gli angeli), sulla terra (gli uomini), sotto terra (i morti) e sul mare (coloro che, uomini o angeli, hanno dimostrato di saper vincere il male, di cui il mare sarebbe la sede) elevano l’inno di lode a Dio, il grande dominatore della storia e della natura, che perciò siede sul trono, e all’Agnello, che ha concretamente realizzato le condizioni di questo dominio divino. Le creature, quindi, consapevoli che Dio e Cristo-Agnello hanno donato loro tutto quello di cui bisognavano per vincere il male, a modo loro nella lode colma di gratitudine tentano di restituire ciò che hanno ricevuto.

 

Vangelo: Giovanni 21,1-19

In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

 

Esegesi

     Il primo versetto della pericope evangelica inquadra bene il taglio da conferire alla sua lettura: «Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così». Il verbo «manifestare» (in greco faneroo), poi, ricorre successivamente al v. 14, quasi a conclusione della prima parte di quest’ultimo incontro tra Gesù e i suoi discepoli: «Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti». In realtà, questo termine non è nuovo nel Vangelo di Giovanni, viene usato in 1,31 quando Giovanni Battista spiega che l’obiettivo della propria missione è «far conoscere» il Cristo; in 2,11 viene detto che Gesù «manifestò» la sua gloria nel segno compiuto a Cana; in 3,21 Gesù conclude il dialogo con Nicodemo affermando che chi compie la verità cammina verso la luce, allo scopo di «far apparire» che le sue opere sono fatte in Dio; in 7,4 viene tentato a «manifestarsi», cioè a compiere qualche segno grandioso; in 9,3 giustifica la cecità del cieco nato con l’opportunità di «manifestare» le opere di Dio; in 17,6 Gesù riassume la sua missione dicendo che «ha manifestato» il nome del Padre all’umanità. Questa volta, invece, Gesù non deve manifestare altro che se stesso in quanto risorto.

     Il verbo «manifestare» svolge una funzione importante nel capitolo 21: essendo presente nei vv. 1 e 14, esso ne delimita la prima parte, tutta dedicata al riconoscimento del Maestro, mentre i vv. 15-19 e 20-23 sono occupati da due dialoghi tra Gesù e Pietro, di cui la pericope proposta nella liturgia ci riporta solo il primo. Fatte queste premesse, siamo pronti ad addentrarci nel brano.

     Per l’evangelista Giovanni questa fu la terza e ultima apparizione di Gesù ai suoi discepoli (cf. 21,14), senza appunto contare quella a Maria Maddalena nel mattino stesso di Pasqua (20,11-18). Quanto tempo dopo l’apparizione a Tommaso (20,26-29) Gesù si sia nuovamente manifestato ai discepoli, il Vangelo non lo dice. Conosciamo però il luogo dell’avvenimento: non più Gerusalemme, teatro della passione, morte e risurrezione del Maestro, bensì «sul mare di Tiberiade» (21,1), zona dalla quale provenivano molti dei discepoli. I testimoni dell’accaduto, elencati al v. 2, sono sette dei Dodici discepoli, ma soltanto di cinque ci viene riferito il nome, ossia Simon Pietro, Tommaso, Natanaele e i due figli di Zebedeo. Possiamo però supporre che gli altri due siano il discepolo che Gesù amava, espressamente richiamato nel v. 7, e Andrea, fratello di Pietro. La narrazione evangelica esordisce mettendoci al corrente della decisione di Pietro, a cui si accodano anche gli altri. Ma l’iniziativa si conclude in verità con un radicale fallimento: «Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla » (v. 3).

     A questo punto entra in scena Gesù: quando era già l’alba, egli si presentò sulla riva. Benché gli apostoli si trovassero a poco più di novanta metri dalla riva (il testo greco parla di duecento cubiti, v. 8), non riconobbero che quella persona dalla terraferma era il Signore se non quando, ordinando di gettare le reti dalla parte destra della barca, si verificò il segno della «pesca miracolosa» e, quindi, il discepolo prediletto pronunciò la frase che forse tutti avevano in mente ma nessuno aveva il coraggio di pronunciare: «È il Signore!» (v. 7). La reazione di Pietro è immediata: si vestì, si gettò in acqua e guadagnò la riva, mentre gli altri la raggiunsero con la barca. I discepoli trovarono che era già stata preparata per loro una «colazione», a cui Gesù chiese di aggiungere del pesce appena preso. Ciò offre al narratore di volgere l’attenzione sulla rete che, tratta da Simon Pietro, non si ruppe, benché contenesse una gran quantità di pesci, ben centocinquantatre.

     Non ci soffermiamo sul tema del riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli, che è tipico di tutti i racconti pasquali e certamente già analizzato. Prestiamo invece attenzione alla figura di Pietro, il cui ruolo era stato in un certo qual senso definito quando Gesù lo incontrò: «Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: ‘Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti

chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)’» (1,42; cf. Mt 16,17-19). Prima di chiudere del tutto la sua vicenda terrena, Gesù vuole finalmente chiarire il suo progetto, che potremmo sintetizzare intorno a tre principi. In primo luogo, non esiste alcuno che possa realizzare qualcosa prescindendo da Lui, nemmeno Pietro. Lo dimostra la pesca infruttuosa intrapresa da questi e dagli altri: ci sembra sentire risuonare le parole di Lc 5,5: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla». In secondo luogo, è Pietro che si sobbarca la fatica di trarre a riva la rete piena di pesci, ossia è a lui in prima istanza che è data la responsabilità di essere «pescatore di uomini» (cf. Lc 5,10). Infine, la rete che non si rompe sottolinea il fatto che, autenticamente fondata sulla parola di Gesù e guidata da Pietro, la chiesa non si divide (il testo greco usa il verbo schízo, quasi a voler escludere «scismi»).

     Il dialogo dei vv. 15-19 esplicita la simbologia del racconto della manifestazione. Gesù chiede a Pietro per ben tre volte se lo ama, perché è sulla base di quest’amore totale e incondizionato che diventa concreta e fruttuosa l’esecuzione della missione. La missione viene esplicitata con il comando di pascere, come al v. 11 era stata indicata con il verbo «trarre». Ma le pecore e gli agnelli da pascere non appartengono a Pietro, bensì a Gesù, che ha offerto la propria vita per loro, al fine di riunirle e di proteggerle da chi vuole disperderle (cf. Gv 10,11-18). Ma pure a Pietro viene chiesto di offrire la vita per il gregge che Gesù gli ha affidato (vv. 18-19), perciò acquisisce un senso più chiaro quell’invito a seguirlo nel peso di pascere il gregge e di morire per esso.

 

Meditazione 

     Dopo averci fatto ascoltare il racconto della venuta del Risorto nel cenacolo, la liturgia di questa terza domenica di Pasqua ci conduce presso il lago di Tiberiade per assistere alla terza e ultima manifestazione di Gesù narrataci da san Giovanni. È un manifestarsi di nuovo, come l’evangelista precisa al v. 1: «Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo». Dopo questi fatti, dopo tutto ciò che il Quarto Vangelo e i Sinottici ci hanno raccontato della vicenda storica e pasquale di Gesù, il Signore torna a manifestarsi nella ferialità della vita, laddove i discepoli sembrano tornare alle occupazioni di sempre. Con ogni probabilità il vangelo di Giovanni, nella sua prima redazione, si concludeva al capitolo 20; il capitolo 21 costituisce dunque un’aggiunta successiva da parte della comunità. Al di là di questi problemi storico-letterari, noi lettori ci troviamo di fronte a questo fatto sorprendente: nel momento in cui il vangelo si chiude, torna ad aprirsi. Il Signore si manifesta nuovamente nel tempo della Chiesa, anche dopo ‘quei fatti’ che appartengono alla memoria storica dei primi discepoli. Giovanni parla qui di manifestazione, un termine che non usa mai nei racconti di risurrezione del capitolo precedente. Quasi a suggerirci che si tratta di un manifestarsi diverso rispetto agli incontri vissuti con il Risorto dai suoi discepoli storici. Nello stesso tempo precisa che si tratta della «terza manifestazione», ricollegandola così alle apparizioni precedenti. È un manifestarsi del Risorto diverso, ma in continuità con gli incontri vissuti dai discepoli della prima ora. Il primo invito con cui questa pagina ci interpella è allora a vigilare per riconoscere questa manifestazione sempre nuova del Signore nella nostra vita e nella vita delle nostre comunità.

     Siamo già nella luce piena del tempo pasquale, eppure il racconto giovanneo ci conduce ancora nella notte, che non è solo la notte dell’infecondità di una pesca vana, ma anche la notte dell’assenza del Signore. Inoltre la barca, nell’insieme della tradizione evangelica, sembra essere luogo di prova e di purificazione della fede. Il Vangelo di Giovanni ci parla solo in un altro passo del lago di Tiberiade e di questa barca su cui i discepoli sono soli, senza il Signore; lo fa al capitolo sesto, dopo il segno dei pani, quando la barca si trova esposta al pericolo del mare agitato e del forte vento. La barca è dunque anche luogo di paura, di timore, di fronte al mare che simboleggia ogni forma con cui il male minaccia la vita degli uomini e la fede dei discepoli. La barca è il luogo in cui una piccola fede, una fede che è sempre ‘poca’, per dirla con Matteo, è chiamata a divenire una fede matura attraverso il fuoco purificatore della prova. Certo, nella tradizione la barca è anche un simbolo ecclesiale, ma la Chiesa non è appunto questo: una comunità in cui la piccola fede è chiamata a divenire una grande fede; in cui il non-sapere che era Gesù può divenire la conoscenza piena di chi grida «È il Signore!», in cui l’infecondità di una rete vuota si trasforma in una rete traboccante di centocinquantatre grossi pesci? Ma a quali condizioni è possibile vivere nella Chiesa questo passaggio che è sempre un passaggio pasquale? Il capitolo 21 non ci parla solo dell’incontro con il Risorto, ma anche del cammino di conversione e di purificazione della fede che occorre vivere per giungervi.

     Tra i molti spunti che il testo offrirebbe, ne cogliamo solamente uno. Il capitolo si apre con la decisione di Pietro: «io vado a pescare». Se in queste parole c’è l’aspetto positivo di una responsabilità vissuta in prima persona, capace di suscitare la collaborazione e l’operosità di altri – «Veniamo anche noi con te» (v. 3) – in esse si nasconde comunque la tentazione di un’impresa autonoma e autoreferenziale, vissuta nell’assenza del Signore. Non perché lui non ci sia, ma perché non lo si riconosce presente, e soprattutto perché non si ha abbastanza cura nel porre in relazione il nostro operare con la sua Parola, i criteri del nostro agire con i suoi criteri. È la tentazione di un agire autoreferenziale e autonomo che, per quanto vissuto in nome del Signore, rischia di rendere marginale o non incidente la sua presenza. Quando e laddove il Signore si rende presente con la sua parola, egli esige e rende possibile la nostra conversione. Infatti, in quella notte in cui il Signore rimane assente e c’è soltanto la propria autonoma decisione, i discepoli «non presero nulla». Giovanni usa il verbo piàzo, che significa più precisamente ‘arrestare’. È il medesimo verbo che l’evangelista utilizza più volte nel suo racconto per descrivere il tentativo vano da parte delle autorità giudaiche di arrestare Gesù, perché non era ancora giunta la sua ‘ora’. È vano il tentativo di arrestare Gesù, solo lui può liberamente consegnare se stesso in un amore più forte e radicale dell’odio di chi tenta di catturarlo. Come non si arresta Gesù, così è vano ogni tentativo di vivere il proprio ministero di pescatore di uomini nella modalità di un potere, in qualsiasi forma esso venga esercitato, che tenta o pretende di arrestare, di catturare, di bloccare, di trattenere. Occorre entrare in una logica diversa, che è appunto la logica pasquale di chi non si lascia arrestare, e neppure ‘cattura’ gli altri, ma si consegna nell’amore.

     Al v. 6 l’evangelista annota che, dopo il segno della pesca miracolosa, i discepoli non potevano più tirare la rete per la gran quantità di pesci. Sono sette e non riescono. Al v. 11 narra invece che «Simon Pietro salì sulla barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti la rete non si spezzò». Pietro, riesce a fare ora, da solo, quello che prima, in sette, non erano riusciti a fare. Perché ora può? Il racconto risponde a questo interrogativo in modo simbolico: ora può, perché si è gettato in mare. Il mare nella Bibbia è metafora di male, sofferenza, pericolo, morte… In questo mare Pietro si getta, con un gesto che ha un marcato valore battesimale: immergersi nelle acque significa immergersi nella morte del Signore per divenire partecipi della sua risurrezione. Ed è pro-prio il gettarsi nelle acque per essere pienamente partecipe del mistero pasquale, che consente a Pietro di divenire davvero, in modo autentico, quel pescatore di uomini a cui già nel suo primo incontro il Signore Gesù lo aveva chiamato. Il simbolismo battesimale è rafforzato anche dal verbo ‘salire’ del v. 11, che però nel testo originario rimane senza complemento di luogo. Il traduttore aggiunge «salì sulla barca», ma in greco non è detto; Pietro semplicemente risale dalle acque, ed è ancora un modo per alludere al battesimo che ci immerge nelle acque per renderci partecipi della morte di Gesù, e poi da esse ci fa risali- re, rendendoci partecipi della sua risurrezione. Solamente questa conformazione battesimale alla Pasqua di Gesù può consentire a Pietro non solo di vedere la sua rete riempirsi, ma di trarre i pesci fuori dal mare, dalle acque impetuose, per condurli alla terra ferma dell’incontro con il Signore Risorto. Per descrivere Pietro che trae la rete dal mare, Giovanni usa lo stesso verbo greco (hélko) con cui Gesù afferma solennemente al capitolo 12: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32). È attraverso la sua Pasqua che Gesù ci attira a sé, ed è attraverso la sua conformazione battesimale al mistero pasquale che anche Pietro può attrarre a Gesù tutti coloro che la sua rete trova e custodisce. Si possono liberare gli uomini dalle acque della morte solo accettando di immergersi in esse, di attraversare personalmente l’esperienza della compassione, condividendo il destino del proprio Maestro e Signore nelle sofferenze stesse dei suoi fratelli, dei quali bisogna prendersi cura.

Preghiere e racconti

«Simone mi ami tu?»

… Il gallo cantò per la terza volta.

Gesù uscì dalla sala…… e Simon Pietro,

seguendo il rumore, guarda dalla sua parte.

Lo vede e « pianse amaramente ».

Lo stesso Pietro che da quel momento

è diventato vergognoso e intimidito,

perennemente intimidito,

anche se non riusciva a trattenere i suoi slanci abituali,

li compiva, poi si fermava bloccato dalla vergogna,

dalla vergogna del ricordo…

…era là in disparte quella mattina sulla riva…

erano là tutti intorno quel mattino,

in silenzio timoroso, intimiditi

così che nessuno domandava qualche cosa

perché tutti sapevano

che era il Maestro.

Nella frescura di quell’ora mattutina

coi pesci – quei pesci che si agitavano ancora

alle loro spalle – dopo una notte arida di frutto

erano là a mangiare il pesce…

…il pesce preparato da Lui

che aveva pensato anche al loro mangiare

perché sarebbero tornati stanchi.

Il Signore si era steso vicino,

era lì vicino, a mangiare con loro.

Il Signore lo guardava.

Lui sguardava,

ma non guardava

perché aveva vergogna più del solito…

Il Signore forse l’avrà guardato intensamente

finché Pietro disagiato da quello sguardo fisso

si sarà voltato, come a dire « Che vuoi?». 

E Gesù, immediatamente,

senza porre frammento di tempo in mezzo:

«Simone, mi ami tu più di costoro?».

Lo diceva a chi l’aveva offeso,

lo diceva al temperamento più facile all’incoerenza, al traditore.

Dopo Giuda, lui.

Ma in lui era evidente che Cristo era.

« Signore, tu lo sai che ti amo».

Non poteva non voltare la faccia

e dire la sua risposta.

Non poteva.

Sarebbe stata una menzogna.

Gli voleva bene,

l’aveva tradito ma gli voleva bene.

Perciò si è voltato verso di Lui

e gli ha dato quella risposta che non era mai venuta meno,

eccetto che in quei momenti terribili.

Gli ha dato la risposta

per cui era continuamente

voltato verso di Lui, dovunque fosse,

fosse sulla barca, nel mare del mattino,

tra la folla sulla montagna,

quando era in casa e Lui non c’era… 

Non è vero che ti ho odiato,non è vero che non ti ho amato…

perché «tu lo sai, Signore, che ti amo».

Ma è il contrario di quello che hai fatto…

Io non so come sia, so che è così. 

« Simone, mi ami tu?».

Non ha detto

«Non peccare non tradire, non essere incoerente».

Non ha toccato nulla di questo.

Ha detto:« Simone, mi ami tu?».

Ognuno di noi

non riesce a sfuggire completamente

al fatto che Cristo è amabile

e ama noi esattamente così come siamo.

Cristo è chi si compiace di noi.

di me, dice san Pietro piangendo,

la Maddalena, la Samaritana, l’assassino.

Cristo è colui che si compiace di me e perciò mi perdona.

Mi ama e mi perdona.

(Luigi Giussani)

Mi ami tu?

Ecco che il Signore, dopo la sua resurrezione, appare di nuovo ai suoi discepoli. Interroga l’apostolo Pietro e spinge a confessare per tre volte il proprio amore colui che aveva rinnegato tre volte per timore. Cristo è risorto secondo la carne, Pietro secondo lo spirito. Mentre Cristo moriva soffrendo, Pietro moriva rinnegando. Il Signore Cristo resuscita dai morti e nel suo amore resuscita Pietro. Ha interrogato l’amore di colui che lo confessava e gli ha affidato le sue pecore. […] Il Signore Cristo volendo mostrarci in che modo gli uomini debbano provare che lo amano, lo rivela chiaramente: va amato nelle pecore che ci sono affidate. Mi ami tu? Ti amo. Pasci le mie pecore. E questo una volta, due volte, tre volte. Pietro non dice altro se non che lo ama. Il Signore non gli domanda altro se non se lo ama.

A Pietro che gli risponde non affida altro se non le sue pecore. Amiamoci a vicenda e ameremo Cristo. Cristo, infatti, eternamente Dio, è nato uomo nel tempo. È apparso agli uomini come uomo e figlio dell’uomo. Essendo Dio nell’uomo, opera molti miracoli. Ha molto sofferto, in quanto uomo, da parte degli uomini, ma è risorto dopo la morte perché era Dio nell’uomo. Ha passato sulla terra quaranta giorni come un uomo con gli uomini. Poi, sotto i loro occhi, è asceso al cielo come Dio nell’uomo e si è assiso alla destra del Padre. Tutto questo lo crediamo, non lo vediamo. Ci è stato ordinato di amare Cristo Signore che noi non vediamo e tutti noi proclamiamo: «Io amo Cristo». Ma se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi? (I Gv 4,20). Amando le pecore, mostra di amare il pastore, perché le pecore sono membra del Pastore.

(AGOSTINO, Discorso Morin Guelferbytanus 16, PLS 2,579-580).

Rispondere all’amore di Dio

Dio dice: «Ti amo di un amore eterno», e Gesù è venuto a insegnarci questo. Quando Gesù fu battezzato, si udì una voce che diceva: «Questo è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». È un’affermazione molto importante e Gesù vuole che noi l’ascoltiamo. Noi siamo i prediletti, non perché abbiamo fatto qualcosa, non perché abbiamo dato prova di noi stessi.

Sostanzialmente Dio ci ama qualunque cosa facciamo. Se questo è vero, per i pochi anni in cui siamo in questo mondo siamo invitati a dire, nel contesto della nostra esistenza: «Sì, o Dio, anch’io ti amo».

Proprio come Dio si prende cura di noi, è molto importante che noi ci prendiamo cura di Dio nel mondo. Se Dio è nato come un piccolo bambino, Dio non può camminare o parlare se qualcuno non insegna Dio. È questa la storia di Gesù, che per crescere ha bisogno degli esseri umani. Dio dice: «Voglio essere debole affinché tu possa amarmi. Quale modo migliore per aiutarti a rispondere al mio amore se non diventando debole affinché tu possa prenderti cura di me?». Dio diventa un Dio vacillante, che cade sotto la croce, che muore per noi e che ha un totale bisogno di amore. Dio fa questo affinché possiamo essergli più vicini. Il Dio che ci ama è un Dio che diviene vulnerabile, dipendente nella mangiatoia e dipendente sulla croce, un Dio che fondamentalmente ci chiede: «Sei qui per me?».

Dio – si potrebbe dire – aspetta la nostra risposta. In modo molto misterioso Dio ‘dipende’ da noi. Dio dice: «Voglio essere vulnerabile, ho bisogno del tuo amore. Ho desiderio di una tua dichiarazione d’amore». Dio è un Dio geloso nel senso che vuole il nostro amore e vuole che diciamo di sì. Per questo, alla fine del Vangelo di Giovanni, Gesù chiede a Pietro tre volte: «Mi ami tu?». Dio aspetta la nostra risposta. La vita ci offre infinite opportunità di dare questa risposta.

(Henri J.M. NOUWEN, La via della Pace, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 81-82).

Butto la rete

Signore,

la mia sola sicurezza sei tu

come il mare che ho davanti

e nel quale butto la rete della mia vita.

Anche se finora non ho pescato nulla

anche se a volte non ne ho la voglia

io so Signore che se avrò la forza

di buttare continuamente questa rete

troverò il senso della verità.

(E. OLIVERO, L amore ha già vinto. Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005).

Gli atti dell’amore

L’amore di Cristo per Pietro fu così senza limiti: nell’amare Pietro egli mostrò come si ama l’uomo che si vede. Egli non disse: «Pietro deve cambiare e diventare un altro uomo prima che io possa tornare ad amarlo». No, tutt’al contrario. Egli disse: «Pietro è Pietro e io lo amo; è il mio amore semmai che lo aiuterà a diventare un altro uomo!». Egli non ruppe quindi l’amicizia per riprenderla forse quando Pietro fosse diventato un altro uomo; no, egli conservò intatta la sua amicizia, e fu proprio questo che aiutò Pietro a diventare un altro uomo. Credi tu che, senza questa fedele amicizia di Cristo, Pietro sarebbe stato recuperato? A chi tocca aiutare chi sbaglia se non chi si dice amico, anche quando l’offesa è fatta contro l’amico?

L’amore di Cristo era illimitato, come l’amore deve essere quando si deve compiere il precetto di amare amando l’uomo che si vede. L’amore puramente umano è sempre pronto a regolare la sua condotta a seconda che l’amato abbia o non abbia perfezioni; mentre l’amore cristiano si concilia con tutte le imperfezioni e debolezze dell’amato e in tutti i suoi cambiamenti rimane con lui, amando l’uomo che vede. Se non fosse così, Cristo non sarebbe mai riuscito ad amare: infatti, dove avrebbe egli mai trovato l’uomo perfetto?

(S. KIERKEGAARD, Gli atti dell’amore, Milano, 1983, 341-344).

Mi ami? Una domanda cruciale

Per tre volte il Signore chiede a Pietro di proclamare il suo amore, di dichiararlo apertamente. È logico chiederci: perché l’ha fatto? Evidentemente l’ha fatto perché lo avvertiva come un bisogno molto importante di Pietro: tre volte Pietro l’aveva rinnegato, tre volte davanti a tutti lo invita a proclamare il suo amore.

È interessante questo particolare: a ogni proclamazione di amore segue una consegna precisa di Gesù. Gesù conferisce un compito e una responsabilità solenne: «Pasci le mie pecorelle», il che in sostanza significa: da’ la prova che mi ami, spendendoti per i tuoi fratelli, diventando strumento di salvezza per i tuoi fratelli. […] Alla terza dichiarazione solenne di Pietro, Gesù chiede veramente tutto: chiede nientemeno che l’offerta della vita. Disse: «Seguimi!». «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio».

Non è certo impossibile che il nostro amore se ne stia tranquillamente nel vago; dobbiamo sempre temere che resti ovattato di belle parole. Finché stiamo solo nel mondo delle belle parole, non siamo sicuri di amare veramente il Signore. E allora Gesù smantella le parole e aiuta a verificarle con la concretezza: «Pasci! ». Cioè: aiuta! salva! Che per Pietro significa: istruisci, organizza, cioè spenditi per i tuoi fratelli per amore verso di me, perché te lo dico io stesso.

È sempre incombente il pericolo che nella nostra preghiera del cuore non scendiamo alla concretezza. Gesù pretende la concretezza dell’amore.

Vigiliamo dunque sulla concretezza della nostra preghiera del cuore: dobbiamo alzarci dai piedi del Signore con in mano una verifica precisa del nostro amore, un dono preciso, una conversione precisa.

E dobbiamo essere attenti che non sia un dono scelto soltanto da noi, ma scelto veramente da lui, gradito a lui, voluto e specificato da lui: maturato cioè nella preghiera. […] Pietro probabilmente avrebbe dato altro al Signore; il Signore invece gli chiede di fare bene il Capo, un capo capace di pascere, cioè di nutrire il gregge, e un capo tanto impegnato col gregge da essere pronto a giocare anche la vita quando sarebbe scoppiata la persecuzione.

(A. GASPARINO, Maestro insegnaci a pregare, Torino, Elle Di Ci, 1993, 205-207)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER LA MEDITAZIONE PERSONALE:

PASQUA III DI PASQUA C

II DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Apostoli 5,12-16

Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico  di Salomone;  nessuno degli altri osava associarsi a  loro,  ma il popolo li esaltava. Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.

 

È uno dei cosiddetti «sommari» degli Atti: quadretti che dipingono la comunità cristiana primitiva. È una comunità che evidentemente ha fatto esperienza della risurrezione di Cristo e lo manifesta nella concordia: tutti erano soliti stare insieme (v. 12). Una unità tra cristiani sostenuta dalla preghiera e dalla frazione del pane (2,42-46). La fede cristiana si manifesta nella carità e nella comunione gioiosa. L’attività taumaturgica di Gesù continua ora nella chiesa per mezzo degli apostoli (v. 12). Tra gli apostoli un posto particolare ha la figura di Pietro. In lui continuava in modo singolare ad essere presente la potenza di Cristo: almeno la sua ombra (v. 15) guariva. La gente si rendeva conto di una speciale presenza divina negli apostoli e li stimava, ma, forse per un sacro timore, nessuno degli altri osava associarsi a  loro (v. 13).

     La presenza dello Spirito del Risorto si manifestava nella serie di prodigi, che aiutavano gli umili ad accogliere la predicazione apostolica (vv. 15-16). Nella comunità cristiana primitiva, sotto la direzione di Pietro, sono presenti così i segni che chiamano alla fede: le guarigioni miracolose, prolungamento del mistero storico di Gesù, ma soprattutto il segno dell’unità dei fratelli nella fede del Cristo risorto.

 

Seconda lettura: Apocalisse 1,9-11.12-13.17-19

Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese». Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito». 

 

Il brano riporta la visione di Cristo glorioso avuta da Giovanni nel giorno del Signore (v. 10), la domenica, il giorno in cui la comunità cristiana si riunisce per l’ascolto della parola e per celebrare la risurrezione. Giovanni si sente fratello e compartecipe della comunità che sta in ascolto. Anche lui come le piccole comunità cristiane soffre la persecuzione per amore di Gesù Cristo: si trova a Patmos, una isola delle Sporadi a 75 Km a sud-ovest di Efeso. Egli riceve l’incarico di scrivere un libro per le sette chiese (v. 11). Il numero sette è simbolico: indica la totalità.

     Sta parlando quindi alla chiesa universale, che poi è presente nella chiesa locale, in modo particolare nell’assemblea liturgica. L’Apocalisse è un libro diretto a una comunità liturgica che lo interpreta. Richiamandosi a immagini presenti in Daniele e Ezechiele, Giovanni presenta Cristo come uno simile a un Figlio d’uomo, con le insegne del giudice escatologico. L’abito lungo fino ai piedi è simbolo della sua dignità sacerdotale, mentre la fascia d’oro esprime la sua regalità. La voce potente indica una rivelazione chiara senza ombra di dubbio. Gesù Cristo è in mezzo ai sette candelabri: egli è presente attivamente nella sua chiesa. Egli è alla destra di Dio, ma vive nella comunità cristiana. Giovanni e la sua comunità non devono temere, perché egli è il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Egli ha vinto definitivamente la morte e chi si appoggia a lui ha la vita. Nel libro che si leggerà nella comunità in ascolto si troveranno poi le cose viste, nella presente visione, quelle presenti, cioè le lettere alle sette chiese; quelle che devono accadere, le visioni sul futuro escatologico della chiesa (vv. 17-19).

 

Vangelo: Giovanni 20,19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

  Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

Esegesi 

     Dopo l’apparizione a Maria Maddalena, avvenuta all’aperto, in un giardino, Gesù appare ai suoi discepoli, chiusi per paura in una stanza. Essi ricevono lo Spirito Santo per poter annunciare la sua parola e perdonare i peccati agli uomini. La fede crescerà dall’ascolto della parola all’interno della comunità. Con questo brano Giovanni vuole sottolineare l’importanza della testimonianza per la fede pasquale.

     1) Incontro con i discepoli (20,19-23)

Avviene il primo giorno della settimana, nel giorno di Pasqua. Gesù torna ma non nel suo stato precedente: entra a porte chiuse. Si pone al centro della comunità cristiana: stette in mezzo loro (v. 1), come unico punto di riferimento. I discepoli lo possono vedere e riconoscere con lo sguardo della fede. Le conseguenze della nuova luce sono la «gioia» e la «pace», i doni messianici. Gesù dà loro l’incarico missionario: devono continuare la missione a lui affidata dal Padre: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (v. 21). Ma solo uomini nuovi sono capaci di questo compito. Gesù dona loro lo Spirito Santo: soffiò su di loro (v. 20) come soffiò all’inizio la vita nuova al primo uomo. Il dono dello Spirito era stato anticipato simbolicamente dall’acqua e dal sangue usciti dal costato di Cristo (19,34). La missione degli apostoli avrà come obiettivo la remissione dei peccati (v. 23). Il potere viene dato al gruppo dei dodici, nominati nel versetto seguente (v. 24). Viene esercitato certamente nel sacramento della penitenza secondo il concilio di Trento per i peccati commessi dopo il battesimo. Non si esclude il perdono dei peccati mediante il sacramento del battesimo e la proclamazione dei vangelo.

     2) Apparizione presente Tommaso (Gv 20,24-29)

I dubbi di Tommaso esprimono l’esperienza del gruppo, dell’intera comunità apostolica, e la personale esperienza di Giovanni: «Colui… che abbiamo visto con i nostri occhi… contemplato… e toccato con le nostre mani» (1Gv 1,1-2). Anche questo incontro avviene nel primo giorno della settimana, giorno del Signore (Ap 1,10). In esso la comunità proclama con i discepoli: Abbiamo visto il Signore! (v. 25). Ma Tommaso non condivide la fede della comunità. Gesù si rende visibile per lui e lo convince di non essere un fantasma: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani» (v. 25). Bastò sentire le parole di Gesù, per credere, come per Maria bastò sentirsi chiamare per nome da lui. Tommaso fa la più bella confessione di fede del quarto Vangelo. L’esperienza della risurrezione era indispensabile per la Chiesa. I futuri discepoli di Gesù avrebbero dovuto credere senza vedere, ma accettando la testimonianza degli apostoli, che invece hanno visto. Anch’essi però saranno beati. Sperimenteranno la gioia dell’incontro con il Cristo risorto.

     3) Conclusione (Gv 20,30-31)

Segni non sono solo i miracoli, ma tutto quello che Gesù ha fatto e insegnato. Chi vuole conoscere altri segni si legga i vangeli sinottici. Tutti i segni dicono che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio (v. 31). I lettori vengono invitati ad accogliere la testimonianza degli apostoli senza esigere di toccare con mano per credere. Ora per i cristiani la testimonianza apostolica è scritta, contenuta nel vangelo, ma è una testimonianza di qualcuno che ha visto.

 

Meditazione 

     In ciascuno dei tre anni del ciclo liturgico, nella seconda domenica di Pasqua viene proclamato il racconto giovanneo della duplice manifestazione del Risorto nel cenacolo: la prima, nella sera stessa della resurrezione, mentre Tommaso è assente; la seconda, otto giorni dopo, questa volta con Tommaso presente. È evidente la motivazione che sostiene questa scelta liturgica: siamo nell’ottavo giorno dalla domenica di Pasqua e ascoltiamo il racconto di quanto è avvenuto nella comunità apostolica a distanza di otto giorni. Vale tuttavia anche la considerazione inversa: non solo il tempo liturgico determina la scelta del testo evangelico, ma lo stesso racconto di Giovanni, nella sua scansione cronologica, è probabilmente determinato dalla scansione liturgica: il Risorto si rende presente nella comunità dei discepoli storici ‘otto giorni dopo’, così come la comunità dei discepoli di ogni generazione successiva si raduna ogni otto giorni per celebrare l’eucaristia nella memoria della Pasqua, e riconoscere in questo modo, nei segni sacramentali del pane e del vino e del suo stesso riunirsi, la presenza del Signore che fedelmente accompagna il cammino della Chiesa. La stessa figura di Tommaso, con il suo non esserci dapprima e il suo esserci dopo, mette ancora più in risalto questa fedeltà del Signore alla sua comunità. I discepoli possono essere presenti o assenti, la comunità può essere anche segnata dalle ferite di una mancanza; il Signore viene comunque e sta in mezzo ai suoi, donando la sua pace e il suo Spirito. Anche colui che inizialmente non c’era, e sembra chiudersi in un atteggiamento di incredulità, non rimane escluso dal desiderio che spinge il Risorto a riallacciare vincoli di comunione con i suoi, capaci di vincere non solo la separazione della morte, ma anche l’incredulità, o comunque la fatica del credere.

     Se il racconto del Vangelo di Giovanni ogni anno caratterizza questa seconda domenica di Pasqua, le altre due letture variano sempre. Nell’anno C ascoltiamo come seconda lettura un testo tratto dal primo capitolo dell’Apocalisse, che narra l’ultima manifestazione del Risorto consegnataci dal Nuovo Testamento, almeno nell’ordine canonico dei suoi libri. Il tempo, come accade nel Quarto Vangelo, è ancora liturgico. Infatti, il v. 10 ci ricorda che tutto quello che accade si colloca in un giorno preciso: «fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore». Questo è peraltro l’unico passo del Nuovo Testamento in cui questo giorno riceve già il suo nome cristiano: è il giorno del Signore, in dominica die nel latino della Vulgata, da cui il nostro termine ‘domenica’. Anche in questo caso, dunque, l’autore insiste nel ricordarci che l’incontro con il Risorto avviene di domenica, quando la comunità è convocata dalla memoria della Pasqua e la celebra facendo eucaristia. Il testo non si premura soltanto di precisare il tempo, ma anche il luogo in cui avviene l’incontro: l’isola di Patmos, che non è solo un luogo geografico, ma luogo simbolico dell’esilio, dove Giovanni si trova «a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù» (v. 9). È necessario considerare insieme queste due coordinate dell’esperienza: il luogo è quello della tribolazione, della prova nella fede, della persecuzione, ma già illuminato dal giorno del Signore, cioè dalla sua Pasqua.

     In questo luogo e in questo giorno Giovanni ha una visione: «fui preso dallo Spirito», racconta al v. 10. Tutto ciò che vede e scrive è dono dello Spirito, che diventa l’ambito in cui si muove e il respiro stesso della sua vita. Essere nello Spirito significa per Giovanni rileggere la propria esperienza, quella della sua comunità, nonché la storia più ampia del mondo, collocandosi dal punto di vista di Dio, secondo i suoi criteri e la sua logica, che rimane una logica pasquale. L’espressione – ‘rapito dallo Spirito’ – non vuole perciò indicare un’esperienza straordinaria che l’autore vive e che solo pochi altri possono sperimentare con lui. Allude al contrario a qualcosa di più ordinario, cui anche la nostra vita deve sentirsi chiamata: leggere la storia, ma nello Spirito di Dio, dunque con i suoi criteri di giudizio e di discernimento. Nello Spirito lo sguardo di Dio viene ad abitare e a trasformare il nostro stesso sguardo. Ci sono donati occhi nuovi, occhi ‘spirituali’, per giudicare il mondo così come lo giudica Dio stesso. Quella di Giovanni dovrebbe diventare l’esperienza che a nostra volta viviamo nel giorno del Signore: ogni volta che di domenica ci raduniamo per ascoltare la parola di Dio e condividere insieme il pane, la nostra vita dovrebbe aprirsi al dono dello Spirito e acquisire un modo diverso di stare nelle situazioni della storia personale e collettiva.

     C’è di conseguenza anche una conversione da vivere, che il racconto evidenzia con un linguaggio simbolico. «Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro» (vv. 12-13). Il verbo ‘voltarsi’ ricorre due volte, con enfasi. La visione sembra attraversare due distinte tappe: c’è una prima tappa, in cui Giovanni ode una voce che lo raggiunge da dietro; poi si volta e inizia una seconda tappa nella sua esperienza di Dio. Con questo linguaggio allusivo l’autore intende probabilmente evocare le due tappe della rivelazione di Dio: la prima, attraverso i profeti e le scritture del Primo Testamento, in cui si ascoltava Dio, ma ancora come ‘di spalle’; la seconda, quella definitiva, attraverso Gesù Cristo, che compie quanto era stato annunciato e preparato, e in cui possiamo udire Dio faccia a faccia. Il compimento della rivelazione tuttavia non avviene senza coinvolgere la libera risposta dell’uomo. Giovanni deve ‘voltarsi’ per avere la piena visione del Figlio dell’uomo; il verbo greco qui usato (epistréphein) è tipico per indicare la ‘conversione’ (et conversus sum, traduce la Vulgata). Soltanto dopo che si sarà voltato, e dunque convertito, solo dopo che avrà visto Gesù Cristo faccia a faccia, il senso delle Scritture diventerà chiaro per Giovanni. Conferma questa lettura l’uso di due verbi diversi per narrare il ‘vedere’ del profeta: nella visione ‘di spalle’ in greco ricorre blépo, che esprime la semplice percezione fisica (vv. 11.12); nella visione ‘di fronte’ c’è invece horáo, che esprime il vedere più profondo della fede (vv. 12.17). In questi versetti, dunque, l’Apocalisse descrive un duplice e corrispondente progresso: alla crescita oggettiva della rivelazione di Dio risponde la maturazione soggettiva e spirituale del credente, che può giungere a una comprensione piena delle Scritture, e del significato della storia che esse illuminano, a condizione di ‘voltarsi’, dunque convertirsi al Signore Gesù, che è l’oggetto fondamentale del suo vedere nella fede.

     È l’itinerario che anche Tommaso deve percorrere per passare dall’incredulità alla fede. La sua sarà una conversione piena, poiché la più alta professione di fede riportata dal vangelo di Giovanni l’ascoltiamo proprio dalle sue labbra: «Mio Signore e mio Dio!» (v. 28). Ed è anche esemplare il cammino che lo conduce alla fede: deve fissare lo sguardo sulle mani del Risorto trapassate dai chiodi, sul suo fianco aperto. Tommaso accoglie l’invito che l’evangelista rivolge a ogni lettore del suo racconto, quando concludendo la narrazione della morte di Gesù cita la Scrittura: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto (cfr. 19,37), testo che peraltro risuona anche nell’Apocalisse, pochi versetti prima di quelli che ascoltiamo in questa liturgia: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto» (Ap 1,7). Voltarsi verso Gesù per comprendere il suo mistero e la rivelazione che egli ci dona del Padre significa fare come Tommaso: voltare lo sguardo per contemplare i segni dell’amore crocifisso, che nell’acqua e nel sangue si effonde su di noi. Si è ‘presi dallo Spirito’, come accade al veggente dell’Apocalisse, quando comprendiamo che la rivelazione insuperabile di Dio, la sua parola definitiva, sgorgano proprio da quel costato trafitto, segno della vita di Dio che ci viene donata fino al compimento (cfr. Gv 13,1) perché possiamo anche noi divenire partecipi della vita eterna. Ogni paura è vinta: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap

1,18-19).

 

Preghiere e racconti 

Beati quelli che non hanno visto e credono

    Gesù entra a porte chiuse. Eppure alla sua resurrezione, la pietra del sepolcro è rotolata e la porta del sepolcro si è aperta. […] Ma qui egli entra e le porte sono chiuse, affinché quelli che dubitavano della resurrezione fossero presi da stupore al suo ingresso e da questo prodigio fossero condotti come per mano all’altro prodigio. […] Gli apostoli, nascosti in una casa, vedono il Cristo. Egli entra a porte chiuse. Ma Tommaso, che in quel momento era assente, rimane incredulo. Desidera vedere Gesù con i suoi occhi e rifiuta i racconti degli altri di-scepoli. Chiude le orecchie e vuole aprire gli occhi. L’impazienza lo brucia, quando pronuncia queste parole: «Se non metto il mio dito nel segno dei chiodi e se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20,25). Troppo esigente per credere, Tommaso sfoga la sua diffidenza, sperando così che il suo desiderio sia esaudito. «I miei dubbi non spariranno se non quando lo vedrò, dice. Metterò il mio dito nei segni dei chiodi e abbraccerò quel Signore che tanto desidero.

    Rimproveri la mia incredulità, ma colmi i miei occhi. Incredulo, quando lo vedrò, crederò quando lo stringerò tra le mie braccia e lo contemplerò. Voglio vedere le mani trafitte, che hanno guarito le mani che hanno trasgredito. Voglio vedere quel costato che ha scacciato la morte dal suo fianco. Voglio essere il testimone del Signore e non do peso alla testimonianza altrui. I vostri racconti esasperano la mia impazienza. La buona novella che mi portate non fa che ravvivare il mio turbamento. Non guarirò di questo male se non tocco colui che le guarisce». Ma il Signore appare di nuovo e dissipa contemporaneamente la tristezza e il dubbio del suo discepolo. Che dico? Non dissipa il suo dubbio, colma la sua attesa. Entra a porte chiuse e con questa visione incredibile conferma la non creduta resurrezione. Trova un nuovo motivo di stupore per convincere Tommaso. «Metti il tuo dito nel segno dei chiodi» (Gv 20,27), gli dice. Tu mi cercavi quando non c’ero, approfittane ora. Conosco il tuo desiderio nonostante il tuo silenzio. Prima che tu me lo dica, so che cosa pensi. Ti ho sentito parlare, e benché invisibile, ero accanto a te, accanto ai tuoi dubbi, e senza farmi vedere, ti ho fatto aspettare per meglio vedere la tua impazienza. «Metti il tuo dito nei segni dei chiodi, metti la tua mano nel mio costato e non essere più incredulo, ma credente». Allora Tommaso lo tocca, tutta la sua diffidenza si dissolve e colmo di una fede sincera e di tutto l’amore che si deve a Dio, esce in un grido: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). E il Signore gli dice: «Perché hai veduto, hai creduto. Beati quelli che non hanno visto e credono!» (Gv 20,29). Tommaso, porta la buona notizia della mia resurrezione a quelli che non hanno veduto. Conduci la terra intera alla fede non della visione, ma della parola. Va’ tra i popoli e le città barbare e insegna loro a portare sulle spalle la croce invece delle armi. Annunciami: crederanno e mi adoreranno. Non esigeranno altre prove. Di’ loro che sono chiamati per grazia e contempla la loro fede. In verità: «Beati quelli che non mi hanno veduto e hanno creduto!».

(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia sulla santa Pasqua 2-4, PG 28,1084A-1085C).

L’ho cercato, ma non l’ho trovano        

    “Così dice la sposa: “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato nel mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: avete visto l’amato del mio cuore? Da poco le avevo oltrepassate, quando trovai l’amato del mio cuore” (Ct 3,1-4).

 

    Mi colpisce anzitutto la duplice ripetizione: “L’ho cercato ma non l’ho trovato”. Che cosa concluderebbe l’animus, cioè quella parte di noi che è calcolatrice ed efficientista? Se non l’hai trovato, vuol dire che non è per te, che forse è troppo alto, che non sei fatto per lui, che sei sulla strada sbagliata.

    Invece l’anima, più profonda, intuisce.

    Ricordo il titolo di un libro scritto da un ateo, che riporta le parole del Cantico, in latino: “Quaesivi et non inveni”. E l’autore racconta la sua ricerca di Dio affermando di non essere riuscito razionalmente a trovarlo.

    Si è evidentemente fermano all’animus, lo ha cercato attraverso i ragionamenti esteriori e, a un certo punto, si è stancato. La personalità completa è quella che dice: “L’ho cercato e, dal momento che non l’ho trovato, lo cerco ancora di più, lo cerco con maggiore amore”.

    Non l’ho trovato vicino a me, e allora: “Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore” (Ct 3,2). Qui leggiamo l’estasi interiore, la presenza già nascosta di Dio che opera.

    Questo è importante per capire a fondo noi stessi. In noi c’è un dinamismo della ricerca di Dio, che opera anche quando non lo troviamo, e opera di più. Se diamo voce a tale dinamismo, che è già la grazia dello Spirito santo, il dito dello Spirito santo che scrive la lettera di Dio in noi, noi entriamo nella totalità della nostra persona, che è ricerca razionale e logica, ma poi ricerca affettiva, amorosa. Ed entriamo anche a conoscere meglio il mistero di Dio che è amore. Amore non significa soltanto efficienza, produzione di beni in serie; amore è libertà di Dio, capacità di amare ciascuno in modo diverso, gusto di nascondersi per farsi trovare. Quando arriviamo a comprendere qualcosa di questo mistero di Dio che è Trinità di amore, gioco di amore perenne in sé, che è dono, non ci stupiamo più scoprendo che Dio talora si nasconde a noi per acuire nel nostro cuore il desiderio di cercarlo e per darci la gioia di ritrovarlo.

    Dio è vitalità infinita, inventività continua nell’amore, libertà assoluta.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 52-53).

Mio Signore e mio Dio!

Tommaso, uno dei discepoli, non era forse un uomo, uno come tanti? Gli altri discepoli gli dicevano: Abbiamo visto il Signore, ma lui ribatteva: Se non lo toccherò, se non metterò il dito nel suo fianco, non crederò (Gv 20,25). Te lo annunziano dei messaggeri dell’evangelo e tu non credi? A loro ha creduto il mondo e il discepolo non crede. Di loro è stato detto: II loro messaggio si è diffuso su tutta la terra e le loro parole fino ai confini del mondo [Sal 18 (19),5]. Dalla loro bocca escono parole che giungono fino ai confini del mondo e tutto il mondo crede; tutti insieme annunciano la buona notizia a uno solo e questi non crede. Non era ancora il giorno fatto dal Signore [Sal 117 (118),24]; le tenebre erano ancora sull’abisso; nelle profondità del cuore umano c’erano le tenebre. Ma venga lui, il capo di quel giorno e gli dica con pazienza e mitezza, non con ira, perché egli è medico: «Vieni, vieni, tocca, e credi. Tu hai detto: Se non toccherò, se non metterò il mio dito, non crederò. Vieni, tocca, metti il dito. E non essere incredulo, ma credente. Vieni, metti il dito. Conoscevo le tue ferite; per te ho conservato la mia cicatrice». E Tommaso mettendo la mano raggiunse la pienezza della fede. E qual è questa pienezza? Che Cristo non venga creduto soltanto uomo, né soltanto Dio, ma uomo e Dio. Questa è la pienezza della fede, poiché il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi (Gv 1,14). E quel discepolo, dopo che gli furono presentate le cicatrici e le membra del suo Salvatore perché le toccasse, non appena le ebbe toccate, esclamò: Mio Signore e mio Dio (Gv 20,28). Toccò l’umanità, riconobbe la divinità; toccò la carne, volse gli occhi al Verbo, poiché il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi. Il Verbo ha sopportato che la sua carne fosse appesa al legno, che fosse fissata coi chiodi, che venisse trafitta dalla lancia, che fosse deposta nel sepolcro. Lo stesso Verbo risuscitò la sua carne, la presentò agli occhi dei discepoli perché la vedessero, la fece toccare con mani. Toccano ed esclamano: Mio Signore e mio Dio!

(AGOSTINO, Discorsi 258, 3, in Opere di sant’Agostino 32/2, pp. 826-828).

L’inquietudine della notte della fede

      Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’au­rora. Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’in­quietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre. Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così an­che noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tut­to quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.

    Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che vie­ne incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.

      Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dal­la fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contrad­dirlo. Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciar­si afferrare e toccare da noi. Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chie­sa, a questa debolezza. Essa si fa risposta alle nostre doman­de non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66)

Il dubbio che porta al tramonto

Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione. Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.

Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa. Ben presto fu buio.

La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna, sicchè non si poteva vedere assolutamente nulla. Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.

Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa. Nella caduta, l’alpinista poteva  appena vedere  delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità. Continuava a cadere…e in quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.

Rifletteva, ormai vicino alla morte. D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.

In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare:

”Dio mio, aiutami!”

Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò:

”Cosa vuoi che io faccia?”

“Mio Dio, salvami!”

“Credi realmente che io possa salvarti?”

“Sì, mio Signore. Lo credo”

Allora, recidi la corda che ti sostiene!”

Ci fu un momento di silenzio;

poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla corda.

 

Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che  l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda…  A soli due metri dal suolo…

Tu sai Tommaso…

Pure per noi sia Pasqua, Signore:

vieni ed entra nei nostri cenacoli,

abbiamo tutti e di tutto paura,

paura di credere, paura a non credere…

 

Paura di essere liberi e grandi!

Vieni ed abbatti le porte dei cuori,

le diffidenze, i molti sospetti:

tutti cintati in antichi steccati!

 

Entra e ripeti ancora il saluto:

«Pace a tutti», perché sei risorto;

e più nessuno ti fermi: tu libero

di apparire a chi vuoi e ti crede!

 

Torna e alita ancora il tuo spirito

come il Padre alitò su Adamo:

e dal peccato sia sciolta la terra,

che tutti vedono in noi il Risorto.

 

Credere senza l’orgoglio di credere,

credere senza vedere e toccare!…

Tu sai, Tommaso, il dramma degli atei,

tu il più difficile a dirsi beato!

(D. M. Turoldo)

Ma io credo!

Signore, non ho visto,

come Pietro e Giovanni,

le bende per terra e il sudario

che ricopriva il tuo volto,

ma io credo!

Non ho visto la tua tomba vuota,

ma io credo!

Non ho messo, come Tommaso,

le mie dita nel posto dei chiodi,

né la mia mano nel tuo costato,

ma io credo!

Non ho condiviso il pane con te

nel villaggio di Emmaus,

ma io credo!

Non ho partecipato alla pesca miracolosa

sul lago di Tiberiade,

ma io credo!

Sono contento, Signore,

di non avere visto,

perché io credo!

(Credo Signore! Professioni di fede per ragazzi e giovani, Leumann, Elle Di Ci, 2001, 52).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009

PASQUA DI RISURREZIONE

Prima lettura: Atti 10,34a.37-43

In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui.  E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.

     E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».

 

 

Il discorso in casa di Cornelio è l’ultimo dei discorsi cristologici di Pietro nel libro degli Atti (cf. 2,12-36; 3.11-26; 4,8-22).

     La catechesi su Gesù è ancora sulle sue linee essenziali: «consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret», cioè investito dello Spirito di Dio (battesimo) e insignito di particolari poteri taumaturgici Gesù si era presentato a Israele. Partendo dalla Galilea aveva percorso «tutta la Giudea».

     L’opera di Gesù è riassunta da pochi verbi; qualcuno di meno di quelli di Mt 4,23: «passò» per le contrade della Palestina, «beneficando» e «risanando» gli uomini dalle possessioni diaboliche ovvero dalle loro malattie. Sono omessi i due verbi di Matteo «predicava» e «insegnava nelle loro sinagoghe».

     Ma il suo agire dimostrava che «Dio era con lui», in altre parole era l’«Emmanuele» predetto dal profeta Isaia (7,14), traduceva con i fatti la bontà di Dio in mezzo agli uomini.

     Gesù ha svolto la sua missione davanti a tutto il popolo poiché davanti a tutti ha parlato e compiuto i suoi prodigi, ma per quanto riguarda il prodigio conclusivo e dimostrativo della sua missione, la risurrezione dai morti, ha voluto un gruppo scelto di testimoni con i quali si è a lungo trattenuto, dando sufficienti prove della realtà del suo nuovo stato di vita.

     Gli apostoli sono quelli che possono attestare la sopravvivenza di Gesù dopo che i nemici l’avevano messo in croce. Essi l’hanno visto prima di morire e l’hanno rivisto vivo dopo la morte; possono perciò assicurare che è risorto, che non è rimasto nella tomba.

     La sorte di Gesù si è rovesciata; egli è stato giudicato e condannato, ma dalla risurrezione è diventato lui il giudice di tutti, di quanti sono attualmente vivi e di quelli che sono già morti. Tutti si sono confrontati o saranno chiamati a confrontarsi con lui per ricevere il premio o la condanna delle loro buone o cattive azioni. Se si vuole evitare un incontro spiacevole con lui occorre credere, cioè ripercorrere la strada che egli ha percorso.

     Pietro sta parlando in casa di Cornelio, un ufficiale romano, e ad ascoltarlo sono i suoi familiari, alcuni «congiunti e amici intimi» (10,14), tutta gente che non faceva parte del popolo della promessa, quindi della salvezza, ma si trattava di una discriminazione che con Gesù era destinata a cadere.

     L’apostolo l’aveva già intravisto nella visione avuta a Joppe (10,9-15) e compreso meglio dal racconto di Cornelio (10,30-35); ora ne ha una conferma dal cielo mentre gli è dato costatare che lo Spirito di Dio sta discendendo su coloro che l’ascoltavano, per la maggior parte incirconcisi.

     Era la Pentecoste dei gentili che richiamava quella sui rappresentanti d’Israele che era già avvenuta (At 2,1-12).

 

Seconda lettura: Colossesi 3,1-4

 Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.

 

La comunità di Colossi è alle prese con i primi confronti o le prime contaminazioni con la cultura del mondo circostante, giudaico e greco.

     I giudei dell’Asia minore, alla pari dei greci, parlano di potenze cosmiche intermedie tra Dio e gli uomini, di signorie, potestà, dominazioni. Per l’autore esse possono rimanere solo che siano subordinate all’unico Signore, Cristo (1,15-20; 2,9-15).

     Gesù ha affrancato l’uomo da qualsiasi giogo, come lo ha reso libero da rituali inutili, da «feste, noviluni, sabati», «cibi e bevande» (2,8,16-17).

     Il cristiano è chiamato a ripercorrere il cammino di Cristo, un’esperienza di morte e di vita, di mortificazione e di risurrezione. Si tratta di morire agli «elementi di questo mondo», di finire con tutte quelle pratiche, astinenze imposte in nome di un’«affettata», falsa «religiosità, umiltà e austerità riguardo al corpo» (2,23).

     Il cristiano è un uomo nuovo e il suo mondo non è tanto di quaggiù, quanto del cielo, di lassù. Nel battesimo egli è disceso nel fonte e risalendo ha lasciato nell’acqua la sua vecchia appartenenza con tutte le sue inclinazioni peccaminose e ha assunto l’immagine del Cristo glorioso.

     Egli vive ancora sulla terra ma è un essere di un altro mondo, per questo deve assumere comportamenti degni della sua nuova condizione. Occorre «cercare» e «pensare alle cose di lassù», ciò che è consono con il mondo e il modo di vivere del Cristo risorto.

     L’autore non specifica quali sono le cose di lassù e quali quelle della terra, ma lo dice subito dopo quando chiede di «mortificare quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi» che designa con il termine «vizi». E aggiunge: «Voi deponeste tutte queste cose, ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene» (3,5-8). Tutte azioni che appartenevano, è detto sinteticamente, all’«uomo vecchio» in contrapposizione al l’«uomo nuovo che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore» (3,9-10).

     I comportamenti dell’uomo nuovo che si avvicina a quello celeste sono invece caratterizzati da «sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Al di sopra di tutto vi è poi la carità che è il vincolo di perfezione» (3,12-14).

     La vita cristiana è sempre un preludio di quella celeste che è segnata dal Cristo glorificato. Allora verrà sublimata anche quella di coloro che credono in lui.

     La vita terrestre si spiega solo alla luce della sua apoteosi celeste.

 

Vangelo: Giovanni 20,1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.  Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».

Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.  Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.  Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

 

Esegesi 

     Gli evangelisti sinottici parlano delle donne che si recano al sepolcro di buon mattino per compiere i riti sul cadavere di Gesù; Giovanni incentra l’attenzione su una donna particolare: Maria di Magdala. Ella trova la pietra rimossa e ne deduce che il corpo è stato trafugato e corre ad avvertire Pietro e il discepolo prediletto, che la tradizione identifica con l’evangelista Giovanni.

     Questi si portano immediatamente al sepolcro, al quale giunge per primo il discepolo più giovane. Egli da uno sguardo fugace all’interno, vede le bende abbandonate, ma, per deferenza verso il più anziano, non entra e lo aspetta sulla soglia. Pietro entra nella cella mortuaria e vede le bende e il sudario «avvolto» a parte. Il vangelo di Giovanni non parla delle sue reazioni. Luca (24,12) dice che tornò indietro pieno di stupore (thaumazo in greco, verbo che indica grande perplessità).

     «Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8). Che cosa vide? non è il vedere di Tommaso (Gv 21,29), ma il vedere interiore. Egli di fronte al sepolcro vuoto non pensa, come la Maddalena, che hanno trafugato il cadavere o non sospende il giudizio come Pietro, ma crede sulla Parola di Gesù, a sua volta fondata sulla tradizione delle Scritture ebraiche. Il frutto della comprensione delle Scritture è il credere; non, però, un frutto «automatico», ma dono dello Spirito, che raggiunge le persone in modo misterioso ed è accolto da ciascuno in maniera diversa. Anche la Maddalena e Pietro avevano avuto comunanza con Gesù e conoscevano le Scritture, ma a loro non basta ancora per credere dinanzi al sepolcro vuoto. Essi «non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,9).

Meditazione

La scoperta del sepolcro vuoto il primo giorno dopo il sabato nel van­gelo di Giovanni, che troviamo come brano evangelico nella celebra­zione del giorno di Pasqua, non va letta come una cronaca di ciò che avvenne il giorno della risurrezione del Signore, bensì come un itine­rario di fede verso l’incontro con lui che i discepoli di ogni tempo possono e devono vivere. Il tema dominante nel brano giovanneo non è la dimostrazione della veridicità storica della risurrezione, ma lo sguardo della fede che arriva a riconoscere la centralità per la vita della Chiesa della vita nuova sbocciata nel giardino il primo giorno dopo il sabato. Protagonisti di questo itinerario di fede sono Maria Maddalena, la prima testimone della tomba vuota, Pietro e il discepolo che Gesù amava.

Il brano degli Atti degli Apostoli (prima lettura) riporta il quinto discorso di Pietro, che lega gli eventi pasquali all’intera esistenza di Gesù a partire dal battesimo predicato da Giovanni. I discepoli che hanno vissuto con Gesù non sono solo testimoni della sua risurrezio­ne, ma della sua intera esistenza. In questo modo viene sottolineato come tutta la vita di Gesù è stata segnata dalla logica pasquale del dono di sé.

Nella Lettera ai Colossesi (seconda lettura) si proclama che la risur­rezione del Signore è ormai un fatto che riguarda la vita di tutti i cre­denti, che sono «risorti con Cristo» (Col 3,1). Questa realtà illumina di luce nuova la loro esistenza e deve segnare concretamente la loro vita.

Quando era ancora buio

Il primo tratto dell’itinerario di fede che il brano evangelico vuole farci compiere è affidato alla figura di Maria Maddalena. Essa si reca al sepolcro spinta dal legame che aveva con il Maestro defunto. È ancora buio e siamo nel primo giorno della settimana, che nella Scrittura è anche il primo giorno della creazione. Nel testo troviamo il verbo vede­re (blepo), che nel vangelo di Giovanni appartiene al vocabolario della fede. Questo sguardo di Maria, avvolto dal buio esteriore e interiore nel quale essa si trova, è un ,modo di guardare che sta ancora all’inizio del cammino di fede. È ancora segnato da «una visione materiale, una visione che non comprende» (Bruno Maggioni). Il cammino di fede consiste nel far maturare questo sguardo, che deve passare dall’osserva­zione di elementi di cui sfugge il senso all’affidamento. Maria non entra nemmeno nel sepolcro, ma corre dai discepoli e la sua incom­prensione emerge dalle parole che rivolge loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro» ( Gv 20,2).

Alle parole di Maria due discepoli corrono alla tomba. Sono Pietro e il discepolo amato. Pietro lo conosciamo, svolge in tutti i vangeli un ruolo molto particolare. Ma chi è il discepolo amato? Lo troviamo nei racconti della passione e morte di Gesù (Gv 13,23; 19,26), ma prima non compare mai. Non ha un nome e viene indicato solo attraverso la relazione che ha con Gesù. È un discepolo, ma non uno qualunque: è il discepolo che Gesù amava. Il suo nome è lo sguardo di Gesù su di lui.

L’evangelista sottolinea la fretta con cui accadono questi fatti. I due discepoli corrono al sepolcro e uno dei due, il discepolo amato, corre più forte e raggiunge per primo la tomba. Non entra, ma si china e vede (blepo). Come testimonia l’uso dello stesso verbo nel testo greco, la sua esperienza è simile a quella di Maria Maddalena. Anche qui siamo davanti all’esperienza di un vedere materiale che non sa penetra­re la realtà per coglierne un senso ulteriore. Tuttavia egli vede qualcosa di più di Maria: si avvicina alla tomba vuota, si china e vede le tele che ricoprivano il cadavere del Signore ‘giacenti’.

Poi alla tomba giunge anche Pietro. A differenza dell’altro discepo­lo, egli entra nella tomba e vede (theoreo) le bende e il sudario. Qui Giovanni usa un verbo che indica qualcosa di diverso rispetto a quello usato nei casi precedenti. Non siamo ancora alla meta del cammino, «non è ancora lo sguardo della fede, ma è pur sempre uno sguardo attento, che suscita il problema e rende perplessi» (Maggioni).

Infine, entra anche l’altro discepolo. Davanti ai suoi occhi trova le stesse cose viste da Pietro, ma di lui si dice che vide (orao) e cre­dette (potremmo anche dire: ‘vedendo credette’) . A indicare la vista troviamo qui un terzo verbo, orao, che indica «il vedere penetrante di chi sa cogliere il significato profondo di ciò che materialmente appare» (Maggioni). E il tipo di visione che all’inizio del vangelo viene promessa ai discepoli (Gv 1,39.50-51) e che verrà donata a Tommaso, quando gli apparirà il Signore risorto ‘otto giorni dopo’. Per questo valore, un tale modo di ‘vedere’ è affiancato dal verbo `credere’.

La vista della fede

Usando questi verbi diversi per indicare l’unica esperienza del vedere è come se l’evangelista Giovanni volesse indicarci un itinerario di fede. I personaggi vedono in modo differente l’uno dall’altro e anche a seconda della loro vicinanza alla tomba vuota: solo quando entra nel sepolcro vuoto il discepolo che Gesù amava riesce ad avere lo sguardo della fede. I discepoli fanno dapprima l’esperienza di un grande vuoto, l’esperienza di un’assenza. Vedono solo i segni dell’assente. Ma entran­do nella profondità di quel vuoto e di quell’assenza, lo sguardo può divenire capace di ‘vedere’ veramente il senso di ciò che è accaduto.

Non va dimenticato un particolare decisivo: colui che arriva allo sguardo della fede non è, per ora, né Maria Maddalena — di lei il van­gelo di Giovanni parlerà più avanti — né Pietro, bensì quel discepolo senza nome che viene chiamato ‘il discepolo che Gesù amava’. Non bastano ‘i segni dell’assenza’, occorrono ‘gli occhi dell’amato’ per arri­vare allo sguardo della fede.

Questo discepolo senza nome è certamente una figura misteriosa, ma è anche una ‘figura aperta’ (Maggioni), che può rimandare alla figura del discepolo ideale al quale ogni discepolo di Gesù deve tende­re. Ancor più interessante è la sua qualifica: egli è colui che Gesù amava. Potremmo dire allora che è l’essere amati da Gesù che rende `chiaroveggenti’. Ancor prima di essere discepoli che amano il Signore, occorre accorgersi che è lui ad amarci per primo. Sarà la scoperta anche di Maria, quando incontrerà il suo Signore, nel giardino della risurrezione. Lo riconoscerà quando si sentirà chiamare per nome.

Preghiere e racconti 

Al discepolo che Gesù amava non appaiono angeli; nella cavità sepolcrale vede brillanti le bende.
“La notte è inoltrata, il giorno è ormai vicino”; gli occhi del discepolo stanno per aprirsi alla fede. “Le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende”.
Come nella precedente icona, un albero verde annuncia la nuova primavera di vita e ne capta il profumo nell’aria. E’ un momento trepido, un incontro appassionato: la visione inebria di senso e di grazia il riserbo del discepolo amico. Poi viene Pietro…, il destinatario dell’annuncio, la “pietra” del nuovo edificio.
(testi di fr. Espedito D’Agostini in ” Via lucis”, p.16, Servitium editrice)

Per il mattino di Pasqua

I

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Andrò in giro per le strade

zuffolando, così,

fino a che gli altri dicano: è pazzo!

E mi fermerò soprattutto coi bambini

a giocare in periferia,

e poi lascerò un fiore                                    

ad ogni finestra dei poveri

e saluterò chiunque incontrerò per via

inchinandomi fino a terra.

E poi suonerò con le mie mani

le campane sulla torre

a più riprese

finché non sarò esausto.

E a chiunque venga

– anche al ricco – dirò:

siedi pure alla mia mensa

(anche il ricco è un povero uomo).

E dirò a tutti:

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

 

II

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Tutto è suo dono

eccetto il nostro peccato.

Ecco, gli darò un’icona

dove lui – bambino – guarda

agli occhi di sua madre:

così dimenticherà ogni cosa.

Gli raccoglierò dal prato

una goccia di rugiada

– è già primavera

ancora primavera

una cosa insperata

non meritata

una cosa che non ha parole;

e poi gli dirò d’indovinare

se sia una lacrima

o una perla di sole

o una goccia di rugiada.

E dirò alla gente:

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

 

III

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Non credo più neppure alle mie lacrime,

queste gioie sono tutte povere:

metterò un garofano rosso sul balcone

canterò una canzone

tutta per lui solo.

Andrò nel bosco questa notte

e abbraccerò gli alberi

e starò in ascolto dell’usignolo,

quell’usignolo che canta sempre solo

da mezzanotte all’alba.

E poi andrò a lavarmi nel fiume

e all’alba passerò sulle porte

di tutti i miei fratelli

e dirò a ogni casa: «pace!»

e poi cospargerò la terra

d’acqua benedetta in direzione

dei quattro punti dell’universo,

poi non lascerò mai morire

la lampada dell’altare

e ogni domenica mi vestirò di bianco.

 

IV

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

E non piangerò più

non piangerò più inutilmente;

dirò solo: avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso

poi non dirò più niente.

(D. M. TUROLDO, O sensi miei…, Milano, Rizzoli, 1993).

Il giorno di Pasqua

Restiamocene tranquilli, a occhi chiusi, un istante prima che si levi l’alba del giorno della Risurrezione. È ancora notte fonda, ma già in due o tre case di Gerusalemme c’è qualcuno in movimento. Lumi che si accendono, donne frettolose che si pettinano e vestono. Il Sabato è finito, ed una stella incomparabile, approfittando di tutto quel firmamento che sta abdicando attorno a lei, irradia il volto della nostra prima domenica. Il gallo del calzolaio si prepara ad accettare la sfida che gli è stata lanciata dal compagno dell’altra sponda del Cedron. Non è più la Pasqua degli Ebrei: è la Pasqua dei cristiani! Guardate, ascoltate! Nel silenzio ebraico, all’incrocio di tre strade, avviene un incontro di donne velate che si interrogano sottovoce: «Chi toglierà per noi la pietra dal sepolcro?». Chi la toglierà? Il profumo che esse portano con loro si incarica di rispondere! E così la speranza irresistibile che è nel loro cuore, e l’emanazione di ingredienti mistici nel cuor della notte, preparati dalle mani stesse dell’aurora. Secoli riuniti, santa composizione, la cui dilatazione progressiva come ha poco fa vinto il sonno, così ora si mette in marcia per trionfare della morte! Degli altri avvenimenti di quell’immensa mattina, l’eco smarrita e incoerente dei quattro Vangeli fa ancora risuonare, ad ogni nuova primavera, tutte le chiese della cristianità.

(P. CLAUDEL, Credo in Dio, Torino, SEI, 1964).

Sulle tracce di Gesù

II punto cruciale di questo cammino sta nel riconoscere che il Gesù risorto, che compie i desideri dell’uomo, è ancora il Gesù crocifisso, che ha affidato al Padre il compimento dei propri desideri. Ha uniformato la propria volontà alla volontà del Padre. Ha accettato di perdere la propria vita sulla croce, per compiere la missione di proclamare all’uomo peccatore e separato da Dio che il Padre non lo abbandona al fallimento, non lo rifiuta anche se è rifiutato; anzi gli dona il proprio Figlio, per mostrare che neppure il peccato impedisce a Dio di amare l’uomo e di attirarlo a sé in un gesto di perdono, che vince il peccato e la morte.

Tutto questo è implicitamente contenuto nel grido del discepolo prediletto, che rompe il silenzio del mattino: «E il Signore» (Gv 21,7). Questa espressione, infatti, rievoca le professioni di fede della Chiesa primitiva. Gesù, che si è umiliato nella morte, in obbedienza al Padre e per amore degli uomini, è stato glorificato dal Padre ed è stato proclamato Signore, cioè colui che reca pienamente in sé la forza d’amore e di salvezza che è propria di Dio stesso.

Gesù manifesta la sua capacità e volontà di comunicare agli uomini l’amore salvifico del Padre anche attraverso un gesto simbolico. Egli mangia con i discepoli.

L’umile, quotidiano gesto del mangiare è ricco di potenzialità espressive. Può prestarsi a esprimere la comunicazione di beni sempre più grandi e misteriosi, che approfondiscono il bene fisico del cibo e il bene psicologico della conversazione, scambiati durante il pasto comune.

Gesù assume questo gesto umano e lo carica di prodigiose potenzialità. Il pasto descritto nel cap. 21 di Giovanni non risulta essere un convito propriamente eucaristico. Rievoca però il convito di Jahvè col popolo degli ultimi tempi, annunciato nell’Antico Testamento. Si ricollega ai conviti messianici fatti da Gesù con i discepoli o con le folle. Allude all’ultima cena o ad altri conviti di Gesù risorto, che hanno caratteri più propriamente e chiaramente eucaristici e comportano quindi il trapasso del generico simbolismo conviviale nella reale comunione col Signore, che si rende presente trasformando il pane e il vino nella vita e misteriosa realtà del corpo donato e del sangue versato.

(C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, 258-259).

Cantiamo: Alleluia!

Bisogna che «questo corpo corruttibile» – non un altro – «si rivesta di incorruttibilità, e questo corpo mortale» – non un altro – «si rivesta di immortalità. Allora s’avvererà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria». Cantiamo: Alleluia! «Allora si avvererà la parola della Scrittura», parola di gente non più in lotta, ma in trionfo: «La morte è stata inghiottita nella vittoria». Cantiamo: Alleluia! «Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Cantiamo: Alleluia! (cfr. 1Cor 15,53-55). […] Cantiamo «Alleluia» anche adesso, sebbene in mezzo a pericoli e a prove che ci provengono sia dagli altri sia da noi stessi. Dice l’Apostolo: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze» (1Cor 10,13). Anche adesso, dunque, cantiamo «Alleluia». L’uomo resta ancora preda del peccato, ma Dio è fedele. E non si dice che Dio non permetterà che siate tentati, ma: «Non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze; al contrario, insieme con la tentazione, vi farà trovare una via d’uscita perché possiate reggere». Sei in balìa della tentazione, ma Dio ti farà trovare una via per uscirne e non perire nella tentazione. […]

Oh! Felice alleluia quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena sicurezza, senza alcun avversario! Lassù non ci saranno nemici, non si temerà la perdita degli amici. Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente tribolata, là da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speranza, lassù nella realtà; qui in via, lassù in patria. Cantiamo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere la gioia del riposo, ma per procurarci un sollievo nella fatica. Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia. Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, nella retta fede, in una vita buona.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 256,2-3, NBA XXXII/2, pp. 816-818).

 

Pasqua è…

Credere che anche i ladroni possono andare in Paradiso. Dico ladroni perché mi pare che aggiungere “buoni” sia pleonastico.

È credere che in tre giorni possono accadere cose che non sono accadute in trenta secoli.

È credere che i soldi non comprano mai nessuno e se  lo comprano è per distruggerlo.

È credere che anche gli amici veri possono tradire altri amici veri. La causa: troppa sicurezza nel reputarsi “veri”.

È accettare di iscrivere il dolore dentro la storia della nostra vita, accettarlo come compagno. C’è un dolore che annulla l’uomo e c’è un dolore che annulla gli errori dell’uomo.

È uscire dalla metropoli e percorrere i sentieri oltre le mura: sentieri di silenzio, faticosi, scoscesi, puliti, stretti.

È credersi Giuda e Pietro, cireneo e soldato, Pilato e Maddalena, sepolcro e giardino, terremoto e sindone, legno e sangue, mors e alleluja.

È smettere di farsi parola per incominciare a farsi pane, vino, mensa, cenacolo, fuoco, amore.

È incontrarsi con il giardiniere e scoprirlo Cristo; incontrarsi con un viandante e scoprirlo Cristo; incontrarsi con i vecchi compagni e scoprirli Cristo; incontrarsi con i pescatori e …mangiare con Cristo.

È asciguarsi il volto pieno di lacrime e …meravigliarsi che dalle lacrime possano nascere …le risurrezioni.

(Antonio Mazzi).

Andate presto, andate a dire… 

Voi che l’avete intuito per grazia

correte su tutte le piazze

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che la notte è passata.

Andate a dire che per tutto c’è un senso.

Andate a dire che l’inverno è fecondo.

Andate a dire che il sangue è un lavacro.

Andate a dire che il pianto è rugiada.

Andate a dire che ogni stilla è una stella.

Andate a dire: le piaghe risanano.

Andate a dire: per aspera ad astra.

Andate a dire: per crucem ad lucem.

Voi, che lo avete intuito per grazia,

correte di porta in porta

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che il deserto fiorisce.

Andate a dire che l’Amore ha ormai vinto.

Andate a dire che la gioia non è sogno.

Andate a dire che la festa è già pronta.

Andate a dire che il bello è anche vero.

Andate a dire che è a portata di mano.

Andate a dire che è qui, Pasqua nostra.

Andate a dire che la storia ha uno sbocco.

Andate a dire: liberate, lottate.

Andate a dire che ogni impegno è un culto.

Voi, che lo avete intuito per grazia,

correte, correte per tutta la terra

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che ogni croce è un trono.

Andate a dire che ogni tomba è una culla.

Andate a dire che il dolore è salvezza.

Andate a dire che il povero è in testa.

Andate a dire che il mondo ha un futuro.

Andate a dire che il cosmo è un tempio.

Andate a dire che ogni bimbo sorride.

Andate a dire che è possibile l’uomo.

Andate a dire, voi tribolati.

Andate a dire, voi torturati.

Andate a dire, voi ammalati.

Andate a dire, voi perseguitati.

Andate a dire, voi prostrati.

Andate a dire, voi disperati.

Andate a dire, comunque sofferenti.

Andate a dire, offerenti-sorridenti.

Andate a dire su tutte le piazze.

Andate a dire di porta in porta.

Andate a dire in fondo alle strade.

Andate a dire per tutta la terra.

Andate a dire gridandolo agli astri.

Andate a dire che la gioia ha un volto.

Proprio quello sfigurato dalla morte.

Proprio quello trasfigurato nella Pasqua.

Oggi, proprio ora, qui andate a dire.

Andate a dire.

Ed è subito pace.

Perché è subito Pasqua.

(Sabino Palumbieri, Via Paschalis, Elledici, 2000, pp. 28-29) 

Quelli che fanno suonare le campane

Qualche mese fa, concludendo la visita pastorale in una parrocchia della mia diocesi, l’ultimo giorno andai in una scuola materna. C’erano tantissimi bambini di tre o quattro anni che si affollavano stupiti intorno a me: non mi conoscevano, mi vedevano come un personaggio esotico. La maestra chiese: “Bambini, sapete chi è il vescovo?”. Tutti diedero delle risposte. Uno disse: “E’ quello che porta il cappello lungo in testa”; un altro, chissà per quale associazione di immagini, disse una cosa bellissima che a me piacque tanto: “il Vescovo è quello che fa suonare le campane”. Forse mi aveva visto in processione, al suo paese, in qualche festa accompagnata dal tripudio delle campane. Il vescovo come colui che fa suonare le campane: è una definizione bellissima, forse poco teologica ma profondamente umana. Sarebbe bello che i vostri fedeli, i vostri amici, coloro che vi conoscono, potessero dare di voi una definizione così. Sarebbe bello che la gente dicesse di tutti noi che siamo “quelli che fanno suonare le campane”: le campane della gioia di Pasqua, le campane della speranza.

(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).

 

I macigni rotolati

 Ricorrerò alla suggestione del macigno che la mattina di Pasqua le donne, giunte nell’orto, videro rimosso dal sepolcro. Ognuno di noi ha il suo macigno. Una pietra enorme, messa all’imboccatura dell’anima, che non lascia filtrare l’ossigeno, che opprime in una morsa di gelo, che blocca ogni lama di luce, che impedisce la comunicazione con l’altro. E’ il macigno della solitudine, della miseria, della malattia, dell’odio, della disperazione, del peccato. Siamo tombe alienate. Ognuna col suo sigillo di morte. Pasqua, allora, sia per tutti il rotolare del macigno, la fine degli incubi, l’inizio della luce, la primavera di rapporti nuovi, e se ognuno di noi, uscito dal suo sepolcro, si adopererà per rimuovere il macigno del sepolcro accanto, si ripeterà finalmente il miracolo del terremoto che contrassegnò la prima Pasqua di cristo. Pasqua è la festa dei macigni rotolati. E’ la festa del terremoto.

(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).

L’affidamento dell’uomo a Dio                               

Nella Pasqua Gesù, da un lato, rivela il mistero dell’amore di Dio per l’uomo; dall’altro, celebra e attua nel modo umanamente più perfetto l’amore, l’obbedienza, l’affidamento dell’uomo a Dio. L’aspetto singolare, eccezionale, unico del sacrificio pasquale è che la rivelazione e la celebrazione – attuazione sono una sola cosa, così come nell’essere di Gesù, Dio e l’uomo, pur rimanendo distinti, diventano una sola cosa.

La Pasqua di Gesù, proprio perché è quella manifestazione-celebrazione dell’amore di Dio ora descritta, tende a raggiungere ogni uomo, sia per manifestargli l’amore di Dio, per annunciargli che il suo peccato è perdonato, per dargli speranza di vita e di gioia oltre la sofferenza e la morte, sia per attrarre ogni uomo nello stesso movimento di celebrazione del mistero, di adorazione di Dio, di conformazione alla volontà del Padre che ha animato tutta la vita di Gesù suggellata nella Pasqua.

L’eucaristia è appunto la modalità istituita da Gesù nell’ultima cena per attuare questa intrinseca intenzione salvifica della Pasqua.  

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol. II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94).

Auguri di Pasqua

Fa’ di me, Signore, un arcobaleno di bene,

di speranza e di pace.

Un arcobaleno che per nessun motivo

annunci ingannevoli bontà,

speranze vane e false immagini di pace.

Un arcobaleno sospeso da Te nel cielo,

che annunci il tuo amore di Padre,

la risurrezione del tuo Figlio,

la meravigliosa azione del tuo Spirito Santo.

(H. Camera). 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.