XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Abacuc 1,2-3;2.2-4

Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese.  Il Signore rispose e mi disse: «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede».

 

Un testo forte, vorrei dire drammatico, sulla fede, sulle sue difficoltà e, pur tuttavia, sulla necessità di rimanervi attaccati con tutto il nostro essere è il brano della prima lettura, ripresa dal profeta Abacuc, di cui sappiamo quasi nulla, salvo che dovrebbe aver vissuto ed operato verso il 600 a.C., più o meno contemporaneo di Geremia.

     Davanti allo scempio che avevano fatto i Babilonesi distruggendo la città santa (587-86), davanti alla loro tracotanza e violenza, sembra che Dio si sia dimenticato del suo popolo e non voglia più ascoltare le sue suppliche. È per questo che il profeta insorge e mette quasi sotto accusa Dio: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti… Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?» (1,2-3).

     Non è un bestemmiatore, il profeta, ma molto arditamente domanda al Signore se c’è un senso in tutto questo e se il popolo può ancora continuare a sperare. Alla fine Dio risponde e garantisce che a un tempo «stabilito», che lui solo conosce, la salvezza verrà: «È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà» (2,3).

     Il testo si conclude con una riflessione del profeta stesso, che lapidariamente descrive l’esito diverso di chi conta solo sulle proprie forze, come i Caldei, e di chi invece è «fiducioso» nel Signore, come devono esserlo i Giudei ai quali egli si rivolge: «Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (2,4).

     È risaputo che Paolo adopererà questo testo, secondo la versione greca dei LXX, per formulare la sua dottrina della «giustificazione» per la sola fede in Cristo (cf. Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38). Nel testo originale più che di fede si parla di «fedeltà» a Dio, al suo disegno di salvezza: chi avrà il coraggio di «fidarsi» di lui, di buttarsi nelle sue mani, soprattutto nei momenti bui dell’esistenza, propria o della comunità, non verrà deluso, mentre «colui che non ha l’animo retto», perché confida solo in se stesso, «soccomberà».

 

Seconda lettura:  2Timoteo 1,6-8.13-14 

Figlio mio, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato. 

 

Nel brano della seconda lettera a Timoteo abbiamo di nuovo il tema della fede, però considerata più nel suo contenuto (la fides quae creditur, come dicono i teologi) che come atteggiamento dell’anima, aperta a ricevere il messaggio (fides qua creditur).

     E si capisce il perché di questa prospettiva diversa: Paolo si rivolge al suo discepolo prediletto, forse scoraggiato e un po’ anche depresso per le difficoltà del suo apostolato, allo scopo di richiarmarlo al senso della sua missione pastorale: «ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6). Nella sua consacrazione egli non ha ricevuto uno «spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (1,7): perciò non deve «vergognarsi» di rendere testimonianza al Signore Gesù, né delle «catene» in cui per il momento è costretto l’apostolo, quasi che fosse un perdente. Piuttosto «soffri con me per il Vangelo. Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù» (1,8), prendendo proprio come esempio il suo maestro (1,13).

     A conclusione troviamo il solenne richiamo a custodire integro il «bene prezioso», cioè la totalità del mistero cristiano, da annunciare con coraggio e fedeltà. L’immagine del «bene prezioso» è ripresa dalla prassi giuridica del tempo, secondo la quale il depositario di qualche oggetto prezioso, o di una determinata quota di denaro, era obbligato a restituire integri, in qualsiasi momento, al depositante gli oggetti a lui affidati, pena gravissime punizioni in caso di inadempienza. A Timoteo è stato affidato qualcosa di più prezioso che oro o argento; di qui la sua grave responsabilità: «Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi » (1,14).

 

Vangelo: Luca 17,5-10 

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». 

Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». 

 

Esegesi 

Signore: «Accresci in noi la fede!».                     .

     Eloquente al riguardo è il brano di Vangelo, che si articola in due sezioni: la prima (Lc 7,5-6) è rintracciabile, diversa, nella comune tradizione sinottica (cf. Mc 9 24; Mt 17,20, 21,22), la seconda (17,7-10) fa parte del tipico patrimonio lucano ed è coerente con le dinamiche del suo pensiero.                   

     Dunque gli Apostoli, un bel giorno, chiedono a Gesù: «Accresci in noi la fede!». Accanto a lui, quotidianamente, non potevano non avvertire che in lui c’era qualcosa che andava oltre il comune limite dell’umano: si dovevano perciò essere aperti a un rapporto di «fiducia» altissima di fronte a Gesù. Ma questa era davvero «fede», come pensavano gli Apostoli dal momento che lo pregano di «aumentargliela»?

     Sembra che Gesù non condividesse questa convinzione, per il fatto che in forma ipotetica, afferma che di fede ne basterebbe solo un pizzico per compiere addirittura miracoli: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (v. 6). 

     Due testi paralleli di Matteo riportano l’immagine del «monte» che potrebbe essere spostato nel mare; Luca, più coerentemente con l’immagine del «granello di senapa», parla di un gelso, o di un sicomoro, che è una delle piante più fortemente radicate sul terreno. Comunque, a parte la diversità delle immagini, il pensiero è chiaro: basta un mimmo di fede che sia autentica, profonda, al di là di ogni dubbio o incertezza, perché il miracolo, l’umanamente impossibile, avvenga.

     Perciò praticamente Gesù, per un verso, invita i suoi discepoli a verificare la propria fede; per un altro verso, assicura loro che la preghiera fatta con fede ottiene tutto: anche «l’aumento» e la «crescita» stessa della fede, esattamente come scrive S. Paolo, «di fede m fede» (Rm 1,17).

     — «Siamo servi inutili»                                      

     E soprattutto di fede «adulta», tesa costantemente a crescere, c’è bisogno quando potrebbe sembrarci che il nostro servizio fosse di poco conto, o che non fosse sufficientemente remunerato. È quanto si afferma nella seconda sezione del brano evangelico (vv. 7-10) con la parabola del servo che, dopo aver fatto il suo lavoro, nei campi o dietro il gregge, e

pregato ancora di preparare da mangiare al padrone prima di assidersi  pure lui a mensa.

     È indubbiamente urtante per la sensibilità moderna assai mercantilizzata la conclusione che ne trae Gesù: «Forse che il padrone si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (vv. 9-10).

     Gesù si riferisce qui alle abitudini sociali del tempo (che certamente non prevedevano contratti sindacali), senza peraltro esprimere nessuna valutazione morale al riguardo. Il quadro gli serve semplicemente per dire che davanti a Dio nessuno può avanzare delle pretese: anche il massimo che potremmo aver fatto non crea nessuna posizione di privilegio, perché abbiamo fatto solamente «quanto dovevamo fare». Siamo tutti «servi inutili» davanti a lui: ci ha scelti per pura grazia a collaborare alla costruzione del regno e dobbiamo rispondergli con pienezza di impegno, grati solo perché ci ha chiamati ad essere «servi», e non «padroni»: lui soltanto è il «padrone»!

     Questo discorso è chiaro che vale per tutti, ma soprattutto per coloro che Dio ha chiamato all’apostolato, proprio come i Dodici. Ciò che alla luce della ragione potrebbe apparire evidente, alla luce della fede appare addirittura esaltante: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare», proprio perché egli ci ha dato la grazia di farlo.

 

Meditazione 

     La fede è il tema unificante la prima lettura e il vangelo. Nella prima lettura si tratta della fede messa alla prova dal silenzio e dall’inazione di Dio e chiamata a divenire attesa perseverante e fiduciosa nella promessa di Dio. Così, anche in tempi bui, il giusto troverà vita grazie alla fede. Nel vangelo si tratta della fede come realtà non quantificabile, ma qualitativa, caratterizzata dalla relazione di abbandono fiducioso del servo al suo Signore.

     Di fronte alle parole di Gesù che parlano di perdono fino a sette volte al giorno nei confronti del fratello che pecca (Lc 17,3-4), gli apostoli pregano Gesù di accrescere la loro fede (Lc 17,5). Essi mostrano così di aver ben capito che il perdono non è solo un gesto etico, ma è evento escatologico, dono dello Spirito santo, irruzione del Regno di Dio nella vita degli uomini. Mostrano di aver capito che la comunione nella comunità cristiana – comunione a cui è essenziale il perdono – è possibile solo grazie alla fede, al far regnare la signoria di Dio. Ma chiedendo la fede essi mostrano anche di aver compreso che la fede è dono che trova nel Signore stesso la sua origine e la sua fonte.

     E mostrano di aver capito che della fede – propria e altrui – non si è padroni e non la si può imporre, ma solo la si può accogliere con gratitudine e nutrire con la preghiera. E ancora che anche per loro, «gli apostoli» (Lc 17,5), i Dodici scelti direttamente da Gesù, la fede non è una realtà scontata. Anzi la fede è sempre «poca» e i discepoli sono sempre «uomini di poca fede», ovvero incapaci di quella relazione di abbandono pieno e fiducioso, gratuito e convinto, umile e perseverante, dolce e robusto, in una parola, di quell’amore che è alla base della potenza della fede.

     La fede e null’altro è alla base dell’autorità degli apostoli: questo è sottolineato da Luca con l’annotazione che, se avessero fede quanto un minuscolo granello di senape, potrebbero farsi «obbedire» (verbo hypakoúein: Lc 17,6) anche da un albero a cui viene ordinata una cosa folle. Solo la fede consente al predicatore, al missionario, all’apostolo di farsi eco – con la propria azione e la propria parola – dell’azione e della parola di Dio e di suscitare nel destinatario l’adesione teologale, non un’appartenenza alla propria persona.

       Nel detto parabolico dei vv. 7-10 Gesù prima paragona gli apostoli a dei padroni che hanno dei servi, poi direttamente a dei servi, e per di più, inutili. L’autorità nella chiesa si declina come servizio ed esclude ogni rapporto di forza e di dominio. Il passaggio dall’«avere un servo» (Lc 17,7) all’«essere servi» (Lc 17,10) è significativo: nella comunità cristiana non vi sono padroni e servi, ma vi sono dei fratelli che sono dei servi dell’unico Signore e maestro (cfr. Mt 23,8-10). L’autorità nella chiesa deve passare attraverso il vaglio dell’umiltà e del servizio per non esprimersi come potere e oscurare così l’unica signoria di Gesù: «Un apostolo non è più grande di chi l’ha inviato» dice Gesù ai suoi discepoli subito dopo aver loro lavato i piedi durante l’ultima cena (Gv 13,16).

     Ecco dunque la situazione, paradossale ma salvifica, in cui è posto il missionario, l’apostolo nella comunità cristiana: la sua autorità riposa interamente sul suo essere inviato come servo (Lc 17,7; At 20,19), per lavorare il campo di Dio (1Cor 3,5 ss.), per arare (Lc 17,7; 1Cor 9,10) o pascolare (Lc 17,7; At 20,28; 1Cor 9,7). La sua autorità riposa sulla sua obbedienza alla parola del Signore (Lc 17,10). Ed ecco la coscienza con cui il servo è chiamato ad esercitare il suo ministero: l’inutilità. Non che il suo spendersi sia inutile, ma la coscienza che anima l’apostolo è liberante e liberata quando egli compie tutto senza nulla far risalire a se stesso, ma tutto rinviando al Signore che è all’origine della sua chiamata e di ogni fecondità apostolica. Paolo, dopo aver ricordato di aver «servito il Signore con tutta umiltà» (At 20,19) dice: «La mia vita non è meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi e stato affidato dal Signore Gesù» (At 20,24).

Preghiere e racconti

Fede e certezze

Francesco parla anche del «cercare e trovare Dio in tutte le cose» di San’Ignazio di Loyola, fondatore dei gesuiti, e spiega: «Si, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mose, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili». Così «l’atteggiamento corretto è quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre».

(Intervista del Direttore a Papa Francesco, in «Civiltà Cattolica» 164 (2013/III) 3918, 449-477).

La fede di papa Francesco

«La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa — mi creda — non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità. Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme».

(Dalla Lettera di Papa Francesco a Eugenio Scalfari – 11  settembre 2013). 

La possibilità della fede

“Aumenta la nostra fede!” A questa richiesta degli Apostoli – voce di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio con umiltà e desiderio – Gesù risponde così: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa, direte a questo monte: ‘spostati da qui a là’, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(Matteo 17,20). Credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara o a un progetto privo di incognite: non si crede a qualcosa che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e piacimento. Credere è fidarsi di qualcuno, assentire alla chiamata dello straniero che invita, rimettere la propria vita nelle mani di un altro, perché sia lui a esserne l’unico, vero Signore. Crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da lui nell’ascolto obbediente e nella docilità del più profondo di sé. Fede è resa, consegna, abbandono, accoglienza di Dio, che per primo ci cerca e si dona; non possesso, garanzia o sicurezza umane. Credere, allora, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi. “Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: gèttati, ti prenderò fra le mie braccia!” (Søren Kierkegaard). Eppure, credere non è un atto irragionevole. È anzi proprio sull’orlo di quell’abisso che le domande inquietanti impegnano il ragionamento: se invece di braccia accoglienti ci fossero soltanto rocce laceranti? E se oltre il buio ci fosse ancora nient’altro che il buio? Credere è sopportare il peso di queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile amante che chiama.

(Bruno FORTE, Lettera ai ricercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 27-28)

L’inquietudine della notte della fede

Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora. Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre. Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.

Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.

Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo. Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi. Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza. Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66).

Fede

La fede non è una sicurezza ma un cammino silenzioso.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 184).

La ricerca di Dio

Ho appreso che la ricerca di Dio è una Notte Buia. E che anche la Fede è una Notte Buia. Di certo, non può dirsi una sorpresa. Per l’uomo, ogni giorno è una Notte Buia. Nessuno sa che cosa accadrà nell’istante successivo, eppure tutti vanno avanti. Perché ‘confidano’. Perché hanno Fede. […] Ogni momento della vita è un atto di fede.

(Paulo COELHO, Brida, Bompiani, Milano, 2008, 31)

Dona a ogni istante il mio amore eterno

Mio Dio, sorgente senza fondo della dolcezza umana,

addormentandomi lascio scorrere il mio cuore in Te

come un recipiente caduto nell’acqua di una fontana

e che Tu riempi di Te stesso senza di noi.

In Te domattina ritornerò a prenderlo

pieno dell’amore che occorre per la giornata.

O Dio, ne tiene poco, ahimè! Per quanto Tu spanda

i Tuoi flutti su di esso, non ne trattiene mai più di un po’.

Ma rinnovami senza fine questo po’ di acqua viva,

donamelo fin dall’alba, ai piedi dell’arduo giorno

e ridonamelo ancora quando giunge la sera,

prima di sera, Signore, poiché l’avrò perduto.

O Tu dal quale il giorno riceve senza sosta il giorno

grazie al quale l’erba che cresce è cresciuta nella notte,

che continuamente aggiungi all’albero che cresce

l’invisibile altezza che lo conduce in aria,

dona al mio cuore debole e molto limitato,

al mio cuore con tanta fatica amante e fraterno.

Dio paziente delle opere lente e piccole,

dona a ogni istante il mio amore eterno.

(M. Noël, I canti della pietà).

La tentazione dell’impazienza

«Cercare subito il grande successo, i grandi numeri… non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio […] vale sempre la parabola del grano di senape (cfr. Mc 4, 31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. […] Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale. Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».

(J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione, in Divinarum Rerum Notitia. Studi in onore del Card. Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).

Il dubbio e la grazia

Ogni mattino,

Dio nomina il suo governo.

Un giorno è il sole a presiederlo,

con il marmo e la rugiada

come grandi funzionari,

e laggiù nei mondi molto evanescenti

un albero di virtù

porta la sua ambasciata.

L’indomani,

Dio capovolge l’ordine:

il nero oceano gode della sua fiducia,

ed esso delega i suoi poteri

alla dolce collina,

al ruscello che canticchia,

a qualche mezzofico

trovato nella polvere.

Ma Dio deve perfezionarsi: è la sua legge;

oggi si circonda

di un pangolino esperto in scienze occulte,

di un’isola che gli mostra

discretamente della tenerezza,

di una pioggia fine dalle favole edificanti,

di una lunetta un po’ gobba

che gli riferisce le voci che circolano.

Dio non ha mai trovato un buon ministro

degli affari divini.

(A. Bosquet, Il libro del dubbio e della grazia)

Aumenta la nostra fede

«Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un dono elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5). Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro decisione, ma credevano di riceverla in dono da Dio. Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insufficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32). Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24). I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non speravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro. E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidiano del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita dichiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può portare frutti spirituali. Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).

(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp. 160-161).

 

 

 

Preghiera

Signore, fa di me ciò che vuoi!

Non cerco di sapere in anticipo i tuoi disegni su di me,

voglio ciò che Tu vuoi per me.

Non dico: “Dovunque andrai, io ti seguirò!”,

perché sono debole,

ma mi dono a Te perché sia Tu a condurmi.

Voglio seguirTi nell’oscurità,

non Ti chiedo che la forza necessaria.

O Signore, fa’ ch’io porti ogni cosa davanti a Te,

e cerchi ciò che a Te piace in ogni mia decisione

e la benedizione su tutte le mie azioni.

Come una meridiana non indica l’ora se non con il sole,

così io voglio essere orientato da Te,

Tu vuoi guidarmi e servirTi di me.

Così sia, Signore Gesù!

(John Henry Newman)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXVII DOM TEMP ORD (C)

XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Amos 6,1.4-7

Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.

 

La insipienza del ricco bollata nel Vangelo ha avuto, purtroppo, tanti modelli prima, e troverà ancora tanti imitatori.

     Il tempo di Amos (VIII secolo a.C.) conosce un boom di benessere che alcuni fortunati ritrovamenti archeologici hanno potuto documentare: letti d’avorio (cf. v. 4), case estive, (cf. 3,75), sfacciata ricchezza. A fronte di un florido benessere per pochi, sta la povertà o la miseria per molti. Non è ammissibile una simile sperequazione. Lo squilibrio sociale è indice di uno squilibrio morale.

     La parola del profeta, scarna e rude perché viene da un pastore avvezzo ad una vita essenziale, giunge chiara e forte, tagliente e impietosa. Se alcuni si danno alla ‘bella vita’, dilettandosi nel dolce far niente, nelle gozzoviglie e nei piaceri, altri sono abbandonati a se stessi. La descrizione del lusso e della irresponsabilità della classe dirigente non ha eguali in tutto l’A.T. Amos sferza coloro che non si rendono conto di andare verso il baratro, e non si curano della «rovina di Giuseppe», cioè della situazione disperata e tragica del paese, ormai allo sfascio politico, sociale e religioso.

     La rovina, imminente e ormai palpabile, prende il tragico nome di «esilio». Il quadretto iniziale, quasi ‘da Olimpo’ serve da capo d’accusa per la condanna finale. Anche qui, come già per il Vangelo, si assiste ad un catastrofico ribaltamento di situazione.

     Il messaggio diventa monito per non perdere tempo in cose fallaci e, in maniera positiva, un invito a scelte coraggiose, capaci di ripristinare un equilibrio. Finché siamo nel tempo, abbiamo l’opportunità per un rinnovamento, certi che il futuro roseo viene preparato dall’impegno di oggi.

 

Seconda lettura: 1Timoteo 6,11-16

Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo. A lui onore e potenza per sempre. Amen. 

 

Una lettera calda, ricca di paterna attenzione al giovane collaboratore Timoteo, che Paolo si premura di istruire e di indirizzare perché sia una corretta guida della comunità ecclesiale. Prima di concludere la lettera, l’Apostolo sente il dovere di incoraggiare il caro amico. Una solenne dossologia suggella il brano e, ormai, tutta la lettera.

     «Uomo di Dio» è l’onorevole titolo con il quale Paolo chiama Timoteo. Forse è da intendere nel senso che il suo collaboratore è un uomo al servizio di Dio, uno strumento nelle sue mani, così come lo furono gli uomini dell’Antica Alleanza. L’incoraggiamento dondola su due verbi all’imperativo: «evita», riferito, secondo la maggior parte degli esegeti al contenuto espresso nei vv. 2b-10, e «tendi» («insegui»), inteso nel senso di ricercare con l’intento di ottenere «la giustizia, la pietà, la fede, la carità, la pazienza, la mitezza». Elencando alcune virtù, sempre a mo’ di esempio, viene affermata l’esigenza di una vita totalmente e radicalmente cristiana. Parlando di «giustizia» (greco dikaiosyne) non si intende il senso paolino di giustizia divina concessa gratuitamente (cf. soprattutto Rm e Gal), ma la vita retta che Dio indica. Con «pietà» si fa riferimento all’esistenza cristiana pratica. Pertanto, considerando la coppia giustizia-pietà, abbiamo la definizione dell’intera esistenza umana in rapporto a Dio e agli uomini. L’elenco prosegue poi con virtù che sono specifiche dell’ethos cristiano.

     Segue, al v. 12, una nuova immagine, quella del combattimento, che Paolo usa anche altrove (cf. 1Cor 9,24-27; Fil 3,12-14). L’uomo di Dio deve affrontare la gara, come un campione e con decisione, per due motivi: per rispondere alla chiamata di Dio e per onorare l’ingaggio. Si insinua così il vero significato dell’immagine: Paolo richiama alla memoria di

Timoteo — e attraverso lui a tutti i cristiani — la conoscenza che la fede viene vissuta nel contrasto, e che la vita eterna va conquistata nella lotta. Lo sforzo, a cui va l’appello, è aperto alla speranza di conseguire lo scopo mediante la vocazione di Dio. Oziosi e neghittosi sono categoricamente esclusi dal conseguimento della vita. Nella chiamata è incluso l’impegno della professione di fede emessa un giorno «davanti a molti testimoni», la quale non può essere tradita.

     Grazie ad un fortunato parallelismo, la professione cristiana di Timoteo davanti a molti testimoni è posta in relazione con la testimonianza che Gesù Cristo ha reso davanti a Pilato. Cristo è stato il primo a dare una eccellente testimonianza, mediante la sua passione e morte. Ora spetta a Timoteo mantenersi fedele a quella professione di fede e adempiere i comandamenti di Dio con una condotta di vita irreprensibile.

     Poi il discorso si eleva. Sembra che Paolo utilizzi il materiale di una antica professione di fede. La giovane guida della comunità di Efeso deve custodire puro «il comandamento», fino al solenne ritorno di Cristo nella parusia. Il termine «manifestazione» (in greco epifáneia), secondo alcuni autori, richiama l’idea di una festosa comparsa, quando improvvisa e straordinaria; comunque, di essa non è dato sapere il momento. Nelle lettere pastorali il termine epifáneia indica la manifestazione di Cristo nel suo trionfo escatologico (cf. 2Tm 1,10; Tt 2,11).

     La sezione si chiude con una dossologia innica, che ricorda quella dell’inizio della lettera (cf. 1,17), e termina in bellezza l’incoraggiamento di Paolo a Timoteo. In questi versi, di mirabile fattura poetica, sono condensati alcuni attributi divini di derivazione sia biblica che ellenistica. La dossologia «a lui onore e potenza per sempre. Amen» pone il sigillo al nostro brano. Nel suo insieme, ricorre ancora 1Tm 1,17 e 2Tm 4,18. Qui la gloria è sostituita da forza e potenza. La cosa è dovuta alla forte sottolineatura del primato di Dio e della sua sovranità nei confronti di ogni presunta divinità imperiale. Il «per sempre» taglia corto, quasi a dire che «su questo argomento non si potrà mai più tornare, tanto esso è certo e sicuro. Per le comunità giudeocristiane, il contrario non può che essere blasfemo» (C. Marcheselli-Casale). Con la parola «Amen» si chiude il frammento innico. È una parola che suggella, in questo caso, il nostro impegno.

 

Vangelo: Luca 16,19-31 

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 

Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

 

Esegesi 

     Il lettore prova forse un po’ di disagio a leggere una parabola, così poco ‘cristiana’ e molto ‘giudaica’. Eppure il tema della retribuzione, anche se privo di tratti tipicamente cristiani, ricorda l’impegno a condurre la vita in proiezione dell’esistenza ultraterrena. È un invito a non lasciarsi ingabbiare da una mentalità ripiegata su se stessa, incapace di aprirsi al futuro e soprattutto ignara di quanto succede tutti i giorni  attorno a noi.

— Possiamo individuare due parti, reperibili rispettivamente nei vv. 19-21 e 23-31. La prima, più breve, fa salire sul palco due personaggi opposti, il ricco e Lazzaro. Il riflettore del narratore si accende solo per il ricco, presentato ‘in video e in voce’, perché di lui sono registrate azioni e parole. Lazzaro sembra essere la sua controfigura: nessuna parola e, se viene in parte raffigurato, è per creare il contrasto con l’altro. Alla seconda parte, più lunga, spetta il compito di reggere la logica dell’insieme. Tra le due, il v. 22 assume il ruolo di ‘trasformatore’ perché con la morte le due situazioni si cambiano fino ad invertirsi. Nella seconda parte domina il dialogo tra il ricco e Abramo, che permette al lettore di ‘sbirciare’, non nella realtà figurativa (il brano non e una diapositiva dell’aldilà) ma nella realtà teologica. Si comprende allora che è importante valorizzare l’oggi con l’attenzione caritatevole agli altri, soprattutto ai più bisognosi, per evitare di trovarsi in una situazione disastrosa e senza via di uscita.

— Tutto il cap. 16 e in particolare il v. 14 sono una catechesi sul retto uso del denaro. La catechesi aveva di mira in primo luogo i farisei e dopo di loro tutti coloro che sono presi al laccio della tentazione che porta a impiegare il denaro solo per i propri interessi. La ricchezza non viene demonizzata; semplicemente viene riportata al rango di mezzo per fare il bene, anziché ritenerla insipiente strumento di soddisfazione di tutti i capricci.

 

— Di un uomo si parla fin dall’inizio e con tale qualifica resterà fino alla fine. Essere ricco non è né un difetto né un disonore. È solamente il rilievo di un potenziale che si presta a molteplici impieghi. Sarà il buono o cattivo uso a determinare la qualifica morale e quindi il giudizio. Un primo dubbio insorge alla notizia che vestiva elegantemente, con tessuti costosi: «porpora e di lino finissimo» che noi oggi classificheremmo come capi da boutique. Inoltre. godeva quotidianamente i piaceri della buona tavola («lautamente» in greco lamprós – unica ricorrenza in tutto il NT – cioè «splendidamente», «sontuosamente»). 

     La voluta presentazione paradossale serve a creare il contrasto con l’altro, il mendicante Lazzaro, che attende qualcosa dalla tavola ben imbandita del ricco. La sua rimane un’attesa frustrata e frustrante. Il suo nome (unico personaggio delle parabole provvisto di nome) significa ‘Dio aiuta’: normalmente Dio interviene servendosi della sensibilità e del buon cuore delle persone. Invece no: nessuno interviene o si prende cura di Lazzaro. Se aggiungiamo il fatto che il povero era anche «coperto di piaghe», significa che era circondato dal più grande disinteresse.

     Il contrasto tra il ricco e Lazzaro, studiato appositamente per essere provocatorio, denuncia una situazione insostenibile. Il ricco non ha compiuto nulla di negativo, ha però omesso di intervenire a favore di Lazzaro. Poiché questi giaceva alla sua porta, non è ammissibile che non l’abbia visto, che non sapesse. Ora è chiaro il significato negativo di quella ricchezza che ha smorzato, fino ad azzerarla, la sensibilità per gli altri, soprattutto per i meno fortunati. Tra le righe, affiora anche il messaggio che non basta evitare il male, occorre compiere il bene. Esistono anche i peccati di omissione, tra cui la noncuranza o la poca sensibilità verso gli altri (cf. prima lettura). Fin qui la situazione durante la vita (terrena).

— La morte di entrambi ribalta la situazione. Viene applicata la legge del contrappasso: chi stava bene inizia a soffrire e viceversa. Non è vero, come sostenevano i sadducei, che tutto si esaurisce nella vita terrena. Il lettore è portato dal narratore a sapere, quasi a ‘vedere’ ciò che si svolge dietro le quinte della storia. Luca utilizza le immagini abituali del suo tempo, attinge al mondo giudaico che impregna notevolmente la presente parabola. Il messaggio sta nel ricordare agli uomini i parametri diversi utilizzati nell’altra vita, quella dopo la morte. Quello di Luca non è un cortometraggio sensazionale, un reportage da scoop, ma una catechesi di escatologia. Egli anticipa il domani servendosi di immagini, affinché i farisei del tempo di Gesù e i lettori di tutti i tempi valorizzino il loro presente.

— Lazzaro è portato «accanto ad Abramo», espressione semitica di intimità. In altre parole, egli partecipa alla beatitudine. Ancora una volta si nota l’assenza di una caratteristica propriamente cristiana (per esempio la comunione con Dio) e il prevalere della sensibilità giudaica. Gli «angeli» sono coloro che permettono la trasposizione senza fatica da una condizione all’altra. La menzione degli angeli e la vicinanza ad Abramo definiscono la condizione di beatitudine. Nel nostro linguaggio sarebbe il ‘paradiso’.

— La situazione del ricco occupa tanto interesse perché su di lui devono fissarsi gli occhi del lettore, per capire bene il messaggio. Egli sta all’«inferno», traduzione del greco Ade, che evoca un luogo di abbandono e di lontananza da Dio: si veda At 2,27.31 dove viene citato il Sal 16,10  («negli inferi»), secondo la versione dei Settanta che riporta «Ade», a differenza del testo ebraico che ha «Sheol» (tradotto con «sepolcro»). Ade e Sheol sono qui praticamente equivalenti. Per gli Ebrei lo Sheol era luogo di tenebre, di silenzio e di oblio (cf. Gb 10,21; Sal 94,17; 88,12). La ovvia ubicazione dell’Ade è in basso, esattamente il contrario

della ‘collocazione’ di Dio che per tutte le religioni sta in alto. La precisazione del ‘luogo’ lascia presagire il seguito.

     A questo punto prende il via un serrato dialogo tra il ricco e Abramo. È il ricco che prende l’iniziativa di rivolgersi ad Abramo, «gridando». Non direttamente una domanda di soccorso, bensì un’autorizzazione è il contenuto dell’invocazione. Chi di fatto dovrebbe portare il soccorso è Lazzaro, richiesto di un favore molto piccolo e, apparentemente, inutile.

     Qualche goccia di acqua sulla lingua del ricco non sortisce grandi risultati, ma ha l’effetto di dichiarare benvenuto anche il più piccolo sollievo. La pena è molto grande, perché espressa in greco con il verbo odynô tradotto con «torturare». La richiesta era modesta, ai limiti della nullità, eppure causa di sollievo in quella condizione di tormento.

— La risposta di Abramo, anche se gentile, è negativa. Egli ricorda il ribaltamento di situazione. Enunciato il principio che ha un largo sfondo nella cultura dei popoli, si ricorda la condizione di incomunicabilità tra le due situazioni. L’idea è espressa come una distanza insuperabile. Il termine greco chasma, reso con «abisso» e specificato come «grande», ricorre solo qui in tutto il NT, ed indica uno spazio incolmabile. Non è certo questione di chilometri, ma di situazioni irreversibili. L’immagine del v. 26 non si trova nelle raffigurazioni bibliche ed ebraiche dell’aldilà. Essa indica che, alla morte, la sorte degli uomini è stabilita irrevocabilmente. Il tempo («ora») e il luogo («qui») non ammettono cambiamenti.

Soggiace l’inesorabile idea del ‘per sempre’.

— Non potendo trovare giovamento per sé, il ricco pensa (stranamente!) agli altri, in questo caso ai suoi fratelli. Il particolare suonerebbe una forzatura, se non fosse l’espediente per far passare l’idea principale. All’ex ricco che vuole mandare messaggi dall’oltretomba per i suoi fratelli affinché si ravvedano ed evitino «questo luogo di tormenti», Abramo risponde che la Parola di Dio («Mosè e i Profeti») sono la via ordinaria della conversione e del corretto cammino verso Dio. È dichiarato apertamente il valore della Scrittura (cf. 24,27.44): essa, conosciuta e accolta, esige una vita coerente con il messaggio rivelato. Si tratta di ‘sapere’ e di ‘fare’. La Parola di Dio contiene sufficienti indicazioni, senza ricorrere

allo spettacolare e al miracolismo, del resto già denunciato come improduttivo (cf. 10,13). Ancora un messaggio: bisogna rispettare i tempi. C’è un tempo utile per una doverosa solidarietà, c’è un tempo in cui non è più consentito agire. In questo aspetto, troviamo una piena concordanza con un prezioso monito di Gesù, quello di vegliare per non essere sor-presi (cf. 21,34-36).

     I vv. 27-31 costituiscono la lezione principale e additano nelle Scritture il segno che conduce nel modo più convincente alla conversione. La lezione della parabola è chiara: urge convertirsi e quindi ascoltare Mosè e i profeti. Sono loro la strada maestra sulla quale bisogna restare; diffidare, perciò, dalle scorciatoie, perché illusorie e incapaci di condurre alla meta. Le Scritture sono qui, a disposizione, chiare ed essenziali. Esse sono la bussola con l’ago magnetico puntato verso Dio e verso il prossimo. La loro fedele osservanza, oggi, garantisce rincontro con Dio, nel tempo e per l’eternità.

 

Meditazione 

L’ingiustizia rappresentata da uno stile di vita preoccupato del proprio benessere e totalmente insensibile alle sofferenze e ai bisogni dei poveri: questa la denuncia del profeta Amos e il sottofondo della pagina evangelica. Dai testi emerge la domanda: chi è l’altro per me! E soprattutto, tra gli altri, il povero, l’ultimo, il reietto. Quale responsabilità accetto di assumere nei confronti di chi è povero, bisognoso, e con la sua miseria è grido che chiede aiuto e che mi interpella? Ma i testi annunciano anche il giudizio che colpirà chi, vivendo nel lusso e nell’esibizione sfacciata della propria ricchezza, finisce nell’incoscienza di chi dimentica l’umanità del fratello povero e obnubila anche la propria umanità. Giudizio storico in Amos («andranno in esilio in testa ai deportati»: Am 6,7), giudizio escatologico in Luca (il ricco si trovò «nell’inferno, tra i tormenti»: Lc 16,23), sempre viene affermato che Dio non è indifferente al male e all’ingiustizia, ma se ne fa vindice.

Se il nome del povero mendicante è Lazzaro (che significa «Dio aiuta»), il nome del ricco non è ricordato, anzi è espropriato dalla sua stessa ricchezza: egli è il «ricco» (vv. 19.22). La vertigine che può dare il possedere molto rischia di rendere il ricco spossessato di sé, dimentico dell’essenziale perché sedotto dal troppo delle cose che possiede e che illudono di sfuggire la morte. Banchettare tutti i giorni, significa sfuggire l’ordine dei giorni, l’economia della successione feria – festa, rendere festa anche la feria, entrare in un eccesso che si sottrae ai limiti della quotidianità. Il troppo del ricco gli impedisce di vedere il troppo poco di Lazzaro che dalla violenza della vita e dall’indifferenza degli uomini «è gettato» presso l’atrio della sua casa: segno di una contiguità dei poveri alla tavola dei ricchi da cui tuttavia sono sadicamente e consapevolmente esclusi, tanto nella parabola lucana come nella situazione storica attuale. La pagina evangelica ci mette in guardia da un rischio grave: che la presenza del povero diventi un’abitudine, e non susciti più scandalo né indignazione.

La morte è un protagonista importante della parabola. Preziosa memoria dei limiti che scandiscono l’avventura umana, essa è spesso rimossa dalla nostra coscienza grazie a comportamenti che ci illudono di immortalità. Possedere molti beni, uno stile di vita lussuoso che si manifesta nella qualità degli abiti e nel quotidiano banchettare lautamente senza mai condividere, è tentativo tanto seducente quanto illusorio di sfuggire all’angoscia della morte. Inoltre, l’ineluttabilità della morte dovrebbe insegnare qualcosa a ogni creatura umana. Viviamo pochi giorni su questa terra: perché non cercare l’essenziale, ciò che ve-ramente ha senso? Perché non cercare di praticare la giustizia e la condivisione, l’amore e la compassione? Perché non ricercare l’incontro e la relazione?                              .

La scena surreale del dialogo tra il ricco che dai tormenti si rivolge ad Abramo perché mandi Lazzaro ad avvertire i suoi fratelli di cambiare vita istruendoli su ciò che li aspetta nell’al di la, presenta più di un motivo di interesse. La risposta di Abramo sottolinea il fatto che nella vita può esserci un troppo tardi. Occorre vivere il momento presente come l’oggi di Dio. Occorre entrare nella coscienza che il momento presente è l’occasione in cui posso vivere il tutto dell’amore, della fedeltà all’Evangelo, e il momento in cui mi gioco tutto. Aderire all’oggi, al momento presente, senza fughe in avanti e senza comportamenti che stordiscono e fanno evadere la realtà, è sapienza.

Ma tale risposta ricorda anche che la fede non si fonda su miracoli o su eventi straordinari: «Se qualcuno dai morti andrà dai viventi essi si convertiranno», dice il ricco. Abramo risponde abbattendo quest’ultima illusione: «Se non ascoltano Mose e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi» (Lc 16,31). Ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture e accoglienza del Signore che ci visita nel povero, sono le realtà da mettere in pratica qui e ora, oggi, sulla terra. Realtà ordinarie, ma su cui si gioca il giudizio finale. 

Preghiere e racconti

I poveri come tempio

Spoglia l’altare della Vergine e vendine i vari arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno. Credimi, le sarà più caro che sia osservato il Vangelo del Figlio suo e nudo il suo altare piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio. Il Signore manderà poi chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito.

(Vita seconda di Francesco d’Assisi- Tommaso da Celano).

Ricchezza e povertà

«Il denaro non è “disonesto” in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo. Si tratta dunque di operare una sorta di “conversione” dei beni economici: invece di usarli solo per interesse proprio, occorre pensare anche alle necessità dei poveri, imitando Cristo stesso, il quale – scrive san Paolo – “da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà” (2 Cor 8,9). Sembra un paradosso: Cristo non ci ha arricchiti con la sua ricchezza, ma con la sua povertà, cioè con il suo amore che lo ha spinto a darsi totalmente a noi.

Qui potrebbe aprirsi un vasto e complesso campo di riflessione sul tema della ricchezza e della povertà, anche su scala mondiale, in cui si confrontano due logiche economiche: la logica del profitto e quella della equa distribuzione dei beni, che non sono in contraddizione l’una con l’altra, purché il loro rapporto sia bene ordinato. La dottrina sociale cattolica ha sempre sostenuto che l’equa distribuzione dei beni è prioritaria. Il profitto è naturalmente legittimo e, nella giusta misura, necessario allo sviluppo economico. Giovanni Paolo II così scrisse nell’Enciclica Centesimus annus: “la moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi” (n. 32). Tuttavia, egli aggiunse, il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica (cfr ivi, 35). L’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile».

Maria Santissima, che nel Magnificat proclama: il Signore “ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,53), aiuti i cristiani ad usare con saggezza evangelica, cioè con generosa solidarietà, i beni terreni, ed ispiri ai governanti e agli economisti strategie lungimiranti che favoriscano l’autentico progresso di tutti i popoli.

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’Angelus, 23-IX-2007).

Come i gigli dei prati e gli uccelli del cielo

Uno dei confratelli chiese ad un anziano: Sarebbe giusto se io tenessi due monete per me, nel caso mi ammalassi ? L’anziano, leggendo nei suoi pensieri che egli voleva tenerle, disse: Tienile. Il fratello, ritornando alla sua cella, cominciò a lottare con i suoi pensieri, dicendo: Mi chiedo se il padre mi ha dato la sua benedizione oppure no. Alzandosi, tornò dal padre e gli rivolse queste parole: in nome di Dio, dimmi la verità, perché sono tutto ansioso per queste due monete. L’anziano gli disse: Dal momento che ho visto i tuoi pensieri e il tuo desiderio di tenere quelle monete, ti ho detto di tenerle. Ma non è bene tenere più di quello che ci serve per il corpo. Ora queste due monete sono la tua speranza. Ma se le perdessi, Dio non si prenderebbe forse cura di te ? Lasciate ogni preoccupazione a Dio, allora, perché egli si prenderà cura di voi.

( Thomas Merton, La saggezza del deserto)

Essere caritatevoli

Il movimento Emmaus, che non è confessionale, rappresenta un pugno nello stomaco per tante “brave persone” – praticanti impeccabili, si dice – che lasciano crepare quanti abitano alla porta accanto, senza neppure accorgersene, consentendo tranquillamente il permanere, sul piano politico, di un ordine ingiusto di cui esse profittano..

Dentro di me tutto questo esplode con la violenza di una bomba, poiché sono ferito della ferita del disoccupato, della ferita della giovane donna di strada.. come una madre è malata della malattia del suo bambino. Ecco che cos’è la carità, si dirà con un sorriso un po’ sprezzante, poiché il termine, disprezzato, evoca le “opere buone” delle belle e ricche dame di un tempo. Essere caritatevoli non è solo dare, è essere stati, essere feriti della ferita altrui. Ed è anche congiungere tutte le mie forze con le forze dell’altro per guarire insieme dal suo male diventato il mio.

(Abbé Pierre, Testamento)

Ogni giorno, anche senza cercarlo vediamo un Lazzaro

Sta scritto: C’era un tale, che era ricco, e subito dopo si aggiunge: e c’era un mendicante di nome Lazzaro (Lc 16,19). Di certo presso la gente sono più noti i nomi dei ricchi che quelli dei poveri. Perché dunque il Signore parlando di un povero e di un ricco dice il nome del povero e non dice quello del ricco, se non perché Dio conosce gli umili e li approva, e ignora invece i superbi? Per questo, nell’ultimo giorno, a certuni che si sono insuperbiti per il potere di fare miracoli dirà: Non so di dove siete; via da me, voi tutti, operatori di iniquità (Mt 7,23). A Mosè invece è detto: Ti ho conosciuto per nome (Es 33,12). Del ricco, dunque, il Signore dice: C’era un tale, e riguardo al povero: un mendicante, di nome Lazzaro; è come se dicesse: «Conosco il povero che è umile, non il ricco che è superbo. L’uno lo conosco e lo approvo, l’altro lo ignoro poiché lo condanno» […] Ecco, Lazzaro, il mendicante, giace tutto piagato davanti alla porta del ricco. Con quest’unico fatto il Signore esprime due giudizi. Il ricco, infatti, avrebbe forse avuto qualche giustificazione se Lazzaro non fosse rimasto a giacere davanti alla sua porta povero e piagato, se fosse stato lontano, se la sua povertà non avesse importunato il suo sguardo. Inoltre, se il ricco fosse stato lontano dallo sguardo del povero mendicante, questi avrebbe dovuto sopportare nel suo animo una tentazione meno forte. Ma poiché il Signore pone il povero e coperto di piaghe davanti alla porta del ricco che godeva di tanti piaceri, da un’unica e medesima situazione questo derivò: vi fu grave condanna per il ricco che vedeva il povero e non ne ebbe compassione; ma anche, vi fu una quotidiana tentazione per il povero che vedeva il ricco. Non credete che quest’uomo povero e piagato abbia dovuto sopportare gravi tentazioni al pensiero che lui mancava di pane ed era malato e davanti a sé vedeva un ricco in piena salute, immerso nei piaceri? […]

Ma voi, fratelli, conoscendo il riposo donato a Lazzaro e il castigo inflitto al ricco, datevi da fare, cercate degli intercessori per le vostre colpe, fate in modo di avere i poveri quali vostri avvocati nel giorno del giudizio. Avete ora molti Lazzari; stanno davanti alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno dopo che vi siete saziati, cade dalla vostra mensa. Le parole del libro sacro ci devono predisporre a praticare i precetti della carità. Ogni giorno possiamo trovare Lazzaro, se lo cerchiamo; ogni giorno, anche senza cercarlo vediamo un Lazzaro.

(GREGORIO MAGNO, Omelie sui vangeli 40,3-4.10, Opere di Gregario Magno, Omelie sui vangeli, pp. 568-570.578-580).

La povertà del predicatore

Nella povertà del discepolo e dell’apostolo il destinatario del vangelo può cogliere il segno stesso del contenuto del messaggio. La povertà del predicatore è, per così dire, il sacramento, cioè la manifestazione visibile del vangelo e dell’uomo che dal vangelo si lascia coinvolgere. Il cuore della lieta novella, che il regno di Dio viene e la figura di questo mondo passa, che il Crocifisso è il Risorto e che morte significa vita, ma che la vita vera passa sempre attraverso la morte, tutto questo l’apostolo non può annunciarlo soltanto a parole, ma con il suo stesso modo di vivere. Lui stesso deve incarnare questo messaggio. La croce di Cristo e la speranza nella risurrezione si configurano nell’essere-crocifìssi-con-Cristo degli apostoli, che poi significa che «fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani» (cfr. 1 Cor 4,11ss.).

Nella povertà dell’apostolo è possibile cogliere il messaggio della croce e risurrezione. Il predicatore diventa così segno vivente del suo messaggio, il segno che la figura di questo mondo passa e il Signore viene a liberarci […].

Ma la povertà deve esprimere al tempo stesso una dedizione a favore del prossimo. Se si vuole seguire Gesù bisogna essere disposti a dare tutto ciò che si possiede ai poveri. Come la povertà di Gesù sta a esprimere il suo amore per gli uomini – «Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9) – così anche la povertà dei discepoli serve ad amare tutti gli uomini, ma soprattutto i più poveri, come fratelli e sorelle di Gesù. La povertà porta alla solidarietà con i poveri, a una maggior solidarietà nell’amore. Soltanto chi è povero può essere davvero amico dei poveri, dei piccoli, degli emarginati […]. Dovremo allora porci una seria domanda: nella comunità i poveri sono anche i ‘prediletti’, come lo sono stati per Gesù, o, invece, lo sono i ricchi i ‘ben educati’, i ‘più validi’ e ‘distinti’, quelli con i quali è possibile ‘dialo-  gare’? Chi rappresenta il particolare oggetto del nostro interesse e del nostro amore?

(G. GRESHAKE, Essere preti. Teologia e spiritualità del ministero sacerdotale, Brescia 1984,193s.).

Vendere il cuore al denaro

«Avere dei soldi non è un male, ma vendere il proprio cuore al denaro è una tragedia, perché, ovunque sia il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore. Se date il vostro cuore alle cose di questo mondo, presto inizierete a competere con gli altri per ottenere tutto il possibile. Incomincerete ad accendere la candela ad entrambe le estremità pur di avere sempre di più. Questa è la strada giusta se volete farvi venire la pressione alta e l’ulcera, se volete diventare ansiosi e depressi. Se scegliete di percorrere questa strada, finirete per essere tentati di ingannare, raggirare e scendere a compromessi con la vostra integrità, pur di fare del “denaro facile” o di concludere un “grande affare”».[…]

La conclusione è la seguente: non posso pronunciare il mio «sì» d’amore in risposta all’invito di Dio senza pronunciare un «sì» d’amore agli altri; mi è impossibile amare Dio senza amare gli altri, così come agli altri è impossibile amare Dio senza amare me».

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 89-90).

Preghiera

Signore, abbiamo compreso con la parola tagliente e vera, che oggi ci hai donato, che l’essenziale della vita non è confessarti a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri e per quelli che sono stati favoriti dalla vita. Questo significa fare la volontà del Padre tuo, vivere di te, forse anche da parte di coloro che non ti conoscono bene. Signore Gesù, tu ti identifichi con i perseguitati, con i poveri, con i deboli. Tu ci hai dato un esempio chiaro di vita, che hai racchiuso nel vangelo e specie nelle beatitudini pronunciate sul Monte.

Il segno che è arrivato il tuo regno si trova nel fatto che in te l’amore concreto di Dio raggiunge i poveri, gli emarginati, non a causa dei loro meriti, bensì in ragione stessa della loro condizione d’esclusi, d’oppressi, perché tu sei dio e perché questi che sono considerati ultimi sono i primi “clienti” tuoi e del Padre tuo.

Aiutaci, Signore, a capire che trascurare quest’amore concreto per i poveri, i forestieri, i prigionieri, coloro che sono nudi o che hanno fame, significa non vivere secondo la fede del regno ed escluderli dalla sua logica. Mancare all’amore è rinnegare te, perché i poveri sono tuoi fratelli e lo sono appunto a motivo della loro povertà.

Facci capire fino in fondo che essi sono il luogo privilegiato della tua presenza e di quella del Padre tuo celeste.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXVI DOM TEMP ORD (C)

XXV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Amos 8,4-7

Il Signore mi disse: «Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: “Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano”». Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere».

Anche questo oracolo di Amos contro i mercanti disonesti, come il precedente insegnamento di Gesù, colpisce un sistema di ingiustizie ancor più dei singoli casi denunciati. Destinatari sono coloro che calpestano, fino a soffocarli, i poveri, gli umili della terra. Calpestatori sono i ricchi commercianti, rapaci e prepotenti. Calpestati sono coloro che Dio ha più a cuore, come l’orfano, la vedova, l’oppresso (cf. Is 1,17). Sono gli umili della terra che Sofonia dirà i più fedeli e osservanti delle disposizioni di Dio e ai quali, per la salvezza di tutto il popolo, domanderà di continuare a cercare JHWH, di cercare la vera giustizia nella fedeltà all’alleanza e di accettare pure la miseria per umile sottomissione a lui (Sof 2,3). Sono coloro che a sostegno della loro vita pongono la fiducia nel Signore (Sof 3,12), i poveri di JHWH, il vero popolo di JHWH.

     Amos delinea la mentalità e i comportamenti dei mercanti rapaci con un monologo messo loro in bocca, che traduce i loro intimi sentimenti. Alla radice essi sono insofferenti della religione, se non proprio miscredenti. Le loro prime espressioni suonano come se dicessero: le celebrazioni religiose ci rovinano gli affari! Il sabato e gli inizi del mese ci bloccano i commerci! Così si manifestano avidi di guadagni assai più che disponibili a Dio e al prossimo. Di conseguenza sono volutamente imbroglioni, programmando la alterazione di monete e pesi e lo smercio degli scarti, e sono strozzini dei miseri e dei poveri. È per questi comportamenti, sviluppatisi nelle classi dominanti del periodo monarchico, che i profeti denunciano la ricchezza come pregiudiziale di ingiustizia e anzi di empietà (cf. Is 53,9), mentre nella condivisione comunitaria del tempo dei Patriarchi e dei Giudici era salutata solo come una benedizione.

     Ma Dio non resta indifferente ai soprusi. Nell’ultimo versetto del brano, Amos ammonisce che JHWH si impegna con giuramento a non dimenticare le opere dei disonesti sfruttatori, cioè a punirle a suo tempo. Lo giura per il vanto di Giacobbe. La espressione non è chiara: può intendersi per l’orgoglio dei corrotti in Giacobbe oppure per l’onore con il quale Dio ha impegnato se stesso con il suo popolo (cf. Am 6,8 e 1Sam 15,29). In ogni caso si tratta della vendetta che JHWH farà per riportare la sua giustizia in mezzo al suo popolo. Amos infatti prosegue annunciando prossimo il terribile giorno del Signore (Am 8,8-14), che sarà tenebre e non luce (Am 5,18). E colloca il tutto fra le ultime due visioni: quella del canestro di frutta ormai matura che sta per essere staccata dall’albero (Am 8,1-3) e quella dell’abbattimento del santuario sopra i frequentatori indegni, a loro rovina (Am 9,1-4).

 

Seconda lettura: 1Timoteo 2,1-8

Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.                                                                                                        

 

v A Timoteo, nel primo capitolo di questa lettera, Paolo ricorda la particolare vigilanza verso le deviazioni nella fede, che ha motivato l’incarico affidategli di rimanere a Efeso (cf. 1Tm 1,3).

     Nel secondo capitolo passa alla parte costruttiva e gli raccomanda prima di tutto e a base di tutto la preghiera. È quanto riportato in questo brano liturgico, che si apre e si chiude con tale raccomandazione. Paolo si riferisce alla preghiera pubblica liturgica, della quale Timoteo è guida, e anche a quella privata dei fedeli, dovunque si trovino (cf. v. S). E dice come va fatta.                              

     Dev’essere universale anzitutto (v. 1), cioè esprimersi in tutte le forme sue proprie (domanda, suppliche, ringraziamenti) e a favore di tutti gli uomini. Ma in modo particolare deve riguardare i re e i governanti (v. 2), perché siano in grado di garantire il bene comune e uno sviluppo della vita sociale nella pace e nella dignità di tutti.

     Per questo, sia la preghiera sia le cose che essa domanda si ricollegano ai disegni di Dio (vv. 3-4), alla sua volontà che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Per questo ancora la preghiera va stabilita sulla mediazione dell’uomo-Dio Cristo Gesù (vv. 5-6) e più precisamente sul suo mistero di morte e resurrezione per il riscatto di tutti.

     Infine Paolo richiama a incoraggiamento la propria partecipazione al mistero di Cristo (v. 7), tutta opera della grazia che lo ha trasformato da bestemmiatore e persecutore violento ad apostolo e maestro dei pagani (cf. 1Tm 1,12-14).

     Tema del brano è dunque la preghiera. Ma le dimensioni che Paolo le assegna la pongono alla radice dello sviluppo del nuovo popolo di Dio, quindi anche della giustizia dei poveri di JHWH (prima lettura) e della scaltrezza e affidabilità con le quali i figli della luce hanno da superare i figli di questo mondo (Vangelo).

 

Vangelo: Luca 16,1-13

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

 

Esegesi 

     Abbiamo qui uno degli insegnamenti di Gesù, che Luca riunisce nei lunghi capitoli dedicati al ministero itinerante dalla Galilea alla Giudea (Lc 9,51-19,27), da lui presentato, più che come un viaggio geografico, come un itinerario formativo dei discepoli, dopo che lo hanno riconosciuto come il Cristo, perché sappiamo seguirlo fino alla croce. L’insegnamento riguarda il buon uso delle ricchezze materiali e si sviluppa in due momenti: prima un racconto-parabola (vv. 1-8) e poi una serie di massime (vv. 9-73).

     La parabola (vv. 1-8) fa il caso di un amministratore incapace che, denunciato, non cerca scusanti e, costretto a pensare al futuro e ad altre situazioni della vita, si dà subito da fare per non restare travolto. Per questo, si converte un poco anche all’amore del prossimo, ma perché gli conviene non per altruismo: un amore egoistico dunque. E lo mette in atto con mezzi illeciti, condonando debiti ingenti a persone forse inguaiate per essi, e diventando pure imbroglione del suo padrone dopo che sperperatore. Il padrone passa sopra alla disonestà del suo dipendente e ne loda invece la scaltrezza. Ed è appunto la scaltrezza o avvedutezza l’insegnamento che Gesù ricava dalla parabola per i discepoli, avvertendo però subito che quella domandata ai figli della luce dovrebbe essere maggiore e soprattutto diversa da quella dei figli di questo mondo, nei giochi con i loro simili.

     Con le massime successive (vv. 9-13) Gesù applica la parabola e precisa le diverse scaltrezza. Anzitutto invita a farsi degli amici con la disonesta ricchezza o meglio col mammona della ingiustizia. Similmente anche l’amministratore è detto economo della ingiustizia. Tale specificazione pare indicare un sistema di cose e non equivalere soltanto a un aggettivo che qualifica i singoli casi di una cifra o di una persona ingiusta. L’invito allora è rivolto a chi si trova dentro al sistema ingiusto, perché si comporti in modo da superarlo nella prospettiva delle dimore eterne, cioè con la realizzazione dell’evangelico regno di Dio. In questo senso i figli della luce sono contrapposti ai figli di questo mondo e sono chiamati a diventare economi della giustizia portata da Cristo, con la proposta delle Beatitudini.

     Le altre massime diventano così più chiare. La fedeltà o meno del poco, che rende fedeli o meno anche nel molto, riguarda la amministrazione delle ricchezze di questo mondo, il poco, da dentro il quale ci si apre o meno alla amministrazione delle ricchezze eterne, il molto. Per questo Gesù aggiunge: non si può affidarvi la ricchezza vera, evangelica, se non siete affidabili in quella ingiusta, di ordine terreno; non si può affidarvi la vostra, di figli della luce, se non siete affidabili in quella altrui, dei figli di questo mondo. E conclude: Nessun servitore può servire due padroniNon potete servire Dio e la ricchezza. La contrapposizione non è tanto fra ricchezza e Vangelo, quanto fra i principi ispiratori della gestione della ricchezza: si arriva veramente a farne buon uso quando dai criteri del mammona si passa a quelli di Dio.

 

Meditazione 

Elemento comune alle letture è la denuncia della potenza di seduzione del denaro e della ricchezza che porta Gesù a parlarne come di un’entità divinizzata (Mammona) che si oppone all’unico e vero Dio (vangelo) e che conduce il profeta Amos a smascherare l’ossessiva bramosia di guadagno di latifondisti e commercianti che si mostrano insofferenti al giorno santo del sabato che mette un limite ai loro affari (I lettura).

L’ambiguità del denaro e la sua capacità di pervertire il cuore dell’uomo appare anche nella parabola in cui Gesù presenta a modello «l’amministratore disonesto»: modello ovviamente non per la sua disonestà, ma perché, nel momento in cui gli è stato prospettato il licenziamento, ha saputo agire con scaltrezza (Lc 16,8). Al cuore della nostra pagina evangelica vi è la decisione radicale a cui l’uomo è chiamato per entrare nel Regno di Dio.

Questa decisione richiede qualità che sono esemplificate nell’amministratore che ha saputo reagire con decisione al momento difficile in cui è venuto a trovarsi quando i suoi intrighi economici sono stati scoperti.

Nel momento della crisi, questo amministratore anzitutto dimostra capacità di accettazione della realtà, della nuova situazione prodottasi («Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione?»: Lc 16,3); quindi di riconoscimento dei propri limiti, delle proprie incapacità e impotenze («Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno»: Lc 16,3); infine di decisione e scelta preparandosi un futuro: egli agisce compiendo gesti che gli dischiudono un futuro (Lc 16,4-7). Dunque, l’esemplarità di quest’uomo corrotto non sta certo nel suo agire senza scrupoli, ma nel suo discernere realisticamente la situazione critica in cui si viene a trovare e nel saper agire di conseguenza. Anche per Gesù costui è un «figlio di questo mondo» (Lc 16,8)! La domanda di Gesù però riguarda i figli della luce: come mai non sanno discernere l’ora, la vicinanza del Regno e mettere in atto prontamente i gesti di conversione che sono essenziali per la salvezza?

Gesù non demonizza il denaro, ma mette in guardia dalla potenza che esso esercita: l’uomo lo divinizza. «Mammona» è termine connesso alla radice ‘aman che significa «credere». Il vangelo denuncia la seduzione del cuore umano e il pervertimento della verità dell’uomo che il denaro può esercitare. Possiamo dire che esso è l’idolo per eccellenza: nel denaro si «crede» il mercato si nutre di «fiducia». E noi scopriamo la nostra insipienza non appena riflettiamo sul fatto che quel manufatto che è il denaro (è l’uomo che «batte moneta») da mezzo di scambio è divenuto fine, da servo è diventato padrone, crediamo di muoverlo e invece è lui che ci agisce, anzi determina i nostri ritmi quotidiani spingendoci a una frenetica corsa all’accumulo. Per questo Gesù pone un’insanabile contrasto fra «servire Dio e servire il denaro»: «Nessun servo può […] Non potete» (Lc 16,13). Questa parola resta una spina nel fianco di cristiani e chiese ricche in una società opulenta. Il vangelo non da ricette, ma la domanda va almeno fatta risuonare: l’abbondanza di mezzi economici e la potenza di mezzi culturali non rende forse illusoria la sequela Christi? E non la rende anche poco credibile?

Condividere e donare ai poveri sono forme di uso cristiano dei beni suggerito nei vangeli: «Fatevi amici con la disonesta ricchezza». Ovvero: donate ai poveri, gli amici di Dio, ed essi, portatori del giudizio escatologico (Mt 25,31 ss.), potranno accogliervi nelle dimore eterne. Ciò che non è avvenuto al ricco che non ha mai mosso un dito per Lazzaro: ora, dopo la morte, mentre Lazzaro è nel seno di Abramo, il ricco è tra i tormenti, e i due sono separati da un abisso invalicabile (cfr. Lc 16,19-31).

Le parole di Gesù sulla  fedeltà (Lc 16,10-12) svelano che vi è una gerarchia di realtà con differente valore: c’è un «poco» e c’è un «molto», c’è una ricchezza materiale e c’è una vera ricchezza, una ricchezza non quantificabile in cui consiste la propria personale verità. Una ricchezza fatta di umanità, vero capitale che il Dio creatore ha donato all’uomo in forma di immagine e somiglianza con lui.

 

Preghiere e racconti

Perché ascoltandole diventino più avveduti

Le parole che abbiamo letto sono molto chiare nel loro significato letterale e non c’è bisogno di spiegarne i dettagli. Ci dice il Signore stesso perché raccontò questa parabola. Perché, egli dice, i figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce (Lc 16,8). Il Signore non loda l’agire iniquo dell’amministratore, ma la sua avvedutezza. Non lo loda per la frode che ha attuato, ma per l’espediente con il quale ha provveduto al suo futuro. Non sapendo in che modo vivere, poiché non era capace di zappare e si vergognava a mendicare, trovò uno stratagemma particolare: dopo aver dissipato i beni del padrone, alla fine compì questa frode. Viene lodato, dunque, non per una qualche buona azione, ma per la scaltrezza e l’astuzia del suo inganno; siccome ormai non poteva più rubare i beni del suo padrone, li sottrasse di nascosto. E a questa scaltrezza non applaude soltanto il padrone dell’amministratore, ma anche il Signore di tutti, quando dice: I figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce. Quelli sono avveduti nel male più di quanto gli ultimi lo siano nel bene. A stento, infatti, si trovano alcuni cristiani che siano tanto accorti nell’acquistare i beni eterni, quanto sono scaltri costoro nell’acquistare i beni caduchi di questo mondo.

Per questi essi vegliano giorno e notte, faticano, si angustiano e non smettono mai di accumulare tali ricchezze con inganni, furti, rapine, tradimenti, spergiuri, omicidi. E chi può dire a quanta scaltrezza e astuzia ricorrano per ingannarsi a vicenda i figli di questo mondo? Ascoltino dunque i figli della luce e arrossiscano di lasciarsi vincere dai figli di questo mondo. Queste cose sono state scritte perché, ascoltandole, diventino più avveduti, non perché imitando l’agire iniquo dell’amministratore frodino altri o commettano ingiustizie. Perciò viene aggiunto: E io vi dico: Fatevi degli amici con il mammona d’iniquità (Lc 16,9), ma non come fece l’amministratore iniquo. Non frodando l’altrui, ma dando del vostro. Tutte le ricchezze che sono conservate con avarizia, infatti, nuocciono ai propri padroni […] Il Signore continua dicendo: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto e chi è ingiusto nel poco è ingiusto anche nel molto (Lc 16,10). Questo vale in particolare per gli apostoli e per gli altri ministri della chiesa, per i presbiteri. Con questo principio evangelico si dice quello che il Signore aveva detto ai suoi discepoli. Non si devono dunque affidare cose importanti a quelli che nella vita privata non sono stati fedeli e non si sono serviti di quel poco che avevano per opere di amore e di misericordia. Ma quanto a coloro che vediamo, con il poco che possiedono, provvedere volenterosamente ad altri non dobbiamo dubitare della loro fedeltà nell’amministrare. Per questo motivo l’Apostolo ammonisce i vescovi a non essere avidi di denaro né a ricercare un guadagno disonesto (cfr. Tt,7).

(BRUNO DI SEGNI, Su Luca 2,7, PL 165,420C-421C.422A).

La ricchezza

Pensiamo all’episodio emblematico del giovane ricco che non riesce a staccarsi dal fasto del suo palazzo per seguire Cristo (Matteo 19,16-26). La frase paradossale che suggella quell’evento è netta: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli». Luca, che è l’evangelista dei poveri, offre un intero brano centrato sulla ricchezza «disonesta e iniqua» (16,1 -13). In esso ricorre al termine mammona per definire quei tesori materiali che occupano cuore e vita dell’uomo. Si tratta di un vocabolo aramaico che indica i beni concreti, ma che contiene al suo interno la stessa radice verbale della parola amen, che denota la fede.

La ricchezza diventa, quindi, un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona». Eppure questo non significa un masochismo pauperista. Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola. La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).

(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).

Quello che non abbiamo cercato

“Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato. Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui. La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato. A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.

(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).

La porta del cielo

Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: “Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo. Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…

Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo”.

Chiesi a Dio

Chiesi a Dio di essere forte per eseguire progetti grandiosi: Egli mi rese debole per conservarmi nell’umiltà. Domandai a Dio che mi desse la salute per realizzare grandi imprese: Egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio. Gli domandai la ricchezza per possedere tutto: Mi ha fatto povero per non essere egoista. Gli domandai il potere perché gli uomini avessero bisogno di me: Egli mi ha dato l’umiliazione perché io avessi bisogno di loro. Domandai a Dio tutto per godere la vita: Mi ha lasciato la vita perché potessi apprezzare tutto. Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo, ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno e quasi contro la mia volontà. Le preghiere che non feci furono esaudite. Sii lodato; o mio Signore, fra tutti gli uomini nessuno possiede quello che ho io!”

(Kirk Kilgour famoso pallavolista rimasto paralizzato nel ’76 a seguito di un incidente durante un allenamento. La preghiera è stata letta da lui in persona di fronte al Papa durante il Giubileo dei malati a Roma)

Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro?

Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi. Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro. È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria. Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.

Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria. Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza. Vogliono averne sempre di più. Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia. In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro. Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso. Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri. Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri. Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità. Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri. O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano. Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.

Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro. Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo. Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli. Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente. Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità. E sono  necessari criteri etici. Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici. Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia. Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità. È necessaria soprattutto la libertà interiore.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).

«Una cosa ti manca»

In che consiste la tristezza dell’uomo ricco? Nel suo fallire il proprio desiderio, nel lasciarsi vincere dalla paura che lo porta a preferire la sicurezza dei beni all’incertezza della relazione con Gesù, nel chiudersi all’amore, nel precludersi un futuro regredendo nel già noto del suo passato, nel cogliersi in maniera unidimensionale come «uno che ha molto», nel temere la sofferenza della vita interiore e del lavoro di ordinamento della propria umanità a cui Gesù lo invita (Mc 10,18-19). Quest’uomo è posseduto da ciò che possiede e sembra dar ragione in anticipo a Marx quando scrive: «Più si ha e più è alienata la propria vita».

Proprio in questa condizione di «troppo pieno», di fiducia posta in beni esteriori che arrivano a schiavizzare mentre ci si crede liberi, risiede l’ostacolo che le ricchezze pongono alla salvezza.

Entrare nella relazione con Gesù e dunque nello spazio della salvezza implica il doloroso riconoscimento di un vuoto, di una carenza, di una ferita attraverso cui può farsi strada l’azione salvifica del Signore. Non a caso l’uomo ricco è rinviato da Gesù a riconoscere la propria povertà interiore e profonda («Una cosa ti manca») e proprio lì egli fallisce: il possesso delle ricchezze dà sicurezza e consente di rimuovere il doloroso lavoro di riconoscere la propria mancanza. In realtà, dice Gesù, non solo le ricchezze sono un ostacolo, ma la salvezza in quanto tale non è impresa possibile alle sole forze dell’uomo: ogni autosufficienza, di qualunque tipo, ostacola il Regno di Dio. Ma, certamente, il possibile di Dio può incontrare l’impossibile degli uomini (Mc 10,27). Quanto ai discepoli, che hanno abbandonato tutto ciò che possedevano per seguire Gesù, a loro è rivolta la promessa di Gesù del centuple quaggiù, insieme a persecuzioni, e la vita eterna. C’è una benedizione insita nell’abbandonarsi al Signore, ma della promessa del Signore fanno parte anche le persecuzioni, dunque le contraddizioni, le difficoltà. Se il discepolo sa che esse sono parte integrante della promessa del Signore, allora esse potranno non scoraggiarlo o indurlo ad abbandonare.

I privilegi come debiti

La miseria impedisce di essere uomini. La povertà come la concepisce il Vangelo non è per tutti quella di S. Francesco d’Assisi, che abbandonò tutto. Un direttore di azienda può essere povero secondo il Vangelo se ha coscienza che tutti i privilegi sono un debito. Non è obbligato a proporsi l’ideale di lasciare tutto, ma di fare il suo mestiere, di operare affinché ci sia lavoro e salario giusto per tutti. Se vive con questo pensiero, egli è povero secondo il Vangelo.

(Abbè Pierre)

 

Preghiera

Signore, quando credo che il mio cuore sia straripante d’amore e mi accorgo, in un momento di onestà, di amare me stesso nella persona amata, liberami da me stesso. Signore, quando credo di aver dato tutto quello che ho da dare e mi accorgo, in un momento di onestà, che sono io a ricevere, liberami da me stesso. Signore, quando mi sono convinto di essere povero e mi accorgo, in un momento di onestà, di essere ricco di orgoglio e di invidia, liberami da me stesso. E, Signore, quando il regno dei cieli si confonde falsamente con i regni di questo mondo, fa’ che io trovi felicità e conforto solo in Te.

(Madre Teresa di Calcutta)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXV DOM TEMP ORD (C)

XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Esodo 32,7-11.13-14

In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”». Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.

 

Questa lettura viene oggi utilizzata per introdurre il tema più ampiamente sviluppato nella lettura evangelica: quello della misericordia di Dio, che rinunzia a punire il popolo, responsabile di un gravissimo peccato, grazie all’intercessione di Mosé.

     Il racconto del vitello d’oro, che gli Israeliti avrebbero costruito per raffigurare il Dio che li aveva tirati fuori dall’Egitto, appartiene a una sezione del libro dell’Esodo (quella dei cc. 32-34) in cui si intrecciano in maniera inestricabile le tradizioni più antiche del Pentateuco. In particolare, il racconto del vitello d’oro della nostra lettura pare che derivi direttamente dal testo di 1 Re 12,26-28, dove si racconta come Geroboamo, che si era ribellato al figlio di Salomone, di ritorno dall’Egitto, per spezzare ogni vincolo tra le tribù ribelli settentrionali e Gerusalemme, fece fare due torelli d’oro e disse: «Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto» (v. 28). Questa dipendenza può spiegare pienamente l’identità della stessa frase nella nostra lettura (v. 4).

     La colpa qui attribuita agli Israeliti è quella di essere scivolati verso l’assimilazione con i popoli pagani loro contemporanei: con i Cananei, che rappresentavano Bahal-Hadad, dio della tempesta, a cavalcioni su un toro, con una folgore in mano; con gli Egiziani, che a Heliopolis rappresentavano Osiride incarnato nel toro-Apis e a Menfi adoravano il toro-Mnevis nel tempio di Ptah.

     Per la nostra liturgia, sono particolarmente importanti i vv. 13-14, nei quali Mosé, nella figura dell’intercessore, espone la ragione principale che può indurre Dio a perdonare quella colpa: la promessa da lui fatta, con giuramento, ai suoi servi Abramo, Isacco e Giacobbe (Israele).

 

Seconda lettura: 1Timoteo 1,12-17

Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

Nel tempo ordinario, la seconda lettura è indipendente dalle altre due, che sono invece tra loro coordinate. Non accade spesso dunque che il tema di quella si armonizzi perfettamente, con quello delle altre due. Ciò capita per l’appunto questa domenica. L’autore della prima a Timoteo (che quasi certamente non è lo stesso s. Paolo) traccia, nel brano che fa da nostra seconda lettura, il modello ideale di un pubblico rendimentodi grazie alla divina misericordia, che vuole salvi tutti i peccatori.

     Il motivo del ringraziamento, che faceva parte del protocollo epistolare antico, è qui sviluppato mediante il procedimento dell’antitesi tra il prima e il dopo dell’incontro di Paolo con Cristo. Almeno in tre passi delle lettere autentiche di Paolo è tracciato un analogo passaggio tra il prima e il dopo: In Gal 1,13-17; in 1 Cor 15,8-10; in Fil 3,6-14. Ma in nessuno di questi testi il passato di Paolo è descritto come privo di fede e peccaminoso (un bestemmiatore…); che anzi sempre si insiste sul suo zelo per Dio e la sua legge. È invece negli atti degli Apostoli (9,1-16; 22,1-15; 26,9-18) che il prima di Paolo è qualificato negativamente, come quello di un bestemmiatore e del persecutore spietato, che repentinamente, dopo, diventa strumento scelto per il Vangelo di Gesù. Il ritratto di Paolo qui delineato è dunque più vicino a quello che di lui è tracciato nel libro degli Atti, anziché al suo stesso autoritratto. Anche l’espressione «agivo per ignoranza, lontano dalla fede» riporta Paolo alla condizione dei pagani che, secondo Atti 17,30, appartenevano «ai tempi dell’ignoranza». La descrizione a tinte fosche serve all’autore della prima a Timoteo per mettere in risalto la misericordia di Dio, manifestatasi mediante la grazia di Gesù Signore nostro. Serve soprattutto per giungere all’enunciazione di una specie di professione di fede, ritenuta «degna di fede e di essere accolta da tutti», cioè che «Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori».

     Questa succinta professione di fede sintetizza bene il principale messaggio contenuto nella liturgia di questa domenica.

 

Vangelo: Luca 15,1-32 

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 

Esegesi 

     Il capitolo da cui è tratta la lettura evangelica di questa domenica è stato definito da un moderno esegeta «il cuore del terzo vangelo», quasi «il vangelo del vangelo». Si tratta del capitolo 15 del vangelo di Luca. Esso contiene una breve introduzione, che accenna al motivo per il quale Gesù volle impartire il suo particolare insegnamento sopra un tema assai importante, più un’ampia esposizione dottrinale, racchiusa in tre parabole. Nell’introduzione è detto che l’occasione fu la mormorazione di scribi e farisei, i quali si scandalizzavano per il fatto che Gesù ricevesse i peccatori e mangiasse addirittura con loro. Le tre parabole sono quelle della pecora smarrita e poi ritrovata, della moneta perduta e ritrovata, più quella del figlio prodigo che il padre riaccoglie con gioia. Il tema principale, sviluppato nelle tre parabole, è quello della misericordia del Padre, che non gode per la rovina dei suoi figli, ma vuole che si salvino e grandemente gioisce quando il suo piano si realizza.

     Nel ciclo liturgico di quest’anno, che è il ciclo C, la parabole del figlio prodigo, insieme ai tre versetti introduttivi del capitolo, ci è stata già proposta nella quarta Domenica di quaresima. Oggi, 24° Domenica del tempo ordinario, ci è data la possibilità di fare un’ampia riflessione sull’intero capitolo 15 di Luca, proclamando tutte e tre le parabole, oppure di limitarci alla lettura e alla riflessione sopra le due parabole più brevi, quelle della pecora e della moneta smarrite e ritrovate. Alcune osservazioni filologiche ci aiuteranno a capire in profondità il nostro testo.

     Nella frase «si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori» (v. 1), il termine tutti deve certamente intendersi in senso iperbolico; tuttavia, in qualche modo, vi si può leggere un accenno alla possibilità che è offerta a tutti di accostarsi a Gesù.

     Nel v. 2, la mormorazione attribuita a farisei e scribi non deve intendersi come un semplice pettegolare privo di gravità, ma va allineata al peccato grave degli israeliti, i quali, nel deserto, sospettarono che Dio con l’inganno li avesse tirati fuori dall’Egitto, per farli morire di fame e di sete (Es 17,3). Inoltre, l’accusa mossa a Gesù, che riceve i peccatori e mangia con loro, è ritenuta assai grave dagli scribi e dai farisei, perché, presentandosi Gesù come il Messia, egli presentava un’immagine aberrante, a loro giudizio, della comunione escatologica nel Regno di Dio.

     Nel v. 3, può sorprendere l’espressione «disse loro questa parabola», al singolare. La difficoltà si supera dando qui al termine parabola il senso di discorso in parabole.

     Nei vv. 4-7, c’è la parabola della pecora smarrita e ritrovata. La stessa parabola è riportata anche in Mt 18,12-14, nel contesto del così detto discorso comunitario. Abbiamo qui un esempio tipico della moderata libertà con cui le comunità cristiane primitive (e gli stessi evangelisti) accoglievano e riferivano le parole di Gesù, applicandole a situazioni diverse. Nel testo di Matteo, la parabola, inserita nel discorso comunitario, è piegata a illustrare il dovere che ha ogni cristiano di aiutare i propri fratelli traviati a ritornare nell’ovile; il suo vertice è espresso dalle parole: «il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno di questi piccoli». Molti esegeti ritengono che il testo di Luca abbia conservato meglio il senso primitivo della parabola, che sarebbe concentrato sulla conversione (o pentimento) del peccatore, motivo di gioia grande per il Signore infatti espresso nelle parole: «Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.».

     Bisogna anche notare che, rispetto al testo di Matteo, in Luca, la descrizione della scena guadagna molto in vivacità («Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini …», ma il racconto perde in realismo e continuità; infatti, che fine hanno fatto le novantanove pecore lasciate dal pastore nel deserto per andare dietro a quella perduta? Tuttavia la piccola incoerenza narrativa è dovuta al fatto che il senso religioso della parabola è più importante della verosimiglianza della storia: il narratore dimentica addirittura che stava parlando di un gregge e di una pecora e passa a parlare direttamente di giusti e del peccatore convertito.

     Nei vv. 8-10, c’è la parabola della moneta perduta e ritrovata. Essa è esclusiva di Luca e potrebbe anche apparire superflua, perché il suo significato è esattamente uguale a quello della parabola precedente. Ci sono però in Luca altri esempi di parabole abbinate, aventi lo stesso significato: quelle del vestito e dell’otre di vino (5,36-39), quelle del granello di senape e del lievito (13,18-21) e altre. La ripetizione strettamente palestinese, il che esclude che si possa trattare di una creazione letteraria dell’evangelista. La dramma era una moneta equivalente, più o meno, a un denaro (la paga giornaliera che si dava a un bracciante). Anche in questa parabola, il vertice è racchiuso in una frase che parla della «gioiadi Dio per un solo peccatore che si converte». L’espressione «davanti agli angeli…», sembra non aggiunga niente alla frase «in cielo», che si trova nella parabola precedente.

     Ambedue queste parabole, pur riferendosi al peccatore che si converte, puntano l’attenzione esclusivamente su Dio, che cerca e trova qualcosa che rischiava di essere perduto. Si vuol dunque sottolineare che la salvezza del peccatore è principalmente una iniziativa di Dio.

     La terza parabola, quella del figlio prodigo che torna alla casa paterna, allarga la prospettiva precedente, includendo nel suo messaggio il cammino che lo stesso peccatore deve percorrere perché l’attesa del padre sia soddisfatta. Tuttavia, anche qui il vertice della parabola è rappresentato dal comportamento del padre, che fa festa per il figlio ritrovato, come si farebbe per uno che fosse risuscitato dai morti. Questo comportamento simboleggia a forti tinte la misericordia di Dio che, non rifiutando agli uomini di poter disporre liberamente dei suoi doni, resta in vigile attesa del loro ritorno, quando essi si sono sbandati, allontanandosi da lui.

     Nella parabola, la misericordia divina diventa tenerezza ed è ulteriormente sottolineata dal comportamento del figlio maggiore, che non accetta subito di partecipare alla gioia paterna, ma ha bisogno che gli si spieghi come quella misericordia non tolga niente a lui stesso. Solo accogliendo questa spiegazione del padre, il figlio maggiore potrà continuare a godere della casa e dell’affetto paterno: se la rifiutasse, sarebbe lui a restarne privo per sempre, diventando egli stesso un profugo per sempre.

 

Meditazione 

La storia della salvezza è anche la storia della santità di Dio messa a confronto con il peccato dell’uomo. Di fronte al popolo peccatore l’intercessione di Mosè conduce Dio a desistere dal proposito di nuocere al popolo (I lettura); di fronte al peccato dei due figli, peccato come allontanamento e rottura di relazione nel figlio minore, peccato come pretesa, gelosia e risentimento nel maggiore, il padre della parabola lucana si sottomette e ad entrambi narra l’amore fedele e mite (vangelo).

L’unica parabola narrata da Gesù (Gesù «disse loro questa parabola»; Lc 15,3), in realtà, ne contiene tre. Esse narrano l’esperienza di una perdita e di un ritrovamento. I due momenti non sono simultanei e il primo aspetto è quello della perdita. La gioia del ritrovamento è preceduta dal dolore per la perdita. Perdita di una pecora, perdita di una moneta, e infine, perdita di un figlio. Ma l’allontanarsi dalla casa paterna di un figlio diviene perdita e morte che il padre esperimenta in se stesso. E se in Dio vi è la gioia del ritrovamento (cfr. Lc 15,7.10), certamente vi è anche il dolore per la perdita. L’unica e trina parabola sintetizza così la storia della salvezza: Dio in cerca di Adamo uscito dal giardino della relazione. Le strade che Dio percorre sono le infinite vie della perdizione umana: è lui che cerca l’uomo, bussa alla sua porta, chiede all’uomo. La parabola presenta il padre come colui che attende il figlio che se n’è andato di casa e gli esce incontro quando lo scorge tornare, e che esce incontro al figlio maggiore e lo prega di entrare per far festa con il fratello. Dio in attesa dell’uomo, Dio che prega l’uomo.

Dalla parabola emerge  la forza dell’inermità del padre. Egli appare passivo: non mette in guardia il figlio minore dai pericoli che può incontrare andandosene da casa, non lo rimprovera quando ritorna né gli chiede penitenze o espiazioni e nemmeno un ‘fare i conti’ prima di essere eventualmente riammesso nella casa da dove ha voluto andarsene. E proprio questo amore incondizionato, che rifugge da atteggiamenti punitivi, è la via aperta al giovane per fare esperienza del perdono. Il padre non costringe il figlio maggiore ad entrare, ma gli esce incontro, lo prega, non lo rimprovera, ma resta nella dolcezza dell’amore e proprio questo atteggiamento conduce il figlio ad esprimere ciò che sente e prova. Il padre non fa nulla e accoglie anche l’espressione del suo odio per il fratello e del suo risentimento verso di lui, solamente ricordandogli che lui stesso è un figlio e che colui che è tornato è suo fratello (Lc 15,32). E questo atteggiamento esprime la fiducia che egli accorda al figlio, vera matrice in cui egli potrà rinascere come figlio, così come il minore ha trovato nell’abbraccio paterno l’alveo della propria rigenerazione a figlio.

La riconciliazione può avvenire grazie a questa debolezza: è ciò che è avvenuto nella croce di Cristo. La riconciliazione attuata da Cristo nasce dal movimento di abbassamento e di kenosi divina che ha raggiunto il suo apice nella croce. Lo scandalo della rivelazione cristiana afferma che è l’impotenza raggiunta da Dio nella croce del Figlio che opera la riconciliazione (Rm 5,8-11 ).

La strada percorsa dal figlio minore va dalla pretesa all’impossibilità: dal «Dammi!» (Lc 15,12) imposto al padre, al «nessuno gli dava nulla» (Lc 15,16) riferito alle carrube che i maiali mangiavano. Il figlio maggiore è invece tutto nel risentimento e nella collera: «Non mi hai mai dato» (Lc 15,29). Entrambi, figlio ribelle e figlio servo, non hanno saputo cogliere che il dono grande è la relazione filiale.

La casa, segno di comunione che dovrebbe unire i due figli, diviene luogo da cui uno fugge e in cui l’altro non vuole entrare. L’eredità, invece di accomunare, divide i fratelli, e la festa da uno è subita e dall’altro è rifiutata. Solo una prassi di amore incondizionato, come quella del padre, può fare della chiesa il luogo della riconciliazione, della fraternità, della trasmissione dell’amore e della condivisione della gioia. Solo quell’amore fa della chiesa il luogo del perdono e della festa.

 

Preghiere e racconti 

Vivere è un continuo cammino di trasformazione

Tutta la pesante zavorra di negatività che hanno messo sulle mie spalle ha provocato in me una condizione di dolore alle volte difficilmente sopportabile, ma è stato proprio grazie a quella zavorra che ho potuto diventare quella che sono.

Se sono una persona mite, è perché so di poter essere anche estremamente violenta. Se sono coraggiosa, è solo perché il mio sentimento predominante è la paura. Se so scrivere storie che toccano il cuore di molti, è perché il mio cuore è costantemente aperto e pronto ad accogliere le inquietudini, le contraddizioni e le sofferenze del mondo.

Vivere è un continuo cammino di trasformazione, è questo il segno dell’uomo. Gli animali vivono immersi in un’innocente circolarità, noi invece siamo sempre spinti ad andare avanti, a capire i nostri errori e i nostri difetti e saperli trasformare in pregi.

Lottare perché la Luce conquisti sempre più spazio in noi, sottraendo al buio, è il compito che attende ogni persona che si metta alla ricerca della vera libertà. Non avrei potuto, infatti, affrontare questa straordinaria avventura se i miei genitori non mi avessero dato il dono della vita, per questo sarò loro eternamente grata.

 (Susanna TAMARO, Ogni angelo è tremendo, Bompiani, Milano, 2013, 264-265)

 

 

 

Tornare a casa e stare dove Dio dimora

(tratto dal libro di Henri J.M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figlio prodigo, Brescia, Queriniana 21994, pp. 212. Commento spirituale al dipinto di Rembrandt, +1669, attualmente nel museo di San Pietroburgo).

Il figlio più giovane parte

Andarsene da casa è molto più di un evento storico legato al tempo e al luogo. E’ la negazione della realtà che appartengo a Dio in ogni parte del mio essere, che Dio mi tiene al sicuro in un abbraccio eterno, che sono veramente scolpito nelle palme delle mani di Dio e nascosto alla loro ombra.

Quando dimentico la voce del primo amore incondizionato, altri suggerimenti possono facilmente cominciare a dominare la mia vita e trascinarmi nel “paese lontano”: rabbia, risentimento, gelosia, desiderio di vendetta, sensualità, avidità, antagonismi e rivalità [«ti amo se sei bello, intelligente e ricco. Ti amo se sei istruito, hai un buon lavoro e le giuste conoscenze. Ti amo se produci molto, vendi molto e compri molto»] sono i segni evidenti che me ne sono andato da casa.

Il padre non poteva costringere il figlio a rimanere a casa. Non poteva imporre con la forza il uso amore al prediletto. Doveva lasciarlo andare in libertà, anche se sapeva il dolore che ciò avrebbe causato sia al figlio che a se stesso. E’ stato l’amore a impedirgli di trattenere il figlio a casa a tutti i costi. E’ stato l’amore a consentirgli di lasciare che il figlio vivesse la sua vita, anche a rischio di perderlo.

Sono amato a tal punto che Dio mi lascia libero di andarmene da casa. La benedizione c’ è fin dall’inizio. L’ho lasciata e persisto a lasciarla. Ma il Padre continua a cercarmi sempre con le braccia tese per accogliermi di nuovo e sussurrarmi ancora all’orecchio: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto»

Il ritorno del figlio più giovane

Il giovane abbracciato e benedetto dal padre è un uomo povero, molto povero. L’unico segno di dignità che gli rimane è la piccola spada che gli pende dal fianco, l’emblema della sua nobiltà. Pur in mezzo alla degradazione, non ha perso del tutto la consapevolezza di essere ancora il figlio di suo padre.

Vedo davanti a me un uomo che se n’è andato lontano in un paese straniero e ha perso tutto ciò che aveva con sé. Vedo vuoto, umiliazione e sconfitta. Lui che era tanto simile al padre, ora sembra peggiore dei servi di suo padre. E’ diventato come uno schiavo.

Il figlio più giovane si rese pienamente conto della sua totale rovina quando più nessuno nel suo ambiente mostrò il benché minimo interesse nei suoi confronti. Lo avevano tenuto in considerazione soltanto finché era stato utile ai loro interessi. Ma quando non ebbe più denaro da spendere e doni da fare, per loro cessò di esistere.

E’ difficile immaginare cosa significhi essere un individuo del tutto estraneo, una persona cui nessuno mostra un qualche segno di riconoscimento. La vera solitudine arriva quando non si riesce più a sentire di avere delle cose in comune. Ogni volta che incontro una persona nuova, in lei cerco sempre qualcosa che si possa avere in comune. Meno abbiamo in comune, più difficile è stare insieme e più ci sentiamo alienati.

Il figlio più giovane si era talmente sradicato da ciò che dà vita, -famiglia, amici, comunità, conoscenti, e persino vitto-, che si rese conto che la morte sarebbe stata il fatale prossimo passo.

In quel momento critico, quale molla lo fece optare per la vita? Fu la riscoperta della parte più profonda di se stesso: rimanere sempre il figlio del proprio padre.

E’ stata la perdita di ogni cosa a portarlo alla radice della sua identità. Quando si è trovato a desiderare di essere trattato come uno dei porci, si è reso conto di non essere un porco, ma un essere umano, un figlio di suo padre.

Dio dice: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui…”. Vogliamo accettare il rifiuto del mondo che ci imprigiona oppure rivendicare la libertà dei figli di Dio? A noi scegliere.

Quando Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine, vide che quanto aveva fatto «era cosa molto buona», e, nonostante le voci oscure, né uomo né donna potranno mai cambiare quell’evento.

Nella strada di ritorno non preparare sceneggiature [«mi leverò e andrò da mio padre…»] devo semplicemente credere che anche se i miei fallimenti sono grandi «la grazia è ancora più grande».

Una delle più grandi provocazioni della vita è ricevere il perdono di Dio. C’ è qualcosa in noi, essere umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo. Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie tenebre sono troppo grandi per essere dissolte. Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò da garzone. Ma voglio davvero essere totalmente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? 

Il figlio maggiore parte

Non si è perduto soltanto il figlio più giovane, che se n’ è andato da casa per cercare libertà e felicità in un paese lontano, ma anche quello che è rimasto.

Esteriormente faceva tutte le cose che si suppone faccia un bravo figlio, ma, interiormente, si era allontanato da suo padre. Faceva il proprio dovere, lavorava sodo ogni giorno e adempiva tutti i suoi obblighi, ma era diventato sempre più infelice e meno libero. [Sono nato, battezzato, cresimato nella Chiesa e sono stato obbediente ai miei genitori, insegnanti e al mio Dio. Non sono mai scappato di casa, non ho mai sprecato il mio tempo e il mio denaro nella ricerca del piacere e non mi sono mai perduto in «dissipazioni e ubriachezze». Per tutta la vita sono stato piuttosto responsabile, tradizionalista e legato alla famiglia. Ma, con tutto ciò, posso in realtà essermi perduto proprio come il figlio più giovane. Ho visto la mia gelosia, la mia rabbia, la mia permalosità, la mia caparbietà, il mio astio e soprattutto la sottile convinzione di essere sempre nel giusto. Ero certo il figlio maggiore, ma perduto come il fratello minore, anche se ero rimasto a casa tutta la vita. Avevo lavorato moltissimo nell’azienda agricola di mio padre, ma non avevo mai gustato pienamente la gioia di essere a casa].

Nel lamento del figlio maggiore [«ecco, ti ho servito da tanti anni…»] l’obbedienza e il dovere sono diventati un peso e il servizio è una schiavitù.

Il figlio giovane ha peccato in un modo che possiamo facilmente identificare. Abbiamo un tipico fallimento umano, piuttosto facile da comprendere e compatire.

Lo smarrimento del figlio maggiore è molto più difficile da identificare. Dopo tutto, faceva le cose perbene. All’esterno era irreprensibile. Ma, di fronte alla gioia del padre al ritorno del fratello più giovane, una forza oscura erompe in lui e ribolle in superficie. Improvvisamente emerge una persona rimasta nascosta nel subconscio, anche se si era fatta sempre più forte e operante nel corso degli anni.

Dall’esperienza della mia vita, so con quanto zelo ho cercato di essere buono, ben accetto, amabile e di buon esempio agli altri. Mi sono sforzato, in modo cosciente, di evitare le insidie del peccato e ho sempre avuto paura di cedere alla tentazione. Ma nonostante questo, sono subentrati una severità e un fervore moralistici, -e perfino un tocco di fanatismo- che mi hanno reso sempre più difficile sentirmi a casa nella casa di mio Padre. Sono diventato meno libero, meno spontaneo, meno allegro, e gli altri hanno finito per vedermi sempre più come una persona piuttosto “pesante”.

E’ il lamento che grida: «Ho faticato tanto, ho lavorato a lungo, mi sono dato sempre da fare e ancora non ho ricevuto quello che altri ottengono tanto facilmente. Perché la gente non mi ringrazia, non mi invita, non si diverte con me, non mi rende omaggio, mentre presta tanta attenzione a coloro che prendono la vita con disinvoltura e noncuranza?».

E’ difficile vivere accanto a qualcuno che si lamenta e pochissime persone sanno come rispondere a chi rifiuta se stesso. La tragedia è che spesso le lamentale, una volta espresse, conducono a ciò che più si teme, e cioè a un ulteriore rifiuto.

Ogni volta che ci lamentiamo per non saper accettare noi stessi, perdiamo la spontaneità al punto che non riusciamo più a lasciarci coinvolgere dalla gioia che è intorno a noi. Gioia e risentimento non possono coesistere.

Il ritorno del figlio maggiore

Anche il figlio maggiore ha bisogno di essere ritrovato e ricondotto alla casa della gioia.

Che io sia il figlio minore o il figlio maggiore, l’unico desiderio di Dio è di portarmi a casa. Arthur Freeman scrive: «Il padre ama ogni figlio e dà ad ognuno la libertà di essere ciò che vuole, ma non può dar loro la libertà che non si sentiranno di assumere o che non comprenderanno adeguatamente. Il padre sembra rendersi conto, al di là dei costumi della società in cui vive, del bisogno dei propri figli di essere se stessi. Ma egli sa anche che hanno bisogno del suo amore e di una “casa”. Come si concluderà la storia dipende da loro. Il fatto che la parabola non abbia finale garantisce che l’amore del padre non dipende da una conclusione appropriata del racconto. L’amore del padre dipende solo da lui e fa esclusivamente parte del suo carattere. Come dice Shakespeare in uno dei suoi scritti: “L’amore non è amore se muta quando trova mutamenti”».

Il padre

La risposta libera e spontanea del padre al ritorno del figlio più giovane non implica alcun confronto con il figlio maggiore. Al contrario, desidera ardentemente farlo partecipare della sua gioia. Il nostro Dio non fa paragoni.

Il cuore del padre va incontro ai due figli; li ama entrambi; spera di vederli insieme come fratelli intorno alla stessa tavola; vuole che sentano che, per quanto diversi, appartengono alla stessa casa e sono figli dello stesso padre. Il padre quasi cieco vede un intero orizzonte. La sua è una vista che comprende lo smarrimento de donne e uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che capisce con compassione immensa la sofferenza di coloro che hanno scelto di andarsene da casa, che ha pianto un mare di lacrime quando si sono trovati nell’angoscia e nel dolore. Il cuore del padre arde del desiderio di riportare i figli a casa.

Come avrebbe voluto parlare loro, metterli in guardia contro i tanti pericoli che avrebbero affrontato e convincerli che a casa si può trovare tutto quello che  cercano altrove! Quanto avrebbe voluto trattenerli con la sua autorità paterna e tenerli vicino a sé perché non si facessero del male!

Ma il suo amore è troppo grande per comportarsi così. Non può forzare, costringere, spingere o trattenere. L’immensità del amore costituisce anche la sua sofferenza.

Tanto profondo è il dolore perché tanto puro è il cuore. Dal profondo luogo interiore dove l’amore abbraccia tutto il dolore umano, il Padre raggiunge i suoi figli.

Dio ci ama prima che qualunque essere umano possa mostrarci amore.

Non sarebbe bello aumentare la gioia di Dio lasciandomi trovare e portare a casa da lui e celebrare insieme il mio ritorno? Non sarebbe meraviglioso far sorridere Dio dandogli la possibilità di trovarmi e amarmi prodigalmente? So accettare che sono degno di essere cercato? Credo che Dio desideri davvero stare soltanto con me?

Il padre esige che si faccia festa

Mentre il figlio si è preparato ad essere trattato come un garzone, il padre esige che gli venga dato il vestito riservato agli ospiti di riguardo. Il padre veste il figlio con i simboli della libertà, la libertà dei figli di Dio.

Dio vuole fare festa con noi. Questo invito al banchetto è un invito all’intimità con Dio.

Dio si rallegra. Non perché i problemi del mondo sono stati risolti, non perché tutto il dolore e la sofferenza umani sono giunti alla fine, e nemmeno perché migliaia di persone si sono convertite e ora lo stanno lodando per la sua bontà. No, Dio di rallegra perché uno dei suoi figli che era perduto è stato ritrovato. Ciò a cui sono chiamato è partecipare a quella gioia. E’ la gioia di vedere un figlio che cammina verso casa.

Quando ancora sei lontano, vede e ti corre incontro

Padre, dice il figlio minore. Quale misericordia, quale tenerezza in colui che, pur essendo stato offeso, non rifiuta di sentirsi dare il nome di padre! Dice il figlio: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te (Lc 15,18) […] Così diceva dentro di sé il figlio. Ma non basta parlare se non vieni al Padre. Dove cercarlo, dove trovarlo? Innanzitutto alzati! Lo dico per chi stava seduto e dormiva. Per questo l’Apostolo dice: Alzati, o tu che dormi, e levati di tra i morti (Ef 5,14) […] Alzati, vieni di corsa in chiesa: qui c’è il Padre, qui c’è il Figlio, qui c’è lo Spirito santo. Ti corre incontro colui che ti sente conversare nel segreto del tuo cuore. Quando ancora sei lontano, vede e ti corre incontro. Vede nel tuo cuore, corre perché nessuno ti trattenga e per di più ti abbraccia. Nel suo correre incontro vi è la sua prescienza, nell’abbraccio la misericordia e, vorrei dire, vi sono i sentimenti del suo amore paterno. Si getta al collo di chi è caduto per rialzarlo e perché si volga al cielo a cercare il suo Creatore colui che è oppresso dai peccati e chino verso le cose terrene. Cristo ti si getta al collo per toglierti dalla nuca il giogo della schiavitù e porre sul tuo collo il giogo soave (cfr. Mt 11,30). Non vi sembra che si sia gettato al collo di Giovanni, quando questi riposava sul petto di Gesù, con la testa rivolta all’indietro? E così il Verbo che era presso Dio vide (cfr. Gv 1,1), poiché era rivolto alle altezze. Il Signore vi si getta al collo quando dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e io vi darò riposo; prendete su di voi il mio giogo che è leggero» (cfr. Mt 11,28-30).

(AMBROGIO, Sul vangelo di Luca 7, 224.229-230, SC 52, pp. 93-95).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

 PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIV DOM TEMP ORD (C)

XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Sapienza 9,13-18

Quale, uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni. A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito? Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza».

 

È un brano della preghiera di Salomone per ottenere la sapienza. Lo spunto è preso dai testi di 1Re 3,6-9 e 2Cr 1,8-10, in cui il Signore invita Salomone a fargli delle richieste che egli avrebbe esaudite e questi non chiede lunga vita, né ricchezza, né la morte dei suoi nemici, ma domanda solo la saggezza per governare bene il suo popolo. Questa richiesta piace al Signore, che l’esaudisce donandogli il discernimento.

     La strofa della preghiera che viene letta in questa domenica insiste sul tema della debolezza umana e ha al suo centro ancora la richiesta della sapienza (v. 17). I progetti del Signore infatti per la vita dell’uomo sono celesti e si possono comprendere solo con uno spirito che viene dall’alto. Solo con il dono del discernimento l’uomo può percorrere la via che lo conduce alla salvezza. Senza il dono della sapienza e dello spirito, considerato come fonte di rinnovamento e di vita interiore, non è possibile per l’uomo conoscere la volontà di Dio e trovare la vita.

     Questo tipo di sapienza non si ottiene con i propri sforzi: può essere solo invocata dall’alto.

 

Seconda lettura: Filemone 1,9-10.12-17

Carissimo, ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore. Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario. Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore. Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.

 

La lettera a Filemone conta in tutto 25 versetti: è la più breve dell’epistolario paolino. Paolo parla di se stesso come prigioniero per Gesù Cristo. Forse si trova a Roma, perché la sua situazione non è molto dissimile all’arresto domiciliare romano descritto in Atti 28. L’apostolo chiede a Filemone di accogliere lo schiavo Onesimo, che era fuggito dal padrone — forse per malefatte — non più come schiavo ma come fratello nel Signore. Dice di averlo generato, perché Onesimo era diventato cristiano per opera sua durante la prigionia. Paolo non contesta la validità giuridica e sociale della schiavitù. Inserendo però in quella tremenda struttura lo spirito del vangelo, la faceva scoppiare dal suo interno.

 

Vangelo: Luca 14,25-33

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: 

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
 

 

Esegesi 

     Gesù sta parlando alle folle e indica loro quali siano le condizioni per seguirlo e per essere suoi discepoli. Egli vuole essere scelto come l’assoluto e determinante nella vita del discepolo.

     Chi vuole seguire la vita di Cristo deve «non amare» il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle. Gesù ha spiegato con la vita che cosa significhi. Ecco le sue parole alla madre e al padre quand’era ancora ragazzo: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). E durante la vita pubblica: «mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21). Solo chi è veramente libero da ogni affetto che lo trascini a adorare gli idoli dei genitori, dei parenti e degli amici, può mettersi in cammino con Gesù Cristo.

     Una seconda condizione è odiare la «propria vita». I progetti di Gesù sulla vita del discepolo sono sempre sorprendenti. Solo chi è disposto a lasciare che i propri progetti vengano sconvolti può mettersi in cammino con lui.

     La terza condizione è «portare la propria croce». La croce è il simbolo della storia concreta e personale di ogni uomo e donna chiamati a seguire Gesù. Significa vincere ogni giorno la seconda tentazione che Gesù ha avuto all’inizio della vita pubblica, quella di chiedere miracoli a Dio, perché si è scontenti della propria situazione familiare, sociale, ecclesiale. Non è possibile seguire Gesù mormorando continuamente nel proprio cuore come la generazione testarda del deserto.

     Quarta condizione: «rinunciare a tutti i propri averi». Gesù è il vero figlio d’Israele che ha compiuto le esigenze del credo ebraico recitato ogni giorno, lo shemà, in cui si dice di amare Dio con tutte le forze, o meglio — secondo traduzione aramaica del tempo — con tutto mammona. Anche il discepolo, che vuole seguire Gesù, diventerà un vero figlio d’Israele, se amerà Dio rinunziando a tutti i propri averi. Si farà così un tesoro nel cielo e allora anche il suo cuore sarà nel cielo, ma solo da lì discende la vita vera, e la felicità piena.

 

Meditazione 

     La sapienza come coscienza della alterità del volere di Dio rispetto al volere umano per poter abitare la distanza fra uomo e Dio (I lettura) e rendere praticabile l’«impossibile sequela» del Cristo (vangelo): questa può essere colta come tematica unificante le letture odierne. La sapienza evangelica consiste nel calcolare ciò che non è calcolabile e predisporsi con libertà e amore alla rinuncia radicale che sola consente la sequela Christi.

     «In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:  …» (Lc 14,25 ss.). La quantità, il numero, non incanta Gesù, anzi lo preoccupa. Gesù non esita a mettere in guardia i tanti che lo seguono ponendoli di fronte alle esigenze dure della sequela e quasi scoraggiandoli. Dovrebbe preoccuparci il fatto che questa preoccupazione di Gesù non sia la nostra e che noi ci preoccupiamo proprio del contrario, del numero basso, della scarsità dei praticanti. A costo di perdere aderenti, Gesù non esita a proclamare con vigore la durezza delle esigenze della sequela. L’esigenza non va edulcorata illudendo circa la facilità della sequela. Seguire Gesù forse è semplice, ma certamente non è facile. Anzi, Gesù per tre volte (Lc 14,26.27.33) parla di una impossibilità: «Non può essere mio discepolo». Vi sono condizioni da ottemperare, pena il fallimento della sequela, la sua impraticabilità.

     Anzi, in fondo non vi è che una esigenza imprescindibile che si situa sul piano della relazione con Gesù, il Signore («viene a me», «mio discepolo», «viene dietro a me») e non sul piano delle prestazioni. La sequela richiede, come istanza basilare, di rivolgere al Signore tutto il cuore: essa è un evento nell’ordine dell’amore, e l’amore è un lavoro, una fatica, un’ascesi. Evento di amore, la sequela è, simultaneamente, evento di libertà. Le esigenze della sequela che Gesù pone al discepolo sono la necessaria pedagogia verso la libertà e l’amore.

     I legami famigliari (Lc 14,26), il possesso di beni (Lc 14,33), l’attaccamento stesso alla «propria vita» (Lc 14,26) sono chiamati a vedere regnare il Signore su di essi. Si tratta di amare il Signore con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. E se l’amore è questione di spazio interiore, di far spazio all’altro, allora esso si nutre della preziosità del vuoto, della ricchezza della mancanza, della grazia della carenza. Al contrario, il possesso, colmandoci, ci ottura interiormente, ci sazia, ci chiude in noi stessi, ci rende preoccupati di noi stessi, impedendoci di riconoscere la povertà profonda che è lo spazio aperto all’accoglienza dell’amore. Il carattere esigente della sequela di Gesù è connesso alla difficoltà di apprendere l’arte di amare, ed è connesso al nostro preferire la facilità del possedere cose alla fatica della libertà e dell’amore. Gesù chiede ai suoi seguaci di porre al cuore delle relazioni con le persone a loro care la relazione con lui. Ma questo significa porre al cuore del nostro cuore la relazione con il Signore. Insomma, le esigenze della sequela sono le esigenze dell’amore.

     La sequela è esigente perché il discepolo è chiamato non solo a iniziare, ma anche a portare a compimento (Lc 14,28.30). Come per costruire una torre o affrontare una battaglia vi è un indispensabile, così anche per la sequela. Ma l’indispensabile per la sequela è la disponibilità a perdere tutto, non solo i beni, ma anche «la propria vita» (Lc 14,26). Il bene da possedere è la rinuncia ai beni e l’arte da imparare è l’arte di perdere, di diminuire, di non cadere nelle maglie del possesso, della logica dell’avere. Gesù «svuotò se stesso» (Fil 2,7); «Dio è Dio perché non ha niente» (Barsanufio). Occorre libertà e leggerezza per condurre a termine il lungo cammino della vita percorso come sequela di Cristo. L’amore è chiamato a divenire responsabilità e la libertà perseveranza: lì si situa la necessaria rinuncia, purificazione, spogliazione. Le esigenze della sequela hanno dunque a che fare con il tutto della persona (il suo cuore) e con il tutto del suo tempo, con la durata della sua vita. E ci mettono in guardia dal rischio di lasciare a metà l’opera intrapresa.

 

Preghiere e racconti 

Seguire Gesù

Chi è animato da un imperioso desiderio di seguire il Cristo non può più tener conto di nulla in questa vita: né dell’affetto di parenti e amici, quando si oppone ai comandamenti del Signore, poiché è proprio allora che si applicano le parole: «Se uno viene a me senza odiare suo padre e sua madre…»; né del timore degli uomini, quan­do distoglie dal vero bene, come hanno fatto in modo eccellente i santi, i quali hanno detto: «È meglio obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»; né, infine, degli scherni con cui i malvagi tormenta­no i buoni, poiché non bisogna lasciarsi vincere dal disprezzo.

(Basilio, Le mole monastiche)

L’avvenire

Se il credere in lui è l’essenza stessa della vita cristiana, ne conse­gue che questa vita consiste nel rischiare ogni cosa sulla parola di Cristo: tutto ciò che abbiamo per ciò che non abbiamo, nobilmente e generosamente, senza impulsività né leggerezza, senza sapere esattamente ciò che facciamo, a che cosa rinunciamo, e neppure ciò che ne avremo in cambio. Senza certezza della ricompensa, del­l’ampiezza del sacrifico che ci sarà richiesto, basandoci su di lui con un totale rispetto, fidandoci di lui, aspettando da lui il compimento della sua promessa. Mettendo in lui la nostra speranza di riuscire a soddisfare i nostri impegni. E così, avanzando sotto ogni aspetto, senza timore né ansia, verso l’avvenire.

(J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, IV 220)

Il bambino e il re

Un bel bambino nudo si recò un giorno a trovare Maestro Eckart. Questi gli chiese da dove venisse. Rispose: Vengo da Dio. —Dove lo hai lasciato? — Nei cuori, sorgenti di virtù. — Dove stai andando? — Da Dio. — Dove lo troverai? — Dove mi sono spogliato di tutto il creato. —Chi sei? — Un re. — Dov’è il tuo regno? —Nel mio cuore. — Fa’ attenzio­ne che nessuno lo condivida con te. — Faccio attenzione. Allora lo fe­ce entrare nella sua cella e gli disse: Rivestiti con il saio che vuoi. —Così non sarò più re! E scomparve. Era Dio che aveva passato un istante con lui.

(J. Chuzeville, I mistici tedeschi dal XIII al XIX secolo)

La risposta

Noi balliamo un po’ al mattino nella nostra vita

come un dito dimagrito nell’anello di un tempo.

Siamo diventati più piccoli, più umili

a causa dei sogni? Più liberi in ogni caso

che non lungo una vita in cui il tempo ci stringe

ed ecco che occorrerebbe scegliere di nuovo

la moglie, i figli, la professione, la casa.

Togliamo o conserviamo l’anello?

Ognuno attorno al letto attende una risposta

e il Cristo silenzioso che ci ha risvegliati

è l’ultimo a porre la domanda.

(J.P. Lemaire, La rotta)

La rinuncia a se stessi

Quando una situazione umana ci chiede una totale rinuncia a noi stessi, istintivamente cerchiamo il compromesso o semplicemente imbocchiamo la strada della fuga; ci accomuniamo agli apostoli, che anch’essi sono fuggiti di fronte al realismo della Passione di Gesù.

A tanti livelli e su tanti piani dobbiamo cercare di smascherare le forme di fuga che caratterizzano il nostro preteso “servizio agli altri”.

Quante volte a livello della famiglia, ci lasciamo andare alla ricerca soltanto della gratificazione, dell’affermazione di noi stessi e non accettiamo le persone che ci sono vicine, così come sono, nella loro realtà; le vorremmo sempre diverse e ci arrovelliamo?

Quante volte nell’ambito professionale ci lasciamo trascinare solo dall’interesse e non cerchiamo di rendere un servizio fino in fondo, servizio che ci chiede di uscire da noi stessi, di prendere parte in qualche modo alla croce e di partecipare alla sua forza rivelatrice?

Quante volte di fronte alle richieste che i nostri fratelli avanzano, noi manifestiamo disagio, stizza, rifiuto?

Ecco: tante realtà semplici della nostra vita quotidiana in cui Gesù dalla croce ci chiede di operare una profonda conversione, di metterci davvero in ginocchio davanti alla croce per coglierne il realismo e la fedeltà che cambiano la vita.

Donarsi a tutti non appartenendo a nessuno

Il sacerdote deve amare tutti non appartenendo a nessuno. Un modo di sentire che non rientra nella percezione comune. Si tratta di amore che prevede di darsi senza ricevere un amore simmetrico, perché la mercede egli la ottiene non dall’amore umano ma da quello divino. Sembra una scissione innaturale dell’amore, che prevede nella dinamica umana la partecipazione simultanea. Io ti amo perché mi ami, e sento di doverti amare sempre più, perché tu possa voler bene ancora di più.

Quello del sacerdote è invece un amore gratuito, che manca della parte che proviene dall’altro. E per questo egli giunge ad amare anche chi non lo ama, chi lo ignora, persino chi lo detesta.

Si tratta di un paradosso che però è ben rappresentato nella figura di Cristo, che non solo ha detto di amare anche i nemici e di perdonare chi ci ha procurato danno e dolore, ma addirittura di porgere l’altra guancia per essere pronti a ricevere un altro affronto, un’altra mortificazione.

Del danno ingiustamente subito si offre il pieno perdono e la totale comprensione fino a stabilire che la violenza non fa parte mai della risposta del sacerdote, perché egli non fa altro che imitare Cristo, che così ha detto e così ha mostrato di fare. […]

Non vi è dubbio che questa condizione d’amore è difficile, ma il sacerdote è anche consapevole di potersi fondare sulla forza di un amore ideale, di un amore verso Dio. La parola “ideale” è probabile che sia inadatta, ma interpreta il concetto psicologico di sublimazione dell’amore in idee e in immagini astratte e dunque il trasferimento di un amore carnale in uno puramente spirituale, si potrebbe dire platonico. Una dimensione che nel sacerdote raggiunge però espressioni concrete (incarnate), perché il Dio a cui si lega, parla, quel Dio è presente, quel Dio vive con lui quotidianamente. È importante che tutto ciò sia reale e non una congettura, non uno spostamento, non solo una sublimazione, che rimanderebbe sempre al problema della mancanza d’amore umano. I meccanismi di difesa non permettono mai di risolvere il bisogno d’amore di cui il sacerdote deve essere consapevole, ma anche esperimentare che l’amore che riceve dalla comunità e da Dio valgono la rinuncia insita nella scelta sacerdotale.

Del resto Cristo ha mostrato di essersi dedicato tutto all’amore per gli uomini sostenuto dall’amore grandissimo del Padre.

(Vittorino ANDREOLI, Preti, Milano, Piemme, 2009, 82-83; 86).

Svuotamento

Un maestro di sapienza e di spiritualità, noto per la saggezza delle sue dottrine, ricevette la visita di un professore universitario, che era andato da lui per interrogarlo sul suo pensiero.

Il saggio servì del tè: colmò la tazza del suo ospite e poi continuò a versare, con espressione serena e sorridente. Il professore guardò traboccare il tè, tanto stupefatto da non riuscire a chiedere spiegazione di una distrazione così contraria alle norme più elementari della buona educazione. Ma a un certo punto non poté più contenersi: «È ricolma! Non ce ne sta più», gridò con agitazione.

«Come questa tazza», disse il saggio imperturbabile, «tu sei ricolmo della tua cultura, delle tue opinioni e congetture erudite e complesse. Come posso parlarti della mia dottrina, che è comprensibile solo agli animi semplici e aperti, se prima non vuoti la tua tazza?».

(L. Vagliasindi (ed.), La morale della favola, Milano, Gribaudi, 1983, 11-12).

Esci dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre

Dobbiamo ora parlare delle rinunce. Esse sono tre, come attesta la tradizione patristica e l’autorità delle Scritture, e le dobbiamo adempiere con ogni nostro impegno. La prima è materiale; con essa rinunciamo a tutte le ricchezze e a tutti i beni di questo mondo; con la seconda rinunciamo alle abitudini della vita passata, ai vizi e alle passioni dello spirito e della carne. Con la terza richiamiamo il nostro spirito da tutte le realtà presenti e visibili, contempliamo unicamente le realtà future e non desideriamo se non le realtà invisibili. È necessario compierle tutte e tre; leggiamo che questo il Signore l’aveva comandato anche ad Abramo quando gli disse: Esci dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre (Gen 12,1). Esci dalla tua terra, cioè: rinuncia ai beni di questo mondo e alla ricchezze terrene. In secondo luogo: dalla tua parentela, cioè: rinuncia alla tua vita e alle abitudini di un tempo che sono unite a noi fin dalla nascita a motivo di una specie di affinità o di parentela di natura e di consanguineità. In terzo luogo: dalla casa di tuo padre, cioè da ogni ricordo di questo mondo visibile ai tuoi occhi. Abbiamo infatti due padri: uno è quello che dobbiamo abbandonare, l’altro lo dobbiamo cercare. Davide fa dire a Dio queste parole: Ascolta, figlia, e guarda; porgi l’orecchio e dimentica la tua gente e la casa di tuo padre [Sal 44 (45),11]. Colui che dice: Ascolta, figlia indubbiamente è padre, eppure attesta che è padre della propria figlia anche colui che convince a dimenticare la casa paterna e il popolo a cui appartiene. Ora, questo oblio si realizza quando, morti con Cristo agli elementi di questo mondo, contempliamo, secondo le parole dell’Apostolo, non più le cose che si vedono, ma quelle che non si vedono poiché le cose visibili sono temporanee, quelle invisibili sono eterne (2Cor 4,18); quando uscendo con il cuore dalla casa di questo mondo visibile, volgiamo lo sguardo verso quella in cui abiteremo per l’eternità.

(CASSIANO, Conferenze 3,6, SC 42, pp. 145-146).

La lotta spirituale

La lotta spirituale è innanzi tutto ascesi, esercizio. Chiunque scelga un fine, deve sottomettersi alle fatiche che questo fine richiede per essere raggiunto: negli studi, nella vita morale, nella vita spirituale. La necessità dell’ascesi si pone dunque sul piano prettamente umano, ancor prima che su quello della vita cristiana. Ha scritto Dietrich Bonhoeffer:

«Se parti alla ricerca della libertà, impara innanzitutto disciplina dei sensi e dell’anima, affinché i desideri e le membra non ti portino a caso qua e là.

Casti siano lo spirito e il corpo, sottomessi e obbedienti nel cercare la meta assegnata.

Nessuno penetra il mistero della libertà, se non con la disciplina»

(Dietrich BONHOEFFER, Stazioni sulla via della libertà, in Resistenza e resa, Bompiani, Milano 1969, p. 270).

Rinnega se stesso chi ama se stesso

Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […] «Rinneghi se stesso».

In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.

Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

XXIII DOM TEMP ORD (C)

XVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Genesi 18,20-32

In quei giorni, disse il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».

 

Abramo fu chiamato «amico di Dio» (cf. Gc 2,23). In questa veste egli agisce nella lettura che stiamo presentando. Nei vv. 16-19 del nostro capitolo si trova un monologo divino in cui il Signore si domanda se gli sia lecito tenere nascosto ad Abramo ciò che egli sta per fare nei confronti di Sodoma e Gomorra. Dio sceglie così Abramo come il confidente con il quale condividere le decisioni più gravi e al quale confidare le grandi ansie del suo cuore. Noteremo infatti che non si tratta semplicemente di comunicare ad Abramo la sentenza definitiva contro le due città, ma di dichiarare aperto un processo a loro carico.

     Al v. 20 abbiamo in italiano la parola «grido» essa nel testo originale suona come un termine tecnico del linguaggio giuridico. A Dio è arrivata una denuncia gravissima. Egli è l’ultimo appello per dare una risposta al caso, ma per farlo è necessario che apra un’inchiesta, un’indagine che è disposto a svolgere personalmente, anche se di fatto nel capitolo 19 saranno i due angeli a visitare Sodoma, come anticipa il v. 22 omesso dalla versione liturgica della lettura. Nel v. 21 si ha l’impressione di cogliere sulle labbra di Dio incredulità e indignazione. Sembra che da una parte Dio stenti a credere alla denuncia che gli è pervenuta, e dall’altra sia irritato a causa della gravità di quanto gli è stato denunciato. Il capitolo 19 presenterà un esempio concreto della malvagità di Sodoma (19,1-11). Il fatto non è da leggere esclusivamente nella linea del peccato di omosessualità, ancor più importante è la mancanza di ospitalità. Sodoma è l’antitesi di Abramo; mentre questi riceve Dio e lo accoglie generosamente, Sodoma riserva ai suoi inviati tutt’altro che accoglienza.

     Nei vv. 23-35 abbiamo la trattativa di Abramo con Dio, un colloquio nel quale sembra riecheggiare lo stile tipicamente orientale della contrattazione. Accanto a questa intercessione del patriarca potremmo collocare quella di Mosè (Es 32,11-13; Dt 9,26,29), e quella dei profeti (Am 7,4-6). Siamo al primo anello di una catena che attraverserà la storia d’Israele. Si potrebbero ricordare qui le parole di Geremia: «Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia (Ger 12, 1a)».

     I sentimenti di Abramo nell’incominciare il dialogo con Dio sono esattamente quelli delle prime parole di Geremia, Abramo ha un senso profondo del rispetto dovuto a Dio; prende coraggio man mano che trova Dio disposto all’ascolto. Dal punto di vista teologico questo è già un dato molto importante: Dio è disposto al dialogo, ad ascoltare amichevol-mente gli interventi degli uomini. Non si tratta di un Dio impenetrabile e arbitrario, ma disponibile e dialogante.

     Geremia poi dice che vorrebbe rivolgere a Dio una domanda circa la giustizia. Chiaramente il contesto in cui parla il profeta è completamente diverso dal nostro, ma l’interrogativo è il medesimo. Tutto il senso della trattativa trova qui il suo riassunto. Cosa decide il destino di una collettività: il peccato di molti o la giustizia di pochi? Questa è la domanda fondamentale. Essa prende ancora più rilievo se viene collocata sullo sfondo della società in cui venne formulata, una società in cui la responsabilità individuale non era ancora in primo piano. Il testo appartiene alla tradizione jahwista. A quel tempo il senso di appartenenza alla famiglia, alla tribù, alla città, in una parola sola alla comunità, era talmente forte da ritenere che tutti fossero solidali nel bene e nel male. Non deve essere dimenticato questo contesto per comprendere meglio il problema teologico fondamentale della lettura: con quale criterio Dio giudica? La risposta finale è che Dio nel suo giudizio è più disposto a tenere in conto il bene di pochi che il male di molti. Non bisogna perciò preoccuparsi molto di come concretamente le cose siano andate a finire per Sodoma, se cioè là non si trovassero in essa neppure 10 giusti. Sodoma non diventa un caso in se stessa, ma l’occasione per esporre l’asserto teologico fondamentale in questo brano: il bene compiuto da pochi può essere più forte del male compiuto da molti e determinare il giudizio divino in senso positivo. Questa linea teologica troverà sviluppi mirabili nel pensiero biblico. Basti pensare a Is 52,13-53,12, in cui il servo sofferente di Dio diventa lui stesso da solo strumento di salvezza per l’intero popolo. Si pensi poi al capitolo 5 della lettera ai Romani in cui Gesù viene presentato come il nuovo Adamo dal quale unicamente viene la salvezza dell’intera umanità.

 

Seconda lettura: Colossesi 2,12-14

Fratelli, con Cristo sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. 

 

Il v 12 riprende un dato tradizionale della catechesi battesimale della comunità primitiva. Rm 6,4-6 sviluppa bene questo discorso del battesimo come partecipazione personale al mistero pasquale. Tra i due testi vi è però una importante differenza. Per la lettera ai Romani solo la partecipazione alla morte di Gesù è una realtà presente, mentre la partecipazione alla risurrezione è lasciata al compimento escatologico. Nel nostro brano abbiamo invece un progresso in questo senso: mediante la fede si partecipa fin da ora alla risurrezione di Gesù come nuova condizione personale di vita. La fede è da riporre nella potenza di Dio. Anche questa espressione ci riconduce alla lettera ai Romani: 1,4. La risurrezione di Gesù è la manifestazione più chiara della potenza di Dio. L’adesione di fede a questa verità fa si che la risurrezione non sia più un avvenimento che riguarda solo Gesù personalmente, ma coinvolge in modo efficace e presente anche i credenti. Grazie alla fede, la risurrezione di Gesù non rimane un fatto isolato destinato solo alla sua persona, ma diventa un avvenimento comunitario vitale e trasformante.

     Tocca al v. 13 spiegare in che modo tutto questo avvenga. Esso ricorda la condizione dei colossesi prima che credessero. Su di loro pesava una doppia penalizzazione: a causa dei peccati erano morti e per la loro incirconcisione erano esclusi da qualsiasi prospettiva di salvezza; non potevano beneficiare neppure dell’alleanza antica. Da questa condizione mortale essi sono stati liberati mediante il mistero pasquale. Il versetto ripropone la medesima espressione di quello precedente: «con lui» che non solo crea unità, ma ribadisce la centralità e l’efficacia dell’opera di Cristo della quale peraltro Paolo aveva già parlato in 1,14.20. Tutti i peccati sono stati perdonati grazie alla morte di Gesù come già insegnava la catechesi primitiva della Chiesa: 1Cor 15,3.

     Il v. 14 si rifà ad una immagine presa dal mondo commerciale per descrivere le condizioni degli uomini davanti a Dio. Il «documento scritto» di cui si parla qui è un chirografo, cioè un atto ufficiale, legale, che reca la firma autografa di chi contrae il debito. Fino a quando non si sono assolti gli oneri finanziari contratti si è perseguibili, non c’è scampo. La condizione dell’uomo come debitore nei confronti di Dio appartiene all’insegnamento di Gesù stesso: Mt 6,12; 18,23-35. L’ultimo testo mostra molto bene l’impossibilità dell’uomo di assolvere il debito con Dio. Non c’è via d’uscita dal punto di vista umano per togliersi di dosso questa ipoteca imposta dal peccato. Il chirografo era corredato di condizioni, nel testo originale rese con il termine dogma, che esprime precisione, sicurezza. Ma anche queste regole precise erano a sfavore dell’uomo. Si potrebbe vedere nel plurale di quel termine le prescrizioni della legge giudaica. Tutto è stato tolto di mezzo dalla croce. Ciò che prima inchiodava noi alla nostra insolvenza Dio lo ha inchiodato alla croce dandoci salvezza e speranza. La risurrezione segna così questo grande passaggio: davanti a Dio gli uomini non sono più debitori sotto processo e in attesa di condanna, ma liberi e fruitori di un rapporto filiale.

 

Vangelo: Luca 11,1-13

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».  

 

Esegesi 

     A Luca è molto caro presentare Gesù come modello di preghiera: 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 22,41.44; 23,34.46. Anche qui in 11,1 possiamo pensare che sia importante per l’evangelista mantenersi nella stessa linea. La richiesta di uno dei discepoli raggiunge infatti Gesù non appena Egli ha terminato di pregare. Si può legittimamente pensare che l’interesse sia non tanto quello di imparare una formula tipica dell’ambiente come la possedevano le diverse cerchie di discepoli riuniti intorno ad un maestro, come lo stesso accenno al Battista potrebbe far pensare, ma piuttosto di penetrare nel mistero stesso della preghiera di Gesù. Il «Padre nostro» rivela quale tipo di relazione Gesù ha con Dio e nell’ultima parte del brano, i vv 9-13 mostrano quale frutto ci si deve attendere dalla preghiera. Tutto ciò pone in un clima di assoluta novità, in una nuova via di relazione con Dio come solo nella preghiera di Gesù viene vissuta.

     Dopo aver presentato Gesù come modello di preghiera nei vv. 2-4 si trova il «Padre nostro». Il titolo dato a Dio è quello dell’ambiente familiare per chiamare affettuosamente il capo famiglia, sia da parte dei bambini che da parte degli adulti. Nella lingua in cui Gesù ha insegnato la preghiera era dunque Abbà. Il rapporto con Dio viene quindi caratterizzato dalla confidenza e dalla tenerezza. Dio in quanto padre ha autorità e amore nello stesso tempo; in questo modo viene riconosciuto da chi prega come Gesù. La sfumatura della tenerezza è però senz’altro la novità che Gesù insegna nel rapporto con Dio. Quanto fosse antico nelle comunità cristiane questa prassi di approccio al Padre lo testimonia Mc 14,36 e ancor di più Gal 4,6 e Rm 8,15.

     La prima richiesta riguarda la santificazione del nome divino. Per comprenderla si dovrebbe ricordare Ez 36,20-28. In quel testo Dio promette di manifestare la santità del suo nome ricostruendo l’unità del suo popolo disperso nell’esilio e ridonando agli israeliti il possesso della loro terra. In una parola Dio manifesterà la santità del suo nome realizzando la salvezza del suo popolo. Questa prospettiva fa cogliere molto bene il clima escatologico nel quale le prime due domande collocano l’orante. Con la prima domanda si chiede a Dio di realizzare definitivamente la salvezza degli uomini, con la seconda che sia portata a compimento l’opera di Gesù che ha proprio come scopo il risanamento definitivo dell’umanità. In 4,43 Gesù presenta come fine della sua missione appunto l’annuncio del regno. La stessa cosa devono fare gli inviati di Gesù: 9,2; 10,10. La seconda richiesta pertanto domanda che giunga a compimento l’opera che Gesù ha iniziato e che la Chiesa porta avanti con la sua missione.

     La terza richiesta riguarda il pane, l’alimento necessario alla vita.

Nel testo originale la qualifica di questo pane non è chiaramente comprensibile; il participio epiousion infatti è di difficile interpretazione. Normalmente viene interpretato come la razione di cibo necessaria alla giornata: «quotidiano». In questo modo non avremmo uno scadimento nella richiesta, come se dopo aver domandato realtà spirituali si precipitasse nella materialità. Rimarremmo ancora in un tipo di rapporto con Dio fondato sulla fiducia e sull’abbandono riconoscendolo come colui dal quale unicamente dipende il proprio esistere. Bisognerebbe anticipare quanto dirà Gesù in 12,22-31. Nonostante che il Padre sappia di cosa si ha bisogno Gesù invita però a chiedere. Il «Padre nostro» è veramente la preghiera del discepolo di Gesù di colui che ha fatto suo lo stile  di povertà radicale che Gesù praticava (9,58) abbandonando tutto per lui (18,18-23.28-30). In questa richiesta si nasconde allora il desiderio di essere discepoli di Gesù secondo lo stile da lui voluto e praticato.

     La quarta domanda presenta una realtà alla quale solo Dio può dare soluzione: il peccato. A questa condizione che distrugge le relazioni dell’uomo con Dio e con gli altri il Padre risponde con il perdono. Viene fatta questa richiesta a Dio perché solo lui può concedere quel dono e solo lui può far sì che dall’uomo perdonato nasca la capacità di perdonare. Da ultimo si domanda a Dio l’aiuto necessario per superare positivamente la tentazione, o meglio in un senso più generale la «prova». Bisogna guardarsi bene infatti dall’attribuire a Dio il ruolo di Satana. Non è infatti certamente Dio ad incitare al male. La prova invece è una condizione che l’uomo praticamente non può evitare dal momento che non è stata risparmiata neppure a Gesù (4,1-11; Eb 2,18). In quella situazione l’aiuto di Dio è necessario perche l’uomo non soccomba, ma resti fedele.

     I vv 5-8 raccontano una piccola parabola che invita alla più grande fiducia nella preghiera. Il clima del vicino oriente scoraggia i viaggi durante le ore calde; l’arrivo dell’amico a mezzanotte non è pertanto un fatto eccezionale, spesso bisogna approfittare delle ore notturne per gli spostamenti. Il pane poi era produzione casalinga, ogni famiglia lo produceva nel proprio forno. Inoltre la tipica casa palestinese prevedeva come locale destinato agli uomini una sola stanza poliuso: di giorno serviva da abitazione, di notte da dormitorio per tutta la famiglia. I congiunti deponevano stuoie a terra e dormivano tutti l’uno accanto all’altro. Il pane veniva conservato nel locale attiguo, dove si trovavano anche il forno e i silos per le scorte dei cereali. Andare a prendere il pane significava pertanto correre il rischio serio di calpestare i bambini che dormivano sul pavimento accanto ai genitori. La parabola all’inizio insiste sul legame di amicizia che esiste tra i protagonisti  messi in scena da Gesù. Questo e il sentimento che spinge a chiedere, anzi a disturbare in un’ora scomoda. L’amicizia spingerà ad esaudire la richiesta e se dovesse venire meno questa, sarà l’insistenza a garantire il risultato. A dire il vero la parola originale che viene tradotta con «insistenza» indica piuttosto la mancanza di pudore, potremmo dire il non avere paura di presentarsi ad un orario inopportuno. Gesù vuole così dare fondamento all’audacia nella preghiera. Su che cosa si basa la sicurezza di essere esauditi? Innanzitutto sul fatto che Dio è un amico e di conseguenza nella preghiera si può osare molto senza paura.

     I vv 9-10 contengono tre verbi che illustrano la preghiera: chiedere, cercare, bussare. Sono immagini classiche per indicarla. La terna costruita ponendo agli estremi due passivi teologici (vi sarà dato, vi sarà aperto) evidenzia ulteriormente le buone disposizioni di Dio verso chi si rivolge a Lui. I primi due verbi poi si ricollegano direttamente alla parabola appena raccontata ribadendone il messaggio.

     I vv 11-13 possono essere considerati un’altra piccola parabola che potremmo intitolare «del figlio affamato». Anche in questo caso, come nella parabola dell’amico importuno, Gesù fa appello all’esperienza degli ascoltatori. Si deve sottolineare bene che il soggetto scelto è di nuovo il padre, nonostante che concretamente e normalmente sia la madre ad occuparsi dell’alimentazione dei figli. Si vuole proseguire pertanto, come dice chiaramente il v 13, nella presentazione del Padre e della risposta che Egli dà alle richieste degli uomini. La novità di Luca rispetto a Matteo (7,7-11) è però che il Padre non concede «cose buone», ma lo Spirito Santo. L’importanza dello Spirito Santo in Luca è nota: 1,15.35.41.67,2,26.27; 3,22; 4,1.14.18. Da queste ricorrenze si capisce bene come per Luca lo Spirito Santo è il dono escatologico, il dono che realizza i tempi della salvezza. C’è indubbiamente un salto di qualità incredibile, ma senza contraddizione. Il salto di qualità consiste nel fatto che mentre fin qui l’oggetto della preghiera erano realtà materiali, ciò di cui l’uomo necessita per il suo sostentamento, la risposta di Dio si colloca su un piano ben superiore. Egli è disposto a concedere molto di più, a dare una partecipazione piena alla sua vita, a segnare per quanti lo domandano il compimento della salvezza nel quale nulla mancherà all’uomo né il necessario per il quotidiano, né l’intimità con Dio. Mentre la preghiera umana si appiattisce spesso su realtà materiali Gesù invita a questo grande cambiamento di prospettiva: passare dal vedere Dio come colui che provvede semplicemente all’esistenza terrena a colui che assicura pienezza di vita attraverso il dono del suo Spirito. La considerazione è particolarmente preziosa in questo anno dedicato allo Spirito Santo e potrebbe diventare il vero fulcro dell’omelia.

 

Meditazione 

     Il tema della preghiera domina la liturgia della Parola in questa domenica e la domanda che risuona sulle labbra dei discepoli – «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1) – può costituire anche per noi l’interrogativo, o più ampiamente l’atteggiamento interiore con cui celebrare questa eucaristia. Alla richiesta dei discepoli Gesù risponde con una piccola catechesi, suddivisibile in tre parti. Dapprima consegna il Padre Nostro (vv. 2-4); quindi racconta una breve parabola (vv. 5-8); infine offre un insegnamento sull’efficacia della preghiera (vv. 9-13). Se la prima e la terza parte trovano dei paralleli nella tradizione sinotti-ca, la parabola centrale è invece propria di Luca e rivela pertanto la prospettiva peculiare con cui il terzo vangelo comprende il mistero della preghiera. Potremmo anche dire che, se

nel Padre Nostro Gesù mostra quale debba essere il nostro modo di stare davanti a Dio, attraverso la parabola rivela piuttosto quale sia il modo stesso con cui Dio si relaziona con i suoi figli. Le parabole infatti (e questa del capitolo undicesimo non fa eccezione) sono anzitutto una rivelazione del modo di essere e di agire del Padre, che ci interpella personalmente e ci chiede di trasformare il nostro stesso modo di essere e di agire. Per Gesù, la contemplazione del volto del Padre consente sempre – e nello stesso tempo esige – una trasfigurazione dell’agire umano. Per imparare a pregare occorre dunque anzitutto guardare a come Dio si relaziona con noi.

     La parabola presenta la relazione tra tre amici. Il primo giunge nel cuore della notte a casa di un suo amico ed è per noi facile immaginare il suo bisogno: è provato dal viaggio, probabilmente non ha ancora cenato, necessita di ristorarsi e riposarsi. In questa situazione, cosa fare? Ciò che viene subito in mente al protagonista della parabola è ricorrere all’aiuto di un terzo amico. Non cerca di risolvere da sé, in modo autonomo e autosufficiente, la difficoltà: riconosce la propria impossibilità e accetta di rivolgersi a qualcun altro. Poco importa se è notte fonda: è un amico, mi aiuterà. Così ragiona il protagonista della pa-rabola e così agisce. Il racconto, in questo modo, ci sollecita a metterci nei panni di questo uomo e a domandarci: avremmo agito come lui? È un primo interrogativo con cui la parabola ci interpella personalmente. A scavare più a fondo nel brano emerge però un secondo interrogativo, più importante del primo. La traduzione italiana di fatto elimina la domanda che nel testo greco è possibile intravedere. Infatti, nel testo originario Gesù introduce il suo racconto con un pronome interrogativo: chi di voi? La parabola inizia con una domanda; il problema è stabilire fin dove essa giunge. Probabilmente si conclude al v. 7 (in greco c’è un’unica frase) dove, anziché un punto e virgola, occorrerebbe mettere un bel punto interrogativo. Questo amico – domanda Gesù – gli dirà così: «Non m’importunare… non posso alzarmi per darti i pani?». La risposta la dà lo stesso Gesù, al v. 8: «vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono». La vera domanda posta dalla parabola riguarda dunque il comportamento del personaggio che viene importunato nel cuore della notte. Che cosa farà: si alzerà o no per esaudire la richiesta del suo amico? Il vero protagonista è lui e su di lui Gesù attira l’attenzione dei suoi ascoltatori. Più che ‘parabola dell’amico importuno’, dovremmo intitolare questo racconto ‘parabola dell’amico importunato’: è lui il protagonista principale di quanto avviene.

     Nonostante tutte le difficoltà alle quali questo tale deve andare incontro, la risposta di Gesù non tollera dubbi: l’amico importunato esaudirà la richiesta di chi lo ha svegliato a notte fonda. E lo farà almeno per due motivi: a) per amicizia: colui che ha bisogno è un amico, e gli amici si aiutano volentieri; b) ma anche per la sua invadenza. Il vocabolo qui usato da Luca — anaideia —  significa letteralmente ‘senza faccia’, dunque senza timore, senza vergogna, in modo quasi sfacciato, impudente, disinvolto. La preghiera di questo tale non è soltanto insistente o invadente; è anche audace e confidente. Non ha timore o ritegno nello svegliare l’amico nel cuore della notte. Sa che è un amico; sa che con lui può avere confidenza e fiducia, può osare. È importante comprendere che si può pregare in questo modo soltanto chi sappiamo essere nostro amico. Con gli amici ci si comporta in modo diverso rispetto agli estranei.

     A questo riguardo, dobbiamo fare attenzione a come Gesù conclude la parabola, al v. 8: «almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono». Il testo greco recita più esattamente: «gli darà tutto quello di cui ha bisogno». L’amico importuno chiedeva tre pani; riceve molto di più: torna a casa con tutto quello di cui ha bisogno. In questo ‘tutto’ va inclusa anche la bellezza della relazione che ha sperimentato: insieme al pane, ha ricevuto la certezza di avere un amico sicuro, in cui poter confidare senza esitazione e senza timore.

     Troviamo così nella parabola una dinamica tipica della preghiera cristiana, sottesa anche al Padre Nostro: preghiamo chiedendo il pane per ogni giorno, e insieme al pane ogni altro bene necessario alla vita, ma perché attraverso i suoi doni Dio santifichi il suo nome, cioè ci faccia conoscere il suo volto; ci conceda il suo Regno, introducendoci nella relazione d’amore con la sua persona; compia la sua volontà, che è la salvezza di ogni suo figlio. L’esaudimento nella preghiera supera la nostra richiesta. Il protagonista della parabola insieme al pane riceve il volto dell’amico che si prende cura del suo bisogno; così noi, nella nostra preghiera, riceviamo il volto stesso di Dio che ci rivela il suo nome di Padre e ci dona il suo Regno e la sua salvezza.

     Gesù ribadisce questo aspetto anche nella terza parte della sua catechesi, laddove parlando dell’efficacia della preghiera conclude: «quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (v. 13). Lo Spirito, come dono per eccellenza di Dio, ci testimonia che il Padre buono, anche quando si rende sollecito verso i nostri bisogni, non intende semplicemente donarci dei beni, ma attraverso di essi desidera comunicarci la sua paternità, il suo abbraccio di Padre, la sua comunione d’amore. Nello Spirito Dio ci dona se stesso, e nello stesso tempo ci dona la nostra più vera identità, quella di essere suoi figli, perché è solo nello Spirito – ci ricorda l’apostolo Paolo – che possiamo gridare «Abbà, Padre!» (cfr. Rom 8,15; Gal 4,6).

     Non dobbiamo però dimenticare che, oltre i due personaggi principali, sullo sfondo della parabola rimane una terza figura: il tizio che arriva nel cuore della notte, da un lungo viaggio, stanco e affamato. Anche lui è un ‘amico’: così lo definisce la parabola. La relazione sottesa al racconto non è a due, ma a tre. Sciogliendo la metafora: l’amicizia con Dio implica sempre anche l’amicizia con gli altri uomini. Si può entrare in un rapporto confidente con Dio perché si sa sperimentare la bellezza di un rapporto confidente con gli altri uomini. Il tizio della parabola osa bussare alla porta dell’amico perché lui stesso non ha avuto remore nel lasciarsi importunare nel cuore della notte. Non teme di divenire importuno perché a sua volta si è lasciato importunare.

     Luca, nel suo vangelo, usa la coppia verbale ‘chiedere-dare’ sia per il nostro rapporto con Dio, sia per quello con gli altri. «Chiedete e vi sarò dato», afferma nell’insegnamento sulla preghiera (v. 9). «Da’ a chiunque ti chiede», ricorda nel discorso della pianura (Lc 6,30). Possiamo chiedere a Dio di darci solo se a nostra volta siamo disposti a dare a chi ci chiede. La preghiera davanti a Dio implica sempre la nostra responsabilità davanti agli uomini. Diviene allora davvero ‘intercessione’, secondo il bel modello che ascoltiamo nella prima lettura con l’intercessione di Abramo. Intercedere significa ‘fare un passo in mezzo’, «fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione» (C.M. Martini). Mettersi in mezzo tra Dio e gli uomini significa anche mettersi in mezzo a entrambi gli atteggiamenti costitutivi della preghiera: ci si mette in mezzo per chiedere, ci si mette in mezzo per donare a nostra volta. Il pane da chiedere – insegna nel Padre nostro Gesù – non è mio, è nostro; ricevo il perdono perché possa perdonare a mia volta.

 

Preghiere e racconti 

Aiutare i nostri fratelli ancor prima che ce lo chiedono

“Un uomo bussò alla porta di un amico per chiedergli un favore:

“Puoi prestarmi quattromila denari? Devo saldare un debito.

“L’altro chiese alla moglie di prendere tutti i loro risparmi e gli oggetti di valore: il piccolo tesoro, però, si rivelò insufficiente. Chiesero aiuto ai vicini e, alla fine, fu raccolta la somma necessaria.

“Quando l’uomo se ne fu andato, la donna notò che il marito stava piangendo.

“Perché sei triste? Gli domandò. Per il fatto che ci siamo indebitati con i vicini e non sai se saremo in grado di onorare il nostro debito?

“No, affatto. Piango perché nutro un grande affetto per quell’amico, eppure non mi sono mai preoccupato per lui. Mi è ritornato alla mente soltanto quando si è presentato alla nostra porta per chiedere un prestito.

“Andate, dunque, e raccontate la storia di ciò che è accaduto questo pomeriggio. E ricordate che dobbiamo aiutare i nostri fratelli ancor prima che ce lo chiedono.”

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Milano, Bompiani, 2012, 174-175).

 

La preghiera del «Padre nostro»

Non è una novità il fatto di dare a Dio il titolo di padre. Nelle culture pagane il termine padre ha due accezioni: da una parte richiama la generazione; d’altra parte è sinonimo di padrone. Non si utilizza, invece, il termine padre con una valenza amorosa, per indicare una relazione d’amore fra l’umanità e la divinità. Nel mondo biblico il termine padre si adopera soprattutto per esprimere la singolare relazione fra il Messia discendente di Davide e Dio stesso: «Egli mi invocherà: Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza» (Sal 89,27).

La novità di Gesù, dunque, non sta nell’uso del termine padre per rivolgersi a Dio, ma nel contenuto che attraverso quell’appellativo egli esprime e comunica. Se poteva essere insolito per un israelita chiamare Dio Padre, è decisamente strano e impensabile chiamarlo «Abbà» (Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4,6). La stranezza sta nel fatto che si tratta di un’espressione aramaica propria del linguaggio infantile, indeclinable e senza suffissi, tipica del parlare quotidiano in famiglia: corrisponde al nostro «papà» o «babbo», ed esprime intimità, confidenza, tenerezza e fiducia. «Alla sensibilità dei contemporanei di Gesù sarebbe sembrato irriverente, anzi impensabile, rivolgersi a Dio con questo gergo familiare. Gesù ha osato invocare Dio chiamandolo ‘abbà e questa è una ipsissima vox Iesu» (J. JEREMIAS, Teologia, 82).  L’invocazione «Abbà» sulle labbra di Gesù rivela il mistero della sua figliolanza divina e ci dice la sua relazione di fiduciosa obbedienza verso il Padre: ma ai suoi discepoli egli trasmette la possibilità della stessa relazione.

(Cf. F. MORAGLIA, Dio Padre Misericordioso, Genova, Marietti, 1998, 50-54).

 

Parafrasi del “Padre Nostro”(S. Francesco d’Assisi)

O santissimo Padre nostro: creatore, redentore, consolatore e salvatore nostro.

Che sei nei cieli negli angeli e nei santi, illuminandoli alla conoscenza, perché tu, Signore, sei luce; infiammandoli all’amore, perché tu, Signore, sei amore; ponendo la tua dimora in loro e riempiendoli di beatitudine, perché tu, Signore, sei il sommo bene, eterno, dal quale proviene ogni bene e senza il quale non esiste alcun bene.

Sia santificato il tuo nome si faccia luminosa in noi la conoscenza di te, affinché possiamo conoscere l’ampiezza dei tuoi benefici, l’estensione delle tue promesse, la sublimità della tua maestà e la profondità dei tuoi giudizi.

Venga il tuo regno perché tu regni in noi per mezzo della grazia e ci faccia giungere nel tuo regno, ove la visione di te è senza veli, l’amore di te è perfetto, la comunione di te è beata, il godimento di te senza fine.

Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra affinché ti amiamo con tutto il cuore sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e nei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno.

 Il nostro pane quotidiano dà a noi oggi il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell’amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì.

E rimetti a noi i nostri debiti per la tua ineffabile misericordia, per la potenza della passione del tuo Figlio diletto e per i meriti e l’intercessione della beatissima Vergine e di tutti i tuoi eletti.

Come noi li rimettiamo ai nostri debitori e quello che non sappiamo pienamente perdonare, Tu, Signore, fa’ che pienamente perdoniamo, sì che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici e devotamente intercediamo presso di te, non rendendo a nessuno male per male e impegnandoci in te ad essere di giovamento a tutti.

E non ci indurre in tentazione nascosta o manifesta, improvvisa o insistente.

Ma liberaci dal male passato, presente e futuro. Amen.

 

«Chiamare Dio con il nome di “Padre”»

 Il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità trascendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d’amore per tutti i suoi figli. Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l’immagine della maternità (cf. Is 66,13; Sal 131,21), che indica ancor meglio l’immanenza di Dio, l’intimità tra Dio e la sua creatura. Il linguaggio della fede si rifà così all’esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per l’uomo i primi rappresentanti di Dio. Tale esperienza, però, mostra anche che i genitori umani possono sbagliare e sfigurare il volto della paternità e della maternità. Conviene perciò ricordare che Dio trascende la distinzione dei sessi. Egli non è né uomo né donna, egli è Dio. Trascende pertanto la paternità e la maternità umane [cf. Sal 27,10], pur essendone l’origine e il modello [cf. Ef 3,14; Is 49,15]: nessuno è padre quanto Dio.

(Cf. CCC 239).

«Sia santificato il tuo nome»

Nel linguaggio biblico il nome rappresenta la realtà stessa dell’individuo, il suo mondo interiore, la sua essenza, la sua identità e talora anche la missione di una persona (cf. Gen 17,5;17,15;32,28-30;Rt 1,20;Gv 1,42; Ap 2,17). Nella mentalità semitica conoscere il nome di qualcuno era conoscere, e in qualche modo anche possedere, la sua persona; sicché Dio non rivela mai il suo nome, perché non può mai essere totalmente compreso né posseduto dall’uomo (Es 3,13-14).

Il nome di Dio è l’essenza stessa di Dio, il suo essere rivolto a noi. La preghiera chiede che questo nome – che è Dio stesso nel suo rivolgersi a noi – sia santificato, che Dio stesso cioè manifesti la sua identità come santa. Così, pronunciare il nome di Dio non significa semplicemente utilizzare una parola che lo indica, ma addentrarsi nella sua santità, nel suo stesso essere (si veda ad esempio nel Sal 20,8: «Gli altri confidino nei carri e nei cavalli, noi confidiamo nel nome del Signore», e in Gv 17,6: «Io ho fatto conoscere il tuo nome a quelli che mi hai dato»).

«Venga il tuo Regno»

«Venga»: più che una richiesta è un desiderio. I figli davanti al Padre non si approfittano del potere, vogliono diventare servi. C’ è un senso di urgenza: se fosse per il desiderio di colui che prega, il suo Dio sarebbe già il suo re.

«Il tuo Regno»: il regno di Dio è il centro e il motivo della predicazione di Gesù (Mc 1, 14-15), la ragione che spiega la sua vita e la sua morte.

Lontano dall’idea di un messianismo politico, condiviso da alcuni discepoli (Mt 20,21), ma ritenuto da Gesù una tentazione (Mt 4,8-9), Gesù indicava la vicinanza del regno di Dio nelle opere che lui compiva, nella vita umana liberata dalla malattia, da ogni forma di male e di oppressione (Lc 7,18-23; Mt 11,2-6). Indicava i segni del regno di Dio nell’accoglienza e nella riconciliazione che concedeva ai peccatori in nome di Dio e quindi in una nuova fraternità che stava per nascere (Lc 15,1-2; Mc 2,15). Mostrava nei suoi gesti e nelle sue parole il progressivo allargarsi dei confini di questo regno, fino ad abbattere tutte le barriere tra gli uomini (Mt 8,5-13; 15,21-28).

«Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»

L’espressione è di sapore giudaico e quindi per noi di non immediata comprensione, come le due precedenti. Per comprenderla, prima di tutto non bisogna dimenticare che essa è retta dall’appellativo «Padre»: «Padre, sia fatta la tua volontà». Questo fatto connota subito in maniera differente il senso di «volontà».

Secondo la tradizione biblica, la volontà di Dio non si riduce ai comandamenti, perché se così fosse sarebbe un impegno che dobbiamo portare avanti noi e questa domanda sarebbe semplicemente una richiesta di aiuto perché riusciamo noi a fare la sua volontà. Come le precedenti, questa domanda ha due risvolti, uno che riguarda Dio e il suo agire, l’altro che riguarda noi e la nostra capacità di metterci in sintonia con lui.

«Dacci il nostro pane quotidiano»

Le ultime tre domande del Padrenostro orientano lo sguardo non più al cielo, ma alla terra. Tuttavia questa seconda parte non deve essere disgiunta dalla prima; anzi, c’è tra loro un’intima connessione e consequenzialità. Infatti la seconda parte della preghiera evidenzia come si devono mettere a fuoco i bisogni fondamentali dell’esistenza umana e credente, perché non impediscano la nostra adesione al Padre, ma anzi diventino terreno sul quale si edifica e si esprime la nostra vita di figli di Dio.

La domanda sul pane si inquadra in questo contesto. Essa però chiede di essere ben compresa nel suo significato. La nostra condizione di vita potrebbe renderla oggetto di fraintendimento: cosa significa chiedere il pane quotidiano per coloro che sulla loro mensa hanno garantito quotidianamente già ben più del pane necessario? «È bello -dice Gandhi- parlare di Dio mentre siamo seduti dopo una piacevole colazione e nell’attesa di un pranzo ancora migliore: ma come posso parlare di Dio alle moltitudini che devono tirare avanti senza due pasti al giorno? A loro Dio può soltanto apparire come pane e burro». Si può correre il rischio di svilire la forza della domanda, intendendola subito in un senso troppo spirituale e allegorico. Oppure potremmo intenderla come una preghiera fatta per coloro che non hanno da mangiare; ma allora la nostra sensibilità ci fa reagire: non tocca forse a noi (e, prima ancora, a loro) darci da fare perché ciò avvenga, invece di chiedere che lo faccia Dio? E poi: che cos’è in fondo questo pane di cui abbiamo veramente bisogno?

Occorre rimetterci alla scuola della Parola per apprendere la ricca esperienza di vita che è racchiusa in questa invocazione e che può scaturire per noi dalla preghiera quotidianamente ripetuta con fede.

«Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»

La richiesta del perdono sarebbe impropria e impossibile se non fosse pronunciata di fronte al volto di questo Dio che, nella vita di Gesù, nella sua parola, nella sua prassi e massimamente nella sua morte e risurrezione, ha manifestato tutta la sua vicinanza e disponibilità al perdono. Noi possiamo perciò avanzare questa domanda perché ci è stato manifestato il vero volto di Dio: la sua paterna misericordia.

Il perdono non è una semplice remissione, di una colpa passata, ma è il dono di instaurare relazioni nuove. Quindi lo possiamo riconoscere quando vediamo che realmente colui che lo riceve è trasformato. Questa trasformazione noi la riconosciamo dentro le relazioni fraterne, nei diversi contesti in cui si gioca la nostra vita con chi ci è prossimo. Possiamo perciò comprendere il senso della domanda; chi prega così vive nella fede la certezza dell’amore gratuito di Dio, Padre di misericordia, perciò domanda di vedere la forza del perdono ricevuto proprio dentro il perdono che egli accorda ai fratelli: è li che noi riconosciamo di essere perdonati da Dio, rinnovati nel profondo perché capaci di perdonare.

Il perdono è autentico rinnovamento perché rende capaci di vivere sempre nuove relazioni; chi perdona vive la gioia di vedere nascere in chi ha perdonato la capacità di un amore veramente diffusivo.

«E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male»

L’invocazione crea comunque una certa difficoltà ed è senza dubbio quella che ha suscitato più problemi interpretativi. Infatti questa formula sembra far pensare a un Dio che «induce» nella tentazione. È tuttavia chiaro nell’insieme del discorso biblico che Dio non può tentare al male e che non è lui che ci induce nella tentazione. La Lettera di Giacomo dice: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno» (Gc 1, 13). L’impressione iniziale è dunque scongiurata da questa affermazione che Dio non tenta nessuno al male.

C’è quindi una concezione di prova come l’esperienza dentro la quale è messa a nudo la fede e la fedeltà a Dio del credente o del popolo. Chiediamo che il momento della prova non diventi il momento della nostra caduta, del venire meno della nostra fede e fedeltà a Dio.

Chiedendo nella preghiera: «Non ci indurre in tentazione», risvegliamo a nostra volta l’attenzione a non disperdere nella frammentazione del quotidiano il senso del primato del Padre e della fedeltà al Vangelo.

– « … ma liberaci dal male»: La preghiera del Padre nostro, con quest’ultima invocazione, sembra chiudersi tragicamente. L’orante sente tutto il peso del male che schiaccia l’esistenza umana. Ma bisogna tenere presente che questa finale si congiunge con l’inizio della preghiera («Abbà, Padre»), caratterizzando così la situazione di una comunità di fratelli in pericolo come la condizione di chi è posto sotto la protezione del Padre. Siamo invitati a recuperare questo senso di fiducia che permea tutto il Padre nostro. Se siamo fedeli in tale atteggiamento filiale e fiduciale verso il Padre, egli non ci farà venire meno la sua forza perché non cadiamo nella prova, non ci farà venire meno la sua presenza che ha già vinto il mondo e il maligno.

Per destare in noi un vivo desiderio del ritorno

Quanto e quale zelo è necessario perché ci possiamo innalzare a quel grado di confidenza che ci dia il coraggio di dire a Dio: «Padre»? Se corri dietro al denaro, se ti lasci travolgere dalla seduzione del mondo, se cerchi la gloria che viene dagli uomini, se ti lasci dominare da pensieri passionali, e poi hai sulle labbra simile preghiera, che cosa pensi che dirà colui che guarda la tua vita mentre ascolta la tua preghiera? Mi sembra di sentire Dio che ti rivolge queste parole: «La tua vita è corrotta e tu chiami “Padre” il padre dell’incorruttibilità? Perché profani con la tua lingua immonda il nome purissimo? Perché rendi menzognera questa parola? Se tu fossi mio figlio, avresti dovuto manifestare le mie qualità divine nella tua vita …». È dunque pericoloso, prima di aver corretto la propria vita, recitare questa preghiera e chiamare Dio «Padre». Ma ascoltiamo ancora una volta le parole della preghiera; ripetendole frequentemente ne comprenderemo il senso nascosto. Padre nostro, che sei nei cieli. Abbiamo già dimostrato che dobbiamo conciliarci Dio con una vita virtuosa, ma mi sembra che queste parole abbiano un senso ancor più profondo; esse generano in noi il ricordo della patria perduta e di quello stato di vita da cui siamo stati esclusi. Nella parabola del giovane che abbandonò la casa paterna e preferì vivere in mezzo ai porci, il Verbo ci presenta sotto forma di una storia il suo traviamento e la sua dissolutezza. Il giovane non ritrova la sua primitiva felicità se non dopo aver preso coscienza della sua disgrazia ed essere rientrato in se stesso meditando parole di pentimento. Queste parole concordano con quelle della nostra preghiera: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te» (LC 15,18) […] Come la misericordia del padre facilitò al giovane il ritorno alla casa paterna – che è il cielo, contro il quale, come dice a suo padre, ha peccato – così anche qui mi sembra che il Signore, insegnandoci a invocare il Padre che è nei cieli, voglia rinnovare in te il ricordo della bella patria, per destare in te un vivo desiderio di bene e ricondurti sul cammino del ritorno […] Se abbiamo quindi compreso il senso di questa preghiera, è ora che disponiamo le nostre anime in modo da osare proferire queste parole e dire con confidenza: «Padre nostro, che sei nei cieli».

(GREGORIO DI NISSA, Sul padre nostro, om. 22, PG 44,1141D-1144C.1145A.D).

Padre nostro

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Padre nostro che stai in mezzo a milioni di uomini affamati,

che stai nella vita di tutti gli uomini assetati di giustizia,

Sia santificato il tuo nome nei poveri e negli umili.

Venga il tuo regno, che è libertà, verità e fraternità nell’amore.

Si compia la tua volontà, che è liberazione e Vangelo

da proclamare agli afflitti.

Dona a tutti il pane di ogni giorno:

il pane della casa, della salute, dell’istruzione, della terra.

Perdonaci, o Signore, di dimenticare i nostri fratelli

E liberaci dalla costante tentazione di servire al denaro

invece che a Te, e da ogni male.

Perché tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli. Amen.

Card. Kim

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Genesi 18,1-10a

In quei giorni, il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono. Poi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?». Rispose: «È là nella tenda». Riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio».

 

Il racconto intreccia due motivi ricorrenti nelle letterature: la visita di divinità agli uomini e la promessa di un figlio. Questi due filoni letterari che molto colpivano l’immaginazione popolare, specialmente legando al tema della vista divina premi o castighi, sono molto ben incorniciati dal tema dell’ospitalità.

     Il problema più grande dal punto di vista teologico-esegetico è il modo in cui Dio si manifesta con questa alternanza tra uno e tre, singolare e plurale che attraversa tutto il racconto. Una soluzione potrebbe essere quella di considerare Dio come accompagnato da personaggi della corte celeste. Su questa pista ci porterebbe 18,22 in cui due dei componenti della visione partono verso Sodoma, mentre Abramo rimane davanti al Signore, e 19,1 in cui si dice che i due angeli arrivarono a Sodoma. La soluzione non può comunque essere definitiva e non si deve trascurare il problema di salvare la trascendenza divina dal momento che i tre personaggi arrivati da Abramo consumano cibo. Non resta che prendere atto della complessità del racconto sotto questo aspetto che non è comunque il più importante.

     L’argomento centrale è senz’altro quello dell’accoglienza, dell’ospitalità. Il v. 1 colloca l’episodio vicino a Ebron, in una località che diventerà un celebre santuario. Va notato prima di tutto l’ora in cui i personaggi arrivano dal patriarca: è l’ora più calda, cioè l’ora in cui non si viaggia e dunque l’ora in cui non si aspetta nessuno. Il v. 2 presenta molto bene il modo in cui Abramo ha vissuto l’apparizione divina. Egli non ha visto nulla di straordinario, ma semplicemente tre uomini che stavano in piedi presso di lui. Abramo prende l’iniziativa di ospitarli senza che nulla gli venga domandato. Nei versetti successivi vengono descritti tutti i riti dell’ospitalità come viene osservata in oriente secondo un cordiale ceri-moniale. Nulla viene trascurato nonostante la sorpresa dell’arrivo. L’accoglienza è calorosa e abbondante come certifica il vitello tenero e buono di cui parla il v. 7. In quello successivo poi Abramo è ritratto in un altro squisito gesto di ospitalità: non mangia con gli ospiti, ma rimane in piedi presso di loro come segno di prontezza al servizio. Naturalmente come si usava allora le donne non compaiono al cospetto degli ospiti, tanto meno la moglie del padrone. Da parte di Abramo tutte le regole sono osservate, l’unico che agisce fuori dal galateo è proprio Dio. Egli non solo arriva in un orario che la cortesia sconsiglia, ma nel bel mezzo del pranzo domanda pure ad Abramo dove si trova sua moglie, argomento da non

toccare secondo i canoni allora vigenti. È un Dio veramente sorprendente oltre che misterioso il Dio che viene descritto in questa lettura. A questo Dio Abramo concede la sua accoglienza senza riserve. Sarà proprio questo atteggiamento di Abramo a far scoccare l’ora del mantenimento delle promesse da parte di Dio. Ripetutamente era stato assicurato ad Abramo che avrebbe avuto una discendenza (12,2.7; 13,15; 15,5; 17,5-6.8.15-19) ora è il tempo della realizzazione di quanto era stato annunciato. L’ospitalità senza riserve al Dio degli imprevisti segna il tempo dell’esaudimento.

 

Seconda lettura: Colossesi 1,24-28

Fratelli, sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.

 

Colpisce immediatamente lo stridore tra gioia e sofferenza con il quale si apre il brano al v. 24. Le sofferenze di cui parla qui l’apostolo non sono generiche, si tratta di una situazione dolorosa specifica e ben motivata. Paolo si trova in carcere (4,10.18) e questo a motivo di Cristo e della predicazione del suo mistero (4,4). Il carcere è quindi conseguenza dell’apostolato di Paolo. Per questo egli può dichiarare di gioire; Paolo sta vivendo la beatitudine proclamata da Gesù (Lc 6,22-23) che prevede il destino dei suoi discepoli come futuro di rifiuto e persecuzione. Ma vi è un altro importante motivo da considerare per vedere come la sofferenza possa essere vissuta con gioia. Paolo offre la sua prigionia per i colossesi, sente che quanto soffre benefica effettivamente altri. La sua sofferenza diventa atto d’amore e quindi non può che recare gioia.

     Il nodo più intricato del brano è certamente l’affermazione che Paolo «completa nella sua carne quello che manca ai patimenti di Cristo». L’apostolo non vuole neppure insinuare l’idea che al sacrificio di Cristo manchi qualcosa. Infatti si è guardato bene dall’usare il vocabolario che indica la morte redentiva di Gesù in modo specifico: morte, sangue, croce. Il termine impiegato da Paolo è più generale (thlypsis) che nel linguaggio apocalittico cristiano indica le sofferenze della fase finale che prelude alla manifestazione definitiva del Messia: Mc 13,19.24. Paolo sta esponendo qui un suo punto di vista sull’attività apostolica da lui svolta: l’annuncio del vangelo e le tribolazioni ad esso connesse segnano l’ultima fase della storia salvifica. Ancora di più non va dimenticato che Paolo in 1,19-20 aveva dichiarato la presenza in Cristo di ogni «pienezza» e l’efficacia assoluta della sua opera riconciliatrice. Il verbo impiegato dall’apostolo per dire «completare» (antanaplēroō) indica un’opera congiunta che viene portata avanti insieme, ciascuno per la sua parte. Anche qui si tratta di esporre in che modo Paolo concepisca l’apostolato. L’annuncio del vangelo non è opera solitaria, ma lavoro comune con Cristo stesso. In 2Cor 1,5 Paolo aveva già detto che le sofferenze dell’apostolato erano presenza delle sofferenze di Cristo in lui. Si potrebbe pertanto arrivare quasi ad affermare che parlando di «ciò che, dei patimenti di Cristo» non siamo nella linea di una carenza da perfezionare (i patimenti di Cristo che vengono colmati dalle sofferenze umane), viceversa siamo nella linea di una perfezione che viene partecipata, cioè le sofferenze umane sono partecipazione ai patimenti di Cristo già in sé perfetti ed efficaci. 

     Dopo aver ripreso alla fine del v. 24 l’idea del beneficio che le sofferenze apostoliche recano alla Chiesa, ora al v. 25 Paolo se ne dichiara «ministro». Il servizio che egli svolge è il compimento di una vocazione, idea assai radicata nella mente di Paolo e più volte ribadita (Gal 1,1; Rm 1,1, 1Cor 1,1). Egli è stato chiamato a realizzare, a dare pienezza alla parola di Dio che ha come contenuto un unico mistero. Il termine (mysterion) indica il piano salvifico di Dio che in Gesù viene «rivelato » cioè fatto conoscere attraverso la sua stessa realizzazione. Il momento è solenne. Le generazioni precedenti non hanno potuto beneficarne, ora invece persino i pagani ne sono partecipi. Il piano salvifico di Dio ha un raggio universale, non esclude nessuno. Anzi raggiunge gli ascoltatori della rivelazione in un modo particolarmente efficace: «Cristo in voi, speranza della gloria», v. 27. Il credente viene realmente coinvolto nel mistero salvifico che Cristo realizza e che diventa in lui caparra di salvezza eterna.

     Con i vv. 25-29 Paolo fa una dichiarazione di scopo e di metodo sul suo lavoro apostolico. Lo scopo è quello di «rendere ogni uomo perfetto in Cristo» cioè configurarlo a lui in modo definitivo. Il metodo è quello di annunciare, ammonire, istituire, cioè accompagnare con fatica, costanza e sapienza il cammino di ogni credente verso la sua piena maturità.

 

Vangelo: Luca 10,38-42

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.

Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

 

Esegesi 

     La pericope che ci viene presentata oggi costituisce la conclusione del capitolo 10 ed è esclusivamente lucana. L’episodio si inserisce nell’appena cominciato viaggio verso Gerusalemme (9,51) e ne costituisce una tappa significativa in quanto propone una tematica particolarmente cara a Luca: la posizione della donna nella comunità cristiana.

     Già in 8,1-3 l’evangelista aveva descritto il seguito femminile di Gesù, una notizia che può anche non stupire il lettore contemporaneo del vangelo, ma che certamente doveva suscitare meraviglia e disapprovazione tra i contemporanei di Gesù. La pericope che abbiamo a disposizione compie un altro passo decisivo per la questione femminile. La coppia di donne protagoniste del nostro brano è conosciuta anche dal vangelo di Giovanni. Nel capitolo 11 del suo scritto il quarto evangelista le nomina ripetutamente, ma in quella occasione esse hanno un ruolo preciso: sono le sorelle di Lazzaro (11,3); sono ancora pertanto decisamente subordinate ad una presenza maschile. Qui invece Lazzaro non viene ricordato. Il nome Marta, femminile dell’aramaico mar che significa «padrone-signore», e il verbo di cui è soggetto, che viene reso dalla Vulgata e dalla nostra versione italiana come se fosse effettivamente lei la padrona di casa, creano già un’atmosfera nuova in cui la donna è protagonista. La svolta avviene però con il v. 39 che introduce l’altra sorella e il suo atteggiamento veramente inedito. Per capire la novità di questa situazione si dovrebbe ricordare Gv 4,27 in cui i discepoli si meravigliano che Gesù stia discorrendo con una donna. Non viene neanche notato il fatto che sia samaritana, ma semplicemente «donna» e perciò stesso non degna di considerazione. Lo stesso stupore dei discepoli dovette essere avvertito dai lettori contemporanei del vangelo. Gesù sta qui sovvertendo una convenzione sociale del suo tempo, o meglio si sta mostrando libero verso di essa. Accetta di essere ospitato da donne e va oltre, ammettendo una di esse come uditrice della sua parola. La formula nell’opera lucana indica l’annuncio del messaggio specifico di Gesù: Lc 5,2; At 13,7.44; 19,10. Tra Maria e Gesù non è dunque in corso una conversione qualsiasi, tanto per intrattenere l’ospite in attesa che il pranzo sia servito. Le posizioni fisiche stesse dei due personaggi dicono che qui Gesù è ritratto come il maestro che insegna e Maria come la discepola che ascolta. Nell’ambiente rabbinico circolava l’opinione secondo cui, piuttosto che consegnare la Torà ad una donna, era meglio bruciarla. Come si vede, Gesù ha un atteggiamento diametralmente opposto. Maria è ammessa anche lei nel gruppo dei discepoli senza inferiorità alcuna.

     Al v. 40 riaffiora la posizione conservatrice con l’intervento di Marta. Verrebbe quasi da paragonarla al fratello maggiore della parabola del Figliol prodigo (Lc 15,25-32). Quello non sa accettare un fratello riaccolto dal Padre nel suo perdono, Marta non capisce Maria accolta da Gesù come discepola e vorrebbe riportarla nel suo ruolo tradizionale: i servizi domestici. Forse Marta è anche la donna che non sa osare, che è restia di fronte alle novità portate da Gesù e preferisce la sicurezza dell’abitudine al gesto di fiduciosa apertura che Gesù porta.

     I 41-42 possono essere letti da un punto di vista generale e da un punto di vista particolare. Sul piano generale Gesù farebbe notare a Marta che essa si occupa di tante cose trascurando l’essenziale della vita. Dal punto di vista particolare si tratterebbe semplicemente del pranzo da preparare. Marta vuole fare bella figura preparando diverse pietanze, mentre Gesù fa notare che in un clima così familiare basterebbe benissimo una portata sola, un piatto unico. I verbi di cui Marta è soggetto indicano comunque una forte inquietudine, sproporzionata allo scopo, sia che si scelga la prospettiva generale, sia che si preferisca quella particolare.

     Non sfugga l’umorismo con cui Gesù conclude la conversazione. Infatti «la parte migliore» indica anche la porzione di cibo. La tavola non è ancora pronta e Maria si è già presa il boccone più buono. Ha fatto la sua scelta, una scelta indovinata e durevole: l’ascolto della parola di Gesù e la condizione nuova che ne consegue.

     Tradizionalmente il brano viene letto per parlare del delicato equilibrio tra vita contemplativa e vita attiva e del primato della prima sulla seconda. Del resto la questione era molto sentita dalla comunità primitiva se pensiamo che un vocabolario assai affine a quello del nostro brano evangelico (kataleipein, diakonein) si trova in At 6,2 in cui gli apostoli stessi si trovano di fronte alla necessità di una scelta tra annuncio della parola e servizio alle mense.

     Riprendendo il taglio che è stato dato al commento si dovrebbe dire che prima ancora della scelta tra vita contemplativa e vita attiva viene la scelta tra accettazione o rifiuto della parola di Gesù e delle liberanti novità che essa porta con sé. Alla base di tutto vi è certamente l’ascolto perché solo questo può portare ad equilibrate decisioni.

 

Meditazione 

     Ascoltiamo il racconto dell’ospitalità che Gesù riceve a Betania, nella casa dei suoi amici Lazzaro, Marta e Maria, dopo aver sostato, nella domenica precedente, sulla parabola del buon samaritano. «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37), aveva risposto Gesù al dottore della Legge che lo aveva interrogato su chi fosse il suo prossimo, invitandolo a imitare l’agire misericordioso e compassionevole del samaritano. Dopo il ‘fare la misericordia’ ora l’attenzione si sposta, con l’episodio di Betania, su un altro verbo fondamentale dell’esperienza credente, ‘ascoltare la parola di Dio’. Nella prossima domenica Gesù risponderà ai discepoli che gli chiederanno: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). In queste tre domeniche incontriamo così, inanellati uno dopo l’altro, tre atteggiamenti essenziali attraverso i quali si intesse la vita del discepolo di Gesù: fare la misericordia, ascoltare la parola di Dio, pregare. Sembra che Luca conosca bene il detto di Simeone il Giusto (il secondo dei Pirqè Avot, i detti dei Padri tramandati dal Talmud): «Il mondo poggia su tre colonne: lo studio della Torah, il culto, le opere di misericordia». Anche quando negli Atti degli Apostoli descriverà la comunità di Gerusalemme (cfr. At 2,42-47), modello esemplare di ogni comunità cristiana, tornerà a proporre queste tre fondamenta, ricordando che i discepoli erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli (l’ascolto della Parola), nella comunione dei beni (la misericordia), nella frazione del pane e nelle preghiera (la vita liturgica).

     Con l’ospitalità di Betania, l’ascolto della Parola, viene posto al centro, tra il fare la misericordia e il pregare, come se costituisse il cuore della vita del cristiano, un cuore capace di plasmare nel modo giusto ed evangelico anche le altre due opere. Senza una disponibilità all’ascolto, l’agire misericordioso rischia di scadere a mera filantropia, o la preghiera stessa a un dire (sprecare!) molte parole a Dio, come fanno i pagani o gli ipocriti, senza tuttavia entrare nel segreto autentico della relazione con lui (cfr. Mt 6,5-8). Non possiamo inoltre dimenticare che poco prima, al capitolo nono, nella scena della Trasfigurazione, era risuonato l’imperativo del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (Lc 9,35). Nel vangelo di Luca, il primo personaggio ad accogliere e a obbedire a questo invito è proprio Maria di Betania (una donna!) che ascolta la parola di Gesù seduta ai suoi piedi, nel tipico atteggiamento del discepolo verso il proprio rabbi.

     Tutti questi elementi, che possiamo raccogliere un po’ a introduzione del racconto di Betania, ci aiutano a mettere in luce l’importanza che, agli occhi di Luca e ancor prima di Gesù, assume l’atteggiamento discepolare di Maria. L’evangelista però non si limita a questa sottolineatura, si spinge più in là, fino a confrontare l’ascolto di Maria con l’atteggiamento dell’altra sorella, Marta, che invece era «distolta per i molti servizi» (v. 40). Questo modo di raccontare, inutile nasconderlo, ci crea qualche disagio e imbarazzo. Anche il comportamento di Marta, in effetti, è descritto con un bel verbo – diakonein, ‘servire’ – altro termine fondamentale dell’esperienza cristiana, che Gesù peraltro applica a se stesso per affermare di essere venuto non per essere servito, ma per servire. Come mai Luca sembra ora sva-lutare il servizio a vantaggio dell’ascolto? Il racconto è costruito con grande abilità narrativa e finezza spirituale. Anche l’attenzione ai suoi dettagli aiuta a comprenderlo bene, evitando i possibili fraintendimenti, in cui è facile scivolare.

     La prima cosa da osservare è che all’inizio del racconto, nella casa di Betania, regnano grande pace e armonia. Gesù entra nella casa, entrambe le sorelle lo pongono al centro della loro premura, anche se in modo diverso, Maria ascoltandolo. Marta servendolo. Per entrambe al cuore della loro preoccupazione c’è Gesù e in lui stanno accogliendo, come meglio possono, il Signore (tre volte kyrios in greco). Fino a questo punto non è stato dato alcun giudizio di valore sull’atteggiamento dell’una o dell’altra, Gesù non loda Maria né  rimprovera Marta. Improvvisamente, nell’armonia di questa casa accade qualcosa, scoppia

un piccolo dramma, raccontato nell’ultima parte dell’episodio (vv. 40-42). La difficoltà è creata da Marta e dalle sue parole: «Signore, non ti importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti» (v. 40). Ho sottolineato prima come entrambe le sorelle mettano al centro della loro attenzione Gesù, ma ora Marta sposta lo sguardo da Gesù a Maria e a ciò che sta facendo, anzi, non sta facendo, lasciandola sola a servire. Meglio ancora: più che Maria, Marta sta ponendo al centro se stessa e il fatto che venga lasciata sola a servire. Non a caso Luca introduce la sua protesta precisando che Marta «si fece avanti» (v. 40). Marta sopravanza e si pone al centro; nel suo punto di vista c’è questo slittamento, una sorta di capovolgimento della prospettiva per cui al centro non c’è più Gesù da accogliere, ma ciò che lei sta facendo per lui. Sembra di ascoltare nelle sue parole un tono di sorpresa un po’ irritata: «Non ti sei ancora accorto di tutto il lavoro che sto facendo per te? Di’ dunque a mia sorella che mi dia una mano!» Per comprendere meglio potremmo riscrivere il racconto immaginando che, anziché da Marta, l’obiezione fosse sollevata da Maria, che fosse lei a protestare: «Signore, non ti curi che mia sorella si preoccupi e si agiti di tante cose; dille dunque che venga accanto a me, a sedersi ai tuoi piedi per ascoltare la tua parola».Come non accoglie l’obiezione di Marta, probabilmente Gesù non avrebbe accolto neppure quella di Maria, o non l’avrebbe fatto se avesse significato l’assolutizzazione di un solo punto di vista: il proprio. Un modo per tornare a mettere al centro se stessi e il proprio atteggiamento.

     Marta serve, ma soprattutto osserva se stessa, si guarda mentre sta servendo. L’ascolto della Parola ci aiuta a vincere questa tentazione, torna a farci mettere al centro della nostra vita la persona di Gesù e di conseguenza tutto ciò che unifica in lui la nostra esistenza. Marta si agita e si preoccupa, è divisa in se stessa; al contrario l’ascolto della parola di Dio dona armonia e pace, consentendoci, persino nella molteplicità dell’agire, di rimanere raccolti in noi stessi, unificati, non divisi, capaci di ricondurre tutto ciò che facciamo a quella sola cosa necessaria che è il Signore Gesù e la nostra comunione di vita con lui.

     In secondo luogo, l’ascolto della Parola ci rende vigilanti su un altro rischio: Marta accoglie il Signore e vuole offrirgli il meglio di ciò che possiede, desidera che nella sua casa Gesù trovi tutto ciò di cui ha bisogno. È una donna generosa, ma lo è pur sempre con la generosità del ricco, di chi dà del suo, prendendolo da ciò che possiede o che è in grado di realizzare con le proprie mani. Viceversa, l’ascolto umile di Maria esprime bene l’atteggiamento del povero, di colui che riceve a mani aperte a cuore aperto. Maria ha compreso che questo è il modo di accogliere il Signore, di stare davanti a lui, senza pensare troppo alle cose da fare, da dire o da dare, prendendole dalle proprie ricchezze; davanti al Signore bisogna anzitutto rimanere come dei poveri, che hanno bisogno di ricevere, in una vera accoglienza, in un vero ascolto.

     La prima lettura, tratta dal libro della Genesi, narra l’ospitalità che Abramo offre a quei tre personaggi misteriosi, tra i quali e presente Dio stesso che visita la sua tenda. Il racconto si conclude con la promessa della fecondità di Sara: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio» (Gen 18,10). Per la Bibbia l’ospitalità è sempre feconda, genera vita, in quanto partecipa della stessa fecondità pasquale tipica del modo di essere di Dio. Ospitare l’altro non solo nella propria tenda, ma nella propria vita, significa infatti essere disposti a morire un po’ a se stessi perché l’altro possa vivere in noi e attraverso di noi. Questa è la cosa necessaria che Marta deve riconoscere: non deve ascoltare se stessa e ciò che sta facendo; deve ascoltare il Signore; non deve porre al centro se stessa, ma diminuire perché il Signore possa crescere in lei. Questo morire a se stessi è sempre fecondo, perché ci consente di rinascere a quella vita nuova che il Signore ci dona, anche in questa eucaristia, nella quale ascoltiamo la sua Parola, ci nutriamo del suo pane di vita, accogliamo la sua Persona in noi come centro unificante di tutto ciò che siamo. Questa è la parte migliore di cui tutti noi abbiamo assoluta necessità.

 

Preghiere e racconti

Cerchiamo di possedere ciò che nessuno ci può togliere

Si è parlato della misericordia, ma questa virtù non ha un unico aspetto. Con l’esempio di Marta e di Maria ci viene presentata della prima l’instancabile dedizione nelle opere, della seconda la devota attenzione del cuore alla Parola di Dio. Se questo atteggiamento concorda con la fede, viene preferito alle opere stesse, come sta scritto: «Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,42). Cerchiamo anche noi di possedere ciò che nessuno ci può togliere, prestando un ascolto attento e non superficiale; infatti, perfino i semi della Parola celeste solitamente sono portati via se vengono seminati lungo la strada. Ti spinga, come Maria, il desiderio della sapienza; questa infatti è l’opera più grande, più perfetta e la sollecitudine per il ministero non ti distolga dal conoscere la Parola celeste. Non rimproverare e non ritenere che perdano tempo quelli che vedi dedicarsi alla sapienza; Salomone, quell’uomo di pace, la fece venire presso di sé (cfr. Sap 9,10). Però Marta non viene rimproverata per il suo lodevole servizio; Maria è preferita perché ha scelto per sé la parte migliore.

Gesù possiede in abbondanza molti doni e molti ne distribuisce.

Per questo Maria è più sapiente perché ha scelto quello che ha capito essere fondamentale. Del resto gli apostoli non ritennero che fosse la cosa migliore trascurare la Parola di Dio per servire alle mense (cfr. At 6,2). Ma tanto l’uno che l’altro sono compiti affidati dalla Sapienza; anche Stefano, infatti, che era stato scelto per il servizio, era colmo di sapienza (cfr. At 6,5). Perciò chi serve renda onore a chi insegna e chi insegna esorti e inciti chi serve. Uno solo è il corpo della chiesa, sebbene le membra siano differenti (cfr. 1Cor 12,12 ss.), e ciascuno ha bisogno dell’altro.

(AMBROGIO, Sul vangelo di Luca 7, 85-86, in Opera omnia di Sant’Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca 2, pp. 152-154).

Due tipi di preghiera

Per S. Teresa, dunque, non a tutti Dio concede la via contemplativa, qui da intendere appunto come la via dell’esperienza mistica; è una via che dipende dal puro dono.

Commentando il quadretto evangelico di Marta e Maria, ella applica le due figure ai due tipi di preghiera: Di S Marta non si dice che fosse contemplativa. Eppure non lascia di essere una gran Santa. Non vi basterebbe somigliare a questa donna felice che meritò tante volte di ospitare in casa sua nostro Signore Gesù Cristo, preparargli da mangiare, servirlo e mangiare lei stessa alla sua mensa? Se foste tutte assorte come Maddalena, più nessuno preparerebbe da mangiare all’Ospite divino. Orbene, immaginate che il nostro monastero sia come la casa di S. Marta, dove occorre attendere a ogni ufficio. Quelle che vanno per la via attiva non mormorino di quelle che si beano nella contemplazione, perché il Signore ne prenderebbe le difese, anche se non parlassero, dimentiche di sé e di ogni altra cosa come esse sono generalmente. Pensino che tra loro vi dev’essere pure qualcuno che prepari il cibo al Maestro, ed essa si ritenga fortunata di poterlo servire come Marta. Non dimentichino che la vera umiltà consiste nell’essere disposti ad accettare con gioia quanto il Signore vuole da noi, considerandoci indegni di esser chiamati suoi servi.

(Santa Teresa di Gesù, Cammino di perfezione, 17, 5-6).

Mi sento inutile

“Niente che appartiene a questo mondo è inutile agli occhi di Dio. Né una foglia che si stacca dall’albero, né un capello che cade dalla testa, né un insetto che viene ucciso perché fastidioso. Ogni creatura o cosa possiede una ragione d’essere.

“E ciò riguarda anche a te, giovane afflitto con le vesti stracciate. ‘Mi sento inutile’, hai detto. Ma la soluzione al tuo problema si trova da sempre nella tua anima.

“Ascoltala! Altrimenti rischierai di morire, pur continuando a vivere – a camminare, a dormire, a cercare di divertirti…

“Non tentare di mostrarti utile. Sforzati di essere te stesso: è sufficiente – e fa la differenza.

“Non cercare di anticipare gli insegnamenti della tua anima: segui la voce, senza fretta né indugi. Passo dopo passo, apprenderei i segreti della tua utilità. Ci si scopre utili sia partecipando a un’imponente battaglia che può cambiare il corso della storia, sia sorridendo a uno sconosciuto che si incontra per la strada.

“È persino possibile che con quel gesto spontaneo tu abbia salvato la vita a una persona, che magari si reputava inutile e stava meditando di uccidersi – finché un sorriso gli ha donato speranza e fiducia.

“Anche se ti concentrerai sul tuo passato e rivedrai i momenti nei quali hai sofferto e sudato e sorriso sotto il sole, non potrai mai sapere esattamente quando sei stato utile agli altri.

“Di certo, però, un’esistenza non può mai dirsi inutile. Ogni anima ha una ragione precisa per trovarsi in questo mondo.

“Coloro che fanno realmente del bene agli altri non cercano di mostrarsi utili, ma si impegnano per condurre una vita retta e interessante. […] Talvolta ti sembrerà un impegno vano, eppure …

“Eppure Dio – che vede tutto – utilizzerà il tuo esempio e la tua esperienza per migliorare il mondo. E, ogni giorno, ti regalerà nuove benedizioni.”

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Milano, Bompiani, 2012, 48-49).

Racconto

“… un mercante, una volta, mandò il figlio ad apprendere il segreto della felicità dal più saggio di tutti gli uomini. Il ragazzo vagò per quaranta giorni nel deserto, finché giunse a un meraviglioso castello in cima a una montagna. Là viveva il Saggio che il ragazzo cercava.

Invece di trovare un sant’uomo, però, il nostro eroe entrò in una sala dove regnava un’attività frenetica: mercanti che entravano e uscivano, ovunque gruppetti che parlavano, una orchestrina che suonava dolci melodie. E c’era una tavola imbandita con i più deliziosi piatti di quella regione del mondo. Il Saggio parlava con tutti, e il ragazzo dovette attendere due ore prima che arrivasse il suo turno per essere ricevuto.

Il Saggio ascoltò attentamente il motivo della visita, ma disse al ragazzo che in quel momento non aveva tempo per spiegargli il segreto della felicità. Gli suggerì di fare un giro per il palazzo e di tornare dopo due ore.

Nel frattempo, voglio chiederti un favore, concluse il Saggio, consegnandogli un cucchiaino da tè su cui versò due gocce d’olio. Mentre cammini, porta questo cucchiaino senza versare l’olio.

Il ragazzo cominciò a salire e scendere le scalinate del palazzo, sempre tenendo gli occhi fissi sul cucchiaino. In capo a due ore, ritornò al cospetto del Saggio.

Allora, gli domandò questi, hai visto gli arazzi della Persia che si trovano nella mia sala da pranzo? Hai visto i giardini che il Maestro dei Giardinieri ha impiegato dieci anni a creare? Hai notato le belle pergamene della mia biblioteca?’

Il ragazzo, vergognandosi, confessò di non avere visto niente. La sua unica preoccupazione era stata quella di non versare le gocce d’olio che il Saggio gli aveva affidato.

Ebbene, allora torna indietro e guarda le meraviglie del mio mondo, disse il Saggio. Non puoi fidarti di un uomo se non conosci la sua casa.

Tranquillizzato, il ragazzo prese il cucchiaino e di nuovo si mise a passeggiare per il palazzo, questa volta osservando tutte le opere d’arte appese al soffitto e alle pareti. Notò i giardini, le montagne circostanti, la delicatezza dei fiori, la raffinatezza con cui ogni opera d’arte disposta al proprio posto.

Di ritorno al cospetto del Saggio, riferì particolareggiatamente su tutto quello che aveva visto.

Ma dove sono le due gocce d’olio che ti ho affidato? domandò il Saggio.

Guardando il cucchiaino, il ragazzo si accorse di averle versate.

Ebbene, questo è l’unico consiglio che ho da darti, concluse il più Saggio dei saggi.

Il segreto della felicità consiste nel guardare tutte le meraviglie del mondo senza dimenticare le due gocce d’olio nel cucchiaino.”

(Paulo Coelho)

Preghiera

Marta e Maria di Betania – l’azione e la contemplazione – si trovano pienamente integrate nel vero e incomparabile modello di vita santa: nella «Maria per eccellenza», la Madre del Signore. È soprattutto a lei che dobbiamo guardare per apprendere a stare alla presenza del Signore, a scegliere la «parte migliore» senza trascurare l’umile fatica del lavoro, il servizio premuroso ai fratelli, alle membra del corpo mistico di Cristo.

O Vergine Maria,

prima e incomparabile discepola del Verbo di Dio

che tu stessa hai generato e nutrito al tuo seno,

insegnaci a rimanere con te in religioso ascolto

affinché, cessato il rumore delle nostre parole,

e placata l’agitazione per le troppe cose

in cui ci disperdiamo,

cresca in noi, con la fede,

il desiderio dell’unica cosa necessaria:

ascoltare Gesù che ci rivela

l’amore salvifico del Padre. 

Ottienici, o Madre,

un’anima profondamente contemplativa

anche nell’azione

perché sempre e dovunque

il nostro cuore indiviso

sappia stare alla presenza del Signore

e saziarsi di lui

Unico e Sommo Bene.

Amen.

(Anna Maria Canopi, da: Incontri con Gesù, Leumann, Elle Di Ci, 2009, 90).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVI DOM TEMP ORD (C)

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Deuteronomio 30,10-14

Mosè parlò al popolo dicendo: «Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».

 

Ancora una volta è necessario retrocedere nella lettura per comprendere meglio il senso della pericope proposta nella liturgia. Bisogna leggere il v.6 dello stesso capitolo: «Il Signore tuo Dio circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu ami il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima e viva».

     A questa formula si ricollega il v 10 che apre la lettura e che richiede di convertirsi al Signore «con tutto il cuore e con tutta l’anima». La medesima formula ricorre in 6,5 ripresa nel vangelo come primo comandamento da osservare. Si tratta di un pensiero fondamentale sul quale il libro del Deuteronomio ricorre più volte insistendo sull’amore integrale a Dio in 10,12; 11,13; 13,3. In 26,16 invece lo stesso formulario viene usato per parlare dell’osservanza dei comandamenti di Dio e in 30,2 della conversione al Signore da attuare sempre «con tutto il cuore e con tutta l’anima». Potremmo così dire che la pericope che stiamo commentando assume un ruolo riassuntivo del messaggio del libro. È l’ultima volta che ricorre la formula appena ricordata prima: «con tutto il cuore e con tutta l’anima».

     Il nostro brano vuole persuadere il lettore circa la praticabilità di quanto ha letto nell’intera opera. Il messaggio è impegnativo perché totalizzante, ma la pretesa radicale della teologia deuteronomista non rimane una utopia; è traducibile in vita. Il cielo era un punto inarrivabile per l’uomo di allora e il mare per un popolo come Israele estraneo alla navigazione, era inaccessibile. Le immagini servono per dire che non esistono barriere insormontabili tra la parola di Dio e il cuore umano. L’interiorizzazione della parola e dei precetti divini è un altro tema assai caro al Deuteronomio: 6,6; 11,18. Forse l’autore si aspetta che sia già stato attuato l’invito di Dio? Sarebbe ingenuo rispondere di sì. Il profeta Geremia non estraneo alla teologia deuteronomista dirà chiaramente che questo non può avvenire che per dono divino: Ger 31,31-34. Anche il profeta Ezechiele annuncia la promessa della interiorizzazione della legge come dono concesso da Dio: 11,19-20; 36,27. Siamo dunque con il brano in questione agli albori di una tradizione che porterà alle prospettive profetiche appena ricordate? Non è facile rispondere. Bisognerà accontentarsi soltanto di accogliere questa affermazione della presenza interiore della parola di cui la pericope non ci dice con chiarezza a chi attribuirla. L’unica cosa che per ora interessa all’autore è evitare al suo lettore la tentazione di ritenere il suo messaggio impraticabile, mentre invece è una realtà già misteriosamente presente in lui. San Paolo riprenderà il contenuto di questa lettura in Rm 10,6-8.

 

Seconda lettura: Colossesi 1,15-20 

Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

 

Il noto inno cristologico che viene proposto oggi come seconda lettura è molto probabilmente di composizione anteriore alla lettera cui appartiene. Può essere una testimonianza della liturgia della comunità della chiesa apostolica, un testo noto ai colossesi che può così diventare ottimo strumento di catechesi. La sua posizione iniziale nella lettera pertanto non vuole essere semplicemente celebrativa, ma fondante il messaggio teologico che l’autore darà nel suo scritto.

     L’inno è facilmente divisibile in due parti: i vv. 15-17 illustrano il rapporto esistente tra Cristo e il creato, Egli viene presentato qui come il mediatore della creazione. Nei vv. 18-20 viene presentato il ruolo di Cristo in merito alla redenzione umana.

     La prima parola con la quale Cristo viene indicato è «immagine». Per capirne il senso in modo pertinente bisognerebbe ricollocarsi nella cultura ellenistica secondo la quale l’immagine, pur restando distinta dal suo archetipo, ne costituiva una manifestazione reale. In termini semplici si può dire che la relazione tra immagine e realtà rappresentata era assai più stretto che non nella nostra cultura. Eb 1,3 che definisce Gesù rispetto al Padre come «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» costituisce una resa scritturistica di quanto è appena stato detto. Si vede così come Gesù sia una immagine assolutamente nitida di Dio, che lo rende visibile in modo chiaro; distinto dal Padre, ma sua riproduzione fedelissima. Il Dio che Gesù ci presenta era prima caratterizzato dall’invisibilità: 1Tim 1,17; 6,16; Gv 1,18; 6,46; 1Gv 4,12. Ora c’è una svolta decisiva perché nel Figlio il Padre si rende visibile: Gv 1,18; 14,9. A dire il vero esisteva già nell’ordine del creato un’immagine di Dio, era l’uomo stesso come dice bene Gn 1,26-27, convinzione che riecheggia in 1Cor 11,7; Col 3,10.

     Si tratta di una immagine che non si colloca sul piano dell’identità, né su quella dell’approssimazione. Un’immagine tuttavia insufficiente per una piena conoscenza di Dio e per la scoperta del progetto autentico del creato. Gesù, apparso in forma umana (cf. Fil 2,27), assolve entrambe i compiti: rendere visibile il Padre e comprensibile il progetto creatore.

     Egli è lo strumento della creazione, pensiero che Paolo aveva già manifestato in 1Cor 8,6 e che ritroviamo come convinzione della comunità apostolica anche in Gv 1,3 e Eb 1,2. Soprattutto Gesù è il fine per il quale il mondo viene creato. L’inno svela così che fin dall’inizio vi è un obiettivo positivo dal momento che tutto viene creato in vista di Cristo. Il modello che il Padre ha davanti a sé nella creazione del mondo e dell’uomo è il suo unigenito; e il fatto che il Padre dia al Figlio questa attenzione nella progettazione del creato fa sì che Cristo non sia più solo «l’unigenito», ma diventi anche «il primogenito» come sottolineano i vv. 17-18. Il primo si colloca ancora semplicemente nell’ordine creaturale, il secondo ormai nell’ordine nuovo stabilito da Cristo con la sua risurrezione. Vi è dunque per Cristo un primato antecedente e uno conseguente. Il suo primato antecedente (vv. 15.17) sta nel fatto che viene scelto dal Padre come modello e strumento del creato; il suo primato conseguente invece nel fatto che la sua risurrezione inaugura la sua signoria universale sull’umanità rigenerata dal suo mistero pasquale. Tutto questo, come dice il v. 19 appartiene alla volontà di Dio. Il verbo «piacere» indica infatti le decisioni di Dio in merito al piano salvifico (Mt 11,26; Lc 10,21; 12,32; 1Col 1,21). La volontà del Padre ha poi un contenuto ancora più preciso: stabilire in Cristo ogni pienezza. In 2,9 si dirà che «in Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità». È una spiegazione esaustiva. La pienezza di Cristo è pienezza di vita che si partecipa al creato in quanto vi è in lui pienezza di divinità. Il v. 20 ci riporta sul piano storico per mostrarci come si è consumata l’opera di Gesù.

     Dopo i termini grandi e speculativi ne troviamo ora due concretissimi e cruenti: sangue e croce. Sono le modalità reali in cui la riconciliazione si è consumata rendendo Cristo sintesi vitale e vivificante. Come esisteva un orizzonte universale per la mediazione creatrice, esiste anche un ordine universale ed ultraterreno per l’efficacia redentrice. Il raggio universale dell’opera realizzata da Gesù mediante la croce e chiamata riconciliazione è un tema caro all’innografia cristiana originaria come attesta anche la lettera agli Efesini: 1,10; 2,14.16.

 

Vangelo: Luca 10,25-37

 In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

 

Esegesi 

     Il brano a nostra disposizione si divide chiaramente in due parti. La prima occupa i vv. 25-28 e si concentra sulla necessità di mettere a fuoco le cose più importanti da fare per avere la vita eterna. La seconda parte occupa i vv. 29-39 per spiegare in un modo concretissimo la focalizzazione dell’unità precedente.

     I vv. 25-28 trovano un parallelo in Mt 22,34-40 e Mc 12,28-31. In quei due passaggi si sente però il sapore di una disputa tra scuole teologiche, la necessità di trovare nell’oceano di una precettistica sofisticata almeno l’essenziale. Siamo nell’ambito di un orientamento teorico in cui la parola di Gesù diventa decisiva. È lui infatti a dare la risposta che combina

insieme i due comandamenti presi rispettivamente da Dt 6,5 quello che riguarda l’amore a Dio e (Lv 19,18) quello che riguarda l’amore al prossimo. Il testo di Luca propone differenze evidenti. La preoccupazione del dottore della legge, che come in Mt mantiene uno scopo polemico, insidioso, non è sul piano teorico, ma pratico. Abbiamo qui la medesima domanda che si ritroverà in 18,18, posta in quella occasione dal ricco che ha pure lui la preoccupazione di «ereditare la vita eterna». Questa domanda prende pertanto in Lc un rilievo notevole; la preoccupazione concreta per quanto è necessario fare per avere la salvezza interessa il terzo evangelista in un modo particolare. Sul «fare» insiste la domanda del dottore (v. 25), la prima risposta di Gesù (v. 25) e l’ultima (v. 37). La risposta alla domanda centrale però non viene formulata da Gesù. Egli la gira al dottore della legge ed è lui stesso a combinare insieme Dt 6,5 e Lv 19,18 praticamente in un comandamento unico. Mentre in Matteo e Marco si ha una precedenza chiara del comandamento dell’amore di Dio rispetto a quello del prossimo stabilendo un parallelismo (Mt 22,39) o una subordinazione (Mc 12,31), in Luca è risultata una indicazione sola, praticamente un unico inscindibile comandamento. Abbiamo già detto che non è Gesù a dare la risposta; ma va notato bene a quale fonte egli rimandi il suo interlocutore perché sia lui stesso a formularla: la legge. Gli scritti di Mosè pertanto conservano ancora secondo Gesù il loro valore di indicazione valida della volontà salvifica di Dio.

     L’amore per Dio è totalizzante, nessuna dimensione della persona umana ne è esclusa. Rispetto alla versione originale di Dt 5,6 Luca aggiunge qui anche la mente per sottolineare ancora di più l’impegno dell’uomo nell’amore di Dio. Per l’amore al prossimo si propone invece come termine di paragone l’amore a se stessi. Non si tratta di pensare all’egoismo che ognuno porta in sé o all’istinto di conservazione innato in ciascuno; si tratterebbe di un confronto negativo. Anche se le seguenti osservazioni probabilmente non sono nell’intenzione dell’autore del libro del Levitico, credo però che siano opportune. Il soggetto dell’amore vero è colui che ha con se stesso un rapporto sereno, armonioso. La conoscenza e l’accettazione di sé stanno alla base di un rapporto con gli altri veramente amorevole. Amare gli altri come se stessi non significa dunque condividere con gli altri il proprio egoismo, ma partecipare loro la propria serenità e la propria gioia di vivere.

     Un problema ora è decisivo: questo prossimo chi è? La domanda è ineludibile per quanto segue. Nella mentalità comune al tempo di Gesù il prossimo era il membro dello stesso popolo, per gli esseni addirittura solo gli appartenenti alla loro setta. La visione del prossimo era dunque assai limitata. La parabola farà saltare un simile modo di intenderla.

     I vv. 30-37 raccontano la notissima parabola che Gesù offre come risposta concreta al quesito iniziale: che fare per salvarsi? Si tratta di un caso umano presentato con grande realismo ed efficacia. La strada da Gerusalemme a Gerico, effettivamente conosciuta da Gesù (cf. Lc 18,35,19,1.28) è davvero un luogo adatto a simili fatti di cronaca. Una rapina lungo la strada lascia la vittima al bordo della medesima; a distanza non si può fare una diagnosi precisa delle sue condizioni. Per questo motivo il sacerdote, ministro qualificato del culto, e un levita, ministro di grado inferiore addetto all’ordine del tempio, non osano neanche avvicinarsi. Nell’eventualità che il malcapitato fosse morto essi sarebbero tagliati fuori dalle loro funzioni in base alle leggi di purità cultuale (Lv 21; Nm 19,11). Il soccorso a quella persona è dunque per loro un rischio che non si può correre, pena l’esclusione dalle loro mansioni professionali. Su questa linea si potrebbe notare nell’insegnamento di Gesù una nota polemica nei confronti del culto e il desiderio di superarne la formalità come già insegnavano i profeti: Os 6,6.

     Al v. 33 arriva la vera sorpresa. Il soggetto scelto per il soccorso, per la buona azione è un personaggio che l’ascoltatore di Gesù non avrebbe nominato se non per biasimarlo, rinfacciargli la sua razza bastarda (cf. 1Re 17,24-41), il suo essere eretico e scismatico (Gv 4,20). Gesù invece l’ha scelto come soggetto di un verbo delicatissimo: «ne ebbe compassione». Di questo verbo è soggetto Gesù stesso in 7,13; 15,20. Nessun ribrezzo per Gesù dunque ad identificarsi con un samaritano. Già questo è il primo atteggiamento da notare. La parabola insegnerà l’abolizione di qualsiasi barriera nei rapporti interpersonali, ma insegnando questo Gesù non farà altro che rivelare il suo cuore ed il suo stile (cf. 6,36; 15,1-3).

     I vv. 34-35 vanno letti non come cronaca, ma come completamento dei sentimenti notati prima nel samaritano. Egli non è solo capace di compassione, è capace di renderla autentica con gesti concreti, a proprie spese. Senza questa complementarietà operativa non si potrebbe parlare di misericordia. 

     Al v. 36 tocca allo stesso dottore della legge tirare la conclusione; ciò fa parte del metodo parabolico di Gesù (cf. Mt 21,28-31) e in un certo senso si riallaccia alla prima parte del brano dove era toccato ancora a lui dare la risposta al suo interrogativo.

     Il v. 37 è l’apice del brano e la risposta definitiva che trova il suo fulcro in quel «fa’». Così si capisce che per entrare nella vita eterna non c’è che una cosa da fare: vivere un amore autentico e fattivo per tutti, per qualsiasi persona, in una parola riprodurre nella propria vita l’amore senza esclusioni di Gesù.

 

Meditazione 

     «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono lasciandolo mezzo morto… Un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,30.33). Su di una strada due uomini si incontrano occasionalmente: uno è ferito, «mezzo morto», l’altro è uno straniero che sa vedere la sofferenza del fratello e farsi prossimo. Su di una strada, casualmente, a due uomini viene data la possibilità di obbedire al grande comandamento che è al cuore della Legge: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10,27; cfr. Dt 6,5 e Lv 19,18). Obbedire alla parola del Signore «osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge» (Dt 30,10) è dare carne, nella vita e nelle relazioni, a questa parola perché essa «è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14): questo è il messaggio che ci viene consegnato dalla liturgia della Parola di questa domenica.

     La forte dimensione di operatività, di vita, di concretezza, di obbedienza alla parola è tradotta attraverso il racconto parabolico con cui Gesù risponde ad alcuni interrogativi posti da uno scriba. È un racconto che termina proprio con questa affermazione: «Va’ e anche tu fa ‘così» (v. 37).

     Il dialogo tra lo scriba e Gesù, riportato in Lc 10,25-29, prende avvio da una domanda posta dallo scriba: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (v. 25). Ereditare la vita è ciò che sta a cuore a quello scriba. Ma quale vita cercare e come orientare ad essa tutto il cammino? La risposta di Gesù allo scriba è un’altra domanda che orienta alla Parola per eccellenza, la Torà: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» (v. 26). E lo scriba stesso può trovare una risposta al suo desiderio di vita: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso» (v. 27). Nell’ascolto della Parola, di quella Parola che è spirito e vita, lo scriba stesso ha trovato una risposta al suo desiderio di vita. Gesù ha fatto emergere dal cuore di quell’uomo il bisogno più profondo e il desiderio più autentico che è nascosto in ogni uomo: quello di una vita che è dono, quello di una vita che apre alla eternità. Con la pedagogia sapiente del padre nello spirito, Gesù non ha risposto allo scriba offrendogli qualcosa di esterno a lui; l’ha semplicemente invitato a mettersi in ascolto della Parola e a scoprire che proprio la Parola traduceva quel desiderio di vita che era in lui. E veramente è questa la Parola che sta alla radice del nostro agire e del nostro essere, la Parola che sa unificare tutta la complessità della nostra esistenza (cuore, anima forze, mente), che sa orientare tutte le nostre potenzialità verso l’infinito (Dio stesso) e sa renderle vere attraverso la mediazione della nostra carne (il fratello). «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai» (v. 28), è la semplice constatazione di Gesù. La vita passa attraverso un fare questa precisa Parola e questa Parola è veramente tutto. È il ‘grande comandamento’: grande perché al di sopra di esso non c’è nulla; grande perché ci supera; grande perché è il nome stesso di Dio (cfr. Dt 6, 4-9).

     Il dialogo tra lo scriba e Gesù avrebbe potuto terminare con questo rimando alla vita: «fa’ questo e vivrai». Ma lo scriba «volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico… Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo…”» (vv. 29.36). Lo scriba pone quella domanda a Gesù per giustificarsi: fa fatica a riconoscere che non sa amare e preferisce spostare il problema al di fuori di sé. Gesù gli pone sotto gli occhi un uomo che sa amare, obbligandolo a ricollocare nuovamente la domanda dentro di sé: non è questione di chi si deve amare, ma di come si deve amare. Il samaritano è un modello di amore e da lui quello scriba deve imparare. E sotto le spoglie del samaritano c’è Gesù stesso, il ‘buon samaritano’ per eccellenza. È da lui che quello scriba deve imparare ad amare.

     La parabola narrata da Gesù allo scriba non ha bisogno di una spiegazione; attorno ad essa non dobbiamo costruire teorie o riflessioni teologiche sofisticate (cadremmo nel tranello che la domanda dello scriba tentava di porre a Gesù). È un racconto esemplare in quanto propone un comportamento da imitare; «non va trasposta da un piano all’altro, da quello figurato a quello religioso, poiché è già essa stessa su quello religioso» (B. Maggioni). Di fronte a questa parabola, che ci presenta una situazione concreta e tutt’altro che ideale, dobbiamo semplicemente seguire l’esempio del samaritano, quell’esempio che Gesù pone di fronte allo scriba dicendo: «Va e anche tu fa’ così» (v. 37). L’atteggiamento corretto di fronte a questa parabola è proprio questo: dopo averla ascoltata, non c’è altro da fare che riprendere il cammino e fare ogni giorno, a partire dalle situazioni concrete che la vita ci fa incontrare, quello che ha fatto il samaritano: «passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino… lo caricò sopra la sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui» (v. 34). Ciò che il samaritano ci insegna a fare è nient’altro che amare, vivere quella compassione che ci apre senza riserve e senza difese all’altro e che fa entrare l’altro nel profondo del nostro cuore, come un dono prezioso da custodire e di cui prendersi cura. Questo è il segreto della parabola che Gesù ci racconta. Ogni domanda in più è nient’altro che un tentativo di frenarci o di rimandare quello che la parola di Dio ci chiede di fare, non è nient’altro che un tentativo di giustificarci e nasconderci dietro a riserve e paure: «ma quello volendo giustificarsi disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”» (v. 29). Il vero problema non è quello di possedere una descrizione precisa che ci permetta di identificare il nostro prossimo e poi agire con sicurezza nei suoi riguardi. In un certo senso il volto del prossimo deve avere sempre i tratti indefiniti e imprevisti della gratuità; il prossimo è sempre l’altro che ‘per caso’ incontro sul

mio cammino, sul ciglio della strada, l’altro che non conosco che mi appare lontano e che, così diverso da me, forse non mi da immediatamente sicurezza. Il prossimo è ogni uomo che chiede proprio a me un gesto e una parola di vita. Il vero problema è che io devo farmi prossimo proprio di quest’uomo, concreto, non di un altro e devo farmi prossimo passandogli accanto, vedendolo, fasciandogli le ferite, prendendomi cura di lui: il vero problema è avere il coraggio di diventare prossimo di ogni fratello percorrendo la via rischiosa della compassione. La vera domanda che la parabola ci suggerisce di farci ogni volta che incontriamo un uomo, così come lo ha incontrato il samaritano, non è: chi è l’altro per me, ma: chi sono io per l’altro; «chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo…?» (v. 36).

            Notiamo infine che il racconto di Gesù non parla di Dio, ma dell’uomo. Quel samaritano, nel momento in cui sceglie di compromettersi con l’uomo sofferente, non decide di far questo perché, agendo così, osserverà la legge di Dio, quella parola che lo scriba aveva ricordato a Gesù. Anzi il samaritano è uno che non conosce la legge, a differenza del sacerdote e del levita (cfr. vv. 31-32). Il samaritano agisce così semplicemente perché di fronte all’uomo sofferente, che chiede aiuto, non gli passa per la mente nessun altro atteggiamento se non quello della compassione. Ma proprio qui sta lo stupendo paradosso di que-sto atteggiamento: senza saperlo, nella più totale gratuità, il samaritano ama come ama Dio. Anzi, senza saperlo, quel samaritano ama Dio. Quel samaritano è la rivelazione della compassione di Dio verso la nostra umanità ferita e abbandonata; quel samaritano è Gesù che si china su ciascuno di noi, che fascia le nostre ferite, che si carica delle nostre sofferenze, che ci affida alla comunità, alla Chiesa per essere curati e guariti. Ed è stupendo vedere come tutto questo non ci viene detto attraverso un linguaggio religioso che forse anche il sacerdote e il levita avrebbero saputo narrare e spiegare con molta precisione (lo scriba non aveva forse dato la risposta giusta a Gesù?), ma attraverso il linguaggio della vita, dell’umanità, conosciuto solo da chi sa amare con gratuità l’altro semplicemente perché è uomo. Solo Gesù, colui che è vero Dio e vero uomo, può raccontare Dio in questo modo ed indicarci un nostro fratello in umanità come esempio da seguire. «Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa ‘così”» (v. 37).

 

Preghiere e racconti

La parabola del buon samaritano (Lc 10, 25-3 7)

Al centro della storia del buon samaritano vi è la domanda fondamentale dell’uomo. t un dottore della Legge, quindi un maestro dell’esegesi, che la pone al Signore: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (10,25). Luca aggiunge che il dottore avrebbe fatto quella domanda a Gesù per metterlo alla prova. Egli personalmente, in quanto dottore della Legge, conosce la risposta che a essa dà la Bibbia, ma vuole vedere che cosa dice al riguardo quel profeta digiuno di studi biblici. Il Signore lo rimanda molto semplicemente alla Scrittura che questi, appunto, conosce e lascia che sia lui stesso a dare la risposta. Il dottore della Legge risponde con esattezza mettendo insieme Deuteronomio 6,5 e Levitico 19,18: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). Riguardo a questa domanda Gesù non insegna cose diverse dalla Torah, il cui intero significato è unito in questo duplice comandamento. Ora, però, quest’uomo dotto, che da sé conosce benissimo la risposta alla sua domanda, deve giustificarsi: la parola della Scrittura è indiscussa, ma come essa debba essere applicata nella pratica della vita solleva questioni che sono molto dibattute nella scuola (e anche nella vita stessa).

La domanda, nel concreto, è: chi è «il prossimo»? La risposta abituale, che poteva poggiarsi anche su testi delle Scritture, affermava che «prossimo» significava «connazionale». Il popolo costituiva una comunità solidale, in cui ognuno aveva delle responsabilità verso l’altro, in cui ogni individuo era sostenuto dall’insieme e quindi doveva considerare l’altro, «come se stesso», parte di quell’insieme che gli assegnava il suo spazio vitale. Gli stranieri allora, le persone appartenenti a un altro popolo, non erano «prossimi»? Ciò, però, andava contro la Scrittura, che esortava ad amare proprio anche gli stranieri ricordando che in Egitto Israele stesso aveva vissuto un’esistenza da forestiero. Tuttavia, dove porre i confini restava argomento di discussione. In generale si considerava appartenente alla comunità solidale e quindi «prossimo» solo lo straniero che si era stanziato nella terra d’Israele. Erano diffuse anche altre limitazioni del concetto di «prossimo». Una dichiarazione rabbinica insegnava che non bisognava considerare «prossimo» eretici, delatori e apostati (Jeremias, p. 170). Inoltre era dato per scontato che i samaritani, che a Gerusalemme, pochi anni prima (tra il 6 e il 9 dopo Cristo) avevano contaminato la piazza del tempio proprio nei giorni della Pasqua spargendovi ossa umane (Jeremias, p. 17 1), non erano «prossimi».

Alla domanda, resa in questo modo concreta, Gesù risponde con la parabola dell’uomo che sulla strada da Gerusalemme a Gerico viene assalito dai briganti che lo abbandonano ai bordi della via, spogliato e mezzo morto. E’una storia assolutamente realistica, perché su quella strada assalti simili accadevano regolarmente. Passano sulla medesima strada un sacerdote e un levita – conoscitori della Legge, esperti circa la grande domanda della salvezza di cui erano al servizio per professione – e vanno oltre. Non dovevano essere necessariamente uomini particolarmente freddi; forse hanno avuto paura anche loro e hanno cercato di arrivare più presto possibile in città; forse erano maldestri e non sapevano da che parte cominciare per prestare aiuto tanto più che, comunque, sembrava che non ci fosse più molto da aiutare. Poi sopraggiunge un samaritano, probabilmente un mercante che deve percorrere spesso quel tratto di strada ed evidentemente conosce il padrone della locanda più vicina; un samaritano – quindi uno che non appartiene alla comunità solidale di Israele e non è tenuto a vedere nella persona assalita dai briganti il suo «prossimo».

Bisogna qui ricordare che, nel capitolo precedente, l’evangelista ha raccontato che Gesù, in cammino verso Gerusalemme, aveva mandato avanti dei messaggeri che erano giunti in un villaggio di samaritani e volevano preparare per Lui un alloggio: «Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme» (9,52s). Infuriati, i figli del tuono – Giacomo e Giovanni – dissero allora a Gesù: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Il Signore li rimproverò. Si trovò poi alloggio in un altro villaggio.

Ed ecco ora apparire il samaritano. Che cosa farà? Egli non chiede fin dove arrivino i suoi doveri di solidarietà e nemmeno quali siano i meriti necessari per la vita eterna. Accade qualcos’altro: gli si spezza il cuore; il Vangelo usa la parola che in ebraico indicava in origine il grembo materno e la dedizione materna. Vedere l’uomo in quelle condizioni lo prende «nelle viscere», nel profondo dell’anima. «Ne ebbe compassione», traduciamo oggi indebolendo l’originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di misericordia che colpisce la sua anima diviene lui stesso il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni pericolo. Pertanto qui la domanda è mutata: non si tratta più di stabilire chi tra gli altri sia il mio prossimo o chi non lo sia. Si tratta di me stesso. lo devo diventare il prossimo, così l’altro conta per me come «me stesso».

Se la domanda fosse stata: «E’ anche il samaritano mio prossimo?», allora nella situazione data la risposta sarebbe stata un «no» piuttosto netto. Ma ecco, Gesù capovolge la questione: il samaritano, il forestiero, si fa egli stesso prossimo e mi mostra che io, a partire dal mio intimo, devo imparare l’essere-prossimo e che porto già dentro di me la risposta. Devo diventare una persona che ama, una persona il cui cuore è aperto per lasciarsi turbare di fronte al bisogno dell’altro. Allora trovo il mio prossimo, o meglio: è lui a trovarmi.

Helmut Kuhn, nella sua interpretazione della parabola, va certamente oltre il senso letterale del testo e tuttavia individua correttamente la radicalità del suo messaggio quando scrive: «L’amore politico dell’amico si fonda sull’uguaglianza dei partner. La parabola simbolica del samaritano, invece, sottolinea la radicale disuguaglianza: a samaritano, che non appartiene al popolo d’Israele, sta di fronte all’altro, a un individuo anonimo, egli che aiuta di fronte alla vittima inerme dell’attacco dei briganti. L’agape, così ci fa intendere la parabola, attraversa ogni tipo di ordinamento politico in cui domina il principio del do ut des, superandolo e caratterizzandosi in questo modo come soprannaturale. Per principio essa si colloca non solo al di là di questi ordinamenti, ma si comprende anzi come il loro capovolgimento: i primi saranno ultimi (cfr. Mt 19,30). E i miti erediteranno la terra (cfr. Mt 5,5)» (p. 88s). Una cosa è evidente: si manifesta una nuova universalità, che poggia sul fatto che io intimamente già divengo fratello di tutti quelli che incontro e che hanno bisogno del mio aiuto.

L’attualità della parabola è ovvia. Se la applichiamo alle dimensioni della società globalizzata, vediamo come le popolazioni dell’Africa che si trovano derubate e saccheggiate ci riguardano da vicino. Allora vediamo quanto esse siano «prossime» a noi; vediamo che anche il nostro stile di vita, la storia in cui siamo coinvolti li ha spogliati e continua a spogliarli. In questo è compreso soprattutto il fatto che le abbiamo ferite spiritualmente. Invece di dare loro Dio, il Dio vicino a noi in Cristo, e accogliere così dalle loro tradizioni tutto ciò che è prezioso e grande e portarlo a compimento, abbiamo portato loro il cinismo di un mondo senza Dio, in cui contano solo il potere e il profitto; abbiamo distrutto i criteri morali così che la corruzione e una volontà di potere priva di scrupoli diventano qualcosa di ovvio. E questo non vale solo per l’Africa.

Sì, dobbiamo dare aiuti materiali e dobbiamo esaminare il nostro genere di vita. Ma diamo sempre troppo poco se diamo solo materia. E non troviamo anche intorno a noi l’uomo spogliato e martoriato? Le vittime della droga, del traffico di persone, del turismo sessuale, persone distrutte nel loro intimo, che sono vuote pur nell’abbondanza di beni materiali. Tutto ciò riguarda noi e ci chiama ad avere l’occhio e il cuore di chi è prossimo e anche il coraggio dell’amore verso il prossimo. Perché – come detto – il sacerdote e il levita passarono oltre forse più per paura che per indifferenza. Dobbiamo, a partire dal nostro intimo, imparare di nuovo il rischio della bontà; ne siamo capaci solo se diventiamo noi stessi interiormente «buoni», se siamo interiormente «prossimi» e se abbiamo poi anche lo sguardo capace di individuare quale tipo di servizio, nel nostro ambiente e nel raggio più esteso della nostra vita, è richiesto, ci è possibile e quindi ci è anche dato per incarico. 

I Padri della Chiesa hanno dato alla parabola una lettura cristologica. Qualcuno potrebbe dire: questa è allegoria, quindi un’interpretazione che allontana dal testo. Ma se consideriamo che in tutte le parabole il Signore ci vuole invitare in modi sempre diversi alla fede nel regno di Dio, quel regno che è Egli stesso, allora un’interpretazione cristologica non è mai una lettura completamente sbagliata. In un certo senso corrisponde a una potenzialità intrinseca del testo e può essere un frutto che si sviluppa dal suo seme. I Padri vedono la parabola in dimensione di storia universale: l’uomo che li giace mezzo morto e spogliato ai bordi della strada non è un’immagine di «Adamo», dell’uomo in genere, che davvero «è caduto vittima dei briganti»? Non è vero che l’uomo, questa creatura che è l’uomo, nel corso di tutta la sua storia si trova alienato, martoriato, abusato? La grande massa dell’umanità è quasi sempre vissuta nell’oppressione; e da altra angolazione: gli oppressori – sono essi forse le vere immagini dell’uomo o non sono invece essi i primi deformati, una degradazione dell’uomo? Karl Marx ha descritto in modo drastico l’«alienazione» dell’uomo; anche se non ha raggiunto la vera profondità dell’alienazione, perché ragionava solo nell’ambito materiale, ha tuttavia fornito una chiara immagine dell’uomo che è caduto vittima dei briganti.

La teologia medievale ha interpretato i due dati della parabola sullo stato dell’uomo depredato come fondamentali affermazioni antropologiche. Della vittima dell’imboscata si dice, da un lato, che fu spogliato (spoliatus); dall’altro lato, che fu percosso fin quasi alla morte (vulneratus: cfr. Lc 10,30). Gli scolastici riferirono questi due participi alla duplice dimensione dell’alienazione dell’uomo. Dicevano che è spoliatus supernaturalibus e vulneratus in naturalibus: spogliato dello splendore della grazia soprannaturale, ricevuta in dono, e ferito nella sua natura. Ora, questa è allegoria che certamente va molto oltre il senso della parola, ma rappresenta pur sempre un tentativo di precisare il duplice carattere del ferimento che grava sull’umanità.

La strada da Gerusalemme a Gerico appare quindi come l’immagine della storia universale; l’uomo mezzo morto sul suo ciglio è immagine dell’umanità. Il sacerdote e il levita passano oltre – da ciò che è proprio della storia, dalle sole sue culture e religioni, non giunge alcuna salvezza. Se la vittima dell’imboscata è per antonomasia l’immagine dell’umanità, allora il samaritano può solo essere l’immagine di Gesù Cristo. Dio stesso, che per noi è lo straniero e il lontano, si è incamminato per venire a prendersi cura della sua creatura ferita. Dio, il lontano, in Gesù Cristo si è fatto prossimo. Versa olio e vino sulle nostre ferite – un gesto in cui si è vista un’immagine del dono salvifico dei sacramenti – e ci conduce nella locanda, la Chiesa, in cui ci fa curare e dona anche l’anticipo per il costo dell’assistenza.

I singoli tratti dell’allegoria, che sono diversi a seconda dei Padri, possiamo lasciarli serenamente da parte. Ma la grande visione dell’uomo che giace alienato e inerme ai bordi della strada della storia e di Dio stesso, che in Gesù Cristo è diventato il suo prossimo, la possiamo tranquillamente fissare nella memoria come una dimensione profonda della parabola che riguarda noi stessi. Il possente imperativo contenuto nella parabola non ne viene infatti indebolito, ma è anzi condotto alla sua intera grandezza. Il grande tema dell’amore, che è l’autentico punto culminante del testo, raggiunge così tutta la sua ampiezza. Ora, infatti, ci rendiamo conto che noi tutti siamo «alienati» e bisognosi di redenzione. Ora ci rendiamo conto che noi tutti abbiamo bisogno del dono dell’amore salvifico di Dio stesso, per poter diventare anche noi persone che amano. Abbiamo sempre bisogno di Dio che si fa nostro prossimo, per poter diventare a nostra volta prossimi.

Le due figure, di cui abbiamo parlato, riguardano ogni singolo uomo: ogni persona è «alienata», estraniata proprio dall’amore (che è appunto l’essenza dello «splendore soprannaturale» di cui siamo stati spogliati); ogni persona deve dapprima essere guarita e munita del dono. Ma poi ogni persona deve anche diventare samaritano – seguire Cristo e diventare come Lui. Allora viviamo in modo giusto. Allora amiamo in modo giusto, se diventiamo simili a Lui, che ci ha amati per primo (cfr. 1 Gv 4,19).

(Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, capitolo 7: il messaggio delle parabole, 219-256).

Cos’è la sconfitta?

“Nel ciclo della natura, non esistono né vittoria né sconfitta: esiste solo il moto del cambiamento.

“L’inverno lotta per imporre il suo regno ma, alla fine, è costretto ad accettare la vittoria della primavera, che porta fiori e allegrezza.

“L’estate cerca di estendere il dominio dei suoi giorni caldi, giacché è convinta che il calore sia un elemento benefico per le genti. Ma finisce per piegarsi all’arrivo dell’autunno, che regala un meritato riposo alla terra.

“La gazzella si nutre di arbusti ma, contemporaneamente, è il cibo del leone. Non si tratta di una questione di forza o di scaltrezza, bensì del modo in cui Dio ha scelto di mostrarci il ciclo della morte e della resurrezione.

“In questo ciclo non ci sono vincitori né vinti, ma soltanto fasi che devono compiersi. Allorché il cuore dell’essere umano comprende un simile meccanismo, può dirsi libero: accetta senza afflizione i periodi difficili, e non si lascia trarre in inganno dai momenti di gloria.

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Bompiani, Milano, 2012, 25-26)

Preghiera

Signore, quando ho fame,

dammi qualcuno che ha bisogno di cibo;

quando ho sete,

mandami qualcuno

che ha bisogno di una bevanda;

quando ho freddo,

mandami qualcuno da scaldare;

quando ho un dispiacere,

offrimi qualcuno da consolare;

quando la mia croce diventa pensate,

fammi condividere la croce di un altro;

quando sono nell’indigenza,

guidami da qualcuno nel bisogno;

quando non ho tempo,

dammi qualcuno

che io possa aiutare per qualche momento;

quando sono umiliato,

fa’ che io abbia qualcuno da lodare;

quando sono scoraggiato,

mandami qualcuno da incoraggiare;

quando ho bisogno

della comprensione degli altri,

dammi qualcuno che ha bisogno della mia;

quando ho bisogno

che un altro si occupi di me,

mandami qualcuno di cui occuparmi;

quando penso solo a me stesso,

attira la mia attenzione su un’altra persona.

E così avrò la vita eterna, la vita della carità.

(beata Teresa di Calcutta).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XV DOM TEMP ORD (C)

XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 66,10-14

Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia  tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria. Perché così dice il Signore: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi».

 

La comprensione del brano sarebbe resa più chiara dal suo contesto anticipando la lettura al v. 5. Nel v. 9 poi è il Signore che parla in modo diretto usando l’immagine del parto per illustrare la sua azione rigenerante verso il suo popolo. Il v. 8 aveva notato un fenomeno impossibile a verificarsi nella realtà: la formazione di un popolo non è istantanea, richiede tempo, conflitti, generazioni e fatiche. L’affetto del Signore per il suo popolo ha superato tutto questo, la rinascita d’Israele dopo l’amara esperienza dell’esilio sembra non conoscere i limiti imposti dalla storia. Nell’ottica del profeta basta un solo istante al Signore per rigenerare il suo popolo; il ritorno a Gerusalemme è come un parto in cui rapidamente una nuova vita viene alla luce.

     Ora il contenuto della lettura è più chiaro, I vv. 10-11 sono un invito alla gioia rivolto ai rimpatriati. Essi amano la loro città e ne hanno fatto il lutto al momento della loro partenza, al tempo della vittoria dei nemici che l’hanno resa vedova e priva di figli (Lam 1,1; Ger 14,17-19; 15,5-9). Ma ora la situazione è rovesciata, anziché essere privata dei figli, Gerusalemme li ha partoriti di nuovo, li ha riavuti tutti insieme, il loro ritorno è felice come il giorno della loro nascita. Nonostante le dure prove, Sion ora è prospera, il suo seno turgido e può offrire nutrimento a tutti senza razionamento.

     Nel giorno della nascita i regali sono una consuetudine. Di questo parla il v. 12. Il Signore assicura alla sua città un dono proporzionato per un evento così felice: la ricchezza dei popoli arriverà come un torrente in piena. Ma ancora più importante dei doni materiali, che tra l’altro un neonato non è in grado di apprezzare, è l’affetto. Neppure questo man-cherà alla rinata popolazione di Sion; la tenerezza e le coccole le saranno pure garantite come il segno più percepibile dell’affetto divino.

     Nel v. 13 troviamo ancora una grande espressione di tenerezza applicata a Dio: Egli sa consolare con delicatezza materna. Bisognerebbe ricordare il passaggio di 49,15 per gustare di più l’immagine:

 

Si dimentica forse una donna del suo bambino,

così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?

Anche se queste donne si dimenticassero,

io invece non ti dimenticherò mai.

Se la consolazione, da una parte è un grande atto di forza — come dice 40,1-2 dove si vede che per consolare il suo popolo Dio rovescia le sorti della storia e delle grandi potenze, ponendo fine alla schiavitù del suo popolo — dall’altra parte questo intervento a favore d’Israele è compiuto con sentimenti materni. Forza divina e tenerezza materna si ab-bracciano senza contrasto nel Dio d’Israele.

     Il v. 14 assicura che la descrizione fatta fin qui non è un miraggio. Essa sarà una realtà visibile e la sua vista sarà il sollievo definitivo del popolo provato. Le ossa spezzate sono il segno più evidente della tribolazione e del peccato (cf. Sal 31,11; 51,10). Il loro vigore ritrovato e paragonato all’erba primaverile, primizia di vita, è un ulteriore, tangibile segno del perdono concesso da Dio. La manifestazione della mano del Signore, cioè della sua forza operante, sarà salvezza per Israele, rovina per i suoi nemici.

 

Seconda lettura: Galati 6,14-18 

Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio. D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.     

Si tratta dei versetti finali della lettera e ne costituiscono una buona sintesi. In riferimento al v. 11 si potrebbe quasi dire che si tratta di ipsissima verba, dell’apostolo, ma al di là di questa esagerazione esse appartengono alla parte autografa con la quale Paolo ha concluso lo scritto come segno di autenticità della missiva.

     Il v. 14 si capisce meglio se non si perde il contrasto con quello precedente nel quale si parla del vanto dei circoncisi. Essi lo ripongono nell’avere proseliti, in un incremento numerico di coloro che sono sottoposti alla legge. Per essi dunque i galati sono uno strumento della loro vanagloria. Si dovrebbe rileggere a questo proposito 4,12-20 per comprendere come i giudaizzanti non avevano sentimenti corretti verso i galati, mentre Paolo li amava teneramente: 4,19. C’è anche un altro contrasto che non va perso e che è da ricercare nell’esperienza personale di Paolo. Anch’egli un tempo si vantava della pratica della legge e della circoncisione come lui stesso dice in 2Cor 11,21b-22; Fil 3,4-6. A quel periodo della sua vita fa cenno anche nella stessa lettera ai galati: 1,13-14. Ora tutto è cambiato, l’unico vanto che gli è rimasto è la croce. Non è una novità nel pensiero dell’apostolo. Già in 1Cor 1,31 mentre Paolo parla della sapienza della croce scrive: «chi si vanta si vanti nel Signore». Ma ora il legame tra croce e vanto è ancora più stretto, veramente personale. In 2,1.9 Paolo aveva già dichiarato di essere stato crocifisso con Cristo e in 5,24 aveva dichiarato che quelli che sono in Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con i suoi desideri e le sue passioni. Qui Paolo riprende quelle dichiarazioni. La croce lo ha estraniato al mondo e gli ha dato una nuova sapienza (cf. 1Cor 1,17-1,16). Se poi volessimo prescindere da una ricerca tecnica del significato della parola mondo ci potremmo indirizzare verso Fil 3,7-11 dove Paolo dice di voler diventare conforme a Cristo nella morte (v. 10) e fa questa affermazione alla fine di un brano in cui ha dichiarato di aver abbandonato la pratica della legge come strumento per arrivare alla giustizia.

     Nei vv. 15-16 Paolo sembra puntare su quanto è essenziale, cioè essere una nuova creatura. Leggendo 2Cor 5,14-17 si comprende meglio il significato di quello che viene detto qui. L’essere nuova creatura è il frutto dell’amore di Cristo e della sua morte. La norma dunque è quella di non vivere più per se stessi, ma per Gesù, una norma che da pace a tutti, anche ad Israele che per Paolo è pure destinato alla salvezza (Rm 11,26).

     Il v. 17 presenta il motivo per cui Paolo chiede che non venga più contestato e rattristato: egli è conformato anche fisicamente a Gesù. Chi sa se si tratta delle stigmate come ce le immaginiamo noi per alcuni mistici?

     Molto più probabilmente Paolo allude qui a tutto quello che ha sofferto nell’annuncio del vangelo e che l’apostolo narra in 2Cor 6,4-5; 11,23-25. Sono queste sofferenze che egli ha sopportato per il vangelo a costituire il segno più chiaro della sua appartenenza a Gesù. In 1,10 si è dichiarato servitore (doulos), schiavo di Cristo. Nell’antichità gli schiavi portavano il marchio del loro padrone. Le cicatrici rimaste sul corpo di Paolo per le ferite ricevute durante l’apostolato lo dichiarano senza equivoco alcuno proprietà di Gesù.

     Il v. 18 è un saluto affettuoso di ispirazione liturgica.

 

Vangelo: Luca 10,1-12.17-20

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.  Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città». I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

 

Esegesi

     Il brano presenta l’inizio e la conclusione della missione dei settantadue discepoli, omettendo i vv. 13-16 del capitolo 9 in cui Gesù si lamenta fortemente per la mancanza di fede di Corazin, Betsaida e Cafarnao in cui ha operato miracoli senza ottenerne la conversione.

     v. 1 – Il soggetto che agisce è Gesù nella sua qualità di «Signore», quindi nella sua veste regale. Come un sovrano, egli invita davanti a sé degli araldi con l’incarico di preparare la sua venuta. Ciò da già una prospettiva particolare alla missione, essa non è opera autonoma, annuncio di un proprio messaggio, ma preparazione di una presenza superiore realmente salvifica. Non si dimentichi che il titolo «Signore» indica Gesù nella sua nuova condizione di risorto, quindi qui Luca non vuole semplicemente narrare un fatto accaduto nel passato egli descrive l’attualità della Chiesa alla quale il suo «Signore» non lascia mancare gli annunciatori della salvezza. Luca stabilisce anche una salvaguardia alla unicità del ministero dei dodici. Questi settantadue vengono qualificati come «altri». Non si deve però pensare ad evangelizzatori di rango inferiore, perché all’origine del loro ministero c’è il medesimo gesto che Gesù ha compiuto per i dodici: «li inviò» (9,2). Il numero 72 e preso dalla versione greca (LXX) di Gen 10 dove viene data la tavola dei popoli ampliata di due unità rispetto all’originale ebraico. Il numero è dunque altamente simbolico, di una simbologia particolarmente cara a Luca, così interessato all’evangelizzazione dei pagani. Essa non risulterebbe così per lui esclusa dall’intenzione del Gesù terreno. I discepoli sono mandati a due a due per sottolineare l’attendibilità della loro testimonianza in base ai parametri della legge giudaica: Dt 17,6; 19,15.

     v. 2 – L’immagine della messe non ha, in questo caso sapore escatologico (cf. Gl 4,13; Is 27,12). Si tratta di completare l’opera di Gesù al quale è toccato il compito della semina (Lc 8,4-8). Luca, profondamente coinvolto nella missione paolina aveva un senso drammatico della vastità della missione. Nonostante questo, egli pone un principio preciso e irrinunciabile: l’esito della messe non dipende dallo sforzo umano, è unicamente nelle mani di Dio, padrone del vasto campo dell’evangelizzazione. Questa consapevolezza viene posta a fondamento della preghiera fiduciosa. La sproporzione altissima tra immensità del campo e quantità di operai può essere colmata solo dall’esaudimento della preghiera fiduciosa per avere le forze necessarie.

     vv. 3-9 – Le istruzioni pratiche per la missione sono precedute da un’immagine che crea subito il clima nel quale la missione sarà portata avanti. Gli inviati saranno agnelli in mezzo ai lupi, lavoreranno dunque in un ambiente ostile e aggressivo. In quelle condizioni però essi devono rinunciare alla violenza e mantenersi nello spirito del discorso della pianura (Lc 6,27-35). L’equipaggiamento del missionario cristiano deve essere estremamente sobrio. Questa sobrietà va notata specialmente in Luca così sensibile al tema della povertà. Il fatto che i missionari non salutino nessuno lungo il cammino non è un invito alla maleducazione, ma una sottolineatura dell’urgenza della missione. L’ordine sarebbe meglio compreso se si conoscessero direttamente i costumi dell’antico vicino oriente che prevedevano per i saluti un cerimoniale complimentoso e ripetuto.

     Ancora più importante tuttavia è il contenuto dell’annuncio. Il missionario è portatore di pace. Questa parola che costituisce il saluto tipico ebraico ha però un contenuto preciso. La pace è la caratteristica dell’epoca messianica (Is 9,5-6) e per conoscerne il contenuto basterebbe rileggere il salmo 72. Quel programma del re ideale, il messia appunto, viene realizzato in pieno da Gesù e i missionari devono essere i prosecutori della sua opera. Con la missione cristiana si estende il dominio pacifico di Gesù «da mare a mare e dal fiume sino ai confini della terra» (Sal 72,8). Ma ancora più interessante sarebbe riascoltare i vv. 12-14 del salmo che sono una sintesi di quanto Gesù ha compiuto nel suo ministero e una indicazione valida di programma per il missionario cristiano come certifica il v. 9 del nostro brano. I malati saranno i primi destinatari dell’annuncio e la loro guarigione è il segno che il regno si è realmente avvicinato. Viene così ripreso il contenuto della missione dei dodici: 9,2. Il saluto di pace deve essere dato prima di entrare in casa; è la condizione per verificare se vi è disponibilità ad accogliere il messaggio. Accertata questa condizione il missionario può restare senza scrupolo di pesare su chi lo ospita e senza chiedere di più rispetto all’ospitalità che viene offerta. Chi sa che non si trovi qui la problematica affrontata in 1Cor 9,4-18 dove si trova un detto di Gesù non registrato alla lettera dai vangeli. «Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il vangelo vivano del vangelo». Il divieto di passare di casa in casa verte ad evitare la dispersione e la tentazione di cercare un alloggio migliore. Per il v. 8 invece la questione è diversa. Viene affrontato il problema della promiscuità di cibo con i pagani. Mt e Mc non affrontano il problema nei loro discorsi missionari. Nella chiesa primitiva si trattava però di una questione molto sentita, basti pensare a Gal 2,11-14. Qui Luca si rifà ad una istruzione data da Paolo in 1Cor 10,27 e risulterà utile l’accostamento a At 10,9-16 in cui Pietro attraverso una visione riceve dal cielo la dichiarazione del superamento del problema della purità legale in ambito alimentare, visione che prelude all’accoglienza dei pagani nella Chiesa come avverrà con il battesimo di Cornelio (At 10,34-48).

     vv. 10-12 – La missione cristiana non è garantita di successo, lo scacco, il rifiuto sono più di una probabilità. In questo caso si deve seguire il costume orientale di scuotere la polvere dai piedi, gesto che dice dissociazione totale. Con chi rifiuta positivamente e consapevolmente il vangelo il messaggero non vuole avere nulla da spartire neanche la polvere della città che è rimasta attaccata ai suoi piedi. Anzi il rifiuto del vangelo attira un giudizio ben più grave di quello riservato a Sodoma che secondo la Bibbia è l’iperbole del male. Il peccato di Sodoma non segna il limite della perversione. C’è un peccato più grande: la chiusura di fronte al vangelo.  

     vv. 17-20 –  In 9,1 Gesù aveva dato ai dodici il potere di scacciare i demoni. Nel discorso appena commentato non se ne è fatto cenno, ma doveva essere incluso se i settantadue di fatto hanno operato esorcismi con successo. Il risultato positivo della missione ha riempito gli inviati di gioia. Il tema è assai caro a Luca che vede la gioia come la reazione umana alla salvezza operata da Dio. I settantadue sono ora il soggetto di quel sentimento e diventano così l’eco universale della gioia per la salvezza che si diffonde. Il detto su Satana è più problematico.  Se ci rifacciamo a Gb 1,6-12; 2,1-7 3 Zc 3,1 in cui Satana è presentato come accusatore degli uomini davanti a Dio nel cielo significa che questa sua attività è finita, gli uomini davanti a Dio non hanno più accusatori. Se ci riferiamo a Ap 12 7-10 si alluderebbe al combattimento finale contro Satana dal quale Dio esce vincitore. Si prospetta pertanto la vittoria apocalittica. In ogni caso l’attività esorcistica dei missionari con risultati positivi è sintomo chiaro della vittoria definitiva sulle forze diaboliche. Da ultimo Gesù svela agli inviati il motivo vero della gioia: non tanto i fatti eccezionali di cui sono protagonisti nella missione bensì la conoscenza personale che Dio ha di loro e che sarà la loro eredità. I loro nomi infatti sono scritti in cielo.

 

Meditazione

     Un annuncio di consolazione e di gioia parte da Gerusalemme e raggiunge il mondo intero; la gioiosa notizia della salvezza, l’evangelo della pace non cessa di risuonare e di richiamare all’unità l’Israele di Dio disperso. Simbolicamente questo annuncio unisce i testi della Scrittura proposti dalla liturgia della Parola di questa domenica. «Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate… Io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati» (Is 66,10.13): è questo l’annuncio pieno di gioia che il profeta proclama al popolo di Israele che sta giungendo nella città amata dopo il lungo esilio babilonese. Gerusalemme ritorna ad essere una madre feconda e in questa maternità piena di tenerezza si riflette la compassione stessa di Dio quell’amore inesprimibile che infonde pace e che solo l’esperienza di una madre che ha cura del suo figlio può fare intuire: «…sarete allattati e portati in braccio e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò…» (Is 66,12-13). La stessa gioia colma di pace risuona nell’evangelo affidato da Gesù ai discepoli: «Pace a questa casa è vicino a voi il regno di Dio!» (Lc 10,5.9). Ma l’orizzonte che si apre sotto lo sguardo del discepolo non è più ristretto nei limiti di una città: è come un campo immenso e colmo di grano maturo che deve essere raccolto, è l’abbondanza di una umanità che deve essere salvata, a cui l’evangelo porta la pace e la gioia (cfr. Lc 10,2). L’evangelo che rende vicino il Regno e che dona la consolazione ha però un volto: quello di Gesù, quello dell’amore fedele di Dio che non si arresta di fronte alle resistenze e alle infedeltà dell’uomo. L’evangelo della pace ha il volto del Crocifisso, della parola rifiutata e continuamente donata. Il discepolo che annuncia pace e consolazione, che guarisce e dona la salvezza, ha una sola forza che lo sostiene per le strade del mondo: la croce di Cristo. Stupendamente lo esprime Paolo concludendo la sua lettera ai Galati: «…non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo… e su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio» (Gal 6,14.16).

     Il discepolo che è chiamato a donare l’evangelo al mondo deve farlo con lo stile stesso di Gesù. Ed è su questo aspetto che si sofferma maggiormente il discorso missionario di Luca al cap. 10 relativo all’invio dei settantadue discepoli. Nelle parole che Gesù rivolge ai discepoli si riflette la responsabilità della missione, della missione della comunità ecclesiale e di ogni singolo in essa, la posta in gioco dell’annuncio (il regno di Dio) e la conseguente trasparenza di stile e radicalità con cui questo deve essere proclamato. E si potrebbe dire che questa trasparenza è motivata anzitutto dal fatto che il discepolo inviato ad annunciar il Regno è colui che precede il volto di Gesù: «(Gesù) mandò messaggeri davanti a sé e questi si incamminarono…» (Lc 9,52).

     Nella storia, nel mondo, il discepolo annuncia la venuta del Signore, l’approssimarsi del suo regno; ma gli occhi del discepolo sono sempre rivolti a Colui che annuncia e senza questa continua relazione di sguardi, la parola proclamata diventa solo parola umana. L’inviato non deve mai dimenticare che è il Signore a mandarlo nel mondo come apostolo – «…ecco, io vi mando» (10,3) – e che il contenuto dell’annuncio è il regno di Dio, qualcosa che non gli appartiene e che ha ricevuto gratuitamente (cfr. Mt 10,8).

     Lo stile e, nello stesso tempo, la forza dell’annuncio sono custoditi nel paradosso: debolezza, mancanza di mezzi, pericolo, rifiuto, ma anche fiducia, libertà, pace, salvezza, accoglienza. L’immagine della messe immensa e abbondante con cui Gesù apre il suo discorso, contrasta con lo sparuto gruppo di ‘mietitori’ chiamati a lavorare il questo campo. Eppure sta qui, in questo contrasto, la forza della missione: «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (10,2). I discepoli, consapevoli di essere piccolo gregge a cui è affidato un compito immenso, si aprono così alla lucida consapevolezza che il regno non è loro, ma di Dio: lui ha cura affinché esso cresca e raggiunga gli estremi confini della terra. Lo stile della missione allora si nutre della preghiera: essa è il segno umile di chi lavora in un campo che non è suo, sapendo che ciò che ha seminato sicuramente crescerà, nei tempi e nei modi che Dio stesso, il signore della messe, sceglie.

     C’è tuttavia una seconda immagine che presenta la missione dei discepoli come un cammino fatto di contrasti e confronti: il discepolo è come un agnello mandato non in un recinto sicuro, ma in mezzo a dei lupi (cfr. v. 3). Il discepolo deve essere cosciente che la parola annunciata provocherà tensioni e giudizio; è una parola di salvezza, ma deve essere accolta. E la sua valenza di giudizio può provocare rifiuto. Questo determina tutto un modo di porsi di fronte al mondo, modo che Gesù descrive attraverso simboli e atteggiamenti. Il rapporto con il mondo è delicato: c’è un rischio ed è quello che potrebbe trasformare il discepolo o in un carrierista che cerca successi e consensi oppure in uno spietato giudice nei confronti del mondo cattivo e crudele. Non è questo lo stile che Gesù insegna al discepolo. Questi non deve mai dimenticare che è inviato al mondo e ogni uomo è il destinatario dell’evangelo; il mondo è ‘capace’ dell’evangelo. Ma nel mondo agisce anche una logica idolatrica, anti-evangelica: da questa deve guardarsi il discepolo. Ecco allora la radicalità della testimonianza che deve rendere trasparente l’essenziale dell’annuncio: niente di superfluo nei mezzi usati (e qui Lc 10,4, nell’elencare l’equipaggiamento, è ancora più radi-cale di Mc 6,8-9). E poi una libertà da legami e logiche di potere: lo stile del discepolo deve esser discreto e convincente allo stesso tempo, aperto ad ogni uomo, lontano da un certo mondo caratterizzato dal vuoto verbalismo e dalla ricerca di beni (cfr. vv. 4-8). Nella precarietà (accoglienza o rifiuto), il discepolo impara a non preoccuparsi di se stesso, della riuscita o meno del suo annuncio, ma solo del dono contenuto in questo annuncio, la pace e la salvezza che Dio offre ad ogni uomo (cfr. vv. 9-10).

     Il discepolo che si lascia plasmare da questo stile è sicuro della riuscita della sua missione? Sì e no. Il discepolo sa che questo stile è quello vissuto da Gesù e quindi, misteriosamente, sa che in esso è custodita la forza del regno che, come chicco nascosto sotto terra, produrrà il frutto abbondante. Ma lo sguardo del discepolo, umanamente, può incontrare il fallimento, nonostante tutto: «…quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: …sappiate però che il regno di Dio è vicino» (v. 10-11). La radicalità dell’annuncio incontra nel rifiuto la prova e la spogliazione più dura: il discepolo è chiamato a staccarsi anche da una legittima gratificazione, cioè vedere l’evangelo accolto. Un annuncio che si avvale solo della parola e della testimonianza in favore del Regno, può essere esposto al rischio del fallimento; così è avvenuto per Gesù, così avviene per il discepolo. Il Regno però non si ferma: nonostante tutto deve essere annunciato. Il discepolo sa che, tra il rifiuto e il giudizio (cfr. vv. 13-15), il Signore pone un tempo di pazienza e di conversione e questo tempo può veramente diventare, nuovamente, la forza per riprendere l’annuncio. Il discepolo è un umile e povero operaio nella messe del Signore: questa è la sua vera gioia.

 

Preghiere e racconti

La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai!

Inviando gli apostoli a raccogliere la messe, [Gesù] non li invia a mietere la messe di un altro, ma ciò che egli stesso ha seminato per mezzo dei profeti. E non si limita a dar coraggio ai discepoli mostrando che il loro lavoro, il loro ministero consiste nella mietitura di una messe già pronta, ma anche li rende atti a questo ministero. […] Notate come è opportuno il momento scelto dal Signore per la loro missione. Gesù non li invia a predicare prima, quando essi avevano appena cominciato a seguirlo, ma solo dopo che l’hanno seguito e sono stati sufficientemente insieme con lui. […] Li invia a predicare e a compiere miracoli, solo dopo aver offerto loro sufficienti prove della sua potenza, sia con le parole sia con le opere (GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, Roma 19682, il, 99s.).

Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio

II Signore non solo ammaestra i dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca. Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo. Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi. Ne manda dunque due. Due sono meglio di uno, dice l’Ecclesiaste (Qo 4,9). Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà. Chi al vedere un apostolo senza bisaccia ne pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti [… ] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi. In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero. […] Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano (Mc 6,12-13). Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio. Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio (Gc 5,14). Così l’olio serve a confortare nella sofferenza. Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.

(TEOFILATTO, Commento sul vangelo di Marco 6, PG 123.548C-549C)

Preghiera

A causa del tuo amore infinito, Signore,

mi hai chiamato a seguirti,

a essere tuo figlio e tuo discepolo.

Poi mi hai affidato una missione

che non somiglia a nessun’altra,

ma con lo stesso obiettivo degli altri:

essere tuo apostolo e testimone.

Tuttavia l’esperienza mi ha insegnato

che io continuo a confondere le due realtà:

Dio e la sua opera.

Dio mi ha dato il compito delle sue opere.

Alcune sublimi, altre più modeste;

alcune nobili, altre più ordinarie.

Impegnato nella pastorale in parrocchia,

tra i giovani, nelle scuole,

tra gli artisti e gli operai,

nel mondo della stampa,

della televisione e della radio,

vi ho messo tutto il mio ardore

impiegando tutte le capacità.

Non ho risparmiato niente, neanche la vita.

Mentre ero così appassionatamente immerso nell’azione,

ho incontrato la sconfitta dell’ingratitudine,

del rifiuto di collaborazione,

dell’incomprensione degli amici,

della mancanza di appoggio dei superiori,

della malattia e dell’infermità,

della mancanza di mezzi…

Mi è anche capitato, in pieno successo,

mentre ero oggetto di approvazione,

di elogi e di attaccamento per tutti,

di essere all’improvviso spostato

e cambiato di ruolo.

Eccomi, allora, preso dallo stordimento,

vado a tentoni, come nella notte oscura.

Perché, Signore, mi abbandoni?

Non voglio disertare la tua opera.

Devo portare a termine il tuo compito,

ultimare la costruzione della chiesa…

Perché gli uomini attaccano la tua opera?

Perché la privano del loro sostegno?

Davanti al tuo altare, accanto all’Eucaristia,

ho sentito la tua risposta, Signore:

«Sono io colui che segui e non la mia opera!

Se lo voglio mi consegnerai il compito affidato.

Poco importa chi prenderà il tuo posto;

è affar mio. Devi scegliere me!».

(Card. F.-X. Nguyen Van Thuan)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER APPROFONDIRE:

XIV DOM TEMP ORD (C)

XIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 1Re 19,16.19-21

In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto».Partito di lì, Elìa trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.

 

Viene narrato in questo brano la chiamata di Eliseo, destinato a succedere a Elia. Il contesto è quello di una vita semplice, entro le preoccupazioni di ogni giorno, come farà Gesù con i suoi discepoli. L’ordine del Signore è di ungere Eliseo: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto». Il rituale dell’unzione del re viene esteso anche al profeta. Il profeta è un uomo che deve avere lo Spirito, per dire le parole del Signore e agire secondo la sua volontà. «Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello» (v. 19). È  un gesto che esprime l’idea di protezione e di appartenenza, ma anche il passaggio dei poteri e di altre forze speciali da un uomo ad un altro. Qui esprime la chiamata, la nuova dignità con cui Eliseo viene avvolto. Il possidente benestante (aveva 12 paia di buoi), ora ha una eredità, quella di non lasciare estinguere l’opera di Elia, il suo zelo per il Signore. Alla richiesta di Eliseo di andare prima a salutare i parenti, Elia risponde: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Ormai non appartiene più a quel mondo. Eliseo accoglie pienamente la nuova missione abbandonando l’attività precedente e la sua famiglia con un banchetto di carne e di buoi cucinati sul fuoco prodotto dall’aratro.

 

Seconda lettura: Galati 5,1.13-18 

Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.  

 

Paolo ricorda ai cristiani di Galazia lo spirito del vangelo che avevano accolto con gioia agli inizi. Ora rischiano di ricadere nel mondo della religiosità ebraica, pensando che si dovessero ancora osservare le prescrizioni antiche per poter piacere a Dio. In questo modo veniva oscurato il dono straordinario che avevano ricevuto dalla Pasqua di Cristo. L’Apostolo richiama innanzitutto i fatti con verbi al modo indicativo: «Cristo ci ha liberati per la libertà!». La redenzione per lui è un esodo, un uscire dalla schiavitù dell’Egitto per ritornare alla libertà al seguito di Gesù Cristo. Solo lui ci può guidare al Padre. La legge mosaica aveva avuto un ruolo importante nella formazione del credente ebreo. Ora ha esaurito la sua funzione. La situazione in cui i fratelli si trovavano prima dell’annuncio del vangelo era quella di uomini carnali: «La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito» (v. 17). Vivevano sperimentando ogni giorno l’incapacità a compiere la legge dell’amore. Ora però hanno

ricevuto lo Spirito di Cristo risorto dalla morte. Hanno quindi la capacità di compiere la legge dell’amore. Allora Paolo li esorta con verbi all’imperativo: «mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri» (v. 13) e «camminate secondo lo Spirito» (v. 16). Solo lasciandosi guidare dallo Spirito il cristiano può essere libero di amare come desidera.

 

Vangelo: Luca 9,51-62 

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio. Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».             

 

Esegesi

      Con questo brano inizia una nuova sezione del vangelo di Luca, il cosiddetto «racconto di viaggio» (9,51-19,27). Il contesto è un lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme, perché «non conviene che un profeta perisca fuori di Gerusalemme» (13,33). Gesù all’inizio del suo ministero era stato respinto dai nazareni (4,16ss), ora è respinto da un villaggio di Samaritani.

     Nella prima parte del brano Luca fa notare l’atteggiamento dei discepoli a confronto con Gesù (9,51-56). Essi non appaiono in sintonia con lui. Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme (v. 51): Viene richiamato l’evento centrale della missione di Gesù, il mistero pasquale. Vi è anche un riferimento del rapimento di Elia in cielo su un carro di fuoco (1Re 1,11-12). Gesù si incammina deciso, confidando nell’assistenza di Dio come il Servo di JHWH. E mandò messaggeri davanti a sé (v. 52): si tratta di Giovanni e Giacomo. Il villaggio samaritano nega l’ospitalità a Gesù. I due discepoli reagiscono come se avessero ricevuto un torto

personale e si sentono investiti dello stesso furore di Elia, che fece scendere fuoco dal cielo sui soldati del re Acazia (2Re 1). Gesù non è d’accordo con questo atteggiamento e rimprovera i discepoli. Il termine «rimproverò» significa anche «minacciò», un verbo usato per gli esorcismi.

     Un commento potrebbe essere quello inserito nel testo da alcuni manoscritti antichi: «Non sapete di che spirito siete. Il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le vite degli uomini, ma a salvarle». Gesù si sente «salvatore», il suo è tempo di salvezza e non di condanna. Si sa che la tolleranza di Gesù ha portato grandi frutti di conversione tra i samaritani dopo la pasqua (cf. At 8,8-25).

     Nella seconda parte del brano Luca parla invece della sequela di Gesù: come essere in sintonia con lui. Inserendo questo episodio nel contesto del cammino verso Gerusalemme, Luca fa emergere l’esigenza che il discepolo segua il maestro incondizionatamente sulla via della croce. Gesù forma i discepoli dicendo loro la verità. A un tale che si offre di seguirlo presenta la sua vita continuamente a disposizione di tutti. Non è possibile quindi costruirsi un nido, una dimora fissa dove porre i propri beni: «il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo » (v. 58).

     Un secondo invece è invitato direttamente da Gesù: «Seguimi» (v. 59), ma gli ricorda pure che le esigenze del Regno sono urgenti, non ammettono dilazioni, neppure di fronte ai doveri verso i genitori. Gesù ha bisogno ora di operai, non quando i genitori sono già morti. «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio» (v. 60). Se ora, nel momento della chiamata, non ci si converte e non si entra nella nuova vita del Regno, si continua a appartenere al mondo dei morti, a coloro che non hanno accolto la nuova vita. La presenza di Gesù poi segna la fine del potere della morte e perciò il discepolo non può fare lutto, ma deve gioire per esprimere così l’irruzione del regno di Dio nel

mondo.

     Un terzo poi si offre spontaneamente a Gesù come il primo. Prima però vuole salutare i propri parenti come Eliseo (1Re 19,19-21). Nessuno che mette mano all’aratro… (v. 62): L’urgenza del Regno non ammette ripensamenti o lentezze. Il discepolo è colui che non guarda mai indietro, né per rimpiangere quanto ha lasciato, né per compiacersi di quanto ha fatto seguendo il Cristo. È come Paolo «dimentico del passato e proteso verso il futuro» (Fil 3,13).

 

Meditazione 

     Cammino, sequela, viaggio, itinerario… C’è uno spostamento – quello spaziale diviene simbolo di quello esistenziale – da compiere per dirsi credenti. I brani biblici oggi sottoposti alla nostra riflessione e preghiera colgono più l’atto interiore della decisione che il cammino stesso, mettono a fuoco il primo momento dell’itinerario, l’elaborazione intima personale. Facendo peraltro emergere immediatamente, insieme a speranze e attese, difficoltà, resistenze e timori. Più che a una revisione successiva degli avvenimenti, siamo invitati a porre attenzione ai primi desideri che si affacciano alla coscienza dell’aspirante discepolo.

     È Gesù stesso il primo a porsi in questa determinazione. L’evangelista Luca afferma – segnando una svolta anche strutturale nel piano complessivo del suo intero racconto – che «prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (9,51). La vita riserva sempre numerose sorprese e con gli imprevisti ognuno di noi deve fare fin da subito i conti: saper trarre lezione e stimolo da tutto ciò è segno di maturità e realismo. Eppure, anche se le cose poi non vanno come ci si era aspettati, è necessaria una decisione anteriore e interiore che motiva e prepara alla disponibilità di ciò che… non avevamo previsto! Se Gesù, nel suo ministero pubblico, ha fino ad ora compiuto un itinerario apparentemente circolare, senza meta, ora sembra ben determinato ad assumerne una precisa. Gesù sembra abitato anche da una certa fretta: qualcosa lo urge interiormente e un luogo – Gerusalemme – sembra attrarlo a sé come una calamita. Non si tratta però di giungere al più presto in un luogo fisico – in tal caso le compagnie turistiche e aeree risulterebbero le migliori discepole del vangelo! – ma di raggiungere una più completa elaborazione interiore, così che il viaggio, con tutte le sue imprevedibili tappe, acquisti uno spessore esistenziale maggiore. Questo orientamento è tanto necessario e radicale che nemmeno le difficoltà o i fallimenti che certamente si incontreranno possono definitivamente sovvertirlo. Ci si potrà ravvede-re su alcune scelte o su certi atteggiamenti, si potrà riflettere sugli avvenimenti occorsi facendone motivo di ulteriore maturazione e adesione alla realtà, ma tutto ciò non potrà bloccare o impedire lo svolgersi del viaggio, come attesta l’esperienza in terra di Samaria immediatamente riferita (cfr. 9,52-56).

     Il cosiddetto racconto della vocazione di Eliseo e la seconda parte del brano lucano sottopongono alla nostra meditazione alcuni ‘casi storici’ di inizio del cammino di sequela del Signore. Sia che si tratti di rispondere a un appello esplicito proveniente da chi è già in cammino (cfr. 1Re 19,19-20; Lc 9,59-60) o di accogliere un richiamo interiore che si manifesta in una volontaria generosità (cfr. Lc 9,57-58.61-62), nessuno è lodato né incoraggiato; piuttosto vengono immediatamente espresse possibili prossime difficoltà o sono comunicate ulteriori esigenze del cammino stesso. In fondo, viene subito richiesto un ‘supplemento’ di libertà (cfr. Gal 5,13), quasi a visualizzare come la sequela reale è sempre al di là di ogni nostra pur buona e necessaria apertura: si potrebbe forse arrivare a dire che stare die-tro al Signore è faccenda nostra ma anche del Signore stesso, che deve aprire un ulteriore varco nella nostra adesione al vangelo. La sintesi magnifica di tutta la parola di Dio, che Paolo esprime nella seconda lettura in quel «amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14), appare subito impegnativa, esigente ma anche fortemente liberante. Sia che si tratti di rinunciare a una qualche ‘comodità’, di saper dare un ordine nuovo alle priorità della vita o di saper portare la solitudine e reggere alla durata di un impegno definitivo, è solo lo Spirito che può realizzare le nostre aspettative oltre i nostri stessi desideri. «Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste» (Gal 5,16-17). La sequela diviene questione eminentemente interiore, dove non è più possibile scaricare sugli altri, sulle vicende della vita, sugli imprevisti il proprio fallimento. Si tratta di affidarsi con totalità allo Spirito e giocarsi con quella determinazione che il Signore ci domanda e ci testimonia. «Se vi lasciate guidare dallo Spirito…» (Gal 5,18).

 

Preghiere e racconti

Un cuore puro

 “Ah, frate Leone, credimi  riprende Francesco  non preoccuparti tanto della purezza della tua anima. Volgi il tuo sguardo a Dio, ammiralo, gioisci di ciò che è nella sua santità; ringrazialo perché esiste. Questo significa, o mio giovane fratello, avere un cuore puro. E quando guardi a Dio in questo modo, non far più ritorno a te stesso, non chiederti più a che punto è il tuo rapporto con Dio. La tristezza di non essere perfetto e di scoprirsi peccatore è ancora un sentimento umano, troppo umano. Bisogna puntare lo sguardo più in alto, sempre più in alto; c’è Dio, ci sono l’immensità di Dio ed il suo inalterabile splendore. Il cuore puro è quello che non smette mai di adorare il Dio vivente e vero, che si interessa in modo profondo alla vita stessa di Dio e che è in grado, in mezzo a tutte le sue miserie, di vibrare dinanzi all’eterna innocenza e all’eterna gioia di Dio. Un cuore così è allo stesso tempo nudo e vestito: gli basta che Dio sia Dio. In questo soltanto trova tutta la sua pace, tutta la sua santità”.

“Dio però pretende da noi sforzi e fedeltà”, fa notare frate Leone.

“Sì, indubbiamente” replica Francesco; “ma la santità non è una realizzazione di sé e neppure una pienezza che ci si offre. È innanzitutto un vuoto che scopriamo e che accettiamo e che Dio viene a riempire nella misura in cui ci apriamo alla sua pienezza. Vedi, il nostro nulla, se lo accettiamo, diventa lo spazio libero in cui Dio può ancora creare. Il Signore non permette a nessuno di rubargli la gloria: egli è il Signore, l’Unico, il solo che è santo. Eppure prende per mano il povero, lo tira fuori dal fango e lo fa sedere tra i principi del suo popolo perché osservi la Sua gloria. Dio diventa così il cielo della sua anima. Contemplare la gloria di Dio, fra’ Leone, scoprire che Dio è Dio, eternamente Dio, al di là di quello che siamo o che possiamo essere, gioire pienamente di ciò che è, estasiarsi di fronte alla sua eterna giovinezza e ringraziarlo perché esiste, perché è infallibile nella sua misericordia: questa è l’esigenza più profonda di quell’amore che lo Spirito del Signore non smette mai di diffondere nei nostri cuori. Questo vuol dire avere un cuore puro. Ma tutta questa purezza non si raggiunge attraverso sforzi e sacrifici.”

“Come, allora?” chiede Leone.

“Bisogna semplicemente rinunciare a tutto di sé. Spazzare via ogni cosa, anche la stessa acuta percezione della nostra miseria. Fare tabula rasa, accettare di essere poveri, rinunciare a tutto ciò che è pesante, al peso stesso dei nostri errori. Vedere soltanto la gloria del Signore, lasciarsene irradiare. Dio è: questo basta. Il cuore diventa allora leggero, si sente diverso, come una rondine persa nello spazio immenso ed azzurro. È libero da ogni preoccupazione, da ogni inquietudine; il suo desiderio di perfezione è diventato pura e semplice volontà di Dio”.

(Eligio Leclerc, Sapienza di un povero, Bibl. Francescana, MI ’82).

 

Rinnega se stesso chi ama se stesso

Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […] «Rinneghi se stesso».

In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.

Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).

Sulla via dell’amore

Quello che fa avanzare sulla via è l’amore di Dio e del prossimo. Chi ama corre, e la corsa è tanto più alacre quanto più è profondo l’amore. A un amore debole corrisponde un cammino lento, e se addirittura manca l’amore, ecco che uno si arresta sulla via, e se rimpiange la vita mondana, è come se volgesse indietro lo sguardo, non guardando più alla patria.

Non giova che uno si metta sulla via e poi invece di camminare torni indietro. Se uno si è posto sulla via – cioè, fuori di immagine, si è fatto cristiano cattolico – e guarda indietro volgendo ancora il suo amore al mondo, non fa che ritornare là donde era partito.

(AGOSTINO D’IPPONA, Discorso 346/B,2).

Il modo autentico di vivere

La carità non è anzitutto l’amore del prossimo o l’amore di Dio: è questa situazione oggettiva di essere nella comunione, nell’alleanza, che poi si svolge in tutti i rapporti, in tutte le situazioni, in tutte le esigenze che fanno l’esistenza di un uomo. Per cui, dal punto di vista cristiano, non c’è alternativa tra comunione con Dio e comunione con il prossimo; c’è piuttosto bisogno di lasciarsi prendere, di lasciarsi ‘ferire’ da tutte le esigenze di questa comunione e di non darla né come assolutamente ovvia, considerandola come un dato di fatto per cui ci si occupa di altre cose, né di renderla senza significato, come se il significato fosse piuttosto nel fare questa o quest’altra cosa, nell’impegnarsi in questa o in quest’altra situazione […]. Dunque, non c’è l’uomo e tanti modi di entrare in comunione con le persone; c’è l’uomo definito da questa comunione che assume il modo autentico di vivere e tradurre tutti i rapporti; assume cioè il modo di Gesù Cristo. Come a dire che c’è un modo autentico di vivere, di assumere la vita e la morte, di soffrire, di godere, di amare, di operare, di parlare, di agire, di impegnarsi, di non impegnarsi, di tacere: e questo modo è quello di Gesù Cristo (G. MOIOLI, Va’ dai miei fratelli (Gv 20,17), Milano 1996, 39s.).

Preghiera

Soltanto la carità può dilatare il mio cuore.

Gesù, da quando questa fiamma dolce mi consuma,

corro con gioia sulla via del comandamento nuovo.

Voglio correre in essa fino al giorno felice,

nel quale potrò seguirti negli spazi infiniti

cantando il tuo cantico nuovo,

quello dell’amore.

(TERESA DI LISIEUX, Manoscritto C).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XIII DOM TEMP ORD (C)