III DOMENICA DI AVVENTO

Prima lettura: Isaia 35,1-6a.8a.10

Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio. Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto. Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa. Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto.

 

Il brano riporta uno dei più significativi oracoli messianici citati da Gesù per capire il senso delle sue “opere”. Appartiene alla così detta “piccola apocalisse” di Is 34-35 (la “grande apocalisse” è in Is 24-27), databile al tempo del ritorno dalla deportazione a Babilonia e della ricostruzione. Per rinfrancare i rimpatriati, alle prese con tante difficoltà materiali e ancora tentennanti nella fede e nella speranza, il profeta, col linguaggio allegorico proprio dell’apocalittica, descrive la sorte disastrosa di chi va contro Dio e la sorte gloriosa invece di chi sta nella sua alleanza: Is 34 annuncia la rovina di tutti i popoli ribelli a Dio, in particolare di Edom, complice dei distruttori (cf. Is 34,8 e Sal 136,7); Is 35 invece invita i reduci a esultare, per la nuova e meravigliosa realtà che stanno per sperimentare. Il brano liturgico riporta tutto Is 35, eccetto due versetti, e si può suddividere in due parti.

     1. Splendida ripresa dell’ambiente, per opera di Dio (vv. 1-4). Al quadro desolante dei castighi al paese di Edom (Is 34), il profeta contrappone quest’altro gioioso, mirabilmente florido e bello, per Sion. Prima dipinge la ripresa rigogliosa della terra promessa, coi paragoni proverbiali del Libano e del Carmelo, allora splendidi e lussureggianti di vegetazione, gloria di Dio creatore. Poi prospetta la ripresa fisica e morale dei rimpatriati in tale ambiente: mani e gambe irrobustite, per lavorare sicuri e muoversi spediti, e superamento delle idee e dei sentimenti ancora incerti e timorosi per gli «smarriti di cuore». Dio stesso sta per tornare fra loro (cf. Is 40,10-11), conclude l’oracolo. Viene a “salvare”, nel duplice senso della liberazione e della salute piena. In questo modo viene con lui la “vendetta”, che è punizione per i deportatori e ricompensa per i liberati che tornano a lui. Essa a noi ripugna tanto, perché la pensiamo acida e sproporzionata come la nostra. Ma la vendetta divina, sia pure con linguaggio crudo, l’Antico Testamento la attende e la invoca da Dio onnisciente e infinitamente giusto e misericordioso (cf. Ger 1,20), intendendo sempre la sua giustizia. A compierla ora è il Dio dell’alleanza, il “Santo di Israele” che interviene come vindice (go’el) del suo popolo, per tirarlo fuori dalle difficoltà in cui è caduto e rimetterlo sulla strada della salvezza.

     2. Ripresa interiore profonda del popolo di Dio (vv. 5-10). L’opera di salvezza nelle persone è preannunciata in tre momenti. Anzitutto una nuova vitalità: si apriranno gli occhi dei ciechi e le orecchie dei sordi, lo zoppo salterà come un cervo e griderà di gioia il muto… Non più solo mani e ginocchia, ma tutte le membra e i sensi dell’uomo tornano integri. Si tratta in primo luogo dell’uscita dallo scoraggiamento e dal pessimismo, nel quale sono caduti i deportati (Is 42,18-23), e della capacità di percepire il germoglio della nuova realtà (Is 43,19): quindi una ripresa interiore, profonda, spirituale, prima che fisica. Ad essa soprattutto fa riferimento la risposta di Gesù al Battista, ampliandola ai lebbrosi guariti e addirittura ai morti risuscitati. Secondo momento è il riconoscimento della “Via santa”, quella da appianare nel deserto per il rimpatrio, rapido e sicuro, sulla quale si rivelerà la «gloria» di Dio liberatore (Is 40,3-5), frutto però di quella spirituale che riporta a camminare con Dio nella vita. Su questa il Battista riconosceva la sua missione (cf. Mt 3,3; Gv 1,23). E anche Gesù vi allude, con la buona novella ai poveri e la beatitudine per chi non trova inciampo nella sua proposta messianica (Vangelo). Terzo momento sarà la felicità perenne in Sion, per il popolo uscito dalla tristezza e dal pianto e ristabilito nella sua regalità.

     Gli annunci profetici e le “opere” di Gesù dunque si pongono come “segni” di una realtà che sta nei risvolti più profondi dell’uomo e che si sviluppa nel futuro messianico della “salvezza”.

 

Seconda lettura: Giacomo 5,7-10

Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore. 

 

Alla fine ormai della lettera, Giacomo fa le raccomandazioni per l’attesa della venuta del Signore, che già arriva in quanto va succedendo alle «dodici tribù in diaspora» (Gc 1,1 ), cioè al nuovo popolo di Dio pellegrino nella storia. Cerchiamo di cogliere questi aspetti di escatologia immanente.

     1. L’imperativo iniziale «siate costanti», alla lettera sarebbe “siate magnanimi”, allargate la mente, e così sarete pazienti e tolleranti. 

     Vedi l’agricoltore (v. 7). La sua pazienza è tutt’altro che inerte e passiva: egli attende il prezioso frutto della terra dalle cure che vi prodiga, ma rafforza la sua speranza con la fiducia nelle piogge stagionali, dono di Dio.

Così i cristiani allarghino l’animo e irrobustiscano i cuori, riconoscendo che il Signore viene già quando affrontano le persecuzioni, vivono le rinunce e testimoniano la fede. E non si perdano in lagnanze reciproche, per non essere giudicati da colui che, dopo la prima venuta nella misericordia, torna piuttosto come giudice in quella intermedia e in quella finale: Ecco, vedi il giudice è alle porte (v. 9).

     2. Un secondo imperativo invita a prendere come modelli di sopportazione dei mali e di grandezza d’animo i profeti. Il loro esempio non è generico, ma fatto di comportamenti e di motivazioni date dalla fede: per questo Giacomo specifica: «che hanno parlato nel nome del Signore». Sempre la pazienza cristiana è frutto della grandezza d’animo data dalla parola di Dio e della forza di sopportare, comunicata dalla grazia.

 

Vangelo: Matteo 11,2-11

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose Loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano. Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Si, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

 

Esegesi 

     Il riconoscimento dell’identità di Gesù come Messia, da parte dei discepoli, avviene a Cesarea di Filippo, nei Sinottici, e verso di esso tende tutta la prima parte del loro racconto. Matteo e Luca inseriscono una tappa importante con l’episodio che si legge oggi, nel quale Gesù stesso indica gli elementi per riconoscerlo e a sua volta delinea l’identità dell’interlocutore Giovanni, che gli ha preparato la strada, come farà poi a Cesarea anche con Pietro, che continuerà la sua opera.

Il discorso sulle identità divide il brano in due parti.

     1. La identità di Gesù (vv. 2-6). È o non è lui “il Veniente”? Il titolo accomuna il Messia con Dio (cf. Ap 1,4-5). Sono le sue “opere” a provocare la domanda del Battista. Lui lo aveva annunciato alla gente con la scure posta alla radice e il ventilabro in mano, per raccogliere nel granaio il suo grano e bruciare la pula nel fuoco inestinguibile, cioè come giudice ultimo di tutta la iniquità umana (cf. Mt 3,10-13). Gesù invece compie gesti pieni di misericordia, verso i malati e i peccatori, e fa discorsi tutti ispirati all’amore e alla condivisione, in particolare sulla montagna (Mt 5-7) e ai missionari (Mt 10).

Gesù non da una risposta diretta, ma invita i discepoli del Battista a fare discernimento sui prodigi che compie, con riferimenti al libro di Isaia, dove sono ricorrenti i temi del “vedere” e “ascoltare”. In esso, mentre il profeta dell’VII sec. a.C. era stato disilluso da Dio, sull’esito del ministero presso un popolo superficiale che non vede con gli occhi, non ode con gli orecchi e non comprende con il cuore (cf. Is 6,10), gli oracoli messianici dei suoi continuatori, nel VI sec. a.C., annunciano una prodigiosa riapertura degli occhi e degli orecchi (cf. Prima lettura). Usando le loro espressioni, Gesù vuole dire che sta realizzando i loro annunci e invita i discepoli del Battista a riferire quanto essi stessi avranno saputo ascoltare e vedere.          

     In questo modo egli presenta le sue “opere” non fine a se stesse, ma come “segni” di quanto va compiendo nella realtà più profonda. L’aveva già indicata nei singoli prodigi con le richieste della fede, che fa risorgere la vita dello spirito, e con la remissione dei peccati, che toglie l’ostacolo più grosso. Adesso l’ha sintetizzata con la frase «ai poveri è annunciato il vangelo», che un po’ riassume i prodigi elencati e i riferimenti a Isaia (cf. Is 61,1), ma più ancora indica il suo programma, proclamato sul monte con le beatitudini. Egli evangelizza i poveri (Mt 5,3-10), nel senso che valorizza loro, e non i ricchi e sazi, come base per costruire il regno di Dio. A quelle beatitudini ora ne aggiunge un’altra: beato chi non trova inciampo (scandalo) in lui per questa valorizzazione.

     2. La identità del Battista (vv. 7-11). A scanso dell’equivoco possibile che sia anche lui a trovare inciampo, Gesù stesso prende l’iniziativa di delinearne la identità, tutt’altro che estranea alla propria. Fra tre ipotesi, ripetendo per tre volte la domanda: «che cosa siete andati a vedere nel deserto?». La prima ipotesi, una canna sbattuta dal vento, cioè un opportunista folle, è smentita dalla verità della terza. La seconda, un uomo in morbide vesti, cioè un facoltoso in cerca di potere, è smentita dallo stile del personaggio e dalle sue  contestazioni agli uomini di palazzo.                                 

     La terza ipotesi, un profeta, non solo è vera ma dice ancora troppo poco. Assai più che profeta egli è il precursore del Messia, ne ha preparato la venuta. Non è quindi inciampo o scandalo il suo, ma bisogno di capire meglio l’intendimento di Gesù, sentito nel battesimo al Giordano, di adempiere «ogni giustizia» (Mt 3,14-15) cioè ogni disposizione divina sul Messia. Gli viene risposto che, per provocare le scelte fondamentali, egli usa la misericordia e la condivisione e non ancora il giudizio definitivo: sono criteri di discernimento per l’appartenenza a Dio assai più taglienti e profondi della scure, del ventilabro e di qualsiasi discriminazione violenta, perché costituiscono e non solo annunciano il regno dei cieli. In questo senso, chi entra nella costruzione del regno con lui è più grande del Battista, che pure supera tutti i profeti dell’umanità. In questo senso pure si può dire che le attese del Battista non sono smentite, ma portate a guardare più in profondità.  

 

Meditazione 

     L’annuncio della venuta del Signore, la difficile arte dell’attesa del Veniente, la gioia che Colui che viene suscita: questi i temi salienti della III domenica di Avvento. Che affermano anche la non-evidenza della venuta del Signore. L’annuncio isaiano della venuta liberatrice del Signore raggiunge i figli d’Israele in una situazione di «tristezza e pianto» (Is 35,10); le opere che attestano che Gesù è il Messia, il Veniente, sembrano trascurare la «liberazione dei prigionieri» (Is 61,1; Lc 4,18) e sono narrate a Giovanni che è in prigione e vi troverà la morte (Mt 14,3-12); la comunità cristiana è confrontata con l’annuncio di una venuta del Signore che chiede un atteggiamento di sopportazione, fede, pazienza, simile a quello dell’agricoltore o dei profeti (II lettura), o di Giobbe (Gc 5,11). L’agricoltore attende un frutto che dipende da piogge che possono anche non venire; i profeti hanno parlato e agito in nome di Dio suscitando spesso ostilità e rifiuto; Giobbe ha perseverato nei dolori, nel non-senso, facendo della sua attesa una lotta drammatica. Così, l’attesa del Signore si tinge della tinta della pazienza.

     La pazienza è l’arte di vivere l’incompiutezza e la parzialità. La preghiera ebraica che recita: «Io credo con fede piena e perfetta alla venuta del Messia e, benché tardi, io l’attendo ogni giorno» esprime bene l’idea di pazienza insita nell’attesa. Dietro quel «benché tardi» vi è la drammaticità dell’incompiuto e dell’irredento sperimentati nel quotidiano. La pazienza è necessaria per chi vive nella storia l’attesa del Regno: essa si declina come pazienza nei confronti di Dio, della chiesa e di se stessi. Nei confronti di Dio, perché Dio non ha ancora adempiuto, per sempre e per tutti, le promesse di guarigione dei ciechi e degli zoppi, dei muti e dei sordi, le promesse di salvezza dal male, dal peccato, dalla morte; nei confronti della chiesa, perché la comunità cristiana spesso si mostra inadempiente rispetto alle esigenze evangeliche; nei confronti nostri, perché scopriamo in noi inadeguatezze e difformità rispetto alla nostra vocazione. La pazienza è «forza nei confronti di se stessi» (Tommaso d’Aquino), capacità di non lasciarsi andare all’abbattimento, alla tristezza, alla disperazione. E questo grazie al fatto che la pazienza è sguardo in grande (makrothymía) sulla realtà, su Dio, sulla chiesa, su noi stessi. La pazienza è grandezza d’animo e si concretizza nell’amore: «l’amore pazienta» (1 Cor 13,4).

     «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?» (Mt 11,3). La domanda del Battista indica non solo che la fede è traversata dal dubbio, ma che il dubbio può affinare la fede e ridurre la distanza tra l’immagine del Signore che il credente nutre e il Signore stesso nel suo rivelarsi. Per il Battista la fede in Gesù Messia cessa di essere una verità evidente e, da certezza granitica predicata a gran voce, diviene domanda sussurrata. Anche la fede, la nostra personale fede, ha una storia. E anche la nostra fede non è solo luce, ma luce e buio, luce nel buio, e conosce zone grigie.

     Certamente significativo è il fatto che il Battista si rivolga a Gesù stesso ed esponga a lui la sua domanda. La domanda di fede non spegne l’amore, anzi, Giovanni si rimette a ciò che Gesù stesso gli dirà: «Sei tu…?». Più che mai la fede appare qui come affidamento personale. L’amore purifica la fede, la rende sempre più relazione tra viventi.

     Nel deserto come nella prigione, nella predicazione autorevole come nella domanda umile, Giovanni continua ad attendere il Veniente. Giovanni è l’uomo dell’attesa, ovvero l’uomo che vive sotto il segno della grazia: la vita che ha ricevuto per grazia da Dio nel passato (Giovanni significa «il Signore fa grazia»; cfr. Lc 1), egli la attende come grazia dal futuro attenendo nell’oggi il Messia veniente. E proprio la sua attesa apre i luoghi di morte e di chiusura che sono il deserto e la prigione, alla vita e alla libertà. La sua attesa diviene speranza per le folle che andavano a lui nel deserto e per i discepoli che andavano a trovarlo in prigione. L’attesa cristiana della venuta del Signore è dono di speranza per gli uomini.

 

Preghiere e racconti

La fede è possedere quello che si spera soltanto

Nelle mie riflessioni sulla fede ho incontrato una pagina di un documento che i cristiani riconoscono come “parola di Dio”: il capitolo 11 della Lettera che un autore anonimo ha scritto due mila anni fa agli Ebrei per mostrare che Gesù di Nazaret è proprio quel salvatore che loro stavano aspettando. […] Il capitolo si apre con una definizione di fede, tanto originale quanto simpatica: “La fede è un modo di possedere già le cose che si sperano, di conoscere già le cose che non si vedono” (Eb 11,1).

Nei fatti della nostra vita ci sono delle cose che si vedono e ce ne sono molte altre che invece restano nascoste. Di solito, è facile distinguere tra ciò che si vede. Vedo l’amico che è fisicamente presente vicino a me. Posso sentire la sua voce, gioire (o rammaricarmi) della sua presente. Questa non è l’unica possibile. Altre persone sono vicine anche se, in questo momento, non lo sono fisicamente. Non le possiamo vedere, se non con gli occhi dell’amore e della fantasia. In questi casi è chiaro ciò che si vede e ciò che non si vede.

Il gioco tra ciò che si vede e ciò che non si vede, suggerito dalla definizione di fede della Lettera agli Ebrei, non va inteso come la differenza tra un amico che sta fisicamente vicino a te ed un altro, egualmente simpatico, che non è in questo momento vicino fisicamente.

In un avvenimento e in una persona, possiamo vedere ciò che, in qualche modo, può essere toccato con mano. Riconoscimento però che non finisce tutto lì. In una persona amara c’è un mistero, grande e profondo, che tutta l’avvolge. Questa realtà invisibile e misteriosa è tanto decisiva da avvertire la persona stessa in un modo specialissimo. 

Quello che non si vede diventa la categoria attraverso cui impostiamo il nostro giudizio e il nostro rapporto con quello che si vede. […]

La definizione di fede che ho riportato dalla Lettera agli Ebrei parte da questa situazione e aggiunge: la fede è quell’atteggiamento che permette di vedere anche quello che non si vede, fino al punto di valutare ed esprimere quello che si vede dalla parte di quello che non si vede.

Un piccolo particolare non dovrebbe sfuggirci. La definizione di fede riportata contiene una ripetizione. Apparentemente le due frasi dicono, con parole diverse, la stessa cosa. C’è però una sottolineatura originale: le cose che non si vedono sono “sperate”… e cioè attese, desiderate, ricercate. La voglia di verità porta a scavare in quello che si vede per arrivare a mettere le mani, con gioia, sul mistero che si portano dentro.

(Riccardo TONELLI, Vivere di Fede in una stagione come è la nostra, Roma, LAS, 2013, 17-19)

Bellezza oltre ogni descrizione

Uno dei romanzi più noti di André Gide (1869-1951) s’intitola La sinfonia pastorale. Il libro è ambientato nella Svizzera di lingua francese negli anni Novanta (1890) e narra la storia di una complessa relazione fra un pastore protestante e Gertrude, una ragazza cieca dalla nascita.

Di particolare interesse è il modo in cui il pastore prova a comunicare a Gertrude cose come la bellezza dei prati alpini, trapuntati di fiori dai colori sgargianti, e la maestà delle montagne dalle cime innevate. Egli prova a descrivere i fiori azzurri che crescono sulla riva del fiume paragonandoli al colore del cielo, ma deve rendersi subito conto che lei non può vedere il cielo per apprezzare il paragone. In questo suo lavoro egli si sente continuamente frustrato dalla limitatezza del linguaggio che usa per far conoscere la bellezza e lo stupore della natura alla giovane cieca. Ma le parole sono il solo strumento di cui dispone. Non può che perseverare sapendo di poter comunicare solo a parole una realtà che non può mai essere completamente espressa con parole.

Allora ecco un nuovo e insperato sviluppo. Un oculista della vicina città di Losanna ritiene che la ragazza possa essere operata agli occhi in modo da ottenere la vista. Dopo tre settimane trascorse nella casa di cura, ella torna a casa, dal pastore. Adesso può vedere e sperimentare da sola le immagini che il pastore aveva cercato di comunicarle solo attraverso le parole.

“Appena ho acquistato la vista – ella disse – i miei occhi si sono aperti su un mondo più stupendo di come avrei mai potuto sognare che fosse. Sì, davvero, non mi sarei mai immaginata che la luce del giorno fosse così brillante, l’aria così limpida e il cielo così vasto”.

La realtà sorpassa di gran lunga la descrizione verbale. La pazienza del pastore e le sue goffe parole non avrebbero mai potuto descrivere adeguatamente il mondo che la ragazza non poteva vedere da sola, il mondo che chiedeva di essere sperimentato piuttosto che meramente descritto.

Per il cristiano, il mondo presente contiene indizi e segnali di un altro mondo, un mondo che possiamo cominciare a sperimentare ora, ma che conosceremo nella sua pienezza solo alla fine.

(Alister Mc Grafth, Il Dio sconosciuto, Cinisello Balsamo, 2002, 35-37)

Il buio e la luce

È buio dentro di me,

ma presso di te c’è la luce;

sono solo, ma tu non mi abbandoni;

sono impaurito, ma presso di te c’è l’aiuto;

sono inquieto, ma presso di te c’è la pace;

in me c’è amarezza, ma presso di te c’è la pazienza;

io non comprendo le tue vie, ma la mia via tu la conosci.

(Dietrich Bonhoeffer)

Il luogo dell’appuntamento

Dio e l’umanità sono come due amanti che hanno sbagliato il luogo dell’appuntamento. Tutti e due arrivano in anticipo sull’ora fissata ma in due luoghi diversi. E aspettano, aspettano, aspettano. Uno è in piedi inchiodato sul posto per l’eternità dei tempi. L’altra è distratta e impaziente. Guai a lei se si stanca e se ne va!

(Simone Weil)

 Nell’attesa paziente

No, non è in tuo potere far aprire il bocciolo; scuotilo, sbattilo,

non riuscirai ad aprirlo.

Le tue mani lo guastano,

ne strappi i petali e li getti nella polvere,

ma non appare nessun colore e nessun profumo.

Ah! A te non è dato di farlo fiorire.

Colui che invece fa sbocciare il fiore, lavora semplicemente,

vi getta uno sguardo all’alba e la linfa della vita scorre nelle vene del fiore.

Al suo alito il fiore dispiega lentamente i suoi petali

e si culla lentamente al soffio del vento.

Come un desiderio del cuore, il suo colore erompe,

e il suo profumo tradisce un dolce segreto.

Colui che fa sbocciare veramente il fiore lavora sempre solo

semplicemente e silenziosamente.

(Poesia indiana)

La fede è speranza

     Paolo […] dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete “affliggervi come gli altri che non hanno speranza” (1 Ts 4,13).

     Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiamo nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una “buona notizia” – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo “informativo”, ma “performativo”. Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova».

     (BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, n.2).

L’incontro con Dio

     «Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall’incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile. L’esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio. Penso all’africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan. All’età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si trovò al servizio della madre e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all’avanzata dei mahdisti, tornò in Italia. Qui, dopo “padroni” così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un “padrone” totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava “paron” il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un “paron” al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona. Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal “Paron” supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava “alla destra di Dio Padre”. Ora lei aveva “speranza” – non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona. Mediante la conoscenza di questa speranza lei era “redenta”, non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio».

     (BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, n.3).

«Il tempo si è fatto breve»

     È scritto: «La speranza prolungata fa male al cuore»; ma benché sia stanca per la dilazione del desiderio, tuttavia è sicura della promessa. Sperando in essa e ponendo in essa ogni mia attesa, aggiungerò speranza a  speranza (…).                                          

     Signore Gesù, ti siano rese grazie. Io, una volta per tutte, ho fatto affidamento alle tue promesse. Tuttavia «vieni in aiuto alla mia incredulità», perché, dimorando là, immobile, io ti attenda sempre, finché veda ciò che credo. Sì, io credo di «poter contemplare la bontà del Signore nella terra dei vivi». E tu, lo credi? Allora il tuo cuore si fortifichi ed attenda con pazienza il Signore. Se egli richiede una lunga pazienza, altrove promette di tornare presto. Da una parte vuole educarci alla pazienza, dall’altra confortare gli scoraggiati.

     «Il tempo si è fatto breve», soprattutto per ciascuno di noi, benché sembri lungo a chi si consumi, sia per il dolore, sia per l’amore».

     (GUERRICO D’IGNY, Sermoni per l’avvento del Signore, 1, 3-4). 

Preghiera

     «Beato chi non si scandalizzerà di me»: sostieni la nostra fede, Signore Gesù, quando è tentata di scandalizzarsi per la tua ‘debolezza’.

     Donaci la convinzione e la sapienza che animava il tuo apostolo Giacomo: egli, che ben conosceva le grandiose promesse di Isaia, ha creduto che tu le hai realizzate, anche se nulla sembrava apparentemente cambiato nel mondo, dopo il tuo passaggio.

     Dona anche a noi la pazienza dell’agricoltore, per seminare speranza.

     Fa’ che accogliamo con riconoscenza il tuo vangelo di gioia, la buona notizia per i poveri e insegnandoci la pazienza; edifica in noi una fede forte.

     Donaci la beatitudine di essere tuoi discepoli, la tua stessa gioia, la gioia del Padre nel fare del bene, anche quando ci toccasse di apparire perdenti.                                   

     Ravviva in noi la memoria dei benefici ricevuti, perché possiamo deciderci ancora oggi per il tuo vangelo e perché, anche quando non riconosciamo le tue vie, continuino come il Battista ad esserti fedeli. 

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-   . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.  

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO:

AVVENTO III AVVENTO ANNO A

IMMACOLATA CONCEZIONE

Prima lettura: Genesi 3,9-15.20

[Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero,] il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».  L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.    

 

Poiché oggi è ammesso da tutti che i primi capitoli della Genesi non ci forniscono una cronaca di avvenimenti, ma contengono una professione di fede circa i rapporti dell’uomo e della sua storia con Dio, dobbiamo cercare di cogliere il messaggio religioso contenuto nella nostra lettura.

Essa contiene soprattutto l’annunzio di una prospettiva di salvezza per l’umanità rappresentata dalla prima coppia umana. L’annunzio è preceduto da un dialogo in cui Dio mette in evidenza l’effetto distruttore del peccato (la rottura del vincolo di dipendenza da Dio, suggerita dal serpente, che prometteva di far diventare gli uomini come Dio, se si fossero ribellati alle sue leggi): perdita del rapporto amicale con Dio, inizio della diffidenza reciproca tra l’uomo e la donna, ingresso della fatica e del dolore nella vita umana, necessità di lottare sempre contro l’insidia perenne del peccato.

L’annunzio apre la prospettiva che, nel futuro, il seme dell’uomo avrebbe sconfitto il seme del serpente. Il sentimento cristiano, guidato da una interpretazione libera di questo testo documentata dalla Volgata, ha capito che, in questa prospettiva di futura vittoria, un posto speciale spettava a Maria.

 

Seconda lettura: Romani 15,4-9

 Fratelli, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza. E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. Dico infatti che Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri; le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: «Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome».

 

Le parole di Paolo sono improntate al tema dell’accettazione reciproca (v. 7) e sono rivolte ai cristiani di origine pagana per insegnare loro la vicendevole accoglienza con quelli di origine giudaica. Egli sta parlando a una comunità in cui convivono ‘forti’ e ‘deboli’ nella fede e ammonisce che tutto quanto il cristiano fa deve essere improntato all’accoglienza e all’edificazione reciproca.

     Egli vuole che ci si impegni ad incrementarla per tre motivi, il primo dei quali è la parola delle antiche Scritture, la quale è nutrimento che sostiene la vita ordinaria del credente, le dona solidità e rende possibile la perseveranza nella speranza. Paolo sembra suggerire che chi è saldo nella speranza sa anche accettare i limiti propri e degli altri, con pazienza.

     In secondo luogo bisogna sempre tenere presente l’esempio di Cristo: il principio ispiratore della sua vita non è il suo personale piacere; fedele invece alla missione di rivelare l’amore del Padre, non si è sottratto ad essa quando si è trattato di sopportare le reazioni violente degli uomini che lo hanno crocifisso. Come ultima ragione non si deve dimenticare che i pagani sono stati accolti da Cristo stesso. Ebreo, figlio del suo popolo, egli è stato il segno vivente della fedeltà di Dio alle promesse, ma insieme ha manifestato la misericordia di Dio anche ai non ebrei perché tutti potessero unirsi nella sua lode.

Vangelo: Luca 1,26-38

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.   

 

Esegesi

    Tra i testi del Nuovo Testamento che ci parlano di Maria, la madre del Salvatore, il racconto dell’Annunciazione di Gesù è certamente il più ricco di teologia, sicché ad esso si è sempre ispirato lo speciale settore dell’approfondimento teologico che è detto mariologia. Cerchiamo di cogliere questa ricchezza, partendo dall’analisi esegetica dei singoli versetti.

Nei vv. 26-27, l’evangelista stabilisce un rapporto di netta continuità tra il già descritto annuncio della nascita del precursore (Lc l,5ss) e la scena che si accinge a descrivere: ogni singolo avvenimento della storia della salvezza si inquadra perfettamente in un disegno generale concepito e realizzato da Dio. In questo disegno si fronteggiano la grandezza insondabile di Dio, che manda come suo messaggero l’angelo Gabriele (un personaggio a cui nel libro di Daniele era stata affidata una missione riguardante gli avvenimenti messianici), e la piccolezza apparentemente insignificante di Nazareth di Galilea e di una oscura fanciulla che si chiama Maria, promessa sposa di un certo Giuseppe (solo in quest’ultimo personaggio c’è un barlume di riconosciuta nobiltà, perché discende dalla cosa di Davide).

Di Maria è qui sottolineato per ben due volte lo stato di verginità. Per Giuseppe è richiamata la sua appartenenza alla cosa di Davide, da cui doveva venire il Messia.

— Nel v. 28, il saluto dell’angelo, chàire, non è un semplice sinonimo del comune shalom (pace), ma sembra voglia evocare l’accenno alla gioia messianica a cui nei profeti è invitata la figlia di Sion (che significa la nazione ebraica), nell’imminenza dei tempi messianici (Sof 3.14; Gl 2,21.23; Zac 9.9). Il titolo kecharitoméne, con cui Maria è gratificata dall’angelo, non ha certamente il senso di un gentile appellativo (equivalente a una bella fanciulla!), ma sembra si voglia riferire alla missione che a lei Dio vuole affidare e si può ben tradurre: trasformata dal favore divino; la traduzione della Volgata, piena di grazia, rende giustizia alla densità teologica del vocabolo e ha indotto il popolo cristiano a trovare qui incluso un accenno alla verità dell’immacolata concezione. A quella stessa missione sembra debba riferirsi la frase il Signore è con tè; era questa infatti la formula con cui si dava incoraggiamento, nei libri dell’Antico Testamento, ai personaggi scelti da Dio per una qualche missione speciale (Isacco, in Gn 26,3.24; Giacobbe in Gn 28,15; Mosè, in Es 3,12; Gedeone, in Gdc 6,12; ecc.).

— Nel v. 29, il turbamento di Maria, diversamente da quanto è detto per Zaccaria in 1,12, non deriva dalla visione dell’angelo, ma dal senso delle sue parole: Maria dimostra così la sua iniziale consapevolezza di trovarsi davanti a qualcosa di misterioso.

— Nei vv. 30-31, l’angelo, dopo averle rivolto un incoraggiamento, rivela a Maria la missione che Dio vuole affidarle: con parole che richiamano alla mente il testo di Is 7,14, le è detto che essa dovrà dare alla luce un figlio del quale Dio stesso ha già stabilito il nome. L’importanza di questo figlio è già oscuramente accennata nell’implicito riferimento al testo di Isaia e nel fatto che il suo nome è direttamente scelto da Dio.

— Nei vv. 32-33, è dichiarata apertamente la straordinaria identità del futuro figlio di Maria. Questo figlio è descritto con chiaro riferimento al testo di 2Sam 7,8-16: da lì sono presi i termini grande… figlio (di Dio) …cosa… regno (i Davide) …regno senza fine. Il figlio di Maria è qui qualificato come il Messia atteso dai Giudei, ma già il senso delle parole adoperate in ambiente giudaico sembra dilatarsi per accogliere la nuova prospettiva cristiana.

— I vv. 34-35 difficilmente potrebbero spiegarsi, se si intendessero come battute stenografiche di un dialogo tra l’angelo e Maria. Sono però chiarissimi nel trasmetterci il messaggio rivelato che il figlio di Maria è stato concepito verginalmente, cioè senza il contributo di un padre terreno, e che questo stesso figlio di Maria è propriamente figlio di Dio fin dalla sua origine, cioè non in conseguenza della sua elezione alla dignità messianica, ma, grazie alla potenza creatrice dello Spirito Santo, fin dal momento della sua prodigiosa concezione.

— Nei vv. 36-37, l’angelo conferma l’eccezionalità dell’avvenimento annunziato, fornendo un segno capace di renderlo credibile: rivela a Maria la notizia ancora sconosciuta da tutti, che la sterile Elisabetta è diventata feconda nella sua vecchiaia, a dimostrazione che nulla è impossibile a Dio.

— Nel v. 38, che conclude il racconto, l’evangelista ci fa capire che Maria ha pienamente inteso l’alta missione che le è stata affidata, al punto che mette sulle sue labbra parole evocanti alte personalità dell’Antica Alleanza (Abramo, Mosè, Davide, il misterioso Servo di JHWH), che avevano meritato il titolo onorifico di servi del Signore. Proclamandosi serva di Dio, Maria è ben lontana dall’esprimere una semplice rassegnazione a oscuri disegni divini, dichiara piuttosto di essere gioiosamente pronta a collaborare alla imminente salvezza del mondo portata dal suo figlio Gesù.

Dall’esame analitico dei singoli versetti emerge la conclusione che il racconto di Luca ha come scopo principale quello di rivelarci l’identità messianica del figlio di Maria, che però è anche, a titolo specialissimo, figlio di Dio sin dalla sua concezione. In secondo luogo, il racconto ci parla della missione affidata a Maria, sottolineando soprattutto due cose: che l’iniziativa di quanto dovrà accadere appartiene esclusivamente a Dio; che lo stesso Dio ha reso Maria idonea all’assolvimento del compito affidatele mediante la pienezza di grazia. In questa pienezza, il popolo cristiano ha sentito che doveva starci anche l’Immacolata Concezione. 

Meditazione

     La liturgia della Parola di questa solennità ci offre nel versetto al salmo responsoriale (Sal 97) una particolare angolatura contemplativa per accostare il mistero celebrato: «Abbiamo contemplato o Dio le meraviglie del tuo amore». L’atteggiamento suscitato da questa parola ci invita a rileggere i testi della Scrittura, e in particolare il racconto di Lc 1,26-38, collocandoci in uno spazio di meraviglia, che nello stesso tempo è spazio di silenzio, di sguardo, di riconoscenza, di gioia. Di fronte a Colui che «ha compiuto meraviglie… ha fatto conoscere la sua salvezza. .. si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa di Israele» (Sal 97,1-3), il credente non può che stupirsi e con questo atteggiamento accostarsi a quel momento misterioso della storia di salvezza che rivela e porta a compimento il dise-gno di amore di Dio su tutta l’umanità.

     È l’evento che si realizza in una ragazza di Nazaret, Maria, che dal messaggero di Dio è salutata con queste inaudite parole: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,28). In questa donna trovano così spazio gioia, sovrabbondanza e totalità di grazia, presenza di un Dio che salva e usa misericordia. E tutto questo è adombrato in un silenzioso dialogo tra quel Dio che si rivela nella sua Parola e quella umile donna che fa spazio, in un ascolto di fede radicale, a quella Parola che finalmente in lei può prendere un volto. Noi conosciamo qualcosa di questo miste-rioso incontro nel racconto dell’evangelista Luca. Forse ciò che ci viene trasmesso da questa narrazione è troppo poco per decifrare un mistero, ma sicuramente è molto per lasciarci stupire da esso.

     E un primo tratto di questo racconto che in noi desta meraviglia, è il fatto che Dio dialoga con Maria. «Maria non è la semplice destinataria passiva della rivelazione riguardante il Figlio. Il suo è un ruolo attivo, di partner, nel contesto immediato, partner dell’angelo del Signore, ma, in realtà, partner di Dio stesso, che ha voluto far dipender la realizzazione del suo progetto dal libero consenso che Egli sollecitava dalla sua fede» (J. Dupont). Maria dialoga con l’angelo, intervenendo per capire e per maturare nell’adesione a ciò che le viene detto. La forza di questa parola dia-logica, che apre allo sguardo di Maria il mistero di un Dio che sceglie di parlare all’uomo, coinvolge completamente questa donna e, entrando in lei, si trasforma in carne: «Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38).

     Ma è sorprendete il fatto che anche all’inizio della storia della salvezza, quella storia drammaticamente segnata da una rottura (cfr. Gen 3,1-16), permanga intatto un dialogo tra Dio e l’uomo. E nelle parole che Dio rivolge al primo uomo e alla prima donna rimangono misteriosamente uniti la sofferenza di una fiducia tradita e il desiderio di continuare ‘diversamente’ una relazione di amore e di alleanza. È come se Dio, in questo dialogo, guardasse molto lontano, ad un compimento: «Io porrò inimicizia – dice al serpente – tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,15).    

     E la liturgia, nella sua sapiente lettura della storia sacra, accosta, proprio per questa festa, questi due dialoghi ‘originari’: il dialogo tra Dio e il primo uomo, dialogo profondamente segnato dal dramma del rifiuto, e il dialogo tra l’angelo e una donna, Maria, nell’orizzonte di un cammino carico di novità e di pienezza. E si rimane colpiti dalle risonanze tra questi due dialoghi, pur lontani e diversi, ma racchiusi ambedue dalla nostalgia di un Dio che cerca nell’uomo un volto in cui riflettere tutta la sua bellezza e la sua misericordia, che non si rassegna a perdere la sua creatura più preziosa, che gli va incontro con volto amico. Questa parola che Dio rivolge all’uomo è l’unica che può strappare l’uomo dal nulla, creandolo e chiamandolo alla vita, ed è l’unica che può rompere il silenzio e il mutismo in cui l’umanità si è racchiusa, ridando ad essa la possibilità di un dialogo. «Dove sei?» (Gen 3,9): ecco la parola rivolta all’uomo dopo che egli ha distolto il volto dal suo Dio. E solo Dio può porre questa domanda che certamente brucia come una ferita nel cuore dell’uomo che la ode, ma che permette all’uomo di riprender quel cammino, faticoso e doloroso, alla ricerca del volto di Dio. «Dove sei?»: Quale è il luogo in cui l’uomo ha scelto di abitare nella sua libertà? Dove lo ha condotto il suo cammino, la sua pretesa di possedere, di usurpare il luogo in cui solo Dio può abitare? «Cerca Dio – ammonisce un anziano monaco del deserto – ma non cercare dove dimora». L’uomo ha cercato il volto di Dio, si è collocato con umiltà davanti al suo sguardo, ha accettato che Dio solo potesse dargli un luogo dove dimorare, oppure ha preteso di invadere la dimora stessa di Dio, sostituirsi a lui nel suo luogo santo? «Dove sei?… Ho udito la tua voce nel giardino: avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto» (Gen 3,10). La risposta di Adamo è la risposta dell’uomo, dell’umanità, che non sa più dove si trova: ha cacciato Dio dalla sua dimora, si è messo al suo posto e ora è senza fissa dimora, fugge, non riesce più a collocarsi e a leggersi in uno spazio donato (quel simbolico giardino in cui tutto gli era offerto gratuitamente). Il suo disagio, la sua fragilità e il suo smarrimento di fronte ad un luogo che sente di aver violato, si trasformano in paura. Sente quel passo di Dio che si avvicina come minaccioso, ingombrante, oppressivo, come il passo di un conquistatore che viene a riprendere il luogo del suo possesso. E quel luogo, in cui l’uomo abitava con Dio, quel luogo di Dio in cui l’uomo era chiamato ad entrare per pura grazia, e non per diritto e possesso, da spazio di prossimità e comunione, si trasforma in abisso di lontananza, pieno di incognite e di angoscia. L’unico luogo in cui l’uomo sente di poter ricevere sollievo è quello in cui può nascondere il suo volto, la sua nudità. L’uomo ha perso la sua vicinanza con Dio, ma ha anche perso la vicinanza con se stesso. Il volto di Dio riflesso nel suo stesso volto provoca all’uomo l’angoscia del fallimento e della fine: «Ho avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto» (v. 10).

     «Dove sei?». Questa domanda rivolta da Dio al primo uomo e alla prima donna è come una eco che attraversa tutta la storia dell’umanità, risuonando nel cuore di ciascuno. Con essa Dio misteriosamente continua a chiamare l’uomo a sé, suscitandogli il desiderio e la nostalgia di un ritorno. Finché, in una casa della Galilea, questa domanda riceve finalmente la risposta che Dio si attendeva: «Dove sei?» […] «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). La risposta di Maria è la riposta di una umanità libera, che ha accolto radicalmente la sua nudità e l’ha collocata davanti a Colui che ha la delicatezza di avvolgere con il suo sguardo di compassione tutto ciò che l’uomo sente come fragilità e debolezza (cfr. Lc 1,48).

     «Dove sei?… Eccomi…»: è la risposta di chi non teme più nulla, di chi, disarmato, si presenta davanti a Colui al quale nulla è impossibile (cfr. Lc 1,37); la risposta di chi accetta un cammino di obbedienza a quella parola che, sola, conosce il mistero dell’uomo e che richiede la radicalità della fede. -Eccomi- è la risposta dell’uomo che getta tutte le maschere dietro le quali vuol nascondere il suo volto e si scopre vero davanti a Colui che è prossimità: «il Signore è con te» (1,28).

     «Dove sei?». La risposta di Adamo è quella dell’uomo che fugge e si nasconde da Dio, dell’uomo che si nascondono di fronte a se stesso ed alla sua responsabilità; la risposta di Maria è quella di chi accetta di stare vicino a Dio così come si è, assumendo in pieno la propria libertà, sapendo che tutta la propria esistenza è oggetto di pura grazia; e stando vicino a Dio, in questo luogo, e non altrove, scopre la misura di quella pace che annulla ogni timore ed angoscia, la misura di quel passo leggero che come soffio trasforma e rende nuova ogni creatura. Maria non ha paura del passo di Dio; sa che esso ha il ritmo dello Spirito, il ritmo dell’amore.

     «Dove sei?… Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto».

Preghiere e Racconti

Il mistero dell’Immacolata Concezione di Maria, che oggi solennemente celebriamo, ci ricorda due verità fondamentali della nostra fede: il peccato originale innanzitutto, e poi la vittoria su di esso della grazia di Cristo, vittoria che risplende in modo sublime in Maria Santissima.

L’esistenza di quello che la Chiesa chiama “peccato originale” è purtroppo di un’evidenza schiacciante, se solo guardiamo intorno a noi e prima di tutto dentro di noi. L’esperienza del male è infatti così consistente, da imporsi da sé e da suscitare in noi la domanda: da dove proviene? Specialmente per un credente, l’interrogativo è ancora più profondo: se Dio, che è Bontà assoluta, ha creato tutto, da dove viene il male? Le prime pagine della Bibbia (Gn 1-3) rispondono proprio a questa domanda fondamentale, che interpella ogni generazione umana, con il racconto della creazione e della caduta dei progenitori: Dio ha creato tutto per l’esistenza, in particolare ha creato l’essere umano a propria immagine; non ha creato la morte, ma questa è entrata nel mondo per invidia del diavolo (cfr Sap 1,13-14; 2,23-24) il quale, ribellatosi a Dio, ha attirato nell’inganno anche gli uomini, inducendoli alla ribellione. E’ il dramma della libertà, che Dio accetta fino in fondo per amore, promettendo però che ci sarà un figlio di donna che schiaccerà la testa all’antico serpente (Gn 3,15).

Fin dal principio, dunque, “l’eterno consiglio”  come direbbe Dante  ha un “termine fisso” (Paradiso, XXXIII, 3): la Donna predestinata a diventare madre del Redentore, madre di Colui che si è umiliato fino all’estremo per ricondurre noi alla nostra originaria dignità. Questa Donna, agli occhi di Dio, ha da sempre un volto e un nome: “piena di grazia” (Lc 1,28), come la chiamò l’Angelo visitandola a Nazareth. E’ la nuova Eva, sposa del nuovo Adamo, destinata ad essere madre di tutti i redenti. Così scriveva sant’Andrea di Creta: “La Theotókos Maria, il comune rifugio di tutti i cristiani, è stata la prima ad essere liberata dalla primitiva caduta dei nostri progenitori” (Omelia IV sulla Natività, PG 97, 880 A). E la liturgia odierna afferma che Dio ha “preparato una degna dimora per il suo Figlio e, in previsione della morte di Lui, l’ha preservata da ogni macchia di peccato” (Orazione Colletta).

Carissimi, in Maria Immacolata, noi contempliamo il riflesso della Bellezza che salva il mondo: la bellezza di Dio che risplende sul volto di Cristo. In Maria questa bellezza è totalmente pura, umile, libera da ogni superbia e presunzione. Così la Vergine si è mostrata a santa Bernadette, 150 anni or sono, a Lourdes, e così è venerata in tanti santuari. Oggi pomeriggio, secondo la tradizione, anch’io Le renderò omaggio presso il monumento a Lei dedicato in Piazza di Spagna.

(LE PAROLE DEL PAPA, BENDETTO XVI, ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 08.12.2008).

Maria, donna gestante

«Rimase con lei circa tre mesi. Poi tornò a casa sua».

Il vangelo stavolta non dice se vi tornò «in fretta», come fu per il viaggio di andata. Ma c’è da supporlo. Da Nazaret era quasi scappata di corsa, senza salutare nessuno. Quell’incredibile chiamata di Dio l’aveva sconvolta. Era come se, improvvisamente, all’interno della sua casetta si fosse spalancato un cratere e lei vi camminasse sul ciglio in preda alle vertigini. E allora, per non precipitare nell’abisso, si era aggrappata alla montagna.

Ma ora bisognava tornare. Quei tre mesi di altura le erano bastati per placare i tumulti interiori. Vicino a Elisabetta aveva portato a compimento il noviziato di una gestazione di cui cominciava lentamente a dipanare il segreto. Ora bisognava scendere in pianura e affrontare i problemi terra terra a cui va incontro ogni donna in attesa. Con qualche complicazione in più. Come dirglielo a Giuseppe? E alle compagne con cui aveva condiviso fino a poco tempo prima i suoi sogni di ragazza innamorata, come avrebbe spiegato il mistero che le era scoppiato nel grembo? Che avrebbero detto in paese?

Sì, anche a Nazaret voleva giungere in fretta. Perciò accelerava l’andatura, quasi danzando sui sassi. Oltretutto, su quei sentieri di campagna, vi si sentiva sospinta come dal vento, di cui, però, le foglie degli ulivi e i pampini delle viti non lasciavano percepire la brezza, nell’immota calura dell’estate di Palestina.

Per placare il batticuore, che pure tre mesi prima non aveva provato in salita, si sedette sull’erba.

Solo allora si accorse che il ventre le si era curvato come una vela. E capì per la prima volta che quella vela non si issava sul suo fragile scafo di donna, ma sulla grande nave del mondo per condurla verso spiagge lontane. Non fece in tempo a rientrare in casa, che Giuseppe, senza chiederle neppure che rendesse più esaurienti le spiegazioni fornitegli dall’angelo, se la portò subito con se. Ed era contento di starle vicino. Ne spiava i bisogni. Ne capiva le ansie. Ne interpretava le improvvise stanchezze. Ne assecondava i preparativi per un natale che ormai doveva tardare.

Una notte, lei gli disse: «Senti, Giuseppe, si muove».

Lui, allora, le posò sul grembo la mano, leggera come battito di palpebra, e rabbrividì di felicità.

Maria non fu estranea alle tribolazioni a cui è assoggettata ogni comune gestante. Anzi, era come se si concentrassero in lei le speranze, sì, ma anche le paure di tutte le donne in attesa. Che ne sarà di questo frutto, non ancora maturo, che mi porto nel seno? Gli vorrà bene la gente? Sarà contento di esistere? E quanto peserà su di me il versetto della Genesi: «Partorirai i figli nel dolore»?

Cento domande senza risposta. Cento presagi di luce. Ma anche cento inquietudini. Che si intrecciavano attorno a lei quando le parenti, la sera, restavano a farle compagnia fino a tardi. Lei ascoltava senza turbarsi. E sorrideva ogni volta che qualcuna mormorava: «Scommetto che sarà femmina».

Santa Maria, donna gestante, creatura dolcissima che nel tuo corpo di vergine hai offerto all’Eterno la pista d’atterraggio nel tempo, scrigno di tenerezza entro cui è venuto a rinchiudersi Colui che i cieli non riescono a contenere, noi non potremo mai sapere con quali parole gli rispondevi, mentre te lo sentivi balzare sotto il cuore, quasi volesse intrecciare anzi tempo colloqui d’amore con te.

Forse in quei momenti ti sarai posta la domanda se fossi tu a donargli i battiti, o fosse lui a prestarti i suoi.

Vigilie trepide di sogni, le tue. Mentre al telaio, risonante di spole, gli preparavi con mani veloci pannolini di lana, gli tessevi lentamente, nel silenzio del grembo, una tunica di carne. Chi sa quante volte avrai avuto il presentimento che quella tunica, un giorno, gliel’avrebbero lacerata. Ti sfiorava allora un fremito di mestizia, ma poi riprendevi a sorridere pensando che tra non molto le donne di Nazaret, venendoti a trovare dopo il parto, avrebbero detto: «Rassomiglia tutto a sua madre». Santa Maria, donna gestante, fontana attraverso cui, dalle falde dei colli eterni, è giunta fino a noi l’acqua della vita, aiutaci ad accogliere come dono ogni creatura che si affaccia a questo mondo. Non c’è ragione che giustifichi il rifiuto. Non c’è violenza che legittimi violenza. Non c’è programma che non possa saltare di fronte al miracolo di una vita che germoglia.

Mettiti, ti preghiamo, accanto a Marilena, che, a quarant’anni, si dispera perché non sa accettare una maternità indesiderata. Sostieni Rosaria, che non sa come affrontare la gente, dopo che lui se n’è andato, lasciandola col suo destino di ragazza madre. Suggerisci parole di perdono a Lucia, che, dopo quel gesto folle, non sa darsi pace e intride ogni notte il cuscino con lacrime di pentimento.

Riempi di gioia la casa di Antonietta e Marco, la quale non risuonerà mai di vagiti, e di’ ad essi che l’indefettibilità del loro reciproco amore è già una creatura che basta a riempire tutta l’esistenza.

Santa Maria, donna gestante, grazie perché, se Gesù l’hai portato nel grembo nove mesi, noi, ci stai portando tutta la vita. Donaci le tue fattezze. Modellaci sul tuo volto. Trasfondici i lineamenti del tuo spirito.

Perché, quando giungerà per noi il dies natalis, se le porte del cielo ci si spalancheranno dinanzi senza fatica sarà solo per questa nostra, sia pur pallida, somiglianza con te.

(Don Tonino Bello, Maria , donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 132000, 25-27)

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-   . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.  

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

 

PER L’APPROFONDIMENTO PERSONALE:

IMMACOLATA ANNO A

I DOMENICA DI AVVENTO

Prima lettura: Isaia 2,1-5

Messaggio che Isaia, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme. Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.  Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore. 

 

Questo profeta dell’A.T è capace di contemplare l’Altissimo e di far comprendere al popolo dell’alleanza che il Signore e la sua santa legge devono essere accolti nella fede. Il profeta Isaia nasce a Gerusalemme nel 760 a.C., vive il tempo difficile del Regno del Sud sotto la minaccia degli Assiri, finisce il suo ministero sotto Manasse (690 a.C.).                                                       

Il testo proposto dalla Chiesa all’interno della Liturgia di questa prima domenica di Avvento è inserito nei primi cinque capitoli che raccolgono l’oracolo sul destino di Gerusalemme e di Giuda pronunziati nei primi anni del suo ministero.

La lettura del testo porta a ricordare l’episodio della Torre di Babele: tentativo umano di arrivare a Dio, un segno della superbia umana, ed ecco che il profeta oppone a questo avvenimento la visione del «monte del Signore» che radunerà i popoli nella pace. Siamo di fronte ad un oracolo escatologico che annunzia la diffusione nel mondo del nome di YHWH e Gerusalemme diventerà il centro della religione jahvistica e della pace.

Nel v. 2 è molto importante sottolineare quel «sarà saldo…», esso è riferito a Gerusalemme, la nota della Versione dai testi originali così commenta: «Secondo la concezione mitologica dell’Antico oriente, il monte del tempio si identificava col monte altissimo in cui dimoravano gli dei. Qui il mondo terrestre si univa con quello celeste. Nel nostro testo questa mitologia viene utilizzata per descrivere la speranza escatologica di Israele» (cf. p. 1046).

Il monte meraviglioso, attraverso la legge e la parola, impone un ordine umano secondo il progetto di Dio; il profeta nella sua visione ricorda che è volontà divina la giustizia sulla terra e che quest’ultima è il fondamento della pace; è nei piani dell’Altissimo un governo giusto, la pace internazionale, il disarmo, gli strumenti di guerra trasformati in mezzi di pace.

Il popolo d’Israele è in atteggiamento di cammino, apre il pellegrinaggio verso la luce del Signore, in questo grande movimento verso YHWH devono essere coinvolte tutte le genti.

 

Seconda lettura: Romani 13,11-14a

 Fratelli, questo voi farete,  consapevoli del momento:  è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e  gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo. 

 

Il testo paolino che la liturgia propone è inserito nella Lettera ai Romani. Scritta, questa lettera, da Paolo nel 58 d.C., fu inviata per preparare un suo viaggio in Spagna.

Nella lettera Paolo espone il suo pensiero teologico, anche se non sono affrontati tutti i temi della sua teologia. Questa lettera la potremmo definire come “la grande presentazione teologica” della fede cristiana.

Il nostro brano è inserito nella sezione 12,1-15,13 considerata la parte delle Attuazioni: come il credente deve affrontare la vita quotidiana.

Dal testo, usato dalla liturgia, emerge come Paolo valuti il suo “tempo” come “occasione di grazia”, invita i credenti a vivere nell’apertura al futuro; ormai la notte sta per terminare e Cristo sta per arrivare con tutta la sua gloria, la sua venuta coincide con il giorno. La fede prepara la comunità cristiana a ricevere definitivamente Cristo nella sua infinita gloria. Tutto ciò esige da parte del credente di sviluppare una coscienza che realizza opere di vita e non di morte; l’attesa del Vivente porta il credente ad avere sempre una condotta onesta, una coscienza in ricerca «per rivestirsi delle armi della luce» cioè le opere buone che allontanano l’uomo da ogni forma di male.

Dietro all’affermazione del v. 72 certamente Paolo vuole ricordare che le opere buone sono possibili solo se si è nuovi nel cuore, non si deve mai dimenticare che «la proposta morale cristiana non potrà mai perdere di vista questa priorità antropologica e salvifica. Il valore morale non sta prima di tutto nel gesto che si compie, ma nel cuore che lo ispira e lo determina» (S. MAJORANO, Coscienza e virtualità del Sangue di Cristo, «Sangue e vita», Roma, 1995, 154).

Nel v. 13 Paolo ricorda un elenco di vizi dal quale l’uomo dev’essere lontano che sono praticati normalmente di notte. Ma ciò che potrebbe essere considerato centro del brano è il v. 14: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo…»: ciò che è avvenuto nel sacramento del battesimo come “evento” qui è presentato come esigenza nella vita morale. È sempre il v. 14 che dev’essere considerato eco di un inno battesimale della Chiesa primitiva, ad ogni modo è certo che Paolo qui realizza una missione: presenta il piano di Dio in maniera cristologica ed orienta tutte le iniziative etiche dei credenti nell’obbedienza al Signore, (cf. G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, vol. 2, Borla, Roma 1990, 491).

Mediante il verbo “rivestitevi” Paolo usa una metafora che indica sempre appropriazione, unione; rivestirsi del mistero di Cristo significa fare di esso il punto fondamentale della propria esistenza, la persona del Risorto datore di Spirito Santo diventa “fonte” della vita quotidiana dalla quale l’uomo attinge energia per vivere nella storia umana e fare la volontà del Padre Celeste.

 

Vangelo: Matteo 24,37-44

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato.  Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». 

 

Esegesi

Il brano del Vangelo odierno ci immette nel capitolo 24 del Vangelo di Matteo che è definito comunemente “discorso escatologico“, il contesto è il seguente: Gesù è uscito dal tempio (cf. v. 7) e sedutosi sul monte degli ulivi (cf. v. 3) pronunzia queste parole sulle ultime realtà. La pericope è preceduta dal tema dell’avvento del Figlio dell’uomo (cf. vv. 26-23), dalla dimensione cosmica di questo avvento (cf. vv. 29-37), dalla parabola del fico (cf. vv. 32-36).

     Nel discorso in questione Gesù usa il linguaggio apocalittico, molto difficile, ma sappiamo bene che l’intenzione del Cristo non è quella di portare terrore ma di affermare delle verità teologiche: verrà la fine del mondo, è necessario assumere un atteggiamento di vigilanza, la storia diventa il luogo per realizzare già il regno di Dio.

È da annotare il v. 36 che molte volte fa difficoltà ricordando Mt 11,27 dove si afferma che quello che appartiene al Padre è anche del Figlio; ma nel v. 36 — che precede la nostra pericope — il senso profondo è che non rientra nella missione di Gesù rivelare il momento preciso della fine del mondo, ciò appartiene alla conoscenza del cuore di Cristo che è sempre in comunione eterna con il cuore del Padre che svela ogni cosa, nello Spirito santo, al suo Figlio prediletto.

Ma entriamo, aiutati dallo Spirito Santo, unico esegeta della Parola, nelle profondità del testo proposto dalla liturgia:

vv. 37- 39: Gesù fa un paragone con la situazione storico, sociale e religiosa degli uomini contemporanei a Noè, si viveva nell’assoluto relativismo morale, la legge scritta nel cuore umano non era seguita, la libertà era intesa come libertinaggio. Gesù ricorda tutto questo, evidenziando che vivendo nella dissolutezza, furono travolti dalla catastrofe. Dobbiamo soffermarci sull’espressione «così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo»: la venuta del Cristo glorioso che si presenterà come vero ed unico giudice della storia e delle coscienze personali incombe sugli uomini come “avvenimento” di giudizio; la seconda venuta del Cristo dev’essere intesa come “momento di sintesi” della storia umana e della nostra coscienza che si presenterà davanti al Cristo con la sua scelta fondamentale con il quale ha costruito il proprio vissuto morale.

vv. 40-41: la fine dei tempi avverrà nel “quotidiano” che diventerà improvvisamente “eternità” nel quale il Cristo glorioso giudicherà con misericordia e verità. Il testo evangelico ricorda delle occupazioni abituali: il lavoro dei campi fatto dagli uomini ed i lavori domestici realizzati dalle donne, è qui che si svolgerà l’ultima chiamata di Cristo.

v. 42: l’esistenza umana che è un cammino verso l’eterno non può essere vissuta nella distrazione, l’incontro con il Cristo glorioso dev’essere preparato dal discepolo, per questo Gesù invita alla vigilanza e quindi alla preghiera. Il momento orante della vita personale prepara il cuore umano ad accogliere la parola definitiva del Redentore nel proprio vissuto quotidiano. Ma questo “vegliare” al quale il Cristo stesso ci chiama non è un’attesa di paura e di angoscia ma dev’essere un momento nel quale il credente deve immergersi in una preghiera fiduciosa verso l’Altissimo. Il discepolo di Cristo che attende la sua venuta confida nel suo Signore, in quanto sa bene che Dio avrà sempre una «parola di misericordia» nei suoi confronti; dovranno essere questi i pensieri del «vegliare» in attesa della parusia. Ma tutto ciò non esclude l’impegno concreto per la realizzazione del regno di Dio nella storia umana, il cristiano non può disprezzare la vita presente; il futuro, l’escatologia inizia nella nostra storia; il regno di Dio è già in mezzo a noi e avrà nel «domani di Dio» la sua piena attuazione. Questo logion è presente in Mc 13,35, inserito in un’altra parabola che l’evangelista Matteo omette. È da annotare il commento che fa in nota la Bibbia di Gerusalemme: «La vigilanza, in questo stato di allarme, suppone una solida speranza ed esige una costante presenza di spirito che prende il nome di sobrietà» (cf. p. 21-43).

vv. 43-44: qui abbiamo la piccola parabola dello scassinatore notturno, è riferita alla venuta gloriosa del Cristo che sarà improvvisa, questi versetti potrebbero acquistare luce leggendo il brano dell’Apocalisse 3,3: «Se non sarai vigilante, io verrò come un ladro, senza che tu sappia l’ora della mia venuta a te». Gesù si pone in netto contrasto con l’apocalittica giudaica che cercava di calcolare in anticipo la parusia, Gesù Cristo invece, vuole affermare il carattere sconosciuto ed inaspettato e perciò invita caldamente all’attesa, alla vigilanza, a stare in piedi ed attendere il Redentore.

Meditazione

L’evento finale e decisivo della storia di salvezza profetizzato da Isaia e annunciato dal vangelo come «venuta del Figlio dell’Uomo» viene colto nelle letture odierne nella sua portata giudiziale: esso giudica le violenze e le guerre che gli uomini scatenano (I lettura); le immoralità in cui si perdono (II lettura); l’incoscienza e l’ignoranza colpevoli con cui si anestetizzano (vangelo). L’annuncio escatologico non è un messaggio spiritualistico, ma ha un impatto forte sulla storia dei popoli (I lettura), sulla quotidianità delle esistenze dei credenti (vangelo) e sul loro comportamento (II lettura).

La simbolica della polarità notte-giorno, tenebre e luce, attraversa le tre letture e consegna un messaggio che intende svegliare il credente e guidarlo a conversione. È la tenebra delle genti che non conoscono il cammino da percorrere e che vengono illuminate dalla parola di Dio («camminiamo nella luce del Signore»: Is 2,5); è la tenebra della generazione di Noè che non capisce nulla, non discerne il tempo e i suoi segni e così perisce; è la notte che chiede al padrone di casa di vegliare per impedire al ladro di svaligiargli la casa (vangelo); è la notte simbolo del peccato, da cui il credente è chiamato a risvegliarsi gettando via le opere delle tenebre e indossando le armi della luce (II lettura).

La prima domenica di Avvento, che segna l’inizio di un nuovo anno liturgico, contiene un invito a ricominciare, si tratta di ricominciare il cammino di fede ascoltando di nuovo la parola di Dio (I lettura); facendo memoria degli inizi della fede, dunque del battesimo (II lettura); assumendo la storia quotidiana come luogo di vigilanza e discernimento (vangelo). In questa prospettiva di inizio o re-inizio, è significativo che il passo di Paolo sia stato decisivo per la conversione di Agostino (Confessioni VIII,12,29). Ascoltata la voce che dice «Prendi e leggi», Agostino apre la Scrittura e trova il passo che dice: «Non nelle gozzoviglie e nelle ubriachezze, non nelle orge e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze». Afferma Agostino: «Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Infatti, appena terminata la lettura di questa frase, una luce, quasi di certezza, penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono». Anche Agostino vive il suo risveglio, il suo passaggio dalle tenebre alla luce.

Il vangelo, istituendo un parallelo tra il diluvio, che sconvolse la quotidianità ripetitiva della vita della generazione di Noè, e la venuta del Figlio dell’Uomo, ammonisce a non annegare nella banalità dei giorni. La generazione di Noè non è dipinta da Gesù come malvagia o empia, ma semplicemente come incosciente: «Non si accorsero di nulla» (Mt 24,39). La generazione di Noè perì per mancanza di discernimento. E così perì due volte: nel diluvio e senza sapere perché. Noè, invece, seppe discernere e così salvò se stesso e il futuro: il discernimento dell’oggi salva il futuro. E questa è la responsabilità. La colpa, se di colpa si deve parlare, intravista nel nostro testo, è dunque l’irresponsabilità, l’assenza di discernimento.

Vigilare significa esercitare l’intelligenza, la riflessione, il pensiero sui tempi che si vivono, per non essere sorpresi dalle catastrofi che si preparano nascostamente nell’oggi della storia, nella chiesa, nelle relazioni famigliari e personali. Il credente è chiamato a pensare e conoscere l’oggi a partire dalla venuta del Signore e dalle sue dimensioni di impensato e di ignoto (Mt 24,36.44).

La venuta del Signore non impegna solo a vigilare sui tempi, ma anche sulla verità del proprio cuore. Il riferimento alle due persone impegnate nello stesso lavoro, che nulla sembra distinguere, e di cui però una viene presa e l’altra lasciata, indica che ciò che nella quotidianità dei giorni può rimanere nascosto, sarà manifestato alla venuta del Signore. La differenza si gioca nell’invisibile interiorità. «In interiore homine habitat veritas» (Agostino); «Il cammino della conoscenza porta verso l’interiorità» (Novalis). 

Preghiere e racconti 

L’avvento

Con l’odierna prima domenica di Avvento, entriamo in quel tempo di quattro settimane con cui inizia un nuovo anno liturgico e che immediatamente ci prepara alla festa del Natale, memoria dell’incarnazione di Cristo nella storia. Il messaggio spirituale dell’Avvento è però più profondo e ci proietta già verso il ritorno glorioso del Signore, alla fine della storia. Adventus è parola latina, che potrebbe tradursi con ‘arrivo’, ‘venuta’, ‘presenza’. Nel linguaggio del mondo antico era un termine tecnico che indicava l’arrivo di un funzionario, in particolare la visita di re o di imperatori nelle province, ma poteva anche essere utilizzato per l’apparire di una divinità, che usciva dalla sua nascosta dimora e manifestava così la sua potenza divina: la sua presenza veniva solennemente celebrata nel culto.

Adottando il termine Avvento, i cristiani intesero esprimere la speciale relazione che li univa a Cristo crocifisso e risorto. Egli è il Re, che, entrato in questa povera provincia denominata terra, ci ha fatto dono della sua visita e, dopo la sua risurrezione ed ascensione al Cielo, ha voluto comunque rimanere con noi: percepiamo questa sua misteriosa presenza nell’assemblea liturgica. Celebrando l’Eucaristia, proclamiamo infatti che Egli non si è ritirato dal mondo e non ci ha lasciati soli, e, se pure non lo possiamo vedere e toccare come avviene con le realtà materiali e sensibili, Egli è comunque con noi e tra noi; anzi è in noi, perché può attrarre a sé e comunicare la propria vita ad ogni credente che gli apre il cuore. Avvento significa dunque far memoria della prima venuta del Signore nella carne, pensando già al suo definitivo ritorno e, al tempo stesso, significa riconoscere che Cristo presente tra noi si fa nostro compagno di viaggio nella vita della Chiesa che ne celebra il mistero. Questa consapevolezza, cari fratelli e sorelle, alimentata nell’ascolto della Parola di Dio, dovrebbe aiutarci a vedere il mondo con occhi diversi, ad interpretare i singoli eventi della vita e della storia come parole che Iddio ci rivolge, come segni del suo amore che ci assicurano la sua vicinanza in ogni situazione; questa consapevolezza, in particolare, dovrebbe prepararci ad accoglierlo quando “di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà mai fine”, come ripeteremo tra poco nel Credo. In questa prospettiva l’Avvento diviene per tutti i cristiani un tempo di attesa e di speranza, un tempo privilegiato di ascolto e di riflessione, purché ci si lasci guidare dalla liturgia che invita ad andare incontro al Signore che viene.

(Discorso di Benedetto XVI a San Lorenzo fuori le Mura, Per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo, 30 novembre 2008).

L’attesa, una maniera di vivere

«La nascita è un’attesa

ma, contrariamente

a ciò che si vorrebbe credere,

l’attesa non è una parentesi:

è una maniera di vivere…».

(Jean DEBRUYNE, Nascere).

Svegliatevi!

Avvento significa svegliarsi dai sogni di tutti i giorni, svegliarsi alla realtà. Chi è desto vive con consapevolezza ogni momento della sua vita, è presente a se stesso, vivace, vigile.

È sveglio chi non si stordisce. La frenesia intontisce.

Non siamo obbligati a lasciarci travolgere dal vortice consumistico. Non dobbiamo a tutti i costi lasciarci inghiottire dalla smania di esaudire ogni desiderio.

La vigilanza non è soltanto l’atteggiamento fondamentale richiesto dall’Avvento.

Il racconto del Natale menziona i pastori che vegliavano durante la notte. E proprio perché stavano vegliando viene loro annunciata la lieta novella della nascita del Messia. Chi è sveglio è aperto e disponibile ad accogliere il mistero che vorrebbe afferrarci.

(Anselm GRÜN, Il piccolo libro della gioia del Natale, Milano, Gribaudi, 2006, 20)

Attendere

Non amo attendere nelle file. Non amo attendere il mio turno. Non amo attendere il treno. Non amo attendere prima di giudicare. Non amo attendere il momento opportuno. Non amo attendere un giorno ancora. Non amo attendere perché non ho tempo e non vivo che nell’istante. D’altronde tu lo sai bene, tutto è fatto per evitarmi l’attesa: gli abbonamenti ai mezzi di trasporto e i self-service, le vendite a credito e i distributori automatici, le foto a sviluppo istantaneo, i telex e i terminali dei computer, la televisione e i radiogiornali. Non ho bisogno di attendere le notizie: sono loro a precedermi.

Ma tu Dio tu hai scelto di farti attendere il tempo di tutto un Avvento. Perché tu hai fatto dell’attesa lo spazio della conversione, il faccia a faccia con ciò che è nascosto, l’usura che non si usura. L’attesa, soltanto l’attesa,  l’attesa dell’attesa, l’intimità con l’attesa che è in noi, perché solo l’attesa desta l’attenzione e solo l’attenzione è capace di amare.

(J. Debruyrnne, Ecoute, Seigneur, ma prière, Collectif, Paris).

L’ “ora di Dio”

Il Signore ci chiede di essere vigilanti e pronti perché non possiamo conoscere in anticipo l’ora di Dio, l’ora in cui Dio viene a visitarci con un intervento speciale. Sono ormai abbastanza anziano e saggio da pensare che non posso forzare quest’ora di Dio.

Dio verrà da me e da te, a modo suo e quando vorrà. A volte siamo tentati di comportarci come coloro che addestrano gli animali con i cerchi. Chiediamo a Dio di venire e di saltare attraverso i nostri cerchi proprio come vogliamo noi! Ma, alla fine, scopriamo che Dio non è un animale ammaestrato. Dio sceglie i suoi momenti e suoi mezzi. La nostra parte è solo di essere pronti per questi momenti speciali. A volte, l’ora di Dio sembra giungere proprio nel momento in cui non ce la facciamo più. Ad ogni modo, la nostra fiducia in Dio ci dice che Dio verrà, al momento migliore e nel modo migliore. Io devo permettere a te di essere te stesso, e tu devi permettere a me di essere me stesso.

E noi dobbiamo permettere a Dio di essere Dio.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 70).

Il buffone e il re

Un re aveva al suo servizio un buffone di corte che gli riempiva le giornate di battute e scherzi. Un giorno, il re affidò al buffone il suo scettro dicendogli: «Tienilo tu, finché non troverai qualcuno più stupido di te: allora potrai regalarlo a lui». Qualche anno dopo, il re si ammalò gravemente. Sentendo avvicinarsi la morte, chiamò il buffone, a cui in fondo si era affezionato, e gli disse: «Parto per un lungo viaggio».

«Quando tornerai? Fra un mese?», «No», rispose il re, «non tornerò mai più». «E quali preparativi hai fatto per questa spedizione?», chiese il buffone. «Nessuno!» fu la triste risposta. «Tu parti per sempre», disse il buffone, «e non ti sei preparato per niente? To’, prendi lo scettro: ho trovato uno più stupido di me!». 

Vigilanza nella solitudine

 Poco tempo fa un prete mi ha detto di avere annullato l’abbonamento al New York Time perché si era accorto che le continue cronache di guerre, di delitti, di giuochi di potere e di manipolazioni politiche non facevano altro che disturbargli la mente ed il cuore, impedendogli di meditare e di pregare.

 È una storia triste, perché fa nascere il sospetto che solo cancellando il mondo vi si possa vivere, che soltanto circondandosi di una calma spirituale, da noi stessi creata, si possa condurre una vita spirituale. Una vera vita spirituale, invece, fa esattamente il contrario: ci rende tanto vigili e consapevoli del mondo che ci circonda, che tutto ciò che esiste e che accade entra a far parte della nostra contemplazione e della nostra meditazione, invitandoci a rispondere liberamente e senza timore.

È questa vigilanza nella solitudine che muta la nostra esistenza. La differenza sta tutta nel modo in cui guardiamo e ci rapportiamo alla nostra storia personale, attraverso la quale il mondo ci parla.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 44-45).

Amare la prima venuta, desiderare la seconda

Fratelli carissimi, dovete sapere che questo tempo beato che noi chiamiamo «Avvento del Signore» evoca due realtà e, dunque, duplice deve essere la nostra gioia, poiché duplice è anche il guadagno che ci deve portare. Questo tempo evoca le due venute del nostro Signore: quella dolcissima venuta in cui il più bello dei figli dell’uomo (Sal 44 [45], 3), il desiderato da tutte le genti (Ag 2,7 Vg), vale a dire il Figlio di Dio, si manifestò visibilmente nella carne a questo mondo, lui a lungo atteso e desiderato ardentemente da tutti i padri; ciò avvenne quando egli venne in questo mondo a salvare i peccatori. Ma questo tempo evoca anche l’altra venuta che dobbiamo aspettare con una solida speranza e che dobbiamo ricordare spesso tra le lacrime, il momento, cioè, in cui il nostro Signore, che dapprima era venuto nascosto nella carne, verrà manifestamente nella sua gloria, come canta il salmo: Dio verrà manifestamente (Sal 49 [50], 3), cioè il giorno del giudizio, quando verrà manifestamente per giudicare […]. Giustamente la chiesa ha voluto che in questo tempo si leggessero le parole dei santi padri e si ricordasse il desiderio di quelli che vissero prima della venuta del Signore. Non celebriamo questo loro desiderio per un solo giorno, ma per un tempo abbastanza lungo, poiché di solito quando desideriamo e amiamo molto qualcosa, se accade che essa viene differita per un qualche tempo, ci sembra più dolce ancora quando giunge.

Seguiamo, dunque, fratelli carissimi, gli esempi dei santi padri, proviamo il loro stesso desiderio, e infiammiamo i nostri cuori con l’amore e il desiderio di Cristo. Dovete sapere che è stata stabilita la celebrazione di questo tempo per rinnovare in noi il desiderio che gli antichi santi padri avevano riguardo alla prima venuta del Signore nostro e dal loro esempio impariamo a nutrire un grande desiderio della sua seconda venuta. Dobbiamo pensare a quante cose buone ha fatto il Signore nostro nella sua prima venuta e a quelle ancor più grandi che farà nella seconda e con tale pensiero dobbiamo amare molto la sua prima venuta e desiderare molto la seconda.

(AELREDO DI RIEVAULX, Discorsi 1, PL 195,209A-210B).

Preghiera

Signore Gesù, che ci hai affidato la tua casa, la Chiesa e tutti i nostri fratelli, perché ci prendiamo cura gli uni degli altri in attesa del tuo ritorno, non lasciarci cadere le braccia per la stanchezza e per il sonno.

«State attenti, vigilate», è il tuo comando: come chi passa la notte in campagna è attento a tutti i rumori della notte perché possono essere forieri di qualcosa di inatteso, così fa’ che noi teniamo l’occhio attento e l’orecchio teso per scorgere dove tu sei all’opera e dove ci chiami a collaborare con te.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-   . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO:

AVVENTO I AVVENTO ANNO A

GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

Prima lettura: 2Samuele 5,1-3

In quei giorni, vennero tutte le tribù d’Israele da Davide a Ebron, e gli dissero: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”». Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d’Israele.  

 

Cristo re dell’universo ha una prefigurazione in Davide che riunisce tutto il popolo in un unico regno. La breve lettura proposta dalla liturgia odierna contiene le tre motivazioni che spingono gli anziani a chiedere l’unificazione del regno (vv. 1-2) e quindi il fatto dell’unificazione con l’unzione regale di Davide (v. 3).

     Le tre motivazioni sono rispettivamente: una certa familiarità con Davide che era loro ‘fratello’ di razza perché membro dello stesso popolo; Davide di fatto aveva già assunto il comando militare e quindi era loro capo; infine, un oracolo divino aveva manifestato la predilezione per lui.

     Troviamo qui alcuni tratti perché ci sia un buon regno. Si parte da un consenso di adesione e da un riconoscimento nella figura del re che diventa una ‘persona corporativa’. La frase «ecco noi siamo tue ossa e tua carne», riecheggia il grido osannante del primo uomo che si ‘specchiava’ nella sua donna (cf. Gn 2,23). Si crea una sintonia che si avvicina molto all’identità. Davide ha, dal canto suo, il compito di essere pastore, di pascere il suo popolo. Quella del pastore è una delle più remote e simpatiche denominazioni del re, forse già presente al tempo dell’antico re babilonese Hammurabi (XVIII secolo a.C.). Il termine esprime la responsabilità e la cura indefessa che il re esercita a vantaggio della sua gente. Egli è lì per loro.

     L’unzione sancisce un’alleanza che è impegno reciproco di fedeltà e di amore. Si stabilisce nel medesimo tempo un’alleanza in orizzontale, con tutti i mèmbri del popolo, di cui il re, come pastore, è il primo responsabile. Oggi diremmo, con un linguaggio a noi più familiare, che egli è il ‘padre’ di tutti. Poi sussiste un’alleanza in verticale, in quanto il re è il rappresentante di tutto il popolo presso Dio.

     La figura di Davide, re ideale e prefigurazione del re messia, non ha avuto buoni imitatori nei suoi successori. Le delusioni causate dal comportamento scorretto di tanti re che si sono avvicendati sul trono, non ha affievolito la speranza messianica, perché questa si fondava essenzialmente sulla sovranità divina e sulla sua promessa. Sempre di più i giudei hanno atteso qualcuno che sarebbe venuto dall’alto e avrebbe avuto tutte le qualità necessario all’avvento del tempo messianico. Gesù mostra di avere le qualità richieste, deludendo però i suoi contemporanei che attendevano un paradiso in terra.

 

Seconda lettura: Colossesi 1,12-20

Fratelli, ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

 

Il primato di Cristo o, se si preferisce, la sua eccellenza che lo incorona re, è mirabilmente scolpita nel famoso inno che la lettura propone. Siamo in presenza di una composizione semplicemente stupenda, anche se irta di difficoltà per gli studiosi. Tralasciando le questioni tecniche e le spinose problematiche connesse, ci limitiamo ad alcuni accenni in sin-tonia con la liturgia odierna.

     L’inno presenta due strofe che celebrano Cristo come il primogenito di tutta la creazione (vv. 15-18a) e come il primogenito dei morti (vv. 18b-20): alla cristologia cosmica della prima strofa corrisponde la soteriologia cosmica della seconda. Creazione e redenzione sono rapportate reciprocamente. Cristo in quanto esaltato nella redenzione totale è pensato anche come il detentore di una sovranità cosmica, quella che presiede, dirige e orienta tutta la creazione. L’inno è un canto di lode al Cristo trionfatore che ha fatto della sua risurrezione una nuova creazione, più completa della prima. La nuova creazione, riconciliata in Cristo, riceve la pienezza, quella che la prima non possedeva. Senza trovare il termine, vi ravvisiamo una celebrazione della regalità di Cristo, signore dell’universo.

     Il fondamento di tutto sta nella sua divinità, che lo rende uguale a Dio, e nella sua umanità, attraverso la quale può esprimere il suo amore che arriva fino al dono della vita.

     L’inno parla sempre di Cristo, senza mai nominarlo. Egli viene presentato al v. 15 come «immagine del Dio invisibile». Qui per «immagine» non si intende una creazione (come in Gn 1,26), ma la riproposizione della stessa natura, come tutto l’inno si impegnerà a dimostrare. Egli è superiore al creato perché «generato prima di ogni creatura» (lett. «primogenito di tutta la creazione»), indicando più una preminenza che una precedenza nel tempo (cf. Sl 89,28). Il primogenito, nel diritto familiare palestinese, godeva di alcune prerogative (cf. Gn 43,33; Dt 21,17). In base a questo sottofondo, si comprende meglio il titolo dato a Cristo, primogenito in senso di eccellenza, e non in senso di anteriorità, come il testo italiano potrebbe lasciar intendere.

     Oltre che la preminenza sul creato, Cristo è presentato come il principio vitale nascosto in «tutte le cose». Egli è causa effettiva di tutto e anche fine ultimo, è il punto di riferimento necessario. Per ogni cosa egli è la possibilità di continuare ad esistere, una specie di fondamento universale. Se tutto è riferito a Cristo, egli è celebrato come il mediatore della signoria di Dio, veramente la sua icona.

     Dopo il Cristo creatore, la seconda parte dell’inno (vv. 18b-20) celebra Cristo come salvatore. Se non è presente il termine, chiara ne è l’idea. È sempre in vista di una celebrazione della superiorità di Cristo che continua l’inno, riprendendo il concetto che egli è «principio, il primogenito». Come la creazione aveva dato la vita a chi non l’aveva, così ora l’opera di Cristo dà la vita a chi l’ha persa. Cristo dà vita. Sta qui uno dei concetti principali del primato: essere ‘fonte di vita’. Occupa il primo posto, non perché ha bisogno di essere salvato, ma perché ha sperimentato per primo il morire-risorgere: «il primogenito di quelli che risorgono dai morti». Cristo porta la comunità dei credenti, la Chiesa, a formare la ‘sua’ Chiesa. Sottomessi a lui, ma anche intimamente legati a lui, i fedeli prendono parte alla sua vita, entrano in un ordine nuovo, più alto, soprannaturale. Così diventa principio e primogenito dei morti, sia perché si trova alla testa, sia, soprattutto, perché gli altri senza di lui non esisterebbero: nella sua risurrezione è garantita quella degli altri. Ecco perché ottiene «il primato su tutte le cose».

     Ora Paolo passa a presentare un altro motivo di primato: la pienezza di Cristo. Non si parla di dimensioni, ma di capacità di dominare ogni cosa. «Pienezza» (in greco pléroma) richiama ai Colossesi l’idea che Cristo è in se stesso totalmente ricco; non ha quindi bisogno di nessuna integrazione.

     La redenzione è presentata in tutta la sua tragica storicità, «avendo pacificato con il sangue della sua croce», per ricordare al lettore un dato che ancora alla concretezza di un avvenimento e al dono personale di un individuo che ama. Il richiamo al sangue conserva un ricordo storico di impressionante realismo (cf. il Vangelo di oggi).

     Cristo è il re universale perché ha creato tutto e tutto ha ricreato con l’amore di una vita totalmente donata.

 

Vangelo: Luca 23,35-43

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».            

 

Esegesi

Siamo alle battute finali della passione. Il clima di ostilità è surriscaldato al massimo. La scelta del presente brano è motivata dalla presenza del titolo di re, dato a Gesù, che ben si intona alla festa di oggi. Si gioca su questo titolo; per qualcuno di dileggio, per altri esprimente una costitutiva qualità di Gesù. Due realtà opposte si fronteggiano: da una parte sono schierate, in forza massiccia, le potenze del male (vv. 35-39), dall’altra, in forza esigua, quelle del bene (vv. 40-43). La theologia crucis sta proprio nel fatto che il piccolo sconfigge il grande, come Davide ha vinto il gigante. Il negativo è impersonato dal triplice scherno: quello dei capi, quello dei soldati e quello di uno dei malfattori. Sono in tanti a credere che siamo alla fine di un’avventura, alimentata da vuota speranza: «Ha salvato altri! Salvi se stesso… Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso… Salva te stesso e noi!» Rimane solo il tempo per l’esecuzione capitale.

     Il fatto ostico di un condannato che muore, suscita, paradossalmente, uno sconfinato interesse. In una situazione di per sé ripugnante, fiorisce una attenzione che lascia presagire una novità. Quella morte riveste un medito valore, quasi di pubblicità. Il mistero pasquale è già abbozzato, o meglio, già definito in questa morte così carica di promessa.

     Sul Calvario, la sofferenza e la morte di Gesù diventano uno spartiacque che divide gli uomini: alcuni troveranno motivo per negare in lui la presenza di Dio, altri vi vedranno una misteriosa, anche se non facilmente comprensibile, presenza divina. La morte di Gesù è uguale e anche diversa dalle altre. Con la morte di tutti gli uomini condivide la tragica impotenza, il senso di fine, il dramma della separazione da tutto e da tutti. Diversamente da quella degli altri, la morte di Cristo porta i germi di trionfo. Lo attestano la scritta che campeggia sul cartiglio: «Costui è il re dei Giudei», le parole del buon ladrone e, soprattutto, la sentenza finale di Gesù: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (v. 43). Davvero strano questo condannato che, sul punto di morire, determina la vita degli altri con un’autorità che assomiglia molto a quella divina. Consideriamo la cosa più da vicino.

     Gesù reagisce con potere sovrano ad una felice provocazione. Il ladrone che si era rivolto a lui, forse in un ultimo, disperato S.O.S., non si rende pienamente conto del tenore delle sue parole. Egli chiede un ricordo (forse una ‘raccomandazione’) nel regno. Senza che egli ne abbia lucida coscienza, il regno invocato è quello che cresce in terra, ma che si radica in cielo, quello che avviene nel tempo, ma che ha caratteri di eternità. È il regno che Gesù sta meritando con il sacrificio della sua vita. È il regno che potrebbe avere il suo archetipo in quel giardino, un tempo luogo di incontro amoroso tra Dio e la sua creatura (cf. Gn 2), e ora sigillato dal peccato. Gesù si appresta a riaprirlo. Non servono chiavi. Occorre un atto di amore infinito che può compiere solo il Figlio dell’uomo che è altresì Figlio di Dio.

     La risposta di Gesù si apre con la solennità della grandi dichiarazioni: «In verità io ti dico». C’è da aspettarsi qualche parola che farà storia. Infatti, giunge una solenne e inaspettata promessa: «oggi con me sarai nel paradiso». Il giardino è riaperto. La comunione con il Padre è ripristinata, un nuovo abbraccio lega l’uomo al suo Creatore. Questo abbraccio è Cristo crocifisso. Tutti gli uomini sono compresi nelle sue braccia allargate; veramente tutti sono ‘abbracciati’. La scena della morte, tratteggiata con colori drammatici, mai funerei, si illumina improvvisamente con il bagliore della vita. È subito apoteosi.

     Il brano liturgico si interrompe qui, senza passare a descrivere la morte. Interessava, nel presente contesto, individuare e ribadire la regalità di Cristo. Ora sì, è possibile morire. Ma non è più vera morte. È solo passaggio. Veramente la morte è vinta dalla croce e s’inaugura il tempo finale profetizzato da Ezechiele (cf Ez 37,12), da Daniele (cf Dn 12,1-2) e da tanti altri. Gesù realizza le profezie e la sua morte è già principio di vita. L’atto finale della vita di Gesù è di per sé redentore ed è il motivo del suo trionfo sulla morte. Con Cristo s’inaugura un’umanità nuova. Dopo la sua morte non è più concessa la scelta tra il dolore e la felicità, ma tra il dolore senza senso e senza compenso e la felicità raggiunta attraverso il dolore; non tra la morte e la vita senza morte, ma tra la morte senza vita di gloria e la gloria nella quale la morte è diventata premessa indispensabile di vita eterna.

     La vicenda di Gesù anticipa e rende possibile quella di ogni uomo. Lo documenta la pagina evangelica odierna: il ‘collega’ di supplizio diventa il ‘collega’ nel regno. Del regno Gesù aveva detto qualcosa in precedenza: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché

possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e sederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele» (Lc 22,28-30). La citazione richiama elementi analoghi al passo liturgico odierno: il regno è dono del Padre e di Cristo, lo si ottiene ‘contribuendo’ personalmente e uno dei migliori contributi è la sofferenza (idea racchiusa nel concetto di ‘perseverare’). Il regno è comunione e condivisione con la divinità: la prima è espressa con l’immagine classica del banchetto (cf. Is 25,6ss), l’altra con l’immagine del governare (cf. Mt 19,28). Nel regno vige un’unica regola, quella della comunione di amore. Il banchetto e la condivisione del potere, sono mirabilmente riassunte nel «con me sarai», una succosa sin-tesi teologica di ‘paradiso’.

     Essere con Gesù, il Crocifisso di questo momento, presto il Risorto, equivale ad essere con il Padre e con lo Spirito. Il paradiso è comunione con la Trinità.

Meditazione 

     Le letture di questa domenica finale dell’anno liturgico, che celebra Cristo quale Signore e re dell’universo, presentano la regalità nella sua dimensione comunionale, corporativa. Nella prima lettura le tribù di Israele riconoscono Davide come re e mostrano di sentire il messia come figura corporativa. Esse si affidano a lui quasi incorporandosi simbolicamente a lui: «Noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne» (1Sam 5,1). Nel vangelo siamo di fronte a Gesù quale messia debole, inerme, che, sulla croce, mentre si affida radicalmente a Dio (Lc 23,46), vede affidarsi a lui un malfattore crocifisso accanto a lui. E Gesù promette comunione a costui, incorpora a sé quest’uomo promettendogli comunione: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). La seconda lettura esprime la fede ormai sviluppata della chiesa che celebra l’incorporazione cosmica nel Cristo Risorto: tutto è stato creato in Cristo, per mezzo di lui, ma anche in vista di lui, per essere ricapitolato in lui (Col 1,12-20).

     Per tre volte Gesù viene deriso come Messia e per tre volte i suoi avversari gli rivolgono l’invito a salvare se stesso, quasi che proprio la capacità di sottrarsi alla croce, di salvare la propria vita sia per loro il sigillo dell’autenticità della messianicità (Lc 23,35.37.39). Invece, è esattamente l’autosalvezza ciò che è impossibile nello spazio cristiano, ciò che contraddice radicalmente la salvezza cristiana. Gesù aveva annunciato: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9,24). Ma prima di annunciare che chi perderà la vita a causa sua, la salverà, egli stesso è passato attraverso l’esperienza del perdere la propria vita, del perdere se stesso. Mettere in salvo la propria vita è la grande tentazione, a cui Gesù si è opposto già durante le tentazioni inaugurali del suo ministero (Lc 4,1-13). Ed è la tentazione perenne del cristiano e della chiesa. Infatti, vale anche per la chiesa il detto di Gesù per cui chi cerca se stesso, chi vuole salvare se stesso, ovvero chi fa di se stesso un fine, il proprio fine, perde se stesso.

     La regalità di Gesù è derisa (Lc 23,35-37) o insultata (Lc 23,39); di essa ci si fa beffe (Lc 23,35-37) o si cerca di sfruttarla a proprio vantaggio (Lc 23,39). Gesù abita lo scandalo del Messia perduto che può così raggiungere chiunque si trovi in situazioni di perdizione. Del resto, noi sappiamo che condizione indispensabile per incontrare e aiutare l’altro nella sua sofferenza, è condividere qualcosa della sua impotenza e debolezza. Scrive Bonhoeffer: «Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza e della sua sofferenza […] La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare». La regalità di Gesù capovolge dunque la logica di potenza e forza che regge le regalità umane.

Gesù mostra la sua signoria manifestando la sua capacità di giudizio e di divisione: egli è segno di contraddizione e di fronte a lui ci si divide, si manifestano i pensieri dei cuori.     Dei due crocifissi con lui uno lo insulta, l’altro lo prega. In particolare, il cosiddetto «buon ladrone» appare tipo del discepolo cristiano. Egli innanzitutto opera la correzione fraterna «rimproverando» (Lc 23,40) l’altro condannato che insulta Gesù, e mettendo così in atto la parola di Gesù: «Se tuo fratello pecca, rimproveralo» (Lc 17,9) ; inoltre egli appare simbolo della responsabilità: riconosce il male che ha commesso e ne accetta le conseguenze (Lc 23,41a); quindi esprime una confessione di fede riconoscendo l’innocenza di Gesù (Lc 23,41b); infine si rivolge a Gesù con la preghiera, la supplica, e riconoscendone la regalità escatologica: «Gesù, ricordati di me, quando verrai [non «entrerai», come traduce la Bibbia CEI] nel tuo regno» (Lc 23,42). Immagine dei credenti e della chiesa che, nella storia, sono chiamati a testimoniare la regalità di Cristo condividendo le sofferenze del Crocifisso, invocando la venuta del Regno, e attendendo il Veniente nella gloria.

Preghiere e racconti

Il Buon ladrone

Coloro ch’egli ama, si accalcano, montano la guardia. Intorno al suo corpo esposto, ricoprendo, velando col loro amore la sua nudità, troppo sanguinante, troppo dolorosa per offendere qualsiasi sguardo. A traverso il sangue e il pus, egli vede la propria pena riflessa sui volti cari: quelli di Maria sua madre, di Maria Maddalena, d’una delle sue zie, moglie di Cleofa. Giovanni ha forse gli occhi chiusi. Ed ecco l’episodio sublime, l’ultima invenzione dell’Amore, innocente e crocifisso, che Luca solo riporta: L’uno dei malfattori appiccati lo ingiuria dicendo: – Se tu sei il Cristo, salva te stesso e noi.  Ma l’altro lo riprendeva dicendo: – Non hai tu timore di Dio, che sei nel medesimo supplizio? Per noi è giustizia, perché riceviamo la pena degna dei nostri misfatti: ma costui non ha commesso nulla di male. E tosto che ha parlato, una grazia immensa gli piove in cuore: quella di credere che quel suppliziato, quel miserevole rifiuto che i cani schiferebbero, è il Cristo, il Figlio di Dio, l’Autore della vita, il Re del cielo. E dice a Gesù: «Signore, ricordati di me, quando sarai entrato nel tuo regno».

« Oggi stesso tu sarai con me in paradiso ».

Un solo moto di puro amore, e un’intera vita criminale è cancellata. Buon ladrone, santo operaio dell’ultima ora, inebriaci di speranza.

(E. MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950, 149-150).

 

Voglio che sia una regina

«C’era una volta, tanti secoli fa, una città famosa. Sorgeva in una prospera vallata e, siccome i suoi abitanti erano decisi e laboriosi, in poco tempo crebbe enormemente. Era insomma una città felice nella quale tutti vivevano in pace. Ma un brutto giorno, i suoi abitanti decisero di eleggere un re. Suonate le trombe, gli araldi li riunirono tutti davanti al Municipio. Non mancava nessuno. Lo squillo di una tromba impose il silenzio su tutta l’assemblea. Si fece avanti allora un tipo basso e grasso, vestito superbamente. Era l’uomo più ricco della città. Alzò la mano carica di anelli scintillanti e proclamò: “Cittadini! Noi siamo già immensamente ricchi. Non ci manca il denaro. Il nostro re deve essere un uomo nobile, un conte, un marchese, un principe, perché tutti lo rispettino per il suo alto linguaggio”.

“No! Vattene! Fatelo tacere’ Buuu”. I meno ricchi della città cominciarono una gazzarra indescrivibile. “Vogliamo come re un uomo ricco e generoso che ponga rimedio ai nostri problemi!”.

Nello stesso tempo, i soldati issarono sulle loro spalle un gigante muscoloso e gridarono: “Questo sarà il nostro re! Il più forte!”.

Nella confusione generale, nessuno capiva più niente. Da tutte le parti scoppiavano grida, minacce, applausi, armi che s’incrociavano.

Suonò di nuovo la tromba. Un anziano, sereno e prudente, sali sul gradino più alto e disse: “Amici, non commettiamo la pazzia di batterci per un re che non esiste ancora. Chiamiamo un innocente e sia lui ad eleggere un re tra di noi”.

Presero un bambino e lo condussero davanti a tutti. L’anziano gli chiese: “Chi vuoi che sia il re di questa città così grande?”.

Il bambinetto li guardò tutti, si succhiò il pollice e poi rispose: “I re sono brutti. Io non voglio un re. Voglio che sia una regina: la mia mamma”».

(B. Ferrero, C’è qualcuno lassù, Torino, LDC, 1993, 12-13).

 

Il Cristo di Velázquez

A che pensi Tu, morto, Cristo mio?

Perché qual vel di tenebrosa notte

la ricca chioma tua di nazareno

ricade cupa giù su la tua fronte?

Entro di te Tu guardi ove sta il regno di Dio;

dentro di te, là dove albeggia,

l’eterno sol dell’anime viventi.

Bianco è il suo corpo, sì com’è la sfera del sol,

padre di luce, che dà vita;

bianco è il tuo corpo al modo della luna

che morta ruota intorno alla sua madre,

la nostra stanca vagabonda terra;

bianco è il tuo corpo, bianco come l’ostia

del cielo nella notte sovrumana,

di quel cielo ch’è nero come il velo

della chioma tua ricca e cupa e folta

di nazareno.

Chè sei, Cristo, il solo

Uomo che di sua scelta soccombesse,

trionfando della morte, che fu resa

da te verace vita. E sol da allora

per Te codesta morte tua dà vita;

per Te la morte è fatta madre nostra;

per Te la morte è il dolce nostro anelo

che placa l’amarezza della vita.

Per te, l’Uomo che è morto e che non muore,

bianco siccome luna nella notte…

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 28-29).

«Non sono così».

Si racconta, fra i Padri del deserto, la storia di un misero calzolaio di Alessandria che un angelo aveva presentato al grande sant’Antonio come un uomo più avanti di lui, malgrado gli sforzi eroici dell’eremita appassionato, fortemente preoccupato di fare progressi. Sconcertato non poco da questa rivelazione, Antonio si recò subito nella città di perdizione per imparare dalle labbra del calzolaio il segreto della sua perfezione: «Cosa fai di straordinario per santificarti in un simile ambiente?», «Io? Faccio le scarpe!». «Senza dubbio. Ma devi avere un segreto. Come vivi?». «Suddivido la mia vita in tre ambiti: la preghiera, il lavoro, ed il sonno», «Io prego sempre, quello che fai tu non va bene! E la povertà?». «Anche in questo caso tre parti: una per la chiesa, una per i poveri e una per me». «Ma io ho dato tutto quello che avevo… Deve esserci qualcos’altro. Non credi?».

«No». «E tu riesci a sopportare queste persone che non sanno più distinguere il bene dal male, che vanno chiaramente all’inferno?». «Ah, lì, non lo faccio, non lo sopporto! Chiedo a Dio di farmi scendere vivo all’inferno purché essi siano salvati!». Sant’Antonio si ritirò in punta dei piedi confessando: «Non sono così».

Signore, Misericordia…

Signore, sono davanti a Te da povero tuo amico, debole, peccatore… Signore, io mi abbandono a Te, ti amo davvero, ma resto debole, resto peccatore. Signore, ti invoco in ogni momento: medito giorno e notte la tua Parola ma i miei fallimenti mi sono sempre davanti. Signore, sei il mio vero e unico padrone, ma la mia forza diventa spesso debolezza. Signore, misericordia per il tuo povero amico.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto – Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2005, 54).

 

Aiutami a dire “sì”

Ho paura a di “sì”, Signore.

Dove mi porterai?

Ho paura del “sì” che comporta altri “sì”.

Ho paura a mettere la mia mano nella tua;

perché tu possa stringerla […]

 

O, Signore, ho paura delle tue richieste,

ma chi può opporti resistenza?

Che venga il tuo regno, non il mio,

che sia fatta la tua volontà e non la mia,

Aiutami a dire “sì”».

(Michel QUOIST)

 

La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione

Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della crescita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.

Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di accettazione da parte del genere umano. L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita. C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fissa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio. Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui. […]

Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165).

 

Lo proclamo re perché ha dato la sua vita

Nessuno costrinse il ladrone, nessuno lo forzò, ma lui stesso disse all’altro: Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, ma lui non ha fatto nulla di male (Lc 23,40-41). E poi dice: Ricordati di me, nel tuo regno (Lc 23,42). Non ha osato dire: Ricordati di me, nel tuo regno prima di aver deposto attraverso la confessione il fardello dei suoi peccati. Vedi, cristiano, qual è il potere del riconoscimento del proprio peccato? Ha confessato di essere peccatore e ha aperto il paradiso; ha confessato e ha trovato il coraggio di chiedere il paradiso dopo tutti i suoi latrocini. Vedi quanti beni ci procura la croce? Pensi al regno? Che cosa vedi che gli sia simile? Vedi i chiodi e la croce, ma proprio questa croce, dice la Scrittura, è simbolo del regno. Per questo, quando vedo Gesù crocifisso, lo proclamo re. E proprio di un re morire per i suoi sudditi. Egli stesso ha detto: Il buon pastore da la sua vita per le pecore (Gv 10,11). Anche un buon re da la sua vita per i suoi sudditi. Io lo proclamo re perché ha dato la sua vita.

Ricordati di me, nel tuo regno. Vedi come la croce è simbolo del regno? Desideri un’altra prova? Il Signore non ha lasciato la sua croce sulla terra, ma l’ha presa e portata con sé in cielo. Come lo sappiamo? Perché l’avrà con sé quando ritornerà nella sua gloria. Impara quanto è degna di venerazione la croce che egli ha chiamato sua gloria […] Quando il Figlio dell’uomo verrà, il sole si oscurerà e la luna perderà il suo splendore (Mt 24,29). Il suo splendore sarà tale da oscurare anche gli astri più luminosi. Allora anche le stelle cadranno, allora apparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo (Mt 24,29-30). Vedi quant’è potente il segno della croce!

[…] Quando un re entra in una città, i soldati lo precedono portando sulle loro spalle gli stendardi e annunciando il suo arrivo. Così quando il Signore discenderà dai cieli, lo precederà una schiera di angeli portando sulle loro spalle il segno della croce e annunciando la venuta del nostro re.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla croce e sul ladrone 1,3-4, PG 49,403-404).

Preghiera

Troppe volte, Signore Gesù,

abbiamo rivolto il nostro cuore ad altri sovrani,

ai vari dominatori del mondo.

Troppe volte, dominati dall’ansia del futuro

e dall’angoscia del pericolo,

ci rivolgiamo ad altri «re».

Solo l’amore e la fiducia che ne deriva

liberano l’uomo dalla fobia

e dalla tirannia della sua presunzione.

Oggi, Signore, ci inviti ad alzare il capo

e a guardare nel tuo futuro.

 

Tu, Re di misericordia,

ricordati di noi nel tuo Regno,

facci percepire il palpito del tuo cuore.

 

Un mondo disgregato dalla diffidenza,

dal dubbio e dallo scetticismo

trova solo in te la salvezza.

 

Il tuo Regno non è fatto

di splendido isolamento,

ma di profonda solidarietà

con l’umanità redenta.

 

Il tuo Regno non impone diffidenza,

ma libera, salva, assicura speranza.

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXIV DOM TEMP ORD (C) CRISTO RE (C)

XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Malachia 3,19-20

Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno, venendo, li brucerà – dice il Signore degli eserciti – fino a non lasciar loro né radice né germoglio. Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia.

 

Il libretto di Malachia pare si concluda con l’annunzio del giorno del Signore, quale risposta al lamento di alcuni israeliti (3,19-21). Questi si rammaricano di fronte al problema del male in questo mondo: «che vantaggio ne abbiamo dall’aver osservato i comandamenti, se i superbi, pur provocando Dio, restano impuniti?» (3,14s). Il Signore mostra loro «il suo Libro delle memorie», secondo cui coloro che temono Dio saranno «sua proprietà nel giorno che Lui prepara», giorno di luce per i giusti, di fuoco e di cenere per gli empi (3,19-21). L’opera di Ml impostata sopra una serie di 6 dialoghi tra Dio e varie categorie di fedeli

sembra termini qui con quest’ultima dichiarazione del Signore. I versi che seguono (3,22-24) sul ritorno del profeta Elia probabilmente sono dovuti a un redattore finale con l’intento di chiudere più serenamente i vaticini del messaggero di JHWH (3,1).

     Note esegetiche. – «Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno» (v. 19). Si tratta del giorno escatologico: l’era già preannunziata da antecedenti profeti (Am 5,18-20; Gl 2,1-3; Sof 1,7-18…), in cui si attendeva un intervento decisivo e grandioso del Dio d’Israele, descritto con termini immaginari delle teofanie e dei grandi sconvolgimenti della natura e della storia. L’immagine del fuoco ardente di una fornace (Is 31,9), che brucerà la paglia e ridurrà in cenere radici e rami da l’idea esatta dell’ineluttabile giudizio divino; esso abbatterà gli orgogliosi (zedîm, nel senso di arroganti: 3,15), coloro cioè che osano provocare l’Altissimo (v. 15) e gli operatori di iniquità, in opposizione ai giusti che hanno osservato i comandi del Signore (3,14); di essi non resterà nulla, come viene efficacemente confermato dalla doppia metafora: bruciatura della paglia e incenerimento di rami e radici (cf. Gb 18,16s), vale a dire scomparsa di eredi, di genitori e di loro aderenti.

     — «Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (v. 20). Lett. «voi, che avete timore del mio nome», cioè che venerate il supremo Signore (il nome, nel concetto ebraico, sta in vece della persona), e quindi ne adempite di voleri (cf. Dt 3,14; 10,12…). L’immagine del sole alato, radioso, era molto diffusa nella simbolica orientale: la si trova nelle stele egiziane, nei sigilli e monumenti di Siria: rappresentava il fulgore della Divinità (come il dio Râ per l’Egitto), difensore del diritto e apportatore di benessere. Il profeta la utilizza per descrivere l’intervento del Dio giusto e Salvatore a favore dei suoi eletti, in sintonia con precedenti espressioni bibliche. Il sorgere del sole era indice del nuovo giorno, e di una vita rinnovata, come in Is 30,26: la luce del sole apparirà, quando Dio verrà a risanare il suo popolo. La giustizia solare non sarà solo il ristabilimento dell’ordine e dell’equità, ma la sedaqah isaiana, cioè l’attuazione dell’alleanza divina, la restaurazione della pace, la salvezza piena (Is 41,2; 46,13; Sal 22,32). Ma più espressamente viene detto che il sole sarà apportatore di guarigione. La frase della trad. CEI «con raggi benedici», a parola può essere resa con «recante guarigione nelle sue ali»: la radice rafa’ ebraica ha il senso fondamentale di «risanare da un’infermità». Il sole divino in quel giorno avrebbe conferito ai cultori dell’Onnipotente la liberazione da tutte le loro piaghe (cf. Ger 33,6; Is 57,18s): non solamente quindi pace e salvezza nella mente e nel cuore, ma una restaurazione integrale in tutto l’essere umano, anche corporale; con tenue accenno, forse, alla riabilitazione dal sepolcro secondo il Salmo 16,10.

     Il portavoce del Dio vivente ha offerto così ai suoi uditori, e in loro anche a noi, la più confortante rassicurazione per quanto riguarda il ricorrente problema dell’arroganza dei malvagi in questo nostro mondo: una parola indefettibile, «dice il Signore degli eserciti» (v. 19), confermata dal Salvatore divino: «cielo e terra passeranno, le mie parole mai» (Lc 21,33); nel «Libro delle memorie» è già indelebilmente segnato il giorno di fuoco e il sorgere del sole sfolgorante, il giudizio cioè del Signore supremo, che farà tacere per sempre la provocazione e la prepotenza, mentre il fulgore del suo volto ricoprirà di gloria imperitura chi lo ha servito fedelmente. 

Seconda lettura: 2Tessalonicesi 3,7-12

Fratelli, sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.

 

Al termine della 2a lettera ai tessalonicesi S. Paolo sta dando le raccomandazioni finali, ribadendo quel che aveva già detto nella prima (1Ts 4,7-12: vivere nella santità e nella carità fraterna, procurandosi con l’onesto lavoro il proprio sostentamento). Forse gli era arrivata qualche specifica notizia su quest’ultimo argomento: vi erano in comunità individui che si comportavano disordinatamente contro le direttive già date (v. 6), andavano in giro, diffondendo pettegolezzi e pretendendo di assidersi alla mensa degli altri. L’apostolo ha l’occasione di esporre più distintamente il suo pensiero in proposito.

     Note esegetiche. – «sapete in che modo dovete prenderci a modello» (v. 7).

     Propone anzitutto il suo esempio, quale apostolo inviato da Cristo. Egli avrebbe avuto certamente il diritto a ricevere dai fratelli la sua ricompensa, come ha disposto lo stesso Maestro divino: «chi annunzia il Vangelo, viva del Vangelo» (1Cor 9,14; Mt 10,9; Lc 10,7). Tuttavia non se ne è avvalso (cf. però Fil 4,15), vi ha rinunziato liberamente (1Cor 9,15) e non è stato mai in ozio tra i fratelli che evangelizzava, ma si è dato da fare esercitando il suo mestiere manuale durante il giorno e, se occorreva, anche di notte (probabilmente si trattava dell’arte di tessitore di tende). Per i greci il lavoro fisico era un disonore: l’uomo libero lo riservava agli schiavi. I rabbini invece lo apprezzavano molto. L’apostolo di Cristo, pur non essendo obbligato, lo esercita con una speciale motivazione: non poteva essere disprezzato dai credenti di origine greca, perché egli assumeva quelle fatiche per sua libera scelta; e allo stesso tempo era di esempio e di incitamento a tutti coloro ai quali inculcava di vivere decorosamente con il proprio lavoro.

     — «A questi taliordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità» (v. 12).

     Non si contenta di dimostrare il suo comportamento, ma aggiunge un preciso comando; impegna la sua autorità di rappresentante di Cristo, «nel nome del Signore Gesù». Egli non obbliga nessuno a esercitare l’apostolato del tutto gratuitamente; ma adesso si tratta di veri abusi: di gente che invece di evangelizzare, va suscitando malintesi e contrasti e pretende di farsi mantenere dalle stesse comunità che sta disgregando! Paolo si sente in dovere di intervenire energicamente: costoro la finiscano di andare in giro a danno degli altri e imparino a trovar di che vivere dalla propria fatica (vv. 11 s); e diversamente, siano tenuti lontani dei comuni rapporti, pur guardandoli sempre come fratelli (vv. 14s).

     In conclusione, il pensiero dell’apostolo è chiaro. L’operaio evangelico è «degno della sua mercede» (Lc 10,7). Egli tuttavia, se vuole, può rinunziarvi nei limiti consentiti dalle sue attività apostoliche, per rendersi indipendente col proprio lavoro dalla comunità che evangelizza. A nessuno però che ha accettato di impegnarsi nel ministero del culto e della parola, è lecito vivere in ozio, senza attendere ai compiti assunti, o peggio seminando discordie e liti, e pretendere di essere sostentato dai fratelli nella fede; si trovi, in tal caso, un’onesta occupazione e si comporti con dignità e in pace con tutti! Una saggia esortazione che è valida e opportuna anche per i nostri tempi!

Vangelo: Luca 21,5-19 

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». 

 

Esegesi 

     Il nostro brano fa parte del discorso escatologico con cui Luca conclude il suo Vangelo prima del racconto della Passione, (21,5-36). Ha molte somiglianze con l’analogo discorso di Marco (Mc 13,1-34); ma se ne allontana in tratti significativi. Ne possiamo dedurre una visione più chiara degli eventi cui ci si riferisce, e delle raccomandazioni date dal divin Maestro in quelle circostanze. L’occasione dell’intero discorso (divisibile in due parti: a- vv. 5-19; b- vv. 20-36) è offerta dalla richiesta di alcuni sull’epoca precisa della distruzione del Santuario ebraico: «quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno» (v. 7).

     Note esegetiche. – La risposta di Gesù, in Lc, 1a parte, viene presentata con immagini apocalittiche e insieme con indicazioni molto concrete. L’evento preannunziato sarà così terribile che lo stesso Gesù nel richiamarlo in Lc 19,41-44 non poté frenare il pianto; e per descriverlo adeguatamente ha fatto ricorso agli scenari sconvolgenti con cui i profeti predicevano i grandi disastri collettivi del loro tempo: «vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo» (Lc 21,11); cf. Is 24,18 «le cateratte dell’alto si aprono, si scuotono le fondamenta della terra»; Ez 32,7s: «quando cadrai, oscurerò il sole e gli astri…»; per la caduta dell’Egitto e di Babilonia.

     Mentre però Mc (con Mt) pone al primo posto come segni precursori l’apparire dei falsi messia, le guerre, le pestilenze, le catastrofi naturali, e poi in secondo luogo le persecuzioni dei discepoli del Cristo, (Mc 13,9; Mt 24,9), Luca capovolge la situazione: «Ma prima di tutto questo (fenomeni terrificanti) metteranno le mani su di voi » (Lc 21,13): si verificheranno cioè le violenze e le calunnie contro i predicatori del Vangelo, « traditi perfino dai genitori…. sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (vv. 16s). Ma subito Gesù si premura di rassicurare i suoi amici: nulla varrà a turbare la loro pace, «nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto» (v. 18); nessuno potrà fare loro alcun male, contro il volere del Padre; si fidino totalmente di Lui, e conseguiranno sicuramente la vera salvezza nel suo Regno: «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (v. 19). L’asprezza delle persecuzioni dei discepoli e il desiderio di premunirli contro ogni paura e scoraggiamento sembra predominare nell’attenzione del divino Maestro sul punto di lasciare quaggiù il suo piccolo gregge.

     Nella 2a parte, poi, del discorso (vv. 20-36) il Maestro dà un’indicazione molto concreta del segno rivelatore richiesto: l’assedio della città santa, nominata qui 2 volte (vv. 20-24), da parte di eserciti nemici. In Mc e Mt si parla solo di «presenza dell’abominazione sul luogo sacro, dove non deve» (Mc 13,14; Mt 24,15), senza che mai si nomini Gerusalemme.

Simultaneamente Gesù ha aggiunto nuovi avvertimenti per i suoi amici: fuggano sui monti, si allontanino dai dintorni della città, poiché Gerusalemme sarà calpestata dai pagani e il suo popolo sarà disperso tra le genti… vedranno allora il Figlio dell’uomo venire sulle nubi… e avvicinarsi il regno di Dio, il suo giudizio e la liberazione dei suoi fedeli e testimoni… (vv. 21-24.31.36).

     Si delinea così in Lc 21, nei riguardi degli eventi preannunziati da Gesù nel suo ultimo discorso, una prospettiva più chiara, che negli altri due sinottici (Mt 24; Mc 13). Primo fatto premonitore sarà l’accanita persecuzione contro gli evangelizzatori del Cristo risorto (vv. 12-17; cir. At 4-12); seguiranno grandi calamità e rivolgimenti tra i popoli, designati già con termini escatologici (vv. 9-11 «con grandi segni dal cielo»); e infine l’assedio di Gerusalemme a opera delle legioni romane, che segnerà l’inizio della più tragica catastrofe del popolo ebreo, l’incenerimento del Tempio e la dispersione tra le genti: come si è esattamente verificato nel 70 d.C. Fu come lo sfacelo del cosmo e il ricadere nel buio primordiale: «vi saranno segni nella luna e nelle stelle… le potenze dei cieli saranno sconvolte» (vv. 25s).

     Molto probabilmente il Signore Gesù ha inteso parlare direttamente solo della completa rovina del Santuario e, in più, della diaspora del popolo ebreo per il mondo; e ovviamente l’ha fatto con lo stile ben noto dei vaticini biblici; in modo da consegnare ai suoi discepoli le più opportune direttive per le difficili prove che li attendevano. Ne abbiamo un parallelo anche nel discorso di addio nel Vangelo di Giovanni: «hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi… tutto questo vi faranno a causa del mio nome (Gv 15,20s); vi scacceranno dalle sinagoghe… chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio… vi ho detto queste cose perché, quando verrà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato» (Gv 16,2.4). E in Lc 21 vien detto: «vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza… (vv. 12s); quando vedrete accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina… (v. 28); vegliate e pregate, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere» (vv. 28.36).

     Era una pressante esortazione agli uditori a non farsi travolgere dalle vicissitudini e dalle opposizioni del mondo, a perseverare nella fede in Lui, nella coraggiosa proclamazione del suo Vangelo d’amore tra le genti, e nella ferma speranza di raggiungerLo nella gloria imperitura della sua risurrezione.

     Poiché però nel piano del Rabbì di Nazaret il Vangelo del regno doveva essere predicato a tutti i popoli della terra fino alla consumazione dei secoli (Mc 16,5; Mt 28,19s), quel che egli diceva a quei primi suoi seguaci intendeva certamente raccomandarlo a coloro che avrebbero creduto in Lui per la loro testimonianza (Gv 17,20), nelle situazioni di disagio e di persecuzione che si sarebbero riprodotte nelle successive generazioni.

 

Meditazione 

       Il messaggio escatologico di questa domenica comprende l’annuncio della venuta del giorno del Signore che sarà di giudizio per gli uni e di salvezza e guarigione per altri (I lettura) e un’esortazione alla perseveranza e alla vigilanza rivolta da Gesù ai suoi discepoli e, attraverso di loro, ai futuri credenti, affinché non si lascino prendere dalla paura e dall’angoscia della fine di fronte a eventi catastrofici e a persecuzioni (vangelo). Lungi dall’essere segno di una pretesa imminente fine del mondo, questi eventi vanno accolti come occasione di martyría (Lc 21,13), di testimonianza. Nel testo evangelico odierno non si tratta della fine del mondo, ma di ciò che avviene «prima» (Lc 21,9.12), nella storia, che appare così il tempo della faticosa perseveranza.

Luca sottolinea la diversità di sguardo che Gesù da una parte e «alcuni» dall’altra portano sul tempio. Se questi sconosciuti e innominati ammirano la dimensione estetica delle «belle pietre» (Lc 21,5) del tempio e i doni votivi che lo adornano, Gesù ne vede con sguardo disincantato e lucido la fine prossima. Come il tempio (e il suo sistema di offerte e di santificazione), anche tutte le costruzioni e realizzazioni più sante e spirituali dell’uomo sono caduche, finite. Non sono esse a dover trattenere lo sguardo e l’attenzione, ma il Signore che viene e di cui esse vogliono essere solo un segno.

Nei tempi della storia il cristiano deve allenarsi al discernimento.

Anzitutto il discernimento come opposizione all’inganno. Occorre infatti riconoscere i «molti» che si presenteranno come detentori della verità e portatori della rivelazione, che usurperanno il titolo solo d’istologico «Io sono» (Lc 21,8) per indurre qualcuno a seguirli. Lo spazio religioso ed ecclesiale è anche scenario di inganni e di imposture che si manifestano anzitutto con la loro pretesa di verità assoluta e non discutibile. Il cristiano è chiamato a discernere e a saper dire dei no: il comando «non seguiteli» è altrettanto forte del comando dato altre volte da Gesù: «seguitemi». Occorre sempre diffidare di chi pretende di sapere quale sia la volontà di Dio sulle persone e imporla loro.

Inoltre si tratta di discernere guerre e sommovimenti storici, così come catastrofi e disastri naturali, senza pensarli come eventi annunciatori della fine del mondo (Lc 21,9-11). Il discernimento qui è attiva lotta contro la paura e la potenza inibente del terrore ( «Non vi terrorizzate»: Lc 21,9). E conduce all’umiltà di chi riconosce che il proprio tempo non è la totalità del tempo, che la propria vicenda non è la totalità della storia e che la propria fine non coincide con la fine di un tempo e di una storia che superano ciascun uomo.

La storia diviene così per il credente il luogo di esercizio della perseveranza e della pazienza. Persecuzioni e tradimenti, ostilità anche da parte degli amici e dei famigliari potranno segnare la vita di coloro che aderiscono al Messia Gesù, ma grazie alla sofferta perseveranza essi potranno custodire la loro anima (Lc 21,19). Mentre esperimentano la fine di relazioni e fedeltà, mentre intravedono la loro stessa fine, essi possono conoscere la salvezza delle proprie vite e trarre come bottino, dalla battaglia che la vita e la storia impongono loro, la loro anima (cfr. Ger 45,5).       

Ci sono tempi difficili e bui in cui al credente è chiesto semplicemente di resistere, di rimanere saldo, di custodire l’interiorità di mantenere la fede, di salvaguardare la propria umanità, di preservare la propria anima dal caos e dalla confusione. E questo sarà come chicco di grano caduto a terra che darà frutto. Scrisse Dietrich Bonhoeffer in tempi particolarmente duri e difficili dal carcere di Tegel nel 1944: «Noi dovremo salvare, più che plasmare la nostra vita, sperare più che progettare, resistere più che avanzare. Ma noi vogliamo preservare a voi giovani, alla nuova generazione, l’anima con la cui forza voi dovrete progettare, costruire e plasmare una vita nuova e migliore». La perseveranza che salva l’anima non è dunque nulla di intimistico, ma atto della responsabilità storica di chi osa pensare il futuro oltre e dopo di lui.

 

Preghiere e racconti

Fedeltà

Forse a voi non verrà chiesto il sangue, ma la fedeltà a Cristo certamente sì! Una fedeltà da vivere nelle situazioni di ogni giorno: penso ai fidanzati ed alla difficoltà di vivere, entro il mondo di oggi, la purezza nell’attesa del matrimonio. Penso alle giovani coppie e alle prove a cui è esposto il loro impegno di reciproca fedeltà. Penso ai rapporti tra amici e alla tentazione della slealtà che può insinuarsi tra loro. Penso anche a chi ha intrapreso un cammino di speciale consacrazione ed alla fatica che deve a volte affrontare per perseverare nella dedizione a Dio e ai fratelli. Penso ancora a chi vuol vivere rapporti di solidarietà e di amore in un mondo dove sembra valere soltanto la logica del profitto e dell’interesse personale o di gruppo. Penso altresì a chi opera per la pace e vede nascere e svilupparsi in varie parti del mondo nuovi focolai di guerra; penso a chi opera per la libertà dell’uomo e lo vede ancora schiavo di se stesso e degli altri; penso a chi lotta per far amare e rispettare la vita umana e deve assistere a frequenti attentati contro di essa, contro il rispetto ad essa dovuto.

(Giovanni Paolo II – GMG di Roma).

Pazienza e perseveranza

E veniamo a quell’energia dello Spirito costituita dalla lotta, alla quale ci si dedica impugnando la spada dello Spirito e la forza della gloria di Dio. All’interno di questa lotta si colloca la più importante virtù cristiana, che è la pazienza. La mirabile hypomone evangelica non ha nulla a che vedere con analoghe virtù stoiche o con particolari atteggiamenti o forme di resistenza propri del paganesimo. «Anche noi non cessiamo di pregare per voi… perché possiate piacere in tutto al Signore, rafforzandovi con ogni energia secondo la potenza della sua gloria, per poter essere forti e pazienti in tutto» (Col 1,9-11), dice Paolo ai cristiani di Colossi. Questa forza di Dio, che è la forza dello Spirito, è il tratto peculiare dei cristiani. Chi dipende totalmente dalla Parola porterà il frutto della Parola nell’hypomone, «nella pazienza», come ricorda Luca. Un tale uomo trattiene e (nel senso più forte del termine) custodisce la Parola. Egli si stringe a essa contro ogni speranza e al di là di ogni speranza, tutto proteso in avanti nell’attesa, lacerato dal desiderio e tuttavia sempre sostenuto da un grande senso di fiducia. Tutte queste cose sono contenute in un detto che, con ogni probabilità, fa parte degli ipsissima verba Iesu: «In patientia vestra possidebitis animas vestras», «Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime» (Lc 21,19). In greco e in latino è una frase che risuona in modo abbastanza enigmatico. Se però cerchiamo di farne la retroversione aramaica, penso che il significato che ne emerge sia il seguente: «Nella pazienza voi assumerete i vostri veri volti», cioè»sarete pienamente voi stessi». La vera personalità cristiana di ciascuno di noi si realizza attraverso la pazienza, la perseveranza nella lotta.

(Tatto da A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella), 2001, pp. 9-20).

Sosta nel cammino

Due boscaioli lavoravano nella stessa foresta ad abbattere alberi. Usavano le loro asce con identica bravura, ma con una diversa tecnica.

Il primo colpiva il suo albero con incredibile costanza, un colpo dietro l’altro, senza fermarsi se non per prender fiato rari secondi. Il secondo boscaiolo faceva una discreta sosta ogni ora di lavoro. Al tramonto il primo boscaiolo era a metà del suo albero, il secondo era incredibilmente al termine del suo tronco.

Avevano cominciato insieme e i due alberi erano uguali. Il primo boscaiolo non credeva ai suoi occhi: “Come hai fatto ad andare così veloce se ti fermavi ogni ora?”

L’altro sorrise: “hai visto che mi fermavo ogni ora. Ma non hai visto che approfittavo della sosta per affilare la mia ascia”.

Dagli scritti di San Francesco di Assisi

«E tutti coloro che faranno tali cose e persevereranno fino alla fine, riposerà su di essi lo Spirito del Signore ed egli ne farà la sua dimora, e saranno figli del Padre celeste di cui fanno le opere, e sono sposi, fratelli e madri del Signore nostro Gesù Cristo. Siamo sposi, quando per lo Spirito Santo l’anima fedele si unisce a Gesù Cristo. Siamo fratelli suoi, quando facciamo la volontà del Padre suo che è in cielo. Siamo madri sue quando lo portiamo nel cuore e nel nostro corpo con l’amore e con la pura e sincera coscienza e lo generiamo attraverso sante opere che devono splendere agli altri in esempio».

Con la vostra perseveranza acquisterete le vostre anime

Nel tempo della prova è di grande aiuto la perseveranza secondo il volere di Dio. Dice infatti il Signore: Con la vostra perseveranza acquisterete le vostre anime (Lc 21,19). Non ha detto: «con il vostro digiuno», ne «con la vostra quiete in solitudine», ne «con la recita dei salmi». Tutto questo vi è certamente utile, ma ha detto: «con la vostra perseveranza». Con la perseveranza, vuole dire, in ogni prova che vi giungerà, in ogni afflizione, che si tratti di un’offesa, del disprezzo, del disonore arrecato da un uomo importante o da uno qualsiasi, di una malattia, dell’assalto di guerre scatenate dal demonio, di una prova di qualunque genere provocata dagli uomini o dai demoni. Con la vostra perseveranza acquisterete le vostre anime; non soltanto con la vostra perseveranza, ma anche con l’azione di grazie, la preghiera, l’umiltà in modo da benedire, innalzare inni a Dio, Salvatore di tutti, al benefattore, a colui che tutto volge e guida al vostro bene, sia che si tratti di qualcosa di buono o di meno buono. E l’Apostolo scrive: Corriamo con perseveranza la corsa della fede che ci sta innanzi (Eb 12,1 ). Che vi è di meglio di questa virtù? Che vi è di più solido e di più utile della perseveranza, della perseveranza secondo Dio, voglio dire, la regina delle virtù, il fondamento delle opere buone, il porto al riparo dai flutti? Essa, infatti, dona pace nei conflitti, tranquillità in mezzo alla tempesta, sicurezza nelle insidie e nei pericoli. Essa rende colui che la vive più resistente dell’acciaio. Ne le armi, ne archi da guerra, ne eserciti schierati […] ne l’esercito dei demoni, ne le truppe tenebrose delle potenze avverse, ne il diavolo stesso con tutto il suo esercito e i suoi stratagemmi non potrà fare alcun male a chi ha acquistato la perseveranza in Cristo.

(NILO DI ANCIRA, Lettere III, 35, PG 79, 403D-404C).

…dal cavallo al cammello

«Chi non risponde alla Parola diventa sordo» (Martin Buber). L’accompagnamento non può che portare alla consapevolezza che, come ci ricorda NVNE, «tutta la vita è una risposta» (26/e) e, quindi, a saper scorgere le continue chiamate di Dio in ogni stagione della propria esistenza. È il faticoso passaggio dal cavallo al cammello.

Un cavallo va bene per la bellezza, la forza, la velocità e la razza, per godersi una cavalcata, gareggiare e vincere un premio. Tutto molto bello. Ma poi nella vita ci sono anche i deserti, e là il migliore dei cavalli è inutile e la velocità non serve. Il cavallo si spazientirà, diverrà irrequieto, gli zoccoli affonderanno nella sabbia. Il suo respiro brucerà nel calore e la bestia s’imbizzarrirà, cadrà e morirà nelle sabbie spietate. I cavalli non sono per il deserto.

I cammelli sì! Il cammello s’incamminerà e andrà avanti. Anche senza cibo, senz’acqua, senza redini, senza direzione, andrà avanti costantemente, fedelmente, sicuramente, manterrà la rotta, attraverserà il deserto, raggiungerà l’acqua e salverà se stesso e il suo cavaliere. La tenace perseveranza di mantenere fermamente la rotta nelle circostanze peggiori è una dote preziosa per sopravvivere in questo mondo. Noi tutti abbiamo bisogno di un cammello nelle nostre stalle.

(Antonio LADISA, La direzione spirituale oggi: perché?, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 30).

Il coraggio di osare

Signore Gesù, fammi conoscere chi sei.

Fa sentire al mio cuore la santità che è in te.

Fa’ che io veda la gloria del tuo volto.

Dal tuo essere e dalla tua parola, dal tuo agire e dal tuo disegno,

fammi derivare la certezza che la verità e l’amore

sono a mia portata per salvarmi.

Tu sei la via, la verità e la vita.

Tu sei il principio della nuova creazione.

Dammi il coraggio di osare.

Fammi consapevole del mio bisogno di conversazione,

e permetti che con serietà lo compia, nella realtà della vita quotidiana.

E se mi riconosco, indegno e peccatore, dammi la tua misericordia.

Donami la fedeltà che persevera e la fiducia che comincia sempre,

ogni volta che tutto sembra fallire.

(Romano Guardini).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXIII DOM TEMP ORD (C)

XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 2Maccabei 7,1-2.9-14

In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite. 

Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri».
[E il secondo,] giunto all’ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna». Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo». Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture. Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita».    

 

L’episodio raccontato s’inserisce nel contesto della persecuzione d’Antioco IV Epifane che voleva imporre la cultura greca al popolo ebraico (167-164 a.C.). Viene ricordato il martirio dei sette fratelli, esortati dalla loro madre a testimoniare la fede. Non solo essa ha passato loro la fede, ma li sostiene nel momento del pericolo. Di fronte a loro il re in persona assiste al supplizio. Egli rappresenta la luce della cultura ellenica, verso la quale molti ebrei sono attirati e per questo sono disposti al compromesso. Quello che divide la madre dei sette fratelli e il re è una concezione opposta della vita. Per il re la vita viene dalla cultura e dalla ragione, per la madre ebrea è un dono di Dio, perciò nessuna forza umana la può veramente togliere. Come la madre anche i figli, ricchi di questa fede, si sentono liberi di perdere questa vita, per riceverla dalle mani di Dio: È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati (v. 14). Anche per gli empi ci sarà una risurrezione, ma non per la vita (v. 14b). Vivranno eternamente la morte. Cf. Gv 5,29: «quelli che fecero il bene per una risurrezione di vita, quanti fecero il male per una risurrezione di condanna».

 

Seconda lettura: 2Tessalonicesi 2,16-3,5

Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene. Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno. Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.

 

Paolo aveva in pochissimo tempo evangelizzato a Tessalonica, ma era stato sufficiente perché nascesse una comunità fervorosa, che si mantiene fedele al suo Signore Gesù anche nella diaspora e attaccata dalla mentalità greca e dalle gelosie ebraiche. L’apostolo tuttavia non chiude gli occhi su alcuni problemi esistenti nella comunità e interviene a rettificare i malintesi riguardanti alcuni temi della fede tramandata: la Parusia che alcuni ritenevano imminente determinando atteggiamenti di pigrizia e di disordine.

     Nel nostro brano Paolo esprime gli auguri e chiede preghiere alla comunità. Non sono delle pure espressioni formali, ma sintetizzano la fede che lui stesso aveva loro insegnato. lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro… conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene (v. 17). Con questo augurio viene ricordato ai cristiani che il presente è importante. È proprio esso che fa germogliare il futuro di gloria. La vita quotidiana deve essere vissuta nell’amore di Dio e nella pazienza di Cristo (3,5): due qualità teologiche irraggiungibili dalle sole forze umane.

     La prima non è che la partecipazione alla vita divina, la seconda è l’accettazione delle croci seguendo le orme di Cristo.

     Il cristiano sa che il Signore gli ha dato una consolazione eterna e una buona speranza (2,16). Pur non alienandosi dalla storia concreta, adempiendo tutti i doveri di cittadini, la sua vera patria è il cielo e già qui sulla terra vive da celeste.

 

Vangelo: Luca 20,27-38

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui». 

 

Esegesi

     Gesù si trova a Gerusalemme nel momento culminante della sua missione. Proprio a Gerusalemme era orientato tutto il suo cammino.

     Qui insegna pubblicamente presso il tempio e tutti pendono dalle sue labbra. In questo clima s’inseriscono le controversie con gli scribi e con il gruppo loro avversario, che non credeva nella risurrezione dei corpi, i Sadducei. Gesù per loro è un rabbi, un maestro, al quale possono fare delle domande su questioni di fede. E gli pongono un caso curioso d’applicazione della legge del levirato (cf. Gn 38,8; Dt 25,5-10). Sette fratelli, scrupolosi osservanti della legge mosaica, presero uno dopo l’altro come moglie la stessa donna; questa donna, dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? (v. 33).

     Gesù risponde innanzi tutto che il mondo futuro non è simile al presente. I figli di questo mondo, quelli che appartengono a questo mondo in cui vivono, sono legati da legami che caratterizzano la vita materiale: rapporti sessuali, vincoli coniugali, procreazione (v. 34).

     Quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione (v. 35) sono coloro che hanno ricevuto la grazia di partecipare alla risurrezione. Lo sguardo di Luca è rivolto in particolare agli eletti alla vita eterna. Essi vivono una vita da figli della risurrezione, cioè da risorti, in quanto sono figli di Dio. Questo fatto fonda la risurrezione: la vita che essi possiedono mediante la risurrezione è una vita che non viene da generazione carnale. Sono uguali agli angeli (v. 36), perché il loro corpo è spiritualizzato.

     Gesù quindi si richiama alla Scrittura per confermare il fatto della risurrezione di tutti gli uomini. Dio si è rivelato a Mosè nel roveto ardente (Es 3,2) come Dio d’Abramo, Dio d’Isacco e Dio di Giacobbe, cioè come Dio dei vivi (v. 37). La loro vita viene da Dio, perché tutti vivono per lui (v. 38b), quindi non può finire con la morte. Abramo, Isacco e Giacobbe non sono vivi nel ricordo dei figli da loro generati, ma perché essi sono generati da Dio. Qui si pensa a tutti coloro che sono destinati alla vita eterna, ma in v. 37 si parla in generale della risurrezione dei morti (cf. anche Mc 12,26).

Meditazione

     La morte per martirio di sette fratelli in epoca maccabaica attesta la fede nel Dio capace di far risorgere i morti (I lettura); il caso (una finzione costruita ad arte) dei sette fratelli che sono morti senza lasciare figli dopo avere sposato in successione la stessa donna, viene giocato dai Sadducei per mettere in ridicolo la credenza nella resurrezione dei morti (vangelo). Al centro delle letture odierne vi è dunque la fede nella resurrezione dei morti.

Se il caso presentato dai Sadducei a Gesù appare evidentemente grottesco e incredibile, tuttavia la posizione espressa da tale episodio fittizio raggiunge l’uomo d’oggi e anche i credenti. I Sadducei «dicono che non c’è risurrezione» (Lc 20,27) e la storiella dei sette fratelli ha il fine di volgere in ridicolo tale credenza, di dimostrarne l’assurdità. Oggi alla posizione ‘colta’ che critica il cristianesimo che con la resurrezione dimostrerebbe di non saper abitare il tragico come gli antichi greci, e a quella che vede nella resurrezione un’evasione nell’al di là, un inverificabile happy end consolatorio apposto alla drammaticità della storia, si affiancano la reticenza e l’imbarazzo che a volte abitano gli stessi credenti di fronte alla fede nella resurrezione. A volte non siamo poi così distanti dalle posizioni dei Sadducei! Forse ci scandalizza di più la resurrezione che la morte di croce. Dunque, il primo messaggio che emerge dal testo è la fede nella resurrezione come scandalo.

Ma è uno scandalo che si oppone all’ovvietà della morte. La resurrezione è tutto fuorché ovvia. È l’incredibile per eccellenza, e dunque il vero contenuto della fede. La fede cristiana è fede nella resurrezione e la fede nella resurrezione è, tout court, la fede cristiana. Fede che Cristo è risorto dai morti e fede che i morti risorgeranno in Cristo. «Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede» (1Cor 15,17); «Se non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto!» (1Cor 15,13).

La risposta che Gesù da ai Sadducei indica certamente che la resurrezione è già attestata nella Torah perché Abramo, Isacco e Giacobbe sono viventi in Dio. I patriarchi che hanno vissuto per Dio ora vivono in lui e grazie a lui («tutti vivono per lui»: Lc 20,38). Il discorso sulla resurrezione viene così riportato all’oggi e alle motivazioni del vivere oggi. E dal testo emerge una domanda: per chi vivo? Perché vivo? Grazie a cosa vivo? Che cosa mi fa vivere? Se la domanda-trabocchetto dei Sadducei nasconde anche una serietà, questa riguarda certamente il futuro delle nostre relazioni, del nostro amore, dell’amore che abbiamo speso oggi. E la risposta di Gesù, oltre a contestare una visione della vita futura come prosecuzione di questa, come proiezione e prolungamento del presente, la strappa anche a speculazioni astratte e riporta all’oggi storico il credente interpellandolo sulle motivazioni del suo vivere. Chi ha una ragione per morire, ha anche una ragione per vivere. Chi ha una ragione per cui dare la vita, ha anche una motivazione per vivere.

L’argomentazione studiata dei Sadducei induce anche un’altra riflessione. Il caso dei sette fratelli che, uno dopo l’altro, lasciano vedova la stessa donna che alla fine muore lei pure, è sì un caso artefatto, ma la vita è piena di casi tragici che spesso sono molto più dolorosi di quanto la fantasia possa immaginare. La riduzione del dolore umano, di un caso tragico, a argomentazione dialettica, dice anche il cinismo e la possibile violenza della parola quando si riduce la realtà a casistica, oppure quando si scinde dalla compassione umana. Criterio di verità della parola, e anche della parola teologica, è il suo sentire il dolore umano, il suo lasciarsi abitare dalla sofferenza umana, e dunque il suo rifiutarsi di manipolare il dolore altrui e, per quanto possibile, di aggiungere dolore a dolore, di creare sofferenza inutile. Il discorso teologico e pastorale riesce a raggiungere e toccare il credente nel tragico della sua esistenza? O lo usa per difendere o sostenere una posizione dottrinale?

 

Preghiere e racconti 

La fede dà “vita”

Abbiamo tutti il diritto di conoscere la ragione, la prospettiva, l’esito delle nostre quotidiane avventure. Su molte abbiamo risposte certe e abbastanza sicure. Su altre – su troppe – ci sentiamo sprofondati in una trama misteriosa di eventi, che ci sfuggono.

Non è bello e ci riempie la vita di tristezza. Ci sentiamo derubati dei nostri diritti, costretti a consegnarli nelle mani di altri. Ci consoliamo, rassegnandoci. Ma serve solo a peggiorare le cose. Il diritto al “perché”, che è proprio il diritto al senso, posseduto e governato, non è un bene alienabile né scambiabile. […]

È inutile cercare responsabilità. Ce ne possono essere tante. Alla radice sta però la vita stessa: siamo davanti alla morte per l’unica grande ragione che siamo vivi. Il mistero che la fede ci consegna, nelle parole vissute di tanti fratelli, ci restituisce una risposta: non spiega ma travolge.

Penso a Gesù, ormai condannato a morte dopo un processo ingiusto. Reagisce alla schiaffo del soldato che sperava di guadagnarci in stima colpendo ingiustamente il povero Gesù, già distrutto dai primi passaggi della sua passione.

Gesù mostra di essere lui il più forte, non perché chiama a sua difesa un esercito di angeli, cosa che poteva tranquillamente fare, ma perché riafferma di dare, lui stesso e solo lui, la sua vita per la vita di tutti.

Diventa così signore della morte, lui, il signore della vita, perché sottrae al tiranno il diritto all’ultima parola, pronunciandola lui, forte e decisa, come gesto d’amore.

Come lui, affascinati da grandi prospettive di senso o sconfitti nell’esperienza del vuoto, con le mani alzate ci sentiamo afferrati e ci ritroviamo pienamente signori della nostra vita: deboli nella nostra crisi e i più forti nella potenza di chi ci ha afferrato e restituito alla gioia di vivere e alla libertà di sperare.

(Riccardo TONELLI, Vivere di Fede in una stagione come è la nostra, Roma, LAS, 2013, 39-40)

Fede nella vita oltre la morte

Col tempo imparai a conoscere la Bibbia, e oggi mi considero una cristiana. […] In linea con san Paolo, credo che dopo la nostra morte corporea risorgeremo con un “corpo spirituale” in un’altra dimensione rispetto a quella fisica in cui viviamo adesso. […] O, per dirla con san Paolo: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti? Se non esiste resurrezione dei morti, neanche Cristo è resuscitato. Ma se Cristo non è resuscitato, allora è vana la vostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”.

 Io che ero entrata in crisi e avevo pianto amaramente pensando che ci fosse solo questa terrena. Io che per alleviare questa sofferenza mi infilai nel maggiolone per andare a sciare sul ghiaccio di Jostedal. Io che avevo sempre sofferto così tanto perché mai e poi mai mi sarei saziata di vita. Io, improvvisamente, avevo trovato la strada verso una rassicurante fede nella vita oltre la morte.

(Jostein GAARDER, Il castello dei Pirenei, Longanesi, Milano, 2009, 215-216).

Dio dei padri, Dio dei viventi

II nostro Signore e maestro nella risposta ai sadducei, i quali affermavano che non vi è resurrezione e per questo disonoravano Dio e sminuivano la Legge, dimostrò la resurrezione e fece conoscere Dio. Disse infatti: A proposito della resurrezione dei morti non avete letto ciò che è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? (Mt 22,31-32), e aggiunse: Non è il Dio dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per lui (Lc 20,38). Con queste parole rese assolutamente manifesto che colui che parlò a Mosè dal roveto e dichiarò di essere il Dio dei padri è il Dio dei viventi. Ora, chi è il Dio dei vivi se non colui che è Dio e al di sopra del quale non vi è altro Dio? […] Colui che è adorato dai profeti è il Dio vivente, è il Dio dei viventi, e il suo Verbo ha parlato a Mosè, ha rimproverato i sadducei, ha donato la resurrezione, mostrando a quei ciechi due cose: la resurrezione e Dio. Se infatti Dio non è il Dio dei morti ma dei vivi e se è detto Dio dei padri che si sono addormentati, certamente vivono per Dio e non sono morti essendo figli della resurrezione (Lc 20,36).

Proprio per insegnare questa stessa cosa diceva ai giudei: Il vostro padre Abramo esultò per vedere il mio giorno, lo vide e si rallegrò ( Gv 8,56). Che cosa significa questo? Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia (Rm 4,3). Innanzitutto credette che egli è il creatore del cielo e della terra, il solo Dio; poi, che avrebbe reso la sua posterità come le stelle del cielo (cfr. Gen 15,5) e questo è ciò che è detto da Paolo [quando scrive: dovete risplendere] come astri nel mondo (Fil 2,15). Giustamente, dunque, Abramo, dopo aver lasciato la sua parentela terrena, seguiva il Verbo di Dio, facendosi straniero con il Verbo per dimorare con il Verbo. Giustamente anche gli apostoli che discendevano da Abramo, lasciata la barca e il padre, seguivano il Verbo. Giustamente anche noi, che abbiamo la stessa fede di Abramo, presa la croce come Isacco prese la legna, seguiamo lui. In Abramo l’uomo aveva imparato già da prima a seguire il Verbo di Dio.

(IRENEO DI LIONE, Contro le eresie 4, 5,2-5, SC 100, pp. 428-434).

La passione e risurrezione di Gesù sono il nucleo centrale della ‘buona novella’

La passione e risurrezione di Gesù sono il nucleo centrale della ‘buona novella’ che i discepoli di Gesù volevano annunciare al mondo. Gesù è il Signore che ha patito, è morto, fu sepolto e il terzo giorno è risorto. Era un annuncio che tutti dovevano conoscere: era la ‘lieta notizia’, e lo è ancor oggi. Si può dire che tutto ciò che i vangeli dicono di Gesù mira a far risaltare il pieno significato della sua passione, morte e risurrezione.

Il vangelo è, prima e più di tutto, il racconto della morte e risurrezione di Gesù, che costituisce il cuore della vita spirituale.

Passione, morte e risurrezione di Gesù rappresenta l’avvenimento fondamentale e più importante di tutta la storia umana. Se non riesci a sentirlo e a vederlo, allora il vangelo, nel migliore dei casi, potrà sembrarti interessante, ma non potrà rinnovarti il cuore e farti rinascere a vita nuova. E il vangelo mira appunto a questa rinascita – a una liberazione radicale che ci sottrae al potere della morte e ci permette di amare senza paura.

Quale atteggiamento davanti alla sofferenza e alla morte?

La croce non è solo un bell’oggetto artistico per decorare i salotti e i ristoranti di Friburgo, ma è anche il segno della trasformazione più radicale nel nostro modo di pensare, sentire e vivere. La morte di Gesù in croce ha cambiato tutto. Qual è la reazione umana più spontanea davanti alla sofferenza e alla morte?

Per conto mio, sarei portato istintivamente a impedire, evitare, negare, fuggire, star lontano e ignorare il soffrire e il morire. È una reazione che indica che queste due realtà non si accordano col nostro programma di vita. Per la maggior parte della gente, sono proprio questi i due nemici principali della vita. Ci sembra davvero ingiusto che esistano, e ci sentiamo obbligati a cercare in un modo o nell’altro di tenerli sotto controllo come meglio possiamo; se poi non ci riusciamo subito, vuol dire che ci sforzeremo di fare meglio un’altra volta.

Ci sono dei malati che capiscono ben poco la loro malattia, e spesso muoiono senza mai aver pensato sul serio alla morte. L’anno scorso un mio amico morì di cancro. Sei mesi prima di morire era già evidente che non gli restava molto da vivere. Gli facevano tante iniezioni, fleboclisi e cose del genere che si aveva l’impressione che lo si volesse tenere in vita a ogni costo. Non voglio dire che si facesse male a cercare di guarirlo: voglio dire piuttosto che s’impiegava tanto tempo a tenerlo in vita che non ne restava più per prepararlo alla morte.

Il risultato logico di questa situazione è che ci curiamo ben poco dei defunti. Non facciamo molto per ricordarli, cioè per associarli alla nostra vita interiore.

Ben diverso era l’atteggiamento di Gesù verso la sofferenza e la morte. Egli infatti guardava queste realtà bene in faccia e a occhi aperti. Anzi, la sua vita intera fu una consapevole preparazione alla morte. Gesù non esalta la sofferenza e la morte come cose che dobbiamo desiderare, ma ne parla come di cose che non dobbiamo rigettare, evitare o ignorare.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 26-29).

L’anima soffre e anela al Signore

Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.

Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi.

Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.

Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.

E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.

(Don Tonino Bello)

La morte

Infine, vi è un luogo dello Spirito del quale vi dirò molto poco, perché non ne abbiamo alcuna esperienza diretta. Eppure è importante: forse è il più importante di tutti. È la morte, in cui ogni cosa ci è consegnata all’improvviso, come un frutto maturo che ci attende al termine di una lunga iniziazione, un lungo esercizio. Riguardo a questo luogo, se è vero che noi non siamo ora in condizione di rendere testimonianza all’attività dello Spirito che in quel momento ha luogo, sarebbe forse interessante studiare e analizzare le preziose testimonianze dei morenti. Forse è grazie a loro che ci sarà dato di scoprire i veri criteri dell’esperienza spirituale.

(Tratto da A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2001, pp. 9-20).

La morte è sempre puntuale

C’è un’altra storia non troppo simpatica, che ha per protagonista un tale di nome Omar. Sembra proprio si tratti del nostro vecchio amico Datu Omar che abbiamo lasciato qualche pagina fa mentre piangeva per la scomparsa della sua moglie e domandava ad Allah di salvargli la bambina che stava morendo. Ebbene lo ritroviamo qualche tempo dopo, solo e ancora più disperato di prima. Anche la ricchezza lo aveva abbandonato e con la ricchezza, si sa, se ne vanno via subito anche gli amici. Decise allora che era preferibile per lui lasciarsi ghermire dalla morte. Perciò si avvicinò alla riva di un largo fiume, pieno zeppo di coccodrilli che lo aspettavano a fauci spalancate. Omar lanciò un grido per attirare l’attenzione su di sé e si tuffò proprio in mezzo al fiume. Ma i coccodrilli invece di sbranarlo, si allontanarono subito da lui che cercava in tutti i modi, anche tirandoli per la coda, di farsi divorare. In breve nel fiume rimase solo lui mentre i coccodrilli si erano tutti ritirati sulla terra ferma, dentro una caverna.

Ritornò inzuppato e deluso in paese e prima di entrare nella sua capanna, diede uno sguardo al cielo. Esso si stava ammantando di grosse nuvole nere ed il vento stava annunciando l’arrivo di un disastroso tifone. “Bene, bene! Il tifone getterà a terra chissà quanti alberi della foresta, pensò Omar,  è meglio che mi addentri e aspetti che qualche albero mi cada addosso e così potrò morire”. Detto, fatto. Scelse l’albero dal tronco più grosso ma con le radici ormai a fior di terra. Bastava un soffio per gettarlo giù. Si scatenò il temporale, caddero fulmini e saette e quasi tutti gli alberi accanto ad Omar furono abbattuti, eccetto proprio l’albero vicino al quale si era preparato a morire. “Non mi vuole nessuno, neanche la morte!” pensò rassegnato Omar.

Quand’ecco accanto a lui apparve uno straniero vestito di una lunga tunica gialla e con il capo coperto da un turbante giallo con le frange orlate di nero. “Perché ti trovi così, in mezzo alla foresta, tutto bagnato e con i vestiti a brandelli? Chiese il nuovo arrivato”. “Sto aspettando la morte, rispose Omar,  perché la morte è per me più dolce della vita”. “Non è ancora arrivato per te il momento di morire  replicò lo straniero  alzati e va a lavorare e cerca di essere felice della tua vita”. Omar si alzò e seguì il nuovo amico che lo condusse fuori dalla foresta. Quale fu la sua sorpresa quando vide aprirsi davanti al suo sguardo una bellissima campagna.

Vicino al sentiero erano allineate molte capanne leggiadre ed ordinate e davanti ad esse erano sedute tante ragazze che chiacchieravano in fraterna conversazione e cantavano e sorridevano. I bambini stavano giocando sui prati trapuntati di fiori, mentre gli uomini lavoravano la terra e molte donne stavano preparando succulenti pranzetti.

Ritrovò la sua capanna: era diversa, più bella, più ariosa. Mentre egli salutava tutta quella gente, provò una gioia ed una serenità del tutto nuove, e così, dopo tanti anni, finalmente il sorriso gli rifiorì sulle labbra. Tutti gli volevano bene e lo stimavano molto per la bravura nel saper catturare gli animali selvatici della vicina foresta.

Anzi lo vollero eleggere loro capo e vollero donargli come futura sposa la più bella ragazza del villaggio. Come era bello vivere, adesso. Alcuni mesi più tardi però, mentre stava dormendo sentì qualcuno bussare alla porta della sua capanna. Si alzò, accese la lampada e prese anche un coltello per maggior sicurezza. Poi aprì la porta e con grande sorpresa si vide davanti lo strano personaggio vestito di giallo, con il turbante dorato con le frange nere. “Omar, adesso sì che è arrivata la tua ora. Vieni con me!” “La mia ora? Di quale ora stai parlando”. “La tua ora è arrivata, vieni con me!” la voce dello straniero ora aveva un suono lugubre come il rumore di una pietra che cade in fondo al pozzo. Omar chiuse subito la porta gridando: “Vattene via, io non ti conosco”. Ma insistente, l’altro continuò: “L’ora della tua morte è arrivata”. “No, no, è bello vivere, lasciami in pace” gridò tutto sudato il nostro Omar dall’interno della buia capanna. La lampada infatti gli era caduta a terra e la fiamma si era spenta. Tutto attorno a lui parlava di tenebre e di terrore. “Lasciami un altro mese, per piacere!” supplicò.

“E va bene, tornerò tra un mese”. Si sentirono distintamente ora i pesanti passi dello straniero allontanarsi da Omar avvertiva più distintamente nel suo petto palpiti veloci del cuore. Aveva ancora solo un mese di tempo, e dopo?

Bisognava fare qualcosa, ma che cosa? Avrebbe fatto costruire una torre alta a difesa della sua casa, oppure sarebbe scappato lontano e sarebbe vissuto nel profondo della più nascosta foresta dell’isola più distante. Oppure si sarebbe travestito da vecchio mendicante e così la morte non lo avrebbe riconosciuto così facilmente. Ma come poteva fare in quell’ultimo mese, accidenti? L’ultima idea gli sembrò quella più giusta. Il giorno dopo si allontanò dal villaggio e, dopo dieci giorni di cammino, giunse ai margini di una grande foresta. Aldilà si ergevano alcune montagne e si poteva intravedere anche la cima fumante di un vulcano. Ci mise altri dieci giorni ad arrivare alle pendici del vulcano. La terra gli scottava sotto i piedi e ci vollero ancora altri dieci giorni per trovare finalmente una caverna adatta al suo nascondiglio.

Lo trovò e prima di entrare si travestì da vecchio. Con una fiaccola in mano Omar si addentrò nella grotta accolto da una nuvola di pipistrelli che lo avvolse in segno di triste presagio. In fondo alla caverna gli sembrò di vedere qualcuno tra le pareti umide e tappezzate di muschio. “Omar, sono qui, il mese è passato, sono venuta a prenderti!” Omar capì che non c’era più nulla da fare, aprì le braccia in segno di accoglienza, mentre la morte copriva con il suo giallo mantello il più famoso cacciatore di quelle isole sperdute.

(Illustrazioni di Federica Trivellin).

Preghiera

Vieni tu da me, Signore,

e allora io potrò venire da te.

Portami a te

e solo allora potrò seguirti.

Donami il tuo cuore

e solo così potrò amarti.

Dammi la tua vita

e allora potrò morire per te.

Prendi nella tua risurrezione

tutta la mia morte

e sii mio, Signore, sii mio

affinché io sia tua in eterno.

(Silja Walter)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

 

PER L’APPROFONDIMENTO SCARICA:

XXXII DOM TEMP ORD (C)-2

TUTTI I SANTI

Prima lettura: Apocalisse 7,2-4.9-14

Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio». E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

 

Davvero il santo è merce rara, come qualcuno va pessimisticamente dicendo? La prima lettura risponde abbattendo statistiche tendenti al ribasso.

     Dopo la solenne scenografia celeste (cf. cap. 4) e la migliore comprensione del senso della vita e della storia grazie all’intervento dell’Agnello (cf. cap. 5), inizia la progressiva apertura dei sette sigilli che rendevano finora inaccessibile il libro (cf. cap. 6). La storia è striata di sangue e di sofferenza, ma non affidata ad un cieco destino di morte. Coloro che stanno dalla parte di Dio e dell’Agnello non sono risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, sono però risparmiati dalla distruzione totale e dall’annientamento. La loro vita non cade nell’oblio, perché accolta e trasfigurata.

     Tre tappe scandiscono il brano: il sigillo impresso al gruppo dei 144.000 (vv. 2-4), il gruppo internazionale dei salvati (vv. 9-12) e la loro identità (vv. 13-14). All’inizio viene ritardato l’intervento punitivo dei 4 angeli, per permettere a un quinto di segnare il numero degli eletti. Rielaborando una scena del profeta Ezechiele (cf. Ez 8-10), l’autore proclama la salvezza che raggiunge il resto di Israele, computato in 144.000, cioè 12.000 per tribù (elencate nei vv. 5-8, tralasciati dal testo liturgico). Il numero, più qualitativo che quantitativo, viene dal prodotto di 12 (numero delle tribù di Israele), per 12 (numero degli apostoli, continuatori dell’antico popolo ma anche fondamento del nuovo), per 1.000 (numero di grandezza divina); esso designa una grande quantità di salvati provenienti dal giudaismo. (Per alcuni autori — per esempio Prigent — si tratterebbe dei cristiani nella loro totalità; Ap 14,3 ripropone il numero e parla di «i redenti della terra»).

     Distinto dal precedente si pone un altro gruppo, questa volta internazionale, impossibile a quantificarsi perché «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare». Alcune precisazioni valgono per una loro prima identificazione (cf. v. 9: stanno in piedi, perché sono vivi come l’Agnello con il quale sono posti in relazione (gli stanno davanti), indossano vesti bianche (colore che li accomuna al mondo del divino e in modo particolare alla risurrezione di Cristo) e reggono delle palme (segno che condividono con Lui la vittoria sul male e godono della pienezza della vita); in seguito saranno identificati con maggior precisione. Di loro viene riferito il canto celebrativo che accomuna Dio e Agnello, segno evidente di una perfetta comunione esistente tra i due esseri, cui viene attribuito il merito della salvezza. Alla celebrazione si associa praticamente tutta la corte celeste in una dossologia che comprende 7 titoli (numero della pienezza). Infine, l’espediente della domanda del vegliardo, elemento tipico del genere letterario apocalittico, favorisce la piena decodificazione dei salvati: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v. 14). I salvati sono pertanto coloro che traggono origine (ieri, oggi e sempre) dalla morte redentrice di Gesù (la «grande tribolazione»). Sono i santi che partecipano ora alla liturgia celeste, condividendo una vita di piena comunione, dopo aver partecipato, durante la vita mortale, alla passione di Cristo.

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

 

La santità è amore. La lettera che celebra l’amore di Dio e dell’uomo ci propone la fonte dell’amore e, di conseguenza, la fonte della santità.

     I vv. 1-2 sono il canto entusiastico della comunità che si scopre già fin d’ora figlia del Padre che sta nei cieli: «quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!». Il testo non parla di Cristo, ma di lui hanno trattato i due capitoli precedenti e non si dà amore del Padre se non in Cristo. Il legame a lui stacca e isola la comunità dal mondo, qui inteso come la realtà negativa che si oppone a Dio; il mondo è principio di non-amore, di non-santità. Esiste quindi una incompatibilità radicale, perché i credenti sono abilitati ad una dignità di figli che li nobilita. L’amore divino è realtà che previene e che investe l’uomo, recandogli un dono inatteso e impensabile. Dio è sorgente dell’amore e quindi di ogni santità che è nell’uomo il riflesso di Dio. Se i vv. 1-2 suscitano e alimentano la nostalgia della santità, ad un impegno personalizzato sollecita il versetto successivo.

     Infatti, proprio alla possibilità di rendere efficace tale riflesso, pensa il v. 3 che completa il quadro indicando l’impegno della comunità per rispondere al dono divino. Così dalla contemplazione stupita ed ammirata di quello che Dio è e fa, si passa alla collaborazione dell’uomo che accoglie responsabilmente il dono. Uno strumento privilegiato di accoglienza è la continua purificazione, atteggiamento di conversione necessario per lasciarsi invadere da Dio: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (v. 3). Al gloriarsi della propria dignità di figli ricevuta in dono, segue l’adeguamento che è lo sforzo continuo fatto di piccole trasformazioni. Conversione è l’imperativo affidato all’uomo, dopo che gli è stato comunicato l’indicativo (realtà) della sua condizione di figlio: «purificare se stesso» vuole dire rendersi pronti alla sequela di Cristo, andare con lui incontro al Padre. Adottato questo principio di vita, si capisce il seguito, non registrato dalla lettura odierna, del cristiano che non pecca, ovviamente perché si sviluppa in lui quel «germe divino» (v. 9) che è il principio di santità, la vita stessa di Dio, che lo rende figlio nel Figlio.

Vangelo: Matteo 5,1-12a

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».  

 

Esegesi

Il brano delle beatitudini elettrizza la odierna liturgia della parola. Esso inaugura il discorso del monte, il primo dei cinque grandi discorsi che strutturano il vangelo di Matteo. È la prima parte del primo discorso, cioè l’intonazione di tutte le parole di Gesù. Si comprende subito l’importanza attribuita dall’evangelista a questo proclama, chiamato senza troppa enfasi la magna charta, del cristianesimo. Lo potremmo quindi intendere come il suo manifesto, la sua carta costituzionale. E come in ogni stato la Costituzione è l’elemento sorgivo e strutturante delle varie componenti, una stella polare cui fare sempre riferimento, così il brano delle beatitudini caratterizza lo statuto cristiano. Il richiamo ad esso dovrà essere continuo e costante per non smarrire mai la bussola della propria identità. L’evangelista Matteo prepara il lettore con una concentrazione di particolari: è sulla montagna che Gesù presenta il suo pensiero, esattamente come Mosè aveva ricevuto le disposizioni divine sul monte Sinai; Gesù si pone a sedere assumendo l’atteggiamento dell’autorità che legifera; attorno sta il gruppo dei discepoli che non ricevono una informazione o una comunicazione, ma un insegnamento che dovrà poi trasformarsi in vita vissuta (cf. Mt 5,1.2).

     Se già la presentazione era solenne, l’impressione di maestosa autorevolezza promana ora dal messaggio, ritmato da una serie di «beati». Il termine ‘felice’ ‘beato’ (makàrios in greco, da cui il nome proprio Macario e il termine ‘macarismo’ per indicare la beatitudine o

felicità) si trova 50 volte nel NT, ma collegato in forma litania compare solo nel nostro brano e nel passo parallelo di Luca che crea il contrasto tra 4 beatitudini e 4 guai (cf. Lc 6,20-26). Proclamando le beatitudini, Gesù riprende in parte lo stile dell’AT: sono dichiarati felici gli uomini che vivono secondo le regole dettate dalla sapienza (cf. Sir 25,7-10); nei salmi è proclamato beato l’uomo che teme (= ama) il Signore, dimostrando tale amore con l’osservanza della sua volontà espressa nella sua legge (cf. Sal 128,1; 1,1). Difficilmente si trovano due beatitudini insieme e mai sono ad esse associati i guai come nella combinazione di Luca.

     Nel giudaismo di poco anteriore a Gesù è dato trovare, come nel nostro caso, la presenza di una sequenza di beatitudini e anche la loro combinazione con i ‘guai’: questi si spiegano forse per la viva speranza dei tempi ultimi. Sempre in tale contesto si incontra il discorso diretto («voi»), sconosciuto all’AT e presente in Mt 5,11. A differenza dell’AT, non ci sono frasi secondarie che specificano le beatitudini.

     Pur con qualche somiglianza letteraria con l’AT e con il giudaismo, possiamo affermare l’originalità della presentazione di Matteo. Troviamo infatti due gruppi di quattro beatitudini che si corrispondono anche nel numero delle parole. Nel primo gruppo si presenta per lo più una condizione di sofferenza, nel secondo un determinato comportamento. I vv. 11-12 sono diversi: in essi compare il discorso diretto e forse sono una rielaborazione redazionale in forma di beatitudine di un detto di Gesù. Dobbiamo senz’altro riconoscere la novità assoluta e senza precedenti del contenuto. Diversamente dalla prospettiva della letteratura sapienziale che additava una salvezza futura e terrena. Gesù annuncia una salvezza presente e senza restrizioni: tutti hanno accesso alla felicità, a condizione che siano legati a lui. Sganciati da lui, le beatitudini non hanno senso. È lui ad inserire coloro che lo seguono nella condizione di cittadini del regno, di figli di Dio.

     Le beatitudini sono piccole frasi che si intrecciano come una litania per proclamare una felicità davvero strana: «Beati i poveri in spirito… beati gli afflitti…». Dopo averle ascoltate, non sarà difficile essere presi da uno shock. Proclamare la felicità dei poveri, degli affamati, dei perseguitati sembra una evidente e sconcertante falsità che cozza contro la più elementare esperienza. Sarebbe come dichiarare che la loro disgrazia vale una benedizione: da qui alla mistificazione il passo è breve, perché sembra una buona soluzione per mantenere le cose allo stato di fissità, senza tentarne un miglioramento. L’accusa di conservatorismo arriva subito e facilmente. Si potrebbe aggiungere pure la volontà di sottrarre l’uomo alle responsabilità e agli impegni che lo ancorano al presente. Così, ad una prima reazione, il proclama delle beatitudini diventa il manifesto di una mortificante sclerosi che certo non onora Dio e che impoverisce l’uomo. Sotto la bandiera di un sublime ideale si fa passare un ordine invertito di valori umani.

     Che cosa possiamo rispondere?

     Le beatitudini sono proclamate da Gesù che annuncia solo quello che vive. Sarebbe sorprendente che un uomo che tutti riconoscono di una inimitabile coerenza abbia iniziato la sua predicazione (così in Matteo) con un clamoroso bluff. Le beatitudini sono il prisma che rinfrange non solo l’attitudine, ma anche i veri atteggiamenti di Lui.

     La prima cosa da sapere e da imparare consiste nella convinzione che la felicità attinge al mondo interiore. La felicità nasce dall’anima stessa; non si trova per strada, non si compra né si vende. Essa è un’attitudine interiore che risveglia un comportamento visibile. Le beatitudini sono un appello a cambiare vita e prima ancora a modificare sensibilmente la propria mentalità. E questo avviene orientandosi verso Dio: ecco la realtà del «regno dei cieli» che apre la prima e la più importante delle beatitudini; ecco il passivo divino «saranno consolati» che andrebbe reso meglio «Dio li consolerà», mostrando anche nella traduzione che la fonte della consolazione è Dio stesso. Così di seguito, tutto rimanda a Dio.

     La forza sta tutta qui: Gesù annuncia quello che egli vive. In lui si riscontra identità tra messaggio e messaggero, tra il dire, l’agire e l’essere. Il segreto dell’efficacia della sua missione sta nella totale identificazione col messaggio che annuncia: egli proclama la ‘buona novella’ non solo con quello che dice o fa, ma con quello che è. Ed egli è in perfetta comunione con il Padre, di cui esegue pienamente la volontà. Allora anche le difficoltà (o disgrazie) che accompagnano e segnano inesorabilmente la vita di ogni uomo, assumono un significato diverso prendono senso perché integrate in una vita che parte da Dio e che a Lui arriva. Questa è la santità.

 

Meditazione 

     Nella celebrazione di tutti i santi la Chiesa ascolta la promessa di Dio che la chiama a partecipare della sua stessa santità, e ricorda, che tale è la vocazione di ogni battezzato. Se la liturgia ci fa fare oggi memoria di tutti i santi nel loro insieme, non è tanto per la preoccupazione di dimenticarne qualcuno, o per integrare il numero di coloro che vengono ricordati nelle singole celebrazioni durante l’anno liturgico, quanto per affermare il carattere universale della chiamata alla santità. I santi sono come «primizie per Dio e per l’Agnello» (Ap 14,4): in essi è già santificato l’intero genere umano insieme a tutta la creazione. Il brano dell’Apocalisse che oggi viene proclamato, tratto dal capitolo settimo, afferma che il loro numero è sterminato: secondo la simbologia biblica centoquarantaquattromila non in-dica un limite, ma una pienezza e una totalità. Finché il sigillo di Dio non è impresso sulla loro fronte la terra e il mare non possono essere devastati, come a indicare che la loro vita diviene sacramento di salvezza e di redenzione per il cosmo intero.

     Se la liturgia ci offre di contemplare la loro vita e il loro destino, non è tanto per offrirci dei modelli da imitare, quanto per condurci a riconoscere la multiforme grazia con cui Dio visita e trasfigura la nostra storia. «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello» (Ap 7,10), grida la moltitudine immensa. La santità dei redenti è testimonianza non delle loro virtù o delle loro qualità, ma dell’essere stati salvati dall’amore di Dio, che ci rende realmente suoi figli chiamandoci sin d’ora a quella somiglianza con il suo volto che si attuerà in modo pieno e definitivo quando «egli si sarà manifestato e noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (cfr. 1Gv 3,1-2). Nella loro esemplarità, i santi non esigono una memoria ripetitiva di ciò che hanno fatto e vissuto, che spesso

è inimitabile avendo il sapore dell’unicità, o comunque rimane legato a contesti storici ed ecclesiali che non sono più i nostri; piuttosto la loro testimonianza deve suscitare nei credenti lo stupore e la gratitudine per quanto il Signore ha compiuto nel passato, e l’attesa confidente che torni a operarlo nell’oggi della vita personale e della storia del mondo, per condurli a un futuro di compimento.

     Anche il brano evangelico mette in luce come sia l’agire di Dio a rivelarsi nel volto dei beati. Le beatitudini, prima ancora che essere descrizione di un modo di essere dell’uomo davanti a Dio, sono rivelazione di come Dio si rapporti con gli uomini e manifesti in loro la bellezza della sua opera. Il genere letterario della beatitudine non è esclusivo del Nuovo Testamento; è molto frequente nel Primo Testamento, in particolare la letteratura sapienziale è zeppa di beatitudini. Tuttavia, nella maggior parte dei casi le beatitudini che leggiamo nelle Scritture sante sono articolate in due parti; c’è dapprima l’annuncio della gioia, espressa con il termine «beato/beati», al quale segue una seconda parte che descrive la situazione o l’atteggiamento che vengono proclamati tali. Invece, le beatitudini che Gesù proclama dall’alto del monte non sono in due, ma in tre parti. Dopo l’annuncio della beatitudine, vengono descritti i suoi destinatari – i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia… -; infine c’è una terza parte, quella fondamentale, nella quale Gesù mostra su cosa si fonda la loro gioia. E questa terza parte, introdotta da un perché, fa sempre riferimento a un’azione di Dio, che viene promessa ed è certa, perché Dio sicuramente la compirà. Dietro tutti i passivi che ritmano il testo possiamo facilmente intravedere come sia Dio il soggetto di ogni azione: beati i poveri in spirito, perché a loro Dio donerà il suo regno; beati gli afflitti, perché Dio li consolerà; beati i miti, perché proprio a costoro Dio lascerà in eredità la terra; beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché Dio li sazierà… Appare evidente che la ragione della beatitudine non riposa nelle condizioni esistenziali che l’uomo vive, o nei possibili atteggiamenti che è invitato ad assumere. Anzi, queste situazioni sono tutt’altro che benedette; sono condizioni di povertà, di indigenza, addirittura di persecuzione. La motivazione della gioia sta nel fatto che Dio si colloca dalla loro parte, prende le loro difese, custodirà e riscatterà il loro diritto ingiustamente offeso; agirà, anzi già agisce in loro favore. Le beatitudini di Gesù sono quindi anzitutto una rivelazione di Dio, narrano il suo modo di agire nella storia, proclamano un amore che, per quanto universale, è comunque attraversato da una predilezione, che raggiunge tutti coloro che hanno bisogno di qualcuno che si curvi sul loro bisogno, prenda le loro difese, si faccia carico del loro diritto ingiustamente offeso, sazi il loro giusto desiderio di vita. Di costoro è il regno dei cieli, e il regno è questo curvarsi di Dio sul bisogno dell’uomo.

     La gioia si fonda dunque sul terzo elemento, che descrive ciò che Dio certamente farà. Si ancora a questa speranza, che è tale perché ha la forza di trasformare anche il nostro presente consentendoci di rileggerlo nella luce del futuro di Dio. Infatti, questo ‘beati’ proclamato da Gesù non è un semplice augurio, o una benedizione per il futuro, neppure semplicemente una promessa. È piuttosto una constatazione nel presente: siete beati ora, nell’oggi della vostra vita, anche se il fondamento di questa felicità riposa nel futuro, ma si tratta del futuro di Dio, non del futuro dell’uomo. Affermare che è il futuro di Dio non significa solo riconoscere che è un futuro certo, perché Dio è fedele alla sua parola e attua la sua promessa; significa anche riconoscere che è un futuro capace di dare un significato diverso a ciò che ora sto vivendo. È un futuro indisponibile per la mia libertà e per la mia possibilità, non sono io a poterlo progettare o costruire con le mie mani o con la mia fantasia, ma viene da Dio, mi è donato, ed è pertanto in grado di dare un senso diverso al mio presente. Benedetto XVI afferma nella sua enciclica Spes salvi che il messaggio cristiano non è solo ‘informativo’, ma ‘performativo’. Ciò significa – spiega il papa – che «il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova» (n. 3). I santi sono coloro che hanno saputo scommettere tutta la propria esistenza su questo futuro di Dio e nella speranza hanno ricevuto il dono di una vita nuova, che la loro libertà ha saputo accogliere e far fruttificare.

     Le beatitudini che proclama Gesù sono otto, ma esse non delineano otto figure diverse di uomini e di donne, ma disegnano un’unica figura, una sola personalità spirituale, un unico modo di essere e di agire. Potremmo dire che questa unica personalità è Gesù Cristo, al quale il discepolo del Regno deve diventare sempre più simile. Il vero uomo delle beatitudini è Gesù Cristo. Ciò significa anche che l’unica personalità o figura spirituale che le beatitudini ci descrivono è quella del povero in spirito, di cui ci parla la prima beatitudine. È la prima non perché all’inizio di una serie, ma perché è la beatitudine fondamentale, e tutte le altre che seguono esplicitano vari aspetti in cui l’essere poveri in spirito si manifesta più concretamente. I poveri in spirito sono poveri davanti a Dio, vivendo la loro povertà nella dipendenza da Dio, attendendo tutto dalle sue mani e dal suo dono. Non sperano solo qualcosa, ma sperano Lui. Povero in spirito è Gesù che nell’evangelo di Matteo può dire: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio» (11,27). Povero è chi sa di dover ricevere tutto dalle mani di Dio e riconosce che la propria vita dipende dalle relazione con il Padre. Il santo «è colui che ha misurato nella povertà sua la smisurata distanza che lo separa dalla santità di Dio. E di fronte ad essa sente la propria indigenza, il proprio limite e tende sempre la mano vuota affinché Dio, come cantiamo a proposito di Maria, la riempia dei suoi beni» (C. Massa).

 

Preghiere e racconti

La santità della Iglesia militante

Cari «Io vedo la santità — prosegue il Papa — nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la pazienza come hypomoné, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno. Questa è la santità della Iglesia militante di cui parla anche sant’Ignazio. Questa è stata la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene. Nel breviario io ho il testamento di mia nonna Rosa, e lo leggo spesso: per me è come una preghiera. Lei è una santa che ha tanto sofferto, anche moralmente, ed è sempre andata avanti con coraggio».

(Intervista del Direttore a Papa Francesco, in «Civiltà Cattolica» 164 (2013) 3918, 449-477).

La santità è sempre giovane

« Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”. “Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri. Beati voi!”. E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità. Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio. Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita. Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.

“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana. È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio. Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore. Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo. (…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente. E la santità non è questione di età. La santità è vivere nello Spirito Santo”.

Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza. Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.

(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).

Ciò che ho scritto di noi

Ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia

è la mia nostalgia cresciuta sul ramo inaccessibile

è la mia sete tirata su dal pozzo dei miei sogni

è il disegno tracciato su un raggio di sole

ciò che ho scritto di noi è tutta verità

è la tua grazia

cesta colma di frutti rovesciata sull’erba

è la tua assenza

quando divento l’ultima luce all’ultimo angolo della via

è la mia gelosia

quando corro di notte fra i treni con gli occhi bendati

è la mia felicità

fiume soleggiato che irrompe sulle dighe

ciò che ho scritto di noi

è tutta una bugia

ciò che ho scritto di noi è tutta verità.

(Nazim Hikmet)

Le beatitudini bibliche

Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali. È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città. Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono. Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati. Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo. La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza. A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità. E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.

Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili. Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana. Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.

Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).

Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.

(A. MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato, 1992, 542s.). 

Il paese della felicità

Se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, partiremmo comunque subito.

Perché sarebbe in ogni caso più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.

(Thorkild Hansen)

Perché dovrei aiutare soprattutto i deboli?

Friedrich Nietzsche ha rimproverato al cristianesimo di glorificare la dimensione della debolezza e di condannare la dimensione della forza. Il cristianesimo sarebbe diventato, quindi, una religione dei gretti, nella quale la forza non ha posto e dalla quale le personalità forti si sentono respinte. Anche se Nietzsche esagera nella sua critica al cristianesimo, ha sottolineato tuttavia un aspetto importante: il cristianesimo non può diventare una religione della debolezza, altrimenti alla lunga non può dispiegare nessuna forza in questo mondo.

San Benedetto lo sapeva. Ammonisce l’abate a trattare i confratelli in modo tale che i forti vengano sollecitati e i deboli non vengano umiliati. Questa è per me una regola fondamentale e saggia. I forti hanno bisogno di una sfida per crescere e mettere i loro punti forti al servizio della comunità. Una comunità che glorifichi i deboli può togliere il respiro anche ai forti. In questo modo danneggerebbe se stessa. C’è bisogno di un buon equilibrio fra forti e deboli. Entrambi dovrebbero essere sfidati e dovrebbero poter vivere nella comunità in modo tale da crescere in essa.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 145).

Posso vivere basandomi sui valori e tuttavia avere successo?

I valori ci conferiscono valore e dignità. La vita di chi fa attenzione ai valori nella sua sfera personale acquisterà valore. Chi non si orienta più ai valori perde il rispetto per se stesso e per gli altri. La sua vita avrà sempre meno valore. Lo tirerà giù. La parola “valore” viene dal latino valere, che significa “essere forte e sano”. I valori ci danno, quindi, una forza interiore. Rendono sana la nostra vita. Se costruisco sui valori, quello che creo con la mia vita avrà un fondamento solido. Non crollerà con facilità, come si può osservare con le persone che costruiscono la loro casa di vita sulla sabbia delle loro illusioni o delle immagini ingannevoli. Alla lunga può resistere solo chi costruisce la sua casa su un terreno solido. E tale terreno solido sono i valori o gli atteggiamenti fondati sui valori, le virtù note fin dall’antichità: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e gli atteggiamenti cristiani come la fede, la speranza e la carità. Solo che rende giustizia alla propria essenza e chi rimane fedele con coraggio a quello che è importante per lui, chi accetta la propria dimensione e non segue continuamente esigenze smisurate, solo chi è saggio e valuta correttamente la situazione concreta, potrà vivere bene a lungo. E a lungo termine avrà anche successo nella vita.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 149).

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

custodisci questi giovani nel tuo amore.

Fa’ che odano la tua voce

e credano a ciò che tu dici,

poiché tu solo hai parole di vita eterna.

Insegna loro come professare la propria fede,

come donare il proprio amore,

come comunicare la propria speranza agli altri.

Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo,

in un mondo che ha tanto bisogno

della tua grazia che salva.

Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini,

perché siano sale della terra e luce del mondo

all’inizio del terzo millennio cristiano.

Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida

questi giovani uomini e giovani donne

del ventunesimo secolo.

Tienili tutti stretti al tuo materno cuore. Amen.

(Preghiera del Papa, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Intervista del Direttore a Papa Francesco, in «Civiltà Cattolica» 164 (2013) 3918, 449-477.

PER APPROFONDIMENTO:

TUTTI I SANTI (C)

XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Siracide 35,15-17.20-22 

Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.                                                      

 

Il libro del «Siracide» (detto così dal nome del suo autore Gesù Ben Sirach) fa parte non del canone ebraico, ma della bibbia greca. Fu scritto in ebraico (se ne sono trovati frammenti in una grotta di Qumran), ma è arrivato a noi nella traduzione greca, che risale agli inizi del II secolo avanti Cristo. Non siamo lontanissimi dall’epoca del N.T., ed il pensiero sapienziale di Israele si esprime in un’opera di grande maturità.

     Il cap. 35 rappresenta una profonda meditazione sapienziale sul senso del culto, ma anche una sua relativizzazione. Da una parte si esalta la bontà delle offerte e dei sacrifici (vv. 1-10), dall’altra parte si ribadisce che Dio non si lascia corrompere da vittime ingiuste e preferisce le preghiere povere ma sincere degli umili (vv. 11-24). È da questa seconda sezione del cap. 35 che sono attinti i versetti di cui si compone la nostra lettura.

     Annotazioni esegetiche

     — «Il Signore è giudice…» (v. 12). Alla pretesa, o illusione, di valersi delle offerte cultuali per «corrompere» Dio (si legga il v. 11), questo v. 12 costituisce una risposta chiara: il Signore è al di sopra dei doni che gli offriamo come giudice imparziale. Vana è l’illusione dell’uomo religioso di poter tirare Dio dalla propria parte semplicemente offrendo gli omaggi.

     — «Ascolta la preghiera dell’oppresso» (vv. 13-14). L’oppresso, la vedova e l’orfano sono — nell’ambito sociale — coloro che non hanno alcun peso, perché privi di sostegni e di possibilità economiche: è gente che non conta, alla quale nessuno dà importanza. A differenza delle autorità romane, è proprio a costoro che Dio rivolge la propria attenzione quando esprimono la loro infelicità («lamento»).

     — «La sua preghiera arriva fino alle nubi » (v. 17). L’efficacia della preghiera (penetrare le nubi significa giungere al cielo, ossia presso Dio, ottenendo ciò che chiede) è proprio nella debolezza di chi la fa, o meglio nella consapevolezza di tale debolezza («umiltà»). Qui si crea un importante legame col Vangelo di oggi.

     —«Abbia reso soddisfazione ai giusti» (v. 22). I «giusti» si identificano qui chiaramente con coloro che si riconoscono deboli e confidano unicamente nella protezione di Dio. Proprio perché fiduciosa, tale preghiera «non desiste» e finisce con l’ottenere da Dio il ristabilimento di un’equità che i criteri umani hanno ignorato o sovvertito cioè: i deboli e gli umili trovano davanti a Dio quel favore che gli uomini negano loro.

 

Seconda lettura:  2Timoteo 4,6-8.16-18

Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.  Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen

 

La situazione in cui viene scritta questa seconda lettera a Timoteo è quella della prigionia romana. Paolo scrive alla vigilia della sua morte, per cui questa lettera al caro discepolo assume il tono del testamento spirituale. Nella parte finale di questo testamento (4,6-18) si aprono le prospettive future accompagnate dalle ultime istruzioni dell’Apostolo a Timoteo. La nostra lettura fa parte di questa sezione. Anche se (come tendono ad affermare molti critici) questa lettera è da attribuire non a Paolo, ma ad un suo discepolo o epigono, ritroviamo comunque le idee-madri e la testimonianza sostanziale dell’Apostolo, segno che la sua paternità spirituale ha profondamente segnato la tradizione paolina successiva.

     Appunti esegetici. – Proponiamo di concentrare la nostra attenzione sulle immagini che vengono usate per descrivere la realtà presente vissuta dall’Apostolo e applicabile alla realtà di ogni credente.

     a) La vita dell’Apostolo, che giunge verso la conclusione, è paragonata:                                                           

     — con immagini atletiche, a una corsa tesa ad un traguardo («ho terminato» v. 7), ma anche in attesa di un premio («corona», v. 8), non da fruire personalmente ma da condividere con quanti hanno preso parte alla corsa (v. 8);

     — con immagini strategiche: la vita del credente è battaglia buona e nobile, bella (kalos), per cui vale la pena combattere (v. 6);

     — con metafora sacrificale: la vita giunge alla morte non come a epilogo oscuro ma come vittima il cui sangue si spande in libagione, è momento prezioso, al cospetto di Dio ed in favore degli uomini (propiziazione) (v. 6);

     — con immagine marinara, la morte è come «sciogliere le vele», salpare per un lungo viaggio; non è fine, ma inizio.

     b) Il rapporto dell’Apostolo con il Signore si configura come rapporto tra imputato e avvocato difensore. Il ruolo di questo difensore assume però dimensioni più vaste di quelle di un difensore giuridico. Sottolineiamo tre dimensioni teologiche: la prima, di liberazione dal nemico («dalla bocca del leone», v. 17: cf. Dan 6,17); la seconda, di potenza evangelizzatrice, per cui la forza di Dio si traduce in proclamazione e annunzio del Vangelo a tutti i pagani; la terza è di liberazione e salvezza escatologica: «nel suo regno» (v. 18).

     Mediante queste ricche immagini, la vita, l’apostolato e la stessa morte di Paolo vengono trasfigurate alla luce di Dio, assumendo un valore molto più grande e teologico di quello che appare ad un semplice osservatore umano delle cose.

 

Vangelo: Luca 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:  «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.  Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

Esegesi 

     All’inizio del cap. 18 del Vangelo di Luca leggiamo due parabole riguardanti la preghiera. Ciascuna delle due parabole mette in luce le caratteristiche particolari della preghiera cristiana: la continuità incessante (parabola del giudice iniquo e della vedova, vv. 1-8; Vangelo letto la domenica scorsa) e l’umiltà (il fariseo e il pubblicano, vv. 9-14, Vangelo odierno). Il dittico delle due parabole va preso nel suo insieme: la preghiera incessante dev’essere caratterizzata da grande umiltà; la preghiera umile va continuata con perseveranza e insistenza.

     Annotazioni esegetico-teologiche

     Come ogni parabola, anche in questa abbiamo due storie o situazioni: l’una fittizia (due uomini salirono al tempio…), l’altra reale (alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri). La parabola raggiunge il suo scopo quando la situazione fittizia si «trasferisce» (para-ballo, in greco significa appunto «trasferire») a quella reale, sicché il superbo che disprezza gli altri si riconosce nel fariseo che si esalta e viene umiliato.

     — «L’intima presunzione di essere giusti» (v. 9), «giusto» è l’uomo che si mette in sintonia con la «giustizia» di Dio, ossia con la sua santità e volontà di salvezza. La «giustizia» dei farisei, pur basandosi essenzialmente su opere buone (elemosina, preghiera e digiuno, cf. Mt 6,2-18) era inficiata da due deviazioni di base: prima, la pretesa di essere giusti in base ai propri meriti, seconda, l’esibizionismo che mentre li portava a «ritenersi» giusti davanti agli uomini (Lc 16,15), suscitava in loro disprezzo per gli altri.

     Uno era fariseo e l’altro pubblicano (vv. 10-13). I due tipi di oranti sono scelti intenzionalmente, per preparare l’effetto della parabola. In comune essi hanno l’intenzione (pregare) e lo spazio (il tempio). La differenza è nell’atteggiamento e nel contenuto della preghiera:

     a) l’atteggiamento di ognuno esprime il rispettivo modo di porsi di fronte a Dio presente nel tempio:

     — il fariseo sta in piedi (così come si prega nel tempio) e inizia con un solenne atto di ringraziamento. In un certo senso egli rappresenta l’ideale della pietà giudaica;

— il pubblicano non osa avvicinarsi all’altro e levare lo sguardo al cielo, perché è consapevole della propria miseria e del proprio peccato.

Secondo la concezione comune dei giudei, per un pubblicano non c’era salvezza: sia perché si arricchiva col denaro che esigeva per le tasse, sia perché collaboratore delle forze romane, e quindi dei pagani, ponendosi contro il popolo. Il battersi il petto esprime non solo la coscienza che egli ha della propria situazione religiosamente disperata, ma anche e soprattutto il desiderio di cambiare la vita, e dunque di penitenza.

     b) Il contenuto della preghiera di ognuno corrisponde esattamente al senso dell’atteggiamento esterno:

     — il fariseo ringrazia Dio sostanzialmente per il fatto di essere un campione di pietà. Oggettivamente le opere in cui si impegna sono lodevoli ed eccellenti: nessuno era obbligato a digiunare se non nel giorno della grande espiazione, mentre egli generosamente lo fa due volte alla settimana, e chiaramente lo fa per espiare non i suoi, ma i peccati degli altri; inoltre, mentre era tenuto, a rigore, a pagare le decime solo dei principali frutti della terra (Dt 12,17ss), egli supera abbondantemente questo limite, pagando le decime di tutta la sua proprietà. Non si tratta di una caricatura, come spesso si dice: realmente il fariseo incarna l’ideale di colui che adempie le opere più fulgide della pietà giudaica. Ma a tale consapevolezza si accompagna il disprezzo degli altri (v. 11) e quindi manifesta la sua sufficienza davanti a Dio e l’orgoglio di fronte agli altri uomini, in particolare rispetto al pubblicano;

     — il pubblicano non ha nessun merito da esibire; ha solo la chiara consapevolezza del suo peccato, e la esprime con le parole del Sal 51,1: Abbi misericordia di me o Dio. Siamo agli antipodi della chiara coscienza che ha il fariseo della sua percezione spirituale.

     — «Io vi dico…» (v. 14). Il giudizio di Gesù interviene con pesante autorità («io vi dico») a capovolgere lo schema delineatosi con le due preghiere. Iniziando dal secondo, anziché dal primo, Gesù ha già introdotto il ribaltamento: costui ritorna a casa «giustificato», ovvero: Dio ha esaudito la sua preghiera e quindi ha perdonato il suo peccato; mentre l’altro (il fariseo) malgrado i grandi suoi meriti non lo è, cioè rimane col peso del suo peccato davanti a Dio. In questo modo Gesù infierisce un duro colpo alla presunzione di quel fariseo, e quindi alla concezione «ufficiale» che gli esponenti del giudaismo avevano della religiosità. La vera religiosità non è legata al peso delle opere, non stabilisce confronti con gli altri, ma si pone unicamente davanti al giudizio di Dio, dal quale implora misericordia. D’altra parte, Gesù mette in chiaro il perché del suo atteggiamento benevolo e accogliente rispetto a due grandi gruppi di peccatori pubblici: gli esattori delle tasse e le prostitute.

 

Meditazione

Preghiera e autenticità: questo il rapporto posto in luce dal brano dell’Antico Testamento e dal Vangelo. Il Signore gradisce la preghiera del bisognoso e dell’oppresso (I lettura) e accoglie la preghiera del pubblicano che si proclama peccatore davanti a lui (vangelo).

Vi e una fiducia in se stessi, un credersi giusti, che rende non accetta la preghiera del fariseo al tempio (Lc 18,14), così come vi è la possibilità di un culto che è solo una farsa, una burla, perché commisto a ingiustizia e empietà (cfr. Sir 34,18-19; 35,11). Nella preghiera si riflette e si svela l’autenticità o la falsità di ciò che si vive.

La preghiera dei due uomini al tempio, così vicini e così lontani al tempo stesso, ci pone la questione di cosa significhi pregare insieme, fianco a fianco, l’uno accanto all’altro in uno stesso luogo, in una liturgia. È possibile pregare accanto ed essere separati dal confronto, dal paragone e dal disprezzo («non sono come gli altri uomini,….. e neppure come questo pubblicano»: Lc 18,11). L’autenticità della preghiera, dell’offerta fatta al Signore nel culto, passa attraverso la qualità buona delle relazioni con i fratelli che pregano con me e che formano con me il corpo di Cristo.

Nella preghiera emerge anche quale sia la nostra immagine di Dio e la nostra immagine di noi stessi. Il fariseo prega «rivolto a se stesso» (pròs heautòn: Lc 18,11 ) e la sua preghiera sembra dominata dal suo ego. Egli formalmente compie un ringraziamento, ma in verità ringrazia non per ciò che Dio ha fatto per lui, bensì per ciò che lui fa per Dio. Il senso del ringraziamento viene così completamente sconvolto: il suo «io» si sostituisce a «Dio». La sua preghiera è in realtà un elenco delle sue prestazioni pie e un compiacimento del suo non essere «come gli altri uomini» (Lc 18,11 ). L’immagine alta di sé offusca quella di Dio e gli impedisce di vedere come un fratello colui che prega accanto a lui. La sua è la preghiera di chi si sente a posto con Dio: Dio non può che confermarlo in ciò che è e fa. È un Dio che non gli chiede alcun cambiamento e conversione perché tutto ciò che egli fa, va bene. Il fatto che lo sguardo di Dio non gradisca la sua preghiera (Lc 18,14: «questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato») smentisce la sua presunzione, ma afferma anche che noi possiamo pregare con ipocrisia e continuare a pregare senza pervenire ad autenticità e verità.

La differenza di atteggiamento dei due uomini è visibile anche dalla postura del corpo da loro assunta: il fariseo esprime la sua sicurezza, il suo essere un habitué del luogo sacro, stando in piedi, a fronte alta, mentre il pubblicano esprime la sua contrizione stando a distanza, quasi intimorito, a testa bassa, e battendosi il petto. Sempre noi preghiamo con il corpo e le posture del corpo rivelano la qualità della relazione con il Signore e il senso (o meno) del nostro stare alla sua presenza.

La preghiera richiede umiltà. E umiltà è adesione alla realtà, alla povertà e piccolezza della condizione umana, all’humus di cui siamo fatti. Umiltà non è falsa modestia, non equivale a un io minimo, ma è autenticità, verità personale. Essa è coraggiosa conoscenza di sé di fronte al Dio che ha manifestato se stesso nell’umiltà e nell’abbassamento del Figlio. Dove c’è umiltà, c’è apertura alla grazia e c’è carità; dove c’è orgoglio, c’è senso di superiorità e disprezzo degli altri.                                          

Nella preghiera noi facciamo riferimento a immagini di Dio, ma il cammino della preghiera altro non è che un processo di continua purificazione delle immagini di Dio a partire dal Cristo crocifisso, vera immagine rivelata di Dio che contesta tutte le immagini mano fatte del divino.

L’atteggiamento del fariseo è emblematico di un tipo religioso che sostituisce la relazione con il Signore con prestazioni quantificabili: egli digiuna due volte alla settimana e paga la decima di tutto quanto acquista. Alla relazione con il Signore sotto il segno dello Spirito e della gratuità dell’amore, si sostituisce una forma di ricerca di santificazione mediante il controllo (la contabilità delle azioni meritorie) e che richiede il distacco dagli altri.

 

Preghiere e racconti 

L’elemosina della santità

«Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano…”» (Lc 18, 9-14).

Mettendo in scena il primo personaggio, Gesù vuole denunciare due disposizioni sbagliate e opposte al comportamento evangelico: la presunzione di essere giusti di fronte a Dio e il sentirsi superiori agli altri tanto da disprezzarli. I due atteggiamenti sono legati e il secondo dipende dal primo.

Lc 18,11 andrebbe meglio reso in italiano così: «Il fariseo stando ritto presso se stesso, queste cose pregava…». Il fariseo, dunque, è tutto preso di sé, è rivolto non a Dio ma a se stesso, recita delle parole pensando di pregare ma in realtà fa un autoelogio.

Il fariseo presume di sé ed è sicuro della propria santità, si presenta così quale giudice zelante e spietato nei confronti del suo prossimo: «Ti ringrazio che non sono come gli altri uomini… e neppure come questo pubblicano» (Lc 18, 11).

Il pubblicano, invece, non si preoccupa di quello che gli altri sono e fanno; è lontano dalla sua mente il giudicare il fariseo o altri. Egli è consapevole dei suoi tradimenti e delle sue colpe e non tenta di mascherarli davanti a Dio: «Stando a molta distanza non voleva neppure alzare gli occhi al cielo, ma batteva il suo petto dicendo: “O Dio, fai elemosina a me peccatore”» (Lc 18, 13). Si presenta con quelle che dovrebbe essere la  «carta d’identità» di ogni cristiano: peccatore!

      La parabola presenta due atteggiamenti di preghiera, ma poi finisce con il descrivere due modi di vivere. La preghiera così rivela la vita dei due personaggi. Di conseguenza ciò che va corretto non è la preghiera ma l’idea che si ha di Dio, di se stessi e del prossimo. Il fariseo e il pubblicano incarnano un modo diverso di porsi di fronte a Dio e agli altri, un modo opposto di guardare a se stessi, un modo opposto di concepire la santità.

Parole senza preghiera… la perfezione del presuntuoso

II fariseo entra nel tempio e rimane «in piedi»: è sicuro e fiero di sé. Formula una preghiera di ringraziamento a Dio non per i doni ricevuti, non per la vita o la fede; ma perché non è come gli altri. Egli si «distingue» per il suo impegno e avanza dei meriti dinanzi a Dio: «Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo» (Lc 18,12). È più che scrupoloso nell’osservare i suoi doveri religiosi. La sua «santità» sarebbe frutto unicamente del suo sforzo e del suo impegno. Ma in fondo il fariseo dice la verità, perché è vero che osserva fedelmente la legge e fa grandi sacrifici; è vero che il suo zelo lo spinge a fare più di quanto la legge richiede: non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come era prescritto, ma due. Che cosa allora non va nella sua vita? Perché la sua preghiera non è gradita a Dio?

 Tutto il suo impegno lo ha realmente portato all’autorealizzazione nella santità? Il «difetto» del fariseo non è l’ipocrisia, ma il riporre la fiducia unicamente in se stesso. La sua preghiera è un monologo: «Stando ritto presso se stesso queste cose pregava… » (Lc 18, 11). Egli sta «in piedi», non ha nulla da chiedere a Dio, anzi ritiene che Dio debba qualcosa a lui: nella sua preghiera non chiede misericordia, non aspetta il dono della salvezza, ma attende da Dio il premio che gli è dovuto per il bene fatto. Nel suo monologo orante esordisce dicendo: «O Dio, ti ringrazio… »: fa risalire in un certo modo la sua santità a Dio. Ma questa originaria consapevolezza di dipendenza da Dio per la sua autorealizzazione si perde lungo la strada, perché il suo sguardo è tutto ripiegato in se stesso. La sua santità non deriva da Dio e il suo modo di giudicare con disprezzo il prossimo non ha nulla a che vedere con la preghiera: è solo un autocompiacimento.

Uscirà come era entrato: con il suo orgoglio, il suo disprezzo, per gli altri, la sua presunta santità… Nella Casa di Dio era entrato da «santo», ne esce da fallito!

II coraggio di piegarsi… l’umiltà del peccatore

Il pubblicano, ebreo «rinnegato», è iscritto nell’elenco ufficiale dei «senza Dio» insieme ai ladri, alle prostitute e agli adulteri. Consapevole che la sua vita è in forte dissonanza con la fede e la santità, «stando a molta distanza, non voleva nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma batteva il suo petto…» (Lc 18, 13). Entra nel tempio con la coscienza di porre dinanzi a Dio tutta la sua vita, senza maschere e in tutta la sua nudità. Il suo atteggiamento di preghiera è esattamente opposto a quello del fariseo. La sua preghiera non è un monologo ma un dialogo; egli non parla a se stesso ma a Dio: «O Dio, fai elemosina a me peccatore». Dice la verità: è peccatore! A Dio presenta con coraggio la sua carta di identità e, cosciente della sua fragilità, piega le ginocchia, tiene abbassato lo sguardo perché si vergogna di se stesso, resta in fondo al tempio perché non osa avvicinarsi alla santità di Dio.

La sua umiltà, tuttavia, non consiste nell’abbassarsi perché egli è realmente ciò che dice di essere, ma nel coraggio di presentarsi con verità a Dio e a se stesso, così com’è. Al coraggio unisce il bisogno di cambiamento, consapevole di non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla di cui vantarsi e non ha nulla da esigere. Può solo chiedere: «O Dio, fai elemosina a me», in greco: ilàstheti moi! Chiede l’elemosina di Dio, implora cioè il chinarsi misericordioso del Signore sulla sua fragilità, sul suo essere peccatore. E si rimette a Lui, si affida completamente allo sguardo compassionevole di Dio, non a se stesso. È questa l’umiltà, è questo l’atteggiamento che Gesù loda. Nella Casa di Dio era entrato da peccatore, ne esce da santo!

Cogliersi dallo sguardo di Dio

Gesù non elogia la vita del pubblicano e non disprezza le opere del fariseo; apprezza la verità con la quale il pubblicano si pone dinanzi a Dio e a se stesso; del fariseo condanna l’atteggiamento orgoglioso e arrogante e l’inutilità della sua vuota preghiera.

L’unico modo di porsi di fronte al Signore, nella preghiera e nella vita, è essere se stessi nella coscienza della propria fragile creaturalità… liberata e redenta e perciò bella! Il fariseo considera la sua santità come frutto del suo impegno e non come dono di Dio; è lontana dalla sua mentalità di misericordia e la «prossimità» con chi è diverso da lui, con il pubblicano.

Gesù non rimprovera perciò il fariseo di ipocrisia, ma evidenzia che è sbagliato l’intero suo modo di rapportarsi a Dio: «Disse questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18, 9). Gesù smaschera nel fariseo la sua «radice inquinata», il sistema religioso del quale è intriso e non una semplice incoerenza. La parabola non afferma che il fariseo avrebbe dovuto vivere come il pubblicano: non sono le sue opere ad essere contestate ma egli stesso e il suo modo di essere.

L’errore sta nel guardare a Dio alla luce delle proprie opere. Per Gesù invece è importante e necessario che l’uomo guardi a se stesso a partire da Dio, che l’uomo impari a cogliersi dallo sguardo di Dio e ad essere «vero» di fronte a Lui. «Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro» (Lc 18, 14); la «giustificazione» è permettere a Dio di farci dono del suo perdono, lasciare che Dio ci ami così come siamo, senza paura e senza infingimenti. E allora la fragilità umiliata si trasforma in forza e coraggio, ci rimette nuovamente in strada da santi verso la pienezza della vita, «perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14).

Santi perché peccatori

La lezione della parabola è stata molto chiara. La santità è iscritta nella nostra creaturalità, ci restituisce al nostro essere uomini. La santità, però, inizia dove finisce l’umana presunzione perché è riconoscimento, accoglienza e offerta di ciò che si è: peccatori! È questa la nostra carta d’identità, questa la coscienza della nostra creaturalità esposta al bacio della graziosa tenerezza di Dio. Possiamo allora dire che noi siamo santi perché peccatori. Chi non ha la profonda consapevolezza di essere peccatore non potrà mai essere santo!

(M. RUSSOTTO, Santità come autorealizzazione? Spunti di riflessione in compagnia della Parola, in CISM, La relazione con Dio: fondamento dell’autorealizzazione del vivere con i fratelli, della passione apostolica. «Protesi verso il futuro» (Fil 3,12)… per essere santi, Roma, Il Calamo, 2003, 55-59).

Preghiera e valutazione degli altri

La valutazione degli altri, ecco l’altro parametro che bisogna accettare per riscoprirsi. Specie se quest’altro è Dio e per lui Cristo.

Un giorno si presentano al tempio per pregare un fariseo ed un pubblicano. Il primo prega cosi: “Dio, ti ringrazio che non sono come il resto degli uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, oppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana, pago la decima di tutto ciò che acquisto”. L’altro invece: “Dio, sii clemente al peccatore che io sono”. Gesù sentenzia: “Vi dico, il pubblicano se ne tornò giustificato a casa sua, a differenza dell’altro” (Lc 18,11-14).

Evidentemente il primo si è valutato da sé e lo ha fatto paragonandosi agli altri. E chi è disposto a considerarsi peggiore degli altri? Non giudichiamo forse gli altri con estrema facilità e molto spesso con spietata severità? Il fariseo ha finito con il sopravvalutarsi, con l’essere ingiusto con sé e soprattutto con gli altri; perciò continua Gesù: “Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14). Il pubblicano s’è messo di fronte a Dio e ne ha visto l’immensa distanza, l’incolmabile differenza, ha chiesto aiuto ed è stato restituito al suo posto di uomo “giusto”.

Un giorno (scrive Francesco Alberoni) rabbi Jochanan ben Zaccai domandò ai suoi discepoli quale è la retta via da seguire. Elazar gli diede la risposta esatta: “un cuore buono”. Ottima risposta, eppure noi riusciamo a manipolare anche l’intenzione. A poco a poco, attraverso una sottile azione di propaganda su noi stessi, arriviamo a nasconderci i veri motivi della nostra azione: l’ambizione, l’interesse, l’odio, la vendetta. Ci convinciamo di essere mossi soltanto dal desiderio di fare del bene, dall’altruismo. Sartre la chiamava falsa coscienza. Anche il grande inquisitore Torquemada pensava di essere buono, in quanto cercava di salvare l’anima immortale di coloro che condannava al rogo. Qualsiasi virtù è automaticamente distrutta dal compiacimento di possederla.

O Dio, abbi pietà di me, peccatore

«Veglia su di te, dice la Scrittura (Dt 15,9). Credo che colui che ha dato la legge sia ricorso a tale ammonimento anche per sradicare un’altra passione; poiché ciascuno di noi è più facilmente incline a interessarsi delle cose altrui invece che meditare sulle proprie, affinché non abbiamo ad ammalarci di questa malattia, il Signore ci dice: «Smetti di interessarti della cattiveria del tale o del tal altro; non dar tempo ai tuoi pensieri di esaminare le debolezze altrui, ma veglia su di te, cioè volgi l’occhio dell’anima a scrutare tè stesso».

Molti, infatti, secondo la parola del Signore, osservano la pagliuzza nell’occhio del fratello e non vedono la trave che è nel proprio (cfr. Mt 7,3). Non cessare, dunque, di scrutare te stesso, se vuoi vivere secondo il comandamento. Non stare a guardare fuori di te se ti riesce di trovare qualcosa da rimproverare agli altri, come faceva quel fariseo presuntuoso e vanaglorioso che innalzava se stesso giustificandosi e disprezzava il pubblicano (cfr. Lc 18,10-14); non smettere di esaminare te stesso chiedendoti se hai peccato nei tuoi pensieri o se la tua lingua, più veloce del pensiero, non ha detto qualcosa di troppo, se con le opere delle tue mani non hai compiuto qualcosa al di là delle tue intenzioni. E se trovi nella tua vita un gran numero di peccati – sei uomo e dunque ne troverai di certo – ripeti le parole del pubblicano: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13).

Veglia su di te. Se godi di grande pace, se i tuoi giorni scorrono felici, queste parole ti saranno utili come un buon consigliere che ti ricorda la realtà delle cose umane. Se invece sei oppresso da vicende avverse, le stesse parole cantate nel cuore ti riusciranno utili per non elevarti orgogliosamente a un’insolenza eccessiva o per non cadere per disperazione in un meschino scoraggiamento».

(BASILIO DI CESAREA, Veglia su di te 5, Bose, 1993, pp. 19-20).

L’umiltà

Un’ulteriore energia dello Spirito è l’abbassamento. Non uso volutamente la parola «umiltà» perché il significato abituale che attribuiamo a quest’ultima comporta una certa dose di autodeterminazione, il che in realtà è un’impressione a posteriori. L’umiltà è una condizione prima di essere un giudizio su noi stessi. È una situazione di abbassamento sulle tracce di Cristo: «Chi si umilia sarà esaltato». Un abbassamento che ha valore solo se è opera dello Spirito santo. È indubbiamente a questo punto che entra in gioco l’obbedienza religiosa, nella misura in cui tale obbedienza consiste nel rimanere sottomessi, soggetti ad altri uomini, per amore del Signore e seguendo il suo esempio.

(Tatto da A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2001, pp. 9-20).

Preghiera

Il fariseo si riteneva giusto perché non uccideva.

Gesù insegna ad amare i propri nemici.

E noi cristiani pensiamo di essere giusti

perché non abbiamo ucciso?

 

Il fariseo si riteneva giusto perché non commetteva adulterio.

Gesù ci chiede di non guardare la donna altrui con desiderio.

E noi cristiani ci riteniamo giusti

quando commettiamo adulterio di fatto o di desiderio?

 

Il fariseo si riteneva giusto pur praticando il divorzio.

Gesù insegna che chi ripudia sua moglie e ne sposa un’altra,

commette adulterio contro di lei.

E noi cristiani ci riteniamo giusti perché non abbiamo divorziato?

 

Il fariseo si riteneva giusto perché giurava e manteneva i giuramenti.

Gesù dice di non giurare affatto.

E noi cristiani ci riteniamo giusti pur giurando e giurando il falso?

 

Il fariseo si riteneva giusto perché digiunava e pagava le decime.

Gesù dice che quando abbiamo fatto tutto, siamo servi inutili.

E noi cristiani crediamo di essere giusti perché osserviamo le leggi?

 

La preghiera del fariseo

non fu accetta a Dio perché stimò e lodò se stesso,

non si ritenne peccatore,

non chiese perdono a Dio,

tornò a casa non giustificato.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXX DOM TEMP ORD (C)

XXIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Esodo 17,8-13

In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. 

Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada.  

 

Il libro dell’Esodo nella sua prima parte (1,1-15,21) descrive la liberazione dall’Egitto del popolo di Israele; nella seconda parte (15,22-18,27) presenta il cammino del popolo nel deserto: nella terza parte (19-40) si ha l’alleanza sul Sinai con tutte le prescrizioni. Il testo della lettura è collocato nella seconda parte, all’inizio; descrive il combattimento di Israele contro Amalek.

     Aspetti di esegesi

     Tra l’episodio dell’acqua scaturita dalla roccia e l’episodio dell’incontro di Ietro con Mosé, si ha il racconto della vittoria di Israele contro Amalek: «In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada» (Es 17,8-13).

     Questo racconto antico, rappresenta una tradizione delle tribù del sud. Esso è legato alla stessa località in cui si svolse il fatto precedente dell’acqua scaturita dalla roccia, Refidim. Gli Amaleciti avevano la loro abitazione sulle montagne di Seir. Di Amalek si parla nel libro della Genesi, come nipote di Esau (Gn 36,12.16); si tratta di un popolo molto antico; nell’oracolo di Balaam è detto: «Poi vide Amalek e pronunciò il suo poema e disse: Amalek è la prima delle nazioni, ma il suo avvenire sarà eterna rovina» (Nm 24,20). Al tempo dei giudici lo vediamo associato ai saccheggiatori di Madian: Davide lo combatte ancora; in seguito viene menzionato nel primo libro delle Cronache, dicendo che fu eliminato dai discendenti di Simeone (1Cr 4,43) e nel Salmo 83,8 che lo enumera tra i nemici di Israele. Il significato del racconto contenuto nella lettura sta nel fatto che la preghiera perseverante di Mosé, sostenuto da Aronne e da Cur, ottiene la vittoria del mediatore presso Dio a favore della comunità. La sua è la preghiera di chi è costituito capo in mezzo al suo popolo.

 

Seconda lettura:  2Timoteo 3,14-4,2

Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.   

 

La seconda lettera a Timoteo dopo l’indirizzo di saluto e ringraziamento, tratta anzitutto delle grazie ricevute da Timoteo, espone poi il significato delle sofferenze dell’apostolo e dell’apostolato, richiama la lotta contro il pericolo attuale dei falsi maestri, esorta a fare attenzione ai pericoli degli ultimi tempi, propone a Timoteo con uno scongiuro solenne, il suo dovere di annuncio della parola, dà infine le ultime raccomandazioni. Il brano della lettura si pone nell’avvertimento sui pericoli e si conclude con lo scongiuro solenne.

     Aspetti di esegesi

     La esortazione con cui inizia il brano riguarda il rimanere fermo, stabile, irremovibile nelle verità che sono state comunicate non come vane teorie ma come rivelazione immutabile, contro le tendenze deviazioniste dei falsi dottori di cui ha parlato precedentemente, seduttori e sedotti: «Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù» (2 Tm 3,14-15).

     Tali verità sono contenute nelle sacre Scritture: esse danno la vera sapienza della salvezza: la rivelazione divina ha come centro Gesù Cristo; perciò conduce a lui. «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio» (2Tm 3,16). L’affermazione che tutta la Scrittura è ispirata da Dio è importante poiché esprime a sua volta in modo ispirato una verità e cioè la ispirazione divina delle Scritture: è nella pratica assidua della Scrittura che l’uomo di Dio nutre la sua fede e il suo zelo apostolico: La scrittura poi è «utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm 3,16): l’Autore indica a quali scopi è utile la Scrittura: insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia: la prima utilità è di natura didattica; infatti la Scrittura contiene la verità, e la verità è tema di insegnamento; la seconda utilità sta nella convinzione, nella persuasione degli spiriti, rivolta a condurli alla verità e a confutare gli errori; la terza è la correzione, per condurre gli erranti e i peccatori alla verità e alla vita morale; infine la Scrittura aiuta la formazione alla giustizia, cioè alla vita morale secondo la quale Dio vuole che si viva; in tale modo la Scrittura opera una formazione dell’uomo credente e dell’apostolo il quale con la Scrittura è in grado di adempiere il suo ministero, essendo provveduto di ogni strumento per esercitarlo con frutto.

     Viene ora un solenne scongiuro: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2 Tm 4,1-2)». È un appello rivolto al discepolo, quasi una parola di commiato al termine della lettera. Dominato dal pensiero di una morte vicina e della venuta del Signore, Paolo chiede solennemente a Timoteo di perseguire, senza venire meno, la missione che gli trasmette. Scongiura chiamando in causa Gesù Cristo che verrà a giudicare i vivi e i morti: proclama così la verità che Gesù sarà il giudice di tutti gli uomini, quelli che saranno in vita alla sua venuta e quelli che allora risusciteranno; questa affermazione, che apparteneva all’annuncio primitivo, è entrata nel simbolo della fede. Il tema dello scongiuro riguarda la predicazione; l’apostolo ammonisce ed esorta gravemente Timoteo, invocando

a testimonio Dio e Gesù Cristo: l’autore è consapevole di compiere un suo dovere nel prescrivere a Timoteo la predicazione; Timoteo deve predicare la parola come un araldo che ha la lieta notizia da comunicare; deve insistere, prendere ogni occasione, l’inopportunità è da intendere da parte degli uditori; anche quando agli uditori sembri inopportuna la voce del predicatore della verità; deve convincere quello che erano, mostrare loro che sono colpevoli, riprenderli, esortarli; ma la predicazione in sé è sempre opportuna; tutta la predicazione, inoltre, anche quando rimprovera e mostra l’errore deve essere fatta con dolcezza, aspettando con pazienza il suo frutto, e deve avere per solida base la dottrina, la parola di Dio, che è efficace per se stessa. Leggendo queste norme teoriche e pratiche di pedagogia pastorale il ministro della parola saprà congiungere insieme la prudenza e l’audacia, la forza nel rimproverare e nel convincere dell’errore e la mitezza dell’amore paterno; saprà istruire le menti con la luce della verità e istruire i cuori con il calore dello zelo apostolico.

 

Vangelo: Luca 18,1-8

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

Esegesi 

     Il testo si trova nella sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme; è la parabola del giudice iniquo e della vedova importuna e riguarda il tema della preghiera: «In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1).

     Aspetti di esegesi

     Questa parabola e quella che segue, del fariseo e del pubblicano, trattano della preghiera sotto punti di vista differenti. La parabola del giudice iniquo che fa giustizia alla donna per non essere da lei importunato, concorda, nel suo pensiero fondamentale, con la parabola dell’amico importuno (Lc 11,5-8) e mette in evidenza la potenza della preghiera di petizione esprimendo la conclusione come una deduzione da una cosa più piccola a una più grande. Il pensiero fondamentale della parabola è questo: i discepoli devono pregare sempre e non devono scoraggiarsi se l’esaudimento delle loro preghiere si fa attendere. L’insegnamento centrale, che Gesù stesso esprime con il «sempre» significa: per qualsiasi cosa vi stia a cuore: «non stancarsi» significa di conseguenza non mai dubitare della forza della preghiera. A mettere in evidenza questo insegnamento serve un caso preso dalla vita umana; una vedova (che già nell’antico Testamento era l’immagine di una persona indifesa e debole) sta di fronte a un giudice iniquo e lo vince con la sua ostinazione; la figura del giudice qui delineata non è un caso di eccezione, ma il tipo frequente, forse normale, del giudice cui erano abituati a quel tempo; la vedova si trova implicata in un processo e chiede al giudice una sentenza con cui le venga resa giustizia: il giudice non pensa di accondiscendere alla preghiera di una persona sola e debole; il suo soliloquio svela i suoi sentimenti; egli però risolve alla fine di esaudirla non per un senso di giustizia ma unicamente perché l’insistere di lei nel pregare, gli da noia e fastidio: «poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi » (Lc 18,4-5).

     Secondo l’insegnamento finale: «E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente». (Lc 18,7-8), insegnamento che opera la deduzione dal più piccolo al più grande, cioè dal giudice iniquo a Dio, il personaggio principale della parabola non è la vedova orante, che stanca il giudice, ma il giudice stesso. Egli viene paragonato a Dio. Il punto culminante della parabola non sta nella ostinazione della preghiera, ma nella certezza dell’esaudimento. Non viene detto come dobbiamo comportarci nella preghiera di petizione nei confronti di Dio, ma come Dio si comporta di fronte alle nostre preghiere. Se già un uomo cattivo come il giudice per semplice egoismo si lascia indurre dalla domanda di una povera donna indifesa ad aiutarla, quanto più Dio esaudirà le grida di implorazione dei suoi eletti. L’esitazione di Dio è apparente; egli non lascerà mancare il suo aiuto; egli farà giustizia nel senso che ascolterà le preghiere dei suoi. Dio non può restare sordo di fronte alla domanda insistente dei suoi figli e può dare solo cose buone.

     Il detto finale: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8) è una affermazione a se stante, non collegata con il racconto della parabola: esso presenta l’apostasia che deve verificarsi negli ultimi tempi, è tema classico della apocalittica (cf. 2 Ts 2,3; Mt 24,10-12).

 

Meditazione 

La preghiera come lotta e intercessione (I lettura); la preghiera insistente e che non viene meno (vangelo): questo il tema che unisce prima lettura e vangelo. La preghiera non come opera di forti, ma di deboli: Mosè viene aiutato a sostenere le sue braccia stese nella preghiera; nel vangelo è una povera vedova che si fa soggetto di una preghiera insistente. Deboli resi forti dalla fede e che perseverano nella preghiera. La perseveranza come elemento di verità della preghiera e la preghiera come autentificazione della fede sono altri elementi che arricchiscono la catechesi sulla preghiera contenuta nei testi biblici di questa domenica.

L’immagine di Mosè con le mani tese verso l’alto nello sforzo dell’intercessione, aiutato da due uomini che sostengono le sue braccia che diventano sempre più pesanti con il passare del tempo, è una bella immagine della fatica della preghiera. La preghiera è uno sforzo, è lavoro, e come ogni lavoro è faticoso, per il corpo come per lo spirito. Ma quella immagine indica anche un aspetto della dimensione comunitaria della preghiera. La comunità cristiana non è solo il luogo in cui si è chiamati a pregare gli uni per gli altri, a intercedere, ma anche a porsi a servizio della preghiera dell’altro. Sostenersi e incoraggiarsi nella fede e nella preghiera, è compito richiesto ai credenti nella comunità cristiana.

Un aspetto di questa difficoltà della preghiera è il suo divenire quotidiana, il suo essere perseverante, il suo non venire meno. Aspetto espresso nella parabola evangelica (Lc 18,1 ). La preoccupazione di insistere sulla necessità di pregare sempre, senza tralasciare, è rivelatrice della situazione della comunità cristiana a cui si rivolge Luca: una comunità in cui è ormai presente il fenomeno del rilassamento della fede e della preghiera. A distanza di qualche decennio dagli eventi della vita di Gesù, la comunità conosce fenomeni di mondanizzazione della fede e di abbandono (cfr. Lc 8,13). Luca avverte: abbandonare la preghiera è l’anticamera dell’abbandono della fede. Il passare del tempo è la grande prova della fede e della preghiera. La preghiera insistente fa della fede una relazione quotidiana con il Signore. La fatica di perseverare nella preghiera è la fatica di dare del tempo alla preghiera. Pregare è dare la vita per il Signore. La preghiera comporta un confronto con la morte e per questo spesso ci risulta ostica: pregando, non «facciamo» nulla, non «produciamo», ci vediamo sterili e inefficaci. Ma essa è lo spazio e il tempo che noi predisponiamo affinché il Signore faccia qualcosa di noi.

Le parole di Gesù comportano anche un insegnamento sulla dimensione escatologica della preghiera. Alla domanda rivoltagli dai farisei «Quando verrà il Regno di Dio?» (Lc 17,20), Gesù ha risposto nel capitolo precedente (Lc 17,21-37), ma ora completa la sua risposta con una contro-domanda: «Il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Non si tratta di porre domande sulla venuta finale, ma di cogliere la venuta finale del Signore come domanda, e domanda che interpella i cristiani sulla fede. A noi che spesso ci chiediamo: «Dov’è Dio?», «Dov’è la promessa della venuta del Signore?» (2Pt 3,4), risponde il Signore che chiede conto a noi della nostra fede: «Dov’è la vostra fede?» (Lc 8,25). La venuta del Signore non è tema di astratte speculazioni teologiche, ma realtà di fede da viversi e sperimentarsi come attesa e desiderio nella preghiera.

La preghiera della vedova che chiede giustizia indica anche gli aspetti di audacia e di determinazione della preghiera. La preghiera non si vergogna di chiedere, non esita a insistere, non cessa di bussare, non teme di importunare. La preghiera esige coraggio. Il coraggio della fede che conduce a non lasciar perdere, a non tralasciare, a non dire: «Non serve a nulla».

Preghiera e fede stanno in un rapporto inscindibile: credere significa pregare. E se noi possiamo pregare solo grazie ad una fede viva, è anche vero che la nostra fede resta viva grazie alla preghiera.

 

Preghiere e racconti

La preghiera insistente del cristiano

«Attaccati alla preghiera di un povero e sarai unito a Dio» diceva un maestro di Israele. L’insegnamento sulla preghiera nei testi biblici di oggi è posto all’interno della prospettiva della parusia. La preghiera del cristiano si caratterizza come insistente. Se c’è una preghiera da fare nel momento del bisogno, c’è anche una preghiera da rivolgere in ogni tempo, e questa è la preghiera di fronte alla venuta del Signore. Il tempo dell’attesa deve spingere il discepolo non ad addormentarsi, ma a una veglia ancora più intensa. La donna del Vangelo è indifesa, debole, ma piena di intraprendenza e coraggio, di perseveranza e insistenza. «Il punto culminante della parabola non sta nell’ostinazione della preghiera, ma nella certezza dell’esaudimento» (J. Schmid). Pregare, dunque, per mantenere viva, anche di fronte al ritardo, l’attesa di Dio. Perseverare nella preghiera diventa un radicarsi in Cristo, rimanere «stabili» in lui lungo tutto il cammino della vita anche nell’ora in cui dobbiamo passare «per la valle oscura» del dolore e della prova.

Scriveva un giovane monaco: «Noi preghiamo per mettere una spina nel cuore di Dio. Noi, uomini della cocolla, ci confermiamo qui in rappresentanza degli altri uomini, di tutti. Per ridire chiaro al Signore, ora dopo ora: Vedi, Signore! Ti premiamo, ti sollecitiamo; alziamo la voce, la sommiamo; tempestiamo con le nocche la tua porta, non ti diamo tregua perché tu non perda mai l’entusiasmo della creazione, perché tu veda e provveda a tutti».

L’uomo di preghiera

«Tu farai un’autentica esperienza di Dio, o, più semplicemente, sei un uomo di preghiera quando possiedi il coraggio di gettarti, durante tutta la vita, in questo mistero silenzioso di Dio senza ricevere apparentemente altra risposta che la forza di credere, di operare, di amare Dio e i tuoi fratelli, e quando, in definitiva, continui a pregare».

(Jean Lafrance).

Comunità, «scuola di preghiera»

 «Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche “scuole” di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero “invaghimento” del cuore. Una preghiera intensa, dunque, che tuttavia non distoglie dall’impegno nella storia: aprendo il cuore all’amore di Dio, lo apre anche all’amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la storia secondo il disegno di Dio».

(Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, n. 33).

Cuore, labbra, mani

Metti, Signore, nei nostri cuori desideri che tu possa colmare.

Metti sulle nostre labbra preghiere che tu possa esaudire.

Metti nelle nostre opere atti che tu possa benedire.

(Liturgia mozarabica spagnola).

Pregare…

Hai un problema grandissimo?

Incomincia a pregare, a lodare Dio e ti accorgerai che quel problema diventerà sempre più piccolo, perché lo vedrai con gli occhi di Dio.

 

Perché pregare?

«Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere. Si, per vivere veramente, bisogna pregare. Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita. È solitudine vuota, è prigione e tristezza. Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall’amore. Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall’amore. Ora, l’amore nasce dall’incontro e vive dell’incontro con l’amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l’amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità. Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all’amore, sempre di nuovo. Perciò, chi prega vive nel tempo e per l’eternità. E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l’aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita.

Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? Ti rispondo: comincia a dare un po’ di tempo a Dio. All’inizio, l’importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente. Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti».

(Bruno Forte, Lettera sulla preghiera).

Le vere domande

«L’uomo si eleva verso Dio per mezzo delle domande che gli pone. Ecco il vero dialogo: l’uomo interroga e Dio risponde. Ma le sue risposte non si comprendono, non si possono comprendere perché vengono dal fondo dell’anima e vi rimangono fino alla morte. Le vere risposte, Eliezer, tu non le troverai che in te. E tu, Moshè, perché preghi?- gli domandai. Prego Dio di darmi la forza di potergli fare delle vere domande».

(Elie Wiesel, scrittore ebreo).

La preghiera

 “La preghiera è un bene sommo,

è una comunione intima con Dio,

deve venire dal cuore,

deve fiorire continuamente,

giorno e notte.

È luce dell’anima,

vera conoscenza di Dio,

mediatrice tra Dio e l’uomo;

è un desiderare Dio,

è un amore ineffabile

prodotto dalla grazia divina”.

(San Giovanni Crisostomo)

 

Gioia, preghiera, ringraziamento e carità

Ci hai esortato alla gioia, Signore: «State lieti, sempre». Anzi, ci hai insegnato le parole per dire la gioia: «Io esulto e gioisco nel Signore, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza». Fa’ di me, o Signore, un cristiano lieto: lieto come Giovanni nel vedere la luce che già viene, nel sentirsi voce al servizio della Parola; lieto come il profeta, nel sapersi riempito del tuo Spirito di santità; lieto come Maria nel riconoscere e magnificare quello che tu hai già compiuto per me e in me.

Ci hai esortato alla preghiera, Signore: «Pregate incessantemente». Mi sembra quasi impossibile: abituato a separare preghiera e lavoro, penso sempre che la preghiera si possa fare solo stando in ginocchio. Eppure lo so che sei continuamente presente, a condividere le mie giornate e il mio lavoro. Sei tu, anzi, che mi vuoi santificare «fino alla perfezione», tu che guidi i miei passi incerti sul sentiero della santità. Insegnami a vivere costantemente alla tua presenza, a fare ogni cosa per amore tuo.

Ci hai esortato al ringraziamento, Signore: «In ogni cosa rendete grazie». Nell’eucaristia ci unisci al tuo ringraziamento. Fa’ che non mi limiti a pronunciare parole di riconoscenza, magari stanche e convenzionali, ma a dire grazie al Padre testimoniando il suo amore, nel servizio concreto del prossimo.

Vieni, Spirito Santo, diventa in noi gioia, preghiera, ringraziamento, carità.

Aiutami a pregare

Signore, tu conosci tutto di me,

quello che voglio e quello che faccio;

conosci il mio bisogno di amicizia e di bontà,

di speranza e di verità.

Signore, ho voglia di pregare

perché tu me lo hai insegnato,

perché chi prega riceve la tua fortezza.

Aiutami a pregare

col cuore e con le parole,

di giorno e di notte.

da solo e con gli altri.

Insegnami a pregare per dirti grazie,

per crescere nella fede,

per camminare nella speranza.

per vivere la carità.

Signore, ti ringrazio perché,

quando penso a qualcosa di grande, penso a te;

quando mi sento vuoto, vengo da te;

quando prego, riesco a vivere come piace a te.

Signore, ti prego per quelli che sono soli,

per quelli che nessuno vuole.

Ti prego perché tu sei sempre

la forza dei deboli,

la speranza dei poveri,

la salvezza dei peccatori.

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXIX DOM TEMP ORD (C)

XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 2 Re 5,14-17

In quei giorni, Naamàn [, il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra]. Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore». 

 

 È in questa linea che si muove la narrazione ripresa dal secondo libro dei Re (5,14-17). Essendo stato colpito dalla lebbra, Naaman, «il comandante dell’esercito del re di Aram» (5,1), sente dire da una giovinetta ebrea, rapita e deportata in Siria a servizio della moglie del generale, che in Israele c’è un profeta, Eliseo, che fa miracoli e può guarire anche dalla lebbra. Se nonché, il profeta gli ordina di bagnarsi sette volte nel Giordano per ottenere la guarigione. Il generale stenta a credere tutto questo: ma alla fine obbedisce e viene guarito. Per riconoscenza vuole offrire dei doni, che il profeta invece respinge, perché Dio soltanto può operare prodigi.           

     È a questo punto che Naaman il Siro si rende conto che solo il Dio di Israele, che il profeta ha invocato e di cui è come il portavoce, è il «vero Dio», e perciò chiede ad Eliseo il permesso di portare un «pezzo» di terra santa a Damasco per adorarvi l’unico Signore del cielo e della terra: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore» (5,17).

     Anche Gesù nella sinagoga di Nazaret, davanti all’indisposizione dei suoi concittadini che reclamavano da lui miracoli, quasi come segno di particolare «appartenenza», si riferirà a questo episodio per dire che ormai non ci sono più «stranieri» nel suo regno, che appartiene a tutti coloro che vorranno entrarvi per la fede in lui: «C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro» (Lc 4,27).

     Con Gesù, Figlio di Dio, incarnatosi nel seno di Maria e diventato uomo come tutti noi, ogni uomo è chiamato a salvezza, a prescindere dalla collocazione geografica o dell’appartenenza a qualsiasi gruppo umano: ormai, con la sua venuta in mezzo a noi, ogni «terra» è diventata sacra!

 

Seconda lettura: 2Timoteo 2,8-13

Figlio mio, ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;  se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.

 

Questo riferimento a Cristo, morto e risuscitato per la salvezza di tutti, è ribadito nel brano della 2a lettera a Timoteo (2,8-13), in cui Paolo esorta il suo discepolo ad essere coraggioso testimone dell’annuncio cristiano, anche se ciò dovesse comportare inimicizia, e perfino il carcere, come di fatto è capitato a lui: «ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore» (2,8-9).

     L’impedimento del carcere, però, non riuscirà a imprigionare la «parola» di Dio, non solo perché Paolo continuerà ad annunciarla anche in prigione, ma soprattutto perché nella sofferenza sarà anche più unito a Cristo, e così apporterà un suo particolare contributo all’opera di redenzione: «Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna» (2,9-10).

     Segue quindi un frammento di antico inno cristiano, in cui si esalta la comunanza di vita e di destino del credente con il suo Signore, per cui soltanto il nostro rinnegamento della salvezza, da lui apportataci, potrebbe portare anche lui a rinnegarci: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà...» (2,11-13).

     C’è un riecheggiamento palese, in questa ultima espressione, delle parole di Gesù: «Chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,33).

     Questo brano della 2a lettera a Timoteo non è soltanto un invito al coraggio dell’annuncio, sempre e dovunque, di fronte a chiunque, ma anche l’affermazione della nostra «intimità» con Cristo, per cui, se «partecipiamo» al suo destino di sofferenza, parteciperemo anche alla sua «gloria». Noi potremmo anche essere estranei a Dio, ma lui non è mai «estraneo» a nessuno di noi!

 

Vangelo: Luca 17,11-19

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.

Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

 

Esegesi 

Guarigione dei dieci lebbrosi.

     È quanto ci dice soprattutto il racconto evangelico (Lc 17,11-19), che ci descrive la guarigione dei dieci lebbrosi, di cui uno soltanto, e precisamente un samaritano, torna a «rendere grazie a Dio» per la salute riacquistata. Già precedentemente Luca aveva narrato la guarigione di un lebbroso (5,12-16), che ritroviamo anche negli altri Sinottici (Mc 1,40-45; Mt 8,1-4). Qui invece egli attinge a materiale proprio, e appunto per le «particolarità» con cui l’episodio viene narrato non può essere una rielaborazione del precedente racconto, come qualcuno ha ipotizzato.

     Le «particolarità» più significative sono le seguenti: a) Gesù si trova quasi alla fine del «viaggio» che lo porta a Gerusalemme, dove sarà drammaticamente respinto dal suo popolo, che era venuto a salvare; b) è un gruppo intero di lebbrosi (10) che si rivolge a lui per essere guarito e che la sciagura aveva come affratellato, senza distinzione né di razza né di religione, nonostante che Giudei e Samaritani non avessero «buone relazioni» fra di loro (cf. Gv 4,9); c) Gesù non tocca i lebbrosi per guarirli (cf. 5,13), ma, rispettando la legge mosaica (cf. Lev 13,4-5), a distanza comanda loro di «presentarsi ai sacerdoti» per la verifica della guarigione, che sola consentiva il normale rientro nella società: la guarigione avviene proprio lungo il loro viaggio verso Gerusalemme.

     — Solo il samaritano torna a «ringraziare».

     Ma a questo punto accade la cosa più inattesa di tutto l’episodio, che è anche la «punta» semantica di tutto il racconto: uno soltanto, e precisamente il samaritano, cioè lo «straniero», torna a ringraziare Gesù, nel quale ovviamente ha riconosciuto un inviato di Dio. È allora che Gesù esprime la sua amarezza per l’ingratitudine degli altri, che erano tutti ebrei: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (17,17-19).

     Qui la «salvezza» ovviamente è da intendere in senso più largo: non solo quella fisica, che avevano ricevuto anche gli altri, ma anche quella spirituale, che si ottiene appunto per la fede e che introduce nella comunità di Gesù, che è aperta a tutti e non solo ai Giudei.

     Anche altrove S. Luca dimostra simpatia per i Samaritani: si ricordi appunto la parabola del buon Samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita, ebrei, passati avanti senza curarsi di lui, si china sull’uomo ferito e lo aiuta con tutti i suoi mezzi, che Gesù porta ad esempio del vero amore del prossimo (cf. Lc 10,30-37).

     Come si vede, anche la parabola del buon Samaritano, in ultima analisi, vuol dire che la salvezza portata da Gesù non solo si allarga oltre i confini d’Israele, ma addirittura che i «lontani» sono talora più vicini a Dio di quelli che dovrebbero essergli più «prossimi».

 

Meditazione

     La prima lettura presenta la guarigione dalla lebbra dello straniero Nàaman ad opera del profeta Eliseo e il vangelo narra la guarigione, ad opera di Gesù, di dieci lebbrosi di cui uno solo, uno straniero (un samaritano), torna a ringraziarlo. Il tema dell’azione di grazie, della capacità eucaristica lega le due letture. Nàaman, che voleva sdebitarsi con Eliseo per la guarigione ottenuta e che incontra il rifiuto del profeta, ottiene un po’ di terra d’Israele per poter venerare il Signore, Dio d’Israele. La gratitudine appare così nella sua dimensione teologale. Il profeta scompare davanti al Signore, vero autore del beneficio, e Nàaman rivolge a Dio il suo ringraziamento. Anche il vangelo presenta la dimensione eucaristica della fede: il ringraziamento del samaritano a Gesù (Lc 17,16) esprime la sua fede (Lc 17,19).

     Il testo di 2Re mostra la difficoltà, soprattutto per un uomo importante, ricco e potente come Nàaman, di riconoscersi debitore: coprire di denaro e preziosi chi lo ha beneficato significherebbe «sdebitarsi», far divenire l’altro grato nei suoi confronti, e così non perdere la propria grandezza e la propria immagine di uomo che «non deve nulla a nessuno». La gratitudine è difficile e richiede la messa a morte del proprio narcisismo per entrare nel novero di coloro che si sanno graziati.

     La difficoltà del ringraziamento emerge anche dal vangelo: di dieci lebbrosi guariti, uno solo torna indietro per ringraziare Gesù. È colui che ha saputo vedersi guarito (Lc 17,15). Occorre il rispetto (nel senso etimologico di guardare indietro: respicere) per giungere al riconoscimento di ciò che è avvenuto e quindi alla riconoscenza, al ringraziamento. Il guardare indietro è anche lavoro di memoria e la memoria è costitutiva dell’eucaristia come del movimento umano della gratitudine: spesso ci rendiamo conto solo dopo molto tempo di ciò che dobbiamo a persone che abbiamo incontrato nel nostro passato e che hanno lasciato tracce importanti in noi.

     Il samaritano ha saputo vedersi guarito, dunque ha saputo prendere una distanza fra sé e sé e considerare ciò che è venuto a lui dal Signore. Allora è entrato nella salvezza ritornando indietro, cambiando strada, ovvero, immettendosi in un movimento di conversione. Ritornare da Gesù senza andare al tempio a farsi vedere dai sacerdoti perché venga verificata la guarigione, significa confessare che ormai la presenza di Dio ha trovato in Gesù il suo tempio, la sua manifestazione: è ringraziando Gesù che il samaritano rende gloria a Dio (Lc 17,18). E Gesù pronuncerà l’oracolo di salvezza nei suoi confronti: «Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato» (Lc 17,19). Il vero culto è nella relazione con il Signore Gesù: è davanti a lui che il samaritano si prostra e rende grazie.

     Le parole di Gesù sulla fede del samaritano significano che la salvezza è veramente tale se la si celebra: il dono di Dio è veramente accolto quando per esso si sa ringraziare, ovvero riconoscerne e confessarne l’origine. Solo nel ringraziamento il dono è riconosciuto come dono. Per questo il cuore del culto cristiano si chiama eucaristia: di fronte al dono di Dio non vi è altro da fare che entrare nel ringraziamento, divenire eucaristici (cfr. Col 3,15), vivere nel rendimento di grazie.

     Tutti guariti, uno solo salvato. Questa la situazione dei dieci lebbrosi che Gesù ha incontrato. Nella rivelazione biblica ed evangelica guarigione e salvezza sono spesso associati e la salvezza appare significata e anticipata dalla guarigione. Oggi, di fronte alla svalutazione culturale di una salvezza oltremondana, il rapporto salvezza-guarigione viene capovolto e la salvezza è declinata come dilatazione del sé qui e ora, guarigione di tutti gli aspetti fisici e psichici dell’esistenza per poter vivere una vita «espansa», «piena». Ma la riscoperta della dimensione terapeutica della fede non può scadere in asservimento dello spirituale ai bisogni dell’individuo e non può dimenticare la dimensione tragica dell’esistenza, il non-guarito, il malato fin dalla nascita, la sofferenza innocente, il male che non passa. Non può dimenticare la croce di Cristo.

 

Preghiere e racconti 

Un giorno San Francesco…

Un giorno mentre il giovane Francesco andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbatté in un lebbroso. Quell’incontro inaspettato lo riempì di orrore, ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare cavaliere di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e, mentre questo stendeva la mano come per ricevere l’elemosina, gli porse del denaro e lo baciò.

(Dalla Leggenda Maggiore).

I Samaritani e i lebbrosi

Oggi, non bisogna forse chiedersi chi sono coloro che abbiamo trasformato in samaritani e in lebbrosi? Nel nostro mondo lacerato, ma anche fra i nostri vicini, fra i nostri compagni di lavoro, forse nella nostra stessa famiglia? La domanda è urgente: si tratta di rispettare e di accogliere tutti gli uomini, si tratta di rispettare e di accogliere Dio.

(G. Bessière, Il fuoco che rinfresca)

I dieci lebbrosi

I dieci lebbrosi se ne vanno al calar del sole

tutti guariti, mostrandosi la pelle sana

liberati dall’immonda raganella

che faceva il deserto all’ingresso dei villaggi.

Uno solo si gira, inquieto di camminare

fra due ombre: una dietro di lui

come i nove compagni e l’altra

leggera, davanti a lui, già calante

come se il suo dorso restasse rischiarato

dall’oriente, lo sguardo intravisto

che li ha mandati pieni di speranza ai sacerdoti

– la Vita che si dona, dimenticata dalla vita

che segue e ricomincia. Dov’era il miracolo

prima del miracolo? Sono partiti così in fretta.

Gli altri nove sono lontano. Allora, lui decide

di risalire il fiume della strada.

(J.P. Lemaire, La rotta)

Grazie!

L’immagine che mai dimenticherò è la serie di donne che alle 6 del mattino trovo ad attendermi fuori della porta della mia stanza. Nessuna parla, nessuna mi guarda negli occhi. Con i loro bambini rachitici e senza più latte, sono lì ad aspettare. Se non dessi niente, se ne andrebbero via senza una parola. Nessuna chiede, è scontato il perché del loro essere lì. Devo capire e, se posso, aiutare! Una mamma mi mette in braccio il suo bambino dicendo che non vuole vederlo morire.

Con il raccolto di fine agosto la grande paura passa e la vita pian piano riprende normalmente.

Tutte, e sottolineo tutte, le donne che abbiamo aiutato sono tornate con un dono: chi una gallina, chi un gallo, chi un’anatra… Così la missione ha avuto finalmente il suo pollaio.

La sera, passeggiando in giro per la missione, rifletto sulla giornata trascorsa, mi fermo, guardo i polli, ripenso ai poveri di Fianga, ai poveri del mondo, che ogni giorno, in silenzio, tra le lacrime ma con grande dignità, sanno magistralmente dire grazie alla Vita!

(Saverio Fassina, in Piccole storie d’Africa. Da Fianga, nel Ciad).

Dire grazie

Tenerezza è dire grazie con la vita: e ringraziare è gioia perché è umile riconoscimento dell’essere amati.

(B. Forte)

Gesù l’ha denunciato

Gesù ha denunciato l’uomo che non ringrazia. Nel Vangelo di Luca (17,11) quando vide che dei dieci lebbrosi guariti ne era tornato uno solo a dire grazie, esclamò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?”.

“E gli altri nove dove sono?”. È pesante questa denuncia di Cristo. La percentuale di chi pensa e ringrazia sarà sempre così ridotta? L’uomo è proprio inguaribile nel suo egoismo? Abbiamo addosso la lebbra dell’ingratitudine.

Il Signore aspetta il nostro ringraziamento come logica dei fatti; se abbiamo ricevuto da Dio è logico che lo riconosciamo, se lo riconosciamo è logico che ci apriamo alla gratitudine. Il Signore non ha dato ai nove lebbrosi guariti un ordine, ma si attendeva che i nove guariti dessero un ordine a se stessi.

La gratitudine è la logica dell’intelligenza e del cuore retto. Chi capisce e ha il cuore retto non può fare a meno di ringraziare. Per questo non esiste un comando specifico per il ringraziamento, perché il comandamento deve partire dall’uomo; avrebbe senso la riconoscenza imposta?

“E gli altri nove dove sono?”. In quei nove ci siamo tutti, perché sono innumerevoli le nostre negligenze verso la bontà di Dio. Purtroppo in quei nove siamo presenti tutti, perché tutti siamo colpevoli di ingratitudine a Dio. L’uomo non riuscirà mai a stare al passo coi doni di Dio. I benefici di Dio sono più numerosi dell’arena del mare, sono innumerevoli come le gocce d’acqua dell’oceano.

Ma l’uomo deve almeno aprirsi al problema! Non lo risolverà, ma deve almeno capire che c’è!

“E gli altri nove dove sono?”. La denuncia amara di Cristo deve spingermi a rappresentare gli assenti. Quando avremo capito e saremo guariti dalla lebbra dell’ingratitudine, dovremo presentarci a Dio anche per i nostri fratelli che non capiranno mai e rappresentarli: “Signore, perdonali, perché non sanno quello che fanno; io sono qui a ringraziare anche per loro, dammi la capacità di poterli rappresentare sostituendomi ad essi…”.

(A. GASPARINO, Maestro insegnaci a pregare, Leumann (Torino), Elle Di Ci, 1993, 45-46).

Dire “grazie”

«”Grazie” è una parola di poche lettere, ma di molto peso: ingentilisce la terra e la profuma. Ringraziare è un verbo da ricuperare» (Pino Pellegrino). La fede dei lebbrosi del Vangelo è sufficiente per ottenere il miracolo della guarigione. Ma questo deve aumentarla. La fede del Samaritano è nuova e più profonda. Gli altri hanno ottenuto la guarigione, lui una fede accresciuta e approfondita che ottiene la salvezza. Questa fede è in qualche modo risposta alla domanda dei discepoli: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6; cf 27ª domenica). Come, dunque, chi è tornato indietro per rendere gloria a Dio e per benedirlo è stato veramente salvato, ha riconosciuto che in Gesù è Dio che agisce e salva; così solo chi è capace di «Eucaristia» (bene-dizione, rendimento di grazie), culmine e fonte di tutta l’attività della Chiesa, ha la «salvezza»: superamento del caos e accesso alla casa del senso. Il Samaritano guarito insegna a dire grazie. Niente ci è dovuto nel nostro rapporto con Dio. Come anche nel rapporto con i fratelli. «Tutto è grazia», dice Bernanos. E se tutto è grazia, solo chi sa dire «grazie» ha capito il suo posto e la sua strada. Nei nostri rapporti pensiamo sovente che tutto ci sia dovuto e facciamo fatica a dire «grazie», a utilizzare questa piccola forma di cortesia. «Il segreto del vivere spirituale è nella facoltà di lodare. La lode è il racconto dell’amore e precede la fede. Prima cantiamo e poi crediamo» (A.J. Heschel). Per chi legge il Vangelo non c’è niente di più impegnativo che dire «grazie». Dal profondo del cuore. È fare «Eucaristia». La lode è pura gratuità per il dono dell’esistenza. L’uomo è così restituito alla sua vocazione: «Misericordias Domini in aeternum cantabo!». «La riconoscenza – afferma un proverbio africano – è la memoria di cuore». È la capacità di ricordare e, pertanto, di amare. 

Grazie, Signore 

Signore, ti ringrazio perché mi hai messo al mondo:

aiutami perché la mia vita

possa impegnarla per dare gloria a te e ai miei fratelli.

Ti ringrazio per avermi concesso questo privilegio:

perché tra gli operai scelti, tu hai preso proprio me.

Mi hai chiamato per nome

perché io collabori con la tua opera di salvezza.

Grazie perché il mio letto di dolore è fontana di carità,

è sorgente di amore.

Di amore per te, anche di amore per tutti i fratelli.

Signore, io seguo te più da vicino, in modo più stretto.

Voglio vivere in un legame più forte

per poter essere più pronto a darti una mano,

più agile perché i miei piedi che annunciano la pace sui monti

possano essere salutati da chi sta a valle.

Concedimi il gaudio di lavorare in comunione

e inondami di tristezza ogni volta che, isolandomi dagli altri,

pretendo di fare la mia corsa da solo.

Salvami, Signore, dalla presunzione di sapere tutto.

Dall’arroganza di chi non ammette dubbi.

Dalla durezza di chi non tollera i ritardi.

Dal rigore di chi non perdona le debolezze.

Dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone.

Toccami il cuore e rendimi trasparente la vita,

perché le parole, quando veicolano la tua,

non suonino false sulle mie labbra.

(Don Tonino Bello)

Ascolta il tuo cuore

In quegli anni di sbandamento e di assenza di domicilio, ripresi a frequentare mia nonna. O meglio, fu lei, compresa finalmente la situazione, a venirmi incontro, cercando di stabilire un rapporto. Di relazioni affettive, però, ormai non volevo più sentir parlare, dunque dovette impegnarsi a fondo per riuscire ad aprire una breccia nel muro invalicabile che mi circondava. […] Eppure piano piano, giorno dopo giorno, con l’abilità di un cesellatore, riuscì a creare uno spiraglio per giungere al mio cuore.

Spesso mi sono chiesta come sia stato possibile per lei compiere questo miracolo, penso che nessun altro ci sarebbe riuscito. Non credo che il sangue e la parentela l’abbiano influenzata, così come lo spirito di maternità – vale a dire il sapersi prendere naturalmente cura dell’altro – che non le era mai veramente appartenuto. Mi confessò, infatti, di aver messo al mondo i suoi figli soltanto per consuetudine e non per una vera aspirazione.

Penso che quello che, alla fine, ci ha unite, sia stata la comune esigenza di raggiungere la verità nei rapporti. […] Aborriva come me il moralismo e, come me, detestava l’obbligo di volersi bene per pura convenzione. Non era la parentela a rendere necessario un rapporto, ma qualcosa di più profondo. Camminare verso la verità, nella verità. E camminare in quella direzione voleva dire una sola cosa: cancellare, giorno dopo giorno, la menzogna, la noia perpetua e falsificante dell’ovvietà delle parole già dette, dei pensieri già pensati. Voleva dire anche non avere alcun timore di entrare in una dimensione più profonda, quella dell’amore che niente pretende, niente separa, cieco davanti ogni forma di giudizio.

Alla nostra mente così piccola, così sempre desiderosa di distinguo, di separazioni, di cassetti ordinati in cui mettere le cose, di recinti in cui rinchiudere le persone, questo tipo di amore fa una paura tremenda perché, in qualche modo, si trasforma in una kenosis, in un vuoto.

Ma, a differenza del nulla a cui, fin dalla più tenera età, ero stata ammaestrata da mio padre – un nulla deserto, brullo, sterile, in cui l’unica forma di movimento era quello di qualche rotolo di spine o di qualche barattolo trascinato dal vento – il nulla propostomi da mia nonna, l’annullamento che veniva da Auschwitz e che, attraverso il suo corpo e le sue parole, era giunto fino a me, conteneva in sé il principio perpetuamente rigenerante della redenzione.

A questo principio ho dedicato le ultime righe di Và dove ti porta il cuore. “Stai ferma in silenzio e ascolta il tuo cuore…”

 

(Susanna TAMARO, Ogni angelo è tremendo, Bompiani, Milano, 2013, 199-201)

 

 

La sofferenza come maestra

Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore. Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita. Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono. Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo. Perciò sia ringraziato Iddio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male.

Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti. Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto. E Ciò significa che dobbiamo essere disposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi inclinazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla. 

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).

Dovremmo continuamente, incessantemente ringraziare

Noi riceviamo dalla grazia di Dio molti e svariati doni; in cambio di ciò che abbiamo ricevuto dobbiamo rendere grazie con la preghiera a chi ce li ha donati. Penso che anche se trascorressimo la nostra vita intera nel colloquio con Dio ringraziandolo e pregandolo, saremmo ancora lontani dal contraccambiarlo adeguatamente; ci troveremmo, in un certo senso, a non aver neppure cominciato a concepire il desiderio di ringraziarlo. Il tempo si divide in tre parti: passato, presente e futuro. In tutti e tre noi sperimentiamo la benevolenza del Signore. Se pensi al presente, sei in vita grazie al Signore. Se pensi al futuro, su di lui riposa la speranza di ciò che attendi. Se guardi al passato, non saresti in vita, se il Signore non ti avesse creato. Ti ha fatto il dono di ricevere vita da lui, e, una volta nato, ti è fatto il dono di avere in lui la vita e il movimento, come dice l’apostolo (cfr. At 17,28). Da questo stesso dono dipendono le tue speranze future. Nelle tue mani è soltanto il presente. Anche se tu non smettessi mai di ringraziare Dio, a stento potresti ringraziare per il tempo presente, ma non potresti mai rendere ciò che devi per il futuro o per il passato. Siamo ben lontani, del resto, dal rendere grazie secondo le nostre capacità! Non facciamo il possibile per ringraziare, non dico tutto il giorno, ma neppure una piccola parte del giorno, dedicandola a meditare le opere divine. Chi ha dispiegato la terra ai miei piedi? […] Chi ha dato a me, polvere senz’anima, vita e intelligenza? Chi ha plasmato me, che sono argilla a immagine di Dio? Chi ha restituito alla mia immagine alterata dal peccato il suo primitivo splendore? Chi riconduce alla primitiva beatitudine me che sono stato cacciato dal paradiso, allontanato dall’albero di vita, immerso nell’abisso dell’esistenza terrena? Non vi è chi comprenda (cfr. Rm 3,11), dice la Scrittura. Considerando queste cose, dovremmo continuamente, incessantemente ringraziare per tutta la nostra vita.

(GREGORIO DI NISSA, Sul Padre nostro 1, PG 44, 1124C-1125C).

Insegnaci a non amare solo noi stessi

Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama. Concedici la grazia di capire che in ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che pure sono tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo. Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo; e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo.

(Raoul Follereau)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

Messalino festivo dell’assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi si è adempiuta questa scrittura», Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXVIII DOM TEMP ORD (C)