IV DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: 1 Samuele 16,1.4.6-7.10-13

In quei giorni, il Signore disse a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re». Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato.

Quando fu entrato, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!». Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore».  Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto.  Disse il Signore: «Alzati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi.

 

Se la domanda centrale del Vangelo di oggi è: «Chi è Gesù?», questo brano di 1Samuele ne preannuncia già la risposta. Egli è il discendente di Davide, il germoglio che spunta dal tronco di Iesse, su cui, secondo Isaia, si posa lo Spirito del Signore (Is 11,2).

     Sappiamo che l’istituzione della regalità fu molto contrastata in Israele, perché sembrava contrapporsi alla fede del popolo eletto in JHWH come unico re e guida, che l’aveva liberato dalla schiavitù d’Egitto.

     Dio non si lascia condizionare dalle apparenze. Per la scelta di Saul erano state importanti alcune qualità: era «alto e bello; non c’era nessuno più bello di lui tra gli Israeliti; superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo» (1Sam 9,2). Davide invece era il più piccolo di otto fratelli. Dio sceglie la piccolezza, per fare cose grandi, «perché nessuno», dirà poi Paolo, «possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,28).

 

Seconda lettura: Efesini 5,8-14

Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità.

Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto in segreto [da coloro che disobbediscono a Dio] è vergognoso perfino parlare, mentre tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce. Per questo è detto: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà».

 

Il brano della lettera proposto dalla liturgia è preso dalla sua seconda parte parenetica, che segue la prima parte dottrinale interamente centrata sulla polarità Cristo-capo e chiesa suo corpo. Paolo propone un progetto di vita cristiana, conseguente all’inserimento del credente nel corpo di Cristo, che è la Chiesa. È all’uomo nuovo, la cui vita è fondata in Cristo risorto, che sono rivolte le parole di questa esortazione. E verso questo uomo nuovo, mentre usciva rinnovato dalle acque del battesimo, si dirigevano le parole di un inno battesimale citate da Paolo: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà» (v. 14). Il passaggio dall’incoscienza del sonno allo stato di veglia indica la trasformazione che il sacramento produce.

     Questo uomo nuovo ora è in grado non solo di dissociarsi dalle opere infruttuose delle tenebre, ma anche di smascherarle, perché ha discernimento, essendo illuminato dalla luce di Cristo, e a condannarle apertamente, perché è un uomo liberato dalla sua morte e risurrezione.

 

Vangelo: Giovanni 9,1-41 

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e lavati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».

Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco?

Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio

e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».

Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio!

Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».

 

Esegesi 

     Questo è il sesto miracolo narrato da Giovanni e appartiene al cosiddetto «libro dei segni» (Gv 1-12). La domanda che l’evangelista pone alla sua comunità e ai suoi avversari, i giudei della sinagoga della fine del primo secolo, è questa: «Chi è Gesù». Il contesto in cui avviene il miracolo è la festa ebraica delle Capanne, che cadeva tra la fine di settembre e la prima metà di ottobre. Era una festa in cui venivano richiamati i motivi dell’acqua e della luce. Siamo probabilmente nell’anno 29.

     L’episodio inizia con una domanda dei discepoli: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Nella risposta data da Gesù troviamo che non c’è consequenzialità tra malattia e peccato. Nella malattia, come sarà poi nella croce di Gesù, si manifesterà la gloria di Dio. Si tratta di un cieco nato, che mai aveva visto la luce, la cui vita era ristretta nel chiedere l’elemosina: dipendeva esclusivamente dalla compassione del prossimo. Gesù non gli da un’elemosina più abbondante del solito. Inizialmente sembra fare qualcosa di offensivo alla cecità del povero uomo: gli spalma sugli occhi del fango (anticamente si attribuiva alla saliva soprattutto se mescolata con la terra, una virtù terapeutica). Il cieco si sente sporco ed è costretto dai fatti e dalla parole di Gesù a scendere a lavarsi alla piscina di Siloe. Si lavò e riebbe la vista.

     Entrano allora in scena i farisei che negano risolutamente il miracolo, perché Gesù facendo del fango in giorno di sabato aveva violato il comando divino del riposo, dunque non poteva venire da Dio. Il comportamento poi dei genitori appare reticente, ma esprime bene la tensione tra i cristiani e la sinagoga alla fine del secolo I. Negli anni 80 d.C. si decretò infatti la scomunica per i giudeo-cristiani.

     Il guarito, scacciato dalla sinagoga e accolto da Gesù, lo riconosce come Figlio dell’uomo, cioè giudice escatologico del mondo e come Signore, cioè come Figlio di Dio. Gesù non gli restituisce solo la luce degli occhi ma anche quella della fede. I farisei, invece, sicuri di possedere la verità rifiutano di vedere fuori di sé per non porre in dubbio le proprie certezze. Nella loro scelta consapevole di scegliere le tenebre anziché la luce, si attua il giudizio di Dio, che li esclude dalla salvezza.

 

Meditazione 

     Al centro della quarta domenica di Quaresima vi è il tema dell’illuminazione, del passaggio dalle tenebre alla luce espresso nel vangelo dal racconto della guarigione dell’uomo cieco dalla nascita che acquista il senso di una pedagogia verso la fede cristologica. Nella seconda lettura il tema riveste valenza battesimale ed è colto nelle sue implicazioni etiche: l’illuminazione battesimale impegna a una vita di conversione («Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce»: Ef 5,8). In parallelo con questo annuncio la prima lettura presenta l’unzione regale di David da parte di Samuele: il gesto e le parole del profeta che consacrano il messia rinviano alle parole e ai gesti di Gesù, «luce del mondo» (Gv 9,5), che dona luce a chi è nelle tenebre con gesti e parole che evocano la dinamica sacramentale.

    Le tre letture pongono il problema del discernimento. Si tratta del difficile discernimento di Samuele per scegliere colui che Dio ha eletto tra i figli di Iesse. Per discernere occorre guardare come Dio stesso guarda, nella coscienza che se «l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1 Sam 16,7), o, come recita l’antica versione siriaca: «l’uomo guarda con gli occhi, il Signore guarda con il cuore». Nella seconda lettura il discernimento è richiesto al battezzato che, nella situazione in cui è «luce nel Signore», è chiamato a discernere ciò che è gradito a Dio (Ef 5,10-11). Il brano evangelico si apre con il diverso sguardo di Gesù e dei discepoli su un cieco, e prosegue con il percorso che porta il cieco guarito a discernere la vera qualità di Gesù e a confessare la fede in lui, mentre altri protagonisti dell’episodio si chiudono a tale discernimento e restano nella cecità spirituale (cfr. Gv 9,39-41).

    Nel vangelo, Gesù e i discepoli incontrano un uomo cieco, ma lo guardano con occhi molto diversi. Accecati da un assioma teologico che lega in modo automatico la malattia al peccato i discepoli vedono in lui un peccatore, mentre Gesù vede nella malattia di quell’uomo l’occasione del manifestarsi dell’azione di Dio. Stessa persona, sguardo diametralmente opposto. Chi vediamo vedendo un malato? Che cosa vediamo nella sofferenza dell’altro? Lo sguardo colpevolizzante dei discepoli si oppone allo sguardo di solidarietà di Gesù.

     Il testo si presenta come una iniziazione in cui l’uomo che era cieco ottiene la vista e giunge alla conoscenza dell’identità profonda di Gesù, una conoscenza che è anche una co-nascenza, una rinascita, la nascita a una vita completamente rinnovata dall’incontro con Gesù ed espressa dalla lapidaria confessione di fede: «Io credo, Signore» (Gv 9,38).

    Il gesto terapeutico attuato da Gesù sul cieco quando ha impastato del fango e l’ha spalmato sugli occhi dell’uomo (Gv 9,7), ricorda il gesto con cui Dio ha creato Adamo plasmandolo con polvere del suolo (Gen 2,7). La ri-creazione non ha nulla di magico o spiritualistico, ma ha una valenza umanissima e conduce colui che era solo oggetto di parole e giudizi altrui a divenire soggetto, ad assumere la propria vita, a prendere la parola e a rivendicare la propria identità: «Sono io» (Gv 9,9). Quel «sono io» è essenziale per poter giungere a proclamare nella libertà e con convinzione: «Io credo!». Divenire credenti non esime dal divenire uomini. Anzi, lo esige.

    Di fronte al cieco guarito una prima reazione è quella dei conoscenti che pongono domande, interrogano, ma non si interrogano, non pongono mai in questione se stessi e così restano alla superficie dell’evento (vv. 8-12). Vi è poi l’atteggiamento dei genitori che per paura non vanno oltre una banale e distaccata constatazione del fatto (vv. 18-23). Vi è il sapere teologico dei farisei, un sapere autosufficiente e impermeabile che diviene ottusità portandoli ad accusare Gesù (vv. 13-17) e lo stesso cieco guarito di essere peccatori (vv. 24-34) pur di non lasciarsi interpellare dall’evento straordinario. Chi è cieco e chi vede? Questa la domanda che il testo suscita. E questa la risposta: vede chi sa vedere la propria cecità e aprirsi all’azione sanante e illuminante di Cristo.

      

Preghiere e racconti 

Domenica «Laetare»

L’itinerario quaresimale che stiamo vivendo è un particolare tempo di grazia, durante il quale possiamo sperimentare il dono della benevolenza del Signore nei nostri confronti. La liturgia di questa domenica, denominata “Laetare”, invita a rallegrarci, a gioire, così come proclama l’antifona d’ingresso della celebrazione eucaristica: “Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione” (cfr Is 66,10-11). Qual è la ragione profonda di questa gioia? Ce lo dice il Vangelo odierno, nel quale Gesù guarisce un uomo cieco dalla nascita. La domanda che il Signore Gesù rivolge a colui che era stato cieco costituisce il culmine del racconto: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?” (Gv 9,35). Quell’uomo riconosce il segno operato da Gesù e passa dalla luce degli occhi alla luce della fede: “Credo, Signore!” (Gv 9,38). È da evidenziare come una persona semplice e sincera, in modo graduale, compie un cammino di fede: in un primo momento incontra Gesù come un “uomo” tra gli altri, poi lo considera un “profeta”, infine i suoi occhi si aprono e lo proclama “Signore”. In opposizione alla fede del cieco guarito vi è l’indurimento del cuore dei farisei che non vogliono accettare il miracolo, perché si rifiutano di accogliere Gesù come il Messia. La folla, invece, si sofferma a discutere sull’accaduto e resta distante e indifferente. Gli stessi genitori del cieco sono vinti dalla paura del giudizio degli altri. E noi, quale atteggiamento assumiamo di fronte a Gesù? Anche noi a causa del peccato di Adamo siamo nati “ciechi”, ma nel fonte battesimale siamo stati illuminati dalla grazia di Cristo. Il peccato aveva ferito l’umanità destinandola all’oscurità della morte, ma in Cristo risplende la novità della vita e la meta alla quale siamo chiamati. In Lui, rinvigoriti dallo Spirito Santo, riceviamo la forza per vincere il male e operare il bene. Infatti la vita cristiana è una continua conformazione a Cristo, immagine dell’uomo nuovo, per giungere alla piena comunione con Dio. Il Signore Gesù è “la luce del mondo” (Gv 8,12), perché in Lui “risplende la conoscenza della gloria di Dio” (2 Cor 4,6) che continua a rivelare nella complessa trama della storia quale sia il senso dell’esistenza umana. Nel rito del Battesimo, la consegna della candela, accesa al grande cero pasquale simbolo di Cristo Risorto, è un segno che aiuta a cogliere ciò che avviene nel Sacramento. Quando la nostra vita si lascia illuminare dal mistero di Cristo, sperimenta la gioia di essere liberata da tutto ciò che ne minaccia la piena realizzazione. In questi giorni che ci preparano alla Pasqua ravviviamo in noi il dono ricevuto nel Battesimo, quella fiamma che a volte rischia di essere soffocata. Alimentiamola con la preghiera e la carità verso il prossimo.

(LE PAROLE DEL PAPA BENEDETTO XVI ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 03.04.2011).

«Io sono la luce del mondo»

Nostro Signore ha detto: «Io sono la luce del mondo» […]. «Abbandona la tua luce che è in verità una tenebra, di fronte alla mia luce, ed è a me contraria; poiché Io sono la vera Luce, voglio darti, al posto delle tue tenebre, la mia luce eterna, affinché sia tua come mia; e con la mia luce ti darò il mio essere, la mia vita, la mia beatitudine e la mia gioia» […].

È da notare il modo e la via per giungere alla vera luce. È una vera rinunzia dell’uomo a se stesso e una pura, profonda ed esclusiva intenzione di amare Dio e non ciò che è proprio: desiderare unicamente l’onore e la gloria di Dio e riferire immediatamente a Dio tutte le cose, da qualunque parte provengano, e a lui riportarle senza alcun rigiro e mediazione; questa è la vera e retta via. Egli è la vera Luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Questa luce risplende nelle tenebre ma le tenebre non ricevettero la luce. Questa luce non la riceve nessuno, tranne i poveri in spirito e della propria volontà. Carissimi figli, mettete in opera tutto ciò che potete fare, spiritualmente e naturalmente, perché questa vera luce risplenda in voi e possiate gustarla. Chiedete agli amici di Dio che vi aiutino; attaccatevi a coloro che aderiscono a Dio, affinché vi attirino con loro a Dio.

Che ciò tocchi a tutti noi. Ci aiuti in ciò l’amabile Dio. Amen.

(GIOVANNI TAULERO, Sermone dal Vangelo di Giovanni per il lunedì prima della vigilia delle Palme, in Il fondo dell’anima, Casale Monf. 1997, 102-108, passim).

 

Il cieco nato

In questo luogo elevato del corpo, l’anima si sveglia

ecco il cieco nato che mi meraviglia

II giardino chiuso davanti a lui si è aperto

un ritmo nuovo si impone all’universo

Ristabiliamo gli esseri e le cose

nel loro candore nativo.

Propongo che camminiamo insieme sulle acque

che abbiamo l’ardire degli uccelli

che il nostro soffio sposando la terra

accenda un fuoco nuovo nelle nostre arterie

Non c’è nulla da temere Tutto è bello Aspetto

l’eternità promessa per l’istante

l’immensità appresa nei miei limiti

So il peso del mondo Gravito

attorno all’asse dove mi voleva la sorte

Sono appena nato Mi cerco ancora

ma sono al mio posto sovrano

Di un mondo nuovo di cui ho preso le redini.

(L. Wouters)

L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore (1 Sam 16,7)

La secolarità è il modo di essere dipendenti dalle reazioni del nostro ambiente. L’io secolare, il falso-io, è quello fabbricato – come dice Thomas Merton – dalle costrizioni sociali. ‘Costrittivo’ è certamente il migliore aggettivo per dire il falso io. Esso indica la necessità di continua e crescente affermazione. Chi sono io? Sono uno che piace, è lodato, ammirato, o che non piace, è odiato, disprezzato… La costrizione si manifesta nell’inconscia paura di fallire e nell’ossessivo desiderio di impedirlo, accumulando sempre di più le stesse cose: più  lavoro, più denaro, più amici.

Queste costrizioni stanno alla base di due dei principali nemici della vita spirituale: la collera e la cupidigia. Esse sono il lato interiore della vita secolare, i frutti acidi delle nostre dipendenze dal mondo.

(J.M. Nouwen, La via del cuore, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 93).

Primavera

Un giorno,un uomo non vedente stava seduto sui gradini di un edificio con un cappello ai suoi piedi ed un cartello recante la scritta:”Sono cieco, aiutatemi per favore”. Un pubblicitario che passeggiava lì vicino si fermò e notò che aveva solo pochi centesimi nel suo cappello. Si chinò e versò altre monete. Poi, senza chiedere il permesso dell’uomo, prese il cartello, lo girò e scrisse un’altra frase. Quello stesso pomeriggio il pubblicitario tornò dal non vedente e notò che il suo cappello era pieno di monete e banconote. Il non vedente riconobbe il passo dell’uomo: chiese se non fosse stato lui ad aver riscritto il suo cartello e cosa avesse scritto. Il pubblicitario rispose “Niente che non fosse vero – ho solo scritto il tuo cartello in maniera diversa”, sorrise e andò via. Il non vedente non seppe mai che sul suo cartello c’era scritto: “Oggi è primavera…ed io non la posso vedere”.

«Io credo, Signore!»

Eccoci, Signore Gesù, radiosa luce della gloria del Padre, ai tuoi piedi come ciechi ignari della loro infermità.

Guardaci, figlio di Davide, come hai guardato i tuoi, oppressi dal sonno, nella luce del Tabor.

Svegliaci, Signore Gesù, vero sole che mai tramonta, illuminaci e noi saremo raggianti.

Curaci, Signore Gesù con il tocco lieve del dito di Dio e con la Parola che apre occhi e cuore alla luce.

Mandaci, Signore Gesù, alla piscina perenne del lavacro di vita nuova.

Donaci tua Madre, Signore Gesù, la brocca d’oro per attingere acqua viva dalla fonte perenne del tuo cuore trafitto per noi sulla croce.

Custodiscici premuroso, Gesù, nella prova della fede che non risparmia nessuno, perché non ha risparmiato nemmeno Te, il Signore.

Rivelati, Signore Gesù, luce gioiosa dell’eterno giorno, mettendo sulle nostre labbra il grido del cieco sanato: «Io credo, Signore!».

Miracolo del cieco nato

Finché vivi sulla terra sei come uno con gli occhi bendati. Solo per la fede, sotto l’influsso del mio Spirito, puoi essere sensibile alla mia presenza, alla mia voce, al mio amore. Agisci come se mi vedessi, bello, affettuoso, amorevole come sono, eppure così mal compreso, così isolato e trascurato da molti esseri ai quali ho tanto donato e tanto sono disposto a perdonare. Ho un così grande rispetto delle vostre persone! Non voglio rovinare nulla. Per questo sono tanto paziente, pur essendo attento e sensibile al più piccolo gesto d’amore e di attenzione.

(G. Courtois, Quando il Maestro parla al cuore).

Settimana Santa

Signore Gesù Cristo, nell’oscurità della morte

Tu hai fatto che sorgesse una luce;

nell’abisso della solitudine più profonda

abita ormai per sempre la protezione potente

del tuo amore;

in mezzo al tuo nascondimento

possiamo cantare l’Alleluia dei salvati.

Concedici l’umile semplicità della fede,

che non si lascia fuorviare

quando tu chiami nelle ore del buio, dell’abbandono,

quando tutto sembra apparire problematico;

concedi in questo tempo nel quale attorno a te si combatte una lotta mortale,

luce sufficiente per non perderti;

luce sufficiente perché noi possiamo darne

a quanti ne hanno ancora più bisogno.

Fai brillare il mistero della tua gioia pasquale,

come aurora del mattino, nei nostri giorni,

concedici di poter essere veramente uomini pasquali

in mezzo al sabato della storia.

Concedici che attraverso i giorni luminosi ed oscuri

di questo tempo

possiamo sempre con animo lieto

trovarci in cammino verso la Tua gloria futura.

Amen

(J. Ratzinger).

Finché sono nel mondo, sono luce di questo mondo

Quanto sono sciocchi quei giudei che chiedono: «È lui che ha peccato o i suoi genitori?» (Gv 9,2) riconducendo le infermità del corpo alla responsabilità delle colpe. E perciò il Signore dice: «Non ha peccato né lui né i suoi genitori, ma ciò è accaduto perché in lui si manifestassero le opere di Dio» (Gv 9,3). Spetta infatti al Creatore, che è autore della natura, ridare forma a ciò che mancava alla natura. Perciò aggiunse: «Finché sono nel mondo, sono luce di questo mondo» ( Gv 9,5), cioè tutti quelli che sono ciechi possono vedere se mi chiedono la luce.

Accostatevi anche voi e ricevete la luce per poter vedere. […] Quanto al fatto che il Signore fece del fango e lo spalmò sugli occhi del cieco, che altro significa se non che si comportò così perché tu comprendessi che egli restituì la salute a quell’uomo spalmando del fango come aveva formato l’uomo dal fango e che la carne del nostro fango riceve la luce della vita eterna mediante i sacramenti del battesimo? Va’ anche tu alla piscina di Siloe, cioè a colui che è stato inviato dal Padre, come trovi scritto: «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha inviato» (Gv 7,16). Cristo ti lavi perché tu possa vedere. Vieni al battesimo, ormai il tempo è vicino. Vieni subito per poter dire anche tu: «Sono andato, mi sono lavato e ho cominciato a vedere» (Gv 9,11), per poter dire, come disse costui dopo che gli fu ridata la vista: «La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13,12). La cecità era notte. Era notte quando Giuda prese il boccone da Gesù e in lui entrò Satana. Era notte per Giuda dentro il quale vi era il diavolo. Era giorno per Giovanni che riposava sul petto di Gesù (cfr. Gv 13,21-30). Era giorno anche per Pietro quando vedeva la luce di Cristo sul monte (cfr. Mt 17,1-8); per gli altri era notte, ma per Pietro era giorno. Ma anche per Pietro era notte quando negava Cristo; il gallo cantò ed egli si mise a piangere (cfr. Mt 26,74-75) per emendare il suo errore. Infatti, ormai il giorno era vicino.

(AMBROGIO, Lettere 67,3.6-7, Opera omnia di sant’Ambrogio, pp. 190-192).

Chi aprirà i nostri occhi?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente chiusi

per evitare di vedere

la miseria agitarsi alla nostra porta?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente tappati

per evitare di guardare faccia a faccia

il prossimo che ci viene incontro?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente velati

per evitare di essere abbagliati

dalla presenza di Cristo

con il suo vangelo esigente?

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere lo Spirito di Dio

all’opera sui molteplici cantieri

dove l’umanità si rinnova?

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere il seme

che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata?

Preghiera

Dio onnipotente

la tua eterna parola è la vera luce

che illumina ogni uomo.

Guarisci la cecità dei nostri cuori,

perché possiamo discernere

che cosa è giusto

e amarti sinceramente.

(H.J.M. Nouwen, Preghiere dal silenzio, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 95).

 

Alle storie dell’Antico Testamento corrispondono quelle del Nuovo e in particolare le scene riguardanti i miracoli compiuti da Gesù durante il suo ministero pubblico. Il riquadro in cui è affrescato l’episodio della guarigione del cieco nato alla piscina di Siloe è suddiviso in due fotogrammi senza soluzione di continuità: da una parte troviamo Gesù seguito da due discepoli mentre con la mano destra tocca gli occhi del cieco appoggiato a un bastone. Gesù, “via, verità e vita”, “rivelatore del Padre”, “Sapienza eterna di Dio” e suo “esegeta”, tiene nella mano sinistra un rotolo e si protende verso il cieco perché possa ricevere il dono della luce della verità divina: Dio, infatti, nessuno lo ha mai visto, ma proprio il Figlio unigenito, che è Dio e che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (cf. Gv 1,18). Gesù è la luce del mondo, quella luce che brilla nelle tenebre (cf. Gv 1,5), chi segue lui non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita (cf. Gv 8,12).
Nella seconda parte della scena il cieco è presentato da solo mentre si lava alla piscina di Siloe raffigurata come una sorta di vasca battesimale su cui viene riversata dell’acqua viva da una sorgente posta in alto. Il significato della scena in cui si illustra l’itinerario battesimale di chi è chiamato a seguire Cristo sembra essere chiaro: il cieco è simbolo di chi è nel peccato e l’acqua rimanda al battesimo che è il sacramento che libera dalle tenebre del peccato e dell’ignoranza e rigenera a vita nuova rivelando la verità del vangelo e della salvezza.
«Ecco quindi il significato immediato del miracolo operato da Gesù: Egli è veramente Dio, il quale come può immediatamente dare la vista ad un cieco, così tanto più può dare la vista all’anima, può aprire gli occhi interiori perché conoscano le Verità supreme che riguardano la natura di Dio e il destino dell’uomo. Perciò la guarigione fisica del cieco, che è causa poi della sua fede, diventa un simbolo della conversione spirituale» (Giovanni Paolo II, 29-3-1981).

Lungo il cammino della Quaresima che conduce alla celebrazione della Pasqua di risurrezione, il credente è chiamato a riscoprire il proprio battesimo, a fare ritorno alla sorgente della luce e della vita nuova, tenendo bene in mente l’esortazione dell’apostolo: «Un tempo eravate tenebra ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce» (Ef 5,8). Vivere come “figli della luce” vuol dire non partecipare alle «opere infruttuose delle tenebre» (Ef 5,11) e cercare quanto è gradito al Signore (cf. Ef 5,10). Nella figura del cieco nato l’umanità intera riconosce se stessa nella sua ricerca della luce e della verità, come ci ricorda tra S. Agostino: «L’illuminazione del cieco è molto significativa. Il cieco nato rappresenta il genere umano, che fu colto dalla cecità nel primo uomo quando peccò. Come la cecità ebbe origine dall’infedeltà, così l’illuminazione nasce dalla fede» (Commento al Vangelo di Giovanni, 44).

 

l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

QUARESIMA IV DOMENICA DI QUARESIMA (A)

III DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Esodo 17,3-7

In quei giorni, il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?».  Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!».  Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà». Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?».

 

Il brano presenta la comunità israelitica nel deserto in cammino verso la terra promessa. Una marcia ardua, estenuante, per scarsità di cibo e penuria di acqua. Certo Dio aveva dato segni strepitosi della sua presenza e assistenza sia in Egitto che nel deserto (cap. 16: la manna e le quaglie); si poteva sempre sperare in un suo soccorso, ma l’uomo è a volte

più sensibile che intelligente, più diffidente che credente e tali si mostrano gli israeliti alla constatazione di non avere acqua da bere.

     La protesta contro Mosè, e quindi contro il Signore, è spontanea e immediata; ma anche la risposta di Dio è pronta e chiara. L’acqua non è fatta sgorgare dal terreno come sempre avviene, ma dal cuore della pietra, dalla roccia, perciò è un’acqua, più che miracolosa, misteriosa. L’autore ha voluto raccogliere il favore occasionale e tutti gli altri benefici che Israele ha ricevuto dal suo Dio, che il salmista chiama ripetutamente «mia fortezza, mia liberazione, mia rupe in cui trovo riparo, mio scudo e baluardo, mia potente salvezza» (Sl 18,3; cf. Sl 94,1).

     L’acqua in questo contesto è la bevanda essenziale dell’uomo senza la quale non riesce a sopravvivere, ma è anche il simbolo della grazia divina, della protezione che egli accorda agli uomini, al suo popolo, senza la quale la continuità nel bene non si realizza.

     L’uomo deve poggiare bene i piedi sulla terra ferma per sentirsi sicuro, ma il credente sa di appoggiarsi su basi ancor più solide, la fede in Dio. Per lo spirito la fede è come l’acqua per il corpo. Senza l’una o l’altra tutta la vita si spegne.

     Il problema non è l’acqua, ma se Dio è ancora al centro della propria vita (v. 7).

 

Seconda lettura: Romani 5,1-2.5-8

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.

La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per

mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

 

Paolo rassicura i cristiani di Roma che la loro salvezza conseguita attraverso il vangelo (1,16) non può essere più messa in dubbio o in pericolo. È il tema o la tesi di tutto lo scritto. La dimostrazione procede negativamente (né i pagani, né i giudei sono sulla via giusta: 1,18-3,20) e positivamente (3,21-31: ci si salva tramite la fede nella redenzione operata da Cristo). Il tutto è illustrato biblicamente con il richiamo alla giustificazione di Abramo, conseguita solo attraverso la fede (4,1-25).

     Il discorso del capitolo V è ripreso da capo per approfondimenti e sviluppi. Sono presentati i benefici della salvezza (5,1-11) e dichiarati sconfitti per sempre i suoi tradizionali nemici: il «peccato», la «morte», la «legge» (5,12-7,25).

     Il brano 5,1-11 si può ritenere centrale nella tematica della lettera. Esso elenca i benefici della salvezza cristiana, presenta lo «stato» dell’uomo nuovo rigenerato dalla fede in Cristo, che è adesione mentale a particolari verità, ma soprattutto conformità operativa a quanto Gesù ha fatto (cf. At 1,1; Lc 24,19).

     Paolo però da grande teologo dà molto peso alle basi teoriche della salvezza cristiana. Egli suppone con la comune tradizione biblica che l’uomo è un peccatore fin dalla nascita, quindi in disgrazia con Dio, per cui come prima cosa deve dimostrare che l’inimicizia con l’Altissimo è stata cancellata e che l’uomo ora si trova «in pace con Dio» (5,1).

     Questa riconciliazione è avvenuta in virtù dell’«azione redentiva» di Cristo che Dio ha costituito «strumento di espiazione» dei peccati dell’umanità di tutti tempi fino al momento presente (3,23-26).

     La morte di croce è il sacrificio di una nuova alleanza, cioè di una nuova, amichevole intesa tra Dio e gli uomini. Salvarsi è inserirsi nel processo che porta dal peccato alla comunione con Dio; è credere al valore propiziatorio della morte di Cristo e riceverne così i «frutti». È riconoscere che Dio è di nuovo amico dell’uomo, grazie all’immolazione che Gesù ha fatto della sua vita, per ristabilire l’ordine turbato dal peccato. Accettando questa impostazione, il credente ritrova la sicurezza, perciò la felicità, la gioia di sentirsi salvo, cioè in pace con la propria coscienza e con Dio. Ancor più egli si sente come inondato dall’amore di Dio che ha compiuto opere così insolite, il sacrificio dei figlio, per ridare la felicità all’uomo.

     Paolo è un dottore, bisognoso quindi di sistemazioni dottrinali, di concezioni logiche; forse per questo ha cercato di dare alla salvezza cristiana una spiegazione teorica più che storica.

     È certamente vero che l’uomo può diventare, diventa peccatore, ma si libera dal suo stato di colpa non tanto guardando alla morte di croce subita da Gesù Cristo o appropriandosi i suoi «meriti», di cui i vangeli non parlano, ma convertendosi dalla propria condotta iniqua verso le vie della giustizia e della santità. Non conta tanto pensare bene, quanto fare il bene.

     La fede non è avere idee esatte su Cristo o su Dio o sulla missione compiuta da Gesù, ma prendere sulle proprie spalle la sua stessa croce e portarla coraggiosamente per le stesse ragioni per cui l’ha portata lui, sostenere i diritti degli uomini, poveri, ammalati, sofferenti, peccatori, oltre che quelli di Dio. Solo vivendo e lottando per questa causa per cui egli è morto, ossia si è lasciato uccidere, l’uomo può dirsi un vero cristiano e trovarsi inondato da serenità e pace, perché la carità di Dio abita veramente in lui, perché è pervaso dall’amore per i fanciulli.

 

Vangelo: Giovanni 4,5-42

In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani.  Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».  Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai  avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».  Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».

In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcun gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica».

      Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo». 

 

Esegesi 

Il vangelo di Giovanni appare una comune narrazione, mentre in realtà è una trattazione teologico-apologetica.

     L’opera si apre con una duplice presentazione di Gesù: Logos incarnato (1,1-18) e Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (1,29). Dopo queste premesse Gesù apre la sua missione in Galilea, a Cana (2,1-12), quindi riparte ufficialmente da Gerusalemme, dal tempio (2,14-24). Da qui inizia ad avvicinare la gente: i giudei (Nicodemo: 3,1-21), i samaritani (4,1-42), i pagani (il funzionario regio: 4, 46-54).

     La donna che Gesù incontra al pozzo di Sicar è un individuo, ma più ancora una comunità, anch’essa palestinese, quindi di origine ebraica, ma che aveva subito contaminazione razziali e religiose da quando gli assiri avevano distrutto il regno del nord (722 a.C.), deportando gli abitanti e trapiantando sul posto colonie di pagani. Per di più risentiva dello scisma proclamato da Geroboamo a nome delle tribù del nord dal regno del sud o di Giuda (1Re 12,25-32). Per queste ragioni, ricorda la donna a Gesù, i giudei e i samaritani non familiarizzavano. Di fatti essi si attenevano solo o soprattutto al Pentateuco e non frequentavano il tempio di Gerusalemme, ma celebravano le loro liturgie sul Garizim.

     Gesù ha un messaggio per tutti i figli d’Israele, quindi anche per i samaritani. Intanto egli era un galileo, quindi in partenza non trovava disagio a incontrarsi con esponenti samaritani. Il difficile era far pervenire ad essi le sue proposte: la necessità di recedere dalle loro convinzioni e tradizioni. In tutti i modi, anche i samaritani rientrano nella cerchia dei suoi destinatari, per questo «deve» passare attraverso il loro territorio.

     L’incontro con la donna, simbolo della popolazione samaritana, avviene presso il pozzo di Giacobbe. Entrambi sono di fronte alla sorgente con lo stesso scopo: dissetarsi. Gesù è un missionario che passa da un villaggio all’altro; nessuna meraviglia che si stanchi e abbia sete. Ma l’acqua del pozzo diventa il pretesto di un’ampia discussione storico-teologica, ebraico-cristiana.

     La donna si sente interpellata («dammi da bere») ma sente anche offrirsi un’acqua diversa, «viva», capace di estinguere ben altra sete. Come il corpo, anche la mente, il cuore, possono trovarsi riarsi, addirittura inariditi, quindi nella necessità di venire rianimati, rivificati.

     Il dialogo si protrae per varie battute. La donna mette in risalto la grandezza del patriarca Giacobbe; Gesù non la smentisce. È il punto in cui le loro radici si incontrano. Solo fa osservare che l’acqua materiale non basta a calmare tutte le esigenze, i bisogni dell’uomo. Egli conosce un’altra acqua, che egli è in grado di offrire a chi gliene fa richiesta, che veramente estingue ogni sete. Nel seguito del vangelo Giovanni presenta Gesù e invita gli uditori ad accostarsi a lui e bere l’acqua che egli offriva. «Chi ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva scorreranno dal suo seno. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui» (7,37-38). In parole più semplici, Gesù propone alla donna e a tutti gli ascoltatori il suo messaggio di pace e di amore.

            La samaritana forse comincia a sospettare qualche secondo senso delle parole di Gesù, ma invece di chiedere opportune dilucidazioni cerca di evadere intavolando altri discorsi. Gesù la blocca una prima (4,17-18), una seconda (4,19-20), una terza volta. Ella si è accorta di essere entrata in una controversia troppo ardua; più che pensare a risolverla, subito ritiene che sia, meglio aspettare il messia che deve venire a rendere ragione di tutto. Vuoi fuggire ma Gesù le si pone davanti e la ferma con le parole: «Sono io, che parlo con te» (v. 26).                               

     L’evangelista non parla del processo di conversione che si è verificato nell’interlocutrice di Gesù; la mostra non solo convertita ma già apostola di Cristo (vv. 28-29). L’«anfora» con cui ella era venuta ad attingere l’acqua, rimane lì abbandonata; segno che il dono di Giacobbe non era così indispensabile soprattutto per chi ha ormai conosciuto e sperimentato l’acqua viva offerta dal Cristo.

     La conversione dei samaritani è immediata e entusiasta. E se la donna è stata il tramite della loro adesione al messia, la loro fede però non si basa sul suo racconto, su quanto ella dice, ma su quello che essi stessi hanno visto.

     In questa grande pagina piena di luce profetica l’unica ombra che offusca il quadro è il ridimensionamento della parte e della funzione della donna nella conversione dei suoi connazionali. I suoi discorsi sul messia sono ritenuti chiacchiere più che annunzi. Il termine lalian che l’evangelista adopera è intenzionale; denota «loquacità» quasi pettegolezzo; tutt’altro che ministero apostolico!

Meditazione

      Dopo la sintetica visione della storia di salvezza attraverso la memoria di Adamo e di Abramo nelle prime letture delle prime due domeniche di Quaresima del ciclo «A», le tre domeniche successive, con le immagini rispettivamente dell’acqua, della luce e della vita, presentano una tematica sacramentale legata all’iniziazione cristiana.

    Il dono dell’acqua nel deserto che placa la sete del popolo durante il cammino esodico è segno della sollecitudine di Dio (I lettura); nel vangelo la simbolica dell’acqua evoca l’azione dello Spirito e della Parola, cioè il dono di Dio (Gv 4,10) che apre la donna ad accogliere il dono della fede; il dono dello Spirito è segno dell’amore divino versato nel cuore dell’uomo (II lettura).

    Il vangelo interpella il credente sulla sete, sul desiderio che lo abita. E suggerisce che la nostra sete profonda è sete di incontro e di relazione. L’incontro tra Gesù e la samaritana inizia dall’atto con cui Gesù osa il suo bisogno di fronte a lei: «Dammi da bere» (Gv 4,7). L’incontro necessita del coraggio di chi si fa mendicante presentandosi all’altro nella propria povertà. La donna cerca di attingere acqua e Gesù le chiede di dargli da bere. Interrogando la domanda che Gesù le rivolge, la donna stessa giungerà a domandare: «Signore, dammi di quest’acqua» (Gv 4,15). Questa povertà condivisa diviene la base dell’incontro in verità. E ciò che disseta appare proprio l’incontro: in effetti, secondo il racconto, la donna non attingerà dal pozzo e Gesù non berrà l’acqua.

     L’incontro prende l’avvio da una pessima base di partenza: l’inimicizia categoriale. Di fronte, inizialmente, non vi sono due volti, due nomi, due biografie, due sofferenze, ma due categorie: un giudeo e una samaritana ( «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?»: Gv 4,9).

    Il coraggio del dialogo, dell’interporre una parola tra sé e la donna, consente l’inizio del cammino che condurrà all’incontro e che guiderà la donna alla fede. Lo stupore della donna («Come mai?») è il primissimo segno di un cammino della donna verso Gesù, ma che sarà anche verso se stessa, sarà cammino interiore, sarà coraggio di affrontare la propria verità profonda. «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice…» (Gv 4,10). Nessuno è solo appartenenza etnica o professione religiosa. Dalla polarità aggressiva e ostile «noi»-«voi» (Gv 4,20), occorre passare al coinvolgente «io»-«tu». Gesù arriverà a dirsi e a darsi con le parole: «Sono io, che parlo con te» (Gv 4,26). Gesù vince quelle barriere identitarie che gli uomini erigono e che, quando si sedimentano, diventano, da un lato, una seconda pelle, una sorta di identità aggiunta e, dall’altro, la lente (deformante) con cui guardiamo gli altri oggettivandoli nelle nostre definizioni e imprigionandoli nelle nostre categorie, identità non è un dato fisso, ma avviene e diviene nell’incontro con l’altro.           Momento importante nell’itinerario dell’incontro è quello in cui Gesù invita la donna a passare dalla domanda che lui le ha posto alla domanda che lui stesso è (Gv 4,10). Il vero dialogo non impone, ma suscita e accresce l’interesse reciproco. E si nutre di domande sempre nuove piuttosto che di risposte nette e definitive. Il testo presenta una pedagogia verso la fede in cui la donna riconosce Gesù come profeta (v. 19) e messia (vv. 25-26.29) e quindi diventa apostola, annunciatrice di Gesù salvatore del mondo (vv. 28-30.39-42). La donna diviene credente ed evangelizzatrice. Ma il cammino del riconoscimento di Gesù quale Signore implica un contemporaneo cammino di conoscenza di sé in cui anche gli aspetti moralmente più problematici, quelli che normalmente una persona ha difficoltà a confessare a se stessa, sono riconosciuti. Solo così l’incontro avviene nella verità. Culmine di questo incontro nella verità è il momento in cui la donna riceve da Gesù il racconto di tutto ciò che lei ha fatto (v. 29). Il racconto che lei nascondeva per vergogna a se stessa, le è ora fatto da un altro che la accoglie e non la giudica, e così la conduce ad accettarsi e a conoscersi davanti a Gesù.

 

Preghiere e racconti

L’acqua della Vita

«Come la cerva assetata cerca un corso d’acqua, anch’io vado in cerca di te, mio Dio.

Di te ho sete, o Dio vivente» (cf Sal 42).

In questa icona composita vediamo Mosè nel deserto: egli ha lasciato a valle il popolo assetato per salire sul monte a chiedere a Dio l’acqua che rigenera. La mano del Padre lo benedice e gli assicura che non abbandonerà il popolo che ha fatto uscire dall’Egitto. L’Amore misericordioso di Dio lo protegge e lo guida nel cammino verso la Terra Promessa. Dall’acqua viva che scaturisce dalla roccia emerge un «pesce» che è simbolo di Gesù Cristo.

Nell’altra parte dell’icona, la donna samaritana va al pozzo per dissetarsi: lì incontra Gesù che l’aspetta e che le offre l’acqua che toglie la sete in eterno.

Nella composizione è la stessa acqua del deserto che lambisce il pozzo di Giacobbe e alla quale noi oggi possiamo attingere per la pienezza della nostra vita.

Anche il gregge si disseta alla medesima acqua che salva. Sulla roccia c’è un libro aperto da leggere e le chiavi per entrare nella casa del Padre: il Libro dei Vangeli allude alla predicazione dell’apostolo Paolo, mentre le chiavi del Regno ci ricordano l’apostolo Pietro e la sua professione di fede a Cesarea.

Bere l’acqua della roccia

è dissetarsi alla sorgente

del tuo amore puro…

Non sono i beni terreni

a estinguere la sete.

Tu,

Signore mio,

mio Cristo,

sei il Bene

che l’anima mia desidera,

acqua viva,

cascata di gioia,

sete

appagata da un Amore

a lungo sognato.

Percorri tutta la Scrittura in cerca di pozzi

I patriarchi hanno avuto i loro pozzi: certamente Abramo e Isacco ma penso anche Giacobbe. Parti da questi pozzi, percorri tutta la Scrittura in cerca di pozzi e arriva ai Vangeli. Troverai quello accanto al quale nostro Signore si riposava dopo le fatiche del viaggio, quando giunse una donna samaritana ad attingervi acqua Allora egli spiega quali sono le virtù del pozzo – o dei pozzi- nelle Scritture e, comparando le diverse acque, rivela i segreti del mistero divino. Si dice, infatti, che se uno beve delle acque fornite dal pozzo terrestre avrà ancora sete, ma in chi avrà bevuto delle acque date da Gesù scaturirà una «sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». In un altro passo del Vangelo, non si tratta più di sorgente o di pozzi, ma di qualcosa di più importante. Dice la Scrittura: «Chi crede in me… fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Vedi quindi: colui che crede in lui possiede ben più di sorgenti, di fiumi; possiede sorgenti e fiumi che non alleviano questa vita mortale, ma procurano quella eterna.

(Origene, Omelia sui pozzi di Giacobbe, in Dodicesima omelia sul libro dei Numeri).

Venite a vedere quest’uomo

Dicendole il fatto suo, gli altri non facevano che schiacciare la donna samaritana. Gesù, dicendole ciò che ha fatto, la solleva. Dicendole il male che ha fatto, la libera da esso, lo separa da lei. Glielo prende e lo getta lontano da lei nell’oceano del perdono di Dio. Invece del fardello pesante del suo peccato, ecco il fardello leggero del perdono del suo peccato. Strano fardello, che la sostiene, la fa correre verso la gente del villaggio. Dimentica persino la brocca! La brocca può aspettare! Tutto può aspettare, eccetto la predicazione, la diffusione della notizia: Venite a vedere! venite a vedere quest’uomo che mi ha detto tutto ciò che ho fatto! Non sarebbe il Cristo!

(Th. Riebel, Le trombe di Gerico).

La primavera si annuncia

A metà Quaresima, ho preso coscienza che la Pasqua sta venendo di nuovo: i giorni sono diventati più lunghi, la neve si sta ritirando, il sole porta nuovo calore e si sente il canto di un uccello.

Ieri, durante le preghiere della sera, un gatto stava miagolando! È vero: la primavera si annuncia. E stasera, o Signore, ho ascoltato le parole che hai detto alla Samaritana: «Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». Che parole! Meritano molte ore, molti giorni e settimane di riflessione.

Le porterò con me nella mia preparazione alla Pasqua. L’acqua che tu dai diventa sorgente che zampilla. Quindi, o Signore, non devo essere avaro con i tuoi doni. Posso liberamente lasciare che l’acqua sgorghi da dentro me e che chiunque lo desideri ne beva. Forse addirittura vedrò questa sorgente in me quando gli altri verranno a essa per estinguere la loro sete.

(H.J.M. NOUWEN, Preghiere dal silenzio, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 70-71).

I veri conoscitori e adoratori di Dio si riconoscono dalle mani

Ci sono mani violente che stringono la verità di Dio, indurita come fosse una pietra, e sono pronte a scagliartela in faccia, come hanno tentato di fare con Gesù. Sono le mani degli integralisti, dei fondamentalisti, degli intolleranti, dei fanatici, di tutti coloro che sequestrano Dio dentro le loro piccole chiese, dentro le loro strutture religiose, dentro l’orgoglio di poter dire come i Giudei:”Noi sappiamo”, mentre non sanno che quanto più parlano di Dio, tanto più lo fanno odiare. E ci sono altre mani che esprimono la più pura teologia: sono mani che pregano, che stringono altre mani, che accarezzano volti di amici, che compiono gesti di pietà su chi soffre, che chiudono con immensa tenerezza gli occhi di chi muore. E’ attraverso questi gesti che si rivela la verità più profonda su Dio. Vogliamo conoscere il nostro rapporto con Dio? Soffermiamoci qualche volta a osservare le nostre mani per vedere di che cosa sono capaci. La vera teologia non ha la freddezza dei concetti che possono diventare pietre in mani altrettanto fredde, ma ha il calore delle mani che si aprono nel gesto di ricevere e di donare amicizia.

(Luigi Pozzoli, L’acqua che io vi darò).

La vecchia fontana

La vecchia fontana del villaggio, tronco secolare di larice, scavato, trasportato e sistemato a “corvé”, era un po’ il cuore ed il centro del villaggio. Là andavano tutti: ad attingere acqua, le mucche a bere, le donne a lavare. “Vado all’acqua”, diceva il bambino ed aveva la scusa per andare a giocare. “Vado a prendere un secchio d’acqua”, ripetevano i giovani per poter godere di un fugace incontro d’amore. “Mi occorre acqua”, si diceva il vecchietto desideroso di un saluto o di un incontro. A volte, perché no? Alla fontana, nascevano tentazioni ed occasioni di… lavare i panni propri e altrui, perché, si sa, nel villaggio, tutto è di tutti. Ora? L’acqua giunge nelle case; la fontana sembra soffrirne, la terra s’accumula sul fondo, qua e là il tronco comincia a marcire, l’acqua si copre di muschio verdastro. Poche sono le mucche che vanno ad abbeverarsi mattina e sera, la vecchia fontana però, come sempre, ancora ripete a tutti, col suo canto continuo: dona, dona ciò che puoi e che hai, con perseveranza, con generosità, senza far distinzioni e donalo soprattutto con gioia e serenità. D’estate come d’inverno, al mattino come alla sera, dona e canta!

(Gianfranco Bini, Lassù gli ultimi, Champocher, 2001).

Sorgente

La sorgente che sgorga dal profondo

della roccia sulla montagna

non si secca mai.

Ma noi camminiamo

a malavoglia,

e ci lamentiamo per la sete.

Cammina, se vuoi bere.

Il pozzo è vicino alla strada,

ma qui attingerà per noi

l’acqua che ci toglie     

la fatica e la sete?    

Di’ che vuoi bere.    

Gesù ci aspetta     

sulla montagna.     

Una donna ci accoglie  

al bordo del pozzo.    

E beviamo alla sorgente  

di acqua viva,        

attingiamo nel profondo

della vita.

Felicità che ristora.

La Samaritana (Gv 4, 5-23)

La sete terrestre è inevitabile, ma è anche relativamente facile da estinguere. Resta all’esterno dell’uomo, un semplice segno di altri tipi di sete che dormono nella sua profondità. Come la Samaritana, l’uomo li ignora finche Gesù in persona non viene a risvegliarli.

Spesso, è sufficiente il semplice incontro con lui per renderli più profondi e ravvivarli ancora e, allo stesso tempo, per soddisfarli. Egli è al contempo la nostra sete ed il suo sollievo.

L’incontro con Cristo Gesù ha un qualcosa di definitivo, di eterno. Egli tocca il nostro desiderio profondo, che non esce mai indenne da questo contatto. Gesù accoglie tutti i nostri desideri e al tempo stesso li esaudisce.

(A. Louf, Beata debolezza, Anno A).

Lo spirito, l’acqua e il sangue

Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua (Ger 2,13).

Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza (Is 12 3). Nell’ultimo giorno il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamo ad alta voce: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui (Gv 7 37.39).

Uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua (Gv 19,34).

Tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi (1Gv 5,7-8).

È per te che Gesù si è stancato nel viaggio

«Gesù, dunque, stanco per il viaggio, sedeva sul pozzo. Era circa l’ora sesta» (Gv 4,6). Cominciano i misteri. Non invano si stanca Gesù, non invano si affatica la forza di Dio; non invano si stanca colui che, quando siamo affaticati, ci dona sollievo. Non invano si affatica il Signore: quando è lontano, ci sentiamo affaticati, quando è vicino ci sentiamo confermati. Gesù è stanco, stanco del viaggio e siede, siede vicino al pozzo ed è l’ora sesta quando, stanco, si mette a sedere. Tutto ciò vuoi suggerirci qualcosa, vuoi rivelarci qualcosa, richiama la nostra attenzione, ci invita a bussare. Ci apra lui stesso, a noi e a voi, quello stesso che si è degnato di esortarci dicendo: «Bussate e vi sarà aperto» (Mt 7,7). È per te che Gesù si è stancato nel viaggio. Troviamo Gesù pieno di forza e lo vediamo debole; Gesù è forte ed è debole, forte perché «in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio» ( Gv 1,1 ). Vuoi vedere com’è forte il Figlio di Dio? «Tutto è stato fatto per mezzo di lui e niente è stato fatto senza di lui» (Gv 1,3) e tutto senza fatica. Che cosa dunque è più forte di lui che ha fatto tutte le cose senza fatica? Vuoi conoscere la sua debolezza? «Il Verbo si è fatto carne e abitò fra di noi» (Gv 1,14). La forza di Cristo ti ha creato, la debolezza di Cristo ti ha ricreato. La forza di Cristo fece sì che esistesse ciò che non era, la debolezza di Cristo fece sì che non si perdesse ciò che era. Ci ha creati con la sua forza, ci ha cercato con la sua debolezza. Con la sua debolezza nutre i deboli come la gallina i suoi pulcini. Ad essa lui stesso si è paragonato: «Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli sotto le ali, come la gallina i suoi pulcini, e tu non hai voluto!» (Mt 23,37). […] Stanco per il cammino che altro significa se non affaticato nella carne? Gesù è debole nella carne ma tu non essere debole; sii forte nella sua debolezza perché «la debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1, 25).

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 15,6-7, in Opere di sant’Agostino XXXIV, pp. 350-352).

Il pozzo

Tu solo conosci il mio passo

sulle strade dell’uomo

io so che tu sei qui.

Lungo i giorni grinzosi

tu mi accompagni:

la tua luce improvvisa

alla svolta della montagna

e ogni sera del tempo

la tua ombra fedele

sull’orlo

del pozzo dove mi aspetti.

(J. Vuaillat, Cammini)

Preghiera

Aspettaci, Signore, al pozzo del convegno,

nell’ora provvidenziale che scocca per ognuno.

Presentati e parlaci per primo,

tu mendicante ricco dell’unica acqua viva.

Distoglici, pian piano, da tanti desideri,

da tanti amori effimeri che ancora ci trattengono.

Sciogli l’indifferenza, i pregiudizi, i dubbi e le paure, libera la fede.

Scava in noi il vuoto, riempilo di desiderio.

Fa’ emergere la sete, attraici con il tuo dono.

Dilata il nostro cuore, infiammane l’attesa.

Da’ nome a quella sete che dentro ci brucia,

senza che sappiamo chiamarla con il suo vero nome.

Riportaci in noi stessi,

nel centro più segreto dove nessun altro giunge.

Tra le dure pietre dell’orgoglio,

il fango dei compromessi,

la sabbia dei rimandi,

scava tu stesso un varco al tuo Santo Spirito.

 

Il dipinto del Tintoretto si concentra sulla sola figura del Cristo, appoggiato con il gomito sinistro al pozzo e proteso verso la figura della donna di Samaria la quale però non compare nel dipinto. La posizione di Cristo, l’espressione del suo volto e il suo sguardo rivelano che l’instante raffigurato dall’artista veneziano è quello in cui Gesù si rivolge alla donna per chiederle dell’acqua. Ogni osservatore può identificarsi con la donna del vangelo e riconoscersi come interlocutore del dialogo salvifico poiché «se c’è una sete fisica dell’acqua indispensabile per vivere su questa terra, vi è nell’uomo anche una sete spirituale che solo Dio può colmare. Questo traspare chiaramente dal dialogo tra Gesù e la donna venuta ad attingere acqua al pozzo di Giacobbe».

Lo diceva Benedetto XVI nel febbraio del 2008, e continuava: «Tutto inizia dalla domanda di Gesù: “Dammi da bere” (cf. Gv 4,5-7). Sembra a prima vista una semplice richiesta di un po’ d’acqua, in un mezzogiorno assolato. In realtà, con questa domanda rivolta per di più a una donna samaritana Gesù avvia nella sua interlocutrice un cammino interiore che fa emergere in lei il desiderio di qualcosa di più profondo». È vero, come scrive Sant’Agostino, che «Colui che domandava da bere, aveva sete della fede di quella donna» (Commento al Vangelo di Giovanni  XV,11).

Il vangelo ci introduce in un itinerario che ci porta a scoprire, in compagnia della donna di Samaria, l’acqua viva che estingue la sete per sempre. Lungo questo cammino che coinvolge tutti i credenti si realizza il passaggio da una fede personale alla fede testimoniale, tanto che la stessa Samaritana diviene testimone di Gesù il quale le aveva rivelato la sua identità messianica dicendole: «Sono io che ti parlo» (4,26). Dal dialogo e dall’ascolto della sua parola prende vita la conoscenza di Gesù. La fede, infatti, nasce dall’ascolto, e la fede della donna del vangelo è generata nell’incontro con Colui che le si è fatto incontro. Così come è avvenuto per la Samaritana al pozzo di Giacobbe, nel medesimo modo per ogni uomo chiamato alla fede, nel fonte battesimale ha inizio il cammino che conduce alla vita. È ancora Agostino che scrive: «Così era Gesù, debole e stanco per il cammino. Il suo cammino è la carne che per noi ha assunto. Perché, come potrebbe muoversi colui che è dovunque e che da nessuna parte è assente?
Se va, se viene, se viene a noi, è perché ha assunto la forma della carne visibile. Poiché dunque si è degnato di venire a noi apparendo in forma di servo per la carne assunta, questa stessa carne assunta è il suo cammino. Perciò stanco per il cammino, che altro significa se non affaticato nella carne?

Gesù è debole nella carne, ma tu non devi essere debole; dalla debolezza di lui devi attingere la forza, perché la debolezza di Dio è più forte degli uomini (1Cor 1,25)» (Commento al Vangelo di Giovanni XV,7). La sua debolezza è la forza della Chiesa della quale la Samaritana è figura, così come lo è, in definitiva, dell’umanità intera nella sua inarrestabile ricerca della verità.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» (2014).

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

PER L’APPROFONDIMENTO:

QUARESIMA III DOMENICA DI QUARESIMA (A)

I DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Genesi 2,7-9; 3,1-7

Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.

      Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. 

 

La pericope di Genesi, che la liturgia ci presenta come prima lettura in questa prima domenica di Quaresima, accosta due brani distinti quello della creazione dell’uomo con la sua collocazione nel giardino dell’Eden e quello della prima tentazione che riuscì ad ingannare l’uomo e la donna, che fungono insieme da «figura» al brano del Vangelo di Matteo. Gesù è tentato, come fin dall’origine furono tentati l’uomo e la donna: il Messia resiste alla tentazione e vince, mentre la coppia umana cede e soccombe.

     Il tentatore è sempre lo stesso: astuto, intelligente e furbo, capace di creare suggestioni e immaginazioni, abile artista e regista che pretende di dirigere il corso degli eventi.

     Due scene per due significati che si legano insieme. Nella prima la sottolineatura della condizione dell’uomo, in tutto dipendente da Dio (v.7a: «Il Signore Dio plasmò… »), fragile e debole (v. 7b: «… con polvere del suolo…»), ma in qualche modo partecipe della condizione divina (v. 7c: «…soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente… »); nella seconda il tragico racconto della tentazione e della caduta  con i tre protagonisti (serpente, donna, uomo) sui quali incombe, in modo possente, il giudizio tremendo di Dio.

     Spettacolare la presentazione del tentatore: una forza seduttrice che giunge all’uomo dall’esterno, una forza corruttrice e parlante, personale e bugiarda.

     Serpente antico, il tentatore manipola la parola di Dio: con un’esegesi distorta (3,1 c: «…Non dovete mangiare di alcun albero…») che riesce a sbilanciare la donna e a farla uscire fuori dal suo silenzio e ad accettare il dialogo che la porterà a cadere: con un’insinuazione sottile che getta ombra su Dio (3,5: «Anzi, Dio sa…»), quasi che il Creatore avesse timore e paura, e mette in crisi definitiva la donna.

     La donna cede convinta dal serpente; l’uomo cede avviato dalla donna: tutti e due peccano nel tentativo di realizzare la propria vita indipendentemente da Dio, nell’illusione di volersi ergere arbitri sul bene e sul male e nella vaga speranza di sentirsi padroni della propria e dell’altrui vita.

 

Seconda lettura: Romani 5,12-19  

Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato. Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.

      Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti  gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.

 

Cristo, contrapposto ad Adamo, ci ha procurato la giustizia di Dio liberandoci dal peccato e dalla morte. L’Apostolo Paolo presenta il doppio «destino» che spetta all’umanità: la «morte» o la «vita».

     Paolo dimostra che la salvezza è legata alla solidarietà a Cristo, alla sua obbedienza e al suo amore oblativo, presentando la sua argomentazione con il fenomeno letterario del parallelismo antitetico tra l’intervento di Adamo e quello di Cristo nella storia dell’umanità.

     Il richiamo di Adamo è però secondario per mettere in evidenza l’opera di salvezza portata da Cristo. È Cristo, infatti, il vero protagonista, è lui che costituisce il centro d’interesse. L’attenzione infatti è posta sull’azione liberatrice di Cristo, sulla sua obbedienza e sul suo «dono di grazia».

     L’efficacia positiva di Cristo supera di gran lunga quella negativa di Adamo. Non si tratta dunque di un vero e proprio parallelismo «reale», ma soltanto «formale» per fare risaltare il secondo termine di paragone che è Cristo!

     Paolo, inoltre, pone il parallelismo con lo schema «uno-tutto» dove, per il principio di solidarietà, l’azione di uno determina le scelte dell’umanità. Paolo, tuttavia, lascia intendere che l’uomo è libero di accettare o di rifiutare tale influsso e presenta il «destino» dell’uomo come azione della volontà e come scelta personale.

 

Vangelo: Matteo 4,1-11 

In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».

     Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

 

Esegesi 

     Il capitolo 4 del Vangelo di Matteo si apre con la scena delle tentazioni che Gesù subisce nel deserto ad opera del diavolo. Lo spirito del male è una creatura spirituale che combatte il disegno di Dio. La scena è costituita dalla successione di tre sequenze: il deserto, il tempio di Gerusalemme, un monte altissimo.

     Il testo è scandito da un triplice «allora» (vv. 5,10,11) in modo analogo al brano che precedeva il battesimo (3,5-15); il terzo introduce una conclusione che ricorda la fine del dialogo tra Giovanni e Gesù (3,15): «Allora il diavolo lo lasciò…» (v. 11), mentre il duplice «ed ecco» della scena del battesimo (3,16.17) viene qui ripreso come un’eco: «…ed ecco gli angeli gli si avvicinarono e lo servivano» (v. 11).                       

     La pericope si articola in diversi momenti: introduzione con presentazione dei personaggi fondamentali (vv. 1-2); racconto vero e proprio con le tre scene di tentazione (vv. 3-10); conclusione con il ritiro del tentatore e la presenza degli angeli (v. 11).

     Il deserto è convenzionalmente il luogo del ritiro, in cui l’uomo si pone di fronte alle scelte essenziali della vita. Come il popolo d’Israele matura la sua vocazione di popolo di Dio nel deserto, così Gesù, prima di iniziare la sua missione, va nel deserto. Il Signore, però, al contrario d’Israele vince la triplice tentazione dei beni materiali, del successo e del potere, tentazione nella quale era caduto l’uomo nel giardino dell’Eden (Gen 3 1-7): dove l’antico Israele soccombeva, colui che simboleggia il nuovo Israele resiste e vince.

     Le tre tentazioni conducono Gesù a rifiutare il potere temporale, il facile ricorso al miracolo e soprattutto la seduzione dell’idolatria.

     Gesù si distanzia energicamente da queste tre tentazioni rinunciando ad ogni costo a utilizzare la strada del potere, del prestigio e del facile miracolo. Lo testimoniano chiaramente anche gli altri Sinottici, lo ricorda lo stesso Giovanni (6.6).

     Altro dato fondamentale della pericope è lo stretto legame che intercorre tra la tentazione di Gesù e il Battesimo. È lo Spirito, disceso in occasione del Battesimo, che conduce Gesù nel deserto, per esservi tentato dal diavolo (4,1). La missione di Gesù viene caratterizzata fin dall’inizio dalla presenza ostile del demonio che sosterrà una lotta continua contro il Figlio di Dio in tutta l’area del suo ministero di prova: adempiere ogni giustizia (5,10) significa proprio vincere al male.

     La presentazione delle tentazioni è caratterizzata, intessuta e cadenzata dalle citazioni dell’Antico Testamento. Sembra chiaro che Matteo voglia presentare, in un contesto catechetico o meglio ancora liturgico, Gesù come colui al quale è ordinata l’intera storia d’Israele.

     Poiché Gesù colma l’attesa del suo popolo, egli assume tutte le dimensioni della sua storia e dal momento che egli adempie ogni giustizia realizzando il beneplacito del Padre, egli trionfa delle tentazioni alle quali in altri tempi il popolo ebreo aveva invece ceduto e, così, si rivela veramente come il figlio di Dio.

     Il tentatore eccelle nell’arte di abbellire le immagini e con pochi elementi egli abbozza un quadro grandioso: il pinnacolo del tempio che domina la città santa, le mura alte che cadono a picco, la presenza degli angeli invocati come possibili «aiutanti» celesti di Gesù… Come un regista esperto vuole far giocare a Gesù il ruolo del Messia trionfatore, che viene tra i suoi con potenza e che si manifesta al mondo intero con gesti altamente e chiaramente potenti. Ma ciò non si realizza!

     Nella prima tentazione Gesù rifiuta il ruolo messianico in un contesto spettacolare e prodigioso, ma lo vive nella fedeltà a Dio come ogni uomo giusto e credente. Nella seconda Gesù supera tutte le deformazioni religiose che hanno nella magia e nel miracolismo il loro modello. Nella terza tentazione Gesù mostra chiaramente come sia perversa e diabolica l’idea di una conquista e di un potere imperialistico in nome di Dio.

     È la triplice tentazione di Gesù: una tentazione che, al di là del tempo e del luogo circoscritto dall’evangelista, abbraccia e tocca tutta la vita del Messia, che diventa giorno per giorno tentazione e prova continua. Non si tratta della descrizione di un giorno di vita di Gesù, ma della riflessione completa sulla vita stessa di Gesù, rispecchiata, o meglio ancora anticipata, nel riassunto molto sintetico e schematico delle tre tentazioni.

 

Meditazione 

      Le letture del ciclo quaresimale «A» sono legate al catecumenato e all’iniziazione cristiana che culmina nel battesimo impartito nella notte pasquale. Nella prima domenica, ad Adamo che soccombe alla tentazione (I lettura) fa riscontro Gesù che vince la tentazione (vangelo) e offre a ogni cristiano la possibilità di fare delle proprie cadute l’occasione di conoscere la grazia di Dio (II lettura).

    Il binomio peccato-morte con cui Paolo interpreta la caduta primordiale si presta a una rilettura a partire dalla pagina genesiaca. La tentazione agisce interiormente all’uomo a partire dalla parola con cui Dio gli comanda di mangiare di tutto eccetto una sola cosa (Gen 2,16-17). In caso contrario, l’uomo incontrerà certamente la morte. La tentazione agisce nel cuore umano anzitutto come frustrazione («se sono privato di una cosa, sono privato di tutto»: Gen 3,1). La proibizione dell’unico frutto, più che il permesso-comando di mangiare tutto il resto, colpisce e ferisce la creatura che si vede attratta da ciò che è interdetto. E dalla potenza del desiderio essa si difende con interdetti ulteriori che inaspriscono il divieto divino: «Non lo dovete toccare» (Gen 3,3). E specifica: «altrimenti morirete» (Gen 3,3). La morte è già presente nel mondo, sta agendo nella mente e nel cuore della creatura umana e sta producendo paura. E proprio le parole che assicurano: «Non morirete affatto», vincono le resistenze della donna e la spingono alla trasgressione. Dunque: dalla morte viene il peccato, più ancora che il contrario. O meglio, dalla paura della morte. Il peccato fa leva sulla paura della morte. Noi pecchiamo e la diamo vinta alle tentazioni per illuderci di darci vita nella via del possesso, dell’abuso, dell’accumulo, del potere, del consumo… Ma l’esito di questo è mortifero e l’uomo si ritrova schiavo di ciò che l’ha vinto. Il Nuovo Testamento afferma che Cristo ha ridotto all’impotenza colui che della morte ha il potere, il diavolo, liberando così gli uomini che, per paura della morte, erano soggetti a schiavitù tutta la vita (Eb 2,14-15).

    Gesù attraversa la tentazione, non la rimuove. Cioè, egli accetta di misurarsi con essa in se stesso: non proietta l’immagine del nemico su realtà esterne, ma accetta che la potenza della tentazione si dispieghi nell’intimo, nel cuore. Solo chi vince la potenza del divisore in se stesso può cacciare i demoni dagli altri umani.

    La vittoria di Gesù è interiore e spirituale: egli vince ricordando la parola di Dio. E la parola ricordata gli fa ripercorrere il cammino del popolo dopo l’uscita dall’Egitto. Le tentazioni matteane riproducono il cammino di Israele nei quarant’anni nel deserto rinviando (attraverso le tre citazioni del Deuteronomio in bocca a Gesù) a tre episodi fondamentali dell’esodo: la manna e le quaglie (Es 16); Massa e Meriba (Es 17,1-7); il vitello d’oro (Es 32). Il ricordo della parola di Dio, la memoria Dei, è ciò che guida Gesù alla vittoria. E la memoria Dei non è semplice ricordo di frasi bibliche, ma evento spirituale che interiorizza la presenza di Dio nel cuore dell’uomo.

    Le tentazioni di Gesù non sono solo le tentazioni del miracolistico, del sacrale e del potere (o, rispettivamente, le tentazioni economica, religiosa, politica), ma qualcosa di ulteriore. Nella prima scena vi è anche la tentazione che nasce quando la nostra esperienza della realtà è l’esperienza di un deserto, di durezze pietrose, quando la realtà appare sterile, feconda solo di disillusioni e incapace di nutrire. Nella seconda scena si apre la via alla tentazione che nasce quando si è andati oltre le immagini idealizzate del sacro e del religioso, quando cioè le immagini gratificanti e consolatorie del divino sono crollate e lo spazio per Dio si restringe sempre più. E nella terza scena si dischiude la tentazione successiva alle illusioni del potere, della ricchezza, della gloria: quando cioè queste realtà svelano la loro inanità e nell’uomo può farsi strada il cinismo, la disillusione, magari il risentimento. Gesù passa attraverso tutto questo e ciò che rimane è un corpo spoglio che, nella nuda fede, ricorda e ripete la parola di Dio. È così nel deserto, sarà così sulla croce (Mt 27,46).

 

Preghiere e racconti 

La tentazione

Il deserto richiama alla mente un altro luogo dello Spirito: la tentazione. Non le nostre piccole tentazioni quotidiane, ma l’unica tentazione, la grande tentazione escatologica, quella degli ultimi giorni in cui già stiamo vivendo. Dobbiamo riconoscere questa tentazione in ogni cosa che ci accade, come nelle contraddizioni e nelle sofferenze che ci circondano. «Considerate perfetta letizia», dice san Giacomo all’inizio della sua Lettera, «quando subite ogni sorta di prove»; è per questo che siamo nel mondo… È nell’ora della tentazione che la testimonianza dello Spirito si fa chiara ed eloquente in noi, ed è nel pieno mezzo della tentazione che i cristiani si riconoscono fratelli. La tentazione ci pone davanti a Dio in modo completamente nuovo. Una breccia si apre in noi: ogni tentazione mette in discussione un certo numero di strutture  non solo ecclesiali, ma anche strutture della nostra intima personalità. Sconcertandoci e togliendoci il terreno da sotto i piedi, aprendo una breccia e smantellando qualcosa a cui siamo intimamente legati, la tentazione porta con se la possibilità di una ricca effusione della grazia, e può farci crescere nello Spirito santo. Se riusciamo ad accettare questo scombussolamento e a mostrarci in tutta la nostra debolezza e povertà, queste ultime verranno d’un tratto rimpiazzate e rilevate dalla potenza di Dio che dispiega tutta la sua forza nella nostra debolezza. È questa accettazione a costituire ciò che le Scritture chiamano hypomone: pazienza, perseveranza.

(A. Louf, La vita spirituale, Magnano (Biella), Edizioni Qiqajon/Comunità di Bose, 2001, pp. 9-20).

Antonio e i suoi compagni

Non è strano che Antonio e i monaci suoi compagni considerassero un disastro spirituale l’accettare passivamente i principi e i valori della loro società. Essi erano riusciti a capire quanto fosse difficile non solo per il singolo cristiano, ma anche per la chiesa stessa, resistere alle seducenti imposizioni del mondo. Quale fu la loro reazione? Fuggirono dalla nave che stava per affondare e nuotarono verso la vita. E il luogo della salvezza è chiamato deserto, il luogo della solitudine…

La solitudine è la fornace della trasformazione. Senza solitudine, rimaniamo vittime della nostra società e continuiamo a restare impigliati nelle illusioni del falso io. Anche Gesù è entrato in questa fornace. Fu tentato con le tre seduzioni del mondo: essere importante («trasforma le pietre in pane»), essere spettacolare («gettati dalla torre»), essere potente («ti darò tutti questi regni»). Gesù ha affermato Dio come unica sorgente della sua identità («Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto»). La solitudine è il luogo della grande lotta e del grande incontro – lotta contro le imposizioni del falso io e incontro con il Dio dell’amore che offre se stesso come sostanza del nuovo io.

(J.M. Nouwen, La via del cuore, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 94).

La mia cella nel mondo

      La cella, luogo di ritiro, è una semplice camera che abbisogna soprattutto di silenzio in modo che possa assicurare, con l’arredamento essenziale, tutto quello che serve per riposare (il letto), per leggere e scrivere (la sedia e il tavolo), anche o soprattutto di notte (la lampada). Per secoli la cella è stata ed è ancora questo per ogni monaco d’Oriente e d’Occidente: il luogo in cui il monaco impara ad habitare secum, ad abitare con se stesso, in cui cerca Dio nella solitudine e nel silenzio, in cui si impegna e si esercita a lottare contro le pulsioni malvagie che lo abitano e in cui si addestra alla comunione con gli uomini tutti.

      Così è stato per me, fin da quando, giovane studente universitario, ho intrapreso, al di fuori delle strutture allora esistenti, l’itinerario monastico che rimane fondamentalmente identico al di là dei contesti storici, culturali ed ecclesiali in cui si inserisce. E come tutti quelli che mi avevano preceduto in questo cammino, mi sono presto accorto che non era facile rimanere, sostare, abitare una cella, quel luogo troppo piccolo, privo di sbocchi e di mutamenti, un luogo capace addirittura di incutere paura. Sapevo bene che la battaglia della cella era una delle prime che avrei dovuto combattere e, infatti non appena vi entravo, avvertivo una voglia di uscirne, mi si affollava nella mente le urgenze che mi chiamavano “fuori”: il richiamo a vivere fuori da me stesso si insediava nella mia mente […].

Come accade a ogni monaco, anch’io ho conosciuto la cella come luogo di reclusione e di prigione ma poi, perseverando, l’ho scoperta come luogo in cui poco alla volta si impara ad abitare con se stessi in verità, intenti alla propria unificazione interiore. Con un sapiente gioco di parole, Guglielmo di Saint-Thierry accostava “cella” e coelum, interpretandoli entrambi come derivati dal verbo “celare”, nascondere: qui e là si ritrova Dio, il Dio segreto, nascosto. Del resto Gesù stesso, rivolgendosi a ogni discepolo – e quindi non solo ai monaci… – aveva rivolto un invito ben preciso: “Tu, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo che è nel segreto” (Matteo 6,6,). Pregare nel segreto della cella, dove nessuno vede, nessuno controlla: questo è esempio di autenticità e luogo di verifica dell’eloquenza della fede. Antidoto contro ogni ostentazione ed esibizione religiosa, la cella diventa effettivamente il luogo in cui si può “dare del tu a Dio”, parlare a Dio e vincere la tentazione di parlare di lui. Se questo “faccia a faccia” è franco, può assumere i tratti di un intimità amorosa: allora la cella diviene “cella vinaria”, la stanza del Cantico dei Cantici, autentica cantina dove si consuma l’incontro amoroso inebriati dal profumo e dal gusto del vino. Come dice il profeta: Exultabit solitudo, “La solitudine esulterà”.

(Enzo BIANCHI, Ogni cosa alla sua stagione, Enaudi, Torino, 2010, Prologo)

Intuizioni patristiche dedicate al brano evangelico delle tentazioni 

«Dopo il battesimo nell’acqua lo Spirito conduce Gesù al battesimo nella tentazione, ma non come una persona ne costringe un’altra, ma come qualcuno consente a chi ha deciso. E’ provato nella solitudine, così come Eva fu tentata quando si trovò sola. Il potere di Dio non si fa conoscere con tali prove, perché Dio non fa mai nulla d’inutile. Chi conosce la propria forza, infatti, non cerca di sfoggiarla. Se dunque il digiuno non vi gioverà per non essere tentati, vi consentirà non di meno di essere fortificati tanto da vincere la tentazione».

(S. Giovanni Crisostomo)

«Come tentò per la gola il primo Adamo, così tenta il secondo per la fame. Il maligno, vincitore del primo, sarà vinto dal secondo e come tentò i primogeniti con la vanagloria, dicendo che sarebbero stati come Dio, ora tenta Cristo con la superbia».

(S.Gregorio Magno)

«Gesù vuol vincere con l’umiltà e con l’autorità delle divine scritture e non con i segni del suo potere divino. In questo modo confonde di più il nemico e dà maggior onore alla natura umana indicando con quali armi anch’essa può vincere il maligno. Il maligno aveva tale potere perché usandone giungesse la sua sconfitta. Così verrà permesso ai malvagi di crocifiggerlo perché ne giungesse la salvezza».

(S. Girolamo)

«Anche Satana cita la bibbia, ma certe citazioni non illuminano: fanno buio». 

(S. Ambrogio)

40 giorni nel deserto

Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.

Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire. Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo. Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua. Tu devi tornare nella solitudine”.

L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un convento?”

“No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.

Non di solo pane

«Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».

È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.

Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).

Non temere la lotta!

«Se dopo il battesimo ti assalirà colui che ha perseguitato e inseguito la luce – e di certo ti assalirà dal momento che ha assalito anche il Verbo e mio Dio a causa del rivestimento della carne aggredendo la luce nascosta attraverso ciò che era visibile – tu hai modo di vincerlo, non temere la lotta! Opponigli l’acqua, opponigli lo Spirito, nel quale si spegneranno tutte le frecce infuocate del Maligno. È Spirito, ma che dissolve le montagne [cfr. Sal 96 (97),5]; è acqua, ma che spegne il fuoco. Se [il Divisore] ti assale ponendoti sotto gli occhi la tua povertà – ha osato farlo con Cristo – e cercherà di ottenere che le pietre divengano pane (cfr. Mt 4,3-4) facendoti vedere che hai fame, non ignorare i suoi propositi. Insegnagli quello che non ha imparato, opponigli la parola di vita che è il pane disceso dal cielo e che dona vita al mondo (cfr. Gv 6,33). Se ti tende un laccio attraverso la vanagloria – lo fece anche con Cristo conducendolo sul pinnacolo del tempio e dicendogli: «Gettati di sotto» (Mt 4,6) perché mostrasse la sua divinità – non farti trascinare in basso dal desiderio di innalzarti. Se ottiene questo, non si fermerà qui. E insaziabile, ricorre a tutti gli espedienti. Lusinga con il bene, ma conclude con il male. Questo è il suo modo di combattere. Ma il ladrone è esperto anche nella Scrittura. Da essa trae lo «sta scritto» a proposito del pane (cfr, Mt 4,3-4) ; da lì lo «sta scritto» a proposito degli angeli: «Sta scritto, infatti, che darà ordine ai suoi angeli riguardo a te, e che essi ti solleveranno con le loro mani [Sal 90 (91),11-12; Mt4,6]. Oh! Tu, sapiente nel fare il male, come hai potuto tacere quanto è scritto subito dopo? Io lo conosco bene anche se tu hai taciuto. «Io ti farò camminare sopra l’aspide e il basilisco e ti farò calpestare i serpenti e gli scorpioni « [Sal 90 (91),13], perché sei protetto dalla Trinità. Se poi egli ti assalirà ricorrendo all’insaziabilità, mostrandoti in un istante e in un batter d’occhio tutti i regni del mondo come se gli appartenessero (cfr. Mt 4,8-9) e ti chiederà di adorarlo, disprezzalo: è povero. Digli, confidando nel sigillo [impresso su di te con il battesimo] : «Anche io sono immagine di Dio. Non sono ancora stato rigettato dalla gloria dell’alto come te a causa della superbia. Ho rivestito Cristo (cfr. Gal 3,27), mi sono trasformato in Cristo per mezzo del battesimo. Sei tu che devi adorarmi». Si allontanerà da te, ne sono certo, vinto e coperto di vergogna a causa di queste parole. Come dovette abbandonare Cristo, la prima luce, così lascerà anche quelli che sono stati da lui illuminati».

(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi 40,10, SC 358, pp. 216-218).

Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto (Mt 4,10). 

  Il principale interesse di Gesù era quello di obbedire al Padre suo, di vivere costantemente alla sua presenza. Solo dopo divenne chiaro per lui quale fosse il suo compito nelle sue relazioni con la gente. Questa è la via che egli propone anche ai suoi apostoli: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,8). Forse dobbiamo continuamente richiamare alla nostra memoria, che il primo comandamento, quello che esige da noi di amare Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutta la nostra mente, è veramente il primo.

Mi chiedo se questo lo crediamo davvero. In realtà, sembra che viviamo come se dovessimo dare il cuore, l’anima e la mente il più possibile ai nostri simili, gli esseri umani, cercando di fare di tutto per non dimenticarci di Dio. O per lo meno sentiamo che la nostra attenzione va divisa equamente tra Dio e il nostro prossimo. Ma Gesù chiede qualcosa di molto più radicale.

Domanda un impegno esclusivo per Dio e per Dio solo. Dio vuole tutto il nostro cuore, tutta la nostra mente, tutta la nostra anima.

È questo amore di Dio incondizionato e senza riserve, che ci spinge a prenderci cura del nostro prossimo, non come un’attività che ci distrae da Dio o si mette in concorrenza con la nostra attenzione a Dio, bensì come un’espressione del nostro amore per Dio che si rivela a noi come il Dio di tutti.

È in Dio che troviamo nostro prossimo e scopriamo la nostra responsabilità nei suoi confronti. Potremmo addirittura dire che solo in Dio il nostro prossimo diventa nostro prossimo e non una violazione della nostra autonomia, e che solo in Dio e attraverso Dio diventa possibile il servizio.                                                                                                

(J.M. Nouwen, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 20-22).                                 

La solitudine

La solitudine è un elemento antropologico costitutivo: l’uomo nasce solo e muore solo. Egli è certamente un «essere sociale», fatto «per la relazione», ma l’esperienza mostra che soltanto chi sa vivere solo sa anche vivere pienamente le relazioni. Di più: la relazione, per essere tale e non cadere nella fusione o nell’assorbimento, implica la solitudine. Solo chi non teme di scendere nella propria interiorità sa anche affrontare l’incontro con 1’alterità. Ed è significativo che molti dei disagi e delle malattie «moderne», che riguardano la soggettività, arrivino anche a inficiare la qualità della vita relazionale: per esempio, l’incapacità di interiorizzazione, di abitare la propria vita interiore, diviene anche incapacità di creare e vivere relazioni solide, profonde e durature con gli altri. Certo, non ogni solitudine è positiva: vi sono forme di fuga dagli altri che sono patologiche, vi è soprattutto quella «cattiva solitudine» che è l’isolamento, il quale implica la chiusura agli altri, il rigetto del desiderio degli altri, la paura dell’alterità. Ma tra isolamento, chiusura, mutismo, da un lato, e bisogno della presenza fisica degli altri, dissipazione nel continuo parlare, attivismo smodato, dall’altro, la solitudine è equilibrio e armonia, forza e saldezza.

Chi assume la solitudine è colui che mostra il coraggio di guardare in faccia se stesso, di riconoscere e accettare come proprio compito quello di «divenire se stesso»; è l’uomo umile che vede nella propria unicità il compito che lui e solo lui può realizzare. E non si sottrae a tale compito rifugiandosi nel «branco», nell’anonimato della folla, e neppure nella deriva solipsistica della chiusura in sé. Sì, la solitudine guida l’uomo alla conoscenza di sé, e gli richiede molto coraggio.

La solitudine allora è essenziale alla relazione, consente la verità della relazione e si comprende proprio all’interno della relazione. Capacità di solitudine e capacità di amore sono proporzionali. Forse, la solitudine è uno dei grandi segni dell’autenticità dell’amore. Scrive Simone Weil: «Preserva la tua solitudine. Se mai verrà il giorno in cui ti sarà dato un vero affetto, non ci sarà contrasto fra la solitudine interiore e l’amicizia; anzi, proprio da questo segno infallibile la riconoscerai».La solitudine è il crogiuolo dell’amore: le grandi realizzazioni umane e spirituali non possono non attraversare la solitudine. Anzi, proprio la solitudine diviene la beatitudine di chi la sa abitare. Facendo eco al medievale «beata solitudo, sola beatitudo», scrive MarieMadeleine Davy: «La solitudine è faticosa solo per coloro che non han sete della loro intimità e che, di conseguenza, l’ignorano; ma essa costituisce la felicità suprema per coloro che ne hanno gustato il sapore».

In verità, la solitudine, certamente temibile perché ci ricorda la solitudine radicale della morte, è sempre solitudo pluralis, è spazio di unificazione del proprio cuore e di comunione con gli altri, è assunzione dell’altro nella sua assenza, è purificazione delle relazioni che nel continuo commercio con la gente rischiano di divenire insignificanti. E per il cristiano è luogo di comunione con il Signore che gli ha chiesto di seguirlo là dove lui si è trovato: quanta parte della vita di Gesù si è svolta nella solitudine! Gesù che si ritira nel deserto dove conosce il combattimento con il Tentatore, Gesù che se ne va in luoghi in disparte a pregare, che cerca la solitudine per vivere l’intimità con 1’abba e per discernere la sua volontà. Certo, come Gesù, il cristiano deve riempire la sua solitudine con la preghiera, con la lotta spirituale, con il discernimento della volontà di Dio, con la ricerca del suo volto.

Commentando Giovanni 5,13 che dice: «L’uomo che era stato guarito non sapeva chi fosse [colui che l’aveva guarito]; Gesù infatti era scomparso tra la folla», Agostino scrive: «È difficile vedere Cristo in mezzo alla folla; ci è necessaria la solitudine. Nella solitudine, infatti, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa; per vedere Dio ti è necessario il silenzio». II Cristo in cui diciamo di credere e che diciamo di amare si fa presente a noi nello Spirito santo per inabitare in noi e per fare di noi la sua dimora. La solitudine è lo spazio che apprestiamo al discernimento di questa presenza in noi e alla celebrazione della liturgia del cuore.

Il Cristo poi, che ha vissuto la solitudine del tradimento dei discepoli, dell’allontanamento degli amici, del rigetto della sua gente, e perfino dell’abbandono di Dio, ci indica la via dell’assunzione anche delle solitudini subite, delle solitudini imposte, delle solitudini «negative». Colui che sulla croce ha vissuto la piena intimità con Dio conoscendo l’abbandono di Dio, ricorda al cristiano che la croce è mistero di solitudine e di comunione. Essa, infatti, è mistero di amore!

(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 181-184).

Lettera di Nichi Vendola a don Tonino Bello

«…Vedi, don Tonino, io sento nostalgia struggente della tua voce e della tua cosmogonia, perché ho l’impressione che le cose si siano fatte molto più complicate… Oggi vincono e convincono quelli che non hanno tempo per occuparsi di vittime, di poveri, di esuberi, di quelle “pietre di scarto” che nel Vangelo saranno “pietre angolari” dell’edificio della salvezza: quelli che girano lo sguardo da un’altra parte, quelli che fingono di non vedere l’orrore, quelli che sono gli eroi di cartapesta del nostro immaginario e della nostra etica pubblica. Oggi gli afflitti vengono ulteriormente afflitti e i consolati ulteriormente consolati…. La crisi del mondo scopre le proprie carte persino con uno sconosciuto vulcano islandese che risvegliandosi ed eruttando, con la sua nube premonitrice avvolge l’intera Europa. Non c’è varco che indichi l’intangibilità della vita: l’economia appiccica prezzi e toglie valore alle persone, la mercificazione non ha senso del limite, anche i bambini sono merce-lavoro esposti a qualsivoglia violazione, i vecchi sono de localizzati dalla finanza domestica a rottami o esiliati, le donne pagano a prezzo salatissimo la rivendicazione della propria libertà (cioè della propria dignità), torna la stagione degli acchiappafantasmi. Ognuno ha la propria ossessione, il proprio fantasma da esorcizzare.

La pace di Isaia, il disarmo dei pacifisti, il digiuno che purifica, l’astinenza dall’odio: dov’è tutto questo, carissimo don Tonino? Dov’è la Pasqua della responsabilità sociale e della convivialità culturale?

Anche la Chiesa spesso pare più vocata all’autodifesa che non all’annuncio. L’Annuncio, sì carissimo pastore, quello che tu hai saputo incarnare nella ferialità di un amore senza misura (charitas sine modo): amore capace di giudizio storico, capace di passione civile, capace di condivisione radicale… Tu sapevi essere la sentinella che annuncia l’alba.

Ti ho scritto questa lettera in tono apocalittico, perché tu mi hai insegnato che bisogna denunciare il male non per stimolare cinismo e rassegnazione, ma per allenare la coscienza alla ricerca del bene, del giusto, del bello».

(Lettera scritta da Nichi Vendola nella «Gazzetta del Mezzogiorno», 19 aprile 2010).

La sapienza dei Padri

Nella vita dei Padri del deserto, si narra di Bessarione, grande monaco vissuto nel secolo IV. Capitato in una chiesa durante la predica, gli toccò sentire il presbitero scacciare un peccatore, giudicato indegno di stare tra la gente per bene. Bessarione non mosse ciglio, si alzò con lui dicendo: “anch’io sono un peccatore”.

Preghiera

Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.

È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, seguendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.

Sono ancora così diviso! Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza. Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.

So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me. La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita. Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, azioni che siano le tue azioni. Non vi sono tempi o luoghi senza scelte. E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.

Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo. Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quando verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me. Amen.

(J.M. NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» (2014).

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

 PER L’APPROFONDIMENTO:

QUARESIMA I DOMENICA DI QUARESIMA

VIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 49,14-15 

Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. 

 

In Israele, prima di ripudiare la moglie, il marito doveva riflettere a lungo perché si trattava di una scelta irreversibile, non erano ammessi ripensamenti, non gli era più permesso di riprendersela.

     In esilio, a Babilonia, Israele si sente una sposa ripudiata. Sa di essere stata infedele, di aver tradito il suo Dio, ha abbandonato ogni speranza di ricostruire il rapporto d’amore infranto e, mestamente, va ripetendo: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato» (v. 14). È il lamento con cui inizia la lettura di oggi ed è l’espressione della dolorosa esperienza di chiunque, caduto nell’abisso del peccato, si rende conto di aver fatto scelte di morte ed è convinto che anche il Signore lo rifiuti.

     Questi pensieri sorgono quando vengono proiettati in Dio i nostri criteri di giudizio e le nostre meschinità. Compare allora il Dio suscettibile, permaloso e persino vendicativo. Questa deformazione del suo volto è la più subdola delle astuzie diaboliche e il Signore si premura di cancellarla. Per bocca del profeta dichiara: «Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Io ti riprenderò con immenso amore» (Is 54,6-7).

     Il suo amore non è una risposta ai meriti o alle dimostrazioni di affetto dell’uomo, è una passione incontenibile che prescinde dalle nostre opere buone, è come l’amore di una madre – ecco la nuova, commovente metafora introdotta dalla lettura di oggi (v. 16) — un amore incondizionato e invincibile. Una madre ama il figlio non perché è riamata, ma perché è suo figlio e lo amerà sempre, qualunque cosa egli faccia.

     Quest’immagine ha già in sé una forte risonanza emotiva, tuttavia, per comprenderne tutta la ricchezza, vale la pena ricordare alcune celebri figure di madri bibliche: il sublime eroismo di Rispa che «dal principio della mietitura dell’orzo, fino a quando dal cielo non cadde su di loro la pioggia», vegliò i cadaveri dei figli consegnati alla morte da Davide (2Sam 21); il coraggio della madre di Mosè che sfida l’ordine del faraone pur di salvare il figlio (Es 2,2-9); il tormento della meretrice che accetta di essere privata del figlio purché non venga ucciso (1Re 3,16-17); la forza d’animo della madre che incoraggia i figli ad affrontare la morte per non rinnegare la fede (2Mac 7).

     Tutta questa carica di emozioni e di sentimenti è presente nell’immagine dell’amore di una madre e aiuta a comprendere con quale passione Dio ama e si interessa dell’uomo.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 4,1-5

Fratelli, ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele. A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore! Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode.

 

La parola del vangelo è il più grande dono che si possa ricevere, per questo è facile non solo provare profonda simpatia e riconoscenza per chi lo ha offerto, ma anche legarsi fin troppo al messaggero. Accade oggi ed è accaduto anche nella comunità di Corinto dove, a causa dell’attaccamento all’uno o all’altro degli apostoli, erano sorti dei partiti: alcuni si gloriavano di appartenere a Pietro, altri ad Apollo, altri ancora a Paolo (1Cor 1,12).

     Il brano di oggi conclude la lunga trattazione di questo argomento, iniziata con il severo monito: «Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?» (1Cor 1,13).

     Paolo impiega il plurale – «Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (v. 1) – perché non parla solo di sé, si riferisce a tutti gli annunciatori del vangelo. Con due termini espressivi ne definisce il ruolo: sono servi (hypêrétai in greco) cioè inservienti che liberamente hanno accettato di svolgere un incarico; sono dei subordinati, dei dipendenti a servizio di un signore, Cristo; sono degli amministratori (oikónomoi in greco, economi) non dei padroni, hanno in mano beni che appartengono a Dio, a loro sono stati solo affidati affinché li facciano fruttare.

     Agli amministratori si richiede solo la fedeltà (v. 2). Chi annuncia il vangelo – intende dire Paolo – deve avere un’unica preoccupazione: trasmettere il messaggio del Maestro, senza nulla aggiungere e nulla togliere. Il padrone non gli chiederà se è riuscito a convincere molte persone, se si è accattivato la simpatia degli uomini, se ha ricevuto applausi e approvazioni; domanderà soltanto se ha annunciato il vangelo secondo verità, senza cedere agli opportunismi, senza scendere a compromessi, senza rispetti umani.

     Nella seconda parte del brano (vv. 3-5) Paolo risponde alle critiche che i corinzi gli muovono. Assicura che non è per niente preoccupato dei giudizi pronunciati su di lui, siano essi di approvazione o di condanna. Non è ai corinzi che deve rendere conto del proprio operato, ma a Dio. Non si fida nemmeno del giudizio della sua coscienza, anche se, onestamente, riconosce che non gli rimprovera nulla (v. 4). Tiene presente questo giudizio, ma non lo considera definitivo, attende quello del Signore che verrà pronunciato al termine della dura «giornata di lavoro». 

     Le parole dell’Apostolo non sono un invito a ignorare il giudizio che una comunità pronuncia su chi svolge un ministero. La comunità ha il diritto e il dovere di esprimere il proprio parere sull’operato dei ministri e amministratori e questi non possono arrogarsi il diritto di agire in modo arbitrario e di «comportarsi da padroni» (1Pt 5,3). Ma non va dimenticato che, solo alla fine, «ciascuno riceverà da Dio la lode».

 

Vangelo: Matteo 6,24-34

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?  Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».

 

Esegesi 

     Il bambino che perde i genitori non può stare solo, ha bisogno di avere qualcuno in cui riporre la sua fiducia, qualcuno che gli dia sicurezza. Egli cerca spontaneamente un modello, un punto di riferimento nella vita.

     Capita anche con Dio: non se ne può fare a meno, non si può rimanerne orfani; chi lo rifiuta, lo rimpiazza subito con un sostituto. Il pericolo non è l’ateismo, ma la scelta del dio sbagliato.

     Molti credono che, nell’alto dei cieli, ci sia un Padre che si prende cura di loro; costoro sono convinti che egli prova per loro anche sentimenti materni: si interessa, con affetto e sollecitudine, dei loro bisogni. Se egli è padre di tutti, gli uomini non sono dei compagni di viaggio, dei vicini più o meno simpatici, più o meno meritevoli di attenzioni; non sono degli antagonisti con i quali competere o, peggio ancora, dei nemici da combattere, ma dei fratelli da amare e aiutare.

     Non tutti accettano questo Padre. A chi lo rifiuta si presenta subito, con tutto il suo incantevole fascino, il più seducente, il più subdolo degli idoli, il denaro. Il vangelo di oggi inizia con una denuncia della pericolosità di quest’idolo (v.24).

     Matteo ci ha conservato il termine aramaico – mamônâ – usato da Gesù. È significativo: deriva dalla radice ‘aman che vuol dire offrire sicurezza, essere solido, affidabile. Il denaro, come Dio, garantisce ogni bene a chi gli presta culto: dona cibo, bevande, salute, piaceri, divertimenti; ma cosa chiede in cambio? Come ogni dio, esige tutto.

     Dio è il punto di riferimento dei pensieri, delle azioni, della vita dell’uomo e vuole essere amato «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). Anche il denaro pretende il coinvolgimento totale dei suoi devoti. Per amor suo bisogna essere disposti a rinunciare alla propria dignità, a ingannare, a rubare, a rovinare gli altri, a perdere le amicizie, a trascurare persino moglie e figli (per loro non ci sarà più tempo!), bisogna essere pronti anche a uccidere. Coloro che adorano il denaro hanno tutto, ma non sono più uomini, divengono schiavi. «L’attaccamento al denaro – scrive l’autore della lettera a Timoteo – è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono, da se stessi, tormentati con molti dolori» (1Tm 6,10) ed è un’idolatria (Ef 5,5).

     La prima follia in cui trascina l’adorazione di mamônâ e l’accumulo. Chi accumula si illude di aver trovato un obiettivo concreto e gratificante che dia un senso alla vita, ma ha solo scoperto un vano ripiego per esorcizzare il pensiero della morte. «Lasciare in eredità» è un palliativo.

     Il Padre che sta nei cieli si colloca agli antipodi: invita alla rinuncia all’uso egoistico del denaro. Non chiede di «non rubare», di fare elemosine, ma di instaurare un rapporto com-pletamente nuovo con i beni; propone la condivisione, l’attenzione ai bisogni dei fratelli. Qualunque forma di accumulo egoistico è una violazione del primo comandamento: «Non avrai altro dio all’infuori di me» (Es 20,3).

     Nessuno può servire a due padroni; o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro. Non è possibile servire Dio e mamônâ.

     Noi vorremmo tenerceli buoni tutti e due, convinti che quello che non ci concede l’uno ce lo darà l’altro. Ma i due non sono soci in affari, sono antagonisti, non possono stare insieme nel cuore dell’uomo, danno ordini opposti. Il Padre che sta nei cieli ripete: «Ama, aiuta tuo fratello, dà cibo a chi ha fame, vesti chi è nudo, offri la tua casa a chi è privo di casa». Il denaro ordina invece: «Sfrutta il povero, non dare nulla gratuitamente, non preoccuparti di chi è nel bisogno, stima e apprezza le persone in proporzione di ciò che possiedono».

     Il distacco dai beni è uno dei temi ricorrenti nel vangelo ed è uno dei più difficili da assimilare. L’uomo infatti si affeziona ai tesori di questo mondo, è portato a idolatrarli fino a dimenticare l’eredità «che non si corrompe, non si macchia e non marcisce, quella che è conservata nei cieli» (1Pt 1,4).

     Fin dal suo primo discorso – quello della montagna dal quale è tratto il brano di oggi – Gesù mette in guardia i discepoli: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 19-21). A chi lo vuole seguire chiede di dare anche il mantello e raccomanda di non volgere le spalle a chi chiede un prestito (Mt 6,40.42).

     Le richieste di Gesù sono paradossali e sconcertanti. Prima di decidersi ad accettarle, non si può non chiedersi: Che ne sarà della mia vita? Che cosa mangerò, che cosa berrò, come mi vestirò? Chi mi assicura che avrò poi il sufficiente per vivere? Non mi pentirò di aver rinunciato alla sicurezza che offre il denaro accumulato e goduto? Non sarà meglio limitarsi a elargire qualche elemosina?

     È a questi interrogativi che Gesù risponde nella seconda parte del vangelo di oggi (vv. 25-34) dove invita alla fiducia nel Padre che sta nei cieli, che si prende cura dei figli e che non lascerà mancare il necessario a chi ha creduto in lui.

     Le immagini con cui è presentata la premura di Dio nei confronti delle sue creature sono deliziose: «Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (vv. 26-29). Dà quasi l’impressione di essere un ingenuo sognatore, di proporre una vita spensierata, giuliva, ma completamente staccata dalla realtà.

     Non è così. Gesù non suggerisce il disimpegno, l’ozio, il disinteresse o la rassegnazione, propone un rapporto nuovo con i beni: non l’accaparramento, ma la condivisione fondata sulla fiducia nella provvidenza di Dio.

     Il richiamo è all’esperienza dell’esodo: Israele era un popolo in cammino, non poteva accumulare, piantava tende provvisorie, non costruiva magazzini solidi e inamovibili; la manna non poteva essere raccolta in quantità maggiore a quella necessaria per un giorno, altrimenti marciva e si riempiva di vermi (Es 16,17-20); la terra non era proprietà di nessuno, ciascuno possedeva solo, per un momento, quella piccola superficie che calpestava, poi, quando muoveva in avanti il suo piede, quella terra non gli apparteneva più, diveniva proprietà di chi lo seguiva. In questo modo Dio aveva educato il suo popolo al distacco dai beni che, pur necessari alla vita, sono corruttibili e passeggeri, ma seducono, incantano e fanno distogliere lo sguardo dalla meta.

     I rabbini notavano che gli israeliti avevano seguito Mosè nel deserto senza mai chiedergli: «Come potremo attraversare il deserto, senza portare con noi provvigioni per il viaggio?».

     Gesù non condanna la programmazione, la previdenza ma la preoccupazione per il domani, l’ansia che fa perdere la gioia di vivere e porta inevitabilmente ad accumulare e a trasformare in idoli disumanizzanti i beni di questo mondo.

     Non preoccupatevi: è un verbo che nel brano di oggi viene ripetuto per ben tre volte. Sono un’eco delle sagge riflessioni del Siracide: «Molti ne uccide la preoccupazione e non c’è utilità nell’affanno. La preoccupazione per il sostentamento fa perdere il sonno, lo allontana più di una malattia» (Sir 30,23-31,2).

     L’affanno è comune tanto al povero quanto al ricco; il denaro non solo non elimina le inquietudini e le preoccupazioni, ma le acutizza e le esaspera. Conosciamo le notti insonni dei padri di famiglia disoccupati, senza soldi, con moglie e figli da mantenere; tuttavia sappiamo che le ansie non servono a nulla, non aiutano a risolvere i problemi del cibo e del vestito, sono un inutile dispendio di energie.

     Gesù suggerisce il suo rimedio a questa malattia: sollevare lo sguardo verso l’alto, verso il Padre che sta nei cieli. Questo non significa rimanere con le mani in mano, ma affrontare la realtà con cuore nuovo. Alle parole di Gesù fa eco l’autore della Lettera agli ebrei: «La vostra condotta sia senza avarizia accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò mai» (Eb 13,5).

     Anche di fronte alle difficoltà più gravi, Gesù invita a mantenere la pace interiore perché la vita dell’uomo è nelle mani di Dio che non abbandona i suoi figli, li accompagna in ogni istante, benedice i loro sforzi e il loro impegno.

 

Meditazione

     Nel proporci l’ascolto del Discorso della montagna, il lezionario domenicale omette alcuni brani. Dopo aver proclamato la conclusione del capitolo quinto nella scorsa domenica, oggi giungiamo al v. 24 del capitolo sesto, tralasciando così la sua prima parte. Il testo con cui si apre il capitolo sesto (e che ascoltiamo ogni anno all’inizio della Quaresima, nel ‘mercoledì delle ceneri’) ha una sua importanza e costituisce una chiave di interpretazione dell’intero discorso. Può essere utile richiamarlo brevemente, perché ci offre una prospettiva preziosa per comprendere l’invito che Gesù ci rivolge in questa domenica, incentrato in particolare sul nostro rapporto con la ricchezza e con gli altri beni creaturali.

     All’inizio del capitolo sesto Gesù parla di tre opere fondamentali della pietà ebraica, attraverso le quali siamo chiamati a vivere la nostra buona relazione con Dio (la ‘giustizia’, stando al termine usato da Matteo): l’elemosina, la preghiera, il digiuno. Al centro c’è la preghiera, parlando della quale Gesù consegna ai discepoli il Padre Nostro, che costituisce un po’ il cuore dell’intero discorso. Tuttavia, la preghiera non sta senza l’elemosina, vale a dire senza la giusta relazione con gli altri uomini nella forma della condivisione e della solidarietà, non del possesso, del potere o del dominio; né sta senza il digiuno, vale a dire il rapporto con i beni della terra, da vivere non nella voracità o nella ricchezza, ma nell’accoglienza, nella gratitudine, nella povertà. Per Gesù la giusta relazione con Dio è autentica quando trasforma il nostro modo di relazionarci con gli altri uomini e con i beni della terra. D’altra parte, è proprio nel nostro modo di vivere il digiuno e l’elemosina, e tutto ciò a cui simbolicamente rimandano, a rivelare la verità del nostro rapporto con Dio. Di queste tre relazioni si intesse non solo il brano più specifico del capitolo sesto, ma l’intero discorso, nella sua architettura complessiva. Infatti, nella sua prima parte (nel cosiddetto discorso delle antitesi) è in gioco il nostro rapporto con gli altri; al centro – all’inizio del capitolo sesto – c’è il nostro rapporto con Dio, vissuto nella preghiera, nell’elemosina e nel digiuno; infine, nell’ultima parte, subito dopo che Gesù ha parlato del digiuno, emerge più nitidamente il tema della relazione con i beni. Appaiono allora in tutta la loro nitidezza l’importanza e il valore che Gesù assegna al rapporto con le ricchezze: da esso dipende, e non in modo accidentale o secondario, il nostro stesso rapporto con quel Dio che siamo invitati a chiamare ‘Padre’. Detto in altri termini, la qualità filiale della nostra relazione con il Dio ‘Padre nostro’ dipende strettamente anche dal modo con cui ci rapportiamo con i beni della terra.

     Anche per questo motivo Gesù è così perentorio: «Non potete servire Dio e la ricchezza». Custodiamo probabilmente nella memoria la traduzione precedente, che conservava il termine aramaico: «non potete servire Dio e mammona». Termine interessante questo, poiché sembra derivare dalla stessa radice da cui proviene il termine ‘amen’. Qual è l’amen, il fondamento stabile, solido, duraturo, della nostra vita: Dio o mammona? Dio oppure le ricchezze e i beni della terra? Gesù non sembra tollerare esitazioni o compromessi: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro» (6,24).

     L’immagine metaforica del padrone evoca allusivamente un aspetto vero della ricchezza e del suo morso velenoso: essa ha un potere e una violenza di dominio sul cuore dell’uomo, e per questo si pone in modo radicale in alternativa a Dio, che è l’unico vero Signore della nostra vita, anche se, diversamente dalla ricchezza, la sua signoria è liberante. Non ci rende schiavi. Ci fa appunto rapportare con Dio non come con un ‘padrone’, ma come con un ‘padre’. Torna a emergere un aspetto che abbiamo già avuto modo di sottolineare nelle domeniche precedenti: la ‘giustizia superiore’ di cui parla Gesù in questa ampia sezione del Vangelo di Matteo è la giustizia del ‘figlio’, non quella del ‘servo’ o dello ‘schiavo’.

     La signoria di Dio è per la nostra libertà e ci libera dagli affanni e dalle preoccupazioni angosciate. L’affanno dal quale Gesù ci mette in guardia, o sul quale ci sollecita a vigilare, non deriva tanto da un modo sbagliato di cercare o di gestire i beni, il denaro, i propri desideri. La sua radice scende più in profondità: nell’autosufficienza di chi pensa di dover badare a se stesso senza altri riferimenti, e si illude di poterlo fare. Potremmo dire che è l’affanno di chi cerca se stesso nei propri possessi. Il problema vero rimane sempre lo stesso: pretendere di tenere la propria vita ben stretta in pugno, o di poterla progettare con l’opera delle proprie mani e l’estro del proprio ingegno.

     Comprendiamo allora meglio l’esortazione di Gesù a cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia (v. 33). Relazionarsi da figli con un Dio che ci è padre, lasciare che sia lui a regnare sulla nostra vita, eliminando il potere che su di noi possono avere altri signori e altri idoli, purificare il nostro cuore dall’illusione di poter essere noi gli unici signori e artefici della nostra esistenza, tutto questo ci conduce ad avere un rapporto diverso con tutti i beni di cui pure la nostra vita ha bisogno. Non si tratta di non cercarli più, ma di non cercarli con affanno e con preoccupazione. Un cuore pre-occupato è appunto un cuore occupato prima e da altro, soprattutto da uno sguardo ricurvo su di sé, sui propri bisogni, sulle proprie mancanze, sulle proprie autonome possibilità…

     L’invito di Gesù è ad aprire il cuore, ad allargare lo sguardo, alzandolo da sé verso l’alto, per contemplare il modo stesso di essere e di agire di Dio. Questo è lo sguardo di Gesù che, anche nelle più piccole e insignificanti realtà (almeno all’apparenza), quali possono essere gli uccelli del cielo o i gigli del campo, sa discernere la presenza di Dio e la sua cura amorevole. Cercare il regno di Dio e la sua giustizia significa anche questo: riconoscere che la propria vita, come quella del cosmo intero, è custodita da Dio e dal suo volere che è la misericordia e la salvezza di tutti e di tutto, come il Discorso della montagna insistentemente ricorda. Il Padre è comunque colui che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).

     «Cercate anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (6,33). Chi cerca il regno di Dio torna ad accogliere in modo nuovo e diverso ogni altra persona e ogni altro bene o realtà, poiché tra se stesso e tutto ciò che incontra, o con cui si relaziona, riconosce la presenza stessa del Padre, che conferisce significato e consente di vivere in modo giusto i rapporti di cui la nostra esistenza quotidianamente si intesse. Come ci ha ricordato l’inizio del capitolo sesto, mettere al centro la relazione con Dio ci permette di vivere in modo diverso la relazione con gli altri (l’elemosina e non il potere) e con i beni della terra (il digiuno e non il possesso vorace). La giustizia superiore del discepolo del Regno è la giustizia del figlio, di colui che sa che la propria vita trova il suo stabile fondamento non nell’opera delle proprie mani, ma in ciò che riceve da Dio. Nel rimanere nella stabile relazione con il Padre, vero fondamento, amen non illusorio della propria vita.

 

Preghiere e racconti

La ricchezza

La ricchezza diventa un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona». Eppure questo non significa un masochismo pauperista. Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola. La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).

(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).

Quello che non abbiamo cercato

“Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato. Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui. La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato. A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.

(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).

Che cosa è tuo?

«A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro. Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso posto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riservato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti. Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi. Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sareb-be bisognoso.

Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che te li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti. Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno?

Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente. Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno. E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito.

Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur potendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra. Così commetti ingiustizia contro altrettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.

(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG 31,276B-277A).

L’imperativo biblico: amare le persone e usare le cose

L’imperativo biblico è piuttosto chiaro: dobbiamo amare le persone e usare le cose. Gesù ci avverte che, ovunque sia il nostro tesoro, lì ci sarà anche il nostro cuore. Sento il Signore dirci: “Risparmiate il vostro cuore per l’amore, e date il vostro amore solo alle persone: a voi stessi, al vostro prossimo e al vostro Dio. Non date mai il vostro cuore alle cose: se lo farete, quella cosa, qualunque essa sia, diventerà gradualmente la vostra padrona, vi conquisterà e vi terrà stretti al guinzaglio della dipendenza. Le preoccupazioni che ne deriveranno, vi renderanno inquieti e vi terranno svegli la notte. Quel che è peggio, se date il vostro cuore a una cosa, ben presto inizierete a invertire in modo radicale le vostre priorità. Quando si incomincia ad amare le cose, si iniziano ad usare le persone per ottenere queste cose, per avere sempre più cose. È dunque opportuno osservare che la Bibbia non dice che il denaro è la causa di ogni male, bensì che l’amore per il denaro è la causa di ogni male. Avere dei soldi non è un male, ma vendere il proprio cuore al denaro è una tragedia, perché, ovunque sia il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore. Se date il vostro cuore alle cose di questo mondo, presto inizierete a competere con gli altri per ottenere tutto il possibile. Incomincerete ad accendere la candela ad entrambe le estremità pur di avere sempre di più. Questa è la strada giusta se volete farvi venire la pressione alta e l’ulcera, se volete diventare ansiosi e depressi. Se scegliete di percorrere questa strada, finirete per essere tentati di ingannare, raggirare e scendere a compromessi con la vostra integrità, pur di fare del “denaro facile” o di concludere un “grande affare”».[…]

La conclusione è la seguente: non posso pronunciare il mio «sì» d’amore in risposta all’invito di Dio senza pronunciare un «sì» d’amore agli altri; mi è impossibile amare Dio senza amare gli altri, così come agli altri è impossibile amare Dio senza amare me.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 89-90).

Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro?

Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi. Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro. È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria. Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.

Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria. Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza. Vogliono averne sempre di più. Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia. In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro. Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso. Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri. Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri. Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità. Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri. O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano. Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.

Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro. Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo. Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli. Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente. Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità. E sono  necessari criteri etici. Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici. Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia. Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità. È necessaria soprattutto la libertà interiore.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).

Dire Dio

Dio! dice la porta schiudendosi

sulla strada piena di passanti.

Dio! dice l’ape posandosi

sulla ciotola cerchiata di luce.

Dio! dice il vento che rigira

senza fine la sua fronda familiare.

Dio! dice il tordo chinandosi

per bere il cielo nello stagno.

Dio! dice la neve ricoprendo

di lana le fredde carreggiate.

Dio! dice il bambino vedendosi

giocare nelle braccia di sua madre.

E solo, quaggiù, l’uomo attende

per dire Dio a modo suo.

(M. Carême, Il sapore del pane)

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea

 PER L’APPROFONDIMENTO:

VIII DOM TEMP ORDINARIO (A)[1]

VII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Levitico 19,1-2.17-18

Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”». 

 

«Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (v. 2). Con questo invito rivolto da Dio al suo popolo inizia la lettura.

     Nel linguaggio corrente, per santo si intende chi ha condotto una vita esemplare, è andato in paradiso e, se invocato con fede, può concedere grazie e miracoli. Il vero significato di questo termine è però più ampio: indica ciò che è separato e consacrato a Dio. Erano santi i templi perché distinti, «ritagliati» dal mondo profano e riservati alla divinità. Varcare la soglia di un santuario era entrare nel mondo di Dio, per questo era necessario sottoporsi a numerosi e complicati riti purificatori.

     Santi erano gli oggetti sacri che non potevano essere adibiti ad altri usi, sante erano le persone che vivevano in modo originale, che assumevano comportamenti fuori del comune. Il più santo era Dio, assolutamente diverso da tutto ciò che esiste. Cosa pretendeva dunque il Signore quando ha ingiunto al suo popolo di essere «santo»? Voleva forse che vivesse separato dagli altri popoli?

     Israele ha inteso in questo modo il comando di Dio e ha pensato che fosse suo dovere evitare ogni contatto con coloro che avrebbero potuto portarlo all’idolatria. Per mantenere questa «santità», ha moltiplicato a dismisura i divieti: proibizione di entrare nelle case degli stranieri, di mangiare con loro o anche soltanto di stringere la mano a un pagano.

     Essendo questa la mentalità comune, si rimane sorpresi quando si constata che, nel libro del Levitico, c’è un testo – ed è quello che ci viene proposto oggi — in cui la «santità» è intesa in modo completamente diverso: niente separazioni materiali dagli altri uomini, niente osservanze di prescrizioni rituali.

     Per essere santi basta condurre una vita diversa, una vita che si concretizza nelle seguenti disposizioni: onorare il padre e la madre, osservare i sabati, non odiare il fratello, ri-nunciare al rancore e alla vendetta e amare «il tuo prossimo come te stesso» (vv. 3.17-18).

     Quest’ultima clausola, assieme alla famosa raccomandazione del libro dei Proverbi: «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare; se ha sete, dagli acqua da bere» (Prv 25,21), è il punto più alto cui è giunta la morale dell’Antico Testamento. Tuttavia, in essa è ancora presente un limite: l’amore richiesto non è universale; l’interpretazione rabbinica, infatti, lo restringeva ai membri del popolo d’Israele.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 3,16-23

 

   

      Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: «Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». E ancora: «Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani». Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.

     

 

2 La comunità è come un santuario ritagliato dal mondo profano; chi la mantiene unita e salda è lo Spirito, le divisioni che disgregano e minacciano di far crollare tutta la costruzione introducono un principio opposto e devastante. Chi si rende responsabile di un simile disastro sarà trattato dal Signore con estrema severità: «Dio – assicura Paolo – distrug-gerà lui» (v. 17). È l’immagine tradizionale del giudizio finale che serviva, nel linguaggio rabbinico, non a descrivere ciò che accadrà alla fine, ma a mettere in risalto l’estrema gravita di un’azione.

     Nella seconda parte della lettura (vv. 18-23) viene ripreso il motivo della contrapposizione fra la «sapienza di Dio» e quella «degli uomini». Le discordie derivano dal fatto che i mèmbri della comunità seguono la «sapienza di questo mondo», opposta a quella di Dio.

     Nella sua lettera, Paolo ha già detto che «il vangelo è una pazzia agli occhi degli uomini» (1,18.21.23), oggi afferma che la saggezza degli uomini è una follia per Dio (v. 19).

     L’Apostolo non intende svalutare o disprezzare gli sforzi e le capacità della ragione umana; egli mette in guardia dai deliri di onnipotenza e dalle pretese insensate di chi è convinto che tutto possa essere ridotto al razionale e che si possa fare a meno della luce di Dio.

     Questo pensiero introduce nelle interpretazioni nuove e provocatorie che, nel vangelo di oggi, Gesù darà ad alcuni testi dell’Antico Testamento, interpretazioni che propongono scelte morali la cui validità è garantita da Dio, non dalla «sapienza di questo mondo».

 

Vangelo: Matteo 5,38-48

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». 

 

Esegesi 

     Abbiamo ascoltato la scorsa domenica l’interpretazione di Gesù circa quattro testi della Toràh d’Israele. Oggi viene presentata quella relativa ad altri due.

     La prima riguarda il modo nuovo di ottenere giustizia. Tutti siamo d’accordo che il male va contenuto e contrastato. Ma come?

     Nelle società arcaiche dove non c’era un potere statale capace di mantenere l’ordine, si ricorreva facilmente alla vendetta, alla rappresaglia senza limiti. Il responsabile di una malefatta, una volta scoperto, veniva sottoposto a castighi esemplari, a punizioni pubbliche, tanto severe e crudeli, da dissuadere chiunque altro dal commettere simili errori. La ritorsione serviva come deterrente, ma era un modo barbaro di fare giustizia.

     Lamec, il discendente di Caino, si tutelava incutendo terrore: «Ho ucciso un uomo per un graffio e un ragazzo per un livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settanta sette volte» (Gn 4,23-24). È per porre un argine a simili eccessi che la Toràh aveva stabilito: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,23-25). Questa è forse la legge più travisata della storia del diritto.

     È citata ad esempio quando, ricevuto uno sgarbo, si ripaga con la stessa moneta. «Occhio per occhio e dente per dente» equivale, in questi casi, al rifiuto di avere compassione, di accordare clemenza al colpevole. In realtà la disposizione aveva tutt’altro significato: vietava i cosiddetti castighi esemplari e le rappresaglie. Ognuno doveva pagare per la colpa commessa, non per tutto il male presente nel mondo.

     Intesa correttamente rimane valida anche oggi e, se praticata, garantisce l’equità nelle sentenze. Gesù non la considera decaduta, propone di andare oltre questa giustizia rigorosa e invita ad affrontare il problema in altro modo (vv. 38-42).

     I rabbini del suo tempo insegnavano: «Sii ucciso, ma non uccidere», ma aggiungevano subito: se però qualcuno ti aggredisce e vuole toglierti la vita, tu non riflettere, non dire a te stesso: forse mi renderò colpevole del suo sangue; uccidilo prima che sia lui a ucciderti! Questa interpretazione dei rabbini non suscitava obiezioni. Era conforme alla logica umana e poteva trovare giustificazioni anche nella Toràh.

     Ora ecco la sorpresa, Gesù non l’accetta e dice ai suoi discepoli: «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio»; piuttosto che fare violenza al fratello, dovete essere disposti a subire l’ingiustizia (Mt 5,39). Siamo di fronte a parole inequivocabili; comunque, a scanso di equivoci, aggiunge quattro esempi, presi dalla vita quotidiana del suo popolo.

     Il primo riguarda la violenza fisica: «se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra…» (v. 41).

     Quando si riceve uno schiaffo, se l’aggressore non è un mancino, si viene colpiti sulla sinistra. Gesù parla della destra perché la violenza subita è maggiore: si tratta del manrovescio, un’offesa gravissima, punita in Israele con un’ammenda pari a più di un mese di stipendio. Al discepolo, Gesù non raccomanda di essere più buono, più mite nelle pretese di risarcimento, esige un comportamento radicalmente nuovo: «tu pórgigli anche l’altra».

     «Buoni sì, ma non stupidi!», si suol dire. Certo, le parole di Gesù non devono essere prese alla lettera (questo sarebbe davvero sciocco). Anch’egli, quando ha ricevuto lo schiaffo, non ha presentato l’altra guancia, ma ha protestato (Gv 18,23). Ciò che esige dai discepoli è la disposizione interiore ad accettare l’ingiustizia, a sopportare l’umiliazione, piutto-sto che reagire facendo del male al fratello.

     L’unico modo per interrompere il ciclo diabolico offesa-violenza è il perdono. Se alla violenza si reagisce con un’altra violenza, non solo non viene eliminata la prima ingiustizia, ma se ne aggiunge un’altra. Questo circolo può essere spezzato solo con un gesto originale, assolutamente nuovo: il perdono. Tutto il resto è vecchio, è qualcosa di già visto, di ripetuto senza sosta fin dagli inizi dell’umanità.

     Il secondo esempio si riferisce all’ingiustizia economica (v. 40).

     In Israele, uomini e donne indossavano due capi di vestiario: una tunica a maniche lunghe o a mezze maniche, portata sul corpo nudo, e un’ampia cappa (il mantello). Nel mantello ci si avvolgeva quando faceva freddo e lo si toglieva quando si svolgeva un lavoro servile. Ai poveri serviva anche da coperta per la notte, per questo la Toràh stabiliva che non poteva essere pignorato (Es 22,25-26).

     Gesù propone un caso limite di ingiustizia: un discepolo viene portato in tribunale perché lo si vuole privare della tunica. Chiaramente tutti gli altri beni gli sono già stati tolti. Che deve fare? Null’altro che manifestare il suo totale e incondizionato rifiuto di entrare in liti e contese. Per questo cede anche il mantello, l’ultimo indumento che gli rimane, quello che non poteva essere requisito come pegno, ed è disposto a rimanere nudo, come il suo Maestro sulla croce.

     Il terzo esempio è l’abuso del potere (v. 41).

     Capitava spesso che i soldati romani o qualche signorotto locale angariassero dei poveri contadini e li costringessero a fare da guide o a portare carichi. Un esempio lo abbiamo nel racconto della passione: Simone di Cirene è obbligato a portare la croce di Gesù (Mt 27,31).

     Gli zeloti, cioè i rivoluzionari di quel tempo, suggerivano la ribellione e il ricorso alla violenza per opporsi a simili soperchierie. Epitteto esortava alla prudenza: «Se un soldato ti requisisce l’asino, non resistergli e non lamentarti, altrimenti verrai percosso e alla fine glielo dovrai consegnare lo stesso».

     Gesù non fa alcuna considerazione di questo tipo, non si richiama alla prudenza; ai discepoli dice semplicemente: «se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due». Non detta una norma di saggezza, non suggerisce una strategia atta a convenire l’aggressore, non assicura nemmeno che un simile comportamento arrendevole otterrà risultati positivi in tempi brevi. Chiede al discepolo che, senza fare calcoli, mantenga il cuore libero dai risentimenti e si astenga da qualunque reazione che non sia dettata dall’amore.

     Il quarto caso è quello della persona importuna che viene a chiedere un prestito (ma può anche essere un alloggio, un appartamento in affitto, un posto di lavoro, un prezzo di favore…) magari, come spesso accade, senza un minimo di discrezione.

     Gesù dice al discepolo: «Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle» (v. 42). Non fingere di non capire, non cercare scuse, non inventare difficoltà inesistenti, non cercare di scaricare su altri il problema. Se puoi fare qualcosa, fallo e basta.

     Nell’ultimo (il sesto) esempio Gesù si richiama a un duplice comandamento: «Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico» (vv. 43-48). Nell’Antico Testamento il primo lo si trova (Lv 19,18), ma il secondo no. Probabilmente Gesù non si riferisce a un testo specifico della Toràh, ma alla mentalità che si era creata in Israele a partire da alcuni testi biblici.

     Nelle sacre Scritture si parla, a volte, di guerre sante (Dt 7,2; 20,16), compaiono sentimenti di vendetta (Sal 137,7-9), si manifesta il proprio attaccamento al Signore, ma in un linguaggio molto arcaico: «Non odio, forse, i tuoi nemici, Signore? Li detesto con odio implacabile» (Sal 139,12-22).

     Espressione di questo odio è l’invito che i monaci esseni di Qumran rivolgevano ai loro adepti: «Amate tutti i figli della luce, ma odiate tutti i figli delle tenebre, ciascuno secondo la sua colpa, nella vendetta di Dio».

     Ci sono però nella Bibbia – è bene ricordarlo – altri testi in cui si ammonisce di non ricambiare il male (Prv 24,29) e si raccomanda l’amore al nemico: «Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo» (Es 23,5). Appellandosi ad essi, alcuni rabbini sostenevano che il comandamento: «Ama il prossimo come te stesso» (Lv 19,18) doveva essere esteso anche al nemico, ma l’opinione comune lo restringeva agli appartenenti al popolo giudaico.

     In questo contesto religioso, il duplice comandamento di Gesù suona paradossale: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori».

     È l’apice dell’etica cristiana, è la richiesta dell’amore gratuito e incondizionato che non si aspetta alcun contraccambio e che, come quello di Dio, raggiunge anche chi fa del male.

     Alcuni saggi dell’antichità hanno fatto proposte morali elevate: «Comportati in modo da trasformare i tuoi nemici in amici» (Diogene). «Proprio dell’uomo è amare anche coloro che lo percuotono» (Marco Aurelio); ma l’imperativo Ama i tuoi nemici è un’invenzione di Gesù.

     Il secondo comando – pregate – suggerisce il mezzo per riuscire a praticare l’amore per «chi ci perseguita», per chi ci rende la vita impossibile: la preghiera. Essa eleva verso il cie-lo, unisce al Signore, purifica la mente e il cuore dai pensieri e dai sentimenti dettati dalla logica di questo mondo e fa vedere il malvagio con gli occhi di Dio, che non ha nemici.

     Gesù invita a mostrarsi suoi figli, chiede ai discepoli di lasciar trasparire nei loro comportamenti l’indole del Padre celeste «egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». La distinzione fra malvagi e buoni e la lotta contro gli uomini, portata avanti in nome di Dio, sono bestemmie!

     Due esempi (vv. 46-47) mettono a confronto il comportamento usuale degli uomini con la novità di vita di chi ha assimilato i pensieri, i sentimenti e le opere del Padre che sta nei cieli. La caratteristica dei «figli di Dio» è l’amore offerto a chi non lo merita e il saluto rivolto a chi si comporta da nemico. La formula di saluto era: Shalom, augurio di pace e di ogni bene. Con tutto il cuore, il discepolo desidera, anche per chi lo odia, il bene e, dimentico dei torti, si impegna perché questo avvenga.

     La conclusione addita la meta irraggiungibile: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (v. 48).

     La perfezione del giudeo consisteva nell’esatta osservanza dei precetti della Toràh. Per il cristiano è l’amore senza limiti come quello del Padre. Perfetto è chi non manca di nulla, chi è integro, chi non ha il cuore diviso fra Dio e gli idoli. La disponibilità a donare tutto, a non conservare nulla per sé, a mettersi totalmente a servizio dell’uomo — compreso il nemico – colloca sulle orme di Cristo e conduce alla perfezione del Padre che si dona tutto e che non esclude nessuno dal suo amore.

Meditazione 

     Quando ne sentiamo parlare o, peggio ancora, la sappiamo nuovamente riapplicata, abbiamo un sussulto alle viscere e ci assale un moto di disgusto. Eppure, per quanto possa apparirci difficile da credere, la legge del taglione venne introdotta quale efficace strumento per evitare il debordare della violenza incontrollata e porre un argine alla ‘legge del più forte’. A una offesa si potrà (o si dovrà?) contrapporre analoga ferita: non di più! Se abbiamo però il coraggio di non censurare pensieri e sentimenti che irrompono dentro di noi quando qualcuno ci tocca sul vivo, magari mettendo a nudo qualche tratto vergognoso della nostra esistenza, forse la legge ‘dell’occhio per occhio’ non ci apparirebbe così arcaica e primitiva, scoprendo anzi di essere capaci di ben peggiori violenze: quante volte abbiamo maledetto, imprecato – se non abbiamo addirittura augurato una rapida dipartita da questa terra – a chi (ci) faceva del male ‘gratuitamente’, senza ragione alcuna? Se situazioni aberranti ridestano fortunatamente in noi la capacità di scandalizzarci e di intervenire, la nostra reazione non è forse sempre commisurata alla colpa commessa (contro di noi)…

     Comunque sia, le parole di Gesù riportate nel brano evangelico di questa settimana aprono la strada a un cammino infinito, stimolando le migliori energie positive che possono sprigionarsi anche da ognuno di noi. L’apparente contraddizione tra Primo e Nuovo Testamento, tra «avete inteso che fu detto» (5,38.43) e «ma io vi dico» (5,39.44), è solo la riproposizione religiosa della legge del taglione sopra citata: quelle norme, introdotte addirittura nel testo biblico, per cercare di evitare un male peggiore e l’insorgere dell’arbitrarietà, sono ora accostate allo splendore massimalista del desiderio del Signore: «Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48). La speranza di un mondo riconciliato e unito nell’amore non è favola per bambini ma vigoroso ed esigente programma esistenziale del discepolo di Gesù.

     È estremamente facile entrare in rotta di collisione con altri ma quanto è difficile ricucire un tessuto relazionale! Concretamente, cosa si può fare nei confronti del malvagio? Un’arte laboriosa si richiede… Un primo passo, già estremamente impegnativo, è non replicare al male con il male (cfr. 5,39-41), bloccare in sé quella spontanea reazione di vendetta che ci illude falsamente di ristabilire una qualche forma di giustizia e legalità. Non chiudere i ponti, arrivare a prestare a chi domanda (cfr. 5,42) suppone la capacità di riuscire a vedere nella persona richiedente – ‘il cattivo’ – almeno una scintilla di quel bene che altri – e magari lui stesso – non riesce più a scorgere: sperare pertanto in un cambiamento della persona è dare credito, dare fiducia a quel desiderio di umanità e autenticità che abita le profondità di ognuno di noi.

     Gesù arriva addirittura a chiedere il superamento della reciprocità: un amore autentico non calcola ma si offre generosamente, perché «pieno compimento della Legge è l’amore» (Rm 13,9). E ci sferza con decisione, quasi irridendo quei nostri sforzi che ci appaiono impari: «se amate quelli che vi amano, cosa fate di straordinario?» (5,46.47). Va precisato che così dicendo Gesù non banalizza affatto l’amicizia o mette a un livello inferiore l’amore che può esistere tra coniugi: si sta parlando del caso del ‘nemico’, di cui mai si chiede di diventare amico. Sono situazioni differenti!

     Forse mai come in questa situazione ci appare debole la nostra carne: come si può amare chi ci è stato o ci è ancora nemico? Senza entrare nelle infinite e reali sfumature dei singoli casi personali, su cui peraltro ognuno di noi è chiamato a verificarsi, comprendiamo come solo grazie all’azione dello Spirito santo ci possa essere offerta la possibilità di incamminarci su questo erto ma liberante cammino di crescita. Quella preghiera che sale incessantemente al Padre dal Signore risorto e che ci viene domandata anche verso i nostri persecutori (5,44) è forse l’espressione più completa di quella perfezione d’amore che Gesù ha testimoniato durante tutta la sua esistenza.

     Vigiliamo sui nostri sentimenti e facciamone attenta verifica: stupiti dall’amore di Gesù, che ci ha amati mentre eravamo ancora nemici (cfr. Rm 5,10), saremo in grado di purificare il nostro cuore e camminare nella via dell’amore.

 

Preghiere e racconti

L’amore universale

“Parlando dell’amore, ci si riferisce di solito all’amore fra genitori e figli, marito e moglie, parenti, amici. Dipendendo per natura dai concetti di “io” e “mio”, questo amore è imprigionato nell’attaccamento e nella discriminazione. La gente vuole amare soltanto i propri genitori, il proprio coniuge, i propri figli e nipoti, i propri parenti e i propri amici. Poiché è irretita nell’attaccamento, teme i mali a cui sono esposte le persone amate e se ne preoccupa prima che accadano. Poi, quando le disgrazie vengono, la sofferenza è tremenda. L’amore fondato sulla discriminazione genera il pregiudizio, ovvero indifferenza e persino ostilità nei confronti di coloro che escludiamo dal nostro amore. Attaccamento e discriminazione sono cause di sofferenza per noi stessi e per gli altri. In realtà, l’amore a cui tutti gli esseri aspirano è l’amore universale. Nell’amore universale vi è compassione e dedizione. Compassione e dedizione non sono limitate ai genitori, al coniuge, ai figli, ai parenti, agli amici, ma si allargano a tutta l’umanità e a tutti gli esseri.

Compassione e dedizione hanno come fine la felicità di tutti e non pretendono nulla in cambio. Senza di essi, senza l’amore universale, la vita è senza gioia. Con la compassione e la dedizione agli altri, con l’amore universale, la vita si colma di pace e di gioia.”

(Thich Nhat Hanh, Old Pth White Clouds (1991); trad. It. Vita di Siddharta il Buddha, Ulbaldini, 1992, pag. 189)

Abbi misericordia di tutti, perché la misericordia trova fiducia presso Dio

Un fratello della Libia venne da abba Silvano sul monte Panefo e gli disse: «Abba, ho un nemico che mi fa del male; quand’ero nel mondo mi ha rubato il mio campo, mi ha spesso teso insidie, ed ecco che ha assoldato della gente per avvelenarmi. Voglio consegnarlo al giudice». L’anziano gli disse: «Fa’ ciò che ti da pace, figliolo». E il fratello disse: «Abba, se riceve il castigo, la sua anima non ne trarrà profitto?». L’anziano disse: «Fa’ come ti pare, figliolo». Il fratello disse all’anziano: «Alzati, padre, preghiamo e poi vado dal giudice».

L’anziano si alzò e dissero il «Padre nostro». Come giunsero alle parole: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12), l’anziano disse: «Non rimettere a noi i nostri debiti, come noi non li rimettiamo ai nostri debitori». Il fratello disse: «Non è così, padre». «È così, figliolo, – disse l’anziano – se veramente vuoi andare dal giudice per vendicarti, Silvano non fa altra preghiera per te». E il fratello si prostrò e perdonò al suo nemico.

Di abba Macario il Grande dicevano che diventò, come sta scritto, un dio sulla terra (cfr. Sal 81 [82] ,6), perché, come Dio copre il mondo, così abba Macario copriva le debolezze che vedeva come se non le vedesse, e quelle che udiva, come se non le udisse.

Abba Teodoro di Ferme interrogò abba Pambo: «Dimmi una parola!». Con molta fatica gli disse: «Teodoro, va’, abbi misericordia di tutti, perché la misericordia trova fiducia presso Dio».

(PADRI DEL DESERTO, Detti, in Detti editi e inediti dei padri del deserto, Bose, 2002, pp. 223; 297-298).

Amore del nemico

«Amare gli amici lo fanno tutti, i nemici li amano soltanto i cristiani.» Queste parole di Tertulliano (Ad Scapulam 1,3), che vogliono esprimere la differenza cristiana, vertono significativamente sull’amore per i nemici.

Questo appare come vera e propria sintesi del Vangelo: se tutta la Legge si sintetizza nel comando dell’amore di Dio e del prossimo (Marco 12,28-33; Romani 13,8-10; Giacomo 2,8), la vita secondo il Vangelo trova il suo compimento nelle parole e nei gesti di Gesù che indicano nell’amore del nemico l’orizzonte della prassi cristiana. Dice infatti Gesù: «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano» (Luca 6,27; cfr. Luca 6,28-29.35; Matteo 5,43-48) e tutta la sua vita – fino al momento della lavanda dei piedi anche a Giuda, colui che si era fatto suo nemico; fino alla croce, luogo del suo amore «fino alla fine» per i suoi (Giovanni 13,1); fino alla preghiera per i suoi carnefici mentre lo crocifiggevano (Luca 23,33-34) – attesta questo amore incondizionato rivolto anche al nemico. Il cristiano, chiamato ad assumere il sentire, il pensare, il volere di Cristo stesso (cfr. Filippesi 2,5), si trova dunque sempre confrontato con questa esigenza.

Ma occorre chiedersi: è realmente possibile amare il nemico, e amarlo mentre manifesta la sua ostilità e inimicizia, il suo odio e la sua avversione? È umanamente possibile tale scandalosa simultaneità? L’esperienza infatti ci rivela che il fascino per l’assolutezza dell’amore del nemico svanisce in assoluta dimenticanza e diviene incapacità di dargli consistenza esistenziale di fronte alle precise e concrete situazioni di inimicizia. E forse già questo rappresenta un primissimo, e umanamente fondamentale, momento del cammino verso l’amore del nemico. Inoltre il cristiano è portato dal Vangelo a vedere in se stesso il nemico amato da Dio e per cui Cristo è morto: questa è l’esperienza di fede basilare da cui soltanto potrà nascere l’itinerario spirituale che conduce all’amore per il nemico! Scrive Paolo: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo peccatori e nemici, Cristo è morto per noi» (cfr. Romani 5,8-10). Su questa esperienza di fede occorre innestare la progressività di una maturazione umana che conduce ad acquisire il senso positivo dell’alterità, la capacità dell’incontro, della relazione e quindi dell’amore. Già l’Antico Testamento, quando invita l’israelita ad amare il prossimo come se stesso, propone una sorta di itinerario: «Io sono il Signore, non coverai odio verso tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Levitico 19,17-18). Anzitutto è richiesta l’adesione di fede a colui che è il Signore, quindi l’israelita è chiamato a impedirsi sentimenti di odio (atteggiamento negativo), poi a correggere colui che fa il male (atteggiamento positivo) proibendosi di farsi vendetta da sé (atteggiamento negativo) e amando così il suo prossimo come se stesso (atteggiamento positivo). All’amore si arriva attraverso un cammino, un esercizio.

L’amore non è spontaneo: esso richiede disciplina, ascesi, lotta contro l’istinto della collera e contro la tentazione dell’odio. Così si perverrà alla responsabilità di chi ha il coraggio di esercitare una correzione fraterna denunciando «costruttivamente» il male commesso da altri. L’amore del nemico non va confuso con la complicità con il peccatore! Anzi, proprio la libertà di chi sa correggere e ammonire chi compie il male nasce dalla profondità della fede e da un amore per il Signore che sono la necessaria premessa per l’amore del nemico.

Chi non serba rancore e non si vendica, ma corregge il fratello, è infatti anche in grado di perdonare: e il perdono è la misteriosa maturità di fede e di amore per cui l’offeso sceglie liberamente di rinunciare al proprio diritto nei confronti di chi ha già calpestato i suoi giusti diritti. Chi perdona sacrifica un rapporto giuridico in favore di un rapporto di grazia! Anche Gesù, quando chiede di amare il nemico, immette il credente in una tensione, in un cammino. Dallo sforzo per superare sempre di nuovo la legge del taglione, cioè la tentazione di rendere il male che si è ricevuto, il credente deve pervenire a non opporsi al malvagio, a contrapporre al male l’attivissima passività della non violenza, fidando nel Dio unico Signore e Giudice dei cuori e delle azioni degli uomini. Anzi, mossi dalla convinzione che il nemico è il nostro più grande maestro, colui che può veramente svelare ciò che abita il nostro cuore e che non emerge quando siamo in buoni rapporti con gli altri, i credenti possono obbedire alle parole del loro Signore che invitano a porgere l’altra guancia, a devolvere anche la tunica a chi vuole toglierci il mantello…

Ma perché tutto questo sia possibile è indispensabile ciò che sempre è ricordato dai Vangeli accanto al comando di amare i nemici, e cioè la preghiera per i persecutori, l’intercessione per gli avversari: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,44). Se non si assume l’altro – e in particolare l’altro che si è fatto nostro nemico, che ci contraddice, che ci osteggia, che ci calunnia – nella preghiera, imparando così a vederlo con gli occhi di Dio, nel mistero della sua persona e della sua vocazione, non si potrà mai arrivare ad amarlo! Ma deve essere chiaro che l’amore del nemico è questione di profondità di fede, di «intelligenza del cuore», di ricchezza interiore, di amore per il Signore, e non semplicemente di buona volontà!

(E. BIANCHI, Parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 169-172).

La via dell’amore

Guardate per quale via Dio va verso gli uomini, verso i suoi nemici. È la via che la Scrittura stessa chiama stoltezza, la via dell’amore sino alla croce. Riconoscere la croce di Gesù Cristo come l’invincibile amore di Dio verso tutti gli uomini, verso di noi come verso i nostri nemici: questa è la più grande sapienza. O crediamo che Dio ami noi più di quanto ama i nostri nemici? Crediamo forse di essere i beniamini di Dio? La croce non è proprietà privata di nessuno: essa appartiene a tutti gli uomini,  ha valore per tutti. Dio ama i nostri nemici – ecco quel che ci dice la croce – per loro egli soffre, per loro conosce la miseria e il dolore, per loro ha dato il suo Figlio amato. Per questo è di capitale importanza che dinanzi a ogni nemico che incontriamo, subito pensiamo: Dio lo ama, per lui Dio ha dato tutto. Anche tu, ora, dagli ciò che hai: pane, se ha fame; acqua, se ha sete; aiuto, se è debole; benedizione, misericordia, amore. Ma lo merita? Sì. Chi infatti merita di essere amato, chi è bisognoso del nostro amore più di colui che odia? Chi è più povero di lui? Chi più bisognoso di aiuto, chi più bisognoso di amore del tuo nemico?

Hai mai provato a considerare il tuo nemico come qualcuno che, in fondo, ti sta dinanzi nella sua estrema povertà, e ti prega, senza poter dar voce alla sua preghiera: «Aiutami, donami quell’unica cosa che mi può ancora essere di aiuto a liberarmi dal mio odio, donami l’amore, l’amore di Dio, l’amore del Salvatore crocifisso»? Tutte le minacce, tutti i pugni protesi sono in definitiva un mendicare l’amore di Dio, la pace, la fraternità. Tu respingi il più povero dei poveri, lo metti alla porta, quando respingi il tuo nemico […]. Il carbone ardente brucia e fa male, quando ci tocca. Anche l’amore può bruciare e far male. Ci insegna a riconoscere quanto miseri siamo. È il dolore bruciante del pentimento quello che si fa sentire in colui che, nonostante l’odio e le minacce, trova solo amore, nient’altro che amore Dio ci ha fatto conoscere questo dolore. Quando lo abbiamo sperimentalo, ecco, è scoccata l’ora della conversione.

(D. BONHOEFPER, Memoria e fedeltà, Magnano 1979, 117s. e 123s., passim).

Pregare per i nostri nemici

I cristiani si ricordano a vicenda nelle preghiere (Rm 1,9; 2Cor 1,11; Ef 6,8;Col 4,3) e così facendo danno aiuto e forse salvezza a coloro per i quali pregano (Rm 15,30; Fil 1,19). Ma il testo decisivo sulla preghiera di compassione va al di là delle preghiere per i propri fratelli cristiani, per i membri della comunità, per gli amici e i parenti. Gesù dice senza possibilità di equivoci: «Io vi dico: amate vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,44); e nel profondo della sua agonia sulla croce, prega per coloro che lo stanno uccidendo: «Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 25,54). Qui viene reso visibile il vero significato della disciplina della preghiera. Pregare ci fa portare al centro del nostro cuore non solo coloro che ci amano, ma anche quelli che ci odiano. Questo e possibile unicamente se siamo disposti a fare dei nostri nemici parte di noi stessi, convertendoli in tal modo innanzitutto nel nostro cuore. La prima cosa che siamo chiamati a fare quando pensiamo agli altri come a dei nemici, è pregare per loro. Non è davvero cosa facile.

Ci vuole disciplina per far entrare nel profondo del nostro cuore coloro che ci odiano o coloro verso i quali nutriamo sentimenti di ostilità. Le persone che ci rendono la vita difficile e ci causano frustrazione, dolore e anche danno, sono le ultime ad avere una probabilità di trovare posto nel nostro cuore. Eppure ogni volta che superiamo l’intolleranza nei confronti dei nostri antagonisti e siamo disposti ad ascoltare il grido di coloro che ci perseguitano, riconosciamo anche in loro dei fratelli e delle sorelle.

Pregare per i nostri nemici è, dunque, un evento concreto, l’evento della riconciliazione. È impossibile innalzare i nostri nemici alla presenza di Dio e contemporaneamente continuare a odiarli. Visti nel contesto della preghiera, anche il dittatore senza scrupoli e il torturatore perverso cessano di apparire come oggetto di paura, di odio e di vendetta, perché quando preghiamo siamo al centro del grande mistero della divina compassione. La preghiera trasforma il nemico in amico e per questo è l’inizio di una nuova relazione. Probabilmente non c’è preghiera tanto potente quanto quella per i nostri nemici. Ma è anche la preghiera più difficile, perché è la più contraria ai nostri moti naturali.

Questo spiega perché alcuni santi ritengono la preghiera per i nemici il principale criterio di santità.

(J.M. Nouwen, Compassione, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 41).

Per imparare l’amore di Dio

Se vuoi imparare l’amore di Dio, devi cominciare col pregare per i tuoi nemici. È più difficile di quanto sembri. Pregare per gli altri ci obbliga a volere ciò che è meglio per loro, il che è tutt’altro che facile se, per esempio, riguarda un compagno di scuola che parla male di te, una ragazza che considera qualcun altro più attraente di te, uno che si proclama tuo amico e che ti sfrutta per tanti piccoli favori che non vorresti fargli, o un collega che fa del suo meglio per soffiarti il posto. Eppure, ogni volta che preghi – ma preghi davvero – per i tuoi nemici, ti accorgi che il tuo cuore si rinnova.

Nel contesto della tua preghiera, scopri subito che i tuoi nemici sono in realtà esseri umani come te, amati da Dio come sei amato tu. Ne deriva che gli steccati che hai eretto tra ‘lui e me’, ‘noi e loro’, ‘il nostro e il loro’ scompaiono. Il tuo cuore guadagna in profondità e ampiezza e si apre sempre più a tutti gli esseri umani che Dio nel suo amore fa vivere qui in terra.

Mi riesce difficile immaginare una via per giungere all’amore che sia più concreta della preghiera per i nemici. Ti obbliga infatti ad accettare la verità non sempre gradita che, agli occhi di Dio, tu non sei ne più degno né meno degno di essere amato di quanto lo siano gli altri, e crea una consapevolezza di profonda solidarietà con tutti gli uomini. Crea inoltre in te una compassione universale e un cuore sempre più libero dall’istinto di ricorrere alla sopraffazione e alla violenza. E avrai la grande gioia di scoprire che ti è impossibile arrabbiarti con coloro per i quali hai veramente pregato. E vedrai che comincerai a parlare in un altro modo a loro o di loro e che sarai proprio deciso a fare del bene a chi in qualche modo ti ha fatto del male.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 64).

Con tutto il cuore

Se ami Dio senza amare il prossimo,

ami soltanto un’immagine e di un amore immaginario.

L’amore di Dio che non sia nel contempo servizio del prossimo,

è un’immensa menzogna che uno racconta a se stesso…

Se ami il prossimo senza amare Dio,

che amore è questo?

E’ l’istinto del gregge e gusto del calore

e del tanfo della moltitudine,

è la paura di stare da soli, è il piacere di strofinarsi agli altri

oppure odio in comune di qualche altro gregge.

Se ami te stesso senza amare né Dio né il prossimo

questo amore è il contrario dell’amore.

Ma se ami Dio e il prossimo senza amare te stesso,

l’amor tuo non è un dono,

poiché non si può far dono di ciò che non si ama;

è il contrario di un dono: è un oblio;

è il contrario di un sacrificio: è un suicidio.

E’ perdita, non amore, poiché in te non vi è nessuno

che possa amare.

Ordunque, ama Dio per amore del prossimo e di te stesso

ama il prossimo per amore di Dio e di te stesso

ama te stesso per amore del prossimo e di Dio.

Non opporre gli opposti, anzi congiungili nell’amore.

(Lanza del Vasto)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 20

PER L’APPROFONDIMENTO

VII DOM TEMP ORDINARIO (A)

VI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Siracide 15,16-21

Se vuoi osservare i suoi comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui, anche tu vivrai. Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano.

Davanti agli uomini stanno la vita e la morte, il bene e il male: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà. Grande infatti è la sapienza del Signore; forte e potente, egli vede ogni cosa. I suoi occhi sono su coloro che lo temono, egli conosce ogni opera degli uomini. A nessuno ha comandato di essere empio e a nessuno ha dato il permesso di peccare.

 «Se vedi una persona saggia, va’ presto da lei; il tuo piede consumi i gradini della sua porta» (Sir 6,36). Questa frase avrebbe potuto essere scritta all’entrata della scuola che, fra la fine del III e l’inizio del II secolo a. C., Ben Sira (il Siracide) aveva aperto a Gerusalemme. Ai giovani discepoli che seguivano le sue lezioni e che, d’altra parte, si sentivano anche attratti dalle proposte seducenti del mondo ellenistico ed erano affascinati dalle lusinghe della vita pagana, egli indicava il cammino della vita, insegnava la Toràh, la sapienza di Dio.

     Era anche un poeta, Ben Sira. La Toràh era per lui «come un cedro del libano, come un cipresso sui monti dell’Ermon, come una palma in Engaddi, deliziosa come le rose di Gerico»; ne assaporava il profumo, «come di cinnamomo e balsamo, come mirra scelta»; vedeva la sapienza uscire dai suoi rotoli e traboccare «come il Giordano nei giorni della mietitura» (Sir 24,13-24).

     Incantato dalla bellezza della legge di Dio, trasmetteva la sua passione agli alunni. Insegnava loro: «Davanti a ogni uomo stanno la vita e la morte, il fuoco e l’acqua»; ognuno deve scegliere, è libero e responsabile delle proprie azioni, può costruire o rovinare la propria esistenza. Se prende decisioni insensate la colpa non è di Dio che ha fatto bene ogni cosa, ma soltanto sua.

     Non v’è alcuna costrizione interiore a peccare. L’uomo può dominare i propri istinti (Sir 21,11), può controllare i propri desideri e le proprie passioni (Sir 20,30). Se compie il male, se devia dai sentieri tracciati dalla Toràh attira su di sé sventure e disgrazie (Sir 40,10), se invece segue i cammini indicati dal Signore avrà vita e benedizione.

     Così si esprimeva Ben Sira, il vecchio saggio, desideroso di orientare i suoi figli e i suoi discepoli sulla via tracciata dalla Legge di Dio.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 2,6-10

Fratelli, tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla. Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma, come sta scritto: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano». Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio.      

 

A Corinto c’era chi si inorgogliva, chi, per mettersi in mostra, faceva sfoggio di sapienza e predicava il vangelo ricorrendo a sottili ragionamenti, come facevano i filosofi.

     Paolo dà un giudizio severo di queste persone: chi si comporta in questo modo — afferma — non si è ancora reso conto che, dal punto di vista umano, la proposta della fede è una follia: è l’invito a divenire discepoli di un uomo giustiziato. Solo dei «pazzi» possono rischiare la vita accettando la sua proposta e solo chi è ancora più «pazzo» può decidere di divenirne messaggero e paladino. Nulla di irrazionale nella fede cristiana – sia chiaro! – nulla che ripugni alla ragione, ma indubbiamente la proposta di donare la vita cozza con il buon senso umano.

     Esiste però – continua Paolo – una «sapienza» cristiana, non «di questo mondo», naturalmente, ma del mondo di Dio, una sapienza che può essere capita solo dai «perfetti», cioè, dai «cristiani adulti» (v. 6).

     L’Apostolo che ha appena affermato di essersi presentato ai corinzi «in debolezza e con molto timore e trepidazione», privo della sapienza che sovrabbonda nei discorsi persuasivi dei filosofi (1Cor 2,3-4), ora colloca anche se stesso fra questi sapienti che hanno ricevuto, per mezzo dello Spirito, una speciale rivelazione dei misteri di Dio (v. 10).

     Di che si tratta?

     Di quella che è chiamata «sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta» (vv. 7-8), di quella che, in altre lettere, è detta semplicemente «mistero», «mistero taciuto per secoli eterni, ma rivelato ora» (Rm 16,25-26), «mistero nascosto da secoli» (Col 1,26). È il disegno divino della salvezza universale. Questo progetto era noto da tutta l’eternità soltanto a Dio e nessuno poteva immaginare quale meraviglia egli stesse preparando.

     Ora che si sta realizzando, il «mistero» può essere contemplato nel suo progressivo svelarsi e Pietro afferma che, in cielo, gli stessi angeli mantengono gli occhi fissi sul mondo, ansiosi di scorgere e di godere di quanto Dio sta compiendo (1Pt 1,12). L’autore della Lettera agli efesini ripropone, in altre parole, la stessa, commovente idea. Gli angeli – dice -scoprono il mistero di Dio osservando ciò che avviene nella chiesa: «Ora si sta manifestando nel cielo, per mezzo della chiesa, ai Principati e alle Potestà la multiforme sapienza di Dio» (Ef 3,10). 

     Ciò che Dio sta attuando oltrepassa i desideri e le speranze degli uomini. Adattando un versetto del libro di Isaia (Is 64,3), Paolo descrive così la sorpresa che attende coloro che hanno la fortuna di poter scrutare questo mistero: «occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (v. 9).

 

Vangelo: Matteo 5,17-37

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.  Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna.

Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo! Avete inteso che fu detto: “Non commetterai adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio. Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno».

 

Esegesi 

«Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato» (Bar 4,4).

     Così Baruc esprimeva l’orgoglio del suo popolo e la sua riconoscenza al Signore che aveva indicato a Israele «la via della sapienza» (Bar 3,27), nella Toràh, nel «libro dei decreti di Dio» (Bar 4,1).

     Essendo opera di Dio, la Toràh non può essere né smentita né contraddetta. «La Scrittura non può essere annullata» – ha dichiarato Gesù (Gv 10,35) – perché Dio non può avere ripensamenti o rinnegare quanto ha detto in passato o apportarvi correzioni. Il cammino da lui tracciato dall’Antico Testamento ha validità perenne.

     Nella prima frase del vangelo di oggi Gesù ribadisce questa verità: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (v. 17).

     Se sente il bisogno di chiarire la sua posizione, significa che qualcuno ha avuto l’impressione che egli, con il suo comportamento e con le sue parole, stesse demolendo le convinzioni, le attese e le speranze di Israele, basate sui testi sacri.

     Gesù era rispettoso delle leggi e delle istituzioni del suo popolo, ma le interpretava in modo originale; il suo punto di riferimento non era la lettera del precetto, ma il bene dell’uomo. Per amore all’uomo non esitava a violare anche il sabato e questa sua libertà suscitava stupore, perplessità e anche irritazione nelle autorità religiose. Tuttavia, più che la sua mancata osservanza delle prescrizioni dei rabbini, ciò che creava sconcerto era il suo messaggio, la nuova Toràh che aveva proclamato sul monte, una Toràh che sconvolgeva i principi e i valori su cui era fondata l’istituzione religiosa e civile d’Israele. Mosè aveva promesso: «Tutti i popoli della terra ti temeranno; il Signore ti concederà abbondanza di beni; ti metterà in testa e non in coda e sarai sempre in alto e mai in basso» (Dt 28,10-13). Come poteva Gesù dichiarare di essere in sintonia con l’Antico Testamento se proclamava beati i poveri, i perseguitati, gli oppressi e se annunciava, per i suoi seguaci, difficoltà, sofferenze e persecuzioni? Il suo messaggio era in aperto contrasto con le Scritture.

     Leggendo i profeti, Israele si era convinto che il messia avrebbe instaurato un regno eterno, glorioso; avrebbe dato «agli afflitti di Sion una corona di gloria invece della cenere», mentre per i nemici avrebbe promulgato «un giorno di vendetta per il nostro Dio» (Is 61,2-3). Nei momenti più drammatici della sua storia, Israele ritrovava in queste promesse la ragione per continuare a credere e a sperare in un futuro migliore. Come mai Gesù deludeva queste attese?

     Ecco come chiarisce la sua posizione e le sue scelte: le promesse fatte da Dio – spiega – si compiranno tutte, non ne cadrà nemmeno una. Prima che il mondo sia finito, quanto è stato scritto si realizzerà, ma in modo inatteso e la sorpresa sarà tanto grande che persino le persone pie, devote, sincere, come il Battista, correranno il rischio di veder vacillare la loro fede e di rimanere scandalizzate (Mt 11,6).                  

     In questa luce vanno intesi i detti di Gesù che concludono la prima parte del vangelo di oggi, riguardanti l’osservanza dei precetti anche minimi e la giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei (vv. 19-20). I precetti cui fa riferimento non sono quelli dell’antica legge, ma le beatitudini.

     Sono queste beatitudini la nuova proposta, la nuova giustizia che porta a compimento, conduce alla perfezione quella antica, quella che gli scribi e i farisei – bisogna riconoscerlo –

praticavano in modo esemplare.

     Come nella pratica dell’antica legge c’era chi si accontentava della fedeltà ai precetti più importanti e trascurava gli altri, così nell’adesione alla proposta delle beatitudini c’è chi si attiene al minimo (ammirarle, approvarle, appoggiare chi ha il coraggio di praticarle) e c’è chi è coerente fino in fondo e fa scelte coraggiose e decise. Agli occhi di Dio – dichiara Gesù, con un certo umorismo – i primi appariranno come «i minimi», gli altri invece saranno giudicati grandi, saranno considerati «rabbini» nel regno dei cieli, saranno cioè persone da additare come modelli agli altri discepoli.

     Nella seconda parte del vangelo (vv. 20-37) vengono presentati quattro esempi del balzo in avanti, richiesto a tutti coloro che vogliono entrare nel regno dei cieli. Si tratta di quattro disposizioni che si ritrovano nell’Antico Testamento e che non vengono smentite, ma spiegate in modo originale.

     Gesù ne evidenzia tutte le implicazioni: parte dalla Toràh di Mosè – che era il punto di arrivo, il vertice raggiunto dalla «giustizia» degli scribi e dei farisei – e va oltre, propone la meta ultima di questa Legge.

     Gli esempi che porta sono sei, ma il vangelo di oggi ne riprende soltanto quattro, gli altri due ci verranno proposti domenica prossima. Sono introdotti tutti con la stessa formula stereotipa: «Avete inteso che fu detto agli antichiMa io vi dico…».

     Non ucciderai (vv. 21 -26).

     È il primo caso che viene preso in considerazione. È una disposizione chiara, che non ammette eccezioni e che condanna qualunque forma di omicidio (Gn 9,5-6). L’uomo non ha potere sulla vita di un suo simile, quand’anche fosse un criminale (Gn 4,15). La vita umana è sacra e intangibile dal momento in cui sboccia fino a quando, naturalmente, si conclude. Questo era già chiaro nella Toràh antica, ma, per entrare nel regno dei cieli, è necessario capire che il non uccidere comporta molto di più. Ci sono altri modi – subdoli, sofisticati, occulti, camuffati – di uccidere.       

     Se ci fossero raggi X capaci di rilevare il cimitero celato nel nostro cuore ci spaventeremmo. Tra i morti troveremmo coloro ai quali abbiamo giurato di non rivolgere più la parola, coloro ai quali abbiamo negato il perdono, coloro ai quali continuiamo a rinfacciare l’errore commesso, coloro cui abbiamo tolto il buon nome con maldicenze o calunnie, coloro che abbiamo privato dell’amore e della gioia di vivere…

     Gesù insegna che il comandamento che ordina di non uccidere ha tante implicazioni che vanno ben oltre l’aggressione fisica. Chi usa parole offensive, chi si adira, chi alimenta sentimenti di odio ha già ucciso suo fratello (v. 22).

     L’omicidio parte sempre dal cuore. Non si può odiare un uomo e continuare a sentirsi in pace con se stessi. Non si riesce a uccidere se prima non ci si è convinti di avere a che fare con chi non è uomo, non merita di vivere e quindi è bene che venga eliminato. Quest’opera denigratoria è portata avanti mediante le parole, ripetendo a se stessi, come uno spietato ritornello: è «stupido», è «pazzo». Così si giunge, senza rimorsi, a pronunciare la sentenza: merita «il rogo».

     È questo cuore crudele e ingiusto — insegna Gesù — che va disarmato. All’opera di demonizzazione dell’uomo, egli contrappone il suo giudizio: è un fratello. Per tre volte ripete questa parola (vv. 22-24), come un antidoto per guarire il cuore dal veleno dell’odio, mantenuto vivo e incrementato dalle parole cattive. Poi affronta alla radice i conflitti: introduce il tema della riconciliazione.

     Ne richiama anzitutto il dovere e l’importanza (vv. 23-24).

     Lo spunto è preso da una pratica religiosa di Israele. Prima di entrare nel tempio per offrire sacrifici, era necessario sottoporsi a delle meticolose purificazioni. Gesù dichiara che non è il corpo che ha bisogno di essere puro, ma il cuore: la riconciliazione con il fratello sostituisce tutti i riti purificatori.

     Insegnavano i rabbini che la più importante delle preghiere giudaiche — lo Shemà Israel — una volta iniziata, non poteva più essere interrotta, per nessuna ragione, nemmeno se un serpente si fosse attorcigliato attorno alla gamba dell’orante. Gesù afferma che, per riconciliarsi con il fratello, si deve addirittura piantare a metà non solo lo Shemà Israel, ma perfino l’offerta del sacrificio nel tempio.

     Difficile trovare nella cultura ebraica un’immagine più efficace per sottolineare l’importanza della riconciliazione. Chi la rifiuta, chi non la ricerca a ogni costo si autoesclude dal «regno dei cieli».        

     Avevano assimilato bene questa lezione i primi cristiani. L’autore della Lettera agli efesini raccomandava: «Non tramonti il sole sulla vostra ira» (Ef 4,26) e qualche anno prima, nella giovane comunità di Antiochia di Siria, era stata emanata questa disposizione: «Nel giorno del Signore, chi è in discordia con il suo prossimo non si unisca a voi prima di essersi riconciliato, affinché il vostro sacrificio non sia contaminato» (Didakè 14,1-2). Due secoli dopo, un vescovo delle stesse regioni esortava i suoi fratelli nell’episcopato con queste parole: «Pronunciate le vostre sentenze il lunedì affinché, avendo tempo sino al sabato, possiate risolvere il dissenso (fra i mèmbri delle vostre comunità) e per la domenica rap-pacificare quanti sono tra loro in discordia» (Didascalia 2, 59,2).

     Dopo aver richiamato il dovere della riconciliazione, Gesù ne sottolinea l’urgenza (vv. 25-26). Non può essere dilazionata.

     Un cristiano non dovrebbe mai aver bisogno di ricorrere ai tribunali per ottenere giustizia, dovrebbe sempre riuscire a mettersi d’accordo prima con il suo fratello. Comunque, nel caso preferisca intentare processi piuttosto che sopportare l’ingiustizia, tenga presente che se si presenta davanti a Dio in disaccordo con il fratello, non verrà da lui riconosciuto come figlio. Le immagini severe della prigione, delle guardie, dell’obbligo di pagare fino all’ultimo spicciolo non vanno materializzate. Sono tipiche della cultura semitica e del lin-guaggio rabbinico; sono introdotte solo per richiamare, in modo energico, la necessità inderogabile della riconciliazione. Per ottenerla il discepolo deve essere disposto a qualun-que rinuncia. Dopo aver parlato del comandamento di non uccidere, Gesù passa al problema dell’adulterio (vv. 27-30).

     La lettera della Toràh sembrava vietare solo le azioni cattive. Gesù, com’è solito fare, va invece al cuore e coglie le esigenze più profonde di questo comandamento.

     Due sono i mèmbri del corpo che bisogna essere disposti ad amputare: l’occhio destro e la mano destra. Non si tratta di mutilazioni materiali, ma del faticoso autocontrollo di cui parla anche Paolo: «Tratto duramente il mio corpo e lo tengo soggiogato perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato» (1Cor 9,27).

     La Geenna è la valle che delimita a sud-ovest la città di Gerusalemme; era l’immondezzaio della città, il luogo maledetto dove erano stati sacrificati e bruciati al dio Moloc i bambini; si riteneva che lì ci fosse la porta che introduceva nel mondo dei demoni.

     Chi non sa imporsi le necessarie rinunce nel campo della sessualità corre il rischio di gettare tutto il proprio corpo (la propria persona) nella Geenna (nella spazzatura). Questo non è un castigo di Dio, ma la conseguenza del peccato.

     Il terzo caso riguarda il divorzio (vv. 31-32).           

     Dio ha voluto il matrimonio monogamico e indissolubile. La Bibbia lo afferma con chiarezza, fin dalle prime pagine: «I due formano una carne sola» (Gn 2,24). Per la durezza del cuore dell’uomo si è introdotto però, anche in Israele, il divorzio.

     Andando contro la consuetudine, le tradizioni e le interpretazioni dei rabbini, Gesù riporta il matrimonio alla purezza delle origini ed esclude la possibilità di separare ciò che Dio ha stabilito che rimanga unito.                       

     Le parole chiare di Gesù però non conferiscono a nessun discepolo la licenza di giudicare, di condannare, di umiliare di emarginare coloro che hanno fallito nella loro vita coniugale. Si tratta, in genere, di persone che sono passate attraverso grandi sofferenze e che hanno vissuto situazioni drammatiche. Per loro si rivela a volte impossibile realizzare il progetto cristiano di matrimonio. La comunità è chiamata a manifestare nei loro confronti la tenerezza e la comprensione del Maestro che non ha spento il lucignolo fumigante né spezzato la canna incrinata (Is 42,3).  

     Il quarto caso è quello del giuramento (vv. 33-37).

     Durante l’esilio a Babilonia gli israeliti avevano assimilato, fra le altre cattive abitudini, anche quella di giurare a sproposito. Arrivavano al punto di non fare più un’affermazione senza accompagnarla con qualche imprecazione. Per evitare di pronunciare il nome di Dio ricorrevano a formule meno impegnative: giuravano per il cielo, per il tempio, per la terra, per i loro genitori, per la loro testa. Un saggio del II secolo a. C. raccomandava: «Abitua la tua bocca a non giurare, abituati a non nominare il nome del Santo» (Sir 23,9).

     Gesù prende posizione contro quest’abitudine sconsiderata e lo fa con la sua solita radicalità: «Non giurare neppureSia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno» (vv. 33-37).  

     Non era tanto la profanazione del nome del Signore che lo preoccupava. Ci sono altri elementi che rendono inaccettabile un giuramento. Anzitutto esso presuppone una conce-zione pagana di Dio che è immaginato come un vendicatore, pronto a scagliare i suoi fulmini contro bugiardi e spergiuri; poi è il sintomo di una società in cui regnano la diffidenza, la sfiducia, la slealtà, il sospetto reciproci.

     Nella comunità dei discepoli di Gesù il giuramento è inconcepibile perché essa è costituita da persone dal «cuore puro» (Mt 5,8), guidate dallo spirito di verità (Gv 14,17; 16,13), che bandiscono dalla loro vita ogni menzogna – come raccomanda Paolo: «Deposta la menzogna, parlate ognuno al vostro prossimo secondo verità, poiché siamo mèmbri gli uni degli altri» (Ef 4,25; 1Pt 2,1).

Meditazione 

   In queste prime domeniche del Tempo ordinario la liturgia ci sta facendo ascoltare quello che, a partire da sant’Agostino, siamo abituati a definire il Discorso della montagna, con il quale Gesù, nel Vangelo secondo Matteo, inaugura la sua proclamazione del Regno dei cieli. Ne abbiamo già ascoltato l’apertura, con l’annuncio sconvolgente delle beatitudini (IV Domenica), le quali consentono al discepolo di essere sale della terra e luce del mondo (V Domenica). In questa domenica entriamo in quella sezione del discorso solitamente chiamat a ‘delle antitesi’: «avete inteso che fu detto agli antichi… ma io vi dico…».

     La liturgia non può farci leggere il discorso di Gesù che in questo modo, sezionandolo in piccoli brani, con il rischio tuttavia di perdere il respiro unitario del testo, che ne consente anche la più piena comprensione. Forse vale la pena, più che commentare le singole affermazioni di Gesù, gettare anzitutto uno sguardo complessivo sul loro insieme, per comprendere meglio la prospettiva fondamentale della ‘legge superiore’, diversa da quella degli scribi e dei farisei, che Gesù propone al discepolo del Regno dei cieli (cfr. Mt 5,20). Diversa e superiore, eppure tale da non abolire neppure uno iota o un solo trattino della Legge di Mosè, ma da condurli al loro compimento (cfr. vv. 17-19). Suonano paradossali, se non contraddittorie, queste affermazioni di Gesù; ci aiutano però a intuire che la ‘legge superiore’ del discepolo non consiste tanto in un contenuto differente, ma in un atteggiamento di fondo – del ‘cuore’ si potrebbe dire – con il quale egli deve accogliere e vivere la parola di Dio rivelata nella Legge e nei Profeti, e che ora giunge a compimento in Gesù. Non un cuore preoccupato semplicemente della scrupolosa osservanza dei precetti, ma teso a cercare in ogni realtà e in ogni gesto della vita il volto del Padre e la relazione con lui. Ciò esige la conformazione a quel suo volere che si manifesta in un amore per tutti i suoi figli, tale da far sorgere «il suo sole sui cattivi e sui buoni», e da far «piovere sui giusti e sugli ingiusti» (5,44), come ascolteremo domenica prossima. Non si tratta di osservare diligentemente dei comandamenti, ma di lasciarsi istruire dalla parola di Gesù per diventare sempre più simili alla perfezione del Padre che è nei cieli, che consiste proprio nella qualità straordinaria del suo amore per tutti i suoi figli. La legge superiore di cui parla Gesù non è quella del servo, preoccupato con il suo agire di meritare la ricompensa del suo padrone, ma quella del figlio, grato di poter accogliere nella propria vita l’amore gratuito e preveniente del Padre. Ciò che fa non mira a conquistare un premio o a meritare un salario, ma ad accogliere e a far fruttificare in sé un dono che sempre lo precede. Quindi, non si tratta di fare cose diverse, ma di vivere con un cuore diverso.

     Tale è anche la sapienza di cui ci parla il libro del Siracide nella prima lettura, che consiste nel discernere la via della vita da quella della morte, ben sapendo che Dio «a nessuno ha comandato di essere empio e a nessuno ha dato il permesso di peccare» (Sir 15,20), non perché sia un giudice inflessibile pronto a punire il trasgressore, ma perché è un Padre buono che desidera che ogni suo figlio viva, e viva un’esistenza libera e responsabile, da figlio appunto, non da servo né tantomeno da schiavo. Tale è anche la sapienza di cui scrive l’apostolo Paolo alla comunità di Corinto, riversata nei nostri cuori dallo Spirito, che ci

introduce nella profondità di Dio, in una comunione d’amore che trasforma la nostra vita, consentendole di accogliere tutto ciò che Dio ha preparato «per coloro che lo amano» (1Cor 2,9).

     Gesù, dunque, non è venuto ad abolire, ma a dare compimento. Nella tradizione rabbinica ‘compiere’ o ‘abolire’ la Legge lo si dice in rapporto a tre atteggiamenti fondamentali: compie la Legge chi la interpreta bene, mentre la abolisce chi la interpreta male; compie la Legge chi le obbedisce, mentre la abolisce chi le disobbedisce; infine, compie la Legge chi fa più di quello che il precetto prescrive, mentre la abolisce chi fa meno.

     Questi tre atteggiamenti ricordati dalla tradizione rabbinica li ritroviamo tutti nel modo con cui Gesù si è rapportato alla Toràh di Mosè. Innanzitutto egli ha compiuto la Legge in quanto le ha obbedito integralmente: infatti, in lui si è realizzata pienamente la volontà salvifica di Dio, custodita e rivelata dalla Legge e dai Profeti. In secondo luogo Gesù ha compiuto la Legge in quanto ha indicato il di più che c’è in ogni precetto. Ha cioè interpretato ogni precetto con radicalità, risalendo sempre alla radice della volontà del Padre che in quel precetto si esprimeva. Questo atteggiamento emerge in modo limpido proprio nella sezione delle antitesi. Uccidere non è solamente togliere la vita a qualcuno. Anche adirarsi con lui, o insultarlo, o calunniarlo significa ucciderlo. Infatti, adirarsi o insultare il fratello ha proprio questo significato: esprime il desiderio che l’altro non ci sia.

     Questo esempio sulla prima antitesi relativa all’omicidio aiuta a comprendere anche un secondo modo con cui Gesù radicalizza la Legge: egli non solo risale alla radice della volontà di Dio, ma scende alla radice del cuore dell’uomo. La giustizia o l’ingiustizia non riguardano soltanto la sfera delle azioni, ma anche quella più profonda delle intenzioni e dei desideri del cuore. Uccido l’altro non soltanto quando lo elimino dalla faccia della terra, ma inizio già a ucciderlo quando lo espello dallo spazio del mio cuore; quando anche con una sola parola offensiva esprimo il desiderio che egli non esista o che almeno non abbia nulla a che fare con la mia vita.

     Infine, Gesù ha compiuto la Legge perché l’ha interpretata bene, indicando quale sia il suo giusto criterio ermeneutico: ricondurre tutti i numerosi precetti a un unico centro costituito dal primato dell’amore, fondato sulla stessa perfezione del Padre. Amore dunque radicato in un ‘come’: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48). Un ‘come’ che dice non imitazione, ma fondazione, secondo la logica che pervade l’intero discorso del monte: la relazione, o la comunione d’amore con il Padre, fonda e trasforma il nostro modo di essere e di agire.

     Diventa importante, allora, capire l’anima profonda di queste norme del Signore. È   un’anima contemplativa. […] La novità introdotta da Gesù consiste soprattutto nello sguardo rivolto al Padre. La novità vera è la comunione di Gesù con l’amore del Padre, la conoscenza profonda che Gesù ha del Padre. Siamo qui nel cuore della morale cristiana che non è norma, precetto, legge, ma è comunione di vita, è Spirito Santo, come dice Paolo nella lettera ai Romani nel cap. 8: «La legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù». Il cristiano è senza legge, purché abbia l’occhio rivolto verso Dio. Quando il cristiano, guidato dallo Spirito, è figlio; quando diventa sempre più figlio, allora non ha bisogno di legge, perché questo sguardo rivolto verso Dio gli permette di entrare in tutte le legislazioni di questo mondo per far emergere dal di dentro un cammino di amore che tende alla massimalità, a quella pienezza di amore che è stata svelata dallo sguardo di Dio.

Preghiere e racconti

“Scegli la vita”

«Io ti ho posto davanti la vita e la morte, / la benedizione e la maledizione; / scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza…» (Dt 30,19).

«Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, / non indugia nella via dei peccatori…» (Sal 1,1).

La strada della morte che il primo Salmo ci chiede di non imboccare la stiamo percorrendo, tutti quanti. La morte è diventata il pastore che seguiamo docilmente fino al suicidio universale che essa ci ha convinto a preparare con le nostre mani. E perché la sua opera sia perfetta, ci rende ciechi a quanto con esse costruiamo.

La strada della morte si riassume in poche cifre: due miliardi di uomini affamati sul pianeta, centinaia di milioni di uomini asserviti a regimi politici assassini, negatori di tutti i valori ai quali fingiamo di credere, alcune centinaia di milioni di vittime assassinate dalle guerre e dai conflitti dell’ultimo secolo.

La strada della vita si apre di fronte a noi, ma noi voltiamo la testa, rifiutandoci non solo di imboccarla, ma anche di prendere coscienza della sua esistenza. Di fronte ai pericoli del nostro tempo, la strada della vita apre all’uomo possibilità sino a ieri inimmaginabili di progresso della conoscenza, di approfondimento, libertà, liberazione e salvezza.

Quest’ordine ha cessato di essere un pio desiderio, per diventare la condizione certa della sopravvivenza dei mondi. Ciò determina la necessità di un risveglio spirituale che ci renda attenti alle realtà create dalla nostra scelta e dalla nostra speranza (…).

Nella lotta contro la bestia che cova in ogni uomo, la Bibbia, i Vangeli e il Corano, come i Veda dell’India o i testi che celebrano le Quattro Nobili Verità del buddhismo, levano per i credenti le loro armi spirituali di fronte agli strumenti di violenza e di morte della bestia.

Fin dalla nascita, ci troviamo di fronte a un mondo che non ammette l’indifferenza. Recitate il Decalogo in ebraico, in greco, in arabo o nelle 2170 lingue in cui le dieci Parole sono attualmente tradotte: incontrerete un mondo che richiede di fare una scelta fra la luce e le tenebre, fra la vita e la morte. Esistono infatti due vie e noi ne siamo avvisati: il mondo è diviso in due. Si impone quindi una scelta, che costituisce la necessità e il rischio di tale scissione. Quest’ultima esprime una realtà evidente: le tenebre e la luce si spartiscono l’universalità fisica e spirituale del reale.

Rileggiamo il Decalogo. Ognuna delle Dieci parole descrive il mondo della luce e dell’unità, dell’amore e della vita, opposto a quello della divisione, dell’idolatria, dell’assassinio, dell’adulterio, del furto, della menzogna e della bramosia, governati dalle tenebre e dalla morte. Mosè, insieme con Gesù e Muhammad, ci ordina: «Scegli dunque la vita, perché tu viva».

(A. Chouraqui, I Dieci Comandamenti).

Arik e la Torah

Arik mi ha indicato un alberello aggrappato a un palo di sostegno.

«Vedi, in noi – come negli alberi – c’è un naturale desiderio di salire, di innalzarci. Magari è sepolto sotto chili di scorie, ma esiste. È una sorta di nostalgia che dimora nella parte più profonda di ogni uomo. La vita però è complessa e piena di contrasti e noi, abbandonandoci unicamente al giudizio della nostra mente, rischiamo di sbagliare direzione, di venir abbagliati da qualche finto sole. Per questo esiste la Torah, è come il tutore di quel giovane albero, ci aiuta a salire dritti, ad andare incontro al cielo senza farci spezzare dalle tempeste di vento.»

(Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 192-193).

Invito alla preghiera

G Come può un giovane conservare pura la vita?

Mettendo in pratica le tue parole.

 

T Ti cerco con tutto il cuore:

fa’ che non mi allontani dai tuoi comandamenti.

G Conservo nel mio cuore le tue istruzioni

e non sarò colpevole verso di te.

T  Ti rendo grazie, Signore,

perché mi insegni le tue leggi.

G  Le mie labbra vanno ripetendo

tutte le decisioni che hai preso. 

T  Seguire i tuoi precetti mi dà gioia

come avere un’immensa ricchezza.

G  Voglio meditare i tuoi decreti,

non perdo mai di vista le tue vie.

T  Le tue leggi mi rendono felice,

non dimenticherò le tue parole. 

G  Dona a me, tuo servo, la vita:

metterò in pratica le tue parole.

T  Aprimi gli occhi e contemplerò

i frutti stupendi della  tua legge.

(dal Salmo 119)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.   

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003. 

VI DOM TEMP ORDINARIO (A)

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 58,7-10

Così dice il Signore: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio»  

 

La pratica del digiuno è conosciuta presso tutti i popoli. Fin dai tempi più remoti si digiunava quando ci si trovava in situazioni di pericolo o si era colpiti da sventure, quando la grandine o le cavallette distruggevano i raccolti, quando le piogge tardavano. Questo sacrificio volontario aveva lo scopo di commuovere Dio, placarlo, convincerlo a porre fine ai suoi castighi. Durante i giorni di digiuno si indossavano abiti sdruciti, ci si cospargeva il capo di polvere e cenere, si rinunciava ai rapporti sessuali, non si faceva il bagno, si andava scalzi, si dormiva per terra.

     La lettura di oggi va collocata nel contesto di uno di questi momenti di digiuno. Siamo nel V secolo a. C., il tempo del post-esilio. Il popolo è tornato da Babilonia, ma le promesse

fatte dai profeti tardano a realizzarsi. Invece della sospirata comunità pacifica si è instaurata una società dominata da arrivisti e profittatori. Ovunque ci sono violenze, angherie, di-scordie. Per convincere Dio a intervenire e porre rimedio alla situazione, si indice un digiuno nazionale, rigoroso, severo.

     Nulla cambia, tutto continua come prima e in molti si insinua il sospetto che la pratica del digiuno sia inefficace.

     Ci si chiede: perché digiunare se il Signore non ascolta ed è come se non ci fossimo sottoposti a mortificazioni e rinunce? (Is 58.3).

     La lettura di oggi dà una risposta a questo interrogativo. La colpa del mancato cambiamento – spiega il profeta – non è del Signore, ma del modo errato di praticare il digiuno, ridotto a una sterile autopunizione, a una dolorosa penitenza. Questo digiuno non ottiene alcun risultato perché sottopone, sì, il corpo a privazioni, ma non cambia il cuore.

     Il vero digiuno, quello che produce effetti prodigiosi, consiste nel condividere il proprio pane con chi ha fame, nell’ospitare in casa i miseri senza tetto, nel dare un vestito a chi è nudo, nel non distogliere gli occhi da chi, uomo come noi – nostra stessa carne, anche se diverso è il colore della sua pelle e sono differenti la cultura e la religione – vive al nostro fianco in condizioni disumane (v. 7).

     Questo comportamento nuovo ottiene miracoli: in breve tempo cura le ferite della società, risolve le situazioni di disagio, crea rapporti fraterni e fa nascere una comunità in cui splendono la giustizia e la gloria di Dio (v. 8).

     Nella seconda parte della lettura (vv. 9-10) viene indicata un’altra caratteristica del vero digiuno: l’impegno a togliere di mezzo ogni forma di oppressione, il puntare il dito e il parlare arrogante. Non basta fare la carità e l’elemosina, è necessario porre fine a tutti gli atteggiamenti di ambiziosa superiorità che causano umiliazioni, ingiustizie, discrimina-zioni.

     Dopo questo nuovo chiarimento, il profeta riprende, con insistenza quasi eccessiva, il tema della condivisione del pane. Vuole che il popolo assimili l’interesse, la premura, la sollecitudine di Dio nei confronti di chi ha fame.

     La conclusione della lettura introduce il tema della luce che verrà ripreso nel vangelo: se praticherai questa nuova giustizia «brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio».

     Gli israeliti si ritenevano luce del mondo per la loro devozione a Dio, per la pratica religiosa impeccabile: solenni liturgie, canti e preghiere, sacrifici e olocausti. Non era questo il culto gradito al Signore; non erano queste le opere che avrebbero fatto diventare Israele luce del mondo, ma la pratica della giustizia e dell’amore all’uomo.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 2,1-5

Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio. 

 

I cristiani di Corinto – lo abbiamo sottolineato domenica scorsa – non appartenevano alle classi sociali elevate, erano tutti di umili origini, gente che non contava nella società (1Cor 1,26). Questo fatto è interpretato da Paolo come un segno della preferenza di Dio per le persone disprezzate e senza meriti.

     La sua scelta non va però intesa come un rovesciamento classista (sarebbe una nuova discriminazione), ma come logica conseguenza dell’amore di Dio: egli non ama chi può vantare dei meriti, ma chi ha bisogno del suo amore.

     Nel brano di oggi l’Apostolo riprende e sviluppa questo tema ponendo a confronto la sapienza umana e la potenza di Dio e porta l’esempio concreto della sua persona.

     Comincia con un richiamo alla sua predicazione (vv. 1-2). Non si è presentato a Corinto per insegnare una nuova dottrina. Se lo avesse fatto, avrebbe avuto bisogno di possedere la «eccellenza della parola o della sapienza». In Grecia era apprezzata la sapienza, la capacità – come diceva Platone – di «indagare il vero in quanto vero; sollecitudine dell’anima sostenuta dalla retta ragione». Ogni discorso privo del supporto della dimostrazione razionale e delle risorse prestigiose del pensiero dei filosofi era deriso e ritenuto frutto di ignoranza, di creduloneria, di religiosità ingenua.

     In questo contesto culturale Paolo ha annunciato un messaggio umanamente assurdo: ha chiesto di credere alla proposta di vita fatta da un uomo giustiziato. Non fu solo il contenuto della sua predicazione a essere scandaloso. Era la sua stessa persona — debole, timorosa, incapace di parlare – a essere la meno indicata a portare avanti con successo una così grande missione (vv. 3-5). Al riguardo circolava fra i corinzi una battuta che aveva provocato la reazione risentita dell’Apostolo: «Le sue lettere – si diceva – sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la sua capacità di fare discorsi è modesta» (2Cor 10,10).

Della sua scarsa abilità oratoria, Paolo era cosciente; ne aveva avuto una dimostrazione ad Atene quando aveva tentato, senza successo, di convincere gli ascoltatori ricorrendo al linguaggio sublime dei filosofi (At 17,16-34) e un anno dopo, a Troade, ne ebbe la riconferma: durante la sua predica un giovane si era addormentato ed era caduto dalla finestra (At 20,9).

     Malgrado questa mancanza di supporti umani, il vangelo aveva avuto una notevole diffusione a Corinto. Come mai?, viene da chiedersi. Perché – spiega Paolo – la parola di Dio è forte per se stessa e la sua penetrazione nel cuore degli uomini non dipende dai mezzi umani, ma dalla «manifestazione dello spirito e della sua potenza». L’Apostolo non si riferisce ai prodigi, ai miracoli che avrebbero convinto i corinzi ad accogliere il vangelo, ma al frutto dello spirito: la forma di vita nuova che, pur in mezzo a miserie e debolezze umane, era stata adottata da molti membri della comunità.

 

Vangelo: Matteo 5,13-16 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli». 

 

Esegesi 

     Per definire i discepoli e la loro missione, nel vangelo di oggi Gesù impiega una serie di immagini. Li indica anzitutto come il sale della terra (v. 13).

     I rabbini d’Israele erano soliti ripetere: «La Toràh – la Legge santa data da Dio al suo popolo – è come il sale e il mondo non può stare senza sale». Facendo propria questa immagine e applicandola ai discepoli, Gesù sa di usare un’espressione che può suonare provocatoria. Non smentisce la convinzione del suo popolo che ritiene le sacre Scritture «sale della terra», ma afferma che anche i suoi discepoli lo sono, se assimilano la sua parola e si lasciano guidare dalla sapienza delle sue beatitudini.                                

     Sono molte le funzioni del sale e probabilmente Gesù intende riferirsi a tutte. La prima e più immediata è quella di dare sapore ai cibi. Fin dai tempi antichi il sale è diventato per questo il simbolo della «sapienza». Anche oggi si dice che una persona ha «sale in testa» quando parla in modo saggio oppure che una conversazione è «senza sale», quando e noiosa, priva di contenuto. Paolo conosce questo simbolismo, infatti, ai colossesi raccomanda: «La vostra conversazione sia sempre gradevole, condita con sale» (Col 4,6).

     Intesa così, l’immagine indica che i discepoli devono diffondere nel mondo una saggezza capace di dare sapore e significato alla vita Senza la sapienza del vangelo che senso avrebbero la vita, e gioie e i dolori, i sorrisi e le lacrime, le teste e i lutti? Quali sogni e quali speranze potrebbe alimentare l’uomo su questa terra? Difficilmente andrebbe oltre quelli suggeriti dal Qoelet: «È meglio mangiare, bere e godere dei beni nei pochi giorni di vita che Dio dà: è questa la sorte dell’uomo» (Qo 5,17).                    

     Chi è imbevuto del pensiero di Cristo assapora invece altre gioie, introduce nel mondo esperienze di felicità nuove e ineffabile, offre agli uomini la possibilità di sperimentare la stessa beatitudine di Dio.

     Il sale non serve solo per dare sapore ai cibi. È usato anche per conservare gli alimenti, per impedire che divengano avariati.

     Questo fatto richiama la corruzione morale e, per associazione d’idee, le forze negative, gli spiriti maligni. Contro di loro gli antichi orientali si premunivano usando il sale. È a questa convinzione atavica che si collega, ancor oggi, il rito di spargere il sale per immunizzare da malefici e iettature.

     Il cristiano è sale della terra: con la sua presenza è chiamato a impedire la corruzione, a non permettere che la società, guidata da principi malvagi, si decomponga e vada in disfacimento. Non è difficile constatare, ad esempio, che, dove non c’è chi richiama, chi rende presenti i valori evangelici, si diffondono più facilmente la dissolutezza, l’odio, la violenza, la sopraffazione. In un mondo dove è messa in dubbio l’intangibilità della vita umana, dal suo sorgere al suo spegnersi naturale, il cristiano è sale che ne ricorda la sacralità. Dove si banalizza la sessualità e le convivenze e gli adulteri non sono più chiamati con il loro nome, il cristiano richiama la santità del rapporto uomo-donna e il progetto di Dio sull’amore coniugale. Dove si cerca il proprio tornaconto, il discepolo è sale che conserva, ricordando a tutti e sempre la proposta, eroica a volte, del dono di sé.

     Il sale era usato anche per confermare l’inviolabilità dei patti: i contraenti compivano il rito di consumare insieme pane e sale o sale soltanto. Questo accordo solenne era detto «alleanza di sale». È chiamata con questo nome l’alleanza eterna stipulata da Dio con la dinastia di Davide (2Cr 13,5).

     I cristiani sono sale della terra anche in questo senso. Testimoniano l’indefettibilità dell’amore di Dio: mostrano che nessun peccato potrà mai incrinare il patto di fedeltà che lo lega all’uomo e, con la loro vita, danno prova che anche all’uomo è possibile rispondere a questo amore, basta lasciarsi guidare dallo Spirito. 

     La «parabola» del sale si conclude con un richiamo ai discepoli a non divenire «insipidi». L’immagine assume una connotazione piuttosto sorprendente: i chimici assicurano che il sale non si corrompe, eppure Gesù mette in guardia i discepoli dal pericolo di perdere il proprio sapore. Per quanto possa apparire strano, Gesù li considera capaci di fare qualcosa di assurdo, di impossibile, come rovinare il sale: possono far perdere al vangelo il suo sapore.

     C’è un solo modo di combinare questo guaio: mischiare il sale con altro materiale che ne alteri la purezza e la genuinità. Il vangelo ha un suo gusto e bisogna lasciarglielo, non va snaturato, altrimenti non è più vangelo.

     La parabola del sale è raccontata subito dopo le «beatitudini». Il cristiano è sale se accoglie integralmente le proposte del Maestro, senza aggiunte, senza modifiche, senza i «ma», i «se» e i «però» con cui si tenta di ammorbidirle, di renderle meno esigenti, più praticabili.

     Per esempio, Gesù dice che bisogna condividere i propri beni, che si deve porgere l’altra guancia, perdonare settanta volte sette… è questo il gusto caratteristico del sale evangelico. Ma incombe sempre la tentazione di aggiungerci un po’ di «buon senso»: non si deve esagerare, bisogna pensare anche a se stessi, se si perdona troppo gli altri se ne approfittano, non si deve ricorrere alla violenza, a meno che non sia necessario… È così che il vangelo viene «addolcito», che diventa «praticabile»… ma perde il suo sapore. È il fallimento della missione, indicato metaforicamente con l’immagine del sale gettato sulla strada: viene calpestato, come la polvere cui nessuno presta attenzione né attribuisce alcun valore.

     La seconda funzione assegnata ai discepoli è quella di essere città posta sul monte (v. 14).

     Ancor oggi, lo sguardo di chi percorre le strade dell’alta Galilea è attratto dai numerosi villaggi posti sulle cime delle montagne e lungo i clivi delle colline. È impossibile non notarli e, specialmente in primavera, quando i vermigli anemoni ricoprono le campagne che li circondano, appaiono deliziosi. Quasi sempre gli scavi archeologici comprovano che le sommità, sulle quali sorgono, erano abitate fin dai tempi più remoti.

     Gesù, cresciuto in uno di questi villaggi, li ha indicati ai discepoli come un’immagine della loro missione: con la loro vita fondata su principi nuovi, essi dovranno richiamare l’attenzione del mondo.     

     Non è l’invito a farsi notare, a mettersi in mostra. Un simile atteggiamento contraddirebbe la raccomandazione a non praticare le buone opere davanti agli uomini, per essere notati, a non suonare la tromba per richiamare l’attenzione quando si fa l’elemosina (Mt 6,1-2).

     Il richiamo di Gesù è a un famoso testo di Isaia, dove si annuncia che il monte del tempio del Signore «sarà eretto sulla cima dei monti, sarà più alto dei colli e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli… Poiché da Gerusalemme uscirà la parola del Signore» (Is 2,2-5).     

     D’ora in avanti — assicura Gesù — non sarà più a Gerusalemme che i popoli guarderanno, ma alle comunità dei suoi discepoli. Saranno loro ad attirare gli sguardi ammirati degli uomini… se avranno il coraggio di impostare la vita sulle sue beatitudini.

     Collegata all’immagine del monte c’è quella della luce (vv. 14-16).

     I rabbini dicevano: «Come l’olio porta luce al mondo, così Israele è luce per il mondo» e ancora: «Gerusalemme è luce per le nazioni della terra». Si riferivano al fatto che ritenevano Israele depositario della sapienza della legge che Dio, per bocca di Mosè, aveva rivelato al suo popolo.

     Qualche rabbino aveva però intuito che non solo la parola delle sacre Scritture, ma anche le opere di misericordia erano luce e sosteneva che il primo ordine dato da Dio all’inizio della creazione: «Sia la luce!» si riferiva non a una luce materiale, ma alle opere dei giusti.

     Chiamando i discepoli «luce del mondo», Gesù dichiara che la missione affidata da Dio a Israele era destinata a continuare attraverso di loro. Sarebbe apparsa in tutto il suo splendore nelle loro opere di amore concrete, verificabili. Sono queste opere che Gesù raccomanda di «far vedere». Non vuole che i suoi discepoli si limitino ad annunciare la sua parola senza impegnarsi, senza lasciarsi compromettere, senza giocarsi la vita su questa parola.

     La prova che gli uomini sono stati raggiunti da questa luce si avrà quando essi daranno gloria al Padre che sta nei cieli.

     La loro reazione potrebbe però essere anche opposta e inattesa. Potrebbero essere infastiditi dalle opere dei cristiani e reagire indispettiti.

     Non si deve subito presupporre che questo dipenda da una loro disposizione malevola. In genere non è il bene che disturba, ma la percezione di qualche ombra di esibizionismo, di qualche cedimento all’ambizione, alla vanità, all’autocompiacimento. Queste sbavature, nemmeno consapevoli, che accompagnano spesso anche i gesti più nobili, privano l’opera buona della sua caratteristica più squisita, più sublime, più «divina»: il soave profumo del disinteresse e totale gratuità.

     I discepoli sono chiamati a compiere il bene senza attendersi alcun plauso, alcuna ammirazione, «la loro destra deve sapere ciò che fa la sinistra» (Mt 6,3). Non è a loro dovranno essere rivolte le lodi, ma a Dio.

     L’ultima immagine è deliziosa: veniamo introdotti nell’umile dimora di un contadino dell’alta Galilea dove, alla sera, si accende una lampada di terracotta a olio, la si pone su un supporto di ferro e la si colloca in alto, in modo che possa illuminare anche gli angoli più reconditi dell’abitazione. A nessuno passerebbe per la mente di nasconderla sotto un vaso.

     L’invito è a non occultare, a non velare le parti più impegnative del messaggio evangelico. I discepoli non devono preoccuparsi di difendere o di giustificare le proposte di Gesù, devono solo annunciarle, senza paura, senza timore di venire derisi o perseguitati. Esse saranno per gli uomini come una lampada che «brilla in un luogo oscuro finché non spunti il giorno e si levi la stella del mattino» (2Pt 1,19).

 

Meditazione 

«Il giusto risplende come luce».

     Il ritornello del salmo responsoriale ci suggerisce in quale prospettiva accostare i testi della liturgia della Parola di questa domenica, al cui centro risuona l’invito che Gesù rivolge ai suoi discepoli affinché riconoscano di essere sale della terra e luce del mondo.

     Il profeta Isaia annuncia che sorge come luce persino nelle tenebre chi pratica la giustizia e la misericordia, vive nella compassione verso i bisogni degli altri, lotta contro l’oppressione e sa consolare le afflizioni.

     L’apostolo Paolo evidenzia un altro aspetto della luminosità del discepolo: è colui che non solo pone al centro del suo annuncio «Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,2), ma assume nella sua testimonianza la logica della Croce, riconoscendo nella propria debolezza lo spazio in cui può manifestarsi la potenza di Dio e del suo Spirito. Non la sapienza umana abbandonata a se stessa, ma la sapienza trasfigurata dall’amore di Dio, pienamente manifestatesi nel mistero pasquale, diviene luce che può rischiarare il cammino degli uomini, orientando le loro scelte, sostenendo le loro fatiche.

     Dall’accostamento di queste due letture emerge così come l’essere sale e luce non dipende solamente dal contenuto delle proprie azioni o delle proprie parole, ma anche dallo stile che le accompagna e le sostiene. È decisivo, per essere davvero discepoli di Gesù Cristo, e Cristo crocifisso, non solo il che cosa si fa o si dice, ma il come, con quale sapienza e con quale stile.

     Accostiamo questo testo di Matteo dopo aver ascoltato, nella domenica precedente, la proclamazione delle beatitudini, con cui Gesù apre il cosiddetto Discorso della montagna, e occorre innanzitutto notare il nesso che collega queste due pagine. ‘Luce del mondo’ e ‘sale della terra’ sono proprio coloro la cui vita umile e povera, mite e disarmata, appare piccola, insignificante, marginale rispetto a un mondo che spesso si manifesta loro ostile. Eppure sono proprio loro ciò di cui il mondo non può fare a meno, così come la vita non può mancare di sapore e di luce. Le due immagini alludono a entrambi gli aspetti: un’assoluta necessità che si manifesta però in un’apparente debolezza.

     Assoluta necessità: non si può vivere senza luce, così come senza sale.

Il Siracide afferma: «Le cose di prima necessità per la vita dell’uomo sono: acqua, fuoco, ferro, sale, farina di frumento, latte, miele, succo di uva, olio e vestito (Sir 39,26). Conosciamo del resto i molteplici usi del sale nell’antichità, come pure ai nostri giorni: non solo condisce, ma purifica, conserva; in molte culture è simbolo di sapienza, di amicizia, di condivisione della stessa mensa.

     Al pari della luce, dunque, il sale risulta necessario alla vita dell’uomo, al suo gusto e al suo sapore, così come sono indispensabili la relazione e l’amicizia; eppure rimane una realtà debole, poco appariscente, esposta al rischio di venire trascurata. E. Schweitzer, commentando questo testo, sottolinea che sua moglie, quando deve scrivere una ricetta di cucina per qualche amica, elenca tutti gli ingredienti, ma di certo non si preoccupa di precisare che occorre anche il sale. Va da sé che ci vuole, e proprio per questo non se ne esplicita la necessità. Rimane nascosto, come accade alle cose più preziose della vita, e alla luce stessa. Se devo descrivere un panorama, parlerò di ciò che vedo, del profilo dei monti e delle case, degli alberi e delle strade, ma non citerò la luce, che pure è ciò che consente di vedere ogni cosa. Nelle metafore del sale e della luce sono dunque presenti entrambi questi aspetti: si tratta di realtà essenziali, ma nello stesso tempo nascoste e deboli, e proprio per questo sottoposte a due possibili tentazioni. La prima è che vengano trascurate, senza che se ne colga l’importanza. È la tentazione del mondo, che non sa riconoscere il valore della testimonianza evangelica resa dal discepolo di Gesù. C’è però anche la tentazione opposta, quella del discepolo, che può trascurare il proprio valore, la propria dignità, senza metterla a servizio del mondo; oppure la può occultare in un anonimato che non annuncia e non comunica più nulla.

     Dobbiamo anche osservare l’indicativo presente che risuona in modo molto netto e forte nelle parole di Gesù. «Voi siete il sale della terra; voi siete la luce del mondo». Non un futuro, non un esortativo, tantomeno un imperativo, ma un indicativo presente: siete! Coloro ai quali Gesù si rivolge sono già ora sale e luce. Non possono né debbono fare qualcosa per diventarlo, e l’esserlo non dipende da una qualche loro virtù o qualità particolari; tanto meno da un loro merito. È l’azione gratuita di Dio, che regna su di loro, è la prossimità del Regno che Gesù dona alla loro vita a renderli tali. Devono tuttavia vigilare per non perdere, o meglio per non sprecare questo dono, poiché il sale può perdere sapore e la luce rimanere nascosta. Che il sale abbia sapore e che una lucerna faccia luce sono eventi che non hanno nulla di straordinario e di sorprendente. La vera sorpresa che sconcerta è che il sale sia senza sapore o che la lucerna, anziché collocata ben in vista sul lucerniere, venga nascosta sotto un moggio.

     I chimici ci spiegano che il sale non può perdere il sapore. Eppure, sembra dire Gesù, può accadere. Il paradosso ricorda una semplice realtà: il sale diventa insipido e inutile, tanto da essere gettato via, non perché perda il suo sapore, ma perché non viene utilizzato per dare sapore ad altro. L’immagine simmetrica della lucerna aiuta a comprendere meglio: a cosa serve una lampada che viene nascosta sotto un moggio? Non serve più a nulla. Non perde la sua luce, continua a risplendere, ma soltanto per se stessa, nascosta com’è sotto il moggio. Nessuno può rallegrarsi alla sua luce. Anche al sale può accadere la stessa sorte: non perderà il suo sapore, ma a che cosa serve se non condisce i cibi nei quali deve sciogliersi per far risaltare la loro bontà al palato? Il discepolo non è chiamato a vivere la beatitudine del Regno per se stesso, ma per donare sapore e luce al mondo intero. Se per paura di contaminarsi con il mondo, di perdersi in esso, rifiuta di sciogliersi come sale nei cibi; o se per paura dell’ostilità e del rifiuto, anziché collocarsi come lampada ben visibile su un lucerniere, si nasconde al sicuro, in un ambito circoscritto e protetto, a che cosa serve? Non serve più a nulla: può essere gettato via e calpestato dagli uomini.

     Occorre però vivere questa testimonianza vigilando sul ‘come’. Il sale non può perdere sapore, ma in se stesso ha un pessimo gusto. Nessuno di noi prende del sale e lo mangia da solo, e se lo fa ne prova disgusto. Qualcosa di simile accade alla luce: illumina e consente di vedere, ma se qualcuno fissasse a occhio nudo una fonte luminosa intensa, ne rimarrebbe abbagliato. Il sale da solo non nutre la vita, ma è indispensabile per dare sapore a tutti i cibi di cui ci nutriamo. Ne esalta le qualità donando loro un sapore più pieno che rallegra il palato. La luce in se stessa non si vede, ma senza luce non si vede nulla di ciò che esiste. Se entro in una stanza buia, i mobili già ci sono, anche se ancora non li scorgo; apro una finestra, penetra la luce ed ecco che tutto emerge dall’oscurità così da poterlo riconoscere e ammirare.

     Tale deve essere lo stile della testimonianza del discepolo. Nella storia è già presente il Signore con la sua azione, anche se in modo nascosto e misterioso. Il discepolo è colui che, con un po’ di sale e un po’ di luce, deve far emergere questa presenza così che gli uomini possano vederla, riconoscerla, assaporarla nella sua bellezza. Il Signore è già presente nella storia, anche nelle storie sbagliate, segnate dal peccato, dal fallimento, dal dolore, da tante altre ferite come quelle ricordate dal testo di Isaia. Occorre però che ci siano un po’ di sale e un po’ di luce perché tale presenza nascosta diventi manifesta. Non basta la luce, perché non è sufficiente vedere; occorre anche il sale, poiché è necessario gustare, assaporare, mangiare. La comunione con il Signore non è questione soltanto di ascolto e di visione; implica assimilazione, nutrimento, interiorizzazione, giungere a gustare un altro sapore della vita. Inoltre il sale, oltre a condire, preserva, purifica, conserva. Occorre anche purificare e conservare, preservandoli dalla corruzione, dalla dimenticanza, dall’indifferenza, i segni discreti e misteriosi della presenza di Dio.

Preghiere e racconti

«La vostra luce brilli»

Che cosa ci comandi quindi? Di vivere, facendo sfoggio delle nostre buone opere e cercandogli onori? Assolutamente no; io non dico nulla del genere. Infatti, non ho detto: «Cercate di mostrare le vostre opere buone». E non ho detto neppure: «Fatene sfoggio», ma ho detto «la vostra luce brilli», cioè: la vostra virtù sia eminente, la vostra fiamma calda, la vostra luce splendente. Infatti, quando raggiunge questo livello, la virtù non può restare nascosta, anche se colui che la possiede facesse di tutto per mantenerla in ombra. Tenete quindi davanti a loro una condotta irreprensibile ed essi non avranno alcun serio motivo di accusarvi; ma, anche se aveste migliaia di accusatori, nessuno potrà ricacciarvi nell’ombra. E il termine luce è ben scelto; infatti, nulla mette tanto in luce un uomo, anche se volesse passare del tutto inosservato, quanto lo splendore della virtù. Si direbbe che egli è rivestito dei raggi del sole, ma è ancor più splendente, poiché, invece di dirigere i suoi raggi verso la terra, egli attraversa persino il cielo.

(Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo, 15,6-7).

La nascita del sole

Per molto tempo solo le stelle abitavano nell’alto dei cieli.

Il mondo portava l’abito di lutto. 

La terra camminava in solitudine in queste tenebre,

solo i vicini conversavano gli uni con gli altri,

e spesso intorpidivano o si addormentavano cadendo in sonno profondo.

Gli animali non si conoscevano, le nuvole giravano senza senso,

i fiori non vedevano l’abito e i colori degli altri fiori.

Le piogge non sapevano dove cadevano.

Un giorno molte delle stelle decisero di unirsi

per creare con i loro bagliori una grande, splendida luce.

Si misero in cammino tante stelle le une verso le altre.

Da mille direzioni, per mille strade,

mille stelle si avviarono dall’orlo delle tenebre

per dare origine a uno splendore comune

al centro del firmamento vuoto come l’abisso.

Dovettero fare un lungo viaggio

sul nero firmamento,

ma finalmente con grande felicità

tutte le mille stelle si fusero

in una grande, splendida, unica luce.

Nacque così il sole,

il focolare comune di mille stelle

e così cominciò la prima grande festa della luce.

Fu una vera festa!

La festa del primo giorno vero.

Arrivavano gli ospiti al banchetto

attorno alla grandiosa tavola rotonda della luce, mai vista prima.

Prima di tutti arrivò l’aria insieme con il firmamento vecchio

portando un manto lungo leggero.

Il terzo ospite illustre fu il mare,

le sue onde suonarono come una salva.

Poi vennero i grandi boschi, gli alberi

in mantelli verdi di foglie,

la famiglia dei fiori, silenziosi ma di bellissimi colori.

Poi gli animali: i veloci cavalli, i fedeli cani, i forti leoni…

chi potrebbe annoverare tutti?

Al culmine della festa

arrivò una coppia bella:

un giovane e una giovane,

come la coppia regale del banchetto,

benché arrivassero ultimi, si sedettero a capotavola,

gli altri invitati gioirono.

Tutti si sentivano figli del sole del mezzogiorno,

prediletti nel regno appena nato del firmamento splendido.

Ma all’improvviso un’ombra entrò

nel palazzo di cristallo del sole,

altre piccole ombre la seguirono.

All’inizio nessuno si curò di loro,

ma arrivavano sempre di più,

si mischiavano tra gli ospiti,

e ad un certo punto fece quasi buio.

Il sole neonato cominciò a spegnersi.

Gli ospiti si spaventarono, e tutti fuggirono dal banchetto. 

La giovane coppia umana rimase sola nella notte

che diventava sempre più oscura.

Ma il ragazzo non si spaventò nel suo cuore,

abbracciando il suo amore parlò al mondo:

“Non temete, mari e fiori,

non temete animali ed erbe!

Il sole non è morto, solo riposa

per sorgere domani di nuovo con una forza rinnovata.”

Ma durante questa prima notte nessuno dormiva,

né erba, né albero, né vento, né mare.

Tutti aspettarono se sarebbe stata vera la promessa del loro giovane re

sul ritorno del sole.

E quando al mattino la luce si svegliò nella sala di cristallo

del suo palazzo, la accolse un giubilo più grande del primo giorno.

Perché allora tutto il mondo seppe:

la notte è sempre solo un sogno,

dopo il sogno arriva però la splendida realtà della luce.

(János Pilinszky, poeta cattolico, molto religioso, che ha conosciuto l’esperienza dei lager, che dovette rimanere in silenzio, con il solo permesso di scrivere favole)

La verità interiore

La vita interiore ci rivela i nostri limiti e le nostre negatività. È ricerca di luce ed esperienza di illuminazione, ma dove la luce splende nel fondo delle tenebre. È necessario toccare questo fondo buio di sé per conoscere la luce. Uno splendido racconto mistico musulmano (di Suhrawardî), in forma di dialogo, dice:

– O sapiente, dove si trova la fonte della vita?

– Nelle tenebre. Se vuoi partire alla ricerca di questa fonte, mettiti i sandali e avanza nel cammino dell’abbandono confidente, finché arriverai alla regione delle tenebre.

– Da che parte si trova il sentiero per questa regione?

– Da qualunque parte tu vada, se sei un vero pellegrino, tu compirai il viaggio.

– Che cosa segnala la regione delle tenebre?

– L’oscurità di cui si prende coscienza. Quando colui che intraprende questo cammino vede se stesso come uno che è nelle tenebre, allora comprende che egli era anche prima e fino allora nella Notte, e che la luce del Giorno non ha ancora raggiunto il suo sguardo. Eccolo, il primo passo dei veri pellegrini. Il cercatore della fonte della vita nelle tenebre passa attraverso ogni sorta di stupori e angosce. Ma se è degno di trovare questa fonte, finalmente dopo le tenebre contemplerà la luce. Allora non dovrà fuggire davanti alla luce, perché questa luce è uno splendore che, dall’alto dei cieli scende sulla fonte della luce (Cf. H. Corbin, «L’Archange empourpré: récit mystique de Sohrawardî», in Hermès 1 (1963), p. 21).

È la luce della notte, delle tenebre, è la vita trovata là dove muore qualcosa, è il cammino della vita interiore, il descensus ad cor che porta a vedere le proprie tenebre, ad accettare le proprie limitatezze e a integrarle in un’esperienza di pacificazione e di unificazione.

Chi vede la propria ignoranza e la conosce può entrare nella vera sapienza; chi vede i limiti della propria mortalità e temporalità può entrare nella vita; chi vede i propri limiti affettivi può entrare nell’autenticità dell’amore. Chi non accetta di vedere i propri limiti non potrà neppure iniziare a superarli o meglio, forse, a traversarli. Allora, questa illuminazione che viene dalla conoscenza delle proprie tenebre appare chiaramente come esperienza di resurrezione: se toccare il fondo del proprio cuore è esperienza di morte, la luce che si intravede è ingresso in una nuova vita. Allora si disvela l’uomo interiore (2Cor 4,16; Rm 7,22; Ef 3,16 e 1Pt 3,4 che parla dell’«uomo nascosto del cuore» là dove la Bibbia CEI traduce «l’interno del vostro cuore»), ovverosia una vita interiore che da forza, unificazione pace, serenità, anche nel declinare delle forze e nell’andare verso la morte. Si sia credenti o no, se questa vita interiore è presente, forse si potrà fare della morte un compimento, non una fine. E si potrà dare vita alla propria vita.

(Luciano MANICARDI, La vita interiore oggi. Emergenza di un tema e sue ambiguità, Magnano, Qiqajon, 1999, 25-26).

Preghiera

O Padre, non vogliamo possedere nessun vanto, nessuna gloria ma solo il nome del tuo Figlio crocifisso e risorto, un nome più prezioso e potente dell’oro e dell’argento per far alzare e camminare chi ha bisogno di speranza. È la sua Parola la luce che ci affidi perché si ravvivino i luoghi imprigionati dalle tenebre, è il vangelo la lampada che non si consuma, il sapore incorruttibile da dare all’esistenza. E sorgeranno le nostre opere buone, come un sole che non tramonta, perché acceso al tuo splendore.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003. 

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

 

III DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 8,23b-9,3

In passato il Signore umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti.  Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda. Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Mádian.

 

Nel contesto storico della vittoriosa campagna militare di Tiglat Pileser, re assiro, si legge il presente annuncio di liberazione. Il brano vive di una luce di speranza. Si apre con uno stridente contrasto tra il passato di umiliazione e un futuro di gloria. «Zàbulon e Nèftali» (8,23) sono due tribù del Nord che hanno come frontiera il monte Tabor. Il loro territorio fu vinto da Tiglat Pileser nel 732. Costui ne deportò l’élite, causando la loro «umiliazione» (cfr. il Sal 136,23, dove ‘umiliazione’ rimanda a ‘esilio’) che ora viene riscattata con un annuncio di trionfo. La gloria si concretizza in due immagini: la luce che rischiara la strada al popolo in cammino e la gioia che si prova quando si partecipa alla mietitura e alla divisione del bottino (9,2).

     Alla fine si da il vero motivo della gloria futura: è un’esperienza di liberazione. È qui che la gioia trova un motivo preciso. Si allude alla liberazione dal gravoso peso degli Assiri, reso ancora più duro da un atteggiamento di persecuzione («bastone del suo aguzzino»: 9,3). La vittoria è fatta risalire direttamente a Dio («tu hai spezzato») che anche in questo caso è intervenuto in modo inaspettato e strepitoso, come altre volte; si riporta il caso di Gedeone che con l’aiuto di Dio vinse i Madianiti (cfr. Gdc 7,15-25). Fu un evento che fece storia (cfr. Sal 83,10; Is 10,26) e simboleggia i prodigiosi interventi di Dio a favore del suo popolo. La gloria di Dio si rivela diventando gloria per il suo popolo. Il profeta gioioso annuncia una primavera di vita che ha in Dio la sua origine. Il testo prepara la comprensione del vangelo, dove Gesù stesso annuncia l’irruzione della signoria di Dio (il suo regno) nella storia degli uomini.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 1,10-13.17

Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire.  Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo». È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?  Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.

 

Dopo il saluto d’apertura e il rendimento di grazie al Signore per la ricchezza spirituale di cui ha colmato la comunità di Corinto, Paolo affronta senza indugi il primo argomento della lettera, il problema su cui gli preme fare subito chiarezza: le fazioni che dividono la giovane chiesa e rischiano di vanificare l’annuncio del Vangelo di Cristo.

     v. 10 — Con la consueta immediatezza Paolo comincia per così dire dal fondo, dall’esortazione conclusiva, espressa con foga e passione: “Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo”. Le motivazioni verranno solo dopo: l’essenziale è mantenere l’unità nella fede. Paolo la descrive con tre espressioni, due in positivo che si rafforzano a vicenda e ne racchiudono una terza, in negativo: siate unanimi nel parlare («diciate tutti la

stessa cosa» implica non solo identità di contenuti, ma concordia nell’operare), non vi siano divisioni («scismi»), siate in perfetta unione di pensiero e di sentire.

     vv. 11-12 — Successivamente, Paolo spiega cosa ha provocato questo suo accorato intervento: qualcuno (non sappiamo chi siano i «familiari di Cloe») gli ha riferito l’esistenza di gruppi contrapposti nella comunità. Il fatto è sintetizzato da Paolo in un solo, incisivo versetto: non è il caso di soffermarsi sul merito delle divergenze, di analizzare le ragioni degli uni o degli altri. Ciò che Paolo respinge non è una deviazione dottrinale o un’eresia, ma il fatto stesso della divisione, l’esistenza di fazioni personalizzate che si richiamano a un nome, fosse pure quello di Cristo, per escludere altri fratelli dalla comunità. L’apostolo ricorda quattro di queste fazioni: di Paolo, di Apollo, di Cefa, di Cristo, e le respinge tutte, anche quella «di Paolo» e quella «di Cristo», come contrarie alla carità e al Vangelo.

   v. 13 — Il suo grido accorato è una duplice domanda retorica: È forse diviso il Cristo? Dividere la comunità significa infatti lacerare il corpo stesso di Cristo. Richiamarsi ad altri maestri, fossero pure gli apostoli, autentici testimoni dell’evangelo, significa sostituire al Cristo, mediatore unico della salvezza, uomini che sono soltanto suoi discepoli: Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?

     v. 17 — Paolo accenna brevemente al proprio ministero, nomina le poche persone che ha battezzato, per allontanare da sé qualsiasi sospetto di faziosità, sconfessando pienamente il «partito di Paolo». Il suo compito è l’annuncio del Vangelo, e questo unicamente nel nome di Gesù Cristo, nel segno della kenosi, della «stoltezza della croce», e non della «sapienza di questo mondo». L’apostolo non si vanta della propria capacità oratoria, al contrario, respinge da sé ogni «sapienza di parole» (sofia logou), per non svuotare della sua potenza la croce di Cristo.

 

Vangelo: Matteo 4,12-23   

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono. Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. 

 

Esegesi 

     Siamo all’inizio del Vangelo di Matteo. Dopo l’introduzione costituita dal «Vangelo dell’infanzia», la missione di Gesù — preparata dalla predicazione del Battista (3,1-12), dal battesimo al Giordano (3,13-17) e dalle tentazioni nel deserto (4,1-11) — ha finalmente inizio. Matteo la collega esplicitamente con il Battista: quando l’arresto interrompe la predicazione di Giovanni, Gesù inizia la propria, con le stesse parole: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (3,2 e 4,17).

     Tre brevi sezioni sono facilmente riconoscibili in questa pericope, contrassegnate tutte e tre dal riferimento alla Galilea contenuto nel primo versetto.

     1) Inizio della predicazione, sua ambientazione geografica e biblica (4,12-17).

     Secondo la tradizione, il luogo in cui Giovanni battezzava non era lontano dalla foce del Giordano nel Mar Morto, e Gesù si sarebbe poi ritirato sul «Monte della Quarantena», a ovest di Gerico, ai margini del deserto di Giuda.                                                      

     Dalla Giudea, saputo dell’arresto di Giovanni, Gesù si sposta in Galilea, non più a Nazaret (la sua città) ma a Cafarnao, sulla riva settentrionale del lago di Tiberiade. La precisazione geografica non basta però a Matteo, preoccupato ancor più di sottolineare ogni collegamento della storia di Gesù con le profezie dell’Antico Testamento, attraverso le cosiddette «citazioni di compimento»: «…perché si compisse ciò che era stato detto…». Eccolo quindi indicare che la Galilea, posta tra il Giordano e la «Via del Mare», corrisponde ai territori delle tribù di Zabulon e Neftali (a ovest e a nord del lago), con la citazione di Is 8,23-9,1. La Galilea è detta «dei pagani», o «dei Gentili», perché molto frequentata dai pagani provenienti dalle nazioni confinanti (la provincia romana di Siria a nord e a ovest, la Decapoli a est del lago). Qui ha inizio la predicazione di Gesù, in continuità ideale con il Battista: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».

     2) Chiamata dei primi discepoli (4,18-22).

     Sulle rive del «mare di Galilea» (il lago) Gesù incontra e chiama i primi discepoli. Sono due coppie di fratelli, tutti pescatori (Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni). I due brevi racconti si corrispondono in parallelo; gli uni e gli altri interrompono senza indugio il lavoro in cui sono impegnati, abbandonano tutto (le reti e la barca; Giacomo e Giovanni anche il padre Zebedeo) e seguono Gesù.

     La singolarità di questo rabbi itinerante salta subito all’occhio da alcuni particolari: contrariamente alla prassi del tempo, secondo cui l’aspirante discepolo sceglieva il maestro cui affidarsi per la sua formazione, qui è Gesù che sceglie i suoi discepoli; non viene proposto loro lo studio della Torah né una particolare dottrina o prassi, ma semplicemente la sequela di Gesù. Gesù stesso quindi si offre come via, come dottrina, come legge; e la prospettiva indicata è farsi suoi imitatori nel chiamare altri a seguirlo: «pescatori di uomini».

     3) Sintesi dell’attività di Gesù (4,23-25).

     L’ultima sezione sintetizza l’attività di Gesù e ne indica l’efficacia: l’accorrere delle folle e l’aumento del numero dei seguaci.

     Nel v. 23, una serie di quattro verbi offre un quadro vivace e dinamico. Gesù percorreva (periēghen) la Galilea: è lui che si mette alla ricerca degli uomini per portare loro la salvezza. Insegnava (didaskōn) nelle sinagoghe: la sua parola parte dalla radice della Torah e dei profeti. Annunciava (kērussōn) il vangelo del regno: è il contenuto centrale del messaggio di Gesù e dei suoi. Guariva (therapeuōn) tutti i mali: l’annuncio del vangelo è inscindibile dai gesti di liberazione dal male compiuti da Gesù.

 

Meditazione

L’esperienza della salvezza espressa come irruzione della luce in un contesto di tenebra: questo il messaggio che unisce il testo di Isaia e il vangelo. La zona del nord d’Israele, dove erano stanziate le tribù di Zabulon e di Neftali, in passato umiliate sotto la mano del sovrano assiro che le assoggettò, smembrò in tre distretti (Is 8,23b) e ne deportò la popolazione, conosceranno una liberazione (I lettura): la salvezza è qui una liberazione sul piano storico; Gesù che si stanzia in quella medesima regione è la salvezza di Dio fatta persona: la salvezza si situa sul piano teologico (vangelo). Se la salvezza operata da Dio per le zone settentrionali d’Israele appare come una rinascita a popolo di zone ridotte precedentemente a non-popolo, la venuta di Gesù in Galilea provoca la rinascita di alcuni uomini galilei, dei pescatori, a pescatori di uomini, a discepoli di Gesù. La salvezza è qui colta nella sua dimensione esistenziale. La luce che Gesù è si irradia e suscita una chiamata alla sequela e un invio in missione: la salvezza è una nuova nascita, un venire alla luce.

L’arresto di Giovanni Battista segna la fine del suo ministero pubblico e l’inizio del ministero di Gesù. Il ritiro (Mt 4,12) è il luogo spirituale che consente a Gesù di assumere la fine di Giovanni e decidere l’inizio del proprio ministero. Il ritiro appare luogo di elaborazione della perdita, di confronto con la paura, di assunzione della solitudine, di lettura della realtà alla luce della parola di Dio (cf. la citazione del passo di Isaia: Mt 4,15-16), di accoglienza di un’eredità e infine di elaborazione della decisione nella piena assunzione della propria responsabilità. Responsabilità nei confronti di Dio, di Giovanni, ma anche delle persone che, senza Giovanni, abitavano in zone tenebrose, prive della luce che Giovanni irradiava. Persone che, per Matteo, non sono solamente dei figli d’Israele, ma anche dei pagani: la «Galilea delle genti» (Mt 4,15) comprendeva una popolazione mista di ebrei e pagani. La luce postpasquale della resurrezione si riflette sul Gesù che si stabilisce a Cafarnao, anticipando la manifestazione del Risorto in Galilea (Mt 28,16-20).

Gesù inizia il suo ministero situandosi in continuità con il suo predecessore. In effetti, le parole della sua predicazione sono le stesse di Giovanni: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17; cfr. Mt 3,2). In Gesù però la pregnanza delle parole sulla vicinanza del Regno è molto più forte: egli stesso, nella sua persona, narra il regnare di Dio. Gesù appare come successore di Giovanni che ne accoglie l’eredità e la vivifica innovandola con la sua presenza messianica. Sempre la trasmissione della fede e della vita spirituale è opera di testimonianza, di martyría: Giovanni è testimone di Dio nella sua vita e nella sua morte (a cui prelude il suo arresto: cfr. Mt 11,2-15; 14,3-12), così la sua vita diviene eloquenza, parola, messaggio di Dio stesso (Mt 21,25). E Gesù, sull’esempio di Giovanni e accogliendone il messaggio, consegna la propria vita al cammino che Dio gli dischiude indirizzandolo sulle orme di Giovanni.

La continuità con Giovanni diviene subito novità dell’agire di Gesù: egli chiama con estrema autorità alla sua personale sequela. E la chiamata chiede all’uomo di realizzare il proprio nome (Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni) nella sequela di Cristo; di ordinare la propria umanità alla luce di Cristo, del suo cammino e della sua promessa («Vi farò pescatori di uomini»: Mt 4,19); di lasciare tutto (il lavoro, la famiglia: Mt 4,20.22) con atto di libertà e di impegnare anche il futuro in un «sì» che viene detto in un momento preciso e di cui non si possono sapere le conseguenze («subito … lo seguirono»: Mt 4,20.22). Il «subito» della sequela immediata e senza condizioni deve divenire durata, perseveranza, definitività, e questo è possibile solo se si rinnova nel prosieguo del cammino il ringraziamento per la vocazione ascoltata e accolta un tempo, la fiducia nella misericordia del Signore, la docilità al suo Spirito, la preghiera umile al Signore.

 

Preghiere e racconti 

Metto nelle vostre mani il vangelo

Sapientemente il Signore diede inizio alla sua predicazione da quel messaggio che era solito predicare Giovanni: «Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3,2), non per abolire l’insegnamento di Giovanni, ma per darle ulteriore conferma. Se infatti avesse predicato così mentre Giovanni ancora predicava, forse avrebbe dato l’impressione di disprezzarlo, ora invece, poiché ripete tali parole mentre Giovanni è in prigione, non da segno di disprezzarlo, bensì di confermarlo. Confermò l’insegnamento di Giovanni per testimoniare che gli era un uomo degno di fede. […]

«Mentre camminava lungo il mare, Gesù vide due fratelli, Simone e Andrea» (Mt 4,18). Prima di dire o fare qualcosa, Cristo chiama gli apostoli affinché nulla resti nascosto delle sue parole e delle sue opere e così, in seguito, possano dire con fiducia: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4,20). Li vede non nel corpo, ma nello spirito, non guardando il loro aspetto esteriore, ma i loro cuori. E li sceglie non perché fossero apostoli, ma perché potevano diventare apostoli. Come l’artigiano, che ha visto delle pietre preziose, ma non tagliate, le sceglie non per quello che sono, ma per quello che possono diventare. […]

E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (Mt 4,19), cioè vi renderò maestri affinché con la rete della parola di Dio afferriate gli uomini da questo modo di vivere falso, incostante, tempestoso, instabile, insidioso, sempre pericoloso e mai sicuro per nessuno nel quale gli uomini non camminano di loro volontà, ma sono trascinati controvoglia, quasi a forza. La violenza dell’Avversario, facendo sorgere in loro molti cattivi desideri, dona loro l’illusione di fare la loro volontà. In realtà, li seduce e li spinge a operare il male affinché gli uomini si divorino a vicenda come i pesci più forti divorano sempre i più deboli. Con la rete afferrate gli uomini per trasportarli nella terra del corpo di Cristo, ricca di frutti; fatene delle membra del suo corpo, nella terra ricca di frutti, dolce, sempre tranquilla, dove se c’è tempesta non è per portare alla rovina, ma per mettere alla prova la fede e per far fruttare la pazienza. Affinché gli uomini camminino liberamente e non siano trascinati, affinché non si divorino a vicenda, ecco io metto tra le vostre mani un evangelo nuovo.

(ANONIMO, Commento incompleto a Matteo, om.6,17; 7,18-19, PG 56, 673-675).

Conversione

«Convertitevi e credete all’Evangelo!» (Marco I, 15 ); «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicinissimo!» (Matteo 4,17). La richiesta di conversione è al cuore delle due differenti redazioni del grido con cui Gesù ha dato inizio al suo ministero di predicazione. Collocandosi in continuità con le richieste di ritorno al Signore di Osea, di Geremia e di tutti i profeti fino a Giovanni Battista (cfr. Matteo 3,2), anche Gesù chiede conversione, cioè ritorno (in ebraico teshuvah) al Dio unico e vero. Questa predicazione è anche quella della chiesa primitiva e degli apostoli (cfr. Atti 2,38; 3,19) e non può che essere la richiesta e l’impegno della chiesa di ogni tempo.

Il verbo shuv, che appunto significa «ritornare», è connesso a una radice che significa anche «rispondere» e che fa della conversione, del sempre rinnovato ritorno al Signore, la responsabilità della chiesa nel suo insieme e di ciascun singolo cristiano. La conversione non è infatti un’istanza etica, e se implica l’allontanamento dagli idoli e dalle vie di peccato che si stanno percorrendo (cfr. 1 Tessalonicesi 1,9; 1 Giovanni 5,21), essa è motivata e fondata escatologicamente e cristologicamente: è in relazione all’Evangelo di Gesù Cristo e al Regno di Dio, che in Cristo si è fatto vicinissimo, che la realtà della conversione trova tutto il suo senso. Solo una chiesa sotto il primato della fede può dunque vivere la dimensione della conversione. E solo vivendo in prima persona la conversione la chiesa può anche porsi come testimone credibile dell’Evangelo nella storia, tra gli uomini, e dunque evangelizzare. Solo concrete vite di uomini e donne cambiate dall’Evangelo, che mostrano la conversione agli uomini vivendola, potranno anche richiederla agli altri. Ma se non c’è conversione, non si annuncia la salvezza e si è totalmente incapaci di richiedere agli uomini un cambiamento. Di fatto, dei cristiani mondani possono soltanto incoraggiare gli uomini a restare quel che sono, impedendo loro di vedere l’efficacia della salvezza: così essi sono di ostacolo all’evangelizzazione e depotenziano la forza dell’Evangelo. Dice un bel testo omiletico di Giovanni Crisostomo: «Non puoi predicare? Non puoi dispensare la parola della dottrina? Ebbene, insegna con le tue azioni e con il tuo comportamento, o neobattezzato. Quando gli uomini che ti sapevano impudico o cattivo, corrotto o indifferente, ti vedranno cambiato, convertito, non diranno forse come i giudei dicevano dell’uomo cieco dalla nascita che era stato guarito: “È lui?”. “Sì, è lui!” “No, ma gli assomiglia”. “Non è forse lui?”». Possiamo insomma dire che la conversione non coincide semplicemente con il momento iniziale della fede in cui si perviene all’adesione a Dio a partire da una situazione «altra», ma è la forma della fede vissuta.

(Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, 67-70).

La conversione di Paolo

Ma dobbiamo porci una domanda cruciale: chi è l’inventore di questo messaggio? Se esso fosse l’Apostolo Paolo, allora avrebbero ragione quelli che dicono che è lui, non Gesù, il fondatore del cristianesimo. Ma l’inventore non è lui; egli non fa che esprimere in termini elaborati e universali un messaggio che Gesù esprimeva con il suo tipico linguaggio, fatto di immagini e di parabole.

Gesù iniziò la sua predicazione dicendo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15). Con queste parole egli insegnava già la giustificazione mediante la fede. Prima di lui, convertirsi significava sempre “tornare indietro” (come indica lo stesso termine ebraico shub); significava tornare all’alleanza violata, mediante una rinnovata osservanza della legge. “Convertitevi a me […], tornate indietro dal vostro cammino perverso”, diceva Dio nei profeti (Zc 1, 3-4; Ger 8, 4-5).

Convertirsi, conseguentemente, ha un significato principalmente ascetico, morale e penitenziale e si attua mutando condotta di vita. La conversione è vista come condizione per la salvezza; il senso è: convertitevi e sarete salvi; convertitevi e la salvezza verrà a voi. Questo è il significato predominante che la parola conversione ha sulle labbra stesse di Giovanni Battista (cf. Lc 3, 4-6). Ma sulla bocca di Gesù, questo significato morale passa in secondo piano (almeno all’inizio della sua predicazione), rispetto a un significato nuovo, finora sconosciuto. Anche in ciò si manifesta il salto epocale che si verifica tra la predicazione di Giovanni Battista e quella di Gesù.

Convertirsi non significa più tornare indietro, all’antica alleanza e all’osservanza della legge, ma significa fare un salto in avanti, entrare nella nuova alleanza, afferrare questo Regno che è apparso, entrarvi mediante la fede. “Convertitevi e credete” non significa due cose diverse e successive, ma la stessa azione: convertitevi, cioè credete; convertitevi credendo! “Prima conversio fit per fidem“, dirà san Tommaso d’Aquino, la prima conversione consiste nel credere.

Dio ha preso l’iniziativa della salvezza: ha fatto venire il suo Regno; l’uomo deve solo accogliere, nella fede, l’offerta di Dio e viverne, in seguito, le esigenze. È come di un re che apre la porta del suo palazzo, dove è apparecchiato un grande banchetto e, stando sull’uscio, invita tutti i passanti a entrare, dicendo: “Venite, tutto è pronto!”. È l’appello che risuona in tutte le cosiddette parabole del Regno: l’ora tanto attesa è scoccata, prendete la decisione che salva, non lasciatevi sfuggire l’occasione!

L’Apostolo dice la stessa cosa con la dottrina della giustificazione mediante la fede. L’unica differenza è dovuta a ciò che è avvenuto, nel frattempo, tra la predicazione di Gesù e quella di Paolo: Cristo è stato rifiutato e messo a morte per i peccati degli uomini. La fede “nel Vangelo” (“credete al Vangelo”), ora si configura come fede “in Gesù Cristo”, “nel suo sangue” (Rm 3, 25).

Quello che l’Apostolo esprime mediante l’avverbio “gratuitamente”(dorean) o “per grazia”, Gesù lo diceva con l’immagine del ricevere il regno come un bambino, cioè come dono, senza accampare meriti, facendo leva solo sull’amore di Dio, come i bambini fanno leva sull’amore dei genitori.

Si discute da tempo tra gli esegeti se si debba continuare a parlare della conversione di san Paolo; alcuni preferiscono parlare di “chiamata”, anziché di conversione. C’è chi vorrebbe che si abolisse addirittura la festa della conversione di S. Paolo, dal momento che conversione indica un distacco e un rinnegare qualcosa, mentre un ebreo che si converte, a differenza del pagano, non deve rinnegare nulla, non deve passare dagli idoli al culto del vero Dio.

A me pare che siamo davanti a falso problema. In primo luogo non c’è opposizione tra conversione e chiamata: la chiamata suppone la conversione, non la sostituisce, come la grazia non sostituisce la libertà. Ma soprattutto abbiamo visto che la conversione evangelica non è un rinnegare qualcosa, un tornare indietro, ma un accogliere qualcosa di nuovo, fare un balzo in avanti. A chi parlava Gesù quando diceva: “Convertitevi e credete al vangelo”? Non parlava forse a degli ebrei? A questa stessa conversione si riferisce l’Apostolo con le parole: “Quando ci sarà la conversione al Signore quel velo verrà rimosso” (2Cor 3,16).

La conversione di Paolo ci appare, in questa luce, come il modello stesso della vera conversione cristiana che consiste anzitutto nell’accettare Cristo, nel “rivolgersi” a lui mediante la fede. Essa è un trovare prima che un lasciare. Gesù non dice: un uomo vendette tutto che quello che aveva e si mise alla ricerca di un tesoro nascosto; dice: un uomo trovò un tesoro e per questo vendette tutto.

La metanoia: un’opera della grazia in noi

Credo che ci siano molti fattori critici di cui prendere coscienza riguardo a questa metanoia, questo radicale cambiamento di prospettiva. Tuttavia, ce n’è uno in particolare che mi sembra fondamentale, ed è il fatto che la metanoia è un’esperienza di fede e, quindi, un’opera della grazia. Solo Dio può fare di una persona un credente, e solo credendo in Gesù possiamo assumere la sua visione. La fede non è, e non è mai stata, una questione di intelligenza o di capacità logica, perché, se così fosse, tutti gli individui con un’intelligenza superiore e capacità logica diventerebbero dei credenti. La fede è, piuttosto, per le persone con la mentalità aperta e un cuore coraggioso: la fede è per i giocatori d’azzardo disposti a puntare tutto su Gesù.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 49).

La prima attività dello Spirito

La prima attività o energia dello Spirito in noi è la metànoia, la conversione o pentimento. Questo volgersi indietro del nostro nous (metanoia), questo cambiamento del cuore, è il nostro primo momento di verità davanti a Dio, a noi stessi e ai fratelli. Alcuni padri della chiesa ritenevano che essa comportasse normalmente il battesimo delle lacrime, a loro avviso il chiaro segno che lo Spirito si stava impossessando del corpo di un uomo: l’uomo capitola, la sua resistenza va in frantumi, ed egli piange. Si potrebbero vedere dei paralleli a quest’esperienza con esperienze analoghe riscontrate nella psicanalisi: ha luogo una sorta di catarsi. L’uomo piange e si arrende, si arrende allo Spirito santo, a quella nuova consapevolezza di se stesso che gli è possibile acquisire mediante il battesimo delle lacrime. Mi sembra di poter dire che la conversione, il pentimento, non è solo un tema del quale è difficile parlare ai nostri giorni, ma è anche  visti i complessi che attanagliano l’uomo moderno  uno dei più difficili da mettere a fuoco con precisione e da vivere autenticamente. E tuttavia rimane essenziale. Il pentimento è oggi qualcosa che suscita repulsione. Ci troviamo a vivere in un periodo di transizione tra la nevrosi ossessiva (se così si può chiamarla) che caratterizzava il periodo immediatamente precedente al nostro, e l’effervescenza e l’aggressività adolescenziali di un periodo che si sta liberando da tale nevrosi. A chi è già divorato dall’angoscia l’evidenza del peccato può creare soltanto un’angoscia ancor più insopportabile. Il peccato era del tutto intollerabile nell’epoca precedente alla nostra, e gli uomini cercavano di liberarsene ricorrendo a quella che i padri erano soliti chiamare dikaioma, la pretesa di esser giusti, l’autogiustificazione: non si era in grado di portare il peso del peccato? E allora ci si convinceva d’esser giusti mediante un’osservanza esteriore della legge, o piuttosto, di un certo numero di regole. In realtà, in questo modo non si fa che sfuggire alla conversione, alla metànoia. Oggi, invece, manifestiamo un’effervescenza e un’aggressività adolescenziali che sono altrettanto nevrotiche, e per le quali il peccato è altrettanto insostenibile; la soluzione odierna consiste tuttavia nel dire che non esiste il peccato.

(A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon/Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, 9-20).

Conversione

«Quando sono diventato frate speravo di convertire il mondo intero. Sarò felice se riuscirò a salvare me stesso. E mi sono accorto che sono io che devo essere diverso e non l’altro».

(Davide Maria Turoldo)

Paraboletta tra il tenero ed il malizioso

In principio la Fede muoveva le montagne solo quando era assolutamente necessario, per cui il paesaggio rimaneva per millenni uguale a se stesso.

Ma quando la fede cominciò a propagarsi e alla gente sembrò divertente l’idea di smuovere le montagne, queste non facevano altro che cambiare di posto ed era sempre più difficile trovarle nel luogo dove le avevano lasciate la notte precedente.

Cosa che naturalmente creava più difficoltà di quante ne risolvesse.

La brava gente preferì allora abbandonare la fede e ora le montagne rimangono al loro posto.

Solo poche persone hanno di tanto in tanto qualche fremito.

Preghiera

O Signore, mio Dio e mio Salvatore, Gesù Cristo,

continuo a chiederti di darmi la grazia della conversione.

Giorno e notte spero soltanto una cosa:

che tu mi mostri la tua misericordia

e lasci che io sperimenti la tua presenza nel mio cuore.

Fa’ che io pervenga a un genuino atto di pentimento,

a una preghiera sincera e umile e a una generosità libera e spontanea.

Vedo così chiaramente la strada da seguire!

Comprendo così bene che mi è necessario venire a te.

Posso insegnare e parlare con eloquenza sulla vita in te;

ma il mio cuore esita,

il mio io interiore e più profondo ancora si tira indietro,

vuole mercanteggiare, vuole dire: «Sì, ma…».

O Signore, continuo forse a dimenticare che tu mi ami,

che tu mi aspetti a braccia aperte?

Come un padre con le lacrime agli occhi,

tu vedi come il tuo figlio stia distruggendo la vita stessa che tu gli hai dato.

Ma anche come un padre tu sai che non puoi costringermi a tornare a te.

Solo quando verrò liberamente a te,

quando mi scuoterò liberamente di dosso le preoccupazioni e gli affanni

e confesserò liberamente le mie vie sbagliate

e chiederò liberamente misericordia,

solo allora tu potrai darmi liberamente il tuo amore.

Ascolta la mia preghiera, o Signore, ascolta la mia difesa,

ascolta il mio desiderio di ritornare a te.

Non lasciarmi solo nella mia lotta.

Salvami dalla dannazione eterna e mostrami la bellezza del tuo volto.

Vieni, Signore Gesù, vieni. Amen.

(J.M. NOUWEN, (manoscritto inedito), in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 239-240)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

PER L’APPROFONDIMENTO:

III DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

II DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 49,3.5-6

       Il Signore mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza –  e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».

 

2 «Il Signore mi ha detto: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”» (Is 49,3).

     Siamo di fronte ad una affermazione paradossale: Dio manifesta la sua gloria nascondendola in un «servo», la cui opera ha tutte le apparenze del fallimento e comporterà molte sofferenze (cf. Is 49,4; 50,6). Dio ha scelto Israele non per la sua potenza, o per i suoi meriti, ma per amore gratuito: «il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli — siete infatti il più piccolo di tutti i popoli — ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Dt 7,7-8).

     Il «servo del Signore» è stato plasmato da lui fin «dal seno materno» (Is 49,1); Dio gli ha affidato una missione nei confronti di Israele e verso le genti. Tale missione comporta fatica, sofferenza, morie, ma Dio non lo ha abbandonato come sembra ad uno sguardo superficiale, ma è con lui proprio nel momento della sofferenza, mentre il successo è sì promesso, ma differito ad altro tempo (cf. Is 52,13-5).

 

Seconda lettura: 1Corinzi 1,1-3

Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo! 

 

2 Paolo si presenta ai cristiani di Corinto come apostolo, chiamato da Dio (1Cor 1,1). Egli lo sottolinea con forza qui, come in altre lettere (cf. Rom 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Col 1,1). Egli compie la sua missione secondo il volere di Dio e non secondo progetti personali. «Tutto il merito e la capacità sono di colui che chiama, al chiamato non resta che obbedire»,  dice Giovanni Crisostomo nel suo commento ai primi versetti della lettera ai Corinti, e aggiunge: «siamo stati chiamati perché piacque a Dio, non perché eravamo degni» (cf. PG 61,13-14).

     Non solo l’apostolo, ma tutti i cristiani sono dei «chiamati», essi, come l’apostolo, «santificati in Cristo Gesù», e chiamati santi devono manifestare nella loro vita la santità seguendo le orme di Gesù, via verso il Padre, pronti anche ad affrontare la croce.

     Paolo augura «grazia e pace». È l’indirizzo di saluto che l’apostolo ripete, come formula abituale, all’inizio e alla fine delle sue lettere. Augurare la pace, che nell’orizzonte biblico è un bene grande comprensivo di tutti gli altri beni donati da Dio, è un modo tipico di salutare ebraico che si e mantenuto dai tempi biblici fino ad oggi (cf. Es 4,18; Gdc 6,23; 18,6; 19,20; 1Sam 1,17; 20,42,25,6.35; 2Re 5,19; 1Cr 112,19). Gesù risorto appare ai suoi augurando loro la pace (Lc 24,36; Gv 20,19.26).

     Grazia è il favore di Dio assolutamente libero da ogni condizionamento, favore strettamente legato alla sua misericordia (cf. Es 33,19; Sap 3,9). Dio stesso nell’apparizione a Mosè nell’Esodo si proclama: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34,6). I Salmi abbondano di espressioni che inneggiano alla grazia del Signore.

     In Cristo, rivelatore del Padre, Signore Dio ricco di grazia e di misericordia, ci dice Paolo nella lettera ai Romani, abbiamo ricevuto la grazia e la misericordia di Dio, che in lui ha rivolto il suo sguardo sui peccatori (cf. Rm. 3,21-26).

     La chiamata di Dio in Cristo alla santità e al ministero dentro la comunità è dono di grazia; essa non è una qualità statica, ma accompagna il chiamato e la chiamata nello svolgimento dei loro compiti come Paolo riconosce più volte per se stesso (cf. 1Cor 3,10; 15,10; 12,3; Ef 3,7).

 

Vangelo: Giovanni 1,29-34

      In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».  Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

 

Esegesi 

«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29).

     L’evangelista Giovanni ci presenta Gesù come colui che toglie, o meglio, che «prende su di sé» il peccato del mondo. La traduzione «toglie» non rende efficacemente il significato della parola greca airein, che significa letteralmente sollevare, prendere su di sé, mentre la traduzione italiana «togliere» suggerisce l’idea di eliminare. Gesù è agli inizi della sua missione e non elimina il peccato con l’instaurazione gloriosa del regno di Dio, regno dove il peccato e le sue conseguenze non avranno più nessun potere, ma incomincia il suo cammino fra i peccatori e in solidarietà con essi.

     Egli, dice ancora l’evangelista, è «l’agnello di Dio». Che cosa significa questa figura? Per cercare di capirla dobbiamo rifarci all’ambiente religioso ebraico contemporaneo a Gesù e alle Scritture ebraiche (Antico Testamento), che l’evangelista e i suoi interlocutori riconoscono come rivelazione di Dio.

     Un ambito di riferimento possibile è il culto sacrificale del tempio di Gerusalemme; in particolare l’evangelista avrebbe pensato all’agnello pasquale a cui allude direttamente nel racconto della morte in croce (cf. Gv 19,36 in relazione a Es 12,46; Num 9,12; Sal 34,21). In questa direzione si muovono altri due passi neotestamentari: «Cristo, nostra pasqua, è stato immolato» (1Cor 5,7) e «foste liberati… con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19; cf. Es 12,4).

     Sempre nell’ambito del culto sacrificale del tempio potrebbe esserci allusione al sacrificio dei due agnelli immolati ogni giorno nel tempio alla «presenza del Signore» uno al mattino e uno al tramonto (cf. Es 29,38).

Entrambi questi riferimenti portano a vedere nella figura di Gesù il mediatore fra Dio e gli uomini, che accetta di prendere su di sé le conseguenze del male del mondo con un estremo atto di amore e di offerta di sé a Dio, in solidarietà con tutti gli esseri viventi, facendosi, per così dire, come gli agnelli sacrificati nel tempio «olocausto perenne per tutte le generazioni» (cf. Es 29,42).

     Alcuni studiosi biblici ritengono che l’espressione «agnello di Dio» sia equivalente a quella di «servo di Dio». Essi si basano sulla constatazione che il vocabolo greco amnòs, agnello usato da Gv 1,29,36 è lo stesso vocabolo della traduzione dei Settanta di Is 53,7 ripreso in Atti 8,32: «Come pecora fu condotto al macello, e come agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la bocca».

     Queste diverse interpretazioni non si escludono a vicenda, ma aiutano a penetrare nella ricchezza della figura di Gesù, che l’evangelista ci presenta attraverso le parole del Battista. Come suggerisce anche la prima lettura, possiamo riferirci ai carmi del servo di Isaia per trovare le radici della figura di Gesù e cercare di capire qualcosa di più del mistero della sua missione e della stessa rivelazione di Dio.

     L’«agnello-servo di Dio» è colui a cui Giovanni rende testimonianza, di fronte al quale egli si tira indietro. È lui quello a cui si deve guardare, è lui colui che deve essere rivelato ad Israele, perché proprio dentro Israele compirà la sua missione.

     La testimonianza del Battista si conclude con la proclamazione di Gesù «Figlio di Dio». Tale riconoscimento non è frutto di conoscenza umana, ma è conseguenza del dono dello Spirito. Infatti Giovanni dichiara di non aver conosciuto la persona di Gesù nella profondità del suo mistero di Figlio di Dio, se non dopo aver visto «lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui» (1Gv 1,32; cf. Is 11,2; 61,1).

 

Meditazione 

Prima lettura e vangelo convergono verso un centro cristologico e sociologico. Isaia parla del Servo del Signore e della sua missione che ha ampiezza universale e consiste nell’essere «luce delle genti»; il vangelo applica a Gesù la tipologia del Servo-Agnello (il termine aramaico talja’ sembra significare tanto «agnello» quanto «servo»; in Is 53 il Servo è presentato come agnello afono) e il Battista ne annuncia la missione universale, «togliere il peccato del mondo».

Compito profetico è quello di preparare l’avvento del novum nella storia. La pagina di Isaia preannuncia l’inaudita estensione di orizzonte della missione del Servo (I lettura) e Giovanni introduce il novum nella storia indicando Gesù quale Messia, prima sconosciuto («In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete»: Gv 1,27). Il profeta sa creare speranza e orientarla, sa dare volto e nome a ciò che sta fiorendo nella storia e aiutarne la nascita. La profezia è la maieutica del futuro che da senso e luce all’oggi.

Il testo evangelico presenta discretamente uno squarcio sull’esperienza spirituale di Giovanni Battista in ordine alla conoscenza dell’identità profonda di Gesù. Giovanni «non conosceva» Gesù nella sua identità messianica e di rivelatore del Padre (Gv 1,31.33): ma l’ascolto della parola Dio (Gv 1,33) ha reso vigile il suo sguardo che ha saputo vedere lo Spirito posarsi su Gesù (Gv 1,32.34). L’ascolto della parola rende possibile la visione, ovvero, l’esperienza dello Spirito. La conoscenza che ne scaturisce non è affatto disincarnata o intellettuale, ma partecipe e coinvolta: è testimonianza (Gv 1,34). L’itinerario spirituale della conoscenza di Dio nella storia si può così delineare: ascoltodiscernimentotestimonianza. Anche il cristiano è chiamato al compito di vedere lo Spirito, cioè di discernere la sua presenza attiva nella storia e nelle vite degli uomini. E lo Spirito viene reso visibile dai suoi frutti (Gal 5,22), dalle sue manifestazioni e operazioni (1 Cor 2,4-11) negli uomini e nelle loro relazioni.

Gesù appare il luogo in cui lo Spirito trova riposo, dimora stabile. La sua obbedienza di inviato, di Servo, di Agnello, è arricchita e completata dalla creatività dello Spirito e dai suoi multiformi doni. Obbedienza e creatività sono elementi inscindibili anche della vita cristiana.

La conoscenza di Gesù a cui perviene Giovanni è anche un far conoscere (Gv 1,31), una conoscenza non chiusa su di sé, ma diffusiva e irraggiante. Tale conoscenza nasce dall’obbedienza di Giovanni a Colui che l’ha inviato: essa è dunque dono a cui Giovanni si è aperto e reso disponibile riconoscendo la propria ignoranza. Si tratta di un movimento pasquale che fa passare dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della conoscenza. Il testo suggerisce che la missione non può mai essere scissa dall’obbedienza personale alla parola del Signore e dal personale coinvolgimento con il Signore.

Noi non possiamo dire di conoscere Gesù una volta per tutte. C’è una non-conoscenza del Signore che è vitale per la sua retta conoscenza. Una conoscenza troppo certa del Signore rischia di falsarne i tratti rivelati dal vangelo. Il Gesù che Giovanni presenta e che i vangeli mostrano è il Gesù rivelato dallo Spirito di Dio, non la proiezione dei miraggi dell’uomo; è il Servo obbediente, non un dominatore tirannico; è l’Agnello inerme e innocente, non un Moloch distruttivo o una potenza che crea sofferenza; è il Figlio di Dio, non un idolo partorito dalla mente umana o fabbricato da mani d’uomo. La conoscenza del Signore va sempre rinnovata ed è solo per grazia, nella fede, che viene rinnovata. Essa abbisogna di essere sempre purificata e sottratta al rischio di divenire una stanca abitudine. Noi siamo tentati di rendere vecchia, stantia, ingessata, atrofizzata la nostra conoscenza del Signore e possiamo ritrovarci ad adorare un idolo invece che il Signore vivente. Sicché vale anche per noi credenti, sempre, l’umile riconoscimento che, pur confessandolo e conoscendolo, in verità noi anche non conosciamo il Signore. Solo questa non-conoscenza libera la conoscenza dal voler essere esaustiva del mistero del Signore.

 

Preghiere e racconti 

Tre angeli assistono al battesimo di Cristo mentre alle loro spalle l’uomo nuovo, il battezzando, si staglia seminudo sul fondo dei coloratissimi vestiti degli uomini vecchi. La composizione è monumentale. Pura è l’aria, pura è l’acqua e pura è la terra. Gli uomini e il mondo non sono intaccati dall’ombra/peccato, perché la stessa ombra è col ore intriso di luce, delicato come una carezza. Il paesaggio è quello aretino. Eppure sa di paradiso.

Il segreto pittorico di questo risultato è nella combinazione unica di realtà e astrazione, di vita e contemplazione, ottenuta mediante la prospettiva, la forma, il colore e soprattutto la luce che tutto investe compenetrandolo. Non si muove niente, perché tutto sa di sospeso. Sospeso è il braccio di Giovanni Battista, sospeso è il gesto del battezzando che li sta dietro. Non è per incertezza o fatica, ma per lo stupore che rende impercettibile anche il respiro: l’uomo è investito da una tale dignità che basta il suo «essersi» per riempire di dignità regale il suo corpo, la sua posa e il suo sguardo.

Il paesaggio stesso si umanizza e partecipa dell’eterna giovinezza dell’uomo. Di quale uomo? Di quello che sta al centro, dell’uomo-Dio. Il grande Giotto aveva dato figura al Dio-uomo; ora il Quattrocento rovescia il rapporto: è così umano questo Gesù che solo Dio poteva essere in Lui.

Questo uomo ha la dignità del re. Occupa il centro del mondo. Accanto a lui il terribile e selvatico Giovanni Battista si è trasformato in un dignitario di corte. Aveva tuonato contro Gerusalemme, il tempio, le menzogne, i furbi; aveva invocato la scure e il fuoco per distruggere il male. Invitava a preparare la strada al re che sarebbe arrivato. Ora un volto, uno dei mille nella folla alle acque del Giordano, lo ha fulminato. Che cosa ha visto in esso?

Ci facciamo aiutare da Piero della Francesca. Il pittore non è evangelista, ma è spontaneo che la Parola susciti negli occhi la voglia di vedere. Con tutti i limiti, ogni uomo e ogni epoca hanno diritto a un volto-Vangelo. E l’occasione più alta per cogliere il volto-Vangelo di Gesù è l’esperienza che il Nazareno ha fatto al Giordano. Forse è anche la più difficile da «immaginare». Ma Piero della Francesca è grande.

«Mentre pregava…», dice il Vangelo. E Gesù, nel quadro, sta pregando. «… il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3, 21-22). Nel quadro non si vedono i cieli aprirsi. È evidente che si tratta di un’esperienza spirituale, che avviene sulla punta più profonda dell’essere. La colomba è attentissima a non battere le ali: essa svolge il suo compito di tramite simbolico; il fremito vero sta salendo come linfa da dentro: tutto il Nazareno ne è invaso. L’umile falegname alla ricerca della sua vocazione, mentre prega il Padre, fa l’esperienza di essere figlio. Presto schizzerà via di lì a dire al mondo che il Regno è arrivato, che Dio abita questo mondo, questa carne, questa avventura. Sì, perché lui è il Figlio, è Dio. Non lo è diventato in quel momento, ma è in quel momento che la verità sta attraversando i suoi sensi, interiori ed esteriori. La verità è sulla sua pelle.

Nel Cristo splende la luce della coscienza filiale. L’infinita dolcezza, l’onnipotente tenerezza, la pazza voglia del Padre di far vivere, ora è anche nella sua psicologia, nel suo modo di guardare gli uomini, la donna che impasta, il papà che accende la lanterna alla sera… Tutti quelli che incontrerà, se lo vorranno, vedranno nei suoi occhi il Regno di Dio. «Non temete più niente – dirà a tutti – Dio si è fatto prossimo all’uomo. È Vangelo, è lieta notizia. Non c’è carne umana che non sia anche avventura divina. L’ho visto nei cieli aperti».

Giovanni è il primo ad accorgersi. Glielo ha letto in faccia. E ora compie su di Lui un gesto particolare che sa di incoronazione. La lieta notizia ora si fa luce del mondo. Tutto nel quadro diventa terso, puro e sacro. Tutto è evidente alla luce di un tempo senza tempo, in uno spazio che sa di trasfigurazione. «Mentre pregava…»: forse è bello immaginarlo così Gesù, quando, stanco e in preda alla delusione («Vanno capiti, poveretti: è una notizia troppo grande quella del Regno. Come arrabbiarmi se fanno fatica a credermi?»), si rifugiava nella preghiera. È bello immaginarlo che pregava così, come Piero della Francesca l’ha figurato in questo quadro.

Ancora e sempre sul monte di luce          

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino. 

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(David Maria Turoldo).

 

Uomo fra gli uomini

Gesù,

piccolo come uno di noi,

vulnerabile e nudo,

a metà fra nascita e morte,

fra silenzio e parola;

un uomo

venuto dalla polvere,

tessuto di fuoco,

di vento e d’acqua,

fra un ventre di donna

e quello della terra;

un figlio d’uomo,

per pochi istanti

in piedi, ritto

fra i sassi e le stelle;

che uomo

che va per la sua strada

fra una locanda chiusa

e quella di Emmaus;

un uomo

fra ieri e domani,

con la fatica addosso,

con lacrime di gioia negli occhi,

e talvolta un singhiozzo

che gli traversa la gola

– e per piangere

se ne va in disparte;

soltanto un uomo,

che ha paura di morire

come tutti,

e lo dice,

ed è morto infatti,

abbandonato da tutti,

abbandonato dal suo Dio,

lasciato a se stesso;

un uomo

senz’armi né armatura,

indifeso come il vento,

parola offerta,

seme nascosto,

sale della terra,

fiamma sul monte

piegata dalla tempesta

e mai spenta,

fonte viva

mille volte calpestata,

ancora chiara e fresca,

sempre pronta

per la nostra sete,

vino pronto

a essere servito,

pane spezzato

pronto sulla tavola;

un uomo,

carne e sangue

in mano ai fratelli,

sotto l’ala dello Spirito,

in mano a Dio:

uomo fra gli uomini,

nella sua solitudine

dove l’amore

improvvisamente

si accende come il fuoco

in un fascio di ginestre,

si attacca come la brina

ai rami di biancospino; 

un uomo

immenso,

che è nato da Dio,

che è tutto l’uomo

e che è Dio,

che è noi stessi,

tutti e ciascuno;

in lui noi siamo

e senza di lui

non saremmo nulla,

o ben poco;

in lui noi siamo,

coronati di gloria,

vestiti di forza,

appena di sopra degli angeli

e poco meno di Dio;

Gesù, l’uomo

Nel quale anche noi possiamo dire:

come un prodigio mi hai fatto

e prodigiose

sono le tue opere, o Dio!

(Didier Rimaud).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

PER L’APPROFONDIMENTO

II DOM TEMP ORDINARIO (A)

BATTESIMO DEL SIGNORE

Prima lettura: Isaia 42,1-4.6-7

Così dice il Signore: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamento. Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre».

 

2 I Carmi del Servo di JHWH, di cui Is 42,1-4,67 è il primo, rappresentano una svolta nel messianismo biblico.

     Le speranze d’Israele erano riposte, fino dall’esilio, nei successi, nelle conquiste, nei trionfi del discendente di David che avrebbe un giorno rialzate le sorti della nazione. Ma la dinastia davidica era finita a Babilonia e se n’erano perse le tracce; invece di far leva su un re, un conquistatore occorreva far tesoro della situazione disastrosa in cui ci si era venuti a trovare, accettando l’umiliazione come inviata da JHWH e tornare a lui, piegarsi, convertirsi. Bisognava lasciare a Dio la realizzazione dei suoi progetti e non affidarsi alle mani dell’uomo.

     Il «Servo» è una figura totalmente nuova. Innanzitutto apolitica. È sempre un incaricato di Dio, uno cioè che egli ha scelto e al quale ha affidato un compito che non è quello di ristabilire le sorti d’Israele, ma far conoscere il diritto e le vie del Signore alle nazioni, alle genti, oltre che ai figli di Abramo.

     Egli non avrà forze, armi; non lancerà bandi di guerra (sulle piazze), non calpesterà i deboli, ma sarà giusto e farà trionfare l’equità tra gli uomini. Non sarà un conquistatore ma un predicatore che farà pervenire la sua parola, i suoi messaggi di salvezza fino agli ultimi confini della terra (le isole più lontane).

     Dio, il creatore del cielo e della terra, che ha tutto nelle sue mani, ha anche chiamato il suo Servo e l’ha colmato dei suoi doni, innanzitutto del suo Spirito e l’ha costituito «alleanza», cioè punto d’incontro tra JHWH e Israele, e «luce», cioè fonte di chiarezza di verità per i gentili, in modo che anch’essi escano dalle tenebre in cui si trovano avvolti.

     Il I canto del Servo di JHWH è la pagina più evangelica dell’Antico Testamento.

 

Seconda lettura: Atti 10,34-38

In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga. Questa è la Parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti.

Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui».  

 

2 Il libro degli Atti allinea la conversione di Saulo, «chiamato a portare il nome del Signore ai popoli, ai re», oltre che ai «figli d’Israele» (9,15), con la «visione» a Pietro del lenzuolo con ogni sorta di animali, puri e impuri, diventati miracolosamente tutti commestibili (10,11-15).

     Pietro è invitato a capire e ad accettare che il separatismo giudaico era finito e che i privilegi d’Israele erano cessati. Tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio e chiunque pratica la giustizia è accetto a lui e fa parte del suo popolo. L’imparzialità divina era appena accennata nell’Antico Testamento (cf. Dt 10,17; Sap 6,8). È speciale messaggio proprio del Nuovo. Gesù è passato in mezzo ai propri simili facendo del bene a quanti ne avevano bisogno prescindendo dalla loro estrazione razziale.

     L’esperienza profetica di Gesù è riportata al suo inizio, al momento del battesimo conferitegli da Giovanni. In quella circostanza egli è stato consacrato, alla lettera «unto con l’olio», in greco chriein (costituito «Cristo»), quindi «messo» scelto da Dio. Si tratta in pratica di una incombenza profetica ma che è stata accompagnata e convalidata dal potere dei miracoli che Gesù distribuirà indistintamente a quanti ricorreranno a lui.

     Il battesimo è stato per Gesù un’investitura dello Spirito di Dio, l’abilitazione a promulgare la parola di salvezza (pace) per tutti, la capacità a riversare sugli uomini i doni del cielo, la salute del corpo e dell’anima.

     Gesù, secondo l’autore degli Atti, nel battesimo non solo ha preso piena coscienza della sua vocazione, ma è stato insignito dei poteri o carismi necessari a farla valere e accogliere. È stato dichiarato, ma soprattutto si è trovato costituito messo di Dio sia a Israele che alle genti.

 

Vangelo: Matteo 3,13-17

In quel tempo, Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare.  Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento». 

 

Esegesi 

     Il battesimo nel Giordano da parte di Giovanni è un evento significativo nella vita di Gesù. È il primo atto pubblico che egli compie da quando avverte la voce dello Spirito che lo chiama ad annunziare la buona novella ai poveri, a predicare a quanti attendevano l’anno di grazia del Signore (cf. Lc 4,18). Forse è anche la prima volta che si allontana dal suo villaggio, dalla Galilea e arriva fin alle foci del Giordano.

     Lo scopo era far visita o conoscenza con un predicatore di penitenza che faceva tanto parlare di sé in tutta la regione. Matteo lo dice espressamente: «compare da Giovanni» (3,5). Marco «venne da Giovanni». Tutto fa pensare che Gesù aveva fatto tanta strada per ascoltare il profeta del deserto se non proprio per mettersi alla sua scuola. La frase «da Giovanni» è molto più significativa di quanto appaia.

     Gesù aveva ascoltato la parola dei profeti nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,16). Era diverso però riascoltarla direttamente da un profeta vivente. Si dovrebbe pensare che anche Gesù è in ricerca della volontà di Dio o almeno di un approfondimento, di una chiarificazione della sua chiamata profetica. Infatti poco dopo l’evangelista ricorda il suo ritiro nel deserto, i quaranta giorni di digiuno e di preghiera, il confronto-scontro con il diavolo sempre per determinare la linea da percorrere nell’adempimento del suo mandato nel piano di Dio. Si può perciò ipotizzare che anche questa visita al predicatore del deserto, e forse agli altri asceti che sembra popolassero la zona (vedi i monaci di Qumràn), sia stata motivata dal desiderio o necessità di trovare una conferma alla «spinta» che sentiva nel suo animo a lasciare il lavoro di carpentiere e dedicarsi all’annunzio della parola di Dio.

     Il soggiorno nel Giordano non fu un’esperienza inutile. Gesù non sceglierà né la strada di Giovanni, un predicatore chiuso nel suo recinto tutto proteso a intimorire o a spaventare la gente, né quella dei vicini esseni, pure essi ben segregati dal popolo; ma si metterà in cammino per le contrade della Galilea, insegnando, predicando e guarendo gli infermi che ricorrevano a lui. Sono i quattro verbi con cui Matteo caratterizza la sua attività missionaria (4,23). Gesù non starà ad aspettare la gente ma si muoverà incontro ad essa non per terrorizzarla, ma per liberarla dalle proprie afflizioni e soprattutto dalla paura di Dio, che non era tanto un giudice quanto un «padre» (Mt 6,9).

     L’esperienza di Gesù nel Giordano, il confronto con Giovanni, ha creato qualche difficoltà ai predicatori cristiani delle origini, in particolare alla comunità di Matteo che si è sentita in dovere di correre ai ripari inserendo nel racconto tradizionale di Mc 1,9 un dialogo tra Gesù e Giovanni che ridimensiona la portata del battesimo di Gesù.

     La notizia «Per essere battezzato» poteva far sembrare che Gesù si  fosse trovato subordinato a Giovanni, come al di sotto di lui, ciò che non era ammissibile. Era invece vero il contrario. Era Giovanni che avrebbe dovuto inginocchiarsi davanti all’«ospite» venuto dalla Galilea e ricevere la remissione dei peccati. Ma i fatti non si potevano cambiare. Gesù aveva ricevuto il battesimo e Giovanni l’aveva amministrato. Bisognava allora appellarsi a una motivazione teologica che giustificasse l’accaduto e acquietasse gli animi dei lettori. L’evangelista non ha trovato altra risposta plausibile che richiamarsi a un «ordinamento divino» di cui non era dato conoscere la ragione, ma a cui bisognava rimettersi.

     Il battesimo di Gesù da parte di Giovanni era un dato irrinunciabile, ma rientrava in una disposizione («giustizia») divina a cui i protagonisti dovevano attenersi, pur non comprendendone le ragioni. Gli uomini non debbono tanto capire quello che Dio dispone, solo eseguirlo. E così avviene anche per Gesù che si fa battezzare da Giovanni.

     Ma non basta il richiamo alla superiore volontà di Dio per cancellare le obiezioni insite nel battesimo di Gesù da parte di Giovanni; c’è anche una «teofania», cioè una manifestazione soprannaturale che si verifica nel corso del rito: si aprono i cieli, si vede lo Spirito di Dio, in forma di colomba, si ode una voce che proclama Gesù «figlio prediletto» di Dio, oggetto del suo compiacimento. Sono le massime credenziali che Gesù può far valere a favore della sua missione.

     Gesù era sceso nel Giordano per trovare una risposta alle sue perplessità presso gli uomini più qualificati del suo tempo, dai profeti e gli spiritualisti che si trovavano nella terra d’Israele, ma questa gli giunge miracolosamente da Dio. Una convalida che doveva togliere qualsiasi dubbio nei credenti.

     Il battesimo di Gesù nel Giordano è la promulgazione della vocazione messianica di Gesù. Forse i fatti sono stati meno evidenti, forse anche Gesù ha dovuto accontentarsi di conferme più modeste, ma nell’una e nell’altra eventualità egli riparte dal Giordano con le idee e le convinzioni più chiare sul suo mandato in Israele e si accorgerà presto anche su quello sulle genti. Il Carme del Servo di JHWH che l’evangelista cita (Is 42,1) ne faceva già menzione.

 

Meditazione

L’evento del battesimo di Gesù nel Giordano a opera di Giovanni, evento in seguito al quale lo Spirito di Dio viene su Gesù (vangelo), è preannunciato dalla figura del Servo del Signore su cui Dio pone il suo Spirito (I lettura) e proclamato da Pietro nella sua predicazione come atto con cui Dio ha «unto» in Spirito santo Gesù (II lettura). Lo Spirito di Dio che rimane su Gesù significa la comunione piena tra il Padre e il Figlio, tra Dio e Gesù. 

La comunione di Gesù con Dio (vangelo) si esprime orizzontalmente, cioè nelle relazioni umane, da un lato come rifiuto di condannare e di giudicare (I lettura), dall’altro come attivo fare il bene e guarire chi si trova nel bisogno (II lettura). Infatti, le azioni di spezzare la canna incrinata e di spegnere lo stoppino fumigante che il Servo del Signore non compie, si riferiscono ai gesti che invece compiva l’araldo del Gran Re babilonese quando decretava una condanna a morte: il senso è che il Servo del Signore non viene per condannare, ma per dare vita (I lettura). E nella predicazione di Pietro, Gesù appare colui che «passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (II lettura). Gesù si reca dalla Galilea al Giordano al preciso fine di farsi immergere nel Giordano da Giovanni (Mt 3,13), anche contro la volontà del Battista che «voleva impedirglielo» (Mt 3,14). L’incontro tra i due uomini diviene così un esempio di obbedienza e sottomissione reciproca: Gesù si sottomette all’immersione di Giovanni e Giovanni rinuncia al proprio bisogno spirituale («Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te»: Mt 3,14) e accetta di immergere Gesù. L’obbedienza reciproca diviene obbedienza a Dio: la giustizia adempiuta dai due è infatti la realizzazione della volontà di Dio. La giustizia, biblicamente, è la conformità alla volontà divina. L’obbedienza viene qui colta nel suo aspetto adulto e maturo di azione comune e reciproca, non come atto infantile o mortificazione individuale o abdicazione che uno fa alla propria volontà per adempiere quella di un altro, con i rischi di abuso, di giochi di potere e di sopraffazione che questo comporta. L’obbedienza qui è evento di comunione e di carità che consente l’adempiersi del disegno divino. È un atto libero, non impersonale, né immotivato, ma relazionale, e che avviene nel riconoscimento reciproco e nell’amore.

Questo incontro tra due uomini, due celibi, è particolarmente intenso perché i due uomini di Dio riconoscono la vocazione peculiare l’uno dell’altro. Se Giovanni riconosce di aver bisogno di essere immerso in Spirito santo da Gesù (Mt 3,11.14), Gesù riconosce che l’immersione di Giovanni viene da Dio (Mt 21,25) e che il Battista è venuto nella via della giustizia (Mt 21,32). Il criterio che rende libera la relazione è il fare la volontà di Dio. Gesù non si sottomette all’immersione di Giovanni per compiacerlo o per amor di sottomissione e nemmeno per amicizia, ma perché solo così viene realizzata la volontà di Dio. Questo è anche il criterio che deve regnare nella comunità cristiana perché i rapporti siano limpidi, casti, autentici (Mt 7,21; 12,50).

Giovanni è precursore del Messia lasciando fare, acconsentendo a Gesù (Mt 3,15). C’è una forma di efficacia che non è affatto connessa all’intraprendenza o all’agire, ma al non agire, al lasciar fare al Signore, all’acconsentire al Signore. Giovanni fa spazio a Gesù. La fede, come lasciar fare al Signore, è l’attivo e faticoso fare spazio al Signore. È azione su di sé e questo tipo di azione è la più difficile. L’azione obbediente di Giovanni è a servizio dell’esperienza di filialità che Gesù vive al momento dell’immersione nel Giordano. Se simbolicamente l’uscire dalle acque rinvia a un evento di nascita, la scena del battesimo allude alla paternità di Dio manifestata dalla parola dall’alto, dalla voce dal cielo, ma allude anche alla maternità di Dio, simbolizzata dalla ruach, lo Spirito, lo spazio vitale da cui l’uomo trae la vita. Ha scritto il teologo François Xavier Durwell: «Lo Spirito è il seno in cui Dio è fecondo come una madre».

 

Preghiere e racconti

Cristo è battezzato, scendiamo con lui per risalire con lui

Abbiamo degnamente celebrato la Natività. Siamo corsi con la stella, abbiamo adorato con i magi, siamo stati avvolti dalla luce con i pastori, abbiamo reso gloria con gli angeli. Con Simeone abbiamo tenuto tra le braccia il Signore; con Anna, anziana e casta, abbiamo reso grazie. Siano rese grazie a colui che è venuto nella propria terra come in un paese straniero e ha glorificato chi l’ospitava. Ora, altra è l’azione di Cristo e altro è il mistero. Non posso contenere la mia gioia, mi sento ispirato e, un po’ come Giovanni, annuncio la buona notizia se non come precursore, almeno come uno che viene dal deserto. Cristo è illuminato, risplendiamo con lui. Cristo è battezzato, scendiamo con lui per risalire con lui. […] Giovanni sta battezzando, Gesù si avvicina forse per santificare il Battista, di certo per seppellire tutto intero il vecchio Adamo, ma prima di loro e grazie a loro santifica il Giordano. Lui che era spirito e carne, consacra con Spirito e acqua. Il Battista non accetta, Gesù insiste: «Sono io che devo essere battezzato da te» (Mt 3,14); la lampada (cfr. Gv 5,35) si rivolge al sole (cfr. Mal 3,20), la voce al Verbo, l’amico allo Sposo, colui che è al di sopra di tutti i nati da donna (cfr. Mt 11,11) al primogenito di ogni creatura (cfr. Col 1,15), colui che ha sussultato fin dal seno di sua madre (cfr. Lc 1,41) a colui che è adorato nel seno della propria, il Precursore presente e futuro a colui che si manifesta e si manifesterà. […] Ma poi Gesù risale dall’acqua. Fa risalire con lui il mondo e vede aprirsi i cieli (cfr. Lc 3,21) che Adamo aveva chiuso per sé e i suoi discendenti, così come aveva chiuso anche il paradiso con una spada fiammeggiante (cfr. Gen 3,24). E lo Spirito rende testimonianza alla divinità perché accorre verso colui che gli è simile; e dai cieli viene la voce poiché è dai cieli che viene colui al quale è resa testimonianza, e lo si vede come una colomba. Lo Spirito, infatti, si mostra in forma corporea rendendo onore al corpo, poiché anch’esso è Dio attraverso la divinizzazione. E nello stesso tempo la colomba è solita da lungo tempo annunciare la buona notizia della fine del diluvio.

(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi 39,14-16, SC 358,pp. 178-186).

Il Battesimo di Gesù

«Il Battesimo suggerisce molto bene il senso globale delle Festività natalizie, nelle quali il tema del diventare figli di Dio grazie alla venuta del Figlio unigenito nella nostra umanità costituisce un elemento dominante. Egli si è fatto uomo perché noi possiamo diventare figli di Dio. Dio è nato perché noi possiamo rinascere. Questi concetti ritornano continuamente nei testi liturgici natalizi e costituiscono un entusiasmante motivo di riflessione e di speranza. Pensiamo a ciò che scrive san Paolo ai Galati: “Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,4-5); o ancora san Giovanni nel Prologo del suo Vangelo: “A quanti l’hanno accolto / ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). Questo stupendo mistero che è la nostra “seconda nascita”  la rinascita di un essere umano dall’”alto”, da Dio (cfr Gv 3,1-8)  si realizza e si riassume nel segno sacramentale del Battesimo.

Con tale sacramento l’uomo diventa realmente figlio, figlio di Dio. Da allora, il fine della sua esistenza consiste nel raggiungere in modo libero e consapevole ciò che fin dall’inizio è la destinazione dell’uomo. “Diventa ciò che sei”  rappresenta il principio educativo di base della persona umana redenta dalla grazia. Tale principio ha molte analogie con la crescita umana, dove il rapporto dei genitori con i figli passa, attraverso distacchi e crisi, dalla dipendenza totale alla consapevolezza di essere figli, alla riconoscenza per il dono della vita ricevuta e alla maturità e alla capacità di donare la vita. Generato dal Battesimo a vita nuova, anche il cristiano inizia il suo cammino di crescita nella fede che lo porterà ad invocare consapevolmente Dio come “Abbà  Padre”, a rivolgersi a Lui con gratitudine e a vivere la gioia di essere suo figlio.

Dal Battesimo deriva anche un modello di società: quella dei fratelli. La fraternità non si può stabilire mediante un’ideologia, tanto meno per decreto di un qualsiasi potere costituito. Ci si riconosce fratelli a partire dall’umile ma profonda consapevolezza del proprio essere figli dell’unico Padre celeste. Come cristiani, grazie allo Spirito Santo ricevuto nel Battesimo, abbiamo in sorte il dono e l’impegno di vivere da figli di Dio e da fratelli, per essere come “lievito” di un’umanità nuova, solidale e ricca di pace e di speranza. In questo ci aiuta la consapevolezza di avere, oltre che un Padre nei cieli, anche una madre, la Chiesa, di cui la Vergine Maria è il perenne modello. A lei affidiamo i bambini neo-battezzati e le loro famiglie, e chiediamo per tutti la gioia di rinascere ogni giorno “dall’alto”, dall’amore di Dio, che ci rende suoi figli e fratelli tra noi».

(LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 10.01.2010). 

Tu sei il mio figlio diletto, la mia figlia diletta

Nella meditazione ho sperimentato la realtà di questo amore quando ho riferito la frase: “Sei il mio figlio diletto”, proprio alla mia paura, alla mia oscurità, al mio rifiuto, alla mia mediocrità, alle menzogne della mia vita. Ho tentato di scendere nell’acqua del mio inconscio, nel regno delle tenebre, nel quale ho rimosso tutto quanto teme la luce del giorno, tutto quanto io di giorno non guardo volentieri. Per me questa è una bella immagine del battesimo di Gesù: il cielo si è aperto proprio quando egli è sceso nella profondità del Giordano. Il cielo si aprirà anche sopra l’abisso della mia psiche, ma io devo avere coraggio di scendere in questo abisso interiore, per udirvi nel profondo quella frase, con un suono nuovo: “Tu sei il mio figlio diletto, tu sei la mia figlia diletta”. Solo quando io ho riferito alla mia vita concreta la parola che mi dice che sono un figlio amato, essa mi ha toccato nel più profondo e mi ha donato pace interiore. Tutti i discorsi sull’amore di Dio ci scorrono sopra, se non toccano le esperienze della nostra vita di ogni giorno. Il monito nel mio sogno sembra dire: “Conduci gradualmente le persone all’amore del Dio trinitario!”.

(A. GRÜN, Abitare nella casa dell’amore, Brescia, Queriniana, 2000, 51-52) 

Battesimo di Gesù

Del Battesimo di Gesù Cristo parlano tutti i quattro vangeli canonici. Ecco come lo presenta il Vangelo di Matteo (3,13-17):

In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito Santo scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce dal cielo che disse: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto“.

Il battesimo di Gesù manifesta la sua natura divina: nel mondo è apparso il Figlio di Dio incarnato nella forma umana. Questa è l’Epifania.

Dio appare nello stesso tempo sotto tre ipostasi: Dio-Figlio – Gesù, Dio-Spirito Santo – è sceso su Gesù in forma di colomba, Dio-Padre – si è manifestato attraverso la sua voce. Ecco l’epifania della Santissima Trinità (Trinità “novotestamentaria”).

Ricevuto il battesimo, Gesù andò nel deserto e lì digiunò per quaranta giorni. E il demonio per tre volte lo tentò. Ma Gesù vinse le tentazioni e, tornato in Galilea, iniziò il suo insegnamento. “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista… (Lc 4,18).

Da questo momento Gesù appare come Messia (dall’ebraico mashijah – “unto”, in greco “Cristo”). Inizia il suo grande servizio.

Le immagini del Battesimo del Signore, chiamate anche l’Epifania (del nostro Signore Gesù Cristo), erano molto popolari nella Rusia. Uno degli esempi delle icone di questo tipo è l’immagine dell’Epifania di Novgorod, fine del XV – inizio XVI secolo.

Il centro logico e composizionale dell’icona è la figura di Cristo. Gesù Cristo, spogliato, riceve il battesimo di purificazione nel Giordano: secondo l’iconografia fissata, nella riva sinistra del fiume Giordano è presentato Giovanni Battista, nella riva destra degli angeli (il loro numero sulle icone dell’Epifania varia da tre a quattro).

Giovanni Battista compie l’atto del battezzare, mettendo il palmo della mano destra sulla testa di Gesù Cristo; nella mano sinistra ha la croce, simbolo della missione salvifica di Cristo e simbolo del Nuovo Testamento, della Nuova Alleanza, conclusa tra Dio e gli uomini.
Le due sorgenti che scendono dalla montagna si uniscono in un solo fiume, il Giordano. Gli spazi acuti e fini sullo sfondo di tonalità rosso-bruna delle rive, creano l’illusione di un allontanamento delle montagne che si alzano verso il cielo; già qui si può vedere un raro e ben riuscito tentativo di trasmettere la profondità dello spazio.

Ai piedi di Gesù Cristo nell’acqua si possono distinguere due piccole figure. Quella maschile simbolizza il fiume Giordano, quella femminile il mare. Queste figure sono sorprendenti resti dell’antichità pagana, che sono penetrati e si sono consolidati nell’iconografia dell’immagine ortodossa dell'”Epifania”. È fissata anche la loro provenienza, sono chiamati per illustrare le parole del Salmo 114,3: “Il mare vide e si ritrasse, il Giordano si volse indietro“. Questo fatto, nelle prime e più antiche rappresentazioni del Battesimo, è stato raffigurato in un modo tradizionale e abituale per l’antichità: il mare e il fiume erano rappresentati con piccole figure antropomorfiche. La loro “ritirata” ed il “volgersi indietro” diventavano vaghi.

A volte, insieme a queste piccole figure è raffigurato anche il serpente, che corrisponde al versetto 13 del Salmo 74: “Hai schiacciato la testa dei draghi sulle acque“.

Gli angeli, rappresentati nelle immagini del Battesimo di Gesù Cristo, personificano i padrini, il cui compito è di accogliere i “battezzandi”, quando escono dall’acqua.

Nell’icona troviamo anche la simbolica immagine della colomba, che personifica lo Spirito Santo, e la nube dalla quale è uscita la voce di Dio-Padre.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.2007- . 

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Sussidio Avvento-Natale 2013: «È tempo di svegliarvi dal sonno», a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, 2013.  

Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

– Carlo Maria Martini – Pietro Messa, L’infinito in una culla. San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

PER L’APPROFONDIMENTO:

NATALE BATTESIMO DEL SIGNORE