PENTECOSTE

Prima lettura: Atti 2,1-11

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano  stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei?

E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi,  Elamìti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

Il celebre racconto lucano della Pentecoste ha una certa “drammaticità”, con la quale s’intende conferire il giusto rilievo all’importanza del fatto. In primo luogo, occorre notare che, ormai, la festa di Pentecoste stava volgendo al termine, essendo iniziata, com’era prassi nella liturgia ebraica, nel pomeriggio del giorno precedente. L’accaduto, dunque, si è verificato al mattino, come dirà poi Pietro, per giustificare il fatto che, quelli che sembravano ubriachi, non lo erano affatto perché non avevano bevuto, essendo le nove (cf. la diceria dell’ubriachezza degli apostoli al v. 13 e la risposta di Pietro al v. 15), quando mancavano ancora poche ore per la conclusione della festa. I discepoli, raccolti in un unico luogo, furono testimoni e destinatari di un evento teofanico, i cui elementi letterari sono facilmente riconoscibili: il rumore forte, che viene dall’alto, e il fuoco, in forma di lingue: «Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro» (vv. 2-3).

     L’effetto della discesa dello Spirito fu subito avvertibile dai pellegrini presenti alla festa, come testimonia il v. 4: «e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi». Il lungo elenco di nazionalità riportato dall’autore degli Atti fa capire l’ampiezza della partecipazione a feste come Pentecoste (in ebraico Shavuot), Pasqua (Pesach) e Capanne (Sukkot). Bisogna, però, ricordare che si trattava di Giudei, provenienti dalla diaspora o che, vissuti in diaspora, erano ritornati a vivere a Gerusalemme (v. 5: «Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo»). Sono essi i primi popoli destinatari dell’annuncio della novità di Cristo risorto. A costoro i discepoli propongono un annuncio nella loro propria lingua, come il testo stesso afferma più volte, sia nel già citato v. 5, nel v. 6 («A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua »), nell’8 («E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?») e nell’11 («li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio »).

     Il particolare ora messo in rilievo non è da trascurare: l’evento della discesa dello Spirito sui discepoli significa che questi ultimi vengono spinti a proseguire la missione di Gesù, rivolgendola a tutte le nazioni, poiché la comunità dei credenti dovrà imparare ad annunciare il Vangelo nelle lingue di ogni popolo che si trova sulla faccia della terra.

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 12,3b-7.12-13

Fratelli, nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune.

Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.

 

Lo Spirito, con la sua azione, invade ogni aspetto della vita del credente in Cristo e della Chiesa. Com’è possibile, infatti, professare la fede e avvicinarsi al sublime mistero della conoscenza di Cristo se manca lo Spirito? D’altronde, l’apostolo con chiarezza lo afferma: «nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (12,3b). Alla stessa stregua, com’è possibile immaginare la vita della Chiesa senza lo Spirito, il quale ne anima l’esistenza e la missione nel mondo con la molteplicità dei carismi e delle operazioni? La solennità di Pentecoste, dunque, impone una riflessione, oltre che sull’opera dello Spirito Santo nel mondo, anche sulla sua presenza discreta, efficace e sorprendente.

     Abituati come siamo a considerare quasi esclusivamente gli aspetti organizzativi, con programmazioni e piani pastorali di breve, medio e lungo periodo, probabilmente dimentichiamo che, da parte sua, lo Spirito Santo, nella propria sovrana libertà, ha già tracciato delle linee di progettualità, elargendo doni e suscitando ministeri per il bene del popolo di Dio. Tali doni e carismi, però, hanno come prima finalità quella di creare l’unità del popolo che Dio si è acquistato con il sangue di suo Figlio: «Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (12,12-13). Il progetto dello Spirito, dunque, è formare e consolidare il corpo di Cristo che è la Chiesa, alla quale apparteniamo in virtù del Battesimo. E quel Dio, presso il quale non ci sono preferenze, desidera che in quest’unico corpo vi sia radunata l’intera umanità, senza distinzioni di razza e nazionalità, lingua o cultura. In quell’unico corpo, inoltre, è consentito ai credenti di abbeverarsi allo Spirito attraverso la vita sacramentale, la quale ne irrobustisce e rinvigorisce le forze, cosicché essi possano affrontare le quotidiane insidie del maligno e far vincere la concordia, la misericordia e l’unità.

 

Vangelo: Giovanni 20,19-23

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.  Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

 

Esegesi 

     Nel capitolo 20, come sappiamo, il Vangelo di Giovanni racconta gli avvenimenti del giorno della Pasqua. Chi vide il Signore risorto per prima e parlò con lui fu Maria Maddalena presso il sepolcro (vv. 14-17), la quale, poi, andò a riferire agli altri discepoli quanto le era accaduto (v. 18). Soltanto a sera Gesù apparve ai discepoli riuniti, come concordemente afferma, oltre a Giovanni, anche Luca (cf. 24,36-43). Infatti, i due racconti presentano diversi punti in comune: a sera Gesù appare in mezzo ai discepoli; egli saluta dicendo: «Pace a voi!»; Gesù mostra le ferite sul suo corpo per facilitare il riconoscimento da parte dei discepoli. Giovanni, inoltre, in poche battute riferisce il mandato missionario e l’effusione dello Spirito, mentre Luca parla più ampiamente della missione (cf. 24,44-48) e fa soltanto annunciare a Gesù il prossimo invio dello Spirito (cf. 24,49).

     Dopo questo raffronto, che conferma una certa e ben nota vicinanza tra gli evangelisti Giovanni e Luca, ritorniamo all’esame del brano. Dobbiamo subito notare la situazione di “miseria” in cui versavano i discepoli. Costoro erano in un luogo (non specificato dal racconto evangelico), con le porte sbarrate per paura dei Giudei: ciò fa pensare che essi, oltre a motivi di prudenza (temevano di essere arrestati o di essere accusati di aver rubato il corpo di Gesù?), non si attendevano altro da quella giornata, in cui non era ancora certo se dovessero nutrire speranze o, al contrario, aspettare il momento opportuno per fuggire da Gerusalemme. Ci possiamo chiedere che effetto abbiano avuto le visite al sepolcro vuoto da parte di Pietro e del discepolo prediletto e la testimonianza di Maria Maddalena, tuttavia la sorpresa di vedersi apparire Gesù dovette essere grande.

     L’apparizione di Gesù è indicata dal verbo «venne», molto probabilmente per sottolineare che, nonostante le porte ben chiuse, egli era nella possibilità di entrare in quel luogo. Il saluto «Pace a voi!», inoltre, va considerato non quale semplice augurio, o addirittura come normale saluto, poiché esprime una realtà di fatto: davvero la pace è con loro, dal momento che, con la presenza di Gesù, ormai risorto, ciò che costituiva una semplice promessa diventa ora una concreta realtà. Il «Pace a voi!» viene ripetuto al v. 21, forse perché Gesù vuole ulteriormente rassicurare i discepoli, dopo aver mostrato loro le mani e il costato.

     Subito dopo, segue il comando missionario: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». In Giovanni si segnala molto esplicitamente che il motivo fondante della missione nasce dall’iniziativa del Padre, il quale ha mandato sulla terra il Figlio, che a sua volta invia i discepoli, proseguendo questa catena. A tal proposito, si deve confrontare questa frase con il testo di Gv 17,18: «Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io mando loro nel mondo».

     Infine, l’ultimo momento del racconto è rappresentato dalla cosiddetta insufflazione. In Gv 20,22-23 troviamo scritto che Gesù, «Detto questo, soffiò (in greco enefásesen) e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». L’unico motivo per cui ci siamo permessi di segnalare l’espressione «soffiò» in greco è dovuto al fatto che anche nella versione greca dell’Antico Testamento (che gli scrittori del NT generalmente usano), in Gn 2,7, leggiamo lo stesso verbo: «allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò (enefásesen) nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente». L’evangelista intenzionalmente adopera il medesimo verbo, perché stabilisce una relazione tra lo spirito, che diede la vita all’uomo creato da Dio traendolo  dalla polvere, e lo Spirito Santo, che conferisce ai discepoli la potestà di “restituire la vita” con l’eccezionale dono della remissione dei peccati a vantaggio della comunità dei credenti.

     Il passaggio dalla morte alla vita rappresenta una vera specialità dello Spirito. Un altro testo di riferimento si trova in Ez 37,9, nella versione greca, dove, usando lo stesso verbo dei brani precedenti (benché in una forma grammaticale diversa), pure è scritto che lo Spirito soffia, affinché venga restituita la vita ai morti: «Egli aggiunse: “Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia (emfáseson) su questi morti, perché rivivano”». E che lo Spirito dia la vita e la risurrezione ben lo esprime Paolo, che rapporta la risurrezione di Cristo alla nostra: «E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11). 

Meditazione

      Il dono dello Spirito celebrato a Pentecoste è intravisto dai testi biblici odierni come linguaggio della comunità cristiana che riesce a comunicare ad extra le opere di Dio (I lettura), come principio ordinatore che regola i doni e i ministeri all’interno della comunità secondo il principio dell’«utilità comune» (1Cor 12,7; II lettura), come forza escatologica che stabilisce la pace nella comunità e consente ai discepoli di rimettere i peccati (vangelo).

    Lo Spirito crea relazione e innesta in Cristo le relazioni intraecclesiali, interecclesiali e missionarie. Esso guida ciascuno e tutti nella comunità ad assumere i modi e i pensieri di Cristo in vista dell’edificazione dell’unico corpo: la chiesa.

    Il vangelo stabilisce un nesso tra Spirito santo e remissione dei peccati. Il Risorto mostra ai discepoli le ferite delle mani e del costato e dona la pace e lo Spirito santo. Perdonare è donare attraverso le ferite ricevute, è fare del male subito l’occasione di un gesto di amore, è creare pace con una sovrabbondanza di amore che vince l’odio e la violenza sofferti. Il Risorto ha vinto in se stesso, nella sua persona, con l’amore, il male patito e, manifestando ai discepoli la continuità del suo amore nei loro confronti, comunica loro anche la via per partecipare alla sua vita di Risorto: vincere il male con il bene, rispondere alla cattiveria con la dolcezza, far prevalere la grazia sulla vendetta e sulla rivalsa. Prima di essere capacità di perdono nei confronti di altri, lo Spirito insegna al credente a riconoscere il male che abita in lui e a vincerlo con il bene e l’amore. Del resto, come potrebbe stabilire la pace fuori di sé chi non ha stabilito la pace in se stesso? Come potrebbe amare il nemico esterno chi non ha cominciato a far prevalere l’amore sui nemici interiori e sull’odio di sé?

    Frutto dello Spirito, il perdono è evento escatologico prima che etico. Tuttavia, il dinamismo umano del perdono è lungo e faticoso. Per perdonare occorre rinunciare alla volontà di vendicarsi; riconoscere che si soffre per il male subito e che tale male ci ha privati realmente di qualcosa; condividere con qualcuno il racconto del male subito; dare il nome a ciò che si è perso per poterne fare il lutto; dare alla collera il diritto di esprimersi; perdonare a se stessi (soprattutto il male subito da persone amate o vicine suscita pesanti sensi di colpa che rischiano di imprigionare per tutta la vita); comprendere l’offensore, cioè guardarlo come un fratello che il male ha allontanato da me; trovare un senso al male ricevuto; sapersi perdonati da Dio in Cristo. Questo cammino il credente lo vive aprendosi alle energie dello Spirito che fanno regnare Cristo in lui e nei suoi rapporti.

     Lo Spirito è dono e promessa: le due cose a un tempo. Come dono esso è verificabile nella vita del credente e della chiesa nei frutti di carità, pace, benevolenza, pazienza, mitezza; come promessa esso apre il futuro, suscita la speranza, da una direzione di cammino. Nel nostro testo, lo Spirito è dono e impegno: dono del Risorto che impegna nella missione i discepoli. Missione che, avendo al suo cuore la remissione dei peccati, è essenzialmente far sperare, dare una forma vivibile al tempo degli uomini, dischiudere orizzonti di senso narrando il perdono di Dio.

    Lo Spirito, in quanto dono di Dio, dona al credente e alla chiesa la forma Christi. Come il Risorto dona lo Spirito attraverso il suo corpo, corpo ferito e risorto, così lo Spirito, accolto dai discepoli, vivifica il loro corpo psicofisico (paralizzato dalla paura) e il corpo ecclesiale che essi formano (immobilizzato nella chiusura). Il Figlio, inviato dal Padre, ha donato agli uomini il volto e l’umanità di Dio, e ora dona loro il respiro, il soffio di Dio grazie a cui essi potranno donare al mondo, con i loro corpi, le loro vite e le relazioni che vivranno, la narrazione del volto di Cristo. Narrazione che nel donare il perdono trova il suo momento più alto. Non a giudicare o a condannare è chiamata la chiesa ma a narrare la grande opera del Dio che ha risuscitato Gesù dai morti: la remissione dei peccati, il perdono.

 

Preghiere e racconti 

Come si può parlare dello Spirito Santo?

Se non era facile parlare ai contemporanei di Dio, ancora più difficile è stato parlare loro del Figlio di Dio. Ma come si deve parlare dello Spirito santo di Dio, che non si può concepire né rappresentare e, certamente, neppure dipingere?

Nella storia dell’arte occidentale c’è un pittore, al quale più che ad altri si attribuisce un anelito di spiritualizzazione. Molti dei suoi dipinti sono pervasi di un’inquietudine estatica. Lo spazio da lui dipinto è spesso più accennato simbolicamente che reale; domina la verticale, il movimento ascensionale; le sue figure sembrano stirate artificialmente, allungate in maniera innaturale; il gioco delle ombre e delle luci è altamente drammatico; i contorni sfumano. La bellezza è qui in larga misura smaterializzata – anche a prescindere dagli occhi espressivi di molte figure.

Questo pittore proviene dall’arte greco-bizantina, tuttavia a Venezia e a Roma, presso i grandi maestri Tiziano, Bassano e Tintoretto, si era appropriato delle acquisizioni del rinascimento e del manierismo. E tutto questo coniugava con la religiosità popolare mistica della Spagna, lui che non era spagnolo e che tuttavia era più spagnolo degli spagnoli: Domenikos Theotokópoulos di Creta detto El Greco (1541-1614), non soltanto pittore, ma anche scultore, architetto e teorico dell’arte.

Nel suo ultimo periodo creativo questo artista molto raffinato, prossimo ai settant’anni e sempre più assistito dal figlio nei suoi lavori, aveva provato a rappresentare un oggetto che, rispetto al Natale, al Venerdì santo o alla Pasqua, è infinitamente meno presente nella pittura occidentale: la Pentecoste, la festa dell’effusione dello Spirito santo. In questo dipinto che tende verso l’alto – ora al Prado di Madrid -, in uno scenario surreale su sfondo grigioverde, si vede un gruppo di persone, dominato dallo Spirito e composto da due donne e da una dozzina di uomini. Essi sono in preda a un’appassionata eccitazione, evidente dai volti e dai gesti: alcuni protendono le mani verso l’alto, altri allungano il collo e altri ancora guardano in estatico rapimento. In alto ci sono dieci figure, quasi come in un dipinto greco-bizantino, tutte alla stessa altezza, dietro le quali, in posizione obliqua, altre figure Si piegano in atteggiamento di sorpresa. Le loro vesti, dai colori molto intensi – verde, azzurro, giallo, rosso e colori terrei -, ricevono luce dall’alto. Sopra ciascuna delle figure fluttua una piccola abbagliante lingua di fuoco, che rende le figure rappresentate ancor più profilate, mosse ed estatiche. Un dipinto altamente drammatico di un’audacia quasi espressionistica, e tuttavia concentrato, smaterializzato, spiritualizzato.

E lo Spirito stesso, lo Spirito santo? Eccolo lassù in alto, in uno splendore divino, che illumina l’oscurità dello spazio. Rappresentato mediante quel simbolo che a partire dal battesimo di Gesù viene usato molto presto anche per le raffigurazioni della Pentecoste: il simbolo della colomba. Fin nell’alto medioevo esso rimane quello prevalente e viene ripreso a partire dal secolo XVI/XVII, appunto nel tempo di El Greco.

«Ma nella teologia non si parla continuamente – con riferimento ad alcune affermazioni del vangelo di Giovanni – dello Spirito santo come di una persona (il “Consolatore”)? E non compare perciò, per lo meno nell’arte medievale, in figura spesso direttamente umana?»

In effetti, nell’arte medievale lo Spirito viene spesso rappresentato, insieme a Dio e al suo Figlio, come la terza di tre figure umane uguali – tre angeli o dèi. O proprio all’opposto: a partire dal secolo XIII fino al rinascimento italiano la trinità di Padre, Figlio e Spirito veniva spesso dipinta perfino come un’unica figura con tre teste o tre volti (Tri-kephalos) – una divinità sotto tre modalità, dunque. Ma entrambi – triteismo o modalismo – non sono oggi ugualmente inaccettabili per l’uomo contemporaneo?

Ma si ascolti e ci si stupisca: le due rappresentazioni sono state vietate dai papi: già Urbano VIII vietava nel 1628 queste immagini troppo umane della Trinità, e a partire dall’illuminato Benedetto XIV (1745) lo Spirito santo può essere rappresentato soltanto nella figura della colomba, decisione ribadita ancora nel nostro secolo, nel 1928, dal Sanctum Officium, dall’autorità dell’Inquisizione romana, ora denominata Congregazione della fede. Ciò induce ad affrontare l’interrogativo fondamentale.

Che cosa significa Spinto santo?

Come si sono immaginati gli uomini dell’antico tempo biblico lo «Spirito» e l’agire invisibile di Dio? Percepibile e tuttavia non percepibile, invisibile e tuttavia potente, di vitale importanza come l’aria che si respira, carico di energia come il vento, la tempesta, questo è lo Spirito. Tutte le lingue conoscono una parola per indicare ciò, e la diversità del genere in cui lo collocano dimostra che lo spirito non è così facilmente determinabile: spiritus in latino è maschile (come anche «lo» spirito in italiano), ruah invece in ebraico è femminile, mentre il greco conosce il neutro pneuma.

Lo spirito, quindi, è in ogni caso una realtà totalmente diversa da una persona umana. La «ruah»: secondo l’inizio del racconto della creazione è quello «scroscio» o «tempesta» di Dio che aleggia sopra le acque. E il «pneuma»: sta, anche secondo il Nuovo Testamento, in opposizione alla carne», alla realtà creata, transeunte, ed è la potenza e la forza viva che promana da Dio. Lo Spirito è quindi quella forza e potenza di Dio che opera creando o anche distruggendo, come vita o come giudizio, che opera sia nella creazione sia nella storia, in Israele come anche, in seguito, nelle comunità cristiane. Secondo la Bibbia, questa potenza può raggiungere l’uomo con forza o con levità, può indurre in estasi singole persone o anche interi gruppi, come appunto quello raffigurato nel quadro di El Greco. Lo Spirito opera nei grandi uomini e nelle grandi donne, in Mosè e nei «giudici» d’Israele, nei guerrieri, nei cantori e nei re, nei profeti e nelle profetesse, ma anche – come nel nostro quadro – negli apostoli e nelle discepole. Il centro nel quadro è chiaramente rappresentato da Maria madre di Gesù in veste rossa, verso la quale si piega la giovane Maria di Magdala.

Ma in che senso questo Spirito è lo Spirito santo? Lo Spirito è «santo» in quanto viene distinto dallo spirito non santo dell’uomo e del suo mondo e deve essere visto come lo Spirito dell’unico Dio santo. Lo Spirito santo è lo Spirito di Dio. Neppure nel Nuovo Testamento lo Spirito santo è – come spesso nella storia delle religioni – un qualche fluido magico, sostanziato, misteriosamente soprannaturale, di natura dinamica («qualcosa» di spirituale) o un essere magico di tipo animistico (un fantasma o uno spettro). Anche nel Nuovo Testamento lo Spirito santo non è che Dio stesso.  Dio stesso, in quanto egli è vicino agli uomini e al mondo, anzi egli diventa loro intimo in quanto potenza che afferra, ma non è afferrabile, in quanto forza che vivifica, ma anche giudica, in quanto grazia che dona, ma non è a disposizione dell’uomo.

C’è però una domanda: proprio il simbolo della colomba (in origine uccello messaggero delle dee dell’amore nell’antico Oriente), che ha a sua volta soppiantato la rappresentazione antropomorfica dello Spirito santo, non evoca associazioni antropomorfiche?  Risposta: in ogni caso questo simbolo dell’elemento materno-femminile, del dono della vita, dell’amore e della pace – entrato nel racconto del battesimo di Gesù forse passando attraverso l’antica tradizione ebraica della sapienza (Filone) -, sottolinea la dimensione femminile in Dio, che è tanto importante quanto quella maschile, perché in Dio stesso, ribadiamolo ancora una volta, la differenziazione sessuale è inclusa e insieme viene superata. Va però ammesso che la maggior parte dei fraintendimenti sullo Spirito santo provengono dal fatto che lo si è staccato da Dio e reso autonomo alla stregua di una figura mitologica. Comunque proprio il concilio di Costantinopoli del 381, al quale dobbiamo l’estensione allo Spirito santo della professione di fede, originariamente cristologica, del concilio di Nicea del 325, afferma esplicitamente: lo Spirito è della medesima natura del Padre e del Figlio.

In nessun caso, dunque, si può concepire lo Spirito santo come un terzo, come una realtà tra Dio e l’uomo. No, con la parola Spirito è intesa la vicinanza personale di Dio stesso agli uomini, altrettanto poco separabile da Dio quanto il raggio dal sole. Se dunque ci si chiede come il Dio invisibile e inafferrabile sia vicino, presente ai credenti, alla comunità di fede, la risposta del Nuovo Testamento suona concorde: Dio è vicino a noi uomini nello Spirito; è presente nello Spirito, mediante lo Spirito, anzi, come Spirito. E se ci si chiede come Gesù Cristo, elevato e accolto presso Dio, sia vicino ai credenti e alla comunità di fede, la risposta, secondo Paolo, suona: Gesù è diventato uno «Spirito vivificatore» (1 Cr 15, 45). Anzi, «il Signore (Il Kyrios, quindi Gesù, il glorificato) è lo Spirito» (2Cor 3,17). Ciò significa che lo Spirito di Dio ora è anche lo Spirito del Glorificato presso Dio, così che ora il Signore elevato presso Dio è nel modo di esistere e agire dello Spirito. Ora perciò egli può essere mediante lo Spirito, nello Spirito, in quanto Spirito. L’incontro di Dio, del Kyrios e dello Spirito con i credenti è in realtà un unico e medesimo incontro. Ma si noti bene: Dio e il suo Cristo non sono presenti soltanto attraverso il ricordo soggettivo dell’uomo o attraverso la fede. Essi sono presenti piuttosto in virtù della realtà spirituale, dell’attività di Dio e di Gesù Cristo stesso, che vengono incontro all’uomo.

Credere nello Spirito Santo

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Dio, significa per me ammettere fiduciosamente che Dio stesso può farsi presente nel mio intimo, che egli come potenza e forza di grazia può diventare il signore del mio intimo ambivalente, del mio cuore spesso così insondabile. E, ciò che qui è per me particolarmente importante: lo Spirito di Dio non è uno spirito di schiavitù. Egli è comunque lo Spirito di Gesù Cristo, che è lo Spirito di libertà. Questo Spirito di libertà promanava già dalle parole e dalle azioni del Nazareno. Il suo Spirito è ora definitivamente lo Spirito di Dio, da quando il Crocifisso è stato glorificato da Dio e vive e regna nel modo di essere di Dio, nello Spirito di Dio. Perciò a piena ragione Paolo può dire: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Cor 3,17). E con ciò non s’intende soltanto una libertà dalla colpa, dalla legge e dalla morte, ma anche una libertà per l’agire, per una vita nella gratitudine, nella speranza e nella gioia (…).

Questo Spirito di libertà, in quanto Spirito del futuro, mi spinge in avanti: non nell’aldilà della consolazione, ma nel presente della prova.

E poiché so che lo Spirito santo è lo Spirito di Gesù Cristo, io ho anche un criterio concreto per saggiare e discernere gli spiriti. Dello Spirito di Dio non si può più abusare come di una forza divina oscura, senza nome e facilmente equivocabile. No, lo Spirito di Dio è con tutta chiarezza lo Spirito di Gesù Cristo. E ciò significa in modo del tutto concreto che né una gerarchia né una teologia e neppure un fanatismo che vogliano richiamarsi allo «Spirito santo» oltre Gesù, possono requisire lo Spirito di Gesù Cristo. Qui hanno i loro limiti ogni ministero, ogni obbedienza, ogni partecipazione alla vita della teologia, della chiesa e della società.

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Gesù Cristo significa per me, anche di fronte ai molti movimenti carismatici e pneumatici: che lo Spirito non è mai una mia propria possibilità, ma è sempre forza, potenza, dono di Dio, da ricevere con fiducia incondizionata. Egli quindi non è un non santo spirito del tempo, della chiesa, del ministero o dell’entusiasmo; egli è sempre il santo Spirito di Dio, che soffia dove e quando vuole, e non si lascia catturare da nessuno: come giustificazione di un potere assoluto di insegnamento e di governo, di infondate leggi dogmatiche della fede o anche di un fanatismo religioso e di una falsa sicurezza della fede. No, nessuno – né vescovo né professore, né parroco né laico – «possiede» lo Spirito, ma ognuno può invocare di continuo: «Vieni, santo Spirito».

Ma, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io posso, con buone ragioni, credere non certo nella chiesa, ma nello Spirito di Dio e di Gesù Cristo anche in questa chiesa, che è composta da uomini fallibili come lo sono anch’io. E, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io sono preservato dalla tentazione di staccarmi, rassegnato o cinico, dalla chiesa. Poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito io, nonostante tutto, posso dire in buona coscienza: credo la santa chiesa. Credo sanctam ecclesiam.

(H. KUNG, Credo). 

La Chiesa ha bisogno…

La Chiesa ha bisogno della sua perenne pentecoste. Ha bisogno di fuoco nel cuore, di parole sulle labbra, di profezia nello sguardo. La Chiesa ha bisogno d’essere tempio dello Spirito Santo, di totale purezza, di vita interiore. La Chiesa ha bisogno di risentire salire dal profondo della sua intimità personale, quasi un pianto, una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante cioè dello Spirito Santo, che a noi si sostituisce e prega in noi e  per noi «con gemiti ineffabili», e che interpreta il discorso che noi da soli non sapremmo rivolgere a Dio. La Chiesa ha bisogno di riacquistare la sete, il gusto, la certezza della sua verità e di ascoltare con inviolabile silenzio e con docile disponibilità la voce, il colloquio parlante nell’assorbimento contemplativo dello Spirito, il quale insegna «ogni verità».

E poi ha bisogno la Chiesa di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà, l’onda dell’amore che si chiama carità e che è diffusa nei nostri cuori proprio «dallo Spirito Santo che ci è stato dato». Tutta penetrata di fede, la Chiesa ha bisogno di sperimentare l’urgenza, l’ardore, lo zelo di questa carità; ha bisogno di testimonianza, di apostolato. Avete ascoltato, voi uomini vivi, voi giovani, voi anime consacrate, voi fratelli nel sacerdozio? Di questo ha bisogno la Chiesa. Ha bisogno dello Spirito Santo in noi, in ciascuno di noi, e in noi tutti insieme, in noi Chiesa. Sì, è dello Spirito Santo che, soprattutto oggi, ha bisogno la Chiesa. Dite dunque e sempre tutti a lui: «Vieni!»

(PAOLO VI, Discorso del 29 novembre 1972). 

Omelia di Papa Francesco pronunciata per la Santa Messa di sabato 24 maggio 2014 presso l’International Stadium di Amman: 

Nel Vangelo abbiamo ascoltato la promessa di Gesù ai discepoli: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,16). Il primo Paraclito è Gesù stesso; l’«altro» è lo Spirito Santo. Qui ci troviamo non lontano dal luogo in cui lo Spirito Santo discese con potenza su Gesù di Nazareth, dopo che Giovanni lo ebbe battezzato nel fiume Giordano (cfr Mt 3,16), e oggi mi recherò li. Dunque il Vangelo di questa domenica, e anche questo luogo nel quale grazie a Dio mi trovo pellegrino, ci invitano a meditare sullo Spirito Santo, su ciò che Egli compie in Cristo e in noi, e che possiamo riassumere in questo modo: lo Spirito compie tre azioni: prepara, unge e invia.

Nel momento del battesimo, lo Spirito si posa su Gesù per prepararlo alla sua missione di salvezza; missione caratterizzata dallo stile del Servo umile e mite, pronto alla condivisione e alla donazione totale di sé. Ma lo Spirito Santo, presente fin dall’inizio della storia della salvezza, aveva già operato in Gesù nel momento del suo concepimento nel grembo verginale di Maria di Nazareth, realizzando l’evento mirabile dell’Incarnazione: “lo Spirito Santo ti colmerà, ti adombrerà – dice l’Angelo a Maria – e tu partorirai un Figlio al quale porrai nome Gesù” (cfr Lc 1,35).

In seguito, lo Spirito Santo aveva agito in Simeone e Anna nel giorno della presentazione di Gesù al Tempio (cfr Lc 2,22). Entrambi in attesa del Messia; entrambi ispirati dallo Spirito Santo, Simeone ed Anna alla vista del Bambino intuiscono che è proprio l’Atteso da tutto il popolo. Nell’atteggiamento profetico dei due vegliardi si esprime la gioia dell’incontro con il Redentore e si attua in certo senso una preparazione dell’incontro tra il Messia e il popolo.

I diversi interventi dello Spirito Santo fanno parte di un’azione armonica, di un unico progetto divino d’amore. La missione dello Spirito Santo, infatti, è di generare armonia – Egli stesso è armonia – e di operare la pace nei differenti contesti e tra i soggetti diversi. La diversità di persone e di pensiero non deve provocare rifiuto e ostacoli, perché la varietà è sempre arricchimento. Pertanto, oggi, invochiamo con cuore ardente lo Spirito Santo, chiedendogli di preparare la strada della pace e dell’unità.

In secondo luogo, lo Spirito Santo unge. Ha unto interiormente Gesù, e unge i discepoli, perché abbiano gli stessi sentimenti di Gesù e possano così assumere nella loro vita atteggiamenti che favoriscono la pace e la comunione. Con l’unzione dello Spirito, la nostra umanità viene segnata dalla santità di Gesù Cristo e ci rende capaci di amare i fratelli con lo stesso amore con cui Dio ci ama. Pertanto, è necessario porre gesti di umiltà, di fratellanza, di perdono, di riconciliazione. Questi gesti sono premessa e condizione per una pace vera, solida e duratura.

Chiediamo al Padre di ungerci affinché diventiamo pienamente suoi figli, sempre più conformi a Cristo, per sentirci tutti fratelli e così allontanare da noi rancori e divisioni e poter amarci fraternamente. È quanto ci ha chiesto Gesù nel Vangelo: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito, perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,15-16).

E infine lo Spirito Santo invia. Gesù è l’Inviato, pieno dello Spirito del Padre. Unti dallo stesso Spirito, anche noi siamo inviati come messaggeri e testimoni di pace. Quanto bisogno ha il mondo di noi come messaggeri di pace, come testimoni di pace! E’ una necessità che ha il mondo. Anche il mondo ci chiede di fare questo: portare la pace, testimoniare la pace!

La pace non si può comperare, non si vende. La pace è un dono da ricercare pazientemente e costruire “artigianalmente” mediante piccoli e grandi gesti che coinvolgono la nostra vita quotidiana. Il cammino della pace si consolida se riconosciamo che tutti abbiamo lo stesso sangue e facciamo parte del genere umano; se non dimentichiamo di avere un unico Padre nel cielo e di essere tutti suoi figli, fatti a sua immagine e somiglianza.

In questo spirito abbraccio tutti voi: il Patriarca, i fratelli Vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate, i fedeli laici, i tanti bambini che oggi ricevono la Prima Comunione e i loro familiari. Il mio cuore si rivolge anche ai numerosi rifugiati cristiani; anche tutti noi, con il nostro cuore, rivolgiamoci a loro, ai numerosi rifugiati cristiani provenienti dalla Palestina, dalla Siria e dall’Iraq: portate alle vostre famiglie e comunità il mio saluto e la mia vicinanza.

Cari amici, cari fratelli, lo Spirito Santo è disceso su Gesù presso il Giordano e ha dato avvio alla sua opera di redenzione per liberare il mondo dal peccato e dalla morte. A Lui chiediamo di preparare i nostri cuori all’incontro con i fratelli al di là delle differenze di idee, lingua, cultura, religione; di ungere tutto il nostro essere con l’olio della sua misericordia che guarisce le ferite degli errori, delle incomprensioni, delle controversie; la grazia di inviarci con umiltà e mitezza nei sentieri impegnativi ma fecondi della ricerca della pace. Amen!

Si compie ciò che era prefigurato in quei giorni

Fratelli, è iniziato un giorno di grazia, in cui la santa chiesa risplende agli occhi dei fedeli e riscalda i loro cuori. Celebriamo questo giorno in cui il Signore Gesù Cristo, dopo la sua risurrezione, glorificato dalla sua ascensione, inviò lo Spirito santo. Sta scritto nell’evangelo: «Se uno ha sete, venga a me e beva; chi crede in me, dal suo seno fluirà acqua viva» e l’evangelista prosegue: «Diceva questo dello Spirito santo che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in lui. Infatti non era stato ancora dato loro lo Spirito perché Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7,37-39). Gesù, risorto dai morti e asceso al cielo, doveva ancora inviare lo Spirito santo che aveva promesso. Così avvenne. Il Signore, dopo essere risorto dai morti, passò quaranta giorni con i suoi discepoli, poi ascese al cielo e il cinquantesimo giorno, che oggi celebriamo, inviò lo Spirito santo come sta scritto: «Venne all’improvviso un rombo dal cielo, come di vento che si abbatte gagliardo e apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,1-4). Quel vento purificava i cuori dalla paglia carnale, quel fuoco consumava il fieno degli antichi desideri cattivi, quelle lingue con cui parlavano quelli che erano colmi di Spirito santo prefiguravano la chiesa che sarebbe stata presente nelle lingue di tutte le genti. Come infatti dopo il diluvio gli uomini superbi e malvagi edificarono contro il Signore una torre altissima per cui il genere umano meritò di essere diviso in lingue diverse così che ogni popolo parlava la propria lingua senza essere compreso dagli altri (cfr. Gen 11,1-9), così l’umile fervore dei fedeli riportò all’unità della chiesa la diversità di quelle lingue perché ciò che la discordia aveva diviso fosse radunato dalla carità e le membra disperse del genere umano, quali membra di un solo corpo, venissero riunite, ben compaginate, a Cristo, loro unico capo, e si fondessero nell’unità del santo corpo mediante il fuoco dell’amore. […] Voi, fratelli miei, membra del corpo di Cristo, germogli di unità, figli della pace, trascorrete questa festa nella gioia, celebratela senza timore. In voi si compie infatti ciò che era prefigurato in quei giorni, quando venne lo Spirito santo poiché come allora chi riceveva lo Spirito santo, pure essendo una sola persona, parlava in tutte le lingue, così anche ora la chiesa, una tra tutti i popoli, parla tutte le lingue e voi, costituiti in tale unità, possedete lo Spirito santo.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 271,1 Opere di sant’Agostino XXXII/2, pp. 1038-1040).

Cinquanta giorni dopo la Pasqua, celebriamo la solennità della Pentecoste, in cui ricordiamo la manifestazione della potenza dello Spirito Santo, il quale  come vento e come fuoco  scese sugli Apostoli radunati nel Cenacolo e li rese capaci di predicare con coraggio il Vangelo a tutte le genti (cfr At 2,1-13). Il mistero della Pentecoste, che giustamente noi identifichiamo con quell’evento, vero “battesimo” della Chiesa, non si esaurisce però in esso.

La Chiesa infatti vive costantemente della effusione dello Spirito Santo, senza il quale essa esaurirebbe le proprie forze, come una barca a vela a cui venisse a mancare il vento. La Pentecoste si rinnova in modo particolare in alcuni momenti forti, a livello sia locale sia universale, sia in piccole assemblee che in grandi convocazioni. I Concili, ad esempio, hanno avuto sessioni gratificate da speciali effusioni dello Spirito Santo, e tra questi vi è certamente il Concilio Ecumenico Vaticano II.

Possiamo ricordare anche il celebre incontro dei movimenti ecclesiali con il Venerabile Giovanni Paolo II, qui in Piazza San Pietro, proprio nella Pentecoste del 1998. Ma la Chiesa conosce innumerevoli “pentecoste” che vivificano le comunità locali: pensiamo alle Liturgie, in particolare a quelle vissute in momenti speciali per la vita della comunità, nelle quali la forza di Dio si è percepita in modo evidente infondendo negli animi gioia ed entusiasmo. Pensiamo a tanti convegni di preghiera, in cui i giovani sentono chiaramente la chiamata di Dio a radicare la loro vita nel suo amore, anche consacrandosi interamente a Lui.

Non c’è dunque Chiesa senza Pentecoste. E vorrei aggiungere: non c’è Pentecoste senza la Vergine Maria. Così è stato all’inizio, nel Cenacolo, dove i discepoli “erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la Madre di Gesù, e ai fratelli di lui”  come ci riferisce il libro degli Atti degli Apostoli (1,14).

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita del Regina caeli, 23.05.2010).

Vieni, o Spirito del cielo

Vieni, o Spirito del cielo,

manda un raggio di tua luce,

manda il fuoco creatore.

Misterioso cuor del mondo,

o bellezza salvatrice,

vieni dono della vita.

Tu sei il vento sugli abissi,

tu il respiro al primo Adamo,

ornamento a tutto il cielo.

Vieni, luce della luce,

delle cose tu rivela

la segreta loro essenza.

Concezione germinale

della terra e di ogni uomo,

gloria intatta della Vergine…

O tu Dio in Dio amore,

tu la luce del mistero,

tu la vita di ogni vita.

(David Maria Turoldo)  

 

«O luce beatissima, invadi nell’intimo il cuore dei tuoi fedeli».
È con questa invocazione sulle labbra e nel cuore che la Chiesa celebra il mistero della Pentecoste cinquanta giorni dopo la Pasqua. Una volta compiuta l’opera che il Padre aveva affidato a Cristo, prima che il giorno di Pentecoste giungesse alla fine, fu inviato alla Chiesa lo Spirito Santo, dono del Risorto, per santificarla e perché i credenti avessero accesso alla vita divina. È lo Spirito del Padre e del Figlio che dà la vita, quale sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna (cf. Gv 4,14), Dono per eccellenza che il Padre fa agli uomini per richiamarli dalla morte alla vita (cf. Gv 7,38) e così custodirli fino al giorno della risurrezione finale in comunione con Cristo. Essi sono perciò resi partecipi, anche con i loro corpi mortali (cf. Rm 8,10), della medesima gloria del corpo risorto di Cristo.
Con l’effusione dello Spirito preannunciata dai profeti e realizzata dal Risorto, viene dunque inaugurato il tempo della Chiesa in cui il Paraclito conduce alla “verità tutta intera”, interiorizza il mistero di Cisto, lo rende presente per i credenti di ogni luogo e di ogni tempo, guida e sostiene la Chiesa nella sua missione di annuncio e di testimonianza del vangelo. Se è vero che «lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato», tuttavia «fu nel giorno della Pentecoste che egli discese sui discepoli, per rimanere con loro in eterno, e la Chiesa apparve pubblicamente di fronte alla moltitudine, ed ebbe inizio mediante la predicazione e la diffusione del Vangelo in mezzo ai pagani» (Ad Gentes 4).

Tra i suggestivi mosaici che ricoprono quasi per intero la superfice della Cattedrale di Monreale, la scena della Pentecoste è posta nel complesso dell’illustrazione musiva delle apparizioni del Risorto ai suoi discepoli. Questi sono come disposti in semicerchio attorno a una mensa ideale. Da una semisfera posta in alto, simbolo del divino, si dipartono dodici raggi luminosi con delle fiammelle che raggiungono gli apostoli i quali danno vita a un unico e indivisibile disegno, poiché una sola è la rete che li unisce tra di essi e che li congiunge a Dio. Colpisce l’essenzialità della scena nella quale si nota immediatamente non solo l’assenza di ogni architettura e di ogni riferimento a un possibile luogo fisico ben preciso, ma soprattutto l’assenza della Madre del Signore. In realtà Maria è il simbolo più forte e l’immagine più pura della Chiesa ricolma di Spirito Santo.
Questa verità risalta maggiormente se si prende in considerazione il fatto che «nell’economia della grazia, attuata sotto l’azione dello Spirito Santo, c’è una singolare corrispondenza tra il momento dell’incarnazione del Verbo e quello della nascita della Chiesa. La persona che unisce questi due momenti è Maria: Maria a Nazareth e Maria nel cenacolo di Gerusalemme. In entrambi i casi la sua presenza discreta, ma essenziale, indica la via della “nascita dallo Spirito”. Così colei che è presente nel mistero di Cristo come madre, diventa – per volontà del Figlio e per opera dello Spirito Santo – presente nel mistero della Chiesa.

Anche nella Chiesa continua ad essere una presenza materna». Lo scrive Giovanni Paolo II al n. 24 della Redemptoris Mater. Gli fa eco Benedetto XVI il quale nella Spe salvi si rivolge a Maria con una preghiera con la quale il popolo di Dio in cammino verso la Gerusalemme celeste, rigenerato dall’acqua e dallo Spirito, può concludere il tempo pasquale: «Presso la croce, in base alla parola stessa di Gesù, tu eri diventata madre dei credenti. In questa fede, che anche nel buio del Sabato Santo era certezza della speranza, sei andata incontro al mattino di Pasqua.
La gioia della risurrezione ha toccato il tuo cuore e ti ha unito in modo nuovo ai discepoli, destinati a diventare famiglia di Gesù mediante la fede. Così tu fosti in mezzo alla comunità dei credenti, che nei giorni dopo l’Ascensione pregavano unanimemente per il dono dello Spirito Santo (cf. At 1,14) e lo ricevettero nel giorno di Pentecoste» (n. 50).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014. 

PER APPROFONDIRE:

PASQUA PENTECOSTE (A)

ASCENSIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: Atti 1,1-11

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

 

La pericope è l’inizio del libro degli Atti degli Apostoli. Nel vangelo Luca ha narrato gli avvenimenti e gli insegnamenti di Gesù nel tempo della sua vita mortale; negli Atti degli Apostoli l’autore mostra ancora la vita di Gesù, ma di Gesù risorto, vita che si attua nella comunità, nella Chiesa. Il brano è composto dal prologo, dalla notizia di quaranta giorni,

dalla promessa dello Spirito e dalla ascensione del Signore.

     Prologo: «Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo» (At 1,1-2).

     Questo prologo sintetizza il contenuto del vangelo, mostrando come il secondo libro del medesimo autore, Luca, non è altro che la seconda parte di un’opera unica il cui contenuto è Gesù Cristo. Oltre alla menzione di tutto quello che Gesù fece e insegnò che compendia l’attività del Signore, viene ricordata la scelta degli apostoli operata dal Signore in Spirito Santo. La frase finale: fu assunto in cielo compendia il racconto finale del vangelo (Lc 26,51). L’ascensione al cielo pone fine al grande itinerario di Gesù.

     I quaranta giorni: «Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio» (At 1,3).

     La cifra quaranta nel simbolismo numerico biblico rappresenta il periodo di iniziazione nell’insegnamento del Signore risorto e insieme il tempo delle apparizioni che serve a fondare la predicazione e testimonianza apostolica.

     La promessa dello Spirito Santo: «Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (At 1,4-8).

     La promessa dello Spirito Santo è data in questo testo due volte; nella prima lo Spirito Santo è connesso con il battesimo distinguendo il sacramento cristiano dal rito di Giovanni; nella seconda lo Spirito Santo è connesso con la forza che sarà infusa ai discepoli per la testimonianza da rendere a Gesù. La promessa dello Spirito si realizzerà presto nella festa di Pentecoste; da allora in poi lo Spirito sarà il grande protagonista della Chiesa descritta nel libro degli Atti degli Apostoli. Lo Spirito è la presenza del Signore risorto nella sua comunità credente.

     L’ascensione di Gesù al cielo: «Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,9-11).

     Il modo di descrizione del mistero dell’ascesa di Gesù al cielo è, come quello della sua risurrezione, sobrio ed essenziale. È presente l’elemento caratteristico delle teofanie, la nuvola che in questo episodio sottrae Gesù alla vista dei suoi. Il corpo glorioso di Gesù non appartiene più a questa terra ove regnano ancora la morte e la corruzione. Asceso al cielo Gesù entra con la sua umanità completa al possesso della gloria divina che gli è propria. Nell’ascensione di Gesù l’annuncio degli angeli assicura i credenti del suo ritorno finale. Tra l’ascensione e il ritorno si svolge il tempo dello Spirito e il tempo della Chiesa durante il quale il Signore è sommamente attivo a favore dei credenti in lui.

 

Seconda lettura: Efesini 1,17-23

Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore. Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.

 

Il testo si trova all’inizio dell’epistola agli Efesini dopo che nel prologo è stato espresso il mistero della salvezza sotto forma di inno di benedizione, viene il nostro passo che è una preghiera per l’illuminazione dei cristiani. Il tema del brano è la situazione gloriosa di Gesù risorto e asceso al cielo, assise alla destra di Dio, costituito Signore di tutto l’uni-verso.

     Il brano inizia con la preghiera dell’apostolo che si può definire nella sua globalità come una domanda di illuminazione nel senso di penetrazione della luce della fede per l’intelligenza del mistero centrale della salvezza, cioè del disegno di Dio per la nostra sorte salvifica. Tutto in questa preghiera tende alla «conoscenza». Vi è il tema della gloria di Dio, di cui Dio è Padre, cioè autore, causa, origine, largitore alle creature; il tema della sapienza e della rivelazione, il tema della illuminazione e della comprensione, tutti questi concetti hanno come oggetto la speranza, la vocazione, l’eredità di Dio, la sua potenza, l’efficacia della sua forza.

     Questo dispiegarsi salvifico della potenza di Dio si sintetizza e si concentra in Cristo. Il mistero di Cristo viene espresso nei suoi aspetti di morte, risurrezione, di ascensione e sessione alla destra di Dio e signoria universale. È l’affermazione del primato di Cristo su tutto il creato e sulla Chiesa, perché tutto è stato sottomesso a lui ed egli è capo della Chiesa.

     Il tema e la contemplazione di Cristo capo della Chiesa per la sua supremazia di influsso totale e il tema della Chiesa corpo di Cristo sono qui uniti: capo e corpo; Cristo e Chiesa formano il Cristo totale. Il primato di Gesù risorto è assoluto e senza limiti. Ogni uomo e ogni creatura è sotto di lui e in questo mistero si realizza pienamente il piano divino di ricapitolare in Cristo tutte le cose; quelle del cielo e quelle della terra, il piano divino che investe non soltanto gli uomini ma tutti gli esseri creati, dagli angeli fino alle creature materiali rese partecipi della gloria di Dio attraverso il primato e la signoria di Cristo. La visione salvifica e cristologica è cosmica universale.

 

Vangelo: Matteo 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.  Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

 

Esegesi 

   Il brano conclude il racconto delle apparizioni di Gesù risorto ed è il termine dell’intero vangelo di Matteo. Esso descrive la missione universale di Gesù, la missione da lui affidata agli apostoli, la promessa di esistenza fino alla fine del tempo.

     Il potere universale di Gesù risorto: «In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”» (Mt 28,16-18).

     Colui che parla è il Signore risorto e glorioso. Anche nel tempo della sua vita mortale Gesù aveva ricevuto dal Padre ogni potere; il potere di compiere miracoli, il potere di parlare con autorità, il potere di perdonare i peccati, il potere di cacciare i demoni, il potere della conoscenza di tutti i misteri del Regno. Ma prima della sua risurrezione Gesù era soggetto a limiti; alla fame, alla sete, al sonno, alla stanchezza, all’indigenza e infine alla sofferenza e alla morte; la sua stessa missione si era limitata alle pecore perdute della casa di Israele. Ora Gesù è risorto, ogni limitazione è scomparsa, egli afferma di avere ricevuto il potere totale assoluto universale; tutto il potere su tutte le cose; colui che gli ha dato tale potere è il Padre. In virtù di tale potere universale egli affida ora la missione universale ai suoi discepoli.

     La missione: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20a).

     In queste parole è espressa anzitutto l’universalità della missione; essa si rivolge a tutte le nazioni, a differenza del tempo della vita mortale di Gesù in cui aveva detto ai dodici inviandoli: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani, rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 10,5-6), ora l’invio è universale.

     Il compito della missione è triplice: fare discepoli, battezzare, fare osservare i comandamenti; è l’ufficio dottrinale profetico, sacramentale santificante, pastorale di governo. Si esprime così la totalità dell’esistenza apostolica che consiste nel predicare, nel battezzare, dare i sacramenti, nel guidare e dirigere la comunità credente affinché raggiunga la salvezza finale. Alla totalità della vita apostolica corrisponde la totalità della vita cristiana che consiste nel credere alla predicazione, nel ricevere il battesimo e i sacramenti, nell’osservare i comandamenti e così giungere alla vita eterna.

     La promessa dell’assistenza di Gesù: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28.20b).

     La formula: Io sono con voi (oppure: Io sono con te) pronunciata da Dio significa nella sacra Scrittura la garanzia del successo nel compito affidato a qualcuno; Dio dice questa parola a Mosè (Es 3,12) comunicandogli la buona riuscita nel liberare Israele dall’Egitto e ripete questa frase ad altri personaggi a cui dà mandato di compiere una impresa. Nel nostro testo Gesù si appropria la parola divina rivelando così la sua dignità divina e con essa assicura il buon esito nella missione data ai suoi. La promessa di Gesù significa in concreto che sempre, fino alla fine del tempo vi saranno predicatori del vangelo, vi saranno ministri del battesimo e dei sacramenti, vi saranno guide della comunità credente, e corrispondentemente sempre vi saranno ascoltatori della predicazione che crederanno, fedeli che riceveranno i sacramenti, credenti battezzati che osserveranno i comandamenti. È l’indefettibilità della chiesa fino alla fine del mondo.

     Sono queste le ultime parole del vangelo di Matteo, il quale non racconta l’ascensione di Gesù, come avviene al termine del vangelo di Marco e di quello di Luca.

     La pienezza della potestà divina di Gesù è ciò che nella sua ascensione al cielo viene disvelato nel segno; la formula trinitaria che sta al centro della missione ottiene anch’essa una sensibile manifestazione nell’ascendere e sedersi alla destra del Padre. La promessa della presenza del Signore con i suoi fino alla fine del mondo indica la natura trasformante del mistero dell’ascensione; essa consente un nuovo tipo di presenza del Signore glorificato; assiso in cielo alla destra del Padre egli intercede per i credenti in lui, per i battezzati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, per coloro che osservano i suoi comandamenti, per i suoi predicatori, per i suoi ministri, i pastori del popolo cristiano; la sua efficace intercessione che avrà come effetto l’invio dello Spirito Santo è la sua nuova presenza non visibile, come la presenza corporale durante il tempo della vita mortale, ma è assai più efficace.

     Gesù salito al cielo è presente alla sua Chiesa in quanto è sommamente attivo in tutti attraverso lo Spirito Santo.

 

Meditazione

     Gesù, che «fu assunto in cielo» (At 1,11), che il Padre «fece sedere alla sua destra nei cieli» (Ef l, 20) e che da Dio ha ricevuto «ogni potere in cielo e sulla terra » (Mt 28,18), fa della sua assenza fisica una presenza invisibile, una compagnia nei confronti dei suoi discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). L’esito del dono della vita per i suoi amici, gli uomini, è l’essere con loro per sempre, in modo misterioso, ma reale.

    «Là dove ci ha preceduto la gloria del capo, è chiamata altresì la speranza del corpo», afferma Leone Magno a proposito dell’ascensione (Sermo 73,4). E la seconda lettura parla espressamente della speranza dischiusa dalla vocazione cristiana, dal Cristo risorto e asceso al cielo (Ef 1,18); speranza escatologica, ma che inserisce pienamente nella storia i cristiani chiamandoli alla testimonianza in forza dello Spirito santo (I lettura); speranza retta dalla vicinanza e dalla compagnia del Risorto nei confronti dei discepoli che si vedono così sostenuti nel loro impegno quotidiano di servizio al vangelo (vangelo).

     Il vuoto lasciato dall’ascensione di Gesù deve essere colmato dalla testimonianza (At 1,8) e dall’insegnamento (Mt 28,20) dei discepoli. Le due cose sono distinte, ma anche strettamente connesse. Insegnare significa fare segno (in-signare), dare simboli e chiavi ermeneutiche della realtà. Insegnante credibile è colui che vive in prima persona ciò che insegna e che vive di ciò che insegna. O almeno, cerca di farlo. La figura di maestro che il vangelo costruisce, sulla scia di Gesù di Nazaret che è al tempo stesso maestro e insegnamento, è anche quella di un testimone: non si può insegnare l’evangelo senza viverne. L’evangelo, infatti, è il comando lasciato dal Signore ai suoi: «insegnando […] tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20).

    Il mandato di insegnare e fare discepole le genti è un compito generante e significa educare alla fede, trasmettere la fede, esercitare un compito di paternità che introduca l’uomo alla relazione con Dio. Questo il compito della Chiesa nella storia «fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Compito che la Chiesa può assolvere se si affida alla promessa del Risorto: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Queste parole non sono una garanzia, ma una promessa: e ad una promessa si fa credito, ci si affida, senza altre garanzie che l’affidabilità di colui che ha parlato. Il quale, promettendo, ha promesso se stesso, la sua presenza. Inoltre, quelle parole «Io sono con voi» devono essere lasciate in bocca al Signore: sono completamente stravolte se poste sulla bocca di uomini che dicono: «Dio è con noi». Questa non è più la promessa di un Altro a cui ci si affida ogni giorno con umiltà, timore e tremore, ma affermazione umana che fonda una pratica violenta e impositiva, arrogante e aggressiva.

    Le parole «Io sono con voi» stanno nello spazio della fede e della speranza, le parole «Dio è con noi» stanno nello spazio della certezza e del sapere (e nascondono illusione e menzogna): se le prime aprono il futuro (e lo aprono indefinitivamente: «fino alla fine del mondo»), le seconde lo chiudono irrimediabilmente. Trasmettere la fede è dunque anche donare speranza.

    La promessa solenne del Risorto evoca la formula di alleanza per cui Dio si lega al popolo ( «Io sarò il vostro Dio»), e soprattutto evoca la presenza di Dio in mezzo al popolo, nel Tempio. Quelle parole fondano dunque la comunità cristiana come luogo della presenza santa di Dio, come tempio, ma tempio di corpi e di relazioni. La promessa «Io sono con voi» impegna il «voi» a perseverare, a rimanere nella carità fraterna, nei legami reciproci, e a far regnare su di essi il Nome di Dio («Io sono») rivelato dal volto di Gesù di Nazaret. La presenza del Signore viene sperimentata come dono grazie alla fedeltà dei credenti. A sua volta, la faticosa fedeltà quotidiana («tutti i giorni») dei credenti è sostenuta dalla speranza suscitata dalla promessa: «Con la tua promessa mi hai fatto sperare» (Quoniam promisisti, me sperare fecisti: Agostino, Enarr. In Ps. 118,15,1).

 

Preghiere e racconti 

L’Ascensione del Signore

È il nascondimento di Gesù il giorno dell’Ascensione che ha reso possibile la vita e la testimonianza della Chiesa da venti secoli. La sua assenza non solo ha permesso l’esistenza della Scrittura, che ci trasmette il suo messaggio, ma genera ancor oggi quella Scrittura viva, quella Scrittura imprevedibile che tracciano, giorno dopo giorno, i discepoli di Gesù sparsi su tutte le strade del mondo. Quel Gesù che noi amiamo senza averlo visto, quel Gesù che popola le nostre solitudini e abita le nostre comunioni, ci sfugge sempre ogni qualvolta cerchiamo di afferrarlo. Egli è davanti a noi, oltre i personaggi nei quali vogliamo rinchiuderlo. Ed è giusto che sia così, perché possederlo una volta per tutte secondo il suo volto storico, dogmatico, culturale, politico, sarebbe già non ricercare più la sua bruciante assenza.

(Cl. Geffré, Uno spazio per Dio).

L’eterno quotidiano

Degli occhi delle lingue dei volti

che annunciano a tutti i secoli

Io sono fino alla fine del tempo

l’asse del cielo la ruota del vento

l’albero della vita le cui radici

di corpi cinerei fanno un sol corpo

L’Alleluia che si radica

fra i denti murati dei morti

così forte che l’inferno non esamina

quest’Alleluia mi rianima

Io non posso più reprimerti

mia graminacea mia figlia folle

mio seme alato fatto parola

mia eternità neonata

mia gioia danzante a pie zoppo

fra le mie ossa sparse

Basta un papavero

uscito da me fuori dalla tomba

per farmene uscire

e per celebrare

il Risorto che mi rende

il mio filo d’alba il mio fiore nei denti

il dono di vivere nella gloria

dell’eterno quotidiano

La fede rinata ogni mattina

Di un’inconcepibile vittoria.

(P. Emmanuel, Evangeliario)

La porta del cielo

Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: «Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo. Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…

Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo».

«Rimanete saldi nella fede»

«Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso  col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Il cielo

Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione.

(Joseph Ratzinger/BENEDETTO XVI, Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).

Angeli smemorati

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.

Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.

Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.

E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.

Se solo si guardassero “dentro”!

L’ascensione di Gesù e la nostra ascensione

Quando nel rito liturgico dell’eucaristia siamo invitati a «innalzare i nostri cuori», rispondiamo: «Sono rivolti al Signore», a quel Signore che è asceso in alto, a colui che non è più qui, ma che è risorto, è apparso agli apostoli ed è scomparso dalla vista. Sempre, ma specialmente in questo giorno nel quale commemoriamo la sua risurrezione e la sua ascensione, noi siamo spinti ad ascendere in spirito come il Salvatore, che ha vinto la morte e ha aperto il regno del cielo a tutti i credenti.

Molti uomini però non ascoltano il richiamo della liturgia; essi sono impediti, anzi posseduti, assorbiti dal mondo, e non possono elevarsi perché non hanno ali. La preghiera e il digiuno sono stati definiti le ali dell’anima, e quelli che non pregano e non digiunano, non possono seguire il Cristo. Non possono innalzare a lui i cuori. Non hanno il tesoro in alto, ma il loro tesoro, il loro cuore e le loro facoltà sono sulla terra; la terra è la loro eredità e non il cielo. […] Al contrario le anime sante prendono una via diversa; esse sono risorte con Cristo e sono come persone salite su una montagna e ora si riposano sulla cima. Tutto è rumore e frastuono, nebbia e tenebra ai suoi piedi; ma sulla vetta tutto è così calmo, cosi tranquillo e sereno, così puro e chiaro, così luminoso e celeste che per loro è come se il tumulto della valle non risuonasse al di sotto, e le ombre e le tenebre non ci fossero.

(John Henry Newman)

Già ora con Cristo nei cieli

Oggi il Signore nostro Gesù Cristo è asceso al cielo; salga con lui il nostro cuore. Ascoltiamo l’Apostolo che dice: «Se siete risorti con Cristo, gustate le cose di lassù, dove è Cristo seduto alla destra di Dio; cercate le cose di lassù e non quelle della terra» (Col 3,1-2). Come infatti egli è asceso al cielo ma non si è allontanato da noi, così anche noi siamo già lassù con lui, sebbene non sia stato ancora realizzato nel nostro corpo quanto ci è stato promesso. Egli è già stato esaltato sopra i cieli, tuttavia sulla terra patisce le stesse sofferenze che proviamo noi sue membra. Di ciò ha reso testimonianza quando ha gridato dall’alto: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4), e: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25,35). Perché anche noi qui sulla terra non operiamo in modo tale da riposare già ora con lui nei cieli mediante la fede, la speranza e la carità che ci uniscono a lui? Cristo è nei cieli ed è anche con noi, noi siamo sulla terra e siamo anche con lui. Egli lo può fare per la divinità, la potenza e l’amore che possiede; noi, anche se non possiamo farlo per la divinità come lui, tuttavia lo possiamo fare con l’amore, però in lui. Cristo non ha abbandonato il cielo quando ne è disceso per venire fino a noi, ne si è allontanato da noi quando è asceso di nuovo al cielo. Che egli fosse in cielo mentre era anche qui sulla terra lo afferma lui stesso: «Nessuno – dice – è asceso al cielo se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo che è in cielo» (Gv 3,13). Non ha detto: «Il Figlio dell’uomo che sarà in cielo», ma: «Il Figlio dell’uomo che è in cielo». Che Cristo rimanga con noi anche quando è in cielo, ce lo ha promesso prima di salirvi, dicendo: «Ecco, io sono con voi fino alla fine dei secoli» (Mt 28,20). I nostri nomi sono lassù, perché egli ha detto: «Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nel cielo» (Lc 10,20).

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 263/A, Opere di Sant’Agostino XXXII/2, p. 904).

Preghiera

Noi, viandanti sulle strade del mondo, sospiriamo a rivestire quell’abito di luce intramontabile che tu stesso, Signore Gesù, nel tuo amore hai preparato per noi. Fa’ che nulla vada perduto di quanto, per grazia, hai riversato come dono nelle nostre povere mani. La forza del tuo Spirito plasmi in noi l’uomo nuovo rivestito di mitezza e di umiltà.

Ti preghiamo di non lasciarci sordi alle tue parole di vita, perché se non seguiamo te e non ci affidiamo alla potenza del tuo nome, nessun altro potrà salvarci. Il tuo Spirito frantumi tutti gli idoli che ancora ci trattengono e ostacolano il nostro cammino. Nulla e nessuno su questa terra possa imprigionare il nostro cuore! Fa’ che volgendo lo sguardo a te e al tuo regno, acquistiamo occhi per vedere ovunque i prodigi del tuo amore.

 

«Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà: Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria» (1Tm 3,16).
Il mistero celebrato dalla Chiesa quaranta giorni dopo la Pasqua trova la sua sintesi nella preghiera Colletta della liturgia del giorno: «…nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro Capo, nella gloria». Trova il suo compendio anche nel Prefazio della festa: «Mediatore tra Dio e gli uomini,
giudice del mondo e Signore dell’universo,
non si è separato dalla nostra condizione umana,
ma ci ha preceduti nella dimora eterna,
per darci la serena fiducia 
che dove è lui, Capo e primogenito,
saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria».

Gesù, infatti, è entrato nel santuario del cielo affinché “la gloria del Capo” potesse diventare “la gloria del corpo” (S. Leone Magno, Sermo I de Ascensione Domini). Egli è per sempre al suo posto quale «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). Ciò significa che la natura umana per mezzo di Lui e in Lui è per sempre con Dio, è per sempre in Dio. Il Signore Risorto, inoltre, intercede per noi presso il Padre quale loro avvocato (cf. Eb 7,25) poiché «non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui…Ora invece una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso» (Eb 9,24-26).
Nel riquadro dell’Armadio degli Argenti dipinto dal Beato Angelico in pieno ‘400, l’evento salvifico è come raccolto in uno spazio ridottissimo occupato quasi per intero dai discepoli riuniti in cerchio insieme a Maria posta al centro della scena. Essi fissano il cielo nel quale è penetrato Cristo risorto del quale è visibile però soltanto la parte inferiore della tunica avvolta da una nube che lo “sottrae al loro sguardo” (cf. At 1,9).
Gesù è accolto in una sfera di luce dorata che taglia quasi per intero il cielo azzurro che sovrasta un paesaggio essenziale e scarno, arricchito soltanto dalla presenza discreta di alcuni alberelli che conferiscono alla scena un certo realismo. Un angelo sulla destra rivolge ai discepoli le parole: «“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?

Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”» (At 1,11).
Gesù ha raggiunto il cielo ed è per sempre nella gloria del Padre suo. Si è assiso alla destra dell’Altissimo, ma è anche presente tra i suoi discepoli ai quali aveva già promesso che sarebbe stato con loro sino alla consumazione del mondo (cf. Mt 28,20). «Il paradiso non è ormai più un luogo da sempre esistito…bensì il paradiso si apre in Gesù stesso: esso è legato alla sua persona…Cristo è egli stesso il paradiso, la luce, l’acqua fresca, la pace sicura, cui tendono le aspettative e le speranze degli uomini» (J. Ratzinger).
Il mistero dell’ascensione è pertanto la celebrazione dell’opera di riconciliazione che Dio ha realizzato in Cristo. In lui, infatti, e in particolare nel suo mistero di morte e risurrezione, è stata fatta pace tra il cielo e la terra ed è stata riaperta la via che conduce a Dio.
Nel suo cammino verso la Gerusalemme celeste il credente affronta le prove e le tribolazioni della storia ben sapendo che «niente giova all’uomo se guadagna il mondo intero ma perde se stesso. Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo» (Gaudium et Spes 39).
  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014. 

PER APPROFONDIRE:

PASQUA ASCENSIONE

VI DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 8,5-8.14-17

In quei giorni, Filippo, sceso in una città della Samarìa, predicava loro il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. E vi fu grande gioia in quella città.

Frattanto gli apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samarìa aveva accolto la parola di Dio e inviarono a loro Pietro e Giovanni. Essi scesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo.

 

Lo Spirito Santo, di fatto, ci viene presentato come frutto della fede nell’annuncio evangelico in Samaria, ad opera del diacono Filippo secondo il racconto degli Atti.

     È un episodio molto importante, questo, perché ci fa vedere come il Vangelo sia destinato a tutti i popoli. Fin qui S. Luca ci aveva narrato qualcosa della diffusione del Vangelo in mezzo agli Ebrei: un passaggio intermedio è rappresentato dalla predicazione di Filippo ai Samaritani che, pur essendo divisi, avevano qualcosa in comune con gli Ebrei; più tardi avverrà il lancio missionario anche ai pagani, ad opera soprattutto di Paolo.

     Proprio per la novità del gesto compiuto dal diacono Filippo, che poteva comportare anche la nascita di certi problemi, avendo saputo la cosa, gli Apostoli da Gerusalemme «inviarono a loro Pietro e Giovanni» (At 8,14) per verificare la situazione e anche per completare l’opera dello stesso Filippo. Ed è precisamente a questo punto che si parla di una particolare discesa dello Spirito sopra quei primi credenti samaritani. Infatti i due Apostoli «pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo» (14,15-17).

     Dato che si dice che quei cristiani erano già stati «battezzati nel nome di Gesù», si dovrebbe pensare che il rito che compiono gli Apostoli con la loro preghiera e la «imposizione delle mani» sia qualcosa di corrispondente al sacramento della Cresima che, come sappiamo, è una specie di completamento, di «confermazione» vera e propria del Battesimo. Comunque, quello che è importante è la discesa dello Spirito sopra quei nuovi credenti, quasi a dire che si diventa cristiani solo con la «sigillazione» dello Spirito, che diventa così come l’anima che da forza e vitalità a chiunque crede in Cristo.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 3,15-18

Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.

 

Se lo Spirito è come il «completatore» della salvezza, che guida i cristiani dall’interno, non si deve dimenticare però che egli è sempre «lo Spirito di Cristo», che è stato inviato proprio per completare la sua opera di salvezza. Perciò, come ci insegna il testo della lettera di Pietro, al centro rimane sempre Cristo che «è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito» (3,18). Dovremmo essere qui davanti ad una antica professione di fede, che ci rimanda al mistero pasquale: morte espiatrice di Cristo, «giusto» e innocente, e sua risurrezione dai morti, «per ricondurvi» al Padre.

     Tutto questo è grandioso, ma anche paradossale e difficile a credere.

È per questo che i cristiani debbono non solo essere convinti della loro fede, ma anche capaci di comunicarla agli altri, «sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (v. 15). E tutto questo non con arroganza o senso di superiorità, ma «con dolcezza e rispetto», dimostrando con la propria «condotta» la forza trasformatrice del Vangelo (vv. 15-16). Questo potrà costare anche contraddizioni e sof-ferenza: ma è ancora il Vangelo che ci insegna che «è meglio soffrire operando il bene che facendo il male» (v. 17).

 

Vangelo: Giovanni 14,15-21

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.

Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

 

Esegesi 

   Il brano che stiamo commentando fa parte del più lungo «discorso d’addio», che Gesù rivolge ai suoi discepoli mentre sta per avviarsi, dal luogo dell’ultima cena, all’orto dell’agonia.

     Sono parole di consolazione quelle che egli rivolge loro per predisporli agli eventi drammatici che seguiranno, e di cui essi non hanno piena consapevolezza: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio ed abbiate fede in me» (14,1). Ma sono anche parole «testamentarie», che esprimono le sue «volontà» circa i loro atteggiamenti futuri, il loro modo di rapportarsi a lui che, pur avviandosi alla morte, continuerà ad essere presente in mezzo a loro come il Risorto, «donatore» addirittura del suo «Spirito» di santità.

     Perciò la prima richiesta che egli fa agli apostoli, per continuare a tenere viva la sua memoria oltre la morte e dare testimonianza della sua risurrezione, è quella di vivere «nell’amore». E proprio sul tema dell’amore si apre e si chiude il brano di Vangelo oggi proposto alla nostra attenzione: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti… Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (14,15.21).

     Come si vede, l’amore di cui si parla è un amore a doppio senso, anzi triplice: è l’amore dei discepoli verso Cristo, anche dopo la sua morte! Anzi soprattutto dopo la sua morte, perché egli ritornerà a vita; e quella sarà una «vita» in gloria e in potenza: « Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete» (14,19). Proprio per questo l’amore dovrà essere più forte!

     A questo amore dei discepoli risponde dall’alto un duplice amore: ovviamente da parte di Cristo, che quei discepoli si è «scelti» lui stesso e non può non amarli; ma anche quello del Padre che ama tutto quello che ama il Figlio. Perciò siamo davanti a un amore infinito che avvolge il discepolo di Cristo!

     Però da lui si esige, come controparte, che dimostri il suo amore osservandone i «comandamenti»: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama» (v. 21). Può anche sembrare strano che in un discorso di «amore» si parli di «comandamenti» (in greco entolài): ma non lo è se si pensa, come interpretano non pochi esegeti, che con questa espressione Gesù rimanda in modo particolare ai «due comandamenti» che sono come la «sintesi» del suo insegnamento, e cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Basti qui ricordare quello che Gesù dirà tra non molto: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato» (15,12). Davanti all’amore immenso di Cristo si impone, di per sé, una «libera» volontà di risposta amorosa.

     E questo tanto più che, proprio in tale contesto, Gesù promette ai suoi di inviare lo Spirito Santo, che il testo greco chiama «Paraclito» (paràklētos), termine greco che può significare sia «consolatore» che «avvocato»: probabilmente l’Evangelista intende le due cose insieme.

     Comunque, di lui qui si enunciano due caratteristiche, come risulta dal testo: «io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi» (14,16-17). La prima è che lo Spirito è dato per «rimanere sempre con noi»: dunque non ci abbandonerà mai. Addirittura si dice che sarà «in noi» (v. 17): si parla dunque di una «inabitazione» dentro di noi, di modo che sia lui ad agire in noi e per mezzo di noi. In tal modo è chiaro che egli, il quale è il frutto dell’amore del Padre e del Figlio, ci darà la capacità di riamare Dio ed i fratelli, attuando così quel «comandamento» dell’amore di cui ci ha parlato Gesù.

     La seconda caratteristica è che egli è lo «Spirito della verità» (v. 17), che ci guiderà «alla verità tutta intera» (16.13). Ma la «verità» di cui qui si parla non è qualcosa di astratto, di puramente concettuale o cognitivo, quanto piuttosto la «rivelazione» che Dio ha fatto di se stesso donandoci il Cristo, che è afferrabile solo attraverso la fede: è per questo che «il mondo» incredulo non può né «riceverlo», né «conoscerlo». Solo mediante la fede in Cristo si ha accesso alla salvezza.

 

Meditazione 

     Prima di passare da questo mondo al Padre, Gesù promette ai suoi discepoli il dono dello Spirito, del Paraclito, ovvero dell’avvocato difensore che proteggerà i discepoli stessi nella lotta che dovranno sostenere in un mondo ostile (vangelo); questo Spirito guida la presenza cristiana nel mondo sulla via della mitezza e del rispetto degli «altri», i non credenti (II lettura) ed accompagna la predicazione degli apostoli che da vita a nuove comunità cristiane (I lettura).

    Dall’evento pasquale sgorga la speranza come responsabilità dei cristiani. Di essa i cristiani devono essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). «Sempre», dunque in ogni ambito e momento della vita; «a chiunque», dunque non a qualcuno sì e ad altri no, ma a tutti. Inoltre di essa i cristiani devono «rispondere», cioè divenire responsabili: è la testimonianza che solo loro possono dare al mondo. Chi chiede conto della speranza, ne chiede anche un racconto: nella storia i cristiani si collocano come narratori di speranza. Prima ancora che in rapporto agli uomini, la speranza è responsabilità del cristiano in rapporto a Dio, è risposta a Colui che l’ha chiamato alla fede e alla speranza: la «speranza della vocazione» (Ef 1,18) è la speranza dischiusa dalla chiamata divina in Cristo Gesù. La speranza cristiana come responsabilità si situa pertanto tra chiamata di Dio e domanda degli uomini: è responsabilità unica e duplice al tempo stesso, come il comando di amare Dio e il prossimo è duplice e unico al tempo stesso (Mt 22,34-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25-28).

    La nascita della Chiesa in Samaria procede dall’annuncio di Cristo («Filippo, sceso in una città della Samaria, predicava loro il Cristo»: At 8,5) e dalla discesa dello Spirito («Pietro e Giovanni …. imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo»: At 8,17). Il rapporto di collaborazione e fiducia tra Chiesa madre di Gerusalemme (At 8,14) e la nascente comunità in Samaria dice come la parola del vangelo e lo Spirito santo superano le barriere culturali e le separazioni etniche, le divisioni religiose e gli odi atavici: tra Giudei e Samaritani, infatti, non intercorrevano rapporti (Gv 4,9) a seguito di una storia ormai antica che protraeva nel tempo i suoi strascichi di incomunicabilità. I frutti della resurrezione si misurano anche in questa capacità di superare le rivalità antecedenti trovando unità e comunione in Cristo.

    Il vangelo presenta la promessa del dono dello Spirito da parte di Gesù, ma anche la promessa della sua venuta: «Ritornerò da voi» (lett: «verrò da voi»: Gv 14,18). La preghiera cristiana, che sempre avviene nello Spirito e in Cristo, sarà anche sempre invocazione dello Spirito, epiclesi, e invocazione della venuta gloriosa del Signore, Maranà tha. Ovvero, avrà sempre una connotazione escatologica determinante. Il Cristo, inoltre, promette anche la sua intercessione, la sua preghiera al Padre per i discepoli ( «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito»: Gv 14,16) e questa preghiera di Gesù è lo spazio al cui interno avviene ogni preghiera cristiana.

    Lo Spirito che Gesù promette sarà nel discepolo (Gv 14,17) diventando principio di vita interiore e interiorizzando in lui la presenza di Cristo. La sequenza di Pentecoste canta lo Spirito quale dulcis hospes animae (e anche consolator optime, dulce refrigerium). La dolcezza e la tenerezza che furono del Cristo, sono anche dello Spirito che spesso nella tradizione è stato evocato con immagini materne: «Lo Spirito è il seno in cui Dio è fecondo come una madre» (Francois-Xavier Durrwell). L’azione dello Spirito nel credente è quella di creare in lui una sorgente di vita per gli altri, anzi, di fare di lui uno spazio di vita per gli altri, capace di generare e dare vita. Lo Spirito, che è promessa e dono del Risorto, è anche tenerezza materna. E se esso insegna al cristiano a pregare, lo fa proprio come una madre: «Lo Spirito santo ci insegna a gridare “Abbà” comportandosi come una madre che insegna al proprio figlio a chiamare “papà” e ripete tale nome con lui finché lo porta alla consuetudine di chiamare il papa anche nel sonno» (Diadoco di Fotica).

 

Preghiere e racconti

Il Verbo sposo

Il Verbo sposo, che è entrato in me più di una volta, non mi ha mai dato alcun segno della sua irruzione, ne mediante la voce, ne mediante un’immagine visibile, ne mediante un qualsiasi altro approccio sensibile. Nessun movimento da parte sua mi ha segnalato la sua venuta, nessuna sensazione mi ha mai avvertito che egli si fosse insinuato nei miei recessi interiori. Mi sono accorto della sua presenza da certi movimenti del mio cuore: la fuga dai vizi e la repressione delle mie voglie carnali mi hanno mostrato la potenza della sua virtù.

(Bernardo, Sermone sul Cantico dei cantici, 74,6)

«Ritornerò da voi» (Gv 14,3)

«Si può essere indotti a spiegare l’affermazione in questo modo: «Egli è ritornato, ma nel suo Spirito» cioè al suo posto è venuto il suo Spirito e la sua affermazione che egli è in mezzo con noi significherebbe allora semplicemente che il suo Spirito è in mezzo a noi. Certo, nessuno può negare questa verità così bella e consolante della venuta dello Spirito Santo. Ma perché è venuto? Per supplire all’assenza di Cristo o piuttosto per perfezionare la sua presenza? Incontestabilmente per renderlo presente. Lo Spirito di Dio non è venuto perché il Cristo non venga, ma viene piuttosto in modo tale che il Cristo possa venire nella sua venuta. Attraverso lo Spinto Santo noi siamo in comunione con il Padre e il Figlio. Lo Spirito Santo causa, provoca la fede, l’abitazione di Cristo nel cuore. Cosi io lo Spirito non prende il posto di Cristo nell’anima, ma assicura al Cristo questo posto».

(J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, VI, 10).

In comunione con Gesù

     In comunione con Gesù, siamo sotto l’influsso dello Spirito Santo e possiamo essere creativi, agire pienamente in modo nuovo nella lotta per il Regno, la città dell’amore. In Gesù e attraverso Gesù, possiamo affrontare le forze del male e della menzogna inscritte nei cuori e nei gruppi umani, forze che schiacciano la vita, che schiacciano i deboli e gli umili. Non siamo più noi che parliamo, ma lo Spirito Santo in noi. Non siamo più noi che viviamo, ma Gesù in noi. Gesù è venuto a far nuova ogni cosa. In comunione con lui nello Spirito Santo, anche noi possiamo far nuova ogni cosa e fare cose più grandi ancora di quelle fatte da Gesù (Gv 14).

In comunione con Gesù, le nostre azioni nascono dalla comunione e sono orientale verso la comunione. Anche le nostre parole sono chiamate a sgorgare dal silenzio della comunione per arrivare al silenzio dell’amore. Siamo chiamati a bere al cuore di Cristo per diventare fonti di vita per gli altri, per dare la nostra vita agli altri.

 (J. VANIER, Gesù, il dono dell’amore, Bologna 1994,168).

Starà in voi

«Se mi amate, osservate i miei comandamenti» (Gv 14,15). Poiché prima aveva detto: «Qualunque cosa chiederete, io la farò» (Gv 14,13) perché non credessero che bastasse chiedere, aggiunse: «se mi amate»; allora io la farò. Poiché era naturale che sentendolo dire: «Io vado al Padre» fossero turbati, dice: «Non è l’essere turbati che prova l’amore per me, ma l’obbedire a ciò che ho detto. Vi ho dato il comandamento di amarvi a vicenda perché facciate a vicenda quello che io ho fatto a voi. Questo è l’amore nell’obbedire a queste parole e nell’accordarsi alla persona amata». […] Che cosa vuol dire: «Pregherò il Padre?» Con esse mostra che è giunto il tempo della venuta dello Spirito. Dopo che egli, con il suo sacrificio, ebbe purificato gli uomini, allora si ebbe l’effusione dello Spirito santo. Perché non discese prima, mentre Gesù era ancora con loro? Perché allora il sacrificio non era stato ancora consumato, ma quando il peccato fu annientato e i discepoli, mandati in mezzo a pericoli, si preparavano alla lotta, c’era bisogno che venisse chi poteva confortarli. Perché lo Spirito non venne subito dopo la risurrezione? Perché essi, provando un più vivo desiderio, lo accogliessero con buone disposizioni. Finché Cristo era con loro, non erano nell’angoscia, ma una volta che egli se ne andò, rimasero privi di difesa, in preda di una grande paura e provarono un vivo desiderio di riceverlo. «E resterà con voi». Questo dimostra che non se ne andrà neppure alla fine del mondo. Ma perché sentendo parlare del Paraclito, non pensassero a un nuova incarnazione e non si aspettassero quindi di vederlo con gli occhi del corpo, precisa: «II mondo non può riceverlo perché non lo vede. Non starà dunque con voi come faccio io, ma abiterà nelle vostre stesse anime» (Gv 14,17). Questo significa: «Starà in voi». […] Dice: «Starà in voi», ma neppure così riesce a disperdere il loro scoraggiamento. Cercavano ancora la sua presenza e la sua compagnia. Per guarire la loro tristezza dice: «Non vi lascerò orfani. Tornerò da voi» (Gv 14,18). Non temete; non vi ho detto che vi manderò un altro Paraclito perché vi avrei lasciati soli fino alla fine; non vi ho detto: «Resterà con voi» nel senso che io non vi vedrò più. “Non vi lascerò orfani”».

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Giovanni, om. 75, PG 59,403-405).

Cari giovani: non abbiate paura di Cristo!

Benedetto XVI saluta i giovani e ricorda loro il monito di papa Wojtyla: “Spalancate le porte a Cristo!” e aggiunge: “Egli non toglie nulla, e dona tutto”. 

E’ nel passaggio finale della sua omelia, pronunciata in occasione della cerimonia di inizio del suo pontificato, che Benedetto XVI guarda in modo speciale ai giovani, e lo fa sullo stile e con le parole di Giovanni Paolo II, proponendo ancora una volta al mondo la storica esortazione “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!” Un segno di continuità ma anche una scommessa a cui il successore di Pietro non vuole rinunciare.

“In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!” Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell’arbitrio. Ma non avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell’uomo, alla sua dignità, all’edificazione di una società giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani.

Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura – se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita. Amen” 

La logica dell’amore

     Nella casa del Padre ci sono molti posti (Gv. 14,2) dice Gesù. In essa ogni figlio di Dio ha il suo posto unico. Devo allora abbandonare tutti i paragoni, tutte le rivalità e le competizioni ed arrendermi all’amore del Padre.

Ciò richiede un salto di fede perché ho poca esperienza di un amore che non si abbandoni a paragoni e non conosco ancora il potere salvifico di un tale amore. Dio mi spinge a raggiungere la sua casa. Nella luce di Dio io posso finalmente vedere il mio vicino come mio fratello, come colui che appartiene a Dio quanto appartengo io. Ma fuori dalla casa di Dio, fuori dalla sua logica di amore, fratelli e sorelle, mogli e mariti, genitori e figli, diventano rivali e perfino nemici; ognuno continuamente afflitto da gelosie, risentimenti, sospetti. Ma una siffatta situazione è solo fonte di dolore e di angoscia. In essa ogni cosa perde la sua spontaneità. Ogni cosa diventa sospetta, preoccupante, calcolata, e ci si abbandona a mille congetture. Non c’è più alcuna fiducia. C’è una via d’uscita? C’è uno sbocco dal risentimento verso il mio fratello, che nasce dal mio bisogno di essere amato? Sì, c’è.

Lasciarmi trovare da Dio Padre e sentirmi amato. Devo rivendicare a me stesso la mia condizione di figlio datami da Dio. Solo sentendomi unico, vedrò che l’amore di Dio non è esclusivo, ma comprende e sa mare, in modo unico e irripetibile, ciascun uomo. E anch’io farò lo stesso.

(J.H. Nouwen).

Scavare verso Dio

È da tempo che la sera è caduta

è da sere che il cielo è oscurato

è da cieli che la luce è partita

è da giorni che il ruscello è seccato.

Ecco questo uccello passare basso sotto la nube

bisogna partire e rientrare nel buio

non è più tempo di cantare nella strada

è troppo tardi per chiacchierare nel buio.

Gli alberi dormono come un corpo inerte,

la farfalla si affretta verso la sua rovina.

Solo, senza rimedio, bisogna chiudere gli occhi

e in fondo al buio scavare verso Dio.

(J.P. Dadelsen, Giona).

Preghiera

     Signore Gesù, noi crediamo che tu ci ami e desideriamo amarti: donaci lo Spirito di verità perché ci faccia comprendere e mettere in pratica tutte le tue parole di vita, quelle che hai attinto per noi dal cuore dell’eterno Padre. Tu sei sempre con noi e non ci lasci orfani: anche noi vogliamo rimanere con te. Sostieni e accresci in noi questo desiderio. Prega ancora per noi, presso il Padre, perché ci mandi l’«altro Consolatore», colui che ci difende dal maligno e ci fa ricordare quanto siamo amati in totale gratuità. Saremo così condotti alla verità tutta intera, alla dolcezza della comunione, alla sicurezza della pace e il mondo, vedendo, saprà: saprà che tu ami il Padre compiendo la sua volontà e che proprio questo amore salva il mondo. Amen.

Gesù Risorto si fa prossimo ai suoi discepoli, li incontra, parla con loro, condivide con loro alcuni pasti. Egli non è un fantasma: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho» (Lc 24,38-39). Egli non è neppure il predicatore di Galilea redivivo, ma è il Crocifisso Risorto, tanto che Pietro dopo la Pentecoste potrà dire con forza: «Gesù di Nazareth…dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,22-24).
Colui che i discepoli avevano visto, udito e toccato (cf. 1Gv 1,1-3), il Maestro che avevano ascoltato e seguito e con il quale avevano condiviso la mensa, adesso, dopo la sua morte, si mostra «ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio» (At 1,3). Per questo Paolo può affermare: «Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così» (2Cor 5,16).

Nel riquadro della Maestà di Duccio di Buoninsegna Gesù Risorto appare vivo ai suoi discepoli riuniti nel cenacolo. Questi sono distribuiti dall’artista in due gruppi di cinque, tutti rivolti verso il Signore. È assente soltanto Tommaso. Del «luogo dove si trovavano i discepoli per paura dei giudei» (Gv 20,19) Duccio ci fa intravedere uno scorcio di architettura e soprattutto le sue porte ben chiuse.
I discepoli nel loro insieme indicano la Chiesa che si rallegra nell’udire la voce del suo Sposo e che da Lui riceve la missione di annunciare con la forza dello Spirito il vangelo della salvezza a tutte le nazioni. Ma «lo Spirito Santo viene a prezzo della “dipartita” di Cristo. Se tale “dipartita” ha causato la tristezza degli apostoli, e questa doveva raggiungere il suo culmine nella passione e nella morte del Venerdì Santo, a sua volta “questa afflizione si cambierà in gioia”. Cristo, infatti, inserirà nella sua “dipartita” redentrice la gloria della risurrezione e dell’ascensione al Padre.
 
Pertanto, la tristezza, attraverso la quale traspare la gioia, è la parte che tocca agli apostoli nel quadro della “dipartita” del loro Maestro, una dipartita “benefica”, perché grazie ad essa un altro “consolatore” sarebbe venuto.
A prezzo della croce, operatrice della redenzione, nella potenza di tutto il mistero pasquale di Gesù Cristo, lo Spirito Santo viene per rimanere sin dal giorno della Pentecoste con gli apostoli, per rimanere con la Chiesa e nella Chiesa e, mediante essa, nel mondo» (Giovanni Paolo II, Dominum et vivificante 14).
Per i discepoli che erano stati scossi dagli eventi drammatici della passione di Gesù e dalla sua morte, si realizzano finalmente le parole di Gesù: «Vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,22).

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA VI DOMENICA DI PASQUA

V DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 6,1-7

In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola».

     Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani. E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.

 

Il brano presenta la vita della prima comunità cristiana che, crescendo per la predicazione degli apostoli e il buon esempio degli aderenti alla fede, comincia a presentare le prime difficoltà di carattere organizzativo. Sorge, infatti, un malcontento degli ellenisti contro gli ebrei.

     Gli ellenisti sono quegli ebrei che parlavano greco e leggevano la Bibbia in greco nelle riunioni sinagogali; erano provenienti dalla diaspora giudaica e avevano fissato la dimora a Gerusalemme; erano contrapposti agli Ebrei che parlavano e leggevano la Bibbia in aramaico. Il malcontento degli ellenisti nasce dal fatto che a causa del super-lavoro degli apostoli vengono da essi trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana di vitto e sussidi.

     I Dodici, che qui Luca nomina direttamente, convocano tutta la moltitudine dei credenti per affermare l’importanza e la priorità del loro compito di annunciatori della parola di Dio rispetto a quello delle mense, che poteva essere anche affidato ad altri. Gli Apostoli invitano la comunità a scegliere sette membri di cui però delineano le caratteristiche fondamentali: «buona fama» fra il popolo, «pieni di spirito e di sapienza».

     L’assemblea accoglie favorevolmente la proposta degli apostoli («piacque») e vengono scelti sette uomini. I loro nomi in greco fanno supporre che fossero preposti all’assistenza dei poveri di lingua greca. Gli unici di cui gli Atti parleranno in seguito sono Stefano (6,8-9,2) e Filippo (8,5-40 e 21,8) che avranno un ruolo importante nella diffusione del Vangelo, degli altri non si sanno ulteriori notizie.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 2,4-9 

Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso».

    Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo. Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.      

 

Nel brano in questione Cristo è presentato, con un’immagine tratta dall’Antico Testamento, come «pietra angolare» e i cristiani, in corrispondenza, come «pietre» che si edificano su quel fondamento. Cristo «pietra viva» è il Risorto che dalla morte è ritornato alla vita, e che, pur essendo stato scartato dagli uomini, è posto a fondamento dell’edificio spirituale che Dio voleva costruire e sul quale il Cristo vivente esercita il suo influsso energetico e vivificante.

     Solo in virtù di Cristo «pietra viva» e a partire dalla comunione con lui i cristiani sono «pietre vive» sovrapposte per costruire l’edificio spirituale. Essendo un edificio spirituale, la Chiesa non è solo ricolma dello Spirito, ma creata dallo Spirito. L’autore contrappone l’edificio materiale del tempio dell’Antico Testamento, e le offerte materiali che in esso si facevano, a quello spirituale che in Cristo i cristiani sono chiamati a compiere. Questo organismo costituito da Cristo e dai fedeli insieme, ha come scopo quello di offrire sacrifici spirituali, che consistono in tutta la vita cristiana vissuta e offerta a Dio.

     La funzione della pietra è duplice. Pietro ne chiarifica il senso mettendo insieme due brani dell’Antico Testamento tratti dal libro del profeta Isaia: Is 38,6 e Is 8,14. Per tutti coloro che credono, la pietra ha un valore positivo; per coloro che non credono alla Parola annunciata la pietra costituirà inciampo sulla loro strada. Lo scandalo si compie con la disobbedienza alla Parola proclamata che esige l’obbedienza, o comunque una scelta: il vangelo può essere accolto o respinto, ma non ascoltato con indifferenza! L’incredulità è disobbedienza: è una decisione dell’uomo che si chiude alla chiamata di Dio.

     I cristiani a cui si rivolge l’Apostolo hanno aderito alla fede, e chiamati dalle tenebre alla luce, dalla schiavitù del peccato alla grazia di una vita nuova, sono il nuovo popolo di Dio che riattua in sé le caratteristiche che erano dell’antico popolo: elezione, sacerdozio, santità, possesso da parte di Dio e testimonianza per altri popoli. Il vero Israele è la Chiesa, perciò ad essa sono riservate tutte le promesse fatte ad Israele. 

Vangelo: Giovanni 14,1-12

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».  Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.

      Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre». 

 

Esegesi

     Gesù invita i discepoli alla fiducia e li assicura sul fatto che sta andando a preparare loro un posto nel regno del Padre per tornare a prenderli e portarli con sé.

     Gesù apre il dialogo con i discepoli invitandoli a non turbarsi per la separazione dal loro Signore e Maestro perché la sua lontananza sarà temporanea. Per accettare tale assicurazione è necessario un atto di fede verso Dio e verso Gesù. Con questa fede si crede all’intima comunione tra il padre e il Figlio e allo stesso tempo anche alla grande accoglienza nella casa del Padre.

     La casa del Padre indica il luogo o meglio lo stato beato in cui si vive in unione con Dio. In essa dimora il figlio, il quale può preparare tanti posti per i suoi amici, perché in essa vi sono «molti posti». Egli si separa dai suoi amici per andare per primo alla casa del Padre con il fine di preparare loro il posto, poi tornerà per portarli con sé, affinché essi vivano dove egli è (14,3).

     Per giungere nella casa del Padre bisogna dunque passare per il Figlio. Egli, infatti, è la via che conduce al Padre (14,4-6). Il linguaggio enigmatico usato da Gesù suscita l’immediata reazione del discepolo Tommaso che, con la razionalità e la concretezza che lo caratterizzano, chiede chiarezza nei discorsi: vuole sapere dove egli vada, per conoscerne la via. Tommaso prende il termine via in senso materiale, mentre il Maestro lo intende in senso spirituale, quale mezzo per giungere a Dio. Per questo nella sua risposta Gesù proclama di essere la via per andare verso Dio. Solo per mezzo di Cristo, infatti, si può giungere al Padre. Nessuno infatti può arrivare a Dio con le sue forze, ne può servirsi di altri mediatori (14,6). Come nessuno può, andare verso Cristo se non gli è concesso da Dio (6,55), così nessuno può giungere a Dio senza la mediazione di Gesù (14,69). Gesù proclama inoltre di essere anche la Verità e la Vita. La locuzione autorivelativa «Io Sono» esprime la funzione divina di Gesù di essere il rivelatore. I sostantivi via, verità e vita sono applicati al Cristo per indicare le sue funzioni di mediatore e salvatore. Egli manifesta la vita e l’amore di Dio per l’umanità e comunica al mondo la salvezza.

     Gesù è l’unico che può condurre a Dio perché egli solo vive nel Padre e viceversa. Perciò chi conosce Gesù conosce il Padre e chi vede l’uno vede l’altro (14,7). Il linguaggio di Gesù risulta nuovamente enigmatico per i discepoli e provoca l’intervento di Filippo, il quale chiede a Gesù di mostrargli il Padre. Il discepolo, infatti, crede che il Padre sia altro da Gesù. Gesù risponde affermando che egli vive nel Padre e non nasconde la sua meraviglia per l’ignoranza di Filippo, che avrebbe dovuto conoscere la sua vera identità.

     Data l’immanenza del Figlio nel Padre, le opere del Figlio sono compiute dal Padre e per tale ragione debbono essere chiamate opere di Dio e del Padre. L’immanenza del Padre in Gesù può essere accettata solo per fede, perciò Gesù esorta i discepoli a credere in questa verità anche a motivo delle opere da lui compiute (14,11).

     Gesù continua per assicurare i discepoli che chi crede nella sua persona divina non solo compirà opere simili a quelle fatte da lui, ma ne farà maggiori. La motivazione di tale possibilità di compiere opere straordinarie, risiede nel prossimo ritorno di Gesù dal Padre, presso il quale egli esaudirà le promesse dei discepoli.

Meditazione 

     Il Cristo risorto, andato al Padre (vangelo), è il fondamento dell’edificio spirituale che è la Chiesa (II lettura): è in riferimento a lui, con la preghiera che guida il discernimento, che i credenti affrontano i problemi della comunità cristiana cercando di farlo regnare sulla vita della comunità (I lettura).

    Il Cristo che lascia i suoi discepoli e sale al Padre chiede loro in fede (Gv 14,1.10.11.12); la Chiesa fondata sul Crocifisso Risorto è l’insieme dei credenti chiamati a offrire sacrifici spirituali graditi a Dio (1Pt 2,5): il riferimento è certamente alla liturgia, ma più estesamente al culto nell’esistenza quotidiana, a fare del quotidiano il luogo dell’adorazione di Dio in cui il credente offre il proprio corpo in «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1); i problemi organizzativi della comunità, che rischierebbero di soffocare ciò che è essenziale nella Chiesa, devono essere risolti in modo da far sempre emergere il primato della Parola di Dio e il suo servizio. La predicazione stessa deve sempre essere innestata nella preghiera: «Di che utilità potrebbe mai essere una predicazione disgiunta dalla preghiera? In primo luogo viene la preghiera, e dopo la parola, come dicono gli Apostoli: “Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola” (At 6,4)» (Giovanni Crisostomo).

    Che il Cristo risorto sia pietra scartata dai costruttori, ma scelta da Dio e divenuta pietra angolare ( 1Pt 2,7), è importante per quanti si trovano a vivere «vite di scarto» (Zygmunt Bauman), a essere rigettati ai margini della società o del mondo o del loro gruppo o della Chiesa. Dio sceglie ciò che nel mondo è disprezzato e insignificante, sceglie «la spazzatura del mondo» (cfr. 1Cor 4,12) per confondere i costruttori mondani e le loro costruzioni che si reggono su criteri di efficienza e produttività, che richiedono conformismo e omologazione, che vogliono che le pietre sino morte e non vive. Una pietra viva, fedele eco del Crocifisso Risorto, è un ossimoro intollerabile per la razionalità mondana e abbisogna di essere scartata.

    Il vangelo presenta l’addio di Gesù ai suoi. L’addio è l’ultimo saluto che intercorre fra chi se ne va per sempre e chi resta. Ma l’addio, e più che mai l’addio pronunciato da Gesù, è anche una promessa: ad Deum. Con ad-Dio il futuro, proprio e degli altri, è posto in Dio. Gesù, che ha sempre vissuto le sue relazioni nell’ad-Dio, cioè davanti a Dio e per Dio, vi pone anche il suo futuro. Che è anche il futuro di chi è «suo», di chi «crede in lui» (cfr. Gv 14,12). Infatti, il Figlio è nel Padre e il Padre è nel Figlio (Gv 14,10), e il discepolo che rimane nel Figlio (Gv 15,1-7), rimane anche nel Padre ( 1Gv 2,24). Se così va inteso l’ad-Dio, allora ogni nostra relazione dovrebbe restare sotto il suo segno, cioè sotto il segno dell’apertura e dell’invocazione all’Altro che salva le relazioni con gli altri dai rischi dell’assolutismo, della tirannia, della violenza.

    Dopo aver annunciato la sua partenza, Gesù ha dato ai discepoli il comando dell’amore (Gv 13,33-34) e ora chiede loro di aver fede e di non essere turbati (Gv 14,1). Di fronte a un distacco si prova dolore per la persona che se ne va, ma anche smarrimento e ansia per il futuro proprio e della propria comunità che era legata vitalmente alla presenza che ora non è più. La dipartita di Gesù è crisi per la comunità dei suoi discepoli. E il turbamento del cuore non riguarda solo la sfera emotiva e dei sentimenti, ma indica anche la paralisi della volontà e della capacità di prendere decisioni, l’annebbiamento dell’intelligenza e del discernimento. Gesù, con le sue parole, sta facendo della sua dipartita e del vuoto che egli lascia un’occasione di rinascita dei suoi discepoli. Chiedendo fede, li spinge a trasformare la paura del nuovo e il terrore dell’abbandono nel coraggio di donarsi appoggiandosi sul Signore; promettendo che va a preparare un posto per loro, egli vive la sua partenza in relazione con chi resta e mostra che non li sta abbandonando, ma sta inaugurando una fase nuova e diversa di relazione con loro. Il distacco è in vista di una nuova accoglienza (Gv 14,2-3).

Preghiere e racconti

«Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?»

Si leggono a volte pagine molte belle su dio, sui suoi attributi, sulla sua grandezza, sul suo mistero. Le si definirebbe volentieri mistiche, se non si temesse di sciupare questo termine. Ma se manca il nome di Gesù Cristo non si sfugge al dubbio. Ciò che dice l’autore, come lo sa? da dove lo ricava? I cristiani hanno ragione di diffidare delle affermazioni teologiche che non derivano dalla conoscenza di Cristo o che si svolgono senza un esplicito riferimento al Vangelo. Non bisogna stancarsi di ripetere la frase chiave che leggiamo in Giovanni: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?» (Gv 14,9). Essa significa che l’unità di Dio e dell’uomo in Gesù manifesta nel tempo l’unità eterna del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. La voce del Figlio è la voce del Padre. Ascoltare Gesù è ascoltare il Padre. L’immagine proposta da Urs von Balthasar è suggestiva. Egli afferma che il credente sente questa voce «come in stereofonia».

(Fr. Varillon, La sofferenza di Dio).

Camminando si fa il cammino

Tu che cammini, sono le tue tracce

il cammino e null’altro;

tu che cammini, non c’è cammino,

il cammino si fa camminando.

Camminando si fa il cammino

e volgendo indietro lo sguardo

si vede il cammino sul quale mai più

si ritornerà a camminare.

Tu che cammini, non c’è cammino,

tranne delle scie nel mare.

 (A. Machado)

Il cammino particolare 

      «Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un acceso diverso. È infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano. L’universalità di Dio consiste nella molteplicità infinita dei cammini che conducono a lui, ciascuno dei quali è riservato a un uomo».

(Martin BUBER, Il cammino dell’uomo, Edizione Qiqajon, 1990, Magnano (BI), 28)

 

Io sono… la vita

«Carissimi giovani, voi vi fate interpreti di una domanda, che spesso vi viene rivolta da tanti vostri amici: Come e dove possiamo incontrare questa vita, come e dove possiamo viverla? La risposta potrete trovarla da voi stessi, se cercherete di dimorare fedelmente nell’amore di Cristo (cfr. Gv 15,9). Voi sperimenterete allora direttamente la verità di quella sua parola: “Io sono… la vita” (Gv 14,6) e potrete recare a tutti questo gioioso annuncio di speranza. Egli vi ha costituiti suoi ambasciatori, primi evangelizzatori dei vostri coetanei».

(Giovanni Paolo II, Messaggio per la VIII GMG, 1993).

Il buio e la luce

È buio dentro di me,

ma presso di te c’è la luce;

sono solo, ma tu non mi abbandoni;

sono impaurito, ma presso di te c’è l’aiuto;

sono inquieto, ma presso di te c’è la pace;

in me c’è amarezza, ma presso di te c’è la pazienza;

io non comprendo le tue vie, ma la mia via tu la conosci.

(Dietrich Bonhoeffer)

Mi chiamate Redentore

Mi chiamate Redentore

e non vi fate redimere.

Mi chiamate Luce

e non mi vedete.

Mi chiamate Via

e non mi seguite.

Mi chiamate Vita

e non mi desiderate.

Mi chiamate Maestro

e non mi credete.

Mi chiamate Sapienza

e non m’interrogate.

Mi chiamate Signore

e non mi servite.

Mi chiamate Onnipotente

e non vi fidate di me.

 

Se un giorno non vi riconosco

non vi meravigliate.

(Iscrizione nel duomo di Lubecca).

L’amore è ciò che conta

Chi ha superato la paura della morte, non ha ancora vinto tutti gli altri timori. Alcuni non temono la morte, ma hanno paura dei piccoli mali della vita. Alcuni non temono la morte, ma temono la morte delle persone care. Chi cerca la Verità, deve vincere tutti questi timori e altri ancora: bisogna essere pronti a sacrificare tutto per la Verità. La verità non si può sacrificare per nessuna ragione. La verità è come un grande albero, che più lo si coltiva, più da frutti. Colui che cerca la verità dovrebbe essere più umile della polvere.

Se conoscessimo la verità intera, che bisogno ci sarebbe di cercarla? Possedere la conoscenza perfetta della verità è possedere Dio. Poiché la verità è Dio. Dal momento che non conosciamo la verità totale, dobbiamo sentirci impegnati in una ricerca incessante, e questo è il più grande privilegio e il più grande dovere dell’uomo.

Dio-verità va incontro a quelli che lo cercano. Sono un umile cercatore della verità, e in questa ricerca ripongo la massima fiducia nei miei compagni per poter conoscere i miei errori. Sono fedele soltanto alla verità e non devo ubbidienza a nessuno salvo che alla verità. Tutta la verità, non semplicemente le idee vere, ma i visi autentici, i dipinti o le canzoni autentiche sono sommamente belli. Vorrete sapere quali siano le caratteristiche di un uomo che desideri realizzare la Verità che è Dio. Deve essere completamente libero dall’ira e dalla lussuria, dall’avidità e dall’attaccamento, dall’orgoglio e dal timore. Voi ed io siamo una cosa sola. Non posso farvi del male senza ferirmi. Io sono il servo di musulmani, cristiani, persi, ebrei, come lo sono degli indù. E un servo non ha bisogno di prestigio, ma di amore. L’amore è il rovescio della moneta, il cui diritto è la verità.

(Mahatma Gandhi).

Ho cercato la verità, amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle Confessioni di sant’Agostino.

 

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

 

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

 

Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

 

Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

 

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio MAZZI, Preghiere di un prete di strada).  

Saremo anche noi dove è Cristo

Colmi di fiducia, volgiamoci senza timore verso il nostro redentore Gesù, volgiamoci senza timore verso l’assemblea dei patriarchi, partiamo per andare senza timore presso il nostro padre Abramo quando sarà giunto il giorno per noi fissato; senza timore volgiamoci all’assemblea dei santi e alla adunanza dei giusti. Andremo presso i nostri padri, andremo presso i nostri maestri nella fede perché, anche se mancano le opere, ci soccorra la fede e sia conservata la nostra eredità. Andremo dove il santo Abramo apre il suo seno per accogliere i poveri così come ha accolto anche Lazzaro. In quel seno riposano coloro che in questo mondo sopportarono gravi e penose fatiche. Padre [Abramo], ancora una volta tendi le tue mani per accogliere il povero, apri il tuo grembo, allarga il tuo seno per accoglierne di più perché moltissimi sono quelli che credono nel Signore. […] Il Signore sarà la luce di tutti e la luce vera che illumina ogni uomo (cfr. Gv 1,9) risplenderà su tutti. Andremo là dove ai suoi poveri servi il Signore Gesù ha preparato le dimore, per essere anche noi dove è Lui; così ha voluto. Ascoltalo quando dice quali sono queste dimore: «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore» (Gv 14,2), e ascoltalo quando manifesta la sua volontà: «Vengo di nuovo e vi chiamo a me, perché dove sono io siate anche voi» (Gv 14,3). Ma tu affermi che Gesù parlava soltanto ai suoi discepoli perché ad essi soltanto avrebbe promesso molte dimore; perciò le preparava solamente per i suoi undici discepoli. E che ne è allora di quel detto che da tutte le parti del mondo verranno e riposeranno nel regno di Dio? (cfr. Mt 8,11). Perché dubitiamo della realizzazione della volontà divina? Il volere di Cristo è già operante. Cristo mostrò anche la via, mostrò anche il luogo, dicendo: «E dove io vado, voi lo sapete e conoscete la mia via» (Gv 14,4). Il luogo è presso il Padre, la via è Cristo, così come lui stesso dice: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). Entriamo dunque per questa via, restiamo saldi nella verità, seguiamo la vita. La via è quella che conduce, la verità quella che da saldezza, la vita è quella che è data per mezzo suo. E perché conoscessimo la sua vera volontà, aggiunse: «Padre, quelli che tu mi hai dato, voglio che essi pure siano con me dove sono io, in modo che vedano la mia gloria» (Gv 17,24).

(AMBROGIO, Il bene della morte 12,52-54, in Opera omnia di sant’Ambrogio, pp. 200-204).

Butto la rete

Signore, la mia sola sicurezza sei tu, come il mare che ho davanti e nel quale butto la rete della mia vita. Anche se finora non ho pescato nulla, anche se a volte non ne ho la voglia, io so, Signore, che se avrò la forza di buttare continuamente questa rete, troverò il senso della verità.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto  Pensieri e lettre spirituali, Ed. San Paolo)

Il dubbio, la verità e Cristo

Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiani e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.

(F. Dostoevskij)

Via, verità e vita

Noi ti seguiamo, Signore Gesù, ma tu chiamaci, perché ti possiamo seguire. Nessuno potrà salire senza di te. Tu sei la via, la verità, la vita, la possibilità a fede, il premio. Accogli i tuoi: tu sei la via. Confermali: tu sei la verità. Ravvivali: tu sei la vita.

Ammettici a quel bene che Davide desiderava vedere, abitando nella casa del Signore, quando si chiedeva: «Chi ci mostrerà il bene? e diceva: «Io credo che vedrò i beni del Signore nella terra dei viventi»: i beni si trovano là dove c’è la vita eterna, la vita senza colpa.

Aprici il cuore a quello che è veramente il bene, il tuo bene divino, «in cui noi siamo, viviamo e ci muoviamo».

Noi ci muoviamo, se camminiamo sulla via; esistiamo, se rimaniamo nella verità; viviamo, se siamo nella vita. Mostraci il bene inalterabile, unico, immutabile, nel quale possiamo essere eterni e conoscere ogni bene. In quel bene si trova la pace serena, la luce immortale, la grazia perenne, la santa eredità delle anime, la tranquillità senza turbamento, non destinata a perire ma sottratta alla morte: là dove non vi sono lacrime, e non dimora il pianto – può esservi pianto dove non c’è peccato – dove i tuoi santi sono liberati dagli errori e dalle inquietudini, dal timore e dall’ansia, dalle cupidigie da tutte le sozzure e da ogni affanno corporale, dove si estende la terra dei viventi.

(AMBROGIO, De bono mortis, XII, 55). 

Preghiera

Signore Gesù, maestro buono, il nostro cuore è spesso turbato per tutto il male che c’è nel mondo e per le nostre stesse debolezze, per i tradimenti e i rinnegamenti di cui ci vediamo capaci. Aumenta la nostra fede in te e nel Padre che ci hai rivelato.

Tu sei la via: fa’ che ti seguiamo! Tu sei la verità: fa’ che ti conosciamo! Tu sei la vita: fa’ che viviamo in te per vedere il Padre e glorificare il tuo santo nome davanti a tutti gli uomini.

   

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA V DOMENICA DI PASQUA (A)

IV DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 2,14.36-41

[Nel giorno di Pentecoste,] Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò così: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso». All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». E Pietro disse loro: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro». Con molte altre parole rendeva testimonianza e li esortava: «Salvatevi da questa generazione perversa!». Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone. 

 

Questo è un brano del discorso che Pietro ha fatto il giorno di Pentecoste. Egli parlando agli Ebrei usa alcuni testi importanti dell’Antico Testamento per interpretarli alla luce di Gesù Cristo. Davanti alla folla Pietro annuncia il Vangelo, la Buona Notizia che può cambiare la loro vita: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (v. 36). L’annuncio di Pietro non era facile da accogliere dal popolo ebraico: il Messia promesso dai profeti e da loro atteso come un liberatore era in realtà un uomo crocifisso come un malfattore. Non solo: è lui il Signore, l’Adonai, il Dio del Sinai. Ma Pietro ha ricevuto in quel giorno lo stesso spirito di Cristo risorto e può annunciare con sicurezza, che Gesù è il Signore, e ora ha potere su qualsiasi debolezza dell’uomo.

     La Parola è ascoltata dalla folla, e dall’ascolto sboccia la fede che porta a domandare: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». La risposta è: «Convertitevi». Convertirsi significa cambiare mentalità, abbandonare le proprie sicurezze derivate dalla legge e rivolgersi a Cristo, l’autore della vita: «ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati» (v. 38). Essere battezzati significa essere immersi in Cristo, essere uniti strettamente a lui, partecipando alla sua sorte: alla sua morte e alla sua risurrezione.                                  

     Questo però avviene mediante il perdono dei peccati, i quali tengono l’uomo schiavo della propria autosufficienza, e con il dono dello Spirito Santo, che distingue il battesimo di Gesù da quello di Giovanni.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 2,20b-25

Carissimi, se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio,  perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia.

     Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime.      

 

Anche in questa lettura risuona la Buona Notizia, il Vangelo di Pietro.

Qui egli presenta il cristiano, che ha ascoltato la parola, vi ha creduto, si è convertito al Signore, è stato battezzato, ma ora vive in una società che non sopporta la sua presenza. Il cristiano con il battesimo ha ricevuto la natura stessa di Cristo, e ora ne può seguire le orme (v. 2). La strada è già stata tracciata: è quella della croce, dell’amore al nemico, come quella di Gesù che «oltraggiato non rispondeva con oltraggi» (v. 23). È lo spirito del

Servo sofferente profetizzato da Is 53, che «portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché non vivendo più per il peccato vivessimo per la giustizia» (v. 24).

     Versando il sangue sull’altare della croce, Cristo ha espiato i nostri peccati e li ha demoliti. Ora è possibile quindi vivere con rettitudine morale come è stabilito da Dio. Se prima gli uomini erano un gregge senza pastore, ora si realizza quanto anticipato profetizzato da Ez 34,16: «Io stesso, dice il Signore, andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata; avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia». La Chiesa perseguitata è invitata da Pietro a guardare con fiducia a Gesù Cristo come al vero pastore e al guardiano fedele (v. 25).

 

Vangelo: Giovanni 10,1-10

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».    

 

Esegesi 

   Gesù si trova ancora a Gerusalemme per la festa delle Capanne.

Nell’ultimo giorno della festa aveva svelato la sua identità nel luogo sacro, il tempio: «Prima che Abramo fosse Io sono» (8,58). Aveva poi guarito il cieco nato per manifestare le opere di Dio (c. 9). Ora si dichiara il «Buon Pastore», che accoglie nella sua Chiesa i vari ciechi che hanno ricuperato la vista credendo in lui e facendosi battezzare, e che per questo sono scacciati dalla sinagoga.

     Le due parole fondamentali di questa parabola sono «recinto» e «porta». I recinti delle pecore erano fatti di un muricciolo dotato di una porta stretta, che dava la possibilità ai pastori di contare le pecore, che di notte venivano da loro affidate al custode. Al mattino seguente il custode apriva loro la porta del recinto ed essi chiamavano le loro pecore. Queste conoscevano solo la voce del loro pastore e seguivano solo lui, non gli estranei. Mentre uscivano il pastore le contava perché poteva accadere che durante la notte i banditi avessero scavalcato il recinto facendo razzia delle pecore.

     Nella Bibbia, però, la parola «recinto» non viene usata mai per indicare un luogo destinato agli animali, ma lo spazio dove, durante l’Esodo, si trovava la Tenda del Convegno. Più tardi il termine indicava i cortili del tempio. Gesù quindi si sta riferendo alle istituzioni di Israele, che nella Legge hanno la loro massima espressione.

     Per i farisei la legge era un luogo dove si poteva entrare e basta: era un luogo chiuso. Le pecore, l’intero popolo d’Israele, dovevano entrare solo in questo recinto, sottostando alle loro interpretazioni della legge, che generalmente erano molto gravose. Questo recinto per Gesù ha una «porta», dalla quale egli chiama le sue pecore una per una facendole uscire. Altre pecore che si trovano in quel recinto non conoscono la sua voce o non la vogliono ascoltare. Le sue pecore invece lo seguono, Gesù rivela inoltre di essere la «porta» non del recinto, ma del tempio di Dio. Nessuno può entrare nella casa di Dio senza passare per Gesù. Lui è l’unico che può condurre alla salvezza le pecore. Chi sta in lui sperimenta la libertà: «entrerà e uscirà e troverà pascolo» (v. 9). Solo lui è in grado di donare la vita eterna. Nessun altro invece ha il potere di donare la vita.

 

Meditazione

     La quarta domenica di Pasqua contempla il Risorto quale pastore della chiesa. Il pastore indica al gregge la via da percorrere e il Cristo-Pastore indica alla chiesa la via che essa deve seguire. Via che, secondo la prima lettura, si chiama conversione.«Convertitevi» (Metanoésate: At 2,38), risponde Pietro alle folle di Gerusalemme che gli chiedevano: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2,37). L’attività pastorale degli apostoli suscita un itinerario che, a partire dall’ascolto della parola predicata e dalla fede, si dipana in alcune tappe: conversione; battesimo; remissione dei peccati; effusione dello Spirito. Tutto questo conduce all’aggregazione alla comunità cristiana (At 2,41). La seconda lettura mostra il modello di questo cammino di salvezza: Cristo. Il Cristo che ha sofferto la passione e la morte lascia ai suoi seguaci un tracciato affinché seguano le sue orme (1 Pt 2,21). Così essi, come pecore prima smarrite, possono tornare al loro pastore e custode (1 Pt 2,25). Il vangelo ribadisce che Cristo è la porta attraverso cui deve passare il cammino del discepolo: si tratta di un cammino spirituale di ascolto, sequela e conoscenza del Signore.

    La rivelazione di Gesù quale pastore diviene anche giudizio di chi è ladro, brigante, estraneo. Se il pastore Gesù è venuto per dare la vita e perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza, ladri e briganti invece vengono per «rubare, sacrificare (CEI: uccidere) e far perire» (Gv 10,10). Di costoro Gesù dice che «sono venuti prima di me», ma questo non va inteso in senso cronologico, quasi che si riferisse ai personaggi della prima alleanza. Ignazio di Antiochia ha compreso bene: «Cristo è la porta del Padre, attraverso la quale entrano Abramo, Isacco e Giacobbe, i profeti, gli apostoli e la chiesa» (Ai Filadelfiesi IX, 1). Si tratta invece dei falsi messia che si presentano agli uomini avanzando la pretesa di essere dei salvatori: quand’anche venissero dopo (cronologicamente) rispetto a Gesù, essi rientrerebbero nel novero degli usurpatori qui intravisti. Il criterio discriminante che dice l’autenticità della missione è nel sottrarre per sé o nel donare, nel portare morte o nel portare vita. In particolare viene condannato il sacrificare: ovvero, il togliere vita in nome di Dio, il servirsi delle persone per fini religiosi fino ad annientarle, l’usare il nome di Dio e la religione per fare violenza, il togliere la libertà alle persone dando forma nuova agli antichi sacrifici umani.

Ladro e brigante è chi si erge a padrone del gregge considerando «sue» le persone che appartengono a Cristo. Il Sal 100 recita: «Riconoscete che il Signore è Dio, è lui che ci ha fatto e non noi, noi siamo suo popolo e gregge del suo pascolo» (Sal 100,3). Non noi, ma tu, Signore; non io, ma tu, Signore. Questa confessione della nostra radicale povertà – non io, ma tu -, è anche la condizione della preghiera, il movimento della fede e dell’amore che nasce dalla rivelazione che Gesù, il Cristo crocifisso e risorto, è il pastore delle pecore.          Gesù si autodefinisce porta delle pecore, cioè per le pecore, non porta del recinto. Il termine «recinto» è espresso in greco dal vocabolo aule che si riferisce normalmente non a un ovile, ma al vestibolo davanti al tabernacolo o al Tempio (Es 27,9; 2Cr 6,13; 11,16; Ap 11,12). Ovvero, la porta che immette nella comunione con Dio non è il tempio di Gerusalemme, ma il Cristo morto e risorto. Se Cristo è la porta che conduce alla salvezza (Gv 10,9) e se la porta fa parte dell’edificio a cui permette l’accesso, Gesù è al tempo stesso il mediatore della salvezza e la salvezza stessa. Gesù è la Via verso il Padre, ma è anche la Vita (Gv 14,6): in Gesù troviamo la vita del Padre. Il pastore «fa uscire» le sue pecore (10,3: Vulgata: educit). 

Il pastore immette in un cammino di esodo, dunque di liberazione. Compito del pastore è educare alla libertà. Egli chiama per nome ciascuna delle sue pecore e le educa conducendole a vivere in nome proprio. L’educazione è il luogo dell’assunzione della responsabilità nei confronti di chi viene dopo di noi; è uno degli aspetti del ministero.

 

Preghiere e racconti

L’arte paleocristiana che fiorisce nelle catacombe si radica nel mondo ebraico che rifiuta l’immagine, ma si sviluppa nell’ambiente romano fortemente figurativo. In questo clima l’esigenza espressiva del cristianesimo si risolve nell’uso dei simboli, immagini che esprimono le realtà spirituali, tratte sovente del mondo ellenistico romano, ma interpretate in senso cristiano. Tra questi il BUON PASTORE, immagine frequente nel repertorio mitologico artistico romano, auspicio di pace per i defunti. Entrato nel simbolismo cristiano venne molto utilizzato nella pittura dei cubicoli, nei sarcofagi e anche nelle epigrafi, segno dell’anima portata nella pace, da Cristo pastore puro. Divenne presto l’immagine del Buon Pastore (o “Bel Pastore” secondo l’originale greco) che va in cerca della pecorella smarrita, usata da Gesù stesso nella parabola (Lc 15,3-7; Gv 10,11-16) per esprimere il suo amore di Salvatore.

 (Catacomba di Priscilla – Buon Pastore sec.II-in.III).

Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni

Cari fratelli e sorelle,in questa quarta Domenica di Pasqua, detta “del Buon Pastore”, si celebra la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che quest’anno ha per tema: “La testimonianza suscita vocazioni”, tema “strettamente legato alla vita e alla missione dei sacerdoti e dei consacrati” (Messaggio per la XLVII G. M. di preghiera per le vocazioni, 13 novembre 2009). La prima forma di testimonianza che suscita vocazioni è la preghiera (cfr ibid.), come ci mostra l’esempio di santa Monica che, supplicando Dio con umiltà ed insistenza, ottenne la grazia di veder diventare cristiano suo figlio Agostino, il quale scrive: “Senza incertezze credo e affermo che per le sue preghiere Dio mi ha concesso l’intenzione di non preporre, non volere, non pensare, non amare altro che il raggiungimento della verità” (De Ordine II, 20, 52, CCL 29, 136). Invito, pertanto, i genitori a pregare, perché il cuore dei figli si apra all’ascolto del Buon Pastore, e “ogni più piccolo germe di vocazione … diventi albero rigoglioso, carico di frutti per il bene della Chiesa e dell’intera umanità” (Messaggio cit.). Come possiamo ascoltare la voce del Signore e riconoscerlo? Nella predicazione degli Apostoli e dei loro successori: in essa risuona la voce di Cristo, che chiama alla comunione con Dio e alla pienezza della vita, come leggiamo oggi nel Vangelo di san Giovanni: “Le mie pecore ascoltano la mia voce ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano” (Gv 10,27-28).

(Benedetto XVI, Le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana del tempo pasquale, REGINA CÆLI, 25-04-2010).

 

Preghiera per le vocazioni sacerdotali

Signore Gesù, guida e pastore del tuo popolo,

tu hai chiamato nella Chiesa

San Giovanni Maria Vianney,

curato d’Ars, come tuo servo.

Sii benedetto per la santità della sua vita

e l’ammirabile fecondità del suo ministero.

Con la sua perseveranza

egli ha superato tutti gli ostacoli

nel cammino del sacerdozio.

Prete autentico,

attingeva dalla Celebrazione Eucaristica

e dall’adorazione silenziosa

l’ardore della sua carità pastorale

e la vitalità del suo zelo apostolico.

Per sua intercessione:

Tocca il cuore dei giovani

perché trovino nel suo esempio di vita

lo slancio per seguirti con lo stesso coraggio,

senza guardare indietro.

Rinnova il cuore dei preti

perché si donino con fervore e profondità

e sappiano fondare l’unità delle loro comunità

sull’Eucaristia, il perdono e l’amore reciproco.

Fortifica le famiglie cristiane

perché sostengano quei figli che tu hai chiamato.

Anche oggi, Signore, manda operai alla tua messe,

perché sia accolta la sfida evangelica del nostro tempo.

Siano numerosi i giovani che sanno fare

della loro vita un «ti amo» a servizio dei fratelli,

proprio come San Giovanni Maria Vianney.

Ascoltaci, o Signore, Pastore per l’eternità. Amen.

(Mons. Guy Bagnard, vescovo di Belley-Ars).

La nostra incapacità di ascoltare la buona novella di Dio

Ritengo che uno dei motivi per cui molti di noi non assimilano realmente questo messaggio di incondizionato amore divino, sia che ci soffermiamo eccessivamente su noi e sui nostri errori. Ci domandiamo senza sosta: chi sono perché il Signore mi ami? E invece dovremmo chiederci: chi sei mio Dio, per amarmi così tanto? Il Signore sa ed accetta il fatto che gli uomini sbaglino, perché tale è la condizione umana, ma dentro di noi c’è qualcosa che, come Simon Pietro, continua a protestare: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore. Sono certo che non mi vuoi Vicino” (cfr. Lc 5,8).

La Parola di Dio ci ricorda che Dio ha inviato suo Figlio nel mondo non per condannare ma per amarci sottraendoci all’egoismo e dandoci la pienezza della vita (cfr. Gv 3,16-17). La Parola di Dio ci assicura che Gesù viene come ambasciatore del Padre, come Medico Divino, proprio perché siamo distrutti, contorti e malati. Gesù viene come Buon Pastore proprio perché gli esseri umani si perdono; viene a cercarci perché ci vuole con lui, perché vuole stringerci fra le sue braccia e festeggiare la gioia di averci trovato e di averci nuovamente accanto a lui.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 52-53).

Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo

«Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore» (10,14s). In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto. La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore. La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre. I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù. Allora potremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro. Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.

Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo. Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione empirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo. L’uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio. Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.

La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comunione della conoscenza e dell’amore di Dio. Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinitario.

L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre. «La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità.

Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre. Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».

(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).

Il Signore è il mio pastore

     La Chiesa parla a Cristo: «II Signore mi conduce al pascolo e nulla mi mancherà» [Sal 22 (23), 1 ss.], il Signore Gesù Cristo è il mio pastore e nulla mi mancherà. «Mi ha posto nel luogo del pascolo», nel luogo dove inizia il pascolo mi ha condotto alla fede, qui mi ha posto per darmi nutrimento. «Presso acque di refrigerio mi ha allevato». Mi ha allevato con l’acqua del battesimo, in cui sono ristorati quanti hanno perduto l’integrità e le forze. Ha convertito la mia anima. Mi ha guidato su sentieri di giustizia a motivo del suo nome». Mi ha guidato negli stretti sentieri della sua giustizia che pochi percorrono e non a motivo dei miei meriti, ma a motivo del suo nome. «Infatti anche se camminassi in mezzo all’ombra della morte», cioè anche quando cammino in mezzo a questa vita, che è ombra di morte, «non temerò il male, perché tu sei con me», non temerò il male perché tu, grazie alla fede, abiti nel mio cuore, e ora sei con me affinché, dopo l’ombra della morte, io sia con te. «La tua verga e il tuo bastone, proprio loro mi hanno consolato». I tuoi insegnamenti sono come verga per il gregge delle pecore e come bastone per i figli ormai grandi che da una vita animale crescono fino a quella spirituale; non mi hanno rattristato, anzi da essi sono stato consolato perché tu ti ricordi di me. «Hai preparato una tavola dinanzi a me, di fronte a coloro che mi perseguitano». Dopo la verga con la quale io, piccolo e ancora animale ero condotto ai pascoli con il gregge, dopo quella verga, quando ho cominciato ad essere sotto il bastone, hai preparato una tavola davanti a me affinché io non sia più nutrito come un bambino con il latte, ma prenda il cibo come un adulto, reso saldo dinanzi a quelli che mi fanno soffrire. «Hai effuso olio sul mio capo», hai allietato la mia mente con la gioia spirituale. «E il tuo calice inebriante quanto è eccellente!», e il tuo calice che da l’oblio delle vanità passate, quanto è eccellente! «E la tua misericordia mi accompagnerà tutti i giorni della mia vita», cioè per quanto a lungo vivrò in questa vita mortale non tua, ma mia. «E affinché abiti nella casa del Signore per la lunghezza dei giorni», mi accompagnerà non soltanto qui, ma fino a quando abiterò nella casa del Signore in eterno.

(AGOSTINO DI IPPONA, Esposizione sul salmo 22, Opere di sant’Agostino XXV, pp. 312-314).

Il prete piccolo e grande

Un prete dev’essere contemporaneamente piccolo e grande,

nobile di spirito come di sangue reale,

semplice e naturale come di ceppo contadino,

una sorgente di santificazione,

un peccatore che Dio ha perdonato,

un servitore per i timidi e i deboli,

che non s’abbassa davanti ai potenti ma si curva davanti ai poveri,

discepolo del suo Signore,

capo del suo gregge,

un mendicante dalle mani largamente aperte,

una madre per confortare i malati,

con la saggezza dell’età e la fiducia d’un bambino,

teso verso l’alto,

i piedi sulla terra,

fatto per la gioia,

esperto del soffrire,

lontano da ogni invidia,

lungimirante,

che parla con franchezza,

un amico della pace,

un nemico dell’inerzia,

fedele per sempre…

Così differente da me!

     (Anonimo).

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta                                            

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau),

Preghiera

Gesù, pastore e pascolo dei tuoi fedeli,

guida sicura e sentiero di vita,

tu che conosci tutti per nome e ci chiami ogni giorno a uno a uno,

rendici capaci di riconoscere la tua voce,

di sentire il calore della tua presenza che ci avvolge,

anche quando la strada è angusta, impraticabile,

e la notte profonda, interminabile.

Seguendoti senza resistenze e senza paure,

giungeremo ai prati verdeggianti,

alle fresche sorgenti della tua dimora,

dove tu ci farai bere e riposare.

 

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

   PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA IV DOMENICA DI PASQUA (A)

PASQUA DI RISURREZIONE

Prima lettura: Atti 10,34a.37-43

In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui.  E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.

     E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».

 

Il discorso in casa di Cornelio è l’ultimo dei discorsi cristologici di Pietro nel libro degli Atti (cf. 2,12-36; 3.11-26; 4,8-22).

    La catechesi su Gesù è ancora sulle sue linee essenziali: «consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret», cioè investito dello Spirito di Dio (battesimo) e insignito di particolari poteri taumaturgici Gesù si era presentato a Israele. Partendo dalla Galilea aveva percorso «tutta la Giudea».

    L’opera di Gesù è riassunta da pochi verbi; qualcuno di meno di quelli di Mt 4,23: «passò» per le contrade della Palestina, «beneficando» e «risanando» gli uomini dalle possessioni diaboliche ovvero dalle loro malattie. Sono omessi i due verbi di Matteo «predicava» e «insegnava nelle loro sinagoghe».

    Ma il suo agire dimostrava che «Dio era con lui», in altre parole era l’«Emmanuele» predetto dal profeta Isaia (7,14), traduceva con i fatti la bontà di Dio in mezzo agli uomini.

     Gesù ha svolto la sua missione davanti a tutto il popolo poiché davanti a tutti ha parlato e compiuto i suoi prodigi, ma per quanto riguarda il prodigio conclusivo e dimostrativo della sua missione, la risurrezione dai morti, ha voluto un gruppo scelto di testimoni con i quali si è a lungo trattenuto, dando sufficienti prove della realtà del suo nuovo stato di vita.

     Gli apostoli sono quelli che possono attestare la sopravvivenza di Gesù dopo che i nemici l’avevano messo in croce. Essi l’hanno visto prima di morire e l’hanno rivisto vivo dopo la morte; possono perciò assicurare che è risorto, che non è rimasto nella tomba.

     La sorte di Gesù si è rovesciata; egli è stato giudicato e condannato, ma dalla risurrezione è diventato lui il giudice di tutti, di quanti sono attualmente vivi e di quelli che sono già morti. Tutti si sono confrontati o saranno chiamati a confrontarsi con lui per ricevere il premio o la condanna delle loro buone o cattive azioni. Se si vuole evitare un incontro spiacevole con lui occorre credere, cioè ripercorrere la strada che egli ha percorso.

     Pietro sta parlando in casa di Cornelio, un ufficiale romano, e ad ascoltarlo sono i suoi familiari, alcuni «congiunti e amici intimi» (10,14), tutta gente che non faceva parte del popolo della promessa, quindi della salvezza, ma si trattava di una discriminazione che con Gesù era destinata a cadere.

     L’apostolo l’aveva già intravisto nella visione avuta a Joppe (10,9-15) e compreso meglio dal racconto di Cornelio (10,30-35); ora ne ha una conferma dal cielo mentre gli è dato costatare che lo Spirito di Dio sta discendendo su coloro che l’ascoltavano, per la maggior parte incirconcisi.

     Era la Pentecoste dei gentili che richiamava quella sui rappresentanti d’Israele che era già avvenuta (At 2,1-12).

 

Seconda lettura: Colossesi 3,1-4

Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.   

 

La comunità di Colossi è alle prese con i primi confronti o le prime contaminazioni con la cultura del mondo circostante, giudaico e greco.

     I giudei dell’Asia minore, alla pari dei greci, parlano di potenze cosmiche intermedie tra Dio e gli uomini, di signorie, potestà, dominazioni. Per l’autore esse possono rimanere solo che siano subordinate all’unico Signore, Cristo (1,15-20; 2,9-15).

     Gesù ha affrancato l’uomo da qualsiasi giogo, come lo ha reso libero da rituali inutili, da «feste, noviluni, sabati», «cibi e bevande» (2,8,16-17).

     Il cristiano è chiamato a ripercorrere il cammino di Cristo, un’esperienza di morte e di vita, di mortificazione e di risurrezione. Si tratta di morire agli «elementi di questo mondo», di finire con tutte quelle pratiche, astinenze imposte in nome di un’«affettata», falsa «religiosità, umiltà e austerità riguardo al corpo» (2,23).

     Il cristiano è un uomo nuovo e il suo mondo non è tanto di quaggiù, quanto del cielo, di lassù. Nel battesimo egli è disceso nel fonte e risalendo ha lasciato nell’acqua la sua vecchia appartenenza con tutte le sue inclinazioni peccaminose e ha assunto l’immagine del Cristo glorioso.

     Egli vive ancora sulla terra ma è un essere di un altro mondo, per questo deve assumere comportamenti degni della sua nuova condizione. Occorre «cercare» e «pensare alle cose di lassù», ciò che è consono con il mondo e il modo di vivere del Cristo risorto.

     L’autore non specifica quali sono le cose di lassù e quali quelle della terra, ma lo dice subito dopo quando chiede di «mortificare quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi» che designa con il termine «vizi». E aggiunge: «Voi deponeste tutte queste cose, ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene» (3,5-8). Tutte azioni che appartenevano, è detto sinteticamente, all’«uomo vecchio» in contrapposizione al l’«uomo nuovo che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore» (3,9-10).

     I comportamenti dell’uomo nuovo che si avvicina a quello celeste sono invece caratterizzati da «sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Al di sopra di tutto vi è poi la carità che è il vincolo di perfezione» (3,12-14).

     La vita cristiana è sempre un preludio di quella celeste che è segnata dal Cristo glorificato. Allora verrà sublimata anche quella di coloro che credono in lui.

     La vita terrestre si spiega solo alla luce della sua apoteosi celeste.

 

Vangelo: Giovanni 20,1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.  Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».

Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.  Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.  Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

 

Esegesi 

   Gli evangelisti sinottici parlano delle donne che si recano al sepolcro di buon mattino per compiere i riti sul cadavere di Gesù; Giovanni incentra l’attenzione su una donna particolare: Maria di Magdala. Ella trova la pietra rimossa e ne deduce che il corpo è stato trafugato e corre ad avvertire Pietro e il discepolo prediletto, che la tradizione identifica con l’evangelista Giovanni.

     Questi si portano immediatamente al sepolcro, al quale giunge per primo il discepolo più giovane. Egli da uno sguardo fugace all’interno, vede le bende abbandonate, ma, per deferenza verso il più anziano, non entra e lo aspetta sulla soglia. Pietro entra nella cella mortuaria e vede le bende e il sudario «avvolto» a parte. Il vangelo di Giovanni non parla delle sue reazioni. Luca (24,12) dice che tornò indietro pieno di stupore (thaumazo in greco, verbo che indica grande perplessità).

     «Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8). Che cosa vide? non è il vedere di Tommaso (Gv 21,29), ma il vedere interiore. Egli di fronte al sepolcro vuoto non pensa, come la Maddalena, che hanno trafugato il cadavere o non sospende il giudizio come Pietro, ma crede sulla Parola di Gesù, a sua volta fondata sulla tradizione delle Scritture ebraiche. Il frutto della comprensione delle Scritture è il credere; non, però, un frutto «automatico», ma dono dello Spirito, che raggiunge le persone in modo misterioso ed è accolto da ciascuno in maniera diversa. Anche la Maddalena e Pietro avevano avuto comunanza con Gesù e conoscevano le Scritture, ma a loro non basta ancora per credere dinanzi al sepolcro vuoto. Essi «non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,9).

 

Meditazione 

    L’annotazione temporale di Gv 20,1, con cui inizia il testo evangelico proclamato nel giorno di Pasqua, ci offre un simbolico aggancio con la veglia notturna in cui abbiamo ripercorso il cammino della storia della salvezza per giungere a contemplare il volto del Cristo risorto. L’annuncio pasquale è risuonato in tutta la sua straordinaria forza e ha squarciato le tenebre: «Cristo è risorto dai morti – così canta il tropario della liturgia bizantina – e con la morte ha calpestato la morte, donando la vita a coloro che giacevano nei sepolcri». Ora siamo anche noi nel «primo giorno della settimana» e come credenti siamo chiamati ad entrare nel dinamismo di questo giorno che segna il passaggio dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce: «la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo… – canta il salmo 117 – Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo».

     La liturgia della Parola di questo giorno richiama con forza la nostra realtà di testimoni del Risorto: la Pasqua di Cristo, quel giorno mirabile che solo il Signore ha potuto fare, diventa il ritmo del nostro tempo. Camminare così nella esistenza quotidiana è veramente passare dalla morte alla vita, è fare Pasqua ogni giorno e vivere sempre radicati sul terreno della nostra fede. Potremmo allora cogliere nelle tre letture altrettante modalità che caratterizzano la testimonianza del discepolo di Cristo in rapporto alla fede pasquale: una testimonianza che diventa annuncio (At 10,37-43), una testimonianza che si trasforma in attesa (Col 3,1-4) e una testimonianza che si nutre di fede (Gv 20,1-9).

     La testimonianza che Pietro offre nella casa del pagano Cornelio è mediata da una parola proclamata, gridata, da un annuncio: «questa è la Parola che egli ha inviato ai figli di Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti» (At 10,36). La parola inviata e l’evangelo della pace hanno un volto: Gesù. E Pietro concentra la sua attenzione sul racconto di Gesù, un vangelo in miniatura in cui vengono scandite le tappe essenziali della vicenda terrena di Gesù di Nazaret, «il quale passò beneficando e risanando… perché Dio era con lui» (v. 38). Il nucleo centrale di questo evangelo è scandito da tre verbi che rivelano la dinamica del mistero pasquale (il centro del kerigma proclamato dalla comunità apostolica): «lo uccisero appendendolo ad una croce, ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che si manifestasse… a testimoni prescelti da Dio, a noi…» (vv. 39-41). L’incontro personale con il Risorto (che Pietro caratterizza attraverso una comunione di mensa: «abbiamo mangiato e bevuto con lui», v. 41) dona autorevolezza alla testimonianza e questa diventa il fondamento dell’annuncio: «ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio» (v. 42). Si diventa annunciatori del Risorto e della sua signoria sulla storia, della vita nuova che egli comunica, solo perché si è testimoni di Lui.

     Ma nella vita quotidiana del credente, la testimonianza del Risorto acquista una paradossale profondità: si trasforma in quella luminosa promessa espressa con la parola di Paolo in Col 3,3-4: «…voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria». Commentando questo versetto, D. Bonhoeffer dice: «Vicinissimo a noi, là dove, nel suo maestoso nascondimento, Dio è tutto in tutto, dove il Figlio siede alla destra del Padre, là, il miracolo dei miracoli, si trova preparata la nostra vera vita. La nostra vita è nascosta con Cristo in Dio: sì, noi viviamo già come a casa nostra, al cuore stesso del nostro esilio». Paolo indica così al credente in quale direzione deve orientare la propria esistenza, la propria ricerca, in quale luogo deve fissare lo sguardo del proprio cuore: «se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù… rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (vv. 1-2). Noi sappiamo che il nostro sguardo si lascia catturare e trascinare verso il basso: ed è proprio lì che noi incontriamo i tanti luoghi di morte che riempiono i nostri occhi e il nostro cuore di tristezza. E alla fine, procedere con gli occhi bassi vuol dire camminare senza

direzione. È necessaria una meta su cui fissare lo sguardo. E Paolo ci dice che questa meta è in alto, verso un luogo simbolico, lì «dove è Cristo seduto alla destra di Dio» (v. 1), lì dove il Signore Gesù ci ha preparato un posto, nella casa del Padre. Cercare le cose di lassù vuol dire desiderare questo luogo di comunione, sentirlo come la nostra vera casa, dove siamo figli liberi e amati.

     Il testo di Gv 20,1-9 ci presenta tre modi di reagire di fronte a un segno misterioso: la tomba vuota. In modi differenti ci offrono una testimonianza che precede l’incontro con il Risorto, una testimonianza che si radica sulla fede. Maria di Magdala è la prima che si avvicina al sepolcro «quando era ancora buio» (v. 1 ). È la prima che ha il coraggio di lasciarsi provocare da una realtà che conserva ancora tutta la dimensione dell’assurdo e dello scandalo. Maria è stata ai piedi della croce; ha resistito di fronte allo spettacolo della croce, ha sopportato il silenzio della morte (cfr. 19,25). È ancora buio attorno a lei: c’è ancora pau-ra e angoscia, fallimento e incomprensione. È ancora buio dentro di lei: c’è solitudine e smarrimento. Ma Maria ha un desiderio: cercare il suo Maestro (cfr. 20,13.16). E chi cerca ama. E anche se il suo amore deve maturare nell’incontro con un volto inatteso e nuovo, diverso da quello che lei vorrebbe vedere e trattenere, tuttavia è vero amore: si sente coinvolta completamente da esso, sente che la sua vita è vuota senza la presenza di Cristo. Pietro è il credente la cui fede è continuamente chiamata a compiere salti di qualità, a percorrere vie nuove; e per questo a volte fatica scontrandosi con la propria debolezza e la pro-pria presunzione. Nel suo cuore c’è la ferita bruciante del rinnegamento: non ha saputo vegliare un’ora sola con Gesù, non ha sopportato la vista dello scandalo della croce. Ma nel suo cuore c’è come una nostalgia: c’è il ricordo di quel giorno in cui, avendo avuto la possibilità di abbandonare il suo maestro, non l’ha fatto; anzi ha detto «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,69). Ma, soprattutto, nel cuore di Pietro c’è il ricordo della fiducia che Gesù ha posto in lui: lo ha fatto testimone in mezzo ai fratelli, nonostante tutto! E dopo il rinnegamento, con il suo sguardo di perdono, Gesù rinnoverà questa fiducia (cfr. 21,15-19). E ora Pietro corre con questi pensieri, con questa fede e questi dubbi, con queste paure ed esitazioni. E forse per questo non riesce a correre forte: la sua corsa non è incerta, sa dove andare e sa cosa vuole vedere; ma questa corsa è appesantita, affaticata. Ha bisogno di incontrare nuovamente quello sguardo dal quale aveva avuto inizio il suo cammino e con il quale verrà nuovamente confermato nella sua fede. Ed infine, il discepolo amato. È colui che sa vedere e per questo crede. La sua corsa è veloce; è la corsa di chi ha lo sguardo interiore penetrante, di chi intuisce una novità, di chi si lascia abitare dal mistero. Prima ancora di incontrare il Risorto, alla vista delle bende e del sudario, il suo sguardo va oltre: supera l’abisso dell’assenza, afferma, nel vuoto della tomba, che Cristo ha vinto ciò che appartiene al tempo, sa decifrare il linguaggio dei segni, scopre una misteriosa presenza. E per que-sto diventa il testimone nella lunga attesa perché, con il suo sguardo che va oltre, potrà indicare ai discepoli questa presenza finché il Cristo ritorni (cfr. 21,22).

     Maria, colei che ama; Pietro, il credente; il discepolo amato, colui che vede e vigila: tre modi diversi di camminare incontro al Risorto e di testimoniarlo nella fede. Ma tutti uniti da un unico desiderio: quello dell’incontro. E capaci di lasciarsi coinvolgere da questo incontro, capaci di essere testimoni della risurrezione; perché capaci di lasciare convertire la loro vita dal Risorto. Non ogni esistenza è liberata dalla morte, sottratta dalla vanità, ma soltanto quella che ripercorre il cammino tracciato dal Crocefisso e Risorto; solo una vita donata conduce alla risurrezione. Una vita gelosamente trattenuta non vince la morte, ma va incontro a una seconda morte. A Pasqua si celebra la vittoria di un preciso modo di vivere: di colui che ama il Risorto, di colui che crede nel Risorto, di colui che sa vedere oltre, nella luce del Risorto.

 

Preghiere e racconti

Per il mattino di Pasqua

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Andrò in giro per le strade

zuffolando, così,

fino a che gli altri dicano: è pazzo!

E mi fermerò soprattutto coi bambini

a giocare in periferia,

e poi lascerò un fiore                                    

ad ogni finestra dei poveri

e saluterò chiunque incontrerò per via

inchinandomi fino a terra.

E poi suonerò con le mie mani

le campane sulla torre

a più riprese

finché non sarò esausto.

E a chiunque venga

– anche al ricco – dirò:

siedi pure alla mia mensa

(anche il ricco è un povero uomo).

E dirò a tutti:

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

II

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Tutto è suo dono

eccetto il nostro peccato.

Ecco, gli darò un’icona

dove lui – bambino – guarda

agli occhi di sua madre:

così dimenticherà ogni cosa.

Gli raccoglierò dal prato

una goccia di rugiada

– è già primavera

ancora primavera

una cosa insperata

non meritata

una cosa che non ha parole;

e poi gli dirò d’indovinare

se sia una lacrima

o una perla di sole

o una goccia di rugiada.

E dirò alla gente:

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

III

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Non credo più neppure alle mie lacrime,

queste gioie sono tutte povere:

metterò un garofano rosso sul balcone

canterò una canzone

tutta per lui solo.

Andrò nel bosco questa notte

e abbraccerò gli alberi

e starò in ascolto dell’usignolo,

quell’usignolo che canta sempre solo

da mezzanotte all’alba.

E poi andrò a lavarmi nel fiume

e all’alba passerò sulle porte

di tutti i miei fratelli

e dirò a ogni casa: «pace!»

e poi cospargerò la terra

d’acqua benedetta in direzione

dei quattro punti dell’universo,

poi non lascerò mai morire

la lampada dell’altare

e ogni domenica mi vestirò di bianco.

IV

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

E non piangerò più

non piangerò più inutilmente;

dirò solo: avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso

poi non dirò più niente.

(D. M. TUROLDO, O sensi miei…, Milano, Rizzoli, 1993).

Il giorno di Pasqua

Restiamocene tranquilli, a occhi chiusi, un istante prima che si levi l’alba del giorno della Risurrezione. È ancora notte fonda, ma già in due o tre case di Gerusalemme c’è qualcuno in movimento. Lumi che si accendono, donne frettolose che si pettinano e vestono. Il Sabato è finito, ed una stella incomparabile, approfittando di tutto quel firmamento che sta abdicando attorno a lei, irradia il volto della nostra prima domenica. Il gallo del calzolaio si prepara ad accettare la sfida che gli è stata lanciata dal compagno dell’altra sponda del Cedron. Non è più la Pasqua degli Ebrei: è la Pasqua dei cristiani! Guardate, ascoltate! Nel silenzio ebraico, all’incrocio di tre strade, avviene un incontro di donne velate che si interrogano sottovoce: «Chi toglierà per noi la pietra dal sepolcro?». Chi la toglierà? Il profumo che esse portano con loro si incarica di rispondere! E così la speranza irresistibile che è nel loro cuore, e l’emanazione di ingredienti mistici nel cuor della notte, preparati dalle mani stesse dell’aurora. Secoli riuniti, santa composizione, la cui dilatazione progressiva come ha poco fa vinto il sonno, così ora si mette in marcia per trionfare della morte! Degli altri avvenimenti di quell’immensa mattina, l’eco smarrita e incoerente dei quattro Vangeli fa ancora risuonare, ad ogni nuova primavera, tutte le chiese della cristianità.

(P. CLAUDEL, Credo in Dio, Torino, SEI, 1964).

Sulle tracce di Gesù

II punto cruciale di questo cammino sta nel riconoscere che il Gesù risorto, che compie i desideri dell’uomo, è ancora il Gesù crocifisso, che ha affidato al Padre il compimento dei propri desideri. Ha uniformato la propria volontà alla volontà del Padre. Ha accettato di perdere la propria vita sulla croce, per compiere la missione di proclamare all’uomo peccatore e separato da Dio che il Padre non lo abbandona al fallimento, non lo rifiuta anche se è rifiutato; anzi gli dona il proprio Figlio, per mostrare che neppure il peccato impedisce a Dio di amare l’uomo e di attirarlo a sé in un gesto di perdono, che vince il peccato e la morte.

Tutto questo è implicitamente contenuto nel grido del discepolo prediletto, che rompe il silenzio del mattino: «E il Signore» (Gv 21,7). Questa espressione, infatti, rievoca le professioni di fede della Chiesa primitiva. Gesù, che si è umiliato nella morte, in obbedienza al Padre e per amore degli uomini, è stato glorificato dal Padre ed è stato proclamato Signore, cioè colui che reca pienamente in sé la forza d’amore e di salvezza che è propria di Dio stesso.

Gesù manifesta la sua capacità e volontà di comunicare agli uomini l’amore salvifico del Padre anche attraverso un gesto simbolico. Egli mangia con i discepoli.

L’umile, quotidiano gesto del mangiare è ricco di potenzialità espressive. Può prestarsi a esprimere la comunicazione di beni sempre più grandi e misteriosi, che approfondiscono il bene fisico del cibo e il bene psicologico della conversazione, scambiati durante il pasto comune.

Gesù assume questo gesto umano e lo carica di prodigiose potenzialità. Il pasto descritto nel cap. 21 di Giovanni non risulta essere un convito propriamente eucaristico. Rievoca però il convito di Jahvè col popolo degli ultimi tempi, annunciato nell’Antico Testamento. Si ricollega ai conviti messianici fatti da Gesù con i discepoli o con le folle. Allude all’ultima cena o ad altri conviti di Gesù risorto, che hanno caratteri più propriamente e chiaramente eucaristici e comportano quindi il trapasso del generico simbolismo conviviale nella reale comunione col Signore, che si rende presente trasformando il pane e il vino nella vita e misteriosa realtà del corpo donato e del sangue versato.

(C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, 258-259).

Cantiamo: Alleluia!

Bisogna che «questo corpo corruttibile» – non un altro – «si rivesta di incorruttibilità, e questo corpo mortale» – non un altro – «si rivesta di immortalità. Allora s’avvererà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria». Cantiamo: Alleluia! «Allora si avvererà la parola della Scrittura», parola di gente non più in lotta, ma in trionfo: «La morte è stata inghiottita nella vittoria». Cantiamo: Alleluia! «Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Cantiamo: Alleluia! (cfr. 1Cor 15,53-55). […] Cantiamo «Alleluia» anche adesso, sebbene in mezzo a pericoli e a prove che ci provengono sia dagli altri sia da noi stessi. Dice l’Apostolo: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze» (1Cor 10,13). Anche adesso, dunque, cantiamo «Alleluia». L’uomo resta ancora preda del peccato, ma Dio è fedele. E non si dice che Dio non permetterà che siate tentati, ma: «Non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze; al contrario, insieme con la tentazione, vi farà trovare una via d’uscita perché possiate reggere». Sei in balìa della tentazione, ma Dio ti farà trovare una via per uscirne e non perire nella tentazione. […]

Oh! Felice alleluia quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena sicurezza, senza alcun avversario! Lassù non ci saranno nemici, non si temerà la perdita degli amici. Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente tribolata, là da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speranza, lassù nella realtà; qui in via, lassù in patria. Cantiamo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere la gioia del riposo, ma per procurarci un sollievo nella fatica. Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia. Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, nella retta fede, in una vita buona.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 256,2-3, NBA XXXII/2, pp. 816-818).

Pasqua è…

Credere che anche i ladroni possono andare in Paradiso. Dico ladroni perché mi pare che aggiungere “buoni” sia pleonastico.

È credere che in tre giorni possono accadere cose che non sono accadute in trenta secoli.

È credere che i soldi non comprano mai nessuno e se  lo comprano è per distruggerlo.

È credere che anche gli amici veri possono tradire altri amici veri. La causa: troppa sicurezza nel reputarsi “veri”.

È accettare di iscrivere il dolore dentro la storia della nostra vita, accettarlo come compagno. C’è un dolore che annulla l’uomo e c’è un dolore che annulla gli errori dell’uomo.

È uscire dalla metropoli e percorrere i sentieri oltre le mura: sentieri di silenzio, faticosi, scoscesi, puliti, stretti.

È credersi Giuda e Pietro, cireneo e soldato, Pilato e Maddalena, sepolcro e giardino, terremoto e sindone, legno e sangue, mors e alleluja.

È smettere di farsi parola per incominciare a farsi pane, vino, mensa, cenacolo, fuoco, amore.

È incontrarsi con il giardiniere e scoprirlo Cristo; incontrarsi con un viandante e scoprirlo Cristo; incontrarsi con i vecchi compagni e scoprirli Cristo; incontrarsi con i pescatori e …mangiare con Cristo.

È asciguarsi il volto pieno di lacrime e …meravigliarsi che dalle lacrime possano nascere …le risurrezioni.

(Antonio Mazzi).

Andate presto, andate a dire…

Voi che l’avete intuito per grazia

correte su tutte le piazze

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che la notte è passata.

Andate a dire che per tutto c’è un senso.

Andate a dire che l’inverno è fecondo.

Andate a dire che il sangue è un lavacro.

Andate a dire che il pianto è rugiada.

Andate a dire che ogni stilla è una stella.

Andate a dire: le piaghe risanano.

Andate a dire: per aspera ad astra.

Andate a dire: per crucem ad lucem.

Voi, che lo avete intuito per grazia,

correte di porta in porta

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che il deserto fiorisce.

Andate a dire che l’Amore ha ormai vinto.

Andate a dire che la gioia non è sogno.

Andate a dire che la festa è già pronta.

Andate a dire che il bello è anche vero.

Andate a dire che è a portata di mano.

Andate a dire che è qui, Pasqua nostra.

Andate a dire che la storia ha uno sbocco.

Andate a dire: liberate, lottate.

Andate a dire che ogni impegno è un culto.

Voi, che lo avete intuito per grazia,

correte, correte per tutta la terra

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che ogni croce è un trono.

Andate a dire che ogni tomba è una culla.

Andate a dire che il dolore è salvezza.

Andate a dire che il povero è in testa.

Andate a dire che il mondo ha un futuro.

Andate a dire che il cosmo è un tempio.

Andate a dire che ogni bimbo sorride.

Andate a dire che è possibile l’uomo.

Andate a dire, voi tribolati.

Andate a dire, voi torturati.

Andate a dire, voi ammalati.

Andate a dire, voi perseguitati.

Andate a dire, voi prostrati.

Andate a dire, voi disperati.

Andate a dire, comunque sofferenti.

Andate a dire, offerenti-sorridenti.

Andate a dire su tutte le piazze.

Andate a dire di porta in porta.

Andate a dire in fondo alle strade.

Andate a dire per tutta la terra.

Andate a dire gridandolo agli astri.

Andate a dire che la gioia ha un volto.

Proprio quello sfigurato dalla morte.

Proprio quello trasfigurato nella Pasqua.

Oggi, proprio ora, qui andate a dire.

Andate a dire.

Ed è subito pace.

Perché è subito Pasqua.

(Sabino Palumbieri, Via Paschalis, Elledici, 2000, pp. 28-29)

Quelli che fanno suonare le campane

Qualche mese fa, concludendo la visita pastorale in una parrocchia della mia diocesi, l’ultimo giorno andai in una scuola materna. C’erano tantissimi bambini di tre o quattro anni che si affollavano stupiti intorno a me: non mi conoscevano, mi vedevano come un personaggio esotico. La maestra chiese: “Bambini, sapete chi è il vescovo?”. Tutti diedero delle risposte. Uno disse: “E’ quello che porta il cappello lungo in testa”; un altro, chissà per quale associazione di immagini, disse una cosa bellissima che a me piacque tanto: “il Vescovo è quello che fa suonare le campane”. Forse mi aveva visto in processione, al suo paese, in qualche festa accompagnata dal tripudio delle campane. Il vescovo come colui che fa suonare le campane: è una definizione bellissima, forse poco teologica ma profondamente umana. Sarebbe bello che i vostri fedeli, i vostri amici, coloro che vi conoscono, potessero dare di voi una definizione così. Sarebbe bello che la gente dicesse di tutti noi che siamo “quelli che fanno suonare le campane”: le campane della gioia di Pasqua, le campane della speranza.

(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).

I macigni rotolati

Ricorrerò alla suggestione del macigno che la mattina di Pasqua le donne, giunte nell’orto, videro rimosso dal sepolcro. Ognuno di noi ha il suo macigno. Una pietra enorme, messa all’imboccatura dell’anima, che non lascia filtrare l’ossigeno, che opprime in una morsa di gelo, che blocca ogni lama di luce, che impedisce la comunicazione con l’altro. E’ il macigno della solitudine, della miseria, della malattia, dell’odio, della disperazione, del peccato. Siamo tombe alienate. Ognuna col suo sigillo di morte. Pasqua, allora, sia per tutti il rotolare del macigno, la fine degli incubi, l’inizio della luce, la primavera di rapporti nuovi, e se ognuno di noi, uscito dal suo sepolcro, si adopererà per rimuovere il macigno del sepolcro accanto, si ripeterà finalmente il miracolo del terremoto che contrassegnò la prima Pasqua di cristo. Pasqua è la festa dei macigni rotolati. E’ la festa del terremoto.

(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).

L’affidamento dell’uomo a Dio               

Nella Pasqua Gesù, da un lato, rivela il mistero dell’amore di Dio per l’uomo; dall’altro, celebra e attua nel modo umanamente più perfetto l’amore, l’obbedienza, l’affidamento dell’uomo a Dio. L’aspetto singolare, eccezionale, unico del sacrificio pasquale è che la rivelazione e la celebrazione – attuazione sono una sola cosa, così come nell’essere di Gesù, Dio e l’uomo, pur rimanendo distinti, diventano una sola cosa.

La Pasqua di Gesù, proprio perché è quella manifestazione-celebrazione dell’amore di Dio ora descritta, tende a raggiungere ogni uomo, sia per manifestargli l’amore di Dio, per annunciargli che il suo peccato è perdonato, per dargli speranza di vita e di gioia oltre la sofferenza e la morte, sia per attrarre ogni uomo nello stesso movimento di celebrazione del mistero, di adorazione di Dio, di conformazione alla volontà del Padre che ha animato tutta la vita di Gesù suggellata nella Pasqua.

L’eucaristia è appunto la modalità istituita da Gesù nell’ultima cena per attuare questa intrinseca intenzione salvifica della Pasqua.  

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol. II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94). 

Auguri di Pasqua

Fa’ di me, Signore, un arcobaleno di bene,

di speranza e di pace.

Un arcobaleno che per nessun motivo

annunci ingannevoli bontà,

speranze vane e false immagini di pace.

Un arcobaleno sospeso da Te nel cielo,

che annunci il tuo amore di Padre,

la risurrezione del tuo Figlio,

la meravigliosa azione del tuo Spirito Santo.

(H. Camera). 

«“Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione e vana anche la nostra fede” (1Cor 15,14). La risurrezione costituisce anzitutto la conferma di tutto ciò che Cristo stesso ha fatto e insegnato» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 651).
Tale evento avviene secondo le Scritture, realizza la speranza del mondo e determina un inizio qualitativamente nuovo della storia. È inoltre il frutto di un intervento potente di Dio il quale non abbandona la vita del giusto nella tomba e non permette che il suo santo veda la corruzione, ma gli indica il sentiero della vita perché possa avere gioia piena nella sua presenza, dolcezza senza fine alla sua destra (cf. Sal 16,10-11). L’azione di Dio inaugura un tempo nuovo e un nuovo ordine di cose che pone in crisi il passato: «Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17b).
Nella risurrezione di Gesù ha avuto infatti inizio la risurrezione escatologica di coloro che appartengono a Cristo perché “aspersi del suo sangue” e perché “rinati dall’acqua e dallo Spirito”, finché ciò che avvenuto nel Capo si realizzi pienamente in tutte le sue membra. Gesù del resto aveva detto: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà» (Gv 11,25), che vuol dire: «La comunione con Gesù è già ora risurrezione; dove si è stabilita la comunione con lui, è varcato qui e adesso il confine della morte…Ovunque l’uomo entri nell’Io del Cristo, egli è già entrato nello spazio della vita definitiva» (J. Ratzinger).
Ce lo ricorda Sant’Ambrogio il quale nella sua Spiegazione del Simbolo scrive: «Credi che risorgerà anche la carne! Infatti perché fu necessario che Cristo s’incarnasse? Perché fu necessario che Cristo salisse sulla croce? Perché fu necessario che Cristo soggiacesse alla morte, ricevesse la sepoltura e risorgesse, se non per la tua risurrezione? Tutto questo mistero è quello della tua risurrezione. Se Cristo non è risorto, la nostra fede è vana. Ma siccome è risorto, la nostra fede è saldamente fondata». Gli fa eco S. Agostino: «Ha guarito te dalla morte eterna là dove si è degnato di morire in senso temporale. Ed è morto, oppure in Lui è morta la morte? Che morte è, quella che uccide la morte?» (Commento al Vangelo di Giovanni 3,3).
 
Nel riquadro bronzeo della Porta di San Ranieri posta nel braccio meridionale del transetto della cattedrale di Pisa, Bonanno Pisano alla fine del XII sec. ha incastonato la scena della risurrezione di Cristo tra la formella della sua Discesa al Limbo e quella della sua Ascensione al cielo.
L’artista non ha tuttavia presentato Cristo risorto, né l’evento stesso della risurrezione, nascosto agli occhi degli uomini e custodito dal buio di quella notte “veramente beata” che sola meritò di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi (Preconio pasquale). Ciò che vediamo è invece l’edicola del sepolcro che sovrasta il sepolcro stesso sul quale è seduto un angelo che annuncia alle donne che giungono da sinistra la risurrezione del Signore: «Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto» (Mt 28,5-7).
Sotto il sepolcro le guardie ancora stordite sono assopite in un sonno profondo, simbolo della morte che è stata “ingoiata per la vittoria” (cf. 1Cor 15,54). Risuonano come non mai nel cuore della Chiesa, in questo giorno di luce, le parole della Sequenza pasquale: «Dimmi, Maria, cos’hai visto per via? Ho visto morire la morte. Ho visto il Signore risorto».
  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

PER APPROFONDIRE:

PASQUA DI RISURREZIONE (A)

PASSIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: Isaia 52,13-53,12

Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito. Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.

  Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

Il brano di Isaia che leggiamo oggi è uno dei brani scritturistici a cui la tradizione cristiana si è rivolta per tentare di capire più a fondo il mistero di Gesù che muore in croce.

     Esso è denominato come il quarto carme del Servo del Signore (cf. Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12).

     Questi carmi sono una delle diverse riflessioni teologiche della Bibbia di fronte al problema tremendo della sofferenza del giusto, che mette in causa direttamente Dio.

     «Il vocabolario (quarantasei hapax legomena [vocaboli che si incontrano soltanto in questo testo] del Deuteroisaia) lo stile, la veemenza dei contrasti e dei sentimenti fanno di questo carme, anche dal punto di vista letterario — nonostante le difficoltà testuali ed esegetiche — un gioiello dell’Antico Testamento. La figura del Servo, che rappresenta il popolo di Israele in esilio, ricapitola in sé i tratti più caratteristici degli eroi e profeti dell’Antico Testamento: Mosè, Geremia, Giobbe, però sorpassa tutti questi personaggi, divenendo una figura escatologica». (S. VIRGULIN, Isaia, Nuovissima versione della Bibbia, Ed. Paoline, 1968, 344). Gli evangelisti e più esplicitamente la tradizione cristiana interpretarono l’opera e la morte di Gesù alla luce di questo carme.

     – 52,13-15. Il Signore presenta il servo trionfante. Dall’umiliazione assoluta egli è chiamato all’esaltazione così da stupire i re e le nazioni.

     – 53,1-9. La sezione comincia con un interrogativo retorico per attirare l’attenzione. Le sofferenze del servo sono descritte nei particolari con grande efficacia. La sua sofferenza lo faceva ritenere un castigato da Dio, percosso e umiliato. Egli non è stato colpito per essere castigato, ma per la salvezza degli altri: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti…. il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti».

     – 10-12. «Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori». Si ribadisce di nuovo che quanto è avvenuto al servo è stato voluto da Dio, ma si aggiunge che Dio stesso riabiliterà ed esalterà il suo servo, che ha espiato i peccati altrui: «il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli».

 

Seconda lettura: Ebrei 4,14-16; 5,7-9

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno. [Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono. 

 

I due brani della lettera agli Ebrei scelti dalla liturgia di oggi presentano Gesù come sommo sacerdote, mediatore compassionevole per i nostri peccati. Non dobbiamo temere il giudizio divino, ci dice l’autore della lettera, stiamo saldi nella confessione della nostra fede e abbiamo fiducia in Gesù Cristo. Egli può capire la nostra debolezza avendo anche lui subito la prova della sofferenza.

     Dobbiamo quindi avere piena fiducia che avremo un aiuto opportuno per essere ascoltati da un giudice già propenso alla misericordia, presso il quale troveremo grazia. Assai efficace è l’immagine di accostarsi «al trono della grazia». Essa mi fa venire in mente una tradizione midrashica ebraica che narra che Dio per creare gli uomini si è alzato dal trono della giustizia per sedersi su quello della misericordia.

     Nei versetti 7-9 del capitolo 5, accostati direttamente dalla liturgia a 4,14-16 Gesù è presentato nel mistero della sua umanità e dell’abbassamento fino alla morte accettata in obbedienza a Dio, che poteva liberarlo e a cui aveva rivolto suppliche e grida. Dio lo ha esaudito, ma misteriosamente solo attraverso la prova suprema.

 

Vangelo: Giovanni 18,1-19,42

 – Catturarono Gesù e lo legarono

     In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi. Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».

– Lo condussero prima da Anna

Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno. Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».

Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote. Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro. E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono». Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava. Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento. Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto». Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?». Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?». Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.

– Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono! 

Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?». Egli lo negò e disse: «Non lo sono». Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?». Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.

– Il mio regno non è di questo mondo

Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?». Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato». Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno». Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.

Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?». E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.

– Salve, re dei Giudei!

Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi. Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna». Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».

Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».

All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».

– Via! Via! Crocifiggilo!

Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà. Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare». Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.

– Lo crocifissero e con lui altri due

Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».

– Si sono divisi tra loro le mie vesti

I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte». E i soldati fecero così.

– Ecco tuo figlio! Ecco tua madre!

Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.

– E subito ne uscì sangue e acqua

Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».

– Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi

Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù. 

 

Esegesi 

     La liturgia ci fa leggere oggi tutto il «libro della passione» di Giovanni, che inizia con l’andata di Gesù nel giardino (18,1) e termina al sepolcro nel giardino (19,41). L’inclusione sottolinea l’unità letteraria del racconto.

     All’interno di questa unità possiamo individuare cinque scene: 1. Gesù nel giardino e il suo arresto (18,1-11); 2. Gesù davanti ad Anna, episodio scandito all’esterno dalle negazioni di Pietro (18,12-27); 3. Gesù davanti a Pilato (18,28 19,16); 4. la crocifissione (19,17-30); 5. il colpo di lancia e la sepoltura (19,31-42).

     Molti elementi del racconto di Giovanni, oltre allo schema generale della passione, sono in comune con i sinottici, mi soffermo soltanto sugli elementi propri di Giovanni presenti in ciascuna delle sezioni individuate sopra.

     1. In 18,1-11: Gesù sa che cosa gli sta per accadere: si fa avanti spontaneamente e si rivela nella sua potenza. Alla sua risposta decisa: «Io sono» tutti indietreggiano e cadono a terra. Nonostante non si riesca a dare di ciò una spiegazione univoca, è evidente che l’evangelista vuole sottolineare il contrasto fra il coraggio di Gesù che si fa avanti, padrone della situazione e la paura di chi è venuto ad arrestarlo, che ha fatto pensare a molti studiosi allo stupore-paura che nella Bibbia coglie coloro che intuiscono di essere alla presenza di Dio.  Gesù intesse un colloquio con le guardie per escludere i suoi dal suo destino e l’evangelista commenta che così si è adempiuta la sua stessa parola: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato» (18,9 cf. 17,12; 6,39).

     Solo Giovanni dice il nome del servo del sommo sacerdote. Nelle parole dette a Pietro: «il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?». C’è una eco della preghiera di Gesù al Getzemani, che Giovanni non riporta, ma il tono della domanda sottolinea che quanto accade è un «dovere» comandato dal Padre, che Gesù accoglie senza tentennamenti 12-27. Entrano in azione i soldati romani e le guardie dei capi dei sacerdoti, che erano venuti con Giuda (cf. 18,3). Al versetto 12 il Vangelo non specifica più le guardie (o meglio secondo il termine greco tradotto dalla Vulgata con ministri, gli aiutanti, i servitori) dei sommi sacerdoti, ma usa il termine generico «giudei». È un uso particolare di questa parte del Vangelo di Giovanni. In 18,14 si dice che Caifa era quello che aveva consigliato ai «giudei», mentre nel capitolo 11, a cui si riferisce il nostro testo, Caifa sta parlando al sinedrio; in 19,6-7: gridano di crocifiggere Gesù i sommi sacerdoti, mentre rispondono a Pilato «i giudei»; in 19,14-15 avviene l’inverso: Pilato parla ai «giudei» e rispondono i «sommi sacerdoti».

     Proprio in riferimento al Vangelo di Giovanni — avvertono i documenti di applicazione della dichiarazione conciliare Nostra Aetate n. 4 — si deve fare attenzione a questo uso del termine giudei per non attribuire a tutti gli ebrei contemporanei di Gesù le colpe dei capi o di un gruppo particolare (cf. Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, IV, 1).

     La dichiarazione conciliare dice chiaramente: «Se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né  agli ebrei del nostro tempo».

     Solo Giovanni ricorda l’udienza di fronte ad Anna, mentre accenna soltanto al processo da Caifa (18,28) descritto ampiamente dai sinottici (Mt 26,57-68; Mc 14,53-65; Lc 22,54-71).

     Di Caifa, genero di Anna e «sommo sacerdote quell’anno» (18,13) il redattore ricorda che era colui che aveva detto: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo» (18,14; cf. 11,49-51). Si nota il sottile gioco stilistico di Giovanni che fa dire ai personaggi presentati una verità di cui non hanno affatto coscienza.

     Nel cortile del palazzo fa da cornice al dramma che sta vivendo Gesù il triplice rinnegamento di Pietro.

     Il processo davanti a Pilato è condotto dal quarto Vangelo nella linea della sottolineatura della regalità di Gesù. Pilato presenta Gesù con ironia e disprezzo con le parole: «Ecco il vostro re!» (19,14). Il colloquio fra Pilato e Gesù sottolinea la regalità particolare, diversa da quelle del potere di questo mondo. Gesù afferma che la sua missione nel mondo è quella di «dare testimonianza alla verità» (18,37). Al che Pilato replica con una domanda carica di scetticismo: «Che cos’è la verità?» (18,38). Pilato, di fronte a Gesù, che per lui non è che un oscuro giudeo, proveniente per di più dalla Galilea, la regione dove più attivi erano i gruppi ostili ai romani, non esita a metterlo a morte per evitare il rischio di avere problemi di ordine pubblico, che potrebbero mettere in forse il suo potere, sarà lui, però, che con la sua scritta sulla croce lo proclamerà re (19,19).

     Gesù, secondo Giovanni, porta la croce da sé. Questo è un altro particolare per sottolineare come Gesù sia padrone della situazione.

     Solo Giovanni riporta il colloquio con il discepolo prediletto e la madre. Pur nel dolore profondo che in quel momento doveva provare, Gesù si immedesima in quello della mamma, di fronte a un figlio che moriva a quel modo e le affida il discepolo come nuovo figlio, che riempia in qualche modo il vuoto lasciato da lui.

     «È compiuto!» sono secondo Giovanni le ultime parole di Gesù prima di morire. Esse sottolineano che quanto è avvenuto si è svolto secondo il disegno di Dio di cui Gesù era pienamente consapevole e che ha accettato in piena coscienza.

     Dopo il racconto del colpo di lancia, invece della rottura delle ginocchia, che era il metodo per accelerare la morte, ma che non era più necessario nel caso di Gesù, che era già spirato, l’evangelista invita a fissare su Gesù uno sguardo di fede. Quanto è avvenuto non è avvenuto casualmente, ma perché si «adempisse la Scrittura». Al di là delle citazioni, che non sono precise, il richiamo stesso alla Scrittura rende avvertiti che dobbiamo guardare a Gesù dentro al piano di Dio in essa rivelato.

    

Meditazione 

      «Ecco il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente» (Is 52,13). Sono queste le prime parole che sentiamo risuonare nella liturgia della Passione del Venerdì santo, dopo la prostrazione iniziale, compiuta in silenzio, seguita dall’orazione di apertura in cui si implora il Padre di ricordarsi della sua misericordia, santificando e proteggendo sempre la sua famiglia «per la quale il Cristo, tuo Figlio, inaugurò nel suo sangue il mistero pasquale». Già da subito è messo così in evidenza il carattere prettamente ‘pasquale’ di questa celebrazione: si fa memoria della morte del Signore ma nella prospettiva luminosa della sua vittoria sul peccato e sulla morte stessa. L’inizio della prima lettura dà dunque la tonalità giusta a questo giorno così centrale per la fede e la pietà cristiana. Prima di descrivere tutte le sofferenze e le violenze patite da questo misterioso Servo, il profeta Isaia dice che «avrà successo» e «sarà esaltato grandemente». Il suo destino di gloria ci è messo davanti come prima realtà forse per suggerirci l’angolatura corretta entro la quale comprendere questo testo. Ma che gloria è mai questa del Servo? Una gloria che passa attraverso una via dolorosa e tenebrosa; una gloria che si manifesta nell’affrontare il male con pazienza e mitezza («come agnello condotto al macello, come pecora muta…»: 53,7), nel subire ingiustizie di ogni sorta soffrendo da innocente, nel farsi carico in piena libertà delle colpe e delle iniquità altrui. La «luce» che vedrà dopo il suo «intimo tormento» (53,11) è la luce che emerge con forza da questa notte oscura e che irradia il suo splendore proprio sulle tenebre più fitte. Il Signore glorifica il Servo non liberandolo dal male e da una morte infame, ma facendosi a lui vicino e accogliendo l’offerta della sua vita per renderla feconda di salvezza per tutti.

     La tradizione cristiana, fin dai primi secoli, ha letto in questa figura il destino di passione e di gloria del Signore Gesù, tanto che il Nuovo Testamento in più occasioni riprende alla lettera questo canto per illuminare e interpretare la vicenda pasquale del Figlio di Dio (cfr. 1Pt 2,21-25; At 8,32-33; Mt 8,l7; Gv 1,29; Lc 22,37).

     Dal canto suo, l’evangelista Giovanni rilegge in modo nuovo e originale il racconto della passione di Gesù. Rispetto ai sinottici omette molti importanti dettagli, premunendosi però di compensarli con numerose aggiunte proprie. Il Gesù giovanneo ci appare fin dall’inizio un uomo sovranamente libero, che va incontro alla sua morte con la coscienza di chi sa cosa gli sta capitando (cfr. Gv 18,4; 19,28) e che affronta gli eventi con estrema dignità e solenne maestà. Tutto è teso al compimento di quell’«ora», l’ora del dono e della glorificazione, della quale Giovanni ci ha parlato fin dai primi capitoli del suo vangelo (cfr. 2,4). Ciò che Gesù aveva annunciato attraverso l’immagine del buon pastore, ora non fa altro che metterlo in pratica: egli dà la sua vita per le sue pecore, e la dà liberamente – nessuno gliela toglie – perché ha il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo (cfr. 10,14-18). Questo lo si vede già nella prima scena, quella dell’arresto (18,1-11), in cui Gesù rinuncia a esercitare la sua potenza divina (se avesse voluto, avrebbe potuto benissimo difendersi, visto che al solo suono della sua voce le guardie «indietreggiarono e caddero a terra»: 18,6!) e si lascia catturare senza opporre resistenza. Nessuno infatti può mettergli le mani addosso se non è lui stesso a offrirsi spontaneamente. Le forze delle tenebre nulla possono contro colui che è la vera luce («la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta»: Gv 1,5). I soldati vengono «con lanterne e fiaccole» (18,3) a catturare colui che è «la luce del mondo» (8,12; 12,46; 3,19; 1,9): paradosso della sorte! Chi è nelle tenebre pretende di offuscare la luce, ma non sa che la luce sprigiona tutta la sua forza proprio in mezzo all’oscurità più fitta. La luce si lascia ‘prendere’ ma non smette di brillare, tanto che nel confronto cruciale con Pilato (sezione centrale e cuore del racconto giovanneo della passione) l’evangelista annota: «Era l’alba» (18,28). L’alba è l’ora del trionfo della luce sulle tenebre, è l’ora che si oppone alla notte del rifiuto e del tradimento (cfr.13,30!). Davanti a Pilato il vero vincitore è Gesù: è lui in realtà colui che giudica, è lui il vero re. Per Giovanni, che si colloca esplicitamente sul piano della testimonianza e della fede (cfr. 19,35), è evidente questo ‘capovolgimento’ delle parti. Gli occhi della fede vedono le cose diversamente e riescono a scorgere dietro le realtà immediatamente percepibili l’agire di Dio, che guida gli eventi per vie misteriose e umanamente alquanto incomprensibili.

     A questo proposito è emblematico l’episodio dell’iscrizione che Pilato fa affiggere alla croce (19,19-22). Nelle tre lingue ufficiali dell’epoca (ebraico, latino e greco) viene proclamata la regalità universale di Gesù: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» (v. 19). Ma questa iscrizione assume un senso ben diverso a seconda del punto di vista con cui viene interpretata. Agli occhi dei sommi sacerdoti non può che formulare una menzogna – la pretesa di Gesù di farsi re messianico – (tanto che cercarono in tutti i modi di farla correggere: v. 21); sulla bocca di Pilato ha un valore ironico ed esprime scherno e derisione (come la dichiarazione beffarda di 19,14: «Ecco il vostro re!»); mentre per l’autore del racconto, che rappresenta la comunità credente, essa rivela la vera identità del crocifisso. Gesù è veramente il re che muore sulla croce (peraltro Giovanni lo suggerisce di nuovo nel particolare della sepoltura, in quell’incredibile quantità di unguenti portata da Nicodemo per ungere il corpo di Gesù: «circa trenta chili di una mistura di mirra e àloe»: 19,29. Non è una misura comune: è una misura esagerata, degna di un re!) ed è solo guardando al modo in cui muore che si può comprendere la vera natura della sua regalità. La croce è davvero «il trono della grazia» (Eb 4,16), come si esprime la lettera agli Ebrei nel passo proposto come seconda lettura, dal quale «colui che è stato trafitto» (Gv 19,37) fa sgorgare copiosamente i doni del suo esercizio regale vissuto fino in fondo: il «sangue» della sua vita effusa in sacrificio per la salvezza del mondo e l’«acqua» feconda dello Spirito santo ormai consegnato definitivamente all’umanità intera (cfr. 19,34).

     La Chiesa in questa liturgia ci fa cantare il Salmo 30(31) che l’evangelista Luca pone sulle labbra di Gesù nell’ora della sua morte (cfr. Lc 23,46). In esso troviamo alcune immagini molto forti (che la nuova traduzione CEI ha cercato di riportare alla loro originaria vivacità e plasticità): «sono come un morto, lontano dal cuore; sono come un coccio da gettare» (Sal 30/31,13). In questo «coccio da gettare» ritroviamo tutto il paradosso del mistero della vita di Gesù: Gesù è divenuto ‘ciò che non serve più a nulla’ (un vaso rotto, appunto, da buttar via), rifiutato e dimenticato da tutti; ma proprio in questo suo essere «disprezzato e reietto» (Is 53,3) «divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,9). Una vita ‘spezzata’ e ‘gettata via’ può rifiorire insperabilmente dentro il terreno di un amore che non muore…

 

Preghiere e racconti 

Nelle tue mani

    «Dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, rese lo spirito» (Gv 19,30). […] A ragione Gesù dice che tutto è compiuto. Ora, però, la sua ora lo chiama a proclamare la Parola agli spiriti che sono negli inferi. Vi si reca per mostrare la sua signoria sui vivi e sui morti. E per noi che si è immerso nella morte e che subisce questa passione comune a tutta la nostra natura, cioè la sofferenza della carne, mentre, essendo Dio, è per natura la vita. Dopo aver spogliato gli inferi, vuole ricondurre la natura umana alla vita, lui che le Scritture chiamano «la primizia» (1Cor l5,24) di quanti si sono addormentati e «il primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (Col 1,18).

    Egli dunque, inclinò il capo, fatto normale nei morenti, perché lo spirito o l’anima che mantiene e governa il corpo lo lascia. Quanto a ciò che l’evangelista aggiunge: «rese lo spirito» (Gv 19,30) è un’espressione impiegata per parlare di qualcuno che si spegne e muore. Ma sembra che intenzionalmente, volutamente l’evangelista non abbia detto soltanto che Gesù era morto, ma che aveva consegnato il suo spirito nelle mani di Dio Padre, in accordo con quello che aveva detto di se stesso: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). La portata e il senso di queste parole sono per noi principio e fondamento di una gioiosa speranza.

    Si deve credere, infatti, che le anime sante, dopo essersi liberate dal loro corpo terrestre, sono affidate, tra le mani del Padre pieno d’amore, alla bontà e alla misericordia di Dio. […] Esse si affrettano a consegnarsi nelle mani del Padre di tutti e in quelle del nostro Salvatore, il Cristo, che ci ha mostrato questo itinerario. Egli ha consegnato la propria anima nelle mani di suo Padre affinché anche noi, mettendoci su questo cammino, possediamo una gloriosa speranza, sapendo e credendo fermamente che, dopo aver subito la morte del corpo, saremo tra le mani di Dio e in una condizione di molto preferibile a quella in cui abbiamo vissuto nella carne. E per questo che san Paolo scrive per noi che è meglio essere sciolti dal corpo per essere con Cristo (cfr. Fil 71,23).

(GIRILLO DI ALESSANDRIA, Commento al vangelo di Giovanni 12,30, PG 74,667C-670B)

«Non sciunt quod faciunt»

Persino sulla Croce, mentre compiva nell’angoscia la perfezione della sua Santa Umanità, Nostro Signore non si afferma vittima dell’ingiustizia: Non sciunt quod faciunt. Parole intelligibili dai bambini più piccoli, parole che si potrebbero dire infantili, ma che i demòni debbono ripetersi, dopo d’allora, senza comprenderle, con spavento crescente. Mentre si aspettavano la folgore, è come se una mano innocente avesse chiuso su loro i pozzi dell’abisso.

(G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Milano, Mondadori, 1994, 238-239).

Coraggio, fratello che soffri

Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria.

Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo. Coraggio. La tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre «collocazione provvisoria». Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce. C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo: «Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra». Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo.

Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.

Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo.

Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.

(Don Tonino Bello)

Il Cristo di Velázquez

A che pensi Tu, morto, Cristo mio?

Perché qual vel di tenebrosa notte

la ricca chioma tua di nazareno

ricade cupa giù su la tua fronte?

Entro di te Tu guardi ove sta il regno

di Dio; dentro di te, là dove albeggia,

l’eterno sol dell’anime viventi.

Bianco è il suo corpo, sì com’è la sfera

del sol, padre di luce, che dà vita;

bianco è il tuo corpo al modo della luna

che morta ruota intorno alla sua madre,

la nostra stanca vagabonda terra;

bianco è il tuo corpo, bianco come l’ostia

del cielo nella notte sovrumana,

di quel cielo ch’è nero come il velo

della chioma tua ricca e cupa e folta

di nazareno.

Ché sei, Cristo, il solo

Uomo che di sua scelta soccombesse,

trionfando della morte, che fu resa

da te verace vita. E sol da allora

per Te codesta morte tua dà vita;

per Te la morte è fatta madre nostra;

per Te la morte è il dolce nostro anelo

che placa l’amarezza della vita.

Per te, l’Uomo che è morto e che non muore,

bianco siccome luna nella notte…

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 28-29).

Venerdì Santo

Venerdì Santo: giorno della croce, giorno di sofferenza, giorno di speranza, giorno di abbandono, giorno di vittoria, giorno di mestizia, giorno di gioia, giorno di conclusione, giorno di inizio.

Durante la liturgia a Trosly, Père Thomas e Père Gilbert staccarono dalla parete l’enorme croce che sta appesa dietro l’altare e la tennero sollevata, così che tutta la comunità poté andare a baciare il corpo morto di Cristo. Vennero tutti, più di quattrocento persone – uomini e donne disabili con i loro assistenti e amici. Tutti apparivano consapevoli di quello stavano facendo: esprimere il loro amore e la loro gratitudine per colui che aveva dato la propria vita per loro. Mentre stavano tutti radunati attorno alla croce e baciavano i piedi e la testa di Gesù, chiusi gli occhi e vidi il suo sacro corpo disteso e crocifisso sul nostro pianeta terra. Vidi l’immensa sofferenza dell’umanità lungo i secoli: persone che si uccidono a vicenda, persone che muoiono di fame o di malattia; persone cacciate dalle proprie case; persone che dormono nelle strade delle grandi città; persone che si attaccano le une alle altre nella disperazione; persone flagellate, torturate, bruciate e mutilate; persone isolate in appartamenti chiusi, in prigioni sotterranee, nei campi di lavori forzati; persone che implorano una parola dolce, una lettera amichevole, un abbraccio consolante, persone… che gridano tutte con voce angosciata: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

Immaginando il corpo di Gesù nudo e lacerato, disteso sul nostro globo, mi sentivo pieno di orrore. Ma non appena aprii gli occhi, vidi Jacques, che porta sul volto i segni della sua sofferenza, mentre baciava il corpo con passione e le lacrime gli scendevano dagli occhi. Vidi Ivan, trasportato a spalle da Michael. Vidi Edith che avanzava nella sua sedia a rotelle. Man mano che venivano – diritti o claudicanti, vedenti o ciechi, udenti o sordi – vedevo l’interminabile processione dell’umanità che si radunava attorno al sacro corpo di Gesù coprendolo di lacrime e di baci, per poi allontanarsene lentamente, confortata e consolata da un così grande amore… Con gli occhi della mia mente vidi l’immensa folla di isolati, di individui angosciati che si allontanavano insieme dalla croce, uniti dall’amore che essi avevano visto con i loro stessi occhi e toccato con le loro stesse labbra. La croce dell’orrore divenne la croce della speranza, il corpo torturato divenne il corpo che da nuova vita; le ferite aperte diventarono fonte di perdono, di guarigione e di riconciliazione.

O mio Signore, che cosa ti posso dire?

Ci sono forse parole

che possono uscire dalla mia bocca?

Qualche pensiero? Qualche frase?

Tu sei morto per me

hai dato tutto a causa dei miei peccati,

non solo sei diventato uomo per me

ma hai anche sofferto

la più crudele delle morti per me.

C’è forse una risposta?

Mi piacerebbe trovare una risposta adatta.

Ma contemplando la tua santa passione e morte

posso soltanto confessare umilmente davanti a te,

che l’immensità del tuo amore divino

fa apparire del tutto inadeguata qualsiasi risposta.

Che io semplicemente stia davanti a te e ti guardi.

Il tuo corpo è lacerato, il tuo capo ferito,

le tue mani e i tuoi piedi

perforati dai chiodi

il tuo fianco aperto,

il tuo corpo morto

ora riposa tra le braccia di tua Madre.

Ora tutto è finito.

È terminato. È compiuto. È consumato.

Dolce Signore, grazioso Signore,

generoso Signore, Signore pronto al perdono,

ti adoro, ti lodo, ti rendo grazie.

Tu hai fatto nuove tutte le cose

Mediante la tua passione e la tua morte

La tua croce è stata piantata su questo mondo                                                                              

come nuovo segno di speranza.                                                                                             

Che io viva sempre sotto la tua croce, o Signore, e proclami la speranza della tua croce senza stancarmi.                                                                         

(H.J.M. NOUWEN, Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003).

Undicesima stazione

II panno umido sul viso mi ha dato un breve sollievo.

Sono caduto per la terza volta, qualche braccio soccorrevole mi ha sostenuto nel

rialzarmi, ma il peso per le membra che ho è troppo grave.

L’onta e il castigo della carne, questo alla loro ferocia piace molto.

Il supplizio della misconoscenza e del tradimento

alla loro perfidia è un piacere più sottile,

lo delibano i sommi sacerdoti.

Ma ora, Padre, sono ingiusto:

ci sono anime innocenti,

creature pietose che si angosciano,

non si danno pace. E questi, ti prego, prediligili.

Tra loro c’è mia madre,

ci sono uomini e donne di cuore che la

accompagnano,                                        

e molti altri addolorati e increduli.

Sempre, dal principio fino all’avvento del tuo regno,

il bene e il male si affrontano.

Oggi va al male, secondo appare a noi, la palma.

Tra gente come loro ho seminato le beatitudini,

erano meravigliati – alcuni un giorno capiranno,

ma io sarò morto e risorto

per tutti quelli che capito avranno

e per coloro che saranno rimasti chiusi nell’ottusità.

Tutti potranno essere salvi, così vuole l’Alleanza.

Ma dove andiamo, dove va questa trista processione?

Mi conducono a un’altura.

(M. LUZI, Via crucis, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 1999, 47-49).

Orazione finale

In piedi e con le braccia appena aperte,

tesa, perché non secchi, la man destra,

fa che la via sassosa della vita,

ascesa del Calvario, percorriamo

dai chiodi del dovere sostenuti,

e in piedi come Te, le braccia aperte

ansiosamente, noi moriamo; e dopo

alla gloria saliamo ancora in piedi

come Te, perché in piedi Iddio ci parli

e con le braccia aperte. Dammi, Cristo,

che quando alfine vagherò sperduto

uscendo dalla notte tenebrosa

ove sognando il cuore si impaura,

entri nel chiaro giorno sconfinato,

con gli occhi fissi sul tuo bianco corpo,

Figlio dell’uomo, Umanità perfetta,

nell’increata luce che non muore;

gli occhi, Signore, fissi nei tuoi occhi,

e in te, Cristo, perduto il guardo mio!

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 138-139)

 Francisco Zurbaran (1598-1664), Agnus Dei, Museo Nacional del Prado, Madrid.

 

«Ogni volta che il sacrificio della croce “col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato” (1Cor 5,7) viene celebrato sull’altare, si effettua l’opera della nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (cf. 1Cor 10,17)» (Lumen Gentium 3).

Sulla croce, infatti, è stato offerto l’unico e perfetto sacrificio che ha portato la salvezza al mondo intero, tanto che l’apostolo Pietro può affermare: «Non siete stati redenti con oro o argento, beni corruttibili…ma col sangue prezioso di Cristo, agnello immacolato e incontaminato» (1Pt 1;18-19). Il credente non appartiene dunque a se stesso, perché egli è stato comprato da Cristo “a caro prezzo” (cf. 1Cor 6,20). Colui che Giovanni Battista aveva indicato alla folla e ai suoi discepoli come l’Agnello di Dio che toglie il peccato del ondo (cf. Gv 1,29) è Cristo, «agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,19). È lui che viene offerto sull’altare della croce quale vittima innocente e immacolata; è lui che «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9).
Maria, sua madre, è la serva obbediente che ha vissuto nella totale sottomissione alla volontà di Dio e ha seguito il suo figlio fino al Calvario. «Ai piedi della croce Maria partecipa mediante la fede allo sconvolgente mistero di questa spoliazione. È questa forse la più profonda kenosi della fede nella storia dell’umanità. Mediante la fede la madre partecipa alla morte del Figlio, alla sua morte redentrice; ma, a differenza di quella dei discepoli che fuggivano, era una fede ben più illuminata.

Sul Golgota Gesù mediante la croce ha confermato definitivamente di essere il “segno di contraddizione”, predetto da Simeone. Nello stesso tempo, là si sono adempiute le parole da lui rivolte a Maria: “E anche a te una spada trafiggerà l’anima”» (Giovanni Paolo II, Redemptoris mater 18). Per tutti i discepoli di Cristo onorare la passione del Signore vuol dire «guardare con gli occhi del cuore Gesù crocifisso, in modo da riconoscere nella sua carne la propria carne» (Leone Magno, Discorso 15 sulla passione del Signore).

Francisco Zurbaran, artista attivo nella Spagna della Controriforma, ha dipinto con grande realismo in primissimo piano un semplice e comune agnello, con le zampe legate in segno di croce, posto su uno sfondo scuro e appoggiato su una mensa grigia. L’opera è del 1635-40 circa e oggi è conservata al Museo Nacional del Prado di Madrid.

L’uso sapiente dei colori e della luce conduce lo sguardo dell’osservatore verso l’animale che sembra essere totalmente abbandonato al suo destino fatale, senza reagire alla violenza inflittagli. Fissandolo sembra che il tempo sia sospeso e che anche lo spazio si sia come concentrato in quel punto preciso dell’universo. Trova spazio soltanto l’oracolo del profeta Isaia: «Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca» (Is 53,6-7).

Il significato mistico, sacrificale e cristologico del piccolo dipinto è reso dalla stessa immagine dell’agnello che l’artista ci presenta senza alcun attributo iconografico, come invece fa in altre versioni della stessa opera. Nel dipinto del Prado l’Agnello è invece mostrato nella sua assoluta e disarmante semplicità, quasi come una natura morta consegnata allo sguardo dell’osservatore il quale può ripetere con le labbra e con il cuore: «L’agnello ha redento il suo gregge, l’Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre» (Sequenza pasquale).

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

 

PER APPROFONDIRE:

Sett santa VENERDÌ SANTO (A)

CENA DEL SIGNORE

Prima lettura: Esodo 12,1-8.11-14

Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne. Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”.

 

Il brano dell’Esodo, che la liturgia ci fa leggere oggi è uno dei testi che fonda la festa della pasqua (pesach) ebraica, che viene celebrata ancora oggi, come «memoriale» della liberazione dall’Egitto e che Gesù, la sua famiglia e i suoi apostoli hanno celebrato secondo le tradizioni che si rifacevano alla Torà di Mosè.

     Nella Torà (Pentateuco) sono numerosi i testi che «fondano» la pasqua, mentre accenni alla pasqua si trovano anche nelle altre parti del tanach (nome della Bibbia ebraica, dalle iniziali delle tre parti fondamentali in cui è divisa: Torà = insegnamento, legge; Neviim, = profeti; Ketuvim = agiografi). Il capitolo 12 dell’Esodo dedica alla Pasqua due parti i vv. 1-28 e 41-50. In questi testi è esplicito il collegamento con l’opera del Signore, che libera il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto e a cui viene esplicitamente dato il comando di celebrarne il memoriale: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14). La celebrazione di un rito ciclico, proprio dei pastori, che gli ebrei del tempo dei patriarchi celebravano come gli altri popoli vicini dediti alla pastorizia, in primavera, per chiedere a Dio la benedizione e la fecondità del gregge, diventa il rito «memoriale» dell’intervento di Dio nella storia.

     Sempre in questo capitolo sono indicate le modalità essenziali, per riuscire a far entrare la nuova generazione dentro al significato di questa celebrazione: «Quando poi sarete entrati nel paese che il Signore vi darà, come ha promesso, osserverete questo rito: Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: È il sacrificio della pasqua per il Signore».

     Il passaggio di generazione in generazione avviene in forma di domande dei figli e di risposte dei padri. Il modo di ricordare, attraverso gesti simbolici susciterà la curiosità dei più giovani e sarà il punto di partenza per il racconto delle opere compiute da Dio per liberare il suo popolo e avviarlo verso la terra promessa, proprio il racconto di tali opere in risposta alle domande dei figli costituisce il nucleo del «memoriale» celebrato nel Seder pasquale dagli ebrei ancora oggi, in continuità con la prima pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto.

     La pasqua celebrata la sera della liberazione dall’Egitto è la pasqua avvenuta, potremmo dire, sotto il segno del miracolo, le pasque celebrate in seguito sono «memoriale». Chi partecipa al memoriale deve considerare se stesso come se proprio lui fosse uscito dall’Egitto, ma il miracolo è per ora solo spirituale, dato solo nel racconto e nei gesti simbolici. Il rito deve essere perenne: esso è un «memoriale» rende efficace per i presenti l’azione salvifica di Dio ed è teso al sabato messianico, che non avrà più tramonto.

     L’andamento in tre tempi del «memoriale» ebraico è lo stesso di quello cristiano: i cristiani fanno memoria della morte e risurrezione di Gesù in questo tempo intermedio, partecipano cioè nel rito dell’opera salvifica di Gesù in attesa della domenica del Regno, quando sarà finito il tempo intermedio nel quale dobbiamo avvalerci del racconto e dei segni.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 11,23-26

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». 

Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

Il brano di Paolo è uno dei quattro testi neotestamentari, che presentano direttamente il racconto di quella che siamo soliti chiamare l’«istituzione dell’eucaristia». Gli altri tre sono Lc 22,14-20; Mt 26,20-29; Mc 14,17-25. In realtà il termine eucaristia non c’è negli scritti apostolici; esso inizia solo con la Didaché e in Ignazio di Antiochia (110 d.C.) comincia ad avere un senso sacramentale. I termini per indicare la prassi eucaristica nel Nuovo Testamento sono cena del Signore (cf. 1Cor 10,14,22; 11, 17,33) e frazione del pane (cfAt 2,42.46; 20,7.11).

     Il testo di Paolo che si legge oggi è un testo che presuppone già una tradizione liturgica. Esso è legato a quello di Luca e si fa risalire alla tradizione antiochena, mentre Marco e Matteo, apparentati fra loro, risalgono alla tradizione gerosolimitana.

     In Paolo e Luca sono rilevanti tre aspetti: l’invito a «fare memoria» (1Cor 11,24.25; Lc 22,19 solo sul pane); il riferimento all’alleanza (1Cor 11,25, Lc 22,20); la dimensione del dono personale di Gesù espresso da «questo è il mio corpo, che è per voi» (1Cor 11,24; Lc 22,19) e dal sangue versato per voi (Lc 22,20). È da notare anche il ‘voi’, che si riferisce direttamente ai presenti alla celebrazione e che è molto insistito nel racconto di Luca.

     L’eucaristia è «fare memoria» vale a dire compiere il rito, ma soprattutto accettare la logica del servizio proposta dalla lavanda dei piedi.

     Il calice è la nuova alleanza, vale a dire un’alleanza vera voluta da Dio e che deve essere accettata dai discepoli di Gesù. Il termine analogico è sempre l’alleanza del Sinai; lì c’è l’iniziativa di Dio che ha liberato il popolo e gli dà una norma di condotta; il popolo deve rispondere accettando l’alleanza, vale a dire mettendo in pratica i precetti. La fedeltà all’alleanza è sicura da parte di Dio, è difficile da parte del popolo. Dio, però, non lo abbandona e continuamente lo richiama, soprattutto attraverso i profeti rammentando loro la sua misericordia e la sua fedeltà, nonostante le sofferenze e l’apparente abbandono.

     Dalla fede che il gesto di Gesù è un’alleanza reale con Dio, un dono di Dio come quella stipulata con Israele, l’alleanza è chiamata «nuova», con riferimento a Geremia: «Ecco verranno giorni in cui con la casa di Israele e la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova…» (Ger 31,31-34).

     L’eucaristia è soprattutto dono di sé di Gesù, che deve diventare dono di sé dei discepoli che la celebrano.

 

Vangelo: Giovanni 13,1-15

Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri». Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».   

 

Esegesi 

   Il primo versetto del brano di Giovanni fa da introduzione ai capitoli 13-17, che vengono generalmente denominati «discorsi di addio». Il redattore ha unificato i discorsi tenuti da Gesù ai suoi introducendoli nella cornice dell’ultima cena con loro. Giovanni non parla di cena pasquale come i sinottici, ma dell’ultima cena di Gesù con i discepoli, che cronologicamente pone «prima della festa di Pasqua». Il problema della datazione dell’ultima cena e della crocifissione, presentata in modo differente dai sinottici e da Giovanni, è stato affrontato da molti studiosi, ma è impossibile raggiungere una intesa che non lasci dubbi. D’altro canto l’interesse dei Vangeli non è cronachistico; il racconto è rivolto all’annuncio della rivelazione salvifica di Gesù, che nella morte e risurrezione trova il suo punto culminante.     

     In particolare, il brano che leggiamo oggi si muove su due binari uno è quello di rivelarci qualcosa della natura divina di Gesù e dell’azione salvifica insita nella sua morte, discorso che si farà più evidente nei capitoli che narrano la passione, l’altro è quello di mostrare ai discepoli il tipo di condotta richiesto, per essere veramente considerati tali.

     Gesù è presentato pienamente consapevole della sua passione: il participio «sapendo» è ripetuto ai versetti 1 e 3. Egli conosce la «sua ora», cioè quella della morte, presentata come l’ora «di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1); egli ha piena coscienza dei poteri che gli sono stati dati dal Padre dal quale è venuto e al quale ritorna (Gv 13,3).

     L’evangelista pone gli avvenimenti che seguono nell’orizzonte dell’amore sconfinato di Gesù: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).

     In contrasto con questo amore senza limiti c’è il tradimento di Giuda, che è ispirato dal diavolo, il vero nemico, che Gesù deve sconfiggere (Gv 13,2). È giunto il momento dell’azione del «principe di questo mondo», che anche se apparentemente contrario, non ha nessun potere su Gesù (Gv 14,30); il giudizio sul «principe di questo mondo» è già stato pronunciato (Gv 16,11).

     Sempre nella linea di rivelarci qualcosa del mistero della persona di Gesù e illustrare il valore salvifico della sua missione nel mondo eseguita secondo il volere del Padre, va il colloquio con Pietro. Il gesto di Gesù è a prima vista incomprensibile sia dal punto di vista delle convenzioni sociali, sia perché è il simbolo dell’abbassamento di Gesù, che viene dal Padre, e quindi è di natura divina.

     Gesù è consapevole che, se il livello morale del gesto, più che da capire sarà difficile da imitare; l’abbassamento, la «kenosi» del Verbo di Dio non si accetta se non con l’opera dello Spirito Santo: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (Gv 13,7).

     L’insistenza sulla natura divina di Gesù, sul suo potere, che gli viene dal Padre, sulla sua qualità di maestro e Signore porta a dare al gesto della lavanda dei piedi la profondità di «segno» nel senso pregnante del termine che sintetizza la logica di tutta la vita di Gesù e rende il suo comando di fare come ha fatto lui un impegno inderogabile per i discepoli. «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,14).

     Non si tratta semplicemente di compiere un rito liturgico, ma di testimoniarne la logica; il rito serve a ricordare che il Maestro ha chiesto di vivere una vita di servizio dandone l’esempio fino all’amore totale della morte di Croce; i discepoli devono comportarsi di conseguenza. Infatti «il servo non è più grande del suo padrone, né l’apostolo è più grande di colui che l’ha mandato» (Gv 13,16). Questo insegnamento, insiste Gesù, non si deve solo capire, ma la comprensione è vera solo se lo si mette in pratica: «Se capite queste cose, siete beati se le mettete in pratica» (Gv 13,17).

 

Meditazione

    Nella cornice evocativa del pasto rituale della Pasqua ebraica, si apre il racconto della cena di Gesù con i suoi discepoli, momento simbolico che introduce il racconto della passione in tutte le narrazioni evangeliche. Due gesti contrastanti sembrano staccarsi in questo contesto così umanamente intenso, due gesti che sorprendentemente rivelano la profondità dell’amore di Cristo: il tradimento di Giuda e il dono che Gesù fa di se stesso ai suoi. Unico, in qualche modo, è il verbo che accomuna questi due gesti apparentemente molto lontani: si tratta del verbo consegnare (paradidonai in greco). Con sfumature differenti (può significare anche ‘abbandonare’, ‘dare in balia’, ‘tradire’), questo verbo domina tutto il racconto della passione, assumendo una forza paradossale soprattutto nel racconto dell’ultima cena. Il tradimento di Gesù da parte di uno dei dodici (aspetto messo in rilievo soprattutto nella liturgia bizantina, ma anche in quella ambrosiana) non è una semplice azione malvagia dell’uomo, una fatalità dovuta a quei giochi di potere, di invidia, di egoismo che si impossessano del cuore dell’uomo. Questo gesto si inserisce in un disegno più ampio che ha Dio come protagonista: è Dio che si consegna all’uomo. E in qualche modo, il tradimento del discepolo, nella sua triste verità umana, diventa un ‘vangelo’ poiché annunzia la grandezza dell’amore di Dio: mentre l’uomo consegna l’amico per meschinità, il Padre consegna il Figlio per amore. Ma, ancora più in profondità, è il Figlio stesso, nella sua incondizionata obbedienza, a consegnarsi, a donarsi, a spezzare la sua vita e a versare il suo sangue per la salvezza degli uomini.

     E l’evangelista Giovanni non manca di sottolinearlo proprio all’inizio del racconto della cena pasquale, mettendo in rilievo la piena consapevolezza di Gesù nel vivere la sua drammatica passione: «prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre… Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda… di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle sue mani… si alzò da tavola…» (Gv 13,1-4).

     L’infinita gratuità dell’amore di Cristo, sottolineata da Gv 13,1 con quella stupenda espressione, «amò i suoi sino alla fine», che rivela un amore oltre ogni limite, un amore inaudito e impensabile per l’uomo, è resa plasticamente visibile dai gesti della lavanda dei piedi e del pane e del vino donati. Questi gesti, che si trasformano nella memoria della Chiesa in ‘sacramento’ di una presenza e di un amore che salva, diventano il cuore stesso della liturgia del Giovedì santo. E la liturgia della Parola della messa in Coena Domini, nei testi scritturistici, ci offre una particolare angolatura che ci permette di cogliere questo mistero nella sua totalità. La descrizione del rituale del pasto pasquale ebraico (Es 12,1-14), la narrazione di ciò che Gesù ha compiuto nell’ultima cena (secondo il racconto di Gv 13,1-15) e la celebrazione dell’eucaristia in una comunità cristiana (riportata in ICor 11,23-26) si presentano quasi come un’unica narrazione che scorre misteriosamente nella storia sacra di ogni credente, diventando in essa la memoria viva e il luogo in cui si opera la salvezza. In ognuno dei tre racconti c’è un gesto, un simbolo, una realtà significata: un agnello ucciso e condiviso in un pasto (Es 12,3-8), un catino d’acqua e un asciugatoio usati da Gesù per lavare e asciugare i piedi dei discepoli (Gv 13,3-5), del pane e del vino distribuiti su di una mensa (1Cor 11,23-25). Tre simboli differenti che sorprendentemente formano un’unica icona: quella del dono, quella del volto di Colui che offre la vita per gli amici, l’icona della compassione di Dio per il suo popolo. Altri elementi significativi legano i tre racconti. Il tempo in cui sono collocate le tre scene è la notte, tempo simbolico della morte. E proprio nella notte (che inizia al momento del tramonto del sole) vengono collocati questi tre momenti simbolici che, per la loro forte carica comunicativa (sono gesti di condivisione e di dono) hanno la capacità di squarciare il buio della notte, quasi a capovolgerne il significato: «in quella notte io passerò… Io sono il Signore» (Es 12,12). Un secondo simbolo accomuna i tre racconti: quello del pasto. Nella notte si condivide un pasto: è un linguaggio squisitamente umano che ha la capacità di esprimere la dimensione comunitaria del dono di Dio. E infatti l’agnello viene consumato tra tutti i mèmbri della famiglia; durante il pasto Gesù compie l’umile gesto di servizio verso tutti i suoi discepoli; sulla mensa, nel pane e nel vino condivisi, è posto il mistero dell’amore di Gesù, come presenza perenne in mezzo ai suoi. C’è anche un terzo elemento che lega drammaticamente e misteriosamente le tre scene: quello del sangue, cioè della vita donata, simbolo della morte che apre alla vita (il sangue dell’agnello ucciso, il sangue che viene misteriosamente versato nel gesto di colui che lava i piedi ai discepoli, il sangue donato come comunione di vita nel calice). E, infine, in tutti e tre i racconti, i gesti compiuti non sono un episodio tra i tanti nella storia di un credente. Sono gesti che devono essere rivissuti, ripetuti, gesti che devono trasformarsi in vita per operare la salvezza: «questo sarà per voi un memoriale… lo celebrerete come un rito perenne» (Es 12,14)… «vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15)… «ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate morte del Signore finché egli venga» (1Cor 11,26). In questi tre eventi è racchiusa la nostra memoria di credenti e tutta la nostra storia; in essi scopriamo continuamente il senso di ciò che facciamo, il senso di ogni evento, il senso della nostra fede; su questi si costruisce la comunione della Chiesa e in essi continuamente la Chiesa si comprende e si purifica.

     Ma con ogni probabilità, il racconto che maggiormente provoca la nostra vita di credenti, nella sua quotidianità e concretezza, è il gesto che Gesù compie verso i suoi discepoli e che la liturgia del Giovedì santo pone come momento di sintesi di tutto il mistero celebrato: «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua… e cominciò a lavare i piedi dei discepoli…» (Gv 13,5). Se nella nostra vita di uomini riusciamo ancora, in qualche modo, a spezzare il pane, sicuramente questo gesto, ci è estraneo: estraneo per cultura, estraneo per sentimenti, estraneo soprattutto per incapacità di comprenderlo. «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (v. 7). Quando incominciamo a capire questo gesto? Quando Gesù lo fa a noi, quando diventa vita in noi, quando noi diventiamo questo gesto per gli altri. Allora questo gesto così lontano dalla nostra cultura, dal nostro modo di vivere, dai nostri rapporti quotidiani, ci apre lo sguardo sull’amore folle di Dio. Ecco perché non possiamo capire questo gesto: è folle perché è totalmente gratuito. E tutto ciò che è folle e gratuito, può essere solo accolto come dono nella nostra vita. Colui che è Signore e maestro, si alza da tavola e ci insegna la bellezza dell’essere servi. Addirittura fa qualcosa di più: depone le vesti. Mentre l’uomo cerca sempre di indossare le vesti della potenza, tutte quelle maschere con cui vuole nascondere a se stesso e agli altri la sua povertà, il Signore depone la sua gloria per indossare l’abito della debolezza e della misericordia, della mitezza e dell’umiltà, l’abito del servo. E così vestito si china sul punto in cui l’uomo si confonde con la terra, il punto in cui l’uomo sperimenta tutta la fatica di essere creatura. Nessun uomo ha il coraggio di collocarsi così in basso. Ed è proprio in questo luogo limite, il luogo della terra dell’umanità, che il Signore rivela la sua potenza. Ed è quella che passa attraverso il gesto della compassione: lavare i piedi di chi è stanco e affaticato, renderli puliti e asciugarli perché l’uomo possa riprendere il cammino nella consolazione e nella certezza che qualcuno custodisce ogni suo passo, che qualcuno è sempre pronto a lavarli e ad asciugarli. In qualunque situazione umiliante l’uomo si trovi, scoprirà ai suoi piedi, al di sotto di lui, un volto ancora più umiliato del suo, il volto del suo Signore che è lì, pronto ad avvolgere i suoi piedi nella compassione.

     Ma il discepolo di Cristo non può dimenticare che tutti i gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena sono accompagnati da un imperativo: «fate questo in memoria di me… come ho fatto io fate anche voi…». Quei gesti non rimangono in quella sala del banchetto, su di una mensa o ai piedi del discepolo. E nemmeno rimangono come stupita memoria nel cuore. Da quella mensa e da quei discepoli essi ripartono, come un cammino ininterrotto lungo la storia, per fermarsi sulla mensa e ai piedi di ogni uomo. Il dono del pane e del vino, il dono della vita di Dio e il suo volto di compassione, hanno un suo luogo di verità: quando li ritroviamo, con lo stesso splendore, ai piedi di ogni fratello. E a quei piedi, se sapremo inginocchiarci, scopriremo accanto a noi il Signore e lui ci insegnerà ancora a lavarli e ad asciugarli, con la stessa tenerezza e umiltà con cui ha lavato e asciugato, in quella notte e in quella cena, i piedi dei suoi discepoli. «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo…».

 

Preghiere e racconti

La tavola dell’umanizzazione

Allora come oggi, se è degna di tal nome, la tavola si accende quando ci sono invitati. Invitare qualcuno – parenti, amici, conoscenti… – è un atto di grande fede, di profonda fiducia nell’altro: significa infatti chiamarlo, eleggerlo, distinguerlo tra gli altri conoscenti; significa confessare il desiderio di stare insieme, di ascoltarsi, di conoscersi maggiormente. Chi non pratica questa ospitalità vive in angustie, vive “poco”, mi verrebbe da dire. Non conosce la gioia che è maggiore nell’invitare che nell’essere invitati. Occorrerebbe saper invitare senza mai pensare alla reciprocità: l’atto in sé è ricompensa. Non è un caso che anche nel Vangelo, uno degli insegnamenti di Gesù che ridimensiona l’assoluto della reciprocità – oggi tanto di moda quando ci fa comodo – riguarda proprio l’invito a tavola: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio”.

Poter dire in verità “la mia casa è aperta, la mia tavola non è solo per me e per i miei” significa aprirsi agli altri, dar loro fiducia, disporsi a lasciarsi arricchire dalla loro presenza, a nutrirsi di sapienza e di amicizia, a veder dischiudersi  nuovi orizzonti. Non si tratta di fare della propria tavola un “salotto” che esibisca lo status raggiunto, bensì di saper vivere la fraternità, lo stare insieme, l’amicizia gratuita. Quando c’è un ospite a tavola cresce la capacità di benedizione e di gratitudine, così che quando giunge il momento dei saluti alla fine del pasto ci si apre a una promessa orientata al futuro: ci sarà ancora un domani per ritrovarci, avremo ancora nuove possibilità di incontro…

Chi mi ha educato mi diceva sempre che è la tavola il luogo in cui ci esercitiamo a vivere la fede, la speranza, l’amore. La tavola è il luogo della fiducia nell’altro, dello sperare insieme qualcosa di comune per il futuro, dell’amore nello scegliere, preparare, offrire e servire il cibo agli altri. In questa scuola di umanizzazione tre elementi legano il pasto dall’inizio alla fine: il pane, le bevande e la parola. Ma è la parola che costituisce il legame più profondo fra tutti gli attori del pasto: è la parola che narra gli alimenti diversi che giungono in tavola, è la parola che unisce i presenti e gli assenti, i commensali e gli altri, è la parola che mette in relazione il passato con il presente, aprendoli al futuro. La parola a tavola può essere davvero strumento di comunione, mezzo privilegiato per conferire senso al pasto, per valorizzare il gusto degli alimenti, per suscitare l’arte dell’incontro.

Stare a tavola insieme è un linguaggio universale tra i più determinanti e decisivi per l’umanizzazione di ciascuno di noi. A tavola, piccoli e grandi, vecchi e giovani, genitori e figli, siamo tutti commensali, tutti con lo stesso diritto di parola e con lo stesso diritto al cibo che arricchisce la tavola. Davvero stare a tavola è molto più che saper nutrirsi: è saper vivere.

(Enzo BIANCHI, Ogni cosa alla sua stagione, Einaudi, Torino, 2010, 45-47).

Ascoltiamo l’apostolo Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: «Confessatevi gli uni agli altri i peccati e pregate gli uni per gli altri» (Gc 5,16). È questo l’esempio che ci ha dato il Signore. Se colui che non ha, che ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci perdona i peccati colui che non ha niente da farsi perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione perdonare a vicenda i nostri peccati, noi che non riusciamo a vivere su questa terra senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto così significativo, quando dice: «Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io», se non quanto l’Apostolo dice in modo esplicito: «Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri; come il Signore ha perdonato a voi, fate anche voi» (Col 3,13).

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 58,24-25, NBA XXIV, pp. 1094.1098-1100)

Pane della condivisione

Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).

Un giorno unico

Felici coloro che mangiarono, un giorno, un giorno unico, un giorno tra tutti i giorni, felici di una gioia unica, felici coloro che mangiarono un giorno, un giorno, quel Giovedì Santo, felici coloro che mangiarono il pane del tuo corpo; te stesso consacrato da te stesso; con una consacrazione unica; un giorno che mai ricomincerà; quando tu stesso dicesti la prima messa; sul tuo stesso corpo; quando celebrasti la prima messa; quando consacrasti te stesso; quando di quel pane, davanti ai Dodici, e davanti al dodicesimo, facesti il tuo corpo; e quando di quel vino facesti il tuo sangue; quel giorno in cui fosti insieme la vittima e il sacrificatore, il medesimo la vittima e il sacrificatore, l’offerta e l’offerente, il pane e il panettiere, il vino e il coppiere; il pane e colui che dà il pane; il vino e colui che versa il vino; la carne e il sangue, il pane e il vino. Quella volta che tu fosti il prete ed essi erano i fedeli, quella volta che tu fosti il prete che operava, che sacrificava per la prima volta. Quella volta che tu fosti l’invenzione del prete, il primo prete a operare, a sacrificare per la prima volta. Ed eri contemporaneamente il prete e la vittima. Quella volta che facesti il primo sacrificio. Che tu fosti il primo sacrificato, la prima ostia. La prima vittima.

(Ch. PÉGUY, I Misteri, Milano, Jaca Book, 1994, 53-54).

Giovedì Santo

Gesù depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui era cinto. Disse: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,4-5.15). Poco prima di avviarsi per la strada della sua passione, Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli e offrì loro il suo corpo e il suo sangue come cibo e bevanda.

Questi due gesti sono intimamente uniti. Sono ambedue un’espressione della determinazione di Dio di mostrarci la pienezza del suo amore. Per questo, Giovanni introduce il racconto della lavanda dei piedi con queste parole: «Gesù dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).

Ma c’è una cosa ancora più sorprendente: in ambedue le occasioni, Gesù ci comanda di fare lo stesso. Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù dice: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi» (Gv 13,15). Dopo aver offerto se stesso come cibo e come bevanda, egli afferma: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19). Gesù ci chiama a continuare la sua missione di rivelare il perfetto amore di Dio in questo mondo. Ci chiama a una totale autodonazione.                                                             

Vuole che non ci teniamo niente per noi stessi. Piuttosto, vuole che il nostro amore sia tanto pieno, tanto radicale, tanto completo quanto il suo.

Vuole che ci chiniamo a terra e ci tocchiamo a vicenda le parti che hanno più bisogno di essere lavate. E vuole anche che ci diciamo gli uni gli altri: «Mangia di me, e bevi di me». Con questo nutrirci a vicenda e in modo così completo, egli vuole che diventiamo un solo corpo e un solo spirito, uniti dall’amore di Dio.

(H.J.M. NOUWEN, In cammino verso la luce).

O Signore, dove mai potrei andare?

Io volgo il mio sguardo a te, o Signore. Tu hai pronunciato parole così piene di amore. Il tuo cuore ha parlato così chiaro. Adesso mi vuoi far vedere ancora più chiaramente quanto mi ami. Sapendo che il Padre tuo ha messo tutto nelle tue mani, che sei venuto da Dio e ritorni a Dio, ti togli le vesti e, preso un asciugatoio, te lo cingi alla vita, versi dell’acqua in un catino e cominci a lavare i miei piedi, e poi li asciughi con l’asciugatoio di cui ti eri cinto…

Volgi il tuo sguardo su di me con la massima tenerezza, e mi dici: «Io voglio che tu stia con me. Voglio che tu condivida in pieno la mia vita. Voglio che tu mi appartenga come io appartengo al Padre. Ti voglio lavare così da renderti completamente puro, in modo che tu e io possiamo essere una sola cosa e tu possa fare agli altri ciò che io ho fatto a te».

Ti sto di nuovo guardando, o Signore. Tu ti alzi e mi inviti alla mensa. Mentre mangiamo, prendi il pane, reciti la benedizione e lo dai a me. «Prendi e mangia – dici – questo è il mio corpo dato per te». Poi prendi una coppa e dopo aver reso grazie, me la porgi, dicendo: «Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza sparso per te». Sapendo che è giunta la tua ora di passare da questo mondo al Padre tuo, e avendomi amato, adesso mi ami fino alla fine. Mi dai tutto ciò che hai e tutto ciò che sei. Mi doni il tuo stesso io. Tutto l’amore che hai per me nel tuo cuore ora diventa manifesto. Mi lavi i piedi e poi mi dai il tuo corpo e il tuo sangue come cibo e bevanda.

O Signore, dove mai potrei andare, se non da te, per trovare l’amore che desidero tanto?

(H.J.M. NOUWEN, Da cuore a cuore) 

Se dovessi scegliere una reliquia della tua Passione

Se dovessi scegliere una reliquia della tua Passione, prenderei

proprio quel catino colmo d’acqua sporca.

Girare il mondo con quel recipiente

e ad ogni piede

cingermi dell’asciugatoio e curvarmi giù in basso, non alzando mai la

testa oltre il polpaccio per non distinguere i nemici dagli amici, e

lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo, del drogato, del carcerato,

dell’omicida, di chi non mi saluta più, di quel compagno per cui non

prego mai, in silenzio, finché tutti abbiano capito nel mio

il tuo amore.

(M. Delbrel)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014. 

DOMENICA DELLE PALME

Prima lettura: Isaia 50,4-7

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso. 

 

2 Dopo la gioiosa processione iniziale, con le palme benedette, questa prima lettura introduce la partecipazione alle sofferenze e ai sentimenti di Cristo, nella passione. È la parte iniziale del terzo carme di Isaia sul «Servo sofferente», una «confessione», sul tipo «di alcune composizioni di Geremia e dei Salmi di lamento individuale».

     Dapprima il Servo ricorda, in modo appassionato, la missione ricevuta di sostenere gli sfiduciati, quali erano i rimpatriati dall’esilio babilonese, alla fine del VI secolo a.C., in mezzo a tante difficoltà e ostilità. Poi proclama come l’ha vissuta, grazie ai doni del Signore di una lingua e di un orecchio «da iniziati», cioè degli introdotti e pienamente dediti all’ascolto e alla proclamazione della parola di Dio. Ciò implica un impegno profondo e costante anche suo. Anzi, ha richiesto la più dura testimonianza della vita, per le persecuzioni, espresse col piegare il dorso ai flagellatori, e per le umiliazioni subite, che si possono prendere alla lettera, fatte di insulti, sputi in faccia e depilazioni infamanti.

     Di fronte a tutto questo, il Servo riafferma i suoi più profondi sentimenti. Non si tira indietro, ma affronta con coraggio le prove. È sicuro che Dio lo assiste, per questo non ha confusioni e incertezze, ma rende la faccia dura e impavida come roccia.

     La lettura si ferma qui, forse per restare a quanto è più consono ai sentimenti di Cristo nella passione che segue. Nei versetti che completano il carme, il Servo sfida pure gli avversari sulla giustezza delle sue posizioni ed è sicuro che saranno confusi da Dio e logorati come veste intaccata dalle tarme. Non sono sentimenti teneri ma neppure estranei a Cristo. Forse i cristiani d’oggi dovrebbero riscoprire il modo e il coraggio di ripeterli.

 

Seconda lettura: Filippesi 2,6-11 

 Cristo Gesù, pur essendo di natura divina,

non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore,
a gloria di Dio Padre.
    

 

2 La lettera ai Filippesi indirizzata alla prima comunità cristiana fondata da Paolo in Europa, ha in quest’inno cristologico il perno del suo messaggio, carico di stimoli per la vita cristiana di tutti e di sempre. L’apostolo si trova in catene (Fil 1,7.14), fortemente impegnato a vivere il mistero di Cristo morto e risorto, che va predicando. Brama di «cono-scere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti». Dai Filippesi ha accettato più volte aiuti materiali come partecipazione della sua tribolazione (Fil 4,14-16) e li ringrazia. Ma molto di più desidera che siano partecipi della sua adesione a Cristo, da «cittadini degni del vangelo» (Fil 1,27) e da cristiani che vivono in comunione (Fil 2,1-4). Per questo è inscindibile dal brano odierno l’invito che lo introduce: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5). Esso vale anche per noi, oggi, proprio come cittadini e come cristiani.

     Può darsi che Paolo stesso sia l’autore di questa composizione ritmata. Ma più probabilmente l’ha presa dalla liturgia preesistente e l’ha adattata ai suoi intendimenti. È chiaro lo schema in due parti simmetriche, una discendente nella kènosys e l’altra ascendente nella esaltazione.

     Con la kènosys, svuotamento (vv. 6-8), Cristo scende dal trono più alto all’abisso più profondo, per gradini vertiginosi. Al contrario di Adamo, presuntuoso di essere come Dio, egli passa dalla reale «uguaglianza con Dio» alla «condizione di servo»; quindi da regnante supremo a servo obbediente; in una obbedienza non ordinaria, ma fino alla morte; e una morte non qualunque, ma in croce, come si usava per gli schiavi e per i delinquenti peggiori…

     Con la esaltazione (vv. 9-11), Dio gli fa risalire tutti i gradini. Vi sono coinvolte tutte le creature ed è conseguente, anzi intrinseca, all’annientamento. A Cristo da, anzitutto un Nome, cioè una realtà e missione al di sopra di ogni altro; quindi sottomette a lui tutti gli esseri buoni e cattivi, nei cieli, sulla terra e sotto terra; e, nel riconoscimento della signoria universale di lui, da ad ogni persona la possibilità di ritrovare e di vivere la gloria della paternità divina.

     Di seguito, Paolo indica ai Filippesi alcune conseguenze pratiche da tirare, che valgono anche per noi se le attualizziamo, rapportandole alla vita nella società e nella Chiesa di oggi.

 

Vangelo: Matteo 26,14-27,66

In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti e disse: P “Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?”. C E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnarlo. Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: P “Dove vuoi che ti prepariamo, per mangiare la Pasqua?”. C Ed egli rispose: + “Andate in città, da un tale, e ditegli: Il Maestro ti manda a dire: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”. C I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua.

Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici. Mentre mangiavano disse: + “In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà”. C Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: P “Sono forse io, Signore?”. C Ed egli rispose: + “Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”. C Giuda, il traditore, disse: P “Rabbi, sono forse io?”. C Gli rispose: + “Tu l’hai detto”.

C Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: + “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”. C Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: + “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”. C E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Allora Gesù disse loro: + “Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte. Sta scritto infatti: ‘‘Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge’’, ma dopo la mia risurrezione, vi precederò in Galilea”. C E Pietro gli disse: P “Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai”. C Gli disse Gesù: + “In verità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. C E Pietro gli rispose: P “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. C Lo stesso dissero tutti gli altri discepoli.

Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsemani, e disse ai discepoli: + “Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare”. C E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. Disse loro: + “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”. C E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: + “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!”. C Poi tornò dai discepoli e li trovò che dormivano. E disse a Pietro: + “Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”. C E di nuovo, allontanatosi, pregava dicendo: + “Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà”. C E tornato di nuovo trovò i suoi che dormivano, perché gli occhi loro si erano appesantiti. E lasciatili, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: + “Dormite ormai e riposate! Ecco, è giunta l’ora nella quale il Figlio dell’uomo sarà consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce si avvicina”.  C Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro questo segnale dicendo: P “Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!”. C E subito si avvicinò a Gesù e disse: P “Salve, Rabbi!”. C E lo baciò. E Gesù gli disse: + “Amico, per questo sei qui!”. C Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. Ed ecco, uno di quelli che erano con Gesù, messa mano alla spada, la estrasse e colpì il servo del sommo sacerdote, staccandogli un orecchio. Allora Gesù gli disse: + “Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?”. C In quello stesso momento Gesù disse alla folla: + “Siete usciti come contro un brigante, con spade e bastoni, per catturarmi. Ogni giorno stavo seduto nel tempio ad insegnare, e non mi avete arrestato. Ma tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti”. C Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono.

Or quelli che avevano arrestato Gesù, lo condussero dal sommo sacerdote Caifa, presso il quale già si erano riuniti gli scribi e gli anziani. Pietro intanto lo aveva seguito da lontano fino al palazzo del sommo sacerdote; ed entrato anche lui, si pose a sedere tra i servi, per vedere la conclusione.

I sommi sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano qualche falsa testimonianza contro Gesù, per condannarlo a morte; ma non riuscirono a trovarne alcuna, pur essendosi fatti avanti molti falsi testimoni. Finalmente se ne presentarono due, che affermarono: P “Costui ha dichiarato: Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni”. C Alzatosi il sommo sacerdote gli disse: P “Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?”. C Ma Gesù taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: P “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. + “Tu l’hai detto, C gli rispose Gesù, + anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete ‘‘il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo’’”.

C Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: P “Ha bestemmiato! Perché abbiamo ancora bisogno di testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia; che ve ne pare?”. C E quelli risposero: P “È reo di morte!”. C Allora gli sputarono in faccia e lo schiaffeggiarono; altri lo bastonavano, dicendo: P “Indovina, Cristo! Chi è che ti ha percosso?”.  C Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una serva gli si avvicinò e disse: P “Anche tu eri con Gesù, il Galileo!”. C Ed egli negò davanti a tutti: P “Non capisco che cosa tu voglia dire”. C Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: P “Costui era con Gesù, il Nazareno”. C Ma egli negò di nuovo giurando: P “Non conosco quell’uomo”. C Dopo un poco, i presenti gli si accostarono e dissero a Pietro: P “Certo anche tu sei di quelli; la tua parlata ti tradisce!”. C Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: P “Non conosco quell’uomo!”. C E subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò delle parole dette da Gesù: “Prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. E uscito all’aperto, pianse amaramente.

Venuto il mattino, tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù, per farlo morire. Poi, messolo in catene, lo condussero e consegnarono al governatore Pilato.

Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: P “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”. C Ma quelli dissero: P “Che ci riguarda? Veditela tu!”. C Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi. Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: P “Non è lecito metterlo nel tesoro, perché è prezzo di sangue”. C E, tenuto consiglio, comprarono con esso il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu denominato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi. Allora si adempì quanto era stato detto dal profeta Geremia: “E presero trenta denari d’argento, il prezzo del venduto, che i figli di Israele avevano mercanteggiato, e li diedero per il Campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore”. Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore l’interrogò dicendo: P “Sei tu il re dei Giudei?”. C Gesù rispose: + “Tu lo dici”. C E mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani, non rispondeva nulla.

Allora Pilato gli disse: P “Non senti quante cose attestano contro di te?”. C Ma Gesù non gli rispose neanche una parola, con grande meraviglia del governatore. Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Mentre quindi si trovavano riuniti, Pilato disse loro: P “Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo? ”. C Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia.

Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: P “Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua”. C Ma i sommi sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a richiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò: P “Chi dei due volete che vi rilasci?”. C Quelli risposero: P “Barabba!”. C Disse loro Pilato: P “Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?”. C Tutti gli risposero: P “Sia crocifisso!”. C Ed egli aggiunse: P “Ma che male ha fatto?”. C Essi allora urlarono: P “Sia crocifisso!”.

C Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell’acqua, si lavò le mani davanti alla folla dicendo: P “Non sono responsabile di questo sangue; vedetevela voi!”. C E tutto il popolo rispose: P “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”. C Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso. Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano: P “Salve, re dei Giudei!”. C E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello, gli fecero indossare i suoi vestiti e lo portarono via per crocifiggerlo. Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prender su la croce di lui. Giunti a un luogo detto Golgota, che significa luogo del cranio, gli diedero da bere vino mescolato con fiele; ma egli, assaggiatolo, non ne volle bere. Dopo averlo quindi crocifisso, si spartirono le sue vesti tirandole a sorte. E sedutisi, gli facevano la guardia. Al di sopra del suo capo, posero la motivazione scritta della sua condanna: “Questi è Gesù, il re dei Giudei”. Insieme con lui furono crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra.

E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: P “Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!”. C Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: P “Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!”. C Anche i ladroni crocifissi con lui lo oltraggiavano allo stesso modo. Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: + “Elì, Elì, lemà sabactani?”, C che significa: + “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. C Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: P “Costui chiama Elia”. C E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere. Gli altri dicevano: P “Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!”. C E Gesù, emesso un alto grido, spirò. Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: P “Davvero costui era Figlio di Dio!”. C C’erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra costoro Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo.

Venuta la sera giunse un uomo ricco di Arimatea, chiamato Giuseppe, il quale era diventato anche lui discepolo di Gesù. Egli andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Allora Pilato ordinò che gli fosse consegnato. Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò. Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Magdala e l’altra Maria.

Il giorno dopo, che era quello successivo alla Parasceve, si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei, dicendo: P “Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse mentre era vivo: Dopo tre giorni risorgerò. Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!”. C Pilato disse loro: P “Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete”. C Ed essi andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia.

 

 

Esegesi

     Matteo scrive il Vangelo per i cristiani provenienti dal giudaismo, quando, dopo le prime conversioni in massa, molti stavano tirandosi indietro e la sinagoga prendeva le distanze dalla Chiesa, mentre cresceva l’afflusso dei pagani. Egli fa trasparire questa situazione fin dall’inizio (Mt 1-2), quando presenta Gesù di Nazaret, figlio di Abramo e di David, generato dallo Spirito Santo, nato a Betlemme secondo le Scritture, cercato dai magi pagani, mentre Erode, tiranno sanguinario e geloso, trama per farlo morire, complici i sacerdoti e gli scribi, intimoriti e plagiati. Nel racconto della passione torna a mettere in evidenza gli atteggiamenti di rifiuto e di scoperta di Gesù fino al suo trionfo nella risurrezione e all’invio dei discepoli in missione a tutte le genti.

Gesù, mentre è tradito, si dona totalmente (Mt 26,14-30).

     Il racconto incomincia con il tradimento di Giuda, indicato col verbo «consegnare» (paradidomi), lo stesso adoperato da Gesù, all’inizio del capitolo, per annunciare ai discepoli che il Figlio dell’uomo «sarà consegnato» per essere crocifisso, dopo due giorni, in coincidenza con la Pasqua ebraica. Il passivo usato da lui ha per soggetto Dio, il Padre, e vuol dire che «sarà donato» come supremo atto di amore. Giuda invece pretende di disporre lui del Maestro e vuol dire che è in grado di «tradirlo». Due modi opposti di vivere la stessa realtà, che si ripetono spesso.

     Gesù però, oltre che prevedere tutto, sa mantenersi nella piena prospettiva del dono e domina perfettamente gli eventi malgrado la cattiveria degli avversari e la debolezza dei discepoli. Mentre celebra la Pasqua ebraica, infatti, smaschera e deplora il tradimento, ma soprattutto istituisce l’Eucaristia, anticipando e rendendo perenne il dono di sé stesso sulla croce.

La forza di Gesù e il sostegno ai discepoli (Mt 26,31-56)

     Con i fatti del Getsemani, Gesù si avvia al dono supremo di sé e cerca di rendere coscienti i discepoli della crisi che stanno per affrontare, preannunciando a Pietro la fragilità della sua presunzione, sia pure ben intenzionata. Poi fa vedere dove lui trova la forza e dove anche loro possono trovarla: «Vegliate e pregate». Vegliare per far fronte alla crisi e per il sostegno reciproco. Pregare il Padre con totale disponibilità: «Però non come voglio io, ma come vuoi tu!».                                       

     Il contrasto tra dono e tradimento incentrati sulla sua persona, rende Gesù triste fino alla morte. Ma lo accetta e lo affronta con fermezza: «Ecco, è giunta l’ora nella quale il Figlio dell’uomo sarà consegnato (dal Padre nell’amore)… Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce si avvicina». Apre il cuore allo stesso traditore: «Amico, per questo sei qui!», cioè per qualcosa che rinnega il rapporto da amico. Poi ferma la violenza inconsueta dei discepoli e dice ingiusta e vile quella degli avversari. Il rimorso portò successivamente Giuda a ributtare il prezzo del tradimento ai carnefici (Mt 27,3-10).

Il Figlio di Dio condannato dal Sinedrio (Mt 26,57-75)

     Riunito in casa del sommo sacerdote, il Sinedrio più che un processo fa un confronto con Gesù sui principali capi d’accusa. Avviene di notte, perciò invalido, e i sinedriti sono immersi nella notte del pregiudizio e dell’odio, peggio che i sommi sacerdoti e gli scribi interrogati da Erode all’arrivo dei magi (Mt 2). Cercano false testimonianze sul suo insegnamento, col dichiarato proposito di metterlo a morte. Caifa è ipocrita nel chiedere a Gesù di replicare a due che concordano sulla sua affermazione di poter distruggere il tempio e riedificarlo in tre giorni: lui stesso è convinto che i falsi testimoni non bastano su un’affermazione così carica di significato religioso e di profonda verità. Passa quindi a una supplica solenne: «Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo il Figlio di Dio» (Mt 26,63). Ma è ancora teatrale e ipocrita. Infatti rifiuta subito la risposta affermativa che Gesù, prima silenzioso, si sente in dovere di dare all’autorità. Concerta l’accusa di bestemmia meritevole di morte e scatena il disprezzo con sputi e percosse.

     Sullo sfondo di questo processo religioso, Matteo riferisce le negazioni di Pietro, che sono il venire meno delle doverose testimonianze a favore e che hanno per cause, oggi come ieri, non solo l’odio e la prepotenza dei nemici, ma anche la propria paura, fragilità e convenienza.

          L’innocente Gesù giudicato dallo sprezzante e opportunista Pilato (Mt 27,1-26)

     Per dare legalità al processo notturno, i membri del Sinedrio lo ripetono sommariamente appena fattosi giorno e «consegnano» Gesù a Pilato, pagano e invasore. Anche la loro è una «consegna» tradimento di Gesù e insieme di se stessi, della propria dignità e autonomia di somme autorità ebraiche. Un sussulto di dignità lo ha il traditore del quale Matteo riporta a questo punto il pentimento. Ma Giuda è sopraffatto dalla disperazione.

     Anche quello del governatore non è un processo, ma un palleggio sprezzante e furbesco delle responsabilità. Chiede a Gesù se è «il re dei Giudei», ben lontano però da quello che intendevano i magi con questa espressione (cf. Mt 2,2). Egli vede tutto nell’ottica politico-militare di Roma. Non da quindi peso alla risposta affermativa di Gesù e passa allo sporco gioco politico di proporre il baratto con il sedizioso Barabba. Uno spiraglio sul mistero che ha davanti gli viene dalla moglie, turbata in sogno su «quel giusto», qualcosa di simile al richiamo della stella per i magi. Ma Pilato da libero corso, alla furia omicida degli avversari e «consegna» loro Gesù perché sia crocifisso. Si proclama innocente, col gesto teatrale di lavarsi le mani e nello stesso tempo lo fa flagellare per confermare la licenza di ucciderlo.

Il re da burla è davvero Figlio di Dio! (Mt 27,27-54)

     L’esecuzione capitale scatena nella plebaglia un rigurgito dei sentimenti dei giudici perversi. I soldati di Pilato in crudele ossequio alla scritta da lui voluta sopra la croce come motivo della condanna, scherniscono Gesù con un abbigliamento da re da burla, con la corona di spine e con gli sputi. I passanti ebrei e in particolare i membri del Sinedrio lo prendono in giro come riformatore religioso, operatore di miracoli e Messia, «Figlio di Dio».

     Sembra la fine di tutto, il trionfo dei malvagi e l’abbandono di Dio Gesù stesso sperimenta nella sua umanità quest’abisso e grida la sua supplica al Padre. Ma è il crollo di un certo mondo e l’inizio di uno nuovo. Matteo lo fa notare, inserendo a questo punto dei particolari straordinari: buio su tutta la terra, terremoto, velo del tempio squarciato, apparizioni di morti. E mostra una primizia del riconoscimento dei pagani dicendo che, non solo il centurione, ma anche quelli che erano con lui esclamano: «Davvero costui era Figlio di Dio!».

L’attesa della risurrezione (Mt 27,55-66)

     I discepoli sembrano aver dimenticato il ripetuto annunzio della risurrezione al terzo giorno (Mt 16,21; 17,23;20,19). Hanno però nella loro esperienza e nel loro cuore le premesse per accoglierla. Matteo, come gli altri Sinottici, ricorda in primo luogo le donne, che fino all’estremo vogliono continuare la sequela e il servizio di Gesù incominciato dalla Galilea. In particolare Maria di Magdala e l’altra Maria rimangono presso il sepolcro anche quando tutti se ne sono andati. Sono le stesse che, appena passato il sabato, ritornano e hanno il primo annuncio della risurrezione (Mt 28,1-7) e sono incaricate di richiamare i discepoli sui loro passi. Giuseppe d’Arimatea per intanto si limita al pietoso atto della sepoltura.

     Coloro invece che l’hanno fatto assassinare ricordano la profezia di Gesù. La qualificano una impostura e si preoccupano che i discepoli non cerchino di spacciarla per verità, trafugando il cadavere. Avvertono Pilato, sigillano la pietra tombale e pongono le guardie. Matteo aggiungerà, più avanti, che dopo aver escluso pregiudizialmente la risurrezione, ricorreranno meschinamente al pagamento di falsi testimoni per continuare a negarla. Ma nulla, se non la malafede, può fermare la potenza di Cristo risorto.

Meditazione 

      L’obbedienza a Dio consente al Servo (I lettura) e a Gesù (vangelo e II lettura) di sostenere la dolorosa sottomissione agli uomini e alla loro violenza. La fede del servo Gesù appare così fedeltà radicale a Dio e solidarietà con gli uomini che riscatta il male con il bene. Il racconto di Matteo è anzitutto cristologico: Gesù è al centro della narrazione come figura ieratica che domina gli eventi con autorevolezza di Signore. Si preannuncia la theologia gloriae del racconto giovanneo. Il Cristo della passione di Matteo è più simile al Cristo maestoso dei mosaici bizantini che al Gesù kenotico della narrazione di Marco. Egli domina gli eventi: lo mostra l’introduzione all’intero racconto (il «titolo» della passione matteana: Mt 26,1-2). Gesù sa ciò cui va incontro e lo dice: alla luce di questa conoscenza vengono ridimensionati gli sforzi di Giuda e i complotti dei suoi avversari per arrestarlo. In verità, ciò che nella passione si compie è il disegno di Dio manifestato nelle Scritture: la corrispondenza tra particolari anche banali e testi scritturistici diviene per Matteo occasione di mostrare che la passione ha un fondamento metastorico, è il compimento drammatico della storia di Dio con l’umanità. L’autorevolezza incomparabile di Gesù è dovuta alla sua conoscenza e accettazione della volontà divina, in altre parole, alla sua obbedienza alle Scritture (cfr. l’annotazione solo matteana di 26,53-54). Sempre attento al compimento delle Scritture, Matteo lo è ancor più nel racconto culminante del vangelo (cfr. le inserzioni matteane di 26,15; 27,9-10; 27,43). La signoria che Gesù mostra (in particolare con cui interviene per dare il senso degli eventi, per ammonire e correggere: 26,1-2.52-54) si accompagna alla sua obbedienza: egli è il Servo del Signore (cfr. Mt 26,28 che riprende Is 53,12), il Giusto (27,19), cioè colui che non persegue la propria volontà, ma compie quella del Padre. Gesù è il Figlio di Dio (27,54), espressione che non indica un’identità di natura, ma una totale comunione di volere e di agire.

     La dimensione ecclesiale della passione di Matteo traspare da una presentazione dei fatti illuminati dalla fede nel Risorto; questa passione è «un racconto destinato a un’assemblea di credenti» (X. Léon-Dufour). La comunità a cui è rivolto il vangelo di Matteo, bisognosa di essere rafforzata nella fede e incoraggiata nelle ostilità, appare, nella sua povertà e piccolezza, destinataria di quel Regno di Dio (21,43) che è un tema di fondo del primo vangelo. Comunità ormai aperta ai non ebrei, essa vede nell’intervento divino (in sogno) alla moglie di Pilato, una pagana, un’antecedente dell’apertura universalistica che connoterà la comunità cristiana. La passione di Gesù è anche giudizio su Israele, soprattutto sui suoi capi religiosi, i sacerdoti e gli anziani (27,20): l’espressione in bocca a tutto il popolo è presente solo in Matteo, «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (27,25), non è formula di automaledizione, ma solo di assunzione di responsabilità giuridica, e nel contesto del racconto, è quanto desiderato da Pilato che si è deresponsabilizzato nei confronti del destino di Gesù (27,24). L’espressione «sopra i nostri figli» è un’amplificazione retorica che non può per nulla significare una maledizione che si deve perpetuare nella storia sul popolo d’Israele: Matteo non è tanto interessato a individuare chi sia più colpevole di fronte alla morte di Gesù, ma a mostrare che Gesù è il solo Giusto.

     Infine, la morte in croce di Gesù è narrata da Matteo in maniera teologica, non cronachistica: i segni teofanici che la accompagnano (27,51-53: terremoto, aprirsi dei sepolcri, resurrezione dei santi morti, loro ingresso nella città santa, ecc.) anticipano ciò che avverrà alla fine del mondo. Così Matteo dice che la morte di Gesù costituisce l’evento culminante e decisivo della storia: è già il compimento della storia. Questo testo, solamente matteano, parla della resurrezione di Gesù al momento stesso della sua morte (27,53), e mostra che la narrazione della passione è rivelazione di un mistero, il mistero della storia di salvezza.

 

Preghiere e racconti 

Come vivere la settimana Santa

La benedizione delle palme, da cui questa domenica prende il nome, e la processione che ne è seguita vogliono evocare l’ingresso in Gerusalemme di Gesù e la folla che gli va incontro festosa e acclamante.

Forse la nostra processione appare un po’ povera rispetto a ciò che dovrebbe rievocare. L’importante, tuttavia, non è prendere in mano le palme e gli ulivi e compiere qualche pas-so, ma esprimere la volontà di iniziare un cammino. Questa scena infatti, che vorrebbe essere di entusiasmo, non ha valore in sé: assume piuttosto il suo significato nell’insieme degli eventi successivi che culmineranno nella morte e nella risurrezione di Gesù. Contiene perciò una domanda che è anche un invito: vuoi tu muovere i passi entrando con Gesù a Gerusalemme fino al calvario? Vuoi vedere dove finiscono i passi del tuo Dio, vuoi essere con lui là dove lui è? Solo così sarà tua la gioia di Pasqua.

Entriamo dunque con la domenica delle Palme nella Settimana santa, chiamata anche “autentica” o “grande”. Grande perché, come dice san Giovanni Crisostomo, «in essa si sono verificati per noi beni infallibili: si è conclusa la lunga guerra, è stata estinta la morte, cancellata la maledizione, rimossa ogni barriera, soppressa la schiavitù del peccato. In essa il Dio della pace ha pacificato ogni cosa, sia in cielo che in terra».

Sarà dunque una settimana nella quale pregheremo in particolare per la pace a Gerusalemme e ci interrogheremo pure sulle condizioni profonde per attuare una reale pace a Gerusalemme e nel resto del mondo.

La liturgia odierna è quindi un preludio alla Pasqua del Signore. L’entrata in Gerusalemme dà il via all’ora storica di Cristo, l’ora verso la quale tende tutta la sua vita, l’ora che è al centro della storia del mondo. Gesù stesso lo dirà poco dopo ai greci che, avendo saputo della sua presenza in città, chiedono di vederlo: «È venuta l’ora in cui sarà glorificato il Figlio dell’uomo» (Gv 12,23). Gloria che risplenderà quando dalla croce attirerà tutti a sé.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 159-160).

Lo splendore della pace

Alla fine del Vangelo per la benedizione delle palme udiamo l’acclamazione con cui i pellegrini salutano Gesù alle porte di Gerusalemme. È la parola dal Salmo 118 (117), che originariamente i sacerdoti proclamavano dalla Città Santa ai pellegrini, ma che, nel frattempo, era diventata espressione della speranza messianica: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Sal 118[117],26; Lc 19,38). I pellegrini vedono in Gesù l’Atteso, che viene nel nome del Signore, anzi, secondo il Vangelo di san Luca, inseriscono ancora una parola: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore”. E proseguono con un’acclamazione che ricorda il messaggio degli Angeli a Natale, ma lo modifica in una maniera che fa riflettere. Gli Angeli avevano parlato della gloria di Dio nel più alto dei cieli e della pace in terra per gli uomini della benevolenza divina. I pellegrini all’ingresso della Città Santa dicono: “Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!”.

Sanno troppo bene che in terra non c’è pace. E sanno che il luogo della pace è il cielo – sanno che fa parte dell’essenza del cielo di essere luogo di pace. Così questa acclamazione è espressione di una profonda pena e, insieme, è preghiera di speranza: Colui che viene nel nome del Signore porti sulla terra ciò che è nei cieli. La sua regalità diventi la regalità di Dio, presenza del cielo sulla terra. La Chiesa, prima della consacrazione eucaristica, canta la parola del Salmo con cui Gesù venne salutato prima del suo ingresso nella Città Santa: essa saluta Gesù come il Re che, venendo da Dio, nel nome di Dio entra in mezzo a noi. Anche oggi questo saluto gioioso è sempre supplica e speranza.

Preghiamo il Signore affinché porti a noi il cielo: la gloria di Dio e la pace degli uomini. Intendiamo tale saluto nello spirito della domanda del Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra!”. Sappiamo che il cielo è cielo, luogo della gloria e della pace, perché lì regna totalmente la volontà di Dio. E sappiamo che la terra non è cielo fin quando in essa non si realizza la volontà di Dio. Salutiamo quindi Gesù che viene dal cielo e lo preghiamo di aiutarci a conoscere e a fare la volontà di Dio. Che la regalità di Dio entri nel mondo e così esso sia colmato con lo splendore della pace. Amen.

(Dalla Omelia di BENEDETTO XVI nella CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE, 28.03.2010).

Osanna nel più alto dei cieli!

Dopo la risurrezione di Lazzaro, morto da quattro giorni, il Signore trovò un asinello che era stato preparato dai discepoli, come racconta l’evangelista Matteo (cfr. Mt 21,1-11), montò su di esso ed entrò in Gerusalemme secondo la profezia di Zaccaria, che aveva predetto: «Non temere, figlia di Sion! Ecco, giunge a te il tuo re, re di giustizia e di salvezza; mite cavalca il piccolo di un’asina» (Zc 9,9). Attraverso queste parole il profeta voleva indicare che Cristo è il re profetizzato, l’unico vero re di Israele. Il tuo re — dice – non mette paura a quelli che lo vedono, non è duro né malvagio, non conduce con sé soldati armati di scudo o guardie del corpo, né una quantità di fanti e di cavalieri, superbo, pronto a riscuotere imposte e tasse, a imporre schiavitù e servitù ignobili e dannose, ma sue insegne, invece, sono l’umiltà, la povertà, la sobrietà. Montato su un asino, infatti, faceva il suo ingresso senza ostentare alcuno sfarzo mondano. Per questo egli è il solo re giusto, che salva nella giustizia, mansueto perché la mansuetudine è l’attributo che più gli è proprio. Ed è lo stesso Signore che dice di sé: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mm,29). Colui dunque che risuscitò Lazzaro dai morti, re montato su un asino, entrava allora in Gerusalemme e subito tutta la gente, bambini, uomini, adulti e vecchi, stesero per terra i loro mantelli e, presi dei rami di palma, simbolo di vittoria, gli andavano incontro come all’autore della vita e al vincitore della morte, gli si prostravano davanti, lo scortavano e non solo all’esterno, ma anche dentro il recinto del tempio, e a una sola voce cantavano: «Osanna al figlio di David! Osanna nel più alto dei cieli!» (Mt 21,9). «Osanna» è un inno che si eleva a Dio; infatti tradotto significa: «Salvaci, Signore!»; e la parte che segue «nell’alto dei cieli» significa che l’inno è cantato non solo sulla terra, non solo dagli uomini, ma anche nell’alto dei cieli dagli angeli del cielo.

(GREGORIO PALAMAS, Omelie 15, PC 151,184B-185).

La processione e la passione

Molti furono stupiti della sua gloria, simile a quella di un trionfatore vittorioso, nel momento in cui entrava in Gerusalemme, ma poco dopo, nel momento in cui affrontava la passione, il suo volto era privo di gloria e umiliato. […] Se dunque si considera a un tempo la processione di quest’oggi e la passione, Gesù appare sublime e glorioso da una parte e umiliato e sofferente dall’altra. La processione fa pensare all’onore riservato ai re; la Passio san Luca, inseriscono ancora una parola: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore”. E proseguono con un’acclamazione che ricorda il messaggio degli Angeli a Natale, ma lo modifica in una maniera che fa riflettere. Gli Angeli avevano parlato della gloria di Dio nel più alto dei cieli e della pace in terra per gli uomini della benevolenza divina. I pellegrini all’ingresso della Città Santa dicono: “Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!”.

Sanno troppo bene che in terra non c’è pace. E sanno che il luogo della pace è il cielo – sanno che fa parte dell’essenza del cielo di essere luogo di pace. Così questa acclamazione è espressione di una profonda pena e, insieme, è preghiera di speranza: Colui che viene nel nome del Signore porti sulla terra ciò che è nei cieli. La sua regalità diventi la regalità di Dio, presenza del cielo sulla terra. La Chiesa, prima della consacrazione eucaristica, canta la parola del Salmo con cui Gesù venne salutato prima del suo ingresso nella Città Santa: essa saluta Gesù come il Re che, venendo da Dio, nel nome di Dio entra in mezzo a noi. Anche oggi questo saluto gioioso è sempre supplica e speranza.

Preghiamo il Signore affinché porti a noi il cielo: la gloria di Dio e la pace degli uomini. Intendiamo tale saluto nello spirito della domanda del Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra!”. Sappiamo che il cielo è cielo, luogo della gloria e della pace, perché lì regna totalmente la volontà di Dio. E sappiamo che la terra non è cielo fin quando in essa non si realizza la volontà di Dio. Salutiamo quindi Gesù che viene dal cielo e lo preghiamo di aiutarci a conoscere e a fare la volontà di Dio. Che la regalità di Dio entri nel mondo e così esso sia colmato con lo splendore della pace. Amen.

(Dalla Omelia di BENEDETTO XVI nella CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE, 28.03.2010).

Osanna nel più alto dei cieli!

Dopo la risurrezione di Lazzaro, morto da quattro giorni, il Signore trovò un asinello che era stato preparato dai discepoli, come racconta l’evangelista Matteo (cfr. Mt 21,1-11), montò su di esso ed entr

V DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Ezechiele 37,12-14

Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio. 

 

I tre versetti del capitolo 37 di Ezechiele, che la liturgia fa leggere oggi danno ad Israele, come segno della restaurazione della terra promessa e del ritorno in essa di tutto il popolo, la risurrezione dei morti. Non si tratta della risurrezione finale, ma del segno della potenza di Dio che ama il suo popolo e, dopo i castighi, gli invia una esaltante promessa di salvezza. «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele» (Ez 37,12). Il Signore si rivolge ad Israele con l’appellativo «popolo mio» ripetuto due volte in due versetti consecutivi.

     Dio ha scelto per sua libera volontà Israele e lo ha fatto proprio; i profeti lo ricordano ad Israele in esilio e sottolineano tutto l’amore paterno che Dio ha per lui. Egli castiga perché Israele si ravveda, ma egli è sempre il Dio misericordioso e consolatore, che ha scelto Sion fin dalla creazione del mondo: «Ti ho nascosto sotto l’ombra delle mie ali, quando ho disteso i cieli e fondato la terra, e ho detto a Sion: “Tu sei il mio popolo” (Is 51,16). Dio stesso si incarica di rinnovare dall’interno ogni membro del suo popolo, perché segua i suoi comandi e non incorra più nell’infedeltà: «Darò loro un cuore nuovo ed uno spirito nuovo metterò dentro di loro…perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e li mettano in pratica, saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio» (Ez 11,20; cf. 14,11; 34,30; 36,28; 37,23.27).

     Anche Geremia insiste sull’appartenenza di Israele a Dio, che si fa carico di riportarlo nella terra che ha promesso ai padri: «Io poserò lo sguardo sopra di loro per il loro bene li ricondurrò in questo paese, li ristabilirò fermamente e non li demolirò; li pianterò e non li sradicherò mai più. Darò loro un cuore capace di conoscermi, perché io sono il Signore; essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, se torneranno a me con tutto il cuore» (Ger 24,6-7).

            Dio è fedele nonostante le infedeltà del popolo e concede la grazia del ravvedimento (in ebraico teshuvà).

Seconda lettura: Romani 8,8-11

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.

Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.

 

Paolo nella prima sezione del capitolo 8 della lettera ai Romani presenta la vita nello Spirito che inabita nei cristiani come la vera ed unica vita, contrapposta a quella della carne, che è vita solo apparente, ma in realtà è morte. Egli con «carne», non intende i corpi mortali, ma i vizi e il peccato, che allontanano da Dio, unica fonte di vita. «Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio» (Rm 8,8). «Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi» (Rm 8,9; cf. 1Cor 3,16; 1Gv 3,24). La caratteristica propria dei cristiani è essere fatti simili a Cristo dallo Spirito. Non appartiene a Cristo chi non ha il suo stesso Spirito, mentre «se uno è in Cristo è una creatura nuova» (2Cor 5,17).

     Paolo di sé dichiara: «Sono stato crocefisso col Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me», e spiega che non si tratta di uscire dalla condizione mortale, ma di vivere nella fede: «Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato ed ha dato se stesso per me». (Gal 2,20; cf. Fil 1.21; Rm 8,2).

     Lo Spirito che risuscitò il Cristo è la caparra della risurrezione dei cristiani diventati mediante lo Spirito figli di Dio a somiglianza del Cristo (Rm 8,11.16).

 

Vangelo: Giovanni 11,1-45

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».

Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.

Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

 

Esegesi 

     Il racconto della risurrezione di Lazzaro si può considerare una vera e propria introduzione alla storia della passione, che si concluderà con la risurrezione dello stesso Gesù.

     La narrazione inizia con la presentazione dei protagonisti: Lazzaro, forma grecizzata di El-Azar, Dio presta aiuto, le sorelle Maria e Marta (Gv 12.1-8; Mt 26,6-13; Mc 14,3-9). Maria è presentata come «quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli» (Gv 11,2); il verbo è al passato, ma in realtà il gesto è narrato nel capitolo successivo (Gv 12,1-8; cf. Mt 26,6-13) e ambientato nel festoso banchetto dopo la risurrezione di Lazzaro; il gesto di Maria è da Gesù messo in relazione alla sua sepoltura (Gv 12,7).

     Non bisogna fare confusione fra Maria sorella di Lazzaro e la peccatrice nominata in Lc 10,36ss. Tale identificazione non è conosciuta dai padri prima di Gregorio Magno, ed è smentita dagli esegeti contemporanei.

     Lazzaro si ammala seriamente e le sorelle lo segnalano a Gesù, senza richiedere esplicitamente il suo intervento, come fa la madre di Gesù che segnala la mancanza di vino alle nozze di Cana senza aggiungere altro (Gv 2,3). Va da sé che Gesù, data la familiarità con queste persone, capisce anche quello che esse tacciono per discrezione.

     Gesù commenta la notizia dicendo che non è una malattia per la morte, ma per la gloria di Dio e la glorificazione del Figlio (Gv 11,4; cf. 9,3). Nel Vangelo di Giovanni la glorificazione del Figlio è l’evento pasquale (cf. Gv 3,14:8,28; 12,16-23; 13,31-32; 17,5) e la risurrezione di Lazzaro ne è un’anticipazione.

     Gesù si trattiene ancora due giorni nel luogo dove si trovava. Poi con grande risolutezza invita i discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!» (Gv 11,7). Egli sa che là si deve compiere la sua missione e con coraggio la vuole portare a termine. Anche Luca ci presenta un Gesù risoluto mentre intraprende il suo ultimo viaggio a Gerusalemme, è un Gesù che «indurisce la sua faccia», vale a dire richiama tutto il suo coraggio, prima di affrontare con decisione il cammino verso la passione (cf. Lc 9,51).

     I discepoli, appena Gesù ha espresso la volontà di andare in Giudea, gli ricordano timorosi che là era stato minacciato di morte (Gv 11,8). Gesù risponde con una parabola (Gv 11, 9-10) per rinfrancare i discepoli, che restano tuttavia tentennanti e, appena Gesù dice che Lazzaro si è addormentato ed egli vuole andare a riscuoterlo dal sonno, non vogliono capire e avanzano l’obiezione che se si è addormentato guarirà. Essi vogliono dissuadere Gesù dall’andare in Giudea e non colgono il secondo senso delle parole di Gesù, che si riferisce al sonno della morte. Allora Gesù dichiara apertamente che Lazzaro è morto ed è un bene che egli non era presente, perché ora essi avranno maggiore fede in lui. Poi rinnova l’invito a partire alla volta della Giudea. Fra i discepoli timorosi si distingue Tommaso (chiamato Didimo, che significa gemello) che, risoluto esorta i suoi compagni a condividere la stessa sorte di Gesù (Gv 11,16).

     All’arrivo di Gesù a Betania Lazzaro è sepolto da quattro giorni (Gv 11,18) e molte persone si sono radunate in casa di Marta e Maria per partecipare al loro lutto (Gv 11,19).

     Marta appena sente dell’arrivo di Gesù gli va subito incontro, mentre Maria rimane in casa (Gv 11,20). Questo particolare fa venire in mente l’episodio narrato da Luca 10,38-42; probabilmente entrambi gli evangelisti avevano dei ricordi molto vivi della stessa famiglia e in particolare delle due sorelle.

     La conversazione di Gesù con Marta introduce le motivazioni teologiche della rivelazione di Gesù che si presenta come «risurrezione e vita». Infatti la professione di fede di Marta nella risurrezione finale (Gv 11,24, cf. Dn 12,1-3; 2Mac 7,22-24,12,44) viene attualizzata da Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25). È una ripresa più esplicitamente riferita alla sua persona di quanto aveva già detto: «In verità in verità vi dico: viene l’ora ed è ora in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e coloro che l’avranno ascoltata vivranno» (Gv 5,25).

     Alla domanda di Gesù «Credi questo?». Marta risponde con la bellissima professione di fede simile a quella di Simon Pietro: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo » (Gv 11,27, cf. Mt 16,16).

     Marta allora va a chiamare Maria che esce in fretta anche lei per incontrarlo. La seguono i suoi ospiti, che credono che sia uscita per andare al sepolcro (Gv 11, 28-31).

     Gesù al vedere Maria e gli altri piangere è turbato (tarasso) e piange (dakryo) (Gv 11,33.35). Il pianto e il turbamento di Gesù di fronte alla morte di Lazzaro anticipano il turbamento di fronte alla propria morte: «ora la mia anima è turbata (tarasso) e che devo dire … padre salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono venuto a quest’ora» (Gv 12,27).

     Al sepolcro c’è un’altra conversazione con Marta che obietta alla richiesta di Gesù di aprire il sepolcro; ella non ha ancora capito fino in fondo le parole di Gesù.

     Appena tolta la pietra Gesù innalza con la piena fiducia di essere esaudito una preghiera di ringraziamento al Padre e lo fa a voce alta, perché gli astanti odano e credano, poi a «gran voce» esclama: «Lazzaro vieni fuori!» e Lazzaro ubbidisce (Gv 11,41-44).

Meditazione 

      Il passaggio dalla morte alla vita, centro del messaggio di questa domenica, prelude, soprattutto con l’episodio della resurrezione di Lazzaro, all’evento pasquale la cui celebrazione si fa sempre più vicina. La resurrezione appare come evento storico: la morte in cui giacciono i figli d’Israele è la situazione di esilio a Babilonia da cui essi risorgeranno ritornando in terra d’Israele (I lettura); appare come evento spirituale che caratterizza il credente che, lasciandosi guidare dallo Spirito di Dio, passa dalla vita nella carne, cioè nell’egoismo e nel peccato, alla vita in Cristo (II lettura); appare come evento personale e corporeo che conduce Lazzaro a uscire dalla tomba all’udire la parola di Gesù (vangelo). I testi sottolineano anche tre dimensioni della morte: se solo la morte di Lazzaro è fisica, la morte spirituale di chi vive nella chiusura egocentrica e la morte simbolica del popolo deportato non sono meno drammatiche e reali.

     La morte comunitaria di cui parla Ezechiele è situazione di morte della speranza: «La nostra speranza è svanita, siamo perduti» (Ez 37,11). Anche noi, nelle vicende relazionali (un’amicizia, un amore, un matrimonio), comunitarie ed ecclesiali che viviamo, possiamo sperimentare la morte della speranza, l’assenza di futuro. Tuttavia, la nascita della fede nella resurrezione e della speranza pasquale avviene attraverso la morte di altre speranze. Lo Spirito creatore è anche lo Spirito che dona vita e suscita speranza là dove regna la morte.

     Per Paolo l’uomo che vive «nella carne», nell’autosufficienza egoistica, fa del proprio cuore la propria tomba e si trova nella morte spirituale. Ma lo Spirito di resurrezione che forza l’impenetrabilità della morte e fa uscire dai sepolcri, può penetrare le chiusure individualistiche e, ponendo la dimora nel cuore umano e inabitando in esso, può immettere l’uomo in una vita nuova.

     Il brano evangelico è una pedagogia verso la fede in Cristo che è la resurrezione e la vita. Il dialogo tra Gesù e Marta è incentrato sul credere: «Chi crede in me, anche se muore vivrà» (Gv 11,25); «Credi questo?» (11,26); «Sì, o Signore, io credo» (11,27). Di fronte all’insicurezza e alla precarietà che la prospettiva della morte ingenera nelle nostre vite («a causa della morte, noi, gli uomini, siamo come città senza mura»: Epicuro), noi siamo tentati di costruirci baluardi, difese e barriere che ci proteggano da essa. Siamo indotti dalla paura a un atteggiamento difensivo. E così facciamo anche della vita una morte, una schiavitù («gli uomini sono schiavi per tutta la vita a causa della paura della morte»: Eb 2,15): cercando di difenderci dalla morte, in realtà ci allontaniamo dalla vita. Gesù, invece, chiedendo fede, affidamento, chiede di entrare nel suo atteggiamento di fronte alla morte («Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato»: Gv 11,42), atteggiamento che, mentre assume la morte e soffre per colui che è morto, fa anche della morte una vita, vivifica la morte. La fede è il luogo della resurrezione. La fede di Gesù è dunque un magistero perché noi impariamo a credere: «L’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano» (Gv 11,42). Proclama un’omelia dello Pseudo Ippolito: «Avendo tu visto l’opera divina del Signore Gesù, non dubitare più della resurrezione! Lazzaro sia per te come uno specchio: contemplando te stesso in lui, credi nel risveglio».

     Se la fede è il luogo della resurrezione, l’amore ne è la forza: Gesù amava molto Lazzaro (11,5) e questo amore si fece visibile nel suo pianto dirotto (11,35-36). L’amore integra la morte nella vita e trova il senso di quest’ultima nel dono: dare la vita diviene un dare vita. Aver fede in Gesù che è resurrezione e vita significa fare dell’amore un luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita.

     La fede e l’amore si manifestano nella parola con cui Gesù resuscita Lazzaro: lo scandalo e la follia di chiamare chi è morto e giace nel sepolcro è possibile grazie alla fede nel Dio che resuscita i morti e all’amore, all’umanissimo amore che legava Gesù a Lazzaro. La potenza di resurrezione della parola di Gesù è tutta nella fede e nell’amore che la abitano.

Preghiere e racconti 

L’amico dietro la pietra

Forse nel libro del Padre questo miracolo non era scritto. Egli non era stato mandato sulla terra per gli amici: i malati che guarisce, i morti che risuscita sono estranei; gente mai vista o quasi, lebbrosi dal volto irriconoscibile, salme ignote entro bare già coperte. Ai suoi non può regalar molto, al più un paio d’idre di vino, il carico di due barche da pesca. A se stesso nulla può regalare: forse per questo è bello pensare ch’egli abbia indugiato quei giorni sul Giordano.

«Io sono anche un uomo, Padre, e Lazzaro mi è più caro d’ogni altra cosa perché egli è il mio amico, la poca dolcezza di questo viaggio amaro che tu hai voluto. Se io corro a Betania, tu, lo so, darai potenza alle mie mani e lui sorgerà dal sepolcro, ma quel miracolo io lo farei per me solo, per queste poche giornate che mi rimangono, giacché la morte è troppo fredda senza un fuoco presso cui aspettarla. Scrivi quest’altro miracolo nel tuo libro, ma fa’ che a te, non a me io lo doni: quell’uomo che io amo rendimelo sconosciuto, cancella dalla mia memoria le dolci sere, fallo uguale a tutti questi altri di cui non so il nome, che non mi sono amici, ma solamente fratelli».

Il Padre ha risposto di sì, perché lui e il Padre sono una cosa sola. Dunque Lazzaro risorgerà. C’è solo questa remora di scostare la pietra, qualche istante appena e poi Marta e Maria risusciteranno anche loro alla gioia, quando quel fantoccio stecchito tornerà a essere il fratello e le sue braccia appena slegate dalle bende stringeranno contro il petto le loro teste indolenzite di pianto. Perché piange, allora? Signore, noi siamo felici, Lazzaro già respira sotto il sudario, era vero come tu dicevi, egli era solo assopito… 

(Luigi Santucci)

Quello che sarebbe accaduto nel Maestro era già realizzato nel servo

«Il Signore aveva resuscitato la figlia del capo della sinagoga, Giairo, ma quando era morta da poco (cfr. Mc 5,21-43). […] Aveva resuscitato anche il figlio unico di una vedova, ma fermando il corteo funebre, prima che fosse sepolto, in modo da evitare la corruzione e prevenire il fetore, per restituire la vita al morto prima che fosse interamente caduto in potere della morte (cfr. Lc 7,11-17). Ma per ciò che riguarda Lazzaro tutto quello che accade è eccezionale; la sua morte e la sua risurrezione non hanno niente in comune con le altre di cui si è detto. Qui è dispiegata tutta la potenza della morte ed è manifestato tutto lo splendore della risurrezione. Oso dire che Lazzaro avrebbe sottratto tutto il mistero della resurrezione del Signore se fosse ritornato dagli inferi il terzo giorno, poiché Cristo ritornò il terzo giorno come Signore, Lazzaro è richiamato alla vita il quarto giorno come servo. Ma per provare quanto abbiamo detto, soffermiamoci su alcuni passaggi della lettura. Le sue sorelle andarono a dire al Signore: “Signore, colui che tu ami è malato” (Gv 11,3). Con queste parole toccano i suoi affetti, fanno appello all’amore, smuovono la carità, cercano di superare il tragico momento con l’amicizia. Ma Cristo al quale interessa di più vincere la morte che allontanare la malattia, per il quale amare non è far uscire dal letto, ma ricondurre dagli inferi, preparò per l’amato non una medicina per la sua malattia, ma la gloria della risurrezione. Quando seppe che Lazzaro era malato, rimase due giorni nello stesso luogo (Gv 11,6). Vedete come lascia campo libero alla morte, concede opportunità alla morte, permette che avvenga la decomposizione, non ostacola ne la putrefazione ne il fetore. Accetta che gli inferi si impadroniscano di Lazzaro, che lo trascinino a sé, che l’abbiano prigioniero; agisce in modo tale che tutta la speranza umana sia perduta e che tutta la violenza della disperazione terrena si scateni perché ciò che opera è divino e non umano. Resta nel medesimo luogo ad aspettare la morte di Lazzaro fino a che egli stesso possa annunciarla e dichiarare che andrà da lui. Dice infatti: Lazzaro è morto e io ne gioisco (Gv 11,14). È questo l’amore? Cristo gioiva perché la tristezza della morte si sarebbe trasformata ben presto nella gioia della resurrezione. E io ne gioisco per voi: perché per voi? Perché nella morte e nella risurrezione di Lazzaro era rappresentata in figura la morte e la risurrezione del Signore e quello che sarebbe accaduto nel Maestro era già realizzato nel servo […] Era necessaria la morte di Lazzaro, affinché la fede dei discepoli, sepolta con Lazzaro, resuscitasse con lui».

(PIETRO CRISOLOGO, Discorsi 63, CCL 24 A, pp. 373-376). 

Desiderio di eternità

Mancano solo due settimane alla Pasqua, e le Letture bibliche di questa domenica parlano tutte della risurrezione. Non ancora di quella di Gesù, che irromperà come una novità assoluta, ma della nostra risurrezione, quella a cui noi aspiriamo e che proprio Cristo ci ha donato, risorgendo dai morti. In effetti, la morte rappresenta per noi come un muro che ci impedisce di vedere oltre; eppure il nostro cuore si protende al di là di questo muro, e anche se non possiamo conoscere quello che esso nasconde, tuttavia lo pensiamo, lo immaginiamo, esprimendo con simboli il nostro desiderio di eternità.

Al popolo ebraico, in esilio lontano dalla terra d’Israele, il profeta Ezechiele annuncia che Dio aprirà i sepolcri dei deportati e li farà ritornare nella loro terra, per riposarvi in pace (cfr Ez 37,12-14). Questa aspirazione ancestrale dell’uomo ad essere sepolto insieme con i suoi padri è anelito ad una “patria” che lo accolga al termine delle fatiche terrene. Questa concezione non contiene ancora l’idea di una risurrezione personale dalla morte, che compare solo verso la fine dell’Antico Testamento, e ancora al tempo di Gesù non era accolta da tutti i Giudei. Del resto, anche tra i cristiani, la fede nella risurrezione e nella vita eterna si accompagna non raramente a tanti dubbi, a tanta confusione, perché si tratta pur sempre di una realtà che oltrepassa i limiti della nostra ragione, e richiede un atto di fede. Nel Vangelo di oggi – la risurrezione di Lazzaro – noi ascoltiamo la voce della fede dalla bocca di Marta, la sorella di Lazzaro. A Gesù che le dice: “Tuo fratello risorgerà”, ella risponde: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno” (Gv 11,23-24). Ma Gesù replica: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11,25-26). Ecco la vera novità, che irrompe e supera ogni barriera! Cristo abbatte il muro della morte, in Lui abita tutta la pienezza di Dio, che è vita, vita eterna. Per questo la morte non ha avuto potere su di Lui; e la risurrezione di Lazzaro è segno del suo pieno dominio sulla morte fisica, che davanti a Dio è come un sonno (cfr Gv 11,11).Ma c’è un’altra morte, che è costata a Cristo la più dura lotta, addirittura il prezzo della croce: è la morte spirituale, il peccato, che minaccia di rovinare l’esistenza di ogni uomo. Per vincere questa morte Cristo è morto, e la sua Risurrezione non è il ritorno alla vita precedente, ma l’apertura di una realtà nuova, una “nuova terra”, finalmente ricongiunta con il Cielo di Dio. Per questo san Paolo scrive: “Se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8,11). Cari fratelli, rivolgiamoci alla Vergine Maria, che già partecipa di questa Risurrezione, perché ci aiuti a dire con fede: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio” (Gv 11,27), a scoprire veramente che Lui è la nostra salvezza.

(Le parole del Papa Benedetto XVI alla recita dell’Angelus, 10-04-2011).

La vita eterna – che cos’è?

     «Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo.

Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine –  questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile.

     È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: “È vero che la morte non faceva  parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio […] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non illumina la grazia”. Già prima Ambrogio aveva detto: “Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza…”».

(BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, 24-25).

Il seme delle domande

Dio mio, sono venuto con il seme delle domande!

Le seminai e non fiorirono.

Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte,

ma il vento non le sfoglia!

Dio mio, sono Lazzaro!

Piena d’aurora, la mia tomba

dà al mio carro neri puledri.

Dio mio, resterò senza domanda e con risposta

vedendo i rami muoversi!

(F. Garcia Lorca)

Io sono la risurrezione

Trovare una nuova vita attraverso la sofferenza e la morte: è questo il cuore della buona notizia. Gesù ha vissuto questa via di liberazione prima di noi e ne ha fatto il grande segno. Gli esseri umani hanno sempre la smania di vedere segni: eventi meravigliosi, straordinari, sensazionali che li possano distrarre un poco dalla dura realtà… Ci piacerebbe vedere qualcosa di meraviglioso, di eccezionale, che interrompa la vita ordinaria di tutti i giorni. In questo modo, anche se per un solo momento, possiamo giocare a nascondino. Ma a coloro che dicono: «Signore… vorremmo che tu ci facessi vedere un segno», Gesù risponde: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra».

Da tutto questo, si può vedere quale sia il segno autentico: non un miracolo sensazionale ma la sofferenza, la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù. Il grande segno, che può essere compreso solo da coloro che sono disposti a seguire Gesù, è il segno di Giona, il quale volle anche lui fuggire dalla realtà, ma fu richiamato indietro da Dio perché adempisse il suo arduo compito fino in fondo. Guardare la sofferenza e la morte dritto in faccia e attraversarle con la speranza di una nuova vita data da Dio: è questo il segno di Gesù e di ogni essere umano che desidera vivere una vita spirituale a sua imitazione. È il segno della croce: il segno della sofferenza e della morte, ma anche della speranza di un totale rinnovamento.

(H.J.M. Nouwen, Lettere a un giovane, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 117).

L’amore di Dio è più forte della morte

Anche se Gesù ha contrastato direttamente l’inclinazione umana a evitare la sofferenza e la morte, i suoi discepoli si resero conto che era meglio vivere la verità con occhi aperti che non vivere la loro vita nell’illusione.

La sofferenza e la morte appartengono alla via stretta di Gesù. Gesù non le glorifica, né le dichiara belle, buone o qualcosa da desiderare. Gesù non chiama all’eroismo o al sacrificio suicida. No, Gesù ci invita a guardare la realtà della nostra esistenza, e ci rivela che questa dura realtà è la strada da percorrere per arrivare a una nuova vita. Il nucleo del messaggio di Gesù è che la gioia e la pace non si possono mai raggiungere aggirando la sofferenza e la morte, ma soltanto affrontandole con coraggio.

Potremmo dire che in realtà, non abbiamo alcuna possibilità di scelta. Chi, infatti, sfugge alla sofferenza e alla morte? Eppure c’è ancora una scelta.

Possiamo negare la realtà della vita, o possiamo affrontarla. Se la affrontiamo non da disperati, ma con gli occhi di Gesù, scopriamo che dove meno ce l’aspettiamo, è nascosto qualcosa che sostiene una promessa più forte della morte stessa. Gesù ha vissuto la sua vita con la sicurezza che l’amore di Dio è più forte della morte e che la morte non ha, quindi, l’ultima parola. Egli ci invita ad affrontare la realtà dolorosa della nostra esistenza con la stessa fiducia. La Quaresima è soprattutto questo.

(H.J.M. Nouwen, Preghiere dal silenzio, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 118).

 

Ezechiele 37, 12-14; Romani 8, 8-11; Giovanni 11, 1-45

La risurrezione del cuore

Le storie del Vangelo non sono scritte solo per essere lette, ma anche per essere rivissute. La storia di Lazzaro è stata scritta per dirci questo: c’è una risurrezione del corpo e c’è una risurrezione del cuore; se la risurrezione del corpo avverrà “nell’ultimo giorno”, quella del cuore avviene, o può avvenire, ogni giorno.

Questo è il significato della risurrezione di Lazzaro che la liturgia ha voluto evidenziare con la scelta della prima lettura di Ezechiele sulle ossa aride. Il profeta ha una visione: vede un’immensa distesa di ossa rinsecchite e capisce che esse rappresentano il morale del popolo che è a terra. La gente va dicendo: “La nostra speranza è svanita, noi siamo perduti”. Ad essi è rivolta la promessa di Dio: “Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe…Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. Anche in questo caso non si tratta della risurrezione finale dei corpi, ma della risurrezione attuale dei cuori alla speranza. Quei cadaveri, si dice, si rianimarono, si misero in piedi ed erano “un esercito grande, sterminato”. Era il popolo d’Israele che tornava a sperare dopo l’esilio.

Da tutto questo deduciamo una cosa che conosciamo anche per esperienza: che si può essere morti, anche prima di…morire, mentre siamo ancora in questa vita. E non parlo solo della morte dell’anima a causa del peccato; parlo anche di quello stato di totale assenza di energia, di speranza, di voglia di lottare e di vivere che non si può chiamare con nome più indicato che questo: morte del cuore.

A tutti quelli che per le ragioni più diverse (matrimonio fallito, tradimento del coniuge, traviamento o malattia di un figlio, rovesci finanziari, crisi depressive, incapacità di uscire dall’alcolismo, dalla droga) si trovano in questa situazione, la storia di Lazzaro dovrebbe arrivare come il suono di campane il mattino di Pasqua.

Chi può darci questa risurrezione del cuore? Per certi mali, sappiamo bene che non c’è rimedio umano che tenga. Le parole di incoraggiamento lasciano il terreno che trovano. Anche in casa di Marta e Maria c’erano dei “giudei venuti per consolarle”, ma la loro presenza non aveva cambiato nulla. Bisogna “mandare a chiamare Gesù”, come fecero le sorelle di Lazzaro. Invocarlo come fanno le persone sepolte sotto una valanga o sotto le macerie di un terremoto che richiamano con i loro gemiti l’attenzione dei soccorritori.

Spesso le persone che si trovano in questa situazione non sono in grado di fare niente, neppure di pregare. Sono come Lazzaro nella tomba. Bisogna che altri facciano qualcosa per loro. Sulla bocca di Gesù troviamo una volta questo comando rivolto ai suoi discepoli: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti” (Mt 10,8). Cosa intendeva dire Gesù: che dobbiamo risuscitare fisicamente dei morti? Se fosse così, nella storia si contano sulle dita i santi che hanno messo in pratica quel comando di Gesù. No, Gesù intendeva anche e soprattutto i morti nel cuore, i morti spirituali. Parlando del figliol prodigo, il padre dice: “Egli era morto ed è tornato in vita” (Lc 15, 32). E non si trattava certo di morte fisica, se era tornato a casa.

Quel comando: “Risuscitate i morti” è rivolto dunque a tutti i discepoli di Cristo. Anche a noi! Tra le opere di misericordia che abbiamo imparato da bambini, ce n’era che diceva: “seppellire i morti”; adesso sappiamo che c’è anche quella di “risuscitare i morti”.

Preghiera

Tu hai parole di vita eterna,

tu sei cibo e bevanda,

tu sei la via, la verità e la vita.

Sei la luce che splende nelle tenebre,

la lampada sul candelabro, la casa sul monte.

Sei la perfetta icona di Dio.

Io grazie a te posso vedere il Padre celeste,

e con te posso trovare la strada per giungere a lui.

Sii il mio Signore, il mio Salvatore, il mio Redentore.

la mia Guida, il mio Consolatore, il mio Conforto,

la mia Speranza, la mia Gioia, la mia Pace.

A te voglio dare tutto ciò che sono.

Fa’ che io ti dia tutto,

tutto ciò che ho, penso, faccio e sento.

È tutto tuo, o Signore.

Ti prego, accettalo e rendilo completamento tuo.

Amen.   

 

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, 1609.
© Su concessione della Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali e Identità siciliana – Dipartimento Beni Culturali e Identità siciliana – Museo interdisciplinare regionale di Messina.

«Per la sua fede nel sole ‒ afferma san Giustino Martire ‒ non si è mai visto nessuno pronto a morire».
Consapevoli dell’orizzonte grande che la fede apriva loro, i cristiani chiamarono Cristo il vero sole, “i cui raggi donano la vita”. A Marta, che piange per la morte del fratello Lazzaro, Gesù dice: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?” (Gv 11,40). Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta».
È quanto scrive papa Francesco all’inizio dell’enciclica Lumen fidei. Così come Gesù rispondendo a Tommaso dirà di sé: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), anche nel dialogo con Marta, la sorella di Lazzaro di Betania, afferma: «Io sono la risurrezione e la vita […] chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,25-26). Gesù, infatti, è il Verbo nel quale «era la vita» (Gv 1,4), venuto nel mondo perché coloro che credono in  lui abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (cf. Gv 10,10). S. Agostino, riprendendo il testo giovanneo: «Chi crede in me anche se è morto vivrà, e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno» (Gv 11,25-26), si chiede: «Che vuol dire questo? “Chi crede in me, anche se è morto” come è morto Lazzaro, “vivrà”, perché egli non è Dio dei morti ma dei viventi. Così rispose ai Giudei, riferendosi ai patriarchi morti da tanto tempo, cioè ad Abramo, Isacco e Giacobbe: Io sono il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe; non sono Dio dei morti ma dei viventi: essi infatti sono tutti vivi (Mt 22,32; Lc 20,37-38). Credi dunque, e anche se sei morto, vivrai; se non credi, sei morto anche se vivi» (Commento al Vangelo di Giovanni 49). È proprio il dono della vita che Gesù partecipa all’amico Lazzaro che si era addormentato e che Egli era venuto a svegliare (cf. Gv 11,11).
Caravaggio ha tradotto in pittura l’episodio evangelico dipingendo a Messina, tra il 1608 e il 1609, una tela di notevoli dimensioni destinata alla Chiesa dei Padri Crociferi.
La scena è animata e mossa da un grande stupore che esprimono tutti i personaggi nell’istante in cui il corpo irrigidito di Lazzaro riprende vita, risvegliandosi dal sonno profondo della morte.
 
Il suo corpo nudo, liberato dalle bende, semicoperto da un lenzuolo, teso in forma di croce, è raggiunto dalla luce soprannaturale che si riflette anche sui volti smarriti dei personaggi che affollano il dipinto. All’estremità sinistra della tela è posta la figura solenne e composta di Gesù con il braccio destro alzato mentre la sua mano è rivolta verso il morto il quale ha già udito le parole: «Vieni fuori!» (Gv 11,43). Sciolto dalle bende e liberato dal sudario, Lazzaro riprende vita. Il suo capo è amorevolmente sostenuto dalle sorelle Maria e Marta. Quest’ultima aveva detto a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora io so che qualunque cosa chiederai a Dio, Egli te la concederà» (Gv 11,21-22). Adesso vede realizzato il suo desiderio e il suo atto di fede in Cristo, vita e risurrezione, trova risposta. Il tutto si consuma in una scenografia che si materializza in un ampio sfondo scuro che sembra incombere sulle figure disposte lungo uno stesso piano, uno spazio vuoto e impenetrabile che viene come squarciato dalla luce divina.
Caravaggio organizza la scena in modo teatrale. La proporzione tra le figure e l’altezza della tela aumenta la percezione del sacro e del mistero che avvolge e sconvolge gli uomini quasi sopraffatti dalla sua rivelazione. Il gioco di luce e di ombra sottolinea ancora di più l’evento pasquale che si sta compiendo quale anticipo dell’esodo da questo mondo al Padre che Gesù avrebbe realizzato da lì a breve a Gerusalemme. Ormai la morte, di cui anche le ossa e il teschio posti in primo piano, è stata sconfitta e fa spazio alla vita.
Nell’uomo raffigurato con le mani giunte e posto dietro l’indice di Cristo, rivolto proprio verso la fonte di luce, quasi alla ricerca della grazia, molti hanno letto l’autoritratto dello stesso Caravaggio. Nel suo volto smarrito ogni uomo che ricerca la verità può riconoscere se stesso.
Ogni credente, infatti, è chiamato ad abbandonare le tenebre della morte e del peccato per lasciarsi raggiungere dalla luce vivificante di Cristo.

 

l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

 

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

QUARESIMA V DOMENICA DI QUARESIMA (A)