XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Proverbi 31,10-13.19-20.30-31

Una donna forte chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore. In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto. Gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita. Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani. Stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso. Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero. Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare. Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani e le sue opere la lodino alle porte della città.

 

Il Libro dei Proverbi è una collezione di detti sapienziali, riguardanti il retto comportamento di tutte le categorie umane, dal tempo di Salomone (10,1-22,26:25-29) fino a dopo l’esilio (circa il 500 d.C.): vi si esprime la saggezza del popolo ebreo, ispirandosi nei più antichi, preferibilmente alla concezione sapienziale profana degli orientali, nei recenti più esplicitamente all’etica della religiosità javistica. A quest’ultima categoria appartiene sia il Prologo (cc. 1-9), sia l’epilogo (31,10-31); il quale è un piccolo poema in versi acrostici (ognuno dei quali, cioè, inizia con una lettera dell’alfabeto ebraico): ha come tema l’elogio della donna veramente «saggia» dal punto di vista morale, sociale, religioso. Qui vengono riportati i versi più significativi.

     v. 10: «Una donna forte chi potrà trovarla?».

     L’interrogativo enfatico mette in risalto il valore di una donna che ha in sé tutte le qualità di cui il poeta sta per tessere l’elogio: è inestimabile come «le perle preziose»!

     v. 11 : «In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto». Spiega in che consiste la sua preziosità: contribuisce al benessere della famiglia ed è fonte di gioia per il suo sposo.

     v. 13-19: «Si procura lana e lino… Stende la sua mano alla conocchia».

     Esemplifica la sua cooperazione: confeziona tele e vesti, compra campi e vi coltiva vigne, vende i prodotti, ne fornisce i suoi di casa.

     v. 20: «Apre le sue palme al misero».

     Come nel v. 13 essa si prodiga per la felicità del suo consorte, così ora estende la sua generosità ai concittadini più poveri, in piena sintonia col consiglio dei sapienti: «chi ha l’occhio generoso sarà benedetto, perché dona del suo pane al povero» (22,9.22-23).

     v. 30: «Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare».

     In conclusione viene in risalto la dote specifica che la rende degna della lode più grande, cioè la rettitudine delle sue opere: agisce con solerzia e accortezza (vv. 14-19.25), parla con prudenza e bontà (v. 26), veste se stessa e i suoi con decoro (vv. 21.25); realizza quella che è la vera «sapienza» in armonia col timore santo del Signore. Ha molto di più

che la semplice avvenenza femminile. La sua fama non resterà circoscritta tra i rioni; arriverà alle «porte della città», dove si radunano i notabili e gli uomini di affari; ne sarà coinvolto anche suo marito (v. 23): «le sue opere la lodino alle porte della città».

Seconda lettura: 1 Tessalonicesi 5,1- 6

Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire.  Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.  Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.

 

In questa lettera S. Paolo si intrattiene con i Tessalonicesi (Macedoni, che egli aveva evangelizzato da poco) sulle liete notizie che ha ricevuto attraverso Timoteo riguardanti la loro fede e il loro affettuoso ricordo (3,6-10). La presenza ostile dei Giudei in mezzo a loro gli aveva procurato serie preoccupazioni (3,14-15). Adesso ringrazia di cuore il Signore. Arriva a esclamare: «voi nostra gioia e nostra corona!» (2,19). Col medesimo affetto nella seconda parte (cc. 4-5) richiama le fondamentali esortazioni per una vita autenticamente cristiana: perseveranza nelle norme dateci dal Signore Gesù, purezza di costumi, sincera carità fraterna, laboriosità, pace con tutti, e in particolare vigilanza serena (4,13-18) e costante per quanto riguarda «il giorno del Signore» (5,1-6).

     v. 1 : «Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva». Dopo aver risposto, pare, a una preoccupazione dei Tessalonicesi sulla risurrezione dei defunti prima della Parusia, Paolo si premura di rassicurarli su un aspetto fondamentale riguardante quel giorno: la sua assoluta imprevedibilità (era ormai un dato risaputo: Mt 24,36.43; Ap 16,15), e insieme la sua ineludibilità: nessun essere umano ne potrà sfuggire, «nessuno scamperà» (v. 3).

     v. 3: «E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà». Gli uomini un giorno potranno illudersi di aver raggiunto nelle loro realizzazioni l’apice dell’efficienza e della stabilità e si esalteranno come i costruttori della torre di Babele, o azzarderanno previsioni apocalittiche, ma il credente in Cristo guarderà alle loro affermazioni con indomabile scetticismo, «Il cielo e la terra passeranno, ma non le mie parole» (Mt 24,35).

     v. 6: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri». È la logica conclusione, a cui si devono attenere costantemente «i figli del giorno», i discepoli del maestro divino e del suo fedelissimo apostolo: perseverare in tutte le virtù già ricordate (4,9-12) e attendere con fiducia e gioia l’ora della palingenesi finale.

Vangelo: Matteo 25,14-30

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:  «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.           

     Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.  Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.  Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”». 

 

Esegesi 

     Gesù ha parlato della grande tribolazione all’avvicinarsi del suo ritorno glorioso sulla terra (24,1-35), ha messo in guardia i discepoli perché si trovino pronti, con le lampade accese, in quel fatidico incontro con lo sposo divino (24,36-25,13); occorreva quindi precisare il compito che si esigeva da loro per essere giudicati degni di partecipare alla gloria del suo regno (valorizzazione dei doni ricevuti, opere di vero amore per i fratelli – 25,31-46).

     Il discorso originario probabilmente risale a una situazione più generica, forse in risposta a quei seguaci che, salendo con lui da Gerico — città di Lazzaro — verso Gerusalemme si interrogavano sull’imminenza del suo regno (Lc 19,11-13): badate, avrà detto Gesù, a eseguire fedelmente i compiti che vi avrà affidato il Signore supremo; è importante che egli vi trovi solerti e efficienti in qualunque tempo vorrà apparire; saprà ricompensare abbondantemente chi gli è stato fedele e manderà a mani vuote o punirà chi non avrà adempiuto il suo volere. Era un avvertimento per tutti, sia i discepoli sia gli amici di Lazzaro (i farisei), che dopo la conversione di costui lo accompagnavano (Lc 19,1-10).

     Matteo, inserendo il racconto nell’ultimo discorso del maestro, lo rende più solenne menzionando «i talenti» (somma ingente di fronte alle «mine» di cui parla Luca 19,13), e più chiaro del parallelo di Mc 13,34 e finisce per applicarlo alla comunità cristiana forse un po’ in crisi, ma ricca di carismi e di nuove possibilità di espansione.

     v. 15: «A uno diede cinque talenti, a un altro due … secondo le capacità di ciascuno». Un talento sarebbe computato 6.000 dracme greche, corrispondenti a 6.000 denari ebraici; e, poiché un denaro equivaleva alla paga di una giornata lavorativa, 5 talenti risulterebbero una somma per allora ingente: il compenso di 30.000 giornate lavorative; mentre una mina sarebbe solo 1/60 di talento, che era la somma consegnata a ciascuno dei servi in Lc 19. L’intento del donatore è quello di far fruttare le sue proprietà durante la sua assenza, e perciò fa affidamento sull’abilità dei suoi collaboratori: consegna di più a chi può rendere di più; di meno agli altri, in proporzione.

     vv. 16-17: «Colui che aveva ricevuto cinque talenti…ne guadagnò altri cinque…».

     I primi due comprendono bene il progetto del loro padrone e si danno da fare per raddoppiare la loro somma. Il testo non dice nulla sulle modalità seguite per raggiungere il loro scopo. Al narratore importava piuttosto mostrare la solerzia di quei due per rispondere al desiderio del loro signore. «Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone» (v. 18).

     v. 19: «Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò… a chi aveva guadagnato altri cinque talenti disse: “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto».

     Il padrone dimostra al primo e al secondo servo che hanno raddoppiato i talenti tutta la sua compiacenza. Sono stati leali e fedeli, ciascuno in proporzione del denaro ricevuto e della loro abilità, «il poco»: saranno ricompensati tutti e due nel «molto» con grandi onori e promozioni.

     v. 24: «Colui che aveva ricevuto un solo talento disse: “Signore, so che sei un uomo duro… Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra».

     Il terzo servitore espone anzitutto il giudizio che ha del suo padrone. Lo ritiene un personaggio esoso e intransigente, «che miete dove non ha seminato» e che sarebbe stato capace di esigere il suo talento anche nell’eventualità di una qualsiasi perdita. Non ha quindi osato trafficarlo. Altro che servo abile e devoto!

     v. 26: «Il padrone gli rispose: Servo malvagio… avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri».

     Non ha tenuto conto del suo desiderio e della sua fiducia. Non ha osato correre il minimo rischio per accontentarlo. Si è lasciato guidare solo dal suo egoismo e dalla paura; era così semplice mettere a frutto la sua somma presso un fidato banchiere per ricavarne almeno gli interessi!

     v. 28: «Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti». Un simile uomo, dice quel signore, non è più degno di essere al mio servizio; sia privato del talento ricevuto, che sarà consegnato in premio a chi si è impegnato generosamente per il mio piano; lui sia ormai dimesso dalla mia azienda. Fuori metafora è chiaramente descritta la situazione dei credenti che attendono l’incontro finale col loro supremo Signore.

     v. 29: «Perché a chiunque ha, verrà dato… E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».

     Gesù dice: ai suoi seguaci sono stati conferiti grandi doni di grazia e di luce: i suoi esempi e i suoi sublimi insegnamenti, i carismi dello Spirito, «i preziosi talenti», da mettere a frutto nella loro vita e in seno alla comunità; era suo desiderio che si adoperassero con impegno in santità e testimonianza evangelica. Non tutti però si sono premurati di compiacerlo. Chi per paura, chi per ignavia, molti si sono contentati di crogiolarsi nei belli sentimenti e di tenere solo per sé il luminoso messaggio dell’eterna salvezza. Saranno esemplarmente ripagati: gli uni ammessi in quel giorno all’immensa gioia del loro Signore, gli altri espulsi dove è tenebra e strider di denti.

 

Meditazione 

Il legame tra prima lettura e vangelo emerge se si considera che il testo di Proverbi non descrive solamente il tipo di donna che il sapiente, al termine del percorso di formazione e studio, delinea per i suoi allievi come moglie ideale, ma se si coglie quella figura femminile nella sua valenza simbolica per cui designa a un tempo la sapienza e il sapiente, ovvero, il dono e il frutto che tale dono suscita nell’uomo. Al cuore del ritratto della donna forte vi è la responsabilità. Responsabilità che si configura, tra l’altro, come affidabilità (Pr 31,11), laboriosità (31,13.19), vigilanza (31,27), generosità (31,20). E responsabilità è anche parola chiave per cogliere la differenza di comportamento tra i due tipi di servi nella parabola evangelica: il servo buono e fedele (Mt 25,21.23) e il servo malvagio e pigro (Mt 25,26). La responsabilità cristiana è coscienza del dono ricevuto e fedeltà ad esso. Anzi, più radicalmente, fedeltà al Donatore.

Secondo Ireneo di Lione, il denaro affidato dal padrone ai suoi servi significa il dono della vita accordato da Dio agli uomini. Dono che è anche compito e che chiede di non essere sprecato o ignorato o disprezzato, ma accolto con gratitudine attiva e responsabile. Paolo scrive: «Che cosa hai che non hai ricevuto?» (1Cor 4,7). Potremmo aggiungere che non solo ciò che abbiamo, ma anche ciò che siamo è dono di Dio. Noi siamo dono.

In questa luce vi è un aspetto del giudizio che incombe su chi non ha fatto fruttare i talenti ricevuti che non ha a che fare anzitutto con la prospettiva escatologica (Mt 25,30), ma già qui e ora con il rischio di sprecare la vita, di non viverla, di sciuparla «fino a farne una stucchevole estranea» (Constantinos Kavafis). Il rischio è quello di una vita insignificante, di una vita non vissuta.

L’idea essenziale che unifica i tre casi di servi che ricevono talenti in misura diversa è che in ogni caso, per ciascuno, all’origine vi è un dono che proviene da un altro, e che ciascuno riceve secondo la propria capacità. Si tratta dunque di un dono «personalizzato». Il dono affidatemi mi rivela a me stesso. Entrare nella logica del paragone e magari nella recriminazione, distoglie l’uomo dall’unica attività veramente sensata: conoscere se stesso e conoscere Dio, il Donatore, riconoscendo e accogliendo i doni ricevuti.

È una finezza psicologica la sottolineatura che è il servo che ha nascosto il denaro per paura è quello che ha ricevuto meno degli altri. Questi fatica ad accettare la propria minore forza-capacità rispetto ad altri è maggiormente esposto al rischio di cadere nell’invidia e nel risentimento. L’adesione al principio-realtà, ovvero, l’accettazione della realtà così come si presenta, in noi e fuori di noi, è allora misura salvifica umanamente e spiritualmente.

Investire il denaro ricevuto significa esporsi al rischio di perdite che dovrebbero poi essere rimborsate al padrone: la paura del servo, che lo ha paralizzato, è anche paura del rischio. Ed essendo evidente che questa parabola non vuole insegnare l’uso del denaro e non può essere usata per un’apologia di un sistema economico che assolutizzi il profitto, ecco che la paura di eventuali perdite va intesa come paura della vita che nasce da un’immagine di Dio distorta. Il desiderio di sicurezza, la paura di spendersi, il timore del giudizio altrui, hanno neutralizzato in quest’uomo la volontà di Dio che era che egli cercasse un guadagno (Mt 25,27) con il denaro ricevuto: e quel cercare un guadagno avrebbe significato anche un suo vivere, lavorare, rischiare, gioire e soffrire, insomma, un suo dare senso all’esistenza.

Dio vuole che l’uomo viva e cerchi la felicità, che osi la propria unicità e la propria umanità, che non si lasci paralizzare da paure e da immagini di Dio distorte. Il dono impegnativo che Dio affida all’uomo è anche la sua fiducia nei confronti dell’uomo.

Contrario di fedeltà (Mt 25,21.23) nella parabola, è pigrizia (Mt 25,26). Il pigro è colui su cui non si può fare affidamento, colui che delega, che spreca il proprio tempo, l’irresponsabile, colui che non assume la vita e la fede come compito di cui rispondere a Dio.

Preghiere e racconti

La misura del nostro coraggio

Come nella parabola dei talenti (Mt 25,14-30), la paura determina uno stile fallimentare – ieri, oggi e in ogni tempo – davanti ai doni di Dio. Anche oggi la paura paralizza l’uomo, paralizza la società, fa ingigantire i problemi: Tanto nell’ambito sociale, come può essere, per fare un esempio,  rispetto all’accoglienza degli immigrati, quanto nella sfera personale, segnata dalle nostre paure psicologiche…

I talenti della parabola, sono la misura del nostro coraggio, della nostra disponibilità ad agire secondo l’amore.

Mettono in luce la nostra capacità di dire:

”Riconosco, Dio, quanto mi hai dato,

riconosco le mie forze,

investo i tuoi doni,

investo i talenti perché voglio farli fruttare”

Questo passaggio, questo atto di riconoscimento,

è la risposta di chi crede nella vita,

di chi ha fede…

E’ la fede che permette al nostro cuore

di guardare oltre l’ostacolo…

Anche chi ha un solo talento, può,

se crede, farlo fruttare.

Nel Dio che ce l’ha donato possiamo trovare

la forza di farlo fruttare,

di condividerlo,

per andare oltre la nostra paura,

oltre le nostre paure.

”Colui che aveva ricevuto un solo talento,

allontanandosi scavò una buca nel terreno

e vi nascose il denaro…”

Ecco questo è il punto:

l’isolamento accresce la paura…

la relazione la fa diminuire e ci aiuta a rischiare…

E’ sommando i nostri doni,

le nostre potenzialità

che possiamo vincere la paura,

liberare il nostro amore,

costruire segni vivi di speranza.

(Giancarlo Maria Bregantini, Parole condivise, Fondazione talenti).

Ognuno di noi è un originale fatto da Dio

C’è una vecchia trazione giudeo-cristiana secondo la quale Dio manda ognuno di noi in questo mondo con un messaggio speciale da consegnare, con uno speciale atto d’amore da compiere. Il tuo messaggio e il tuo atto d’amore sono affidati soltanto a te, il mio è affidato soltanto a me. Se questo messaggio debba raggiungere solo poche persone o tutti gli abitanti di una città o il mondo intero dipende esclusivamente dalla scelta di Dio. L’unica cosa importante è essere convinti che ognuno di noi è adeguatamente equipaggiato: tu hai i doni giusti per consegnate il tuo messaggio ed io ho i doni appositamente scelti per consegnare il mio.

Un aspetto particolare della verità di Dio è stato messo nelle tue mani, e Dio ti ha chiesto di condividerlo con ognuno di noi, e lo stesso vale per me. Proprio perché tu sei unico, la tua verità è data soltanto a te e nessun altro può dire al mondo la tua verità, o compiere per gli altri il tuo atto d’amore. Solo tu hai tutti i requisiti per essere e fare ciò che devi essere e fare. Solo io ho tutto ciò che è necessario per portare a termine il compito per cui sono stato inviato in questo mondo.

Sarebbe inutile e anche sciocco confrontare me stesso con te. Ognuno di noi è unico, non esistono fotocopie o cloni di nessuno di noi. Un simile confronto significherebbe la morte dell’accettazione di sé. Guarda la tua mano: le dita non sono di uguale lunghezza. Se lo fossero, tu non potresti di fatto afferrare una mazza da baseball o lavorare ai ferri. Allo stesso modo, alcuni sono alti e altri bassi, alcuni hanno un talento e altri un dono diverso. Tu sei fatto su misura per realizzare il tuo compito, e così tu non sei me e io non sono te. E questo è bene, è meraviglioso. Noi dobbiamo non solo accettare, ma anche esaltare le nostre differenze. Il mondo custodisce gelosamente gli originali, e ognuno di noi è un originale fatto da Dio.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 23-24).

Utilizzare tutti i miei talenti

Nel II secolo d.C., sant’Ireneo scrisse che «la gloria di Dio è una persona che vive in pienezza». Non ti è mai capitato di fare un regalo a qualcuno e poi venire a sapere che l’altro non l’ha mai usato? Forse avresti voluto chiedere: «Non ti è piaciuto il mio regalo? Perché non l’hai usato?». Forse Dio desidera porci qualche domanda sui doni che ci ha fatto. Quando diciamo nel Padre Nostro: «Sia fatta la tua volontà!», sono certo che parte di questo volere è che io mi sforzi di utilizzare tutti i miei talenti. So che Dio vuole che io sviluppi i miei sensi, le mie emozioni, la mia mente, la mia volontà ed il mio cuore nel modo più completo. «La gloria di Dio è una persona che vive in pienezza».

Qualcosa dentro di me sa con certezza che il nostro amore per Dio viene sicuramente misurato dal nostro impegno nel compiere queste due cose: amare gli altri come amiamo noi stessi e fare la volontà di Dio in ogni cosa.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 70).

Racconto

Ricordo spesso un lungo racconto che si trovava, ai miei tempi nell’antologia delle medie: è la storia di un ragazzo che nella scuola, la vecchia media o forse addirittura il vecchio ginnasio, era un fallimento totale. La sua incapacità, ad esempio, di distinguere i verbi transitivi da quelli intransitivi, scoraggiava il suo professore di lettere, che ci vedeva il segno di una radicale incapacità intellettuale. Poi, mortogli il padre, quel ragazzo abbandonò la scuola e se lo risucchiò la vita. Qualche anno dopo il vecchio professore fu preso dal capriccio di farsi lui un po’ di vino, di vero vino di uva e si recò al mercato all’ingrosso per comperare appunto quella partita di uva che gli abbisognava. Ma qui scoprì quanto inetto egli fosse in cose di questo genere e quanto poco gli valesse il suo latino ad affrontare le cose concrete della vita. E qui gli capitò di imbattersi proprio in quel ragazzo, ormai uno splendido giovanotto, che subentrato al padre nella gestione di un suo commercio, sul mercato era di casa e ci si moveva come un pesce nell’acqua: conosciuto il problema se ne prese cura lui e quello che non era riuscito al vecchio professore con tutto il suo sapere, riuscì in pochi minuti all’allievo fallito nella scuola ma riuscito nella vita. E prima di lasciarlo si prese persino lo sfizio di una innocente ironia: “Professore – gli chiese – mi tolga una curiosità, i verbi transitivi sono quelli che passano o che non passano?”

Nessuno dica: «Ho un solo talento e non posso fare niente»

Nella parabola dei talenti quelli che presentano i guadagni riconoscono con animo grato ciò che è loro e ciò che è del padrone. L’uno dice: «Signore mi hai dato cinque talenti» (Mt 25,20) e l’altro: «due» mostrando che avevano ricevuto da lui la possibilità di lavorare, che gliene erano molto grati e attribuivano tutto a lui. Che disse allora il padrone? «Bene, servo buono – è proprio di una persona buona mostrare interesse per il prossimo – e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25,21); con queste parole mostrò tutta la beatitudine. L’altro servo non si comportò così; come si comportò? «Sapevo che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura ho nascosto il tuo talento: ecco qui il tuo (Mt 25,24-25). Che cosa disse allora il padrone? «avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri» (Mt 25,27), cioè avresti dovuto parlare, esortare, consigliare. Ma non danno ascolto. Questo non ti riguarda. Che cosa ci potrebbe essere di più mite? […]

Ascoltiamo queste parole. Finché c’è tempo, diamoci cura della nostra salvezza, prendiamo l’olio per le lampade, mettiamo a frutto il talento. Se siamo inoperosi, se viviamo nella pigrizia, nessuno là in alto avrà compassione di noi, per quanto ci lamentiamo. Condannò se stesso chi aveva le vesti immonde e nulla gli fu d’aiuto. Chi aveva un solo talento restituì quello che aveva ricevuto in deposito e così fu condannato. Le vergini supplicarono, si presentarono e bussarono alla porta, ma tutto fu inutile e vano. Sapendo questo, offriamo denaro, impegno, aiuto, ogni cosa per renderci utili al prossimo. I talenti qui indicano le possibilità di ciascuno per quanto riguarda l’aiuto, il denaro, l’insegnamento o altre cose del genere. Nessuno dica: «Ho un solo talento e non posso fare niente». Anche con un solo talento puoi farti onore. Non sei più povero di quella vedova (cfr. Lc 21,2), né più incolto di Pietro e di Giovanni che erano ignoranti e illetterati, ma poiché diedero prova di zelo e fecero tutto nell’interesse comune, conquistarono il cielo. Nulla è così caro a Dio quanto vivere per il bene comune. Per questo Dio ci ha dato mani, piedi, forza fisica, mente e intelligenza, per servirci di tutto questo per la nostra salvezza e a utilità del prossimo.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento sul vangelo di Matteo, om. 78,2, PG 58,713-715).

L’amore è il più grande talento umano

«Per coloro che non hanno amato, la vecchiaia è un inverno di solitudine. L’amore, il più grande talento umano, era stato sotterrato perché non si perdesse, e alla fine andò perduto davvero. Nessuno venne o se ne prese cura. Rimase soltanto una persona priva di amore e sola nell’attesa della morte.

Per coloro che hanno amato, la vecchiaia è il momento del raccolto. I semi di amore piantati con così grande cura tanti anni prima, sono maturati col tempo. La persona che ama è circondata, al tramonto della vita, dalla presenza e dall’affetto degli altri. Il bene ripaga sempre. Ciò che era stato donato in modo così spontaneo e gioioso, è stato restituito con gli interessi».

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995,69).

I talenti

E perché tu comprenda bene, colui al quale furono affidati cinque talenti è un maestro; colui a cui ne fu affidato uno è un discepolo. Ma se il discepolo dicesse: «Sono un semplice discepolo, non corro pericoli», e nascondesse la parola, comune e spoglia, ricevuta da Dio, e non pensasse di ammonire, di parlar con franchezza, di rimproverare, di correggere, se possibile, ma la nascondesse in terra: è davvero terra e cenere questo cuore che seppellisce la grazia di Dio! Se dunque la nascondesse per pigrizia o per malvagità, non lo scuserebbe nulla il dire: «Ho un solo talento». Hai un solo talento? Dovevi aggiungerne un altro e raddoppiare il tuo talento; se ne avessi aggiunto un altro, non saresti rimproverato. A colui che presentò due talenti, infatti, non fu detto: «Perché non ne porti cinque?», ma fu ritenuto degno degli stessi premi dati a colui che ne presentò cinque. E perché? Perché fece fruttare ciò che aveva e pur avendo ricevuto meno di quello che ne aveva avuti cinque, non per questo si abbandonò all’infingardaggine usando il poco che aveva per ozieggiare. Non dovevi guardare i due talenti; piuttosto dovevi guardare a lui che, avendone due, imitò quello che ne aveva cinque, e così tu devi imitare quello che ne aveva due. Se per chi è ricco e non fa parte delle sue ricchezze sta già preparato il castigo, per chi può esortare quanto vuole e non lo fa, non ci sarà forse un castigo maggiore? In quel caso si nutre il corpo, in questo l’anima: ivi si impedisce la morte temporanea, qui la morte eterna.

(Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli ebrei, 30,2).

Ogni uomo semplice

Ogni uomo  semplice porta in cuore un sogno,

con amore ed umiltà potrà costruirlo.

Se davvero tu saprai vivere umilmente,

più felice tu sarai anche senza niente.

Se vorrai ogni giorno con il tuo sudore,

una pietra dopo l’altra in alto arriverai.

Nella vita semplice troverai la strada

che la calma donerà al tuo cuore puro.

E le gioie semplici sono le più belle,

sono quelle che alla fine sono le più grandi.

Dai e dai ogni giorno con il tuo sudore,

una pietra dopo l’altra in alto arriverai.

(Dal film Fratello sole, sorella luna, di F. Zeffirelli)

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

PER APPROFONDIRE:

XXXIII DOM TEMP ORDINARIO (A)

DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE

Prima lettura: Ezechiele 47,1-2.8-9.12

In quei giorni, [un uomo, il cui aspetto era come di bronzo,] mi condusse all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente. Quell’acqua scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell’altare. Mi condusse fuori dalla porta settentrionale e mi fece girare all’esterno, fino alla porta esterna rivolta a oriente, e vidi che l’acqua scaturiva dal lato destro. Mi disse: «Queste acque scorrono verso la regione orientale, scendono nell’Àraba ed entrano nel mare: sfociate nel mare, ne risanano le acque. Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il torrente, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché dove giungono quelle acque, risanano, e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà. Lungo il torrente, su una riva e sull’altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina».

 

I capitoli 40-48 del libro di Ezechiele contengono la dettagliata e pignola descrizione del nuovo tempio, con l’indicazione delle misure e dei particolari della costruzione. Alla base di questa sezione, la cui lettura è piuttosto ostica, ci sarebbe secondo gli studiosi un’esperienza estatica di visione che il profeta racconta nel testo originale (40,1-2; 43,4-7a; 47,1-12), cui si sono poi aggiunte le altre parti.

      Il profeta, condotto in estasi su un alto monte nella terra di Israele, vede la città santa e la gloria del Signore entrare nel tempio, che aveva abbandonato, per abitarvi per sempre. Il brano che oggi commentiamo descrive gli effetti vivificanti della presenza del Signore.

      vv. 1-2-La presenza del Signore è fonte di benedizione: ciò è espresso con il simbolo dell’acqua, che purifica, disseta e da vita; ha la sua sorgente alla base del tempio e fluisce verso oriente e verso sud, nella valle del Cedron. Siamo nel quadro dell’Alleanza, che prevede benedizioni e maledizioni; ma l’alleanza ormai è definitiva, non c’è più possibilità di violare il patto, e rimane solo la benedizione.

      vv. 3-6a – L’abbondanza inesauribile della benedizione è efficacemente descritta con l’azione dell’angelo misuratore, che di mille cubiti in mille cubiti misura il fiume verso mezzogiorno. Alla fine il fiume è così in piena che è impossibile attraversarlo a guado: questo è il segno della preponderante vittoria della grazia. L’angelo ne sottolinea il significato, invitando il profeta veggente a leggere e interpretare il segno: «hai visto, figlio dell’uomo?».

      vv. 6b-7 – L’attenzione del profeta si sposta ora dall’acqua alle rive del fiume, dove sono visibili le conseguenze di questa sovrabbondanza della grazia: la vegetazione è lussureggiante sulle due sponde. Le acque che sgorgano dal santuario, in cui abita il Dio vivente, portano ovunque la vita; al giardino di Eden irrigato dal fiume che si divide in quattro rami (cf. Gn 2,10-14) si sostituisce ora la terra d’Israele, irrigata dalla benedizione

di Dio.

      vv. 8-9 – Nella spiegazione dell’angelo c’è la vittoria totale sulla morte: il fiume raggiunge infatti il Mar Morto, in cui nessuna vita è possibile, e ne risana le acque. Una grande quantità di pesci vivrà in quel mare grazie al fiume di vita che giunge ad alimentarlo.

      v. 12-11 versetto conclusivo del discorso fatto dall’angelo al profeta riassume la visione escatologica del trionfo della vita. Gli alberi da frutto perenni, che fruttificano ogni mese, rappresentano l’inesauribilità della grazia, che tutto vivifica, tutto nutre, tutto guarisce: l’immagine tornerà nell’Apocalisse, dove le foglie risanano le nazioni, in una visione universalistica in cui Israele e le genti sono accomunate nella Gerusalemme celeste (cf. Ap 22,2).

Seconda lettura: 1 Corinzi 3,9c-11.16-17

Fratelli, voi siete edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi. 

 

Nel cap. 3 della prima lettera ai Corinti Paolo riprende l’argomento delle fazioni in cui si era divisa la comunità, divisione da lui già stigmatizzata nel primo capitolo (cf. 1Cor 1,13). Paolo si rifà all’immagine dell’edificio, sia per sottolineare l’idea di unità e armonia, sia per ridimensionare l’azione dei costruttori rispetto alla solidità del fondamento, che è Cristo.

      vv. 9b-l 1 – La comunità credente è il campo che Dio rende fecondo, è l’edificio che in Dio ha la sua stabilità. Per questo campo, per questa costruzione, Dio vuole dei collaboratori, la cui efficacia dipende dalla grazia. Paolo si propone come uno di questi collaboratori, con il giusto orgoglio della sua missione («come un saggio architetto»), la fedele consapevolezza che tutto dipende dalla grazia («secondo la grazia di Dio che mi è stata data»), e l’umiltà di riconoscersi uno tra gli altri («un altro poi vi costruisce sopra»). L’incarico viene da Dio, l’opera dell’architetto quindi sarà sottoposta al suo giudizio. Paolo è tranquillo: a lui spettava gettare le basi della comunità, con il primo annuncio del Vangelo, ed egli sa di avere posto correttamente il fondamento in Cristo. Al tempo stesso egli lancia un ammonimento agli altri che costruiranno sopra: devono fare attenzione a non staccarsi dall’unico fondamento possibile, quello esistente, Gesù Cristo.

      vv. 16-17 – L’edificio che corrisponde alla comunità credente è un edificio sacro, e viene chiamato tempio, abitato dallo Spirito di Dio. La gloria di Dio che abitava nel tempio di Gerusalemme abita ora nella Chiesa e nel cristiano. La comunità è quindi il tempio sacro che non deve essere distrutto, pena la punizione divina: le fazioni nella comunità di Corinto mettono in pericolo la sacralità della Chiesa, e i cristiani devono rendersi conto di essere responsabili di ciò che avviene.

Vangelo: Giovanni 2,13-22 

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.  Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».  Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 

Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. 

 

Esegesi 

     Dopo un’introduzione che precisa tempo e luogo dell’azione (v 13) il brano si suddivide in due parti, ciascuna delle quali si conclude con una riflessione teologica dell’evangelista: la cacciata dei mercanti dal tempio (vv. 14-17) e la disputa con i giudei a proposito del tempio (vv. 18-22).

      Gesù ha iniziato la sua attività pubblica compiendo a Cana il primo segno e, dopo un soggiorno a Cafarnao, si reca a Gerusalemme per la Pasqua, come si conviene a un ebreo osservante.

      v. 13 – Giovanni è molto preciso nei dettagli, anche nell’indicazione geografica: Gesù sale da Cafarnao a Gerusalemme, ci sono infatti circa 1000 metri di dislivello fra le due città. Questa è la prima Pasqua delle tre che Giovanni ricorda (cf. 6,4; 11,55), specificando sempre che si tratta della festività ebraica «dei giudei».

      vv. 14-16 – La cosiddetta «purificazione del tempio», che i Sinottici collocano alla fine della vita pubblica, è narrata invece da Giovanni all’inizio, quasi a dare subito l’impronta al ministero di Gesù e alla novità da lui portata.

      I venditori di animali e i cambiavalute sostavano nel recinto del tempio, dove vi era anche l’atrio «dei pagani» in cui potevano entrare anche i non ebrei. Svolgevano un compito necessario per coloro che si recavano al tempio per la Pasqua: chi veniva da lontano non poteva portare con sé gli animali per il sacrificio, e doveva acquistarli in loco; era inoltre necessario cambiare le monete romane, che non potevano essere impiegate per pagare la tassa del tempio in quanto recavano incisa l’immagine dell’imperatore. La severità di Gesù appare quindi a prima vista eccessiva ma l’episodio ha un valore simbolico nel presentare Gesù come un profeta preoccupato della purezza e dell’autenticità della fede. Ai profeti infatti si ispira il detto di Gesù (cf. Mal 3,1-4; Zac 14,21; Is 56,7).

      v. 17 – Il commento dell’evangelista è una interpretazione dei gesti e delle parole di Gesù, che i discepoli possono comprendere alla luce della Scrittura. Il Sal 69,10 qui citato viene letto come una profezia della passione di Gesù.

      vv. 18-20 – La seconda parte del brano, che forse all’origine era indipendente dall’episodio appena narrato, riporta una delle tante dispute fra Gesù e i giudei. Per Giovanni, i «giudei» sono genericamente gli avversari che si rifiutano di credere in Gesù, senza che in questo ci sia alcuna nota di antisemitismo. Coloro che si chiudono alla fede cercano sempre dimostrazioni, prove, segni; di solito Gesù rifiuta di dare un segno, perché la richiesta non nasce dalla fede, ma è provocatoria e insincera.

      Qui invece risponde addirittura con una sfida, che suscita un misto di scandalo e derisione. Il logion «distruggete questo tempio e in tre giorni lo faro risorgere» è riportato nei Sinottici come la motivazione immediata della condanna di Gesù. Qui sembra che i giudei non lo prendano tanto sul serio, reagiscono con una domanda scettica «questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». La frase di Gesù è pronunziata nello stile dei profeti, è un oracolo sul nuovo tempio dell’era messianica e insieme un annuncio della sua passione e risurrezione. I giudei, chiusi alla fede, fraintendono e non possono cogliere l’annuncio profetico.

      Abbiamo qui anche una precisazione cronologica importante: poiché si sa, da Giuseppe Flavio, che la costruzione del tempio fu iniziata da Erode il Grande nel 20-19 a.C., si può datare questo episodio al 28 d.C., che corrisponde al 15° anno di Tiberio (ricordato in Lc 3,1).

      v. 22 – Quello che i giudei non potevano capire è spiegato dall’evangelista: parlava del santuario del suo corpo. Ma anche i discepoli non sono in grado di capire subito: dopo la risurrezione, ricordando le parole di Gesù e la testimonianza della Scrittura, comprenderanno e crederanno.

Meditazione

     La chiusura del testo tratto da Ezechiele rivela l’origine eletta dell’acqua miracolosa che porta vita e guarigione ovunque arrivi, anche nel deserto. Da sempre l’acqua è vettore di vita, specie in terre assetate come il Medio Oriente. Ma per il sacerdote Ezechiele, partecipe della caduta di Gerusalemme e della parziale distruzione del tempio, tutto ciò che esce dal “santuario”, cioè dal tempio stesso, è riempito della grazia di Dio ed è portatore della sua feconda benedizione. Dal cap. 40 del proprio libro, il profeta sta descrivendo il nuovo tempio e l’ordinamento del nuovo culto, come unico oggetto della propria visione.

      Dopo la distruzione della città, non vi può essere autentico ristabilimento se non c’è una dimora dove YHWH possa abitare in mezzo al suo popolo. Per questo l’ultima visione di Ezechiele concerne proprio la casa di Dio nella città santa. L’acqua sovrabbondante che sgorga è simbolo della funzione perenne e indispensabile del santuario. In mezzo alla città è sorgente benefica, cui nessuna forma di aridità o morte può resistere.

      Ciò che il profeta vede accadere una sola volta è, in realtà, l’ordinario significato di quel miracolo di immanenza per la somma Trascendenza che è la casa del Signore fra la gente che egli ha eletto come suo popolo. Non a caso, proprio dalla soglia del “Santo”, ossia dell’area che precedeva e circondava il “Santo dei Santi” sgorgano acque che attraversano l’atrio interno a destra dell’altare dirigendosi verso est, verso le regioni più desertiche e, idealmente, verso l’origine della luce solare, altra potentissima metafora per indicare il Dio datore di vita.

      Il testo di Ezechiele si chiude con un’immagine di grande rigoglio vegetale ripresa poi da Apocalisse. Il v. 12, attraverso l’idea di una foresta sempreverde che non conosce caduta di foglie e non cessa di produrre frutti a ogni mese, ci riporta al salmo 1, dove lo stesso è affermato del giusto in ascolto della parola di Dio. Gli alberi che crescono lungo la riva del fiume rivelano così il loro pieno significato: un popolo nuovo, fecondato dalla presenza irrigante di YHWH e intriso di una vita non soggetta ai mutamenti ciclici della natura. Senza la presenza tangibile e constatabile di Dio non potrebbe esservi, per l’uomo, alcuna speranza di fertilità e fecondità quanto ai frutti di opere buone. Il tempio era il segno di questa tangibile e constatabile presenza.

      Il vangelo sembra muoversi in direzione contraria rispetto alla prima lettura. Ormai, da quanto racconta Giovanni, il santuario non è più sorgente di acqua viva ma appare piuttosto come uno stagno che imputridisce. La sensazione che proviamo guardando al forte gesto che Gesù compie è questa. L’episodio è tanto scandaloso quanto urtante. Non c’è passo nel vangelo in cui Gesù usi una violenza così esplicita. A ciò aggiungiamo il luogo sacro in cui il gesto viene compiuto. Dal racconto della passione sappiamo quanta parte ebbe la polemica diretta che il Nazareno sviluppò a più riprese contro l’istituzione più sacra del suo popolo. Eppure questa pagina posta nel quarto vangelo non alla fine del ministero pubblico, ma all’inizio come pagina programmatica, segna una svolta radicale nell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Ogni edificio sacro, da quel momento, non può che assumere una funzione relativa. Perde il proprio valore sacramentale assoluto e viene a indicare come segno colui che solo è sorgente di acqua viva. La Pasqua di Gesù costituisce un passaggio tale da condurre al tramonto alcune classiche pretese dell’uomo religioso. Luoghi, oggetti, riti e abitudini rischiano perennemente di sconfinare nella magia, come se ciò che è divino potesse, al di là del libero contributo dell’uomo, coprire ogni genere di ambiguità. La casa del Padre è divenuta un mercato. Non cessa di essere dimora di Dio. Ma non per questo è esente da quella caricatura grottesca che a volte l’uomo religioso sa realizzare della propria fede. Il luogo dell’invocazione e della supplica, il luogo della gioia e del dolore viene profanato in nome dell’unico vero idolo che guida cuori e coscienze: il commercio.

      Lo scambio vitale che avviene tra Dio e l’uomo, per cui la creatura si consegna nelle mani del proprio Signore, è ormai ridotto a scambio di merci e monete. Serve un nuovo tempio che nella propria struttura sia vero sacramento del rapporto tra Dio e l’uomo. Questo luogo è il corpo di Cristo, come dice Giovanni, distrutto e ricostruito come il tempio di Gerusalemme, ma non da mani d’uomo, come ricorda la lettera agli Ebrei. Quel corpo è sacerdote, vittima e altare.

      Tutto è concentrato in un volto e in un evento: la Pasqua. La morte e risurrezione di Gesù diviene il crogiolo che purifica il culto dell’uomo e la sua offerta sacra. Ciò che non sa morire per risorgere, ciò in cui non brilla la potenza della risurrezione non può più essere veicolo tra l’Altissimo e la sua creatura. Il cristiano è cultura della Pasqua o non è discepolo del Signore. Sappiamo quanto ancora oggi siamo esposti alle ambiguità che il culto sempre contiene in sé. La nostra presenza nella casa di Dio ancora può avere a che fare con il commercio.

Preghiere e racconti

La Basilica Lateranense

      Quando l’imperatore romano Costantino si convertì alla religione cristiana, verso il 312, donò al papa Milziade il palazzo del Laterano, che egli aveva fatto costruire sul Celio per sua moglie Fausta. Verso il 320, vi aggiunse una chiesa, la chiesa del Laterano, la prima, per data e per dignità, di tutte le chiese d’Occidente. Essa è ritenuta madre di tutte le chiese dell’Urbe e dell’Orbe.

   Consacrata dal papa Silvestro il 9 novembre 324, col nome di basilica del Santo Salvatore, essa fu la prima chiesa in assoluto ad essere pubblicamente consacrata. Nel corso del XII secolo, per via del suo battistero, che è il più antico di Roma, fu dedicata a san Giovanni Battista; donde la sua corrente denominazione di basilica di San Giovanni in Laterano. Per più di dieci secoli, i papi ebbero la loro residenza nelle sue vicinanze e fra le sue mura si tennero duecentocinquanta concili, di cui cinque ecumenici. Semidistrutta dagli incendi, dalle guerre e dall’abbandono, venne ricostruita sotto il pontificato di Benedetto XIII e venne di nuovo consacrata nel 1726.

    Basilica e cattedrale di Roma, la prima di tutte le chiese del mondo, essa è il primo segno esteriore e sensibile della vittoria della fede cristiana sul paganesimo occidentale. Durante l’era delle persecuzioni, che si estende ai primi tre secoli della storia della Chiesa, ogni manifestazione di fede si rivelava pericolosa e perciò i cristiani non potevano celebrare il loro Dio apertamente. Per tutti i cristiani reduci dalle “catacombe”, la basilica del Laterano fu il luogo dove potevano finalmente adorare e celebrare pubblicamente Cristo Salvatore. Quell’edificio di pietre, costruito per onorare il Salvatore del mondo, era il simbolo della vittoria, fino ad allora nascosta, della testimonianza dei numerosi martiri. Segno tangibile del tempio spirituale che è il cuore del cristiano, esorta a rendere gloria a colui che si è fatto carne e che, morto e risorto, vive nell’eternità.

   L’anniversario della sua dedicazione, celebrato originariamente solo a Roma, si commemora da tutte le comunità di rito romano.

   Questa festa deve far sì che si rinnovi in noi l’amore e l’attaccamento a Cristo e alla sua Chiesa. Il mistero di Cristo, venuto “non per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12,47), deve infiammare i nostri cuori, e la testimonianza delle nostre vite dedicate completamente al servizio del Signore e dei nostri fratelli potrà ricordare al mondo la forza dell’amore di Dio, meglio di quanto lo possa fare un edificio in pietra.

“Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (Gv 2,18) 

   Il Vangelo di questa terza domenica di Quaresima riferisce – nella redazione di san Giovanni – il celebre episodio di Gesù che scaccia dal tempio di Gerusalemme i venditori di animali e i cambiamonete (cfr Gv 2,13-25). Il fatto, riportato da tutti gli Evangelisti, avvenne in prossimità della festa di Pasqua e destò grande impressione sia nella folla, sia nei discepoli. Come dobbiamo interpretare questo gesto di Gesù? Anzitutto va notato che esso non provocò alcuna repressione dei tutori dell’ordine pubblico, perché fu visto come una tipica azione profetica: i profeti infatti, a nome di Dio, denunciavano spesso abusi, e lo facevano a volte con gesti simbolici. Il problema, semmai, era la loro autorità. Ecco perché i Giudei chiesero a Gesù: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (Gv 2,18), dimostraci che agisci veramente a nome di Dio.

   La cacciata dei venditori dal tempio è stata anche interpretata in senso politico-rivoluzionario, collocando Gesù nella linea del movimento degli zeloti. Questi erano, appunto, “zelanti” per la legge di Dio e pronti ad usare la violenza per farla rispettare. Ai tempi di Gesù attendevano un Messia che liberasse Israele dal dominio dei Romani. Ma Gesù deluse questa attesa, tanto che alcuni discepoli lo abbandonarono e Giuda Iscariota addirittura lo tradì. In realtà, è impossibile interpretare Gesù come un violento: la violenza è contraria al Regno di Dio, è uno strumento dell’anticristo. La violenza non serve mai all’umanità, ma la disumanizza.

   Ascoltiamo allora le parole che Gesù disse compiendo quel gesto: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. E i discepoli allora si ricordarono che sta scritto in un Salmo: “Mi divora lo zelo per la tua casa” (69,10). Questo salmo è un’invocazione di aiuto in una situazione di estremo pericolo a causa dell’odio dei nemici: la situazione che Gesù vivrà nella sua passione. Lo zelo per il Padre e per la sua casa lo porterà fino alla croce: il suo è lo zelo dell’amore che paga di persona, non quello che vorrebbe servire Dio mediante la violenza. Infatti il “segno” che Gesù darà come prova della sua autorità sarà proprio la sua morte e risurrezione. “Distruggete questo tempio – disse – e in tre giorni lo farò risorgere”. E san Giovanni annota: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,20-21). Con la Pasqua di Gesù inizia un nuovo culto, il culto dell’amore, e un nuovo tempio che è Lui stesso, Cristo risorto, mediante il quale ogni credente può adorare Dio Padre “in spirito e verità” (Gv 4,23).

(Le parole del Papa Benedetto XVI alla recita dell’Angelus, 11.03.2012).

Con il battesimo siamo tutti diventati tempio di Dio

      Con gioia e letizia celebriamo oggi, fratelli carissimi, il giorno natalizio di questa chiesa: ma il tempio vivo è vero di Dio dobbiamo esserlo noi. Questo è vero senza dubbio. Tuttavia i popoli cristiani usano celebrare la solennità della chiesa matrice, poiché sanno che è proprio in essa che sono rinati spiritualmente.

Per la prima nascita noi eravamo coppe dell’ira di Dio; secondo nascita ci ha resi calici del suo amore misericordioso. La prima nascita ci ha portati alla morte; la seconda ci ha richiamati alla vita. Prima del battesimo tutti noi eravamo, o carissimi, tempio del diavolo. Dopo il battesimo abbiamo meritato di diventare tempio di Cristo. Se riflettiamo un pò più attentamente sulla salvezza della nostra anima, non avremo difficoltà a comprendere che siamo il vero e vivo tempio di Dio.

      «Dio non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo» (At 17, 24), o in case fatte di legno e di pietra, ma soprattutto nell’anima creata a sua immagine per mano dello stesso Autore delle cose. Il grande apostolo Paolo ha detto: «Santo è il tempio di Dio che siete voi» (1 Cor 3, 17). Poiché Cristo con la sua venuta ha cacciato il diavolo dal nostro cuore per prepararsi un tempio dentro di noi, cerchiamo di fare, col suo aiuto, quanto è in nostro potere, perché questo tempio non abbia a subire alcun danno per le nostre cattive azioni. Chiunque si comporta male, fa ingiuria a Cristo. Prima che Cristo ci redimesse, come ho già detto, noi eravamo abitazione del diavolo. In seguito abbiamo meritato di diventare la casa di Dio, solo perché egli si è degnato di fare di noi la sua dimora.

      Se dunque, o carissimi, vogliamo celebrare con gioia il giorno natalizio della nostra chiesa, non dobbiamo distruggere con le nostre opere cattive il tempio vivente di Dio. Parlerò in modo che tutti mi possano comprendere: tutte le volte che veniamo in chiesa, riordiniamo le nostre anime così come vorremmo trovare il tempio di Dio. Vuoi trovare una basilica tutta splendente? Non macchiare la tua anima con le sozzure del peccato. Se tu vuoi che la basilica sia piena di luce, ricordati che anche Dio vuole che nella tua anima non vi siano tenebre. Fa’ piuttosto in modo che in essa, come dice il Signore, risplenda la luce delle opere buone, perché sia glorificato colui che sta nei cieli. Come tu entri in questa chiesa, così Dio vuole entrare nella tua anima. Lo ha affermato egli stesso quando ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò (cfr. Lv 26, 11.12).

(SAN CESARIO DI ARLES, in Disc. 229, 1-3; CCL 104,905-908).

Il nuovo tempio per l’incontro con Dio Gesù

    «Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), dice il Signore. Volgiti a Dio con tutto il tuo cuore, lasciando questo misero mondo, e l’anima tua troverà pace. Impara a disprezzare ciò che sta fuori di te, dandoti a ciò che è interiore, e vedrai venire in te il regno di Dio. Esso è, appunto, «pace e letizia nello Spirito Santo» (Rm 14,17); e non è concesso ai malvagi.

   Se gli avrai preparato, dentro di te, una degna dimora, Cristo verrà a te e ti offrirà il suo conforto. Infatti ogni lode e ogni onore, che gli si possa fare, viene dall’intimo (Sal 44,14); e qui sta il suo compiacimento.

    Per chi ha spirito di interiorità è frequente la visita di Cristo; e, con essa, un dolce discorrere, una gradita consolazione, una grande pace e una familiarità straordinariamente bella. Via, anima fedele, prepara il tuo cuore a questo sposo, cosicché si degni di venire presso di te e di prendere dimora in te. Egli dice infatti: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e verremo a lui e abiteremo presso di lui» (Gv 14,23). Accogli, dunque Cristo e non far entrare in te nessun’altra cosa.

    Se avrai Cristo, sarai ricco, sarai pienamente appagato. Sarà lui a provvedere vedere e ad agire fedelmente per te. Cristo «resta in eterno» (Gv 12,4) e sta fedelmente accanto a noi, sino alla fine.

    (Imitazione di Cristo)

Preghiera 

Ti ringrazio, Signore,

perché le nostre chiese

sono come grandi famiglie.

Fa’ che il tuo spirito di riconciliazione,

Signore,

soffi su tutta la terra.

Fa’ che i cristiani vivano il tuo amore.

Noi ti lodiamo, Signore,

con le cattedrali d’Europa

con le offerte dell’America

e coi nostri canti africani di lode.

Ti ringraziamo, Signore,

perché in tutto il mondo

abbiamo dei fratelli.

Sii con loro che costruiscono la pace.

(Preghiera dall’Africa occidentale)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO

XXXII A DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE (A)

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I DEFUNTI

Prima lettura: Giobbe 19,1.23-27a

Rispondendo Giobbe prese a dire: «Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s’incidessero sulla roccia! Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro». 

 

Nella struttura generale del libro di Giobbe il breve tratto della lettura appartiene ai dialoghi tra Giobbe e i suoi amici e forma una parte del sesto poema di Giobbe in cui egli esprime la fede nel Redentore.

     Queste parole, destinate ad essere incise sulla roccia, costituiscono uno dei vertici di tutto il libro. Giobbe esprime la speranza che contraddice tutto ciò che egli ha appreso di Dio come suo accusatore e nemico, e che appare qui quale speranza contro ogni speranza. Giobbe esprime la convinzione ferma, la fede che l’atto finale della dolorosa vicenda che sta sperimentando sarà l’incontro con Dio che starà dalla sua parte.

     Il pensiero è presentato in modo enigmatico con uno stile misterioso, caratteristico dello stile e del vocabolario profetico. Questo testo, che dal punto di vista della critica testuale, della grammatica, della sintassi è uno dei più difficili e oscuri dell’antico testamento, poiché in esso vari termini hanno polivalenza semantica, che può dare luogo a grande diversità di interpretazioni, è famoso nella letteratura religiosa come espressione di fede.

     Diamo alcuni cenni: «il mio redentore è vivo». Il termine redentore indica una situazione giuridica di Israele: essa stabiliva che un membro della famiglia o della tribù era obbligato a rivendicare il diritto di un suo congiunto, pagando una somma per liberare uno schiavo, riscattando un terreno in vendita, uccidendo l’omicida del parente, la legislazione antica non ammetteva compensazione. L’obbligo della vendetta si basava sul legame di solidarietà. Il termine «redentore-goel» fu applicato anche a Dio in quanto vendicatore e difensore del suo popolo, di tutti i suoi membri, specialmente dei piccoli e degli oppressi.

     Giobbe è convinto che Dio o un suo rappresentante gli restituirà i diritti che egli aveva per la sua vita innocente. Il redentore è vivo, cioè possiede la vita come proprietà essenziale, vive e vivrà anche quando Giobbe sarà morto e avrà l’ultima parola, chiuderà la discussione circa la consapevolezza di Giobbe della propria innocenza. Negli ultimi giorni tale redentore si ergerà per pronunciare la sentenza come giudice supremo, come difensore e salvatore. È l’espressione della fede nel Dio vivente che apparirà alla fine dei tempi, libererà dalla morte e manifesterà la sua giustizia. È, in Giobbe, l’attesa della teofania finale.

     L’espressione: «Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro», vera croce degli interpreti, descrivono l’atto decisivo dello sperato esaudimento della preghiera e della giustificazione: essa è come un incontro di Giobbe con Dio cioè una nuova conoscenza di Dio da parte di Giobbe. «Senza la mia carne, vedrò Dio » è affermazione che può avere significato cultuale, equivalente a visitare il tempio, può indicare una teofania o una esperienza del favore divino, il godimento della pienezza della vita nella gioia dell’esaudimento e del ringraziamento. Giobbe è convinto che Dio lo dichiarerà giusto e sarà pienamente riconciliato con lui.

     Riletto alla luce della rivelazione cristiana questo testo esprime la fede e speranza della gioia della vita con Dio nella esistenza risorta. Perciò è stato scelto come lettura per la commemorazione dei defunti.

 

Seconda lettura: Romani 5,5-11

Fratelli, la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

       A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.

 

Il brano della lettera appartiene alla sua prima parte, dottrinale in cui l’apostolo espone il tema della salvezza mediante la fede. Il testo partendo dal suo inizio che tratta della speranza e della carità, indica il fondamento della fede nella salvezza definitiva, che ancora non possediamo.                                                    

     La speranza e la carità: «La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).

     La speranza, che ha origine dalla prova vissuta dai credenti nelle sofferenze, non inganna, perché la certezza di trovarsi ora e per l’avvenire nelle mani di Dio è tale che si distingue radicalmente dalla certezza terrena: questa non è altro che una incertezza mitigata; la speranza invece si fonda sulla fede sicura, quella fede nella realtà inattesa dell’amore di Dio che determina il presente e l’avvenire dei credenti; tale amore di Dio è quello con cui Dio ci ama, e di cui è pegno lo Spirito Santo con la sua attiva presenza nei credenti; in lui Dio ci ama, noi amiamo Dio e amiamo anche i nostri fratelli con lo stesso amore con cui Dio Padre ama il suo Figlio e noi; lo Spirito santo è principio dello stesso amore con cui Dio Padre ama il suo Figlio e noi; lo Spirito santo è principio di vita nuova che Dio ci dona. Con lo Spirito santo Dio ci dona il suo amore per noi e rende possibile il nostro amore per lui e per i fratelli.

     «Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,6-10).

     Si ha qui una argomentazione che è anche una spiegazione di quanto è stato detto nel v. 5 sull’amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo. L’idea è questa: la speranza non inganna perché lo Spirito di Dio, dato da Dio, produce nei nostri cuori, con la fede, una sovrabbondante certezza di essere amati da Dio; l’amore di Dio si mostra paragonandolo con l’amore che si osserva nei rapporti umani. Ora, nei rapporti umani: «a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto: forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene», mentre «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori. Cristo è morto per noi». Tale argomentazione viene ripetuta sinteticamente: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita». Viene così introdotto l’inno finale.

     Dossologia: «Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione» (Rm 5,11).

     Ciò che è stato detto fin qui ci spinge a ringraziare calorosamente Dio fin da ora. Gloriarsi è un atto che se viene compiuto rettamente, equivale a gloriarsi di Dio, a riconoscere e lodare Dio come causa unica di ogni salvezza; tale vanto può esserci attribuito soltanto «per il Signore nostro Gesù Cristo», cioè attraverso la mediazione del Signore glorificato.

 

Vangelo: Giovanni 6,37-40

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

 

Esegesi

     La lettura evangelica si trova nel capitolo sesto del vangelo di Giovanni. Tale capitolo appare come un dramma in quattro atti. Il primo atto è costituito dal racconto della moltiplicazione del pane (Gv 6,1-15); il secondo dalla venuta di Gesù sulle acque del lago verso i suoi discepoli (Gv 6,16-21); il terzo è il discorso di rivelazione (Gv 6,22-59); il quarto, attraverso la ripresa del parlare di Gesù, presenta l’effetto del suo precedente discorso sugli ascoltatori (Gv 6,60-71). Ciascuna di queste parti può a sua volta venire suddivisa.

     L’articolazione del grande discorso Gv 6,22-58 che occupa il posto centrale nel capitolo si svolge in sette sezioni; la prima introduce l’intero discorso (Gv 6,22-25); la seconda esprime l’esigenza da parte di Gesù di una comprensione più profonda dell’evento della moltiplicazione del pane e manifesta la richiesta da parte dei Giudei di un segno (Gv 6,26-30); la terza è la rivelazione sul pane del cielo, con citazione della scrittura e la interpretazione da parte di Gesù (Gv 6,31-35); la quarta espone la necessità della fede nella rivelazione (Gv 6,36-40); la quinta descrive il mormorare dei Giudei e propone il discorso di Gesù sulla incredulità e sulla fede (Gv 6,41-47); la sesta presenta l’autorivelazione del Signore come pane della vita disceso dal cielo (Gv 6,48-51 ab); la settima contiene le parole sulla carne e sul sangue di Gesù e conclude il discorso (Gv 6,51c-59).

     In questa composizione la quarta sezione, centrale 6,36-40, che costituisce la lettura, presenta una concentrazione di temi sparsi nelle altre sezioni e può essere vista come punto di riferimento sintetico dell’intero discorso.

            «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,37-40).

     Dopo di aver rivelato se stesso come pane della vita disceso dal cielo. Il discorso continua descrivendo e svolgendo il mistero della salvezza nel rapporto tra se stesso, il Padre e gli uomini, che della salvezza sono i destinatari «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori» (6,37). Ecco il concetto di dono espresso con il verbo dare; tale verbo prima di rivelare il rapporto tra Dio Padre e gli uomini, tra Gesù e gli uomini, rivela il rapporto tra il Padre e il Figlio. Il dare del Padre a Gesù è totale e Gesù ne ha piena consapevolezza.

     Il primo dei doni del Padre al Figlio, quello che li inaugura, li preannuncia, li precontiene è il dono dello Spirito (1,32-33), che viene dato senza misura (3,34). I singoli doni sono realtà salvifiche: il dono di essere fonte della vita e di giudicare (5,26-27), il dono delle opere e dell’opera (5,35; 17,4) il dono del comandamento (12,49) e del calice (18,11); il dono di tutto ciò che Gesù chiede al Padre nella preghiera (11,22), infine il dono della gloria (17,24). Il dono più caratteristico del Padre al Figlio è costituito dalle persone da salvare (17,2.6.9.24; 18,11).

     Nel nostro testo l’espressione «tutto ciò che il Padre mi dà», indica gli uomini nell’aspetto di collettività: è l’immagine del gregge dei credenti. L’espressione: «colui che viene a me» è designazione di chi crede in Gesù. Il Signore descrive la propria azione nei confronti del credente in lui con una espressione negativa: «io non lo caccerò fuori»; cacciare indica una esclusione dolorosa di qualcuno da una comunità; Gesù accoglie chi crede in lui e lo salva.

     Gli aspetti positivi dell’accoglienza da parte di Gesù qui non sono esplicitati, essi saranno descritti nel discorso sul rapporto tra il pastore e le pecore e nella preghiera sacerdotale: quelli che vanno a Gesù sono infatti mossi verso il Figlio dal Padre; perciò il Figlio non li respinge ma li accoglie e li custodisce (17,6-15). Osserviamo in questa rivelazione l’uso di una terminologia di movimento spaziale: venire a me, gettare o cacciare fuori, allontanare. Il significato è sempre in relazione a Gesù. Gesù è il centro verso cui tutti devono convergere per ottenere la salvezza.

     Nel mezzo di tutto questo sviluppo sta l’affermazione: «sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (6,38). Vi è rivelata l’origine di Gesù come discesa dal cielo, vi è rivelato lo scopo di tale discesa attraverso la negazione della propria volontà e l’affermazione del compimento della volontà del Padre. Il verbo discendere nel vangelo ha come soggetti principali lo Spirito e Gesù; il cielo, da cui proviene il movimento significato dal verbo «discendere» designa l’ambito di Dio; infatti dopo la preghiera che Gesù rivolge a Dio: «Padre glorifica il tuo nome» (12,28) accade questa risposta: «Venne una voce dal cielo: l’ho glorificato e lo glorificherò di nuovo» (12,28). La voce dal cielo appartiene al Padre. All’inizio del vangelo Giovanni vede «lo spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su Gesù» (1,32-33). Tale provenienza dal cielo dello Spirito manifesta la sua origine dal Padre. Il medesimo verbo designa Gesù; anzitutto come Figlio dell’uomo (3,13), poi come pane vivente (6,33.41.50.51.58). In intimo legame con queste affermazioni su se stesso pane vivente sta la rivelazione assoluta: «Sono disceso dal cielo» (6,42). Il cielo indicando il luogo di origine di Gesù donde egli viene e anche il suo punto di arrivo dove egli va è la designazione concreta di Dio Padre. I due verbi correlativi: discendere-salire sono una forma di manifestazione del mistero del Signore. L’espressione «discendere dal cielo» usata da Gesù per sé rivela il mistero dell’incarnazione del Figlio. La discesa dal cielo di Gesù è il farsi uomo del Figlio di Dio, che in quanto Verbo del Padre, Parola di Dio, è il pane che nutre coloro che lo accolgono con fede.

     Lo scopo dell’incarnazione viene indicato in modo duplice: negando di «fare la mia volontà» e affermando di fare la volontà del Padre. Quale sia la volontà del Padre nel presente testo viene ora dichiarato nelle due affermazioni che seguono le quali si completano a vicenda.

     «E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (6,39-40).

     Dio vi è designato come «colui che mi ha mandato» (6,39) e come «il Padre mio» (6,40). Il verbo «mandare» per lo più ha come soggetto Dio Padre in relazione a Gesù; vi sono due appellativi di Dio, uno completo: «il Padre che mi ha mandato», l’altro che omette il nome Padre: «colui che mi ha mandato». Questa formula della missione rivela l’unione intima tra Gesù e il Padre che lo invia, unione che sta al di sopra di ogni immaginazione umana e mostra Gesù e il Padre collocati in parità nella stessa sfera divina.

     All’espressione negativa: «non perda nulla di quanto egli mi ha dato» (6,39) corrisponde quella positiva: «chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (6,40). Da parte di Gesù «non perdere nulla o nessuno» di quelli che il Padre gli ha dato significa in forma negativa, il valore positivo della salvezza esplicitato con il possesso della vita eterna in 6,40.

La formula «lo risusciterò nell’ultimo giorno» (6,39.40), che conclude ambedue i versetti in modo eguale, manifesta l’aspetto futuro della vita eterna, sono così significati i due momenti dell’escatologia, attualità della salvezza nel presente della vita, compimento e pienezza nel futuro, a partire dall’ultimo giorno.

     Tale è il contenuto della volontà del Padre rivelato qui da Gesù: la salvezza mediante la fede degli uomini nel Figlio, l’accoglienza da parte di Gesù dei credenti in lui, il dono della vita eterna, la risurrezione finale. Tutto questo implica per Gesù l’ora del sacrificio, implica di bere il calice doloroso della passione.

     Questo tratto di vangelo, letto nella commemorazione dei defunti, rivolge il pensiero di fede alla certezza della risurrezione già presente in questa vita con la fede in Gesù, e pienamente compiuta nella vita futura con la partecipazione alla gloria della sua risurrezione. 

                      Meditazione                     

     La speranza e l’invocazione di Giobbe di una comunione con Dio dopo la morte (prima lettura) trova eco nella promessa di Gesù di risuscitare coloro che il Padre gli ha affidato (vangelo). La stessa morte di Gesù, vivificata dall’amore di Dio, è stata fattore di riconciliazione, di vittoria sul peccato, di vittoria della vita sulla morte (seconda lettura).

     «Contro tutte le altre cose è possibile procurarsi una sicurezza, ma a causa della morte, noi uomini abitiamo una città senza mura». La morte, ricorda Epicuro, pone un sigillo di precarietà e di insicurezza sulla vita umana. E l’insicurezza produce la paura, e la paura schiavizza. Gli uomini, ricorda la lettera agli Ebrei, sono schiavi tutta la vita a causa della paura della morte (Eb 2,15). E sentendoci città senza mura, cerchiamo di costruirci protezioni e difese che, mentre vogliono preservarci da morte in realtà ci allontanano dalla vita. E tanta parte della nostra vita passa in questo inganno. Le parole di Gesù nel vangelo non invitano ad atteggiamenti difensivi e di paura, ma alla fede, ad affidarsi al Signore, a credere in lui. «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna» (Gv 6,40); e ancora: «Chi crede in me, fosse anche morto, vivrà» ( Gv 11,25); «Chi crede ha la vita eterna» ( Gv 6,47). La fede in Cristo è il luogo della resurrezione.

     Quando la nostra persona si decide a un affidamento al Signore senza riserve, senza nulla da difendere, senza mura e baluardi, allora essa abita lo spazio della resurrezione e conosce l’amore e la speranza, l’audacia e la libertà che Gesù stesso ha vissuto. E Gesù ha vissuto le sue relazioni con gli altri sotto il segno del dono del Padre e del suo personale affidamento al Padre che è divenuto la sua consegna ai fratelli: gli altri sono ciò che il Padre gli ha dato (Gv 6,37.39) e di cui lui assume la responsabilità fino in fondo (Gv 13,1). Affidandosi al Padre egli non respinge da sé chi viene a lui, non rigetta, non si difende dagli altri, ma accoglie. Vivendo il primato della fede nel Padre che l’ha mandato, Gesù vive non per fare la sua volontà, ma la volontà del Padre, che è volontà di vita piena per ogni uomo. Una vita così vissuta, è una vita che integra la morte e la trasforma in amore, che è forza di resurrezione. Se la fede è il luogo della resurrezione, l’amore è la forza della resurrezione.

     Non vi è solo la paura della morte che ci porta a difenderci, ma anche e soprattutto la paura della vita, delle perdite che il vivere comporta, dei confronti impietosi con gli altri che ci conducono a chiuderci in noi e a vivere nel risentimento, nel timore che gli altri ci possano sottrarre qualcosa. Aver fede in Gesù Cristo significa fare dell’amore il luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita, e anzitutto della vita degli altri. In tutto questo ci vengono in aiuto le esperienze di morte che la vita ci fa fare. L’esperienza del lutto segna lo scacco del narcisismo e rivela la vanità del perseguire la volontà propria, del costruire barriere per difenderci dalla morte che la vita ci potrebbe recare. E ci può aprire, con la sua muta lezione, all’unica cosa necessaria e vitale: credere l’amore, vivere l’amore, fare della vita un atto di amore.

     La logica della resurrezione, espressa nei termini di non perdere nulla e nessuno di quanto il Padre ha dato al Figlio (Gv 6,39), è la logica dell’amore. Quella logica che spesso non è nostra perché noi sappiamo perdere l’altro, le relazioni, i doni ricevuti.

     Una comunità cristiana è fatta anche di una memoria condivisa e le persone che sono morte e che abitano la memoria di ciascuno, e che ciascuno coglie oggettivamente nella fede nel Cristo morto e risorto e porta nell’eucaristia, chiedono di rendere sempre più armonici i rapporti tra le membra del corpo affinché sia l’agape la linfa vitale che percorre e unifica il corpo comunitario e sia la gratitudine l’alveo in cui essa vive. Allora potrà avvenire forse anche a noi di morire nella gratitudine e nella benedizione, dando sostanza cristiana alla bella e antica immagine formulata dall’imperatore filosofo: «L’oliva matura cade benedicendo la terra che l’ha portata in sé e rendendo grazie all’albero che l’ha fatta crescere» (Marco Aurelio).

Preghiere e racconti

La morte non è la conclusione, ma un passaggio

Non dobbiamo rattristarci perché il Signore ha chiamato i nostri fratelli liberandoli da questo mondo; sappiamo infatti che non sono perduti, ma che ci hanno preceduto come usano fare quelli che partono in viaggio per terra o per mare. Dobbiamo provarne nostalgia, non piangere né vestirci con abiti neri dal momento che quelli che sono morti già hanno ricevuto vesti bianche. Non dobbiamo offrire ai non credenti l’occasione di rimproverarci meritatamente, a buon diritto, perché piangiamo come scomparsi e perduti quelli di cui diciamo che vivono presso Dio e non confermiamo con la testimonianza dei sentimenti del nostro cuore quella fede che proferiamo a parole, con la nostra voce. Tradiamo la nostra speranza e la nostra fede; quel che diciamo risulta falsità, finzione, artificio. Non serve a niente mostrare la virtù a parole e con i fatti demolire la verità. […] La morte non è la conclusione, ma un passaggio, un cammino temporaneo verso le realtà eterne.

      Chi non si affretta verso il meglio? Chi non desidererebbe essere trasformato, conformato a Cristo e ammesso alla dignità della grazia celeste? L’apostolo Paolo proclama: «La nostra cittadinanza è nei cieli da dove aspettiamo anche il Signore nostro Gesù Cristo che trasfigurerà il nostro misero corpo conformandolo al suo corpo glorioso» (Fil 3,20-21). E il Signore Cristo promette che questo avverrà anche a noi quando prega il Padre per noi affinché siamo con lui e viviamo nella gioia con lui nelle dimore eterne e nei regni celesti: «Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano con me dove sarò io e vedano la gloria che mi hai dato prima che il mondo fosse» (Gv 17,24). Chi deve andare nella dimora di Cristo, alla gloria celeste del regno, non deve rattristarsi e piangere ma piuttosto, secondo la promessa del Signore, forte della sua fede nella verità, deve gioire della sua partenza e del suo transito.

(CIPRIANO DI CARTAGINE, La morte 20.22, CCL III A, pp. 27-29).

L’albero generoso

C’era una volta un albero che amava un bambino. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni.

Raccoglieva le sue foglie con le quali intrecciava delle corone per giocare al re della foresta. Si arrampicava sul suo tronco e dondolava attaccalo ai suoi rami. Mangiava i suoi frutti eppoi, insieme, giocavano a nascondino.

Quando era stanco, il bambino si addormentava all’ombra dell’albero, mentre le fronde gli cantavano la ninna-nanna.

Il bambino amava l’albero con tutto il suo piccolo cuore.

E l’albero era felice.

Ma il tempo passò e il bambino crebbe.

Ora che il bambino era grande, l’albero rimaneva spesso solo.

Un giorno il bambino venne a vedere l’albero e l’albero gli disse:

«Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l’altalena con i miei rami, mangia i miei frutti, gioca alla mia ombra e sii felice».

«Sono troppo grande ormai per arrampicarmi sugli alberi e per giocare», disse il bambino, «io voglio comprarmi delle cose e divertirmi. Voglio dei soldi. Puoi darmi dei soldi?».

«Mi dispiace, rispose l’albero «ma io non ho dei soldi. Ho solo foglie e frutti. Prendi i miei frutti, bambino mio. e va’ a venderli in città. Così avrai dei soldi e sarai felice».

Allora il bambino si arrampicò sull’albero, raccolse tutti i frutti e li portò via.

E l’albero fu felice.

Ma il bambino rimase molto tempo senza ritornare… E l’albero divenne triste.

Poi un giorno il bambino tornò; l’albero tremò di gioia e disse:

«Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l’altalena con i miei rami e sii felice».

«Ho troppo da fare e non ho tempo di arrampicarmi sugli alberi», rispose il bambino. «Voglio una casa che mi ripari», continuò. «Voglio una moglie e voglio dei bambini, ho dunque bisogno di una casa.

Puoi darmi una casa?».

«Io non ho una casa» disse l’albero. «La mia casa è il bosco, ma tu puoi tagliare i miei rami e costruirti una casa. Allora sarai felice».

Il bambino tagliò tutti i rami e li portò via per costruirsi una casa. E l’albero fu felice.

Per molto tempo il bambino non venne. Quando ritornò, l’albero era così felice che riusciva a malapena a parlare.

«Avvicinati, bambino mio», mormorò «vieni a giocare».

«Sono troppo vecchio e troppo triste per giocare», disse il bambino. «Voglio una barca per fuggire lontano di qui. Tu puoi darmi una barca?».

«Taglia il mio tronco e fatti una barca», disse l’albero. «Così potrai andartene ed essere felice».

Allora il bambino tagliò il tronco e si fece una barca per fuggire. E l’albero fu felice… ma non del tutto.

Molto molto tempo dopo, il bambino tornò ancora.

«Mi dispiace, bambino mio», disse l’albero «ma non resta più niente da donarti… Non ho più frutti».

«I miei denti sono troppo deboli per dei frutti», disse il bambino.

«Non ho più rami», continuò l’albero «non puoi più dondolarti».

«Sono troppo vecchio per dondolarmi ai rami»,disse il bambino.

«Non ho più il tronco», disse l’albero. «Non puoi più arrampicarti».

«Sono troppo stanco per arrampicarmi», disse il bambino.

«Sono desolato», sospirò l’albero. «Vorrei tanto donarti qualcosa… ma non ho più niente. Sono solo un vecchio ceppo. Mi rincresce tanto…».

«Non ho più bisogno di molto, ormai», disse il bambino. «Solo un posticino tranquillo per sedermi e riposarmi. Mi sento molto stanco».

«Ebbene», disse l’albero, raddrizzandosi quanto poteva «ebbene, un vecchio ceppo è quel che ci vuole per sedersi e riposarsi. Avvicinati, bambino mio, siediti. Siediti e riposati».

Così fece il bambino.

E l’albero fu felice.

(Shel Silverstein)

La morte

Il grande esegeta Riesenfeld ha scritto: «Dobbiamo considerare la morte come un tutto suddiviso in diversi momenti; ciò che accade al termine della vita terrena non è che il compimento finale di quanto abbiamo già subito in parte al momento del battesimo. Così, quando un giorno dovremo morire, quel fatto non conterrà niente di veramente nuovo per noi. Per analogia con la vita eterna, la morte, sia quella che è dietro di noi che quella che aspettiamo, riceve la sua impronta da ciò che accade sul Golgota. La morte appare in tutto il suo orrore in quanto giudizio dell’esistenza umana decaduta (cfr. Gv 12,31). Ma proprio allora la morte cessa una volta per tutte di presentarsi come qualcosa di definitivo e senza speranza (cfr. 1 Cor 15,55)» 

Io sono la risurrezione

Trovare una nuova vita attraverso la sofferenza e la morte: è questo il cuore della buona notizia. Gesù ha vissuto questa via di liberazione prima di noi e ne ha fatto il grande segno. Gli esseri umani hanno sempre la smania di vedere segni: eventi meravigliosi, straordinari, sensazionali che li possano distrarre un poco dalla dura realtà… Ci piacerebbe vedere qualcosa di meraviglioso, di eccezionale, che interrompa la vita ordinaria di tutti i giorni. In questo modo, anche se per un solo momento, possiamo giocare a nascondino. Ma a coloro che dicono: «Signore… vorremmo che tu ci facessi vedere un segno», Gesù risponde: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra».

Da tutto questo, si può vedere quale sia il segno autentico: non un miracolo sensazionale ma la sofferenza, la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù. Il grande segno, che può essere compreso solo da coloro che sono disposti a seguire Gesù, è il segno di Giona, il quale volle anche lui fuggire dalla realtà, ma fu richiamato indietro da Dio perché adempisse il suo arduo compito fino in fondo. Guardare la sofferenza e la morte dritto in faccia e attraversarle con la speranza di una nuova vita data da Dio: è questo il segno di Gesù e di ogni essere umano che desidera vivere una vita spirituale a sua imitazione. È il segno della croce: il segno della sofferenza e della morte, ma anche della speranza di un totale rinnovamento.

(H.J.M. Nouwen, Lettere a un giovane, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 117).

L’amore di Dio è più forte della morte

Anche se Gesù ha contrastato direttamente l’inclinazione umana a evitare la sofferenza e la morte, i suoi discepoli si resero conto che era meglio vivere la verità con occhi aperti che non vivere la loro vita nell’illusione.

La sofferenza e la morte appartengono alla via stretta di Gesù. Gesù non le glorifica, né le dichiara belle, buone o qualcosa da desiderare. Gesù non chiama all’eroismo o al sacrificio suicida. No, Gesù ci invita a guardare la realtà della nostra esistenza, e ci rivela che questa dura realtà è la strada da percorrere per arrivare a una nuova vita. Il nucleo del messaggio di Gesù è che la gioia e la pace non si possono mai raggiungere aggirando la sofferenza e la morte, ma soltanto affrontandole con coraggio.

Potremmo dire che in realtà, non abbiamo alcuna possibilità di scelta. Chi, infatti, sfugge alla sofferenza e alla morte? Eppure c’è ancora una scelta.

Possiamo negare la realtà della vita, o possiamo affrontarla. Se la affrontiamo non da disperati, ma con gli occhi di Gesù, scopriamo che dove meno ce l’aspettiamo, è nascosto qualcosa che sostiene una promessa più forte della morte stessa. Gesù ha vissuto la sua vita con la sicurezza che l’amore di Dio è più forte della morte e che la morte non ha, quindi, l’ultima parola. Egli ci invita ad affrontare la realtà dolorosa della nostra esistenza con la stessa fiducia.

(H.J.M. Nouwen, Preghiere dal silenzio, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 118).

Preghiera           

Vieni tu da me, Signore,

e allora io potrò venire da te.

Portami a te

e solo allora potrò seguirti.

Donami il tuo cuore

e solo così potrò amarti.

Dammi la tua vita

e allora potrò morire per te.

Prendi nella tua risurrezione

tutta la mia morte

e sii mio,Signore, sii mio

affinché io sia tua in eterno.

(Silja Walter)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

 XXXI COMM. DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI (A)

TUTTI I SANTI

Prima lettura: Apocalisse 7,2-4.9-14

Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».

E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua.  Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

 

L’inizio del capitolo 7 dell’Apocalisse vuole rispondere all’angosciosa domanda: Chi potrà resistere alla nuova grande tribolazione? La risposta viene attraverso visioni, parole e gesti simbolici.

     In una prima visione (Ap 7,1-8) si vedono gli angeli che trattengono i venti sterminatori ai quattro angoli della terra mentre un angelo, che porta il sigillo del Dio vivente, grida di fermare ogni distruzione, finché non siano segnati sulla fronte «i servi del nostro Dio».

     Il numero dei segnati è di 144.000. Tale numero è il quadrato di dodici moltiplicato per mille. Esso simbolicamente indica la totalità di Israele rappresentato dalle sue dodici tribù, da ognuna delle quali provengono coloro che sono segnati col sigillo divino; esse non hanno più riscontro nella realtà storica, ma conservano un significato teologico (cf i nomi delle 12 tribù scritti sulle porte della Gerusalemme che scende dal cielo, Ap 22,12). Da notare che nella menzione delle tribù non viene nominata quella di Dan, ma, pur di far risultare il numero 12, si nomina quella di Manasse, uno dei due figli di Giuseppe, quindi già compresa nella sua tribù.

     I segnati non saranno esentati dalla tribolazione, ma avranno Dio vicino a loro che li aiuterà a superarla. Tale insegnamento vale non solo per i figli di Israele, ma anche per i cristiani che con il battesimo («sigillo» è uno dei nomi dato al battesimo nelle chiese primitive) sono fatti partecipi dell’elezione divina riservata ad Israele.

     Dopo la scena del sigillo del Dio vivente una nuova visione si apre con l’apparizione di «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9). Lo sguardo ora è proiettato dalla terra al cielo, che si apre per mostrare coloro che hanno ormai superato le afflizioni della vita e «stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello». «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide — dice paradossalmente l’immagine — nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14).

     Mentre l’aver lavato le vesti nel sangue dell’Agnello allude sia al martirio cristiano sia al battesimo, la grande tribolazione allarga lo sguardo a tutti coloro che sono vittime della violenza, guerra, fame, pestilenza, persecuzione di ogni tipo, tutti quanti, senza distinzione di nazione, razza, popolo e lingua formano la moltitudine dei beati apparsa in vesti bianche e con una palma in mano (Ap 7,9).

     La moltitudine e le altre creature celesti intonano inni di lode a Dio (Ap 7,10-12).

Questa visione di benessere si può considerare la risposta all’angosciosa domanda: «Fino a quando, o Signore, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra fili abitanti della terra?» (Ap 6,10).

     Il Salmo responsoriale (23-24) nei primi due versetti innalza un inno di lode al Dio creatore, lode che attesta la fede nel Dio creatore e salvatore e che attraversa tutta la Bibbia. La terra e l’universo non sono un ammasso caotico di cose e i loro abitanti non sono sottomessi al caso, ma vivono secondo un progetto divino.

     Dal versetto 3 al 7 entriamo in una scena liturgica: la domanda: «Chi salirà il monte del Signore?» esprime l’esigenza di alcune caratteristiche necessario prima di accedere al culto del Signore. La risposta: «Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronunzia menzogna» rispecchia la convinzione che ci deve essere grande coerenza fra il culto e la vita, che deve essere condotta quotidianamente secondo le esigenze dei precetti divini. Solo con l’integrità della vita (cf Sal 15.1-2) e una coscienza limpida lontana da ogni ipocrisia (cf Is 33,15-16) Israele può rendere culto al «Dio di Giacobbe», nella speranza che «otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza» (Sal 23-24,7). Tali indicazioni valgono anche per i cristiani.

 

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.     

 

Dio ci ha amato per primo in modo gratuito e smisurato tanto da considerarci realmente suoi figli (1 Gv 3,1.2). La figliolanza divina in Cristo per mezzo dello Spirito dei discepoli di Gesù è ricordata più volte nel Nuovo Testamento in particolare nelle lettere paoline (cf ad es. Gal 3,26,4,5-7; Rm 8,14-17; Ef 1,5).

     Possiamo scoprire più in profondità l’atteggiamento paterno di Dio studiando nella Bibbia il suo comportamento verso Israele «figlio primogenito» (Es 4,22, cf Dt 14,1). Dio si mostra al tempo stesso padre e madre di Israele, lo richiama con severità quando sbaglia, ma non si dimentica mai di lui e lo riaccoglie e lo consola dopo i castighi. Le pagine profetiche lo ricordano continuamente.

     Essere stati chiamati da Dio ad essere figli adottivi comporta anche per noi, come per Israele, il dovere di obbedire ai comandamenti divini (cf 1Gv 5,2). Per ora infatti siamo già figli di Dio, ma come saremo «non è stato ancora rivelato» (1Gv 3,2). Per ora dobbiamo vivere nella speranza, e purificare noi stessi ad imitazione di Gesù, il perfetto imitatore del Padre.

 

Vangelo: Matteo 5,1-12a 

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

  

Esegesi 

     Il brano di Vangelo è l’inizio della sezione di Matteo, che si è soliti chiamare «Discorso della montagna». Questo titolo deriva dall’indicazione del primo versetto: «Gesù salì sul monte». L’evangelista annota che Gesù sale, seguito dai discepoli, perché aveva visto «le folle». Si tratta quindi di un discorso rivolto a tutti coloro che desiderano ascoltarlo, non riservato alla piccola cerchia dei discepoli, che vivevano con lui. Gesù, prende la parola per «ammaestrare» (didaskein). Egli viene presentato nello svolgimento del compito di un rabbi, un maestro (didaskalos), come in numerosi altri passi dei Vangeli, dove apertamente Gesù è chiamato maestro (in 12 passi solo in Matteo; rabbi è appellativo caro a Giovanni: 1,38.49;4,31;20,16). Gesù insegna rifacendosi alle Scritture, Torâh (Pentateuco) e Profeti, che venivano letti e commentati ogni sabato in sinagoga, dove Gesù, dice l’evangelista Matteo, era solito «insegnare» (Mt 4,23).

     La serie delle beatitudini si snoda dal versetto 3 al 10, come appare dalla identica promessa per la prima beatitudine e l’ultima: «il regno dei cieli», mentre i versetti 11-12 riprendono in una nuova forma il versetto 10; sono un caso particolare di persecuzione.

     I versetti 3-10 sono composti di due parti completamente simmetriche (3-6; 7-10), che in greco hanno persino lo stesso numero di parole. Questo ci dice che siamo di fronte ad un brano molto elaborato e ritenuto molto importante dal redattore.

     Tutte le beatitudini sono accomunate dalla proclamazione che coloro che sono nelle condizioni descritte: poveri di spirito, «piangenti», miti, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri di cuore, operatori di pace, perseguitati per la giustizia sono già ora beati, ma al tempo stesso sono fatti oggetto di una promessa futura, che devono attendere con fiducia.

     Tutte le beatitudini sono legate dall’atteggiamento di coloro che vengono esaltati: l’attesa di Dio di cui parla la prima beatitudine. Sono persone che si affidano completamente a Dio, interiorizzano la sua legge e la mettono in pratica, consapevoli che non avranno gloria e potenza terrena, ma piuttosto dovranno attendere la sofferenza e la persecuzione. La loro speranza è solo nel Signore.

     Tutte le beatitudini hanno un senso messianico e alludono a Gesù come Messia nascosto e sofferente, come appare chiaro nell’ultima beatitudine quella dei perseguitati. Già da Is 53 era previsto che il Messia dovesse soffrire, e questa stessa attesa è presente ai tempi di Gesù (cf Mc 8,31 ss). Si sa che i «giusti» devono soffrire»: lo dicono i salmi, meditano su questo «scandalo» i libri sapienziali (Giobbe e Qoelet) e ne chiedono con forza spiegazione a Dio. Se gli umili aspettano la signoria di Dio, la sua consolazione, la sua giustizia (Mt 5.3.4.6), questo significa che essi sono costantemente perseguitati, proprio per il fatto che sono giusti. Il Messia non avrà un destino diverso dal loro. I giorni del Messia, dice una tradizione ebraica, già presente ai tempi di Gesù saranno preceduti da un periodo di gravissime sofferenze, simili al travaglio per il parto, dopo il quale si instaurerà la sovranità di Dio, che ora si nasconde in coloro che sono umanamente disprezzati.

     In questo quadro unitario delle beatitudini si possono inserire i numerosissimi spunti esegetici, presentati da ogni versetto. Ne propongo solo qualcuno: nella prima beatitudine Luca usa solo l’appellativo di poveri, Matteo specifica «poveri in spirito». Questa espressione è simile a Is 57,15: «Io che abito in alto e nel santuario e presso coloro che sono affranti e umili nello spirito». Si tratta, di una condizione sociale di povertà, a cui dai tempi del Deuteroisaia appartenevano i «pii», che non si erano prostituiti con l’idolatria o il sincretismo dei culti pagani, a cui invece avevano aderito in gran parte le classi più elevate e i sacerdoti stessi. I «pii» ed i «giusti», sono per la Bibbia, coloro che imitano Dio, che è vicino a coloro che sono «affranti e umili nello spirito».

     «Possederanno la terra» della terza beatitudine sottolinea che, anche se il compimento della promessa di felicità sarà in un mondo futuro, esso ha una sua manifestazione terrena a cui l’opera degli «umili perseguitati» da il suo contributo. L’attesa messianica, che percorre questo brano, non è pura passività, ma è tesa a dare forza all’impegno per la giustizia.

     Per approfondire l’allusione messianica delle beatitudini, oltre a Isaia 53, già citato, bisogna leggere i vv. 4.5.6 nell’orizzonte di Isaia 61, che allude al Messia consolatore di ogni afflizione umana e portatore di un rinnovamento di vita già possibile in questo mondo.

     La «misericordia» caratterizza il giudizio di Dio (Mt 5,7). Di fronte al tribunale di Dio, il maestoso, il santo, non vale altro che la sua misericordia; nessuno può vantare pretese davanti a lui. L’Antico Testamento è pervaso da questa idea e una tradizione ebraica dice che Dio al momento stesso della creazione si «è spostato dal trono della giustizia a quello della misericordia». Gli uomini e le donne devono imitare Dio ed usare misericordia fra loro. Chi non usa misericordia, non la trova nemmeno in Dio (cf Gc 2,13); lo indica chiaramente il «Padre nostro» (Mt 18,21).

     Usare misericordia è una caratteristica divina (Lc 6,36), perciò «beato chi usa misericordia»: egli ha qualcosa del comportamento di Dio. Così vengono descritte le opere di misericordia in Mt 25,34ss, dove gli operatori stessi sono all’oscuro della profondità del significato della loro buona azione.

     «Beati i perseguitati per la giustizia», nel contesto del Vangelo di Matteo fa pensare alla figura del Battista, invitato da Gesù prima del suo battesimo ad adempiere con lui «ogni giustizia» (cf Mt 4,12) e che, mentre Gesù sta parlando, è in prigione (cf Mt 4,12) per aver seguito la «via della giustizia (Mt 21,32), vale a dire la via del Signore, dato che tutte le vie del Signore «sono giustizia» (Dt 32,4).

Meditazione

     Il brano di Vangelo è l’inizio della sezione di Matteo, che si è soliti chiamare «Discorso della montagna». Questo titolo deriva dall’indicazione del primo versetto: «Gesù salì sul monte». L’evangelista annota che Gesù sale, seguito dai discepoli, perché aveva visto «le folle». Si tratta quindi di un discorso rivolto a tutti coloro che desiderano ascoltarlo, non riservato alla piccola cerchia dei discepoli, che vivevano con lui. Gesù, prende la parola per «ammaestrare» (didaskein). Egli viene presentato nello svolgimento del compito di un rabbi, un maestro (didaskalos), come in numerosi altri passi dei Vangeli, dove apertamente Gesù è chiamato maestro (in 12 passi solo in Matteo; rabbi è appellativo caro a Giovanni: 1,38.49;4,31;20,16). Gesù insegna rifacendosi alle Scritture, Torâh (Pentateuco) e Profeti, che venivano letti e commentati ogni sabato in sinagoga, dove Gesù, dice l’evangelista Matteo, era solito «insegnare» (Mt 4,23).

     La serie delle beatitudini si snoda dal versetto 3 al 10, come appare dalla identica promessa per la prima beatitudine e l’ultima: «il regno dei cieli», mentre i versetti 11-12 riprendono in una nuova forma il versetto 10; sono un caso particolare di persecuzione.

     I versetti 3-10 sono composti di due parti completamente simmetriche (3-6; 7-10), che in greco hanno persino lo stesso numero di parole. Questo ci dice che siamo di fronte ad un brano molto elaborato e ritenuto molto importante dal redattore.

     Tutte le beatitudini sono accomunate dalla proclamazione che coloro che sono nelle condizioni descritte: poveri di spirito, «piangenti», miti, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri di cuore, operatori di pace, perseguitati per la giustizia sono già ora beati, ma al tempo stesso sono fatti oggetto di una promessa futura, che devono attendere con fiducia.

     Tutte le beatitudini sono legate dall’atteggiamento di coloro che vengono esaltati: l’attesa di Dio di cui parla la prima beatitudine. Sono persone che si affidano completamente a Dio, interiorizzano la sua legge e la mettono in pratica, consapevoli che non avranno gloria e potenza terrena, ma piuttosto dovranno attendere la sofferenza e la persecuzione. La loro speranza è solo nel Signore.

     Tutte le beatitudini hanno un senso messianico e alludono a Gesù come Messia nascosto e sofferente, come appare chiaro nell’ultima beatitudine quella dei perseguitati. Già da Is 53 era previsto che il Messia dovesse soffrire, e questa stessa attesa è presente ai tempi di Gesù (cf Mc 8,31 ss). Si sa che i «giusti» devono soffrire»: lo dicono i salmi, meditano su questo «scandalo» i libri sapienziali (Giobbe e Qoelet) e ne chiedono con forza spiegazione a Dio. Se gli umili aspettano la signoria di Dio, la sua consolazione, la sua giustizia (Mt 5.3.4.6), questo significa che essi sono costantemente perseguitati, proprio per il fatto che sono giusti. Il Messia non avrà un destino diverso dal loro. I giorni del Messia, dice una tradizione ebraica, già presente ai tempi di Gesù saranno preceduti da un periodo di gravissime sofferenze, simili al travaglio per il parto, dopo il quale si instaurerà la sovranità di Dio, che ora si nasconde in coloro che sono umanamente disprezzati.

     In questo quadro unitario delle beatitudini si possono inserire i numerosissimi spunti esegetici, presentati da ogni versetto. Ne propongo solo qualcuno: nella prima beatitudine Luca usa solo l’appellativo di poveri, Matteo specifica «poveri in spirito». Questa espressione è simile a Is 57,15: «Io che abito in alto e nel santuario e presso coloro che sono affranti e umili nello spirito». Si tratta, di una condizione sociale di povertà, a cui dai tempi del Deuteroisaia appartenevano i «pii», che non si erano prostituiti con l’idolatria o il sincretismo dei culti pagani, a cui invece avevano aderito in gran parte le classi più elevate e i sacerdoti stessi. I «pii» ed i «giusti», sono per la Bibbia, coloro che imitano Dio, che è vicino a coloro che sono «affranti e umili nello spirito».

     «Possederanno la terra» della terza beatitudine sottolinea che, anche se il compimento della promessa di felicità sarà in un mondo futuro, esso ha una sua manifestazione terrena a cui l’opera degli «umili perseguitati» da il suo contributo. L’attesa messianica, che percorre questo brano, non è pura passività, ma è tesa a dare forza all’impegno per la giustizia.

     Per approfondire l’allusione messianica delle beatitudini, oltre a Isaia 53, già citato, bisogna leggere i vv. 4.5.6 nell’orizzonte di Isaia 61, che allude al Messia consolatore di ogni afflizione umana e portatore di un rinnovamento di vita già possibile in questo mondo.

     La «misericordia» caratterizza il giudizio di Dio (Mt 5,7). Di fronte al tribunale di Dio, il maestoso, il santo, non vale altro che la sua misericordia; nessuno può vantare pretese davanti a lui. L’Antico Testamento è pervaso da questa idea e una tradizione ebraica dice che Dio al momento stesso della creazione si «è spostato dal trono della giustizia a quello della misericordia». Gli uomini e le donne devono imitare Dio ed usare misericordia fra loro. Chi non usa misericordia, non la trova nemmeno in Dio (cf Gc 2,13); lo indica chiaramente il «Padre nostro» (Mt 18,21).

     Usare misericordia è una caratteristica divina (Lc 6,36), perciò «beato chi usa misericordia»: egli ha qualcosa del comportamento di Dio. Così vengono descritte le opere di misericordia in Mt 25,34ss, dove gli operatori stessi sono all’oscuro della profondità del significato della loro buona azione.

     «Beati i perseguitati per la giustizia», nel contesto del Vangelo di Matteo fa pensare alla figura del Battista, invitato da Gesù prima del suo battesimo ad adempiere con lui «ogni giustizia» (cf Mt 4,12) e che, mentre Gesù sta parlando, è in prigione (cf Mt 4,12) per aver seguito la «via della giustizia (Mt 21,32), vale a dire la via del Signore, dato che tutte le vie del Signore «sono giustizia» (Dt 32,4).

Preghiere e racconti

Un cuore puro

 “Ah, frate Leone, credimi  riprende Francesco  non preoccuparti tanto della purezza della tua anima. Volgi il tuo sguardo a Dio, ammiralo, gioisci di ciò che è nella sua santità; ringrazialo perché esiste. Questo significa, o mio giovane fratello, avere un cuore puro. E quando guardi a Dio in questo modo, non far più ritorno a te stesso, non chiederti più a che punto è il tuo rapporto con Dio. La tristezza di non essere perfetto e di scoprirsi peccatore è ancora un sentimento umano, troppo umano. Bisogna puntare lo sguardo più in alto, sempre più in alto; c’è Dio, ci sono l’immensità di Dio ed il suo inalterabile splendore. Il cuore puro è quello che non smette mai di adorare il Dio vivente e vero, che si interessa in modo profondo alla vita stessa di Dio e che è in grado, in mezzo a tutte le sue miserie, di vibrare dinanzi all’eterna innocenza e all’eterna gioia di Dio. Un cuore così è allo stesso tempo nudo e vestito: gli basta che Dio sia Dio. In questo soltanto trova tutta la sua pace, tutta la sua santità”.

“Dio però pretende da noi sforzi e fedeltà”, fa notare frate Leone.

“Sì, indubbiamente” replica Francesco; “ma la santità non è una realizzazione di sé e neppure una pienezza che ci si offre. È innanzitutto un vuoto che scopriamo e che accettiamo e che Dio viene a riempire nella misura in cui ci apriamo alla sua pienezza. Vedi, il nostro nulla, se lo accettiamo, diventa lo spazio libero in cui Dio può ancora creare. Il Signore non permette a nessuno di rubargli la gloria: egli è il Signore, l’Unico, il solo che è santo. Eppure prende per mano il povero, lo tira fuori dal fango e lo fa sedere tra i principi del suo popolo perché osservi la Sua gloria. Dio diventa così il cielo della sua anima. Contemplare la gloria di Dio, fra’ Leone, scoprire che Dio è Dio, eternamente Dio, al di là di quello che siamo o che possiamo essere, gioire pienamente di ciò che è, estasiarsi di fronte alla sua eterna giovinezza e ringraziarlo perché esiste, perché è infallibile nella sua misericordia: questa è l’esigenza più profonda di quell’amore che lo Spirito del Signore non smette mai di diffondere nei nostri cuori. Questo vuol dire avere un cuore puro. Ma tutta questa purezza non si raggiunge attraverso sforzi e sacrifici.”

“Come, allora?” chiede Leone.

“Bisogna semplicemente rinunciare a tutto di sé. Spazzare via ogni cosa, anche la stessa acuta percezione della nostra miseria. Fare tabula rasa, accettare di essere poveri, rinunciare a tutto ciò che è pesante, al peso stesso dei nostri errori. Vedere soltanto la gloria del Signore, lasciarsene irradiare. Dio è: questo basta. Il cuore diventa allora leggero, si sente diverso, come una rondine persa nello spazio immenso ed azzurro. È libero da ogni preoccupazione, da ogni inquietudine; il suo desiderio di perfezione è diventato pura e semplice volontà di Dio”.

(Eligio Leclerc, Sapienza di un povero, Bibl. Francescana, MI ’82).

Beato il popolo il cui Dio è il Signore

«Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3). Riconosco qui il segno distintivo, ben noto e glorioso, che il Figlio dell’uomo aveva rivelato prima di nascere nella carne per farsi riconoscere; quel segno che egli ci insegnò, una volta nato, ma ancora sconosciuto, a vedere applicato a lui. Dice: «Lo Spirito del Signore è su di me; mi ha mandato ad annunciare l’evangelo ai poveri» (Lc 4,18; Is 61,1). Ecco che i poveri sono evangelizzati, ecco che l’evangelo del Regno è annunciato ai poveri: «Beati i poveri in spirito, perché è loro il regno dei cieli» (Mt 5,3). Beato inizio, colmo di una grazia nuova, del Nuovo Testamento: impegna l’uomo, anche il più infedele e il più pigro ad ascoltare e, più ancora, a darsi da fare, perché la beatitudine è promessa ai miseri, il regno dei cieli agli esiliati e ai bisognosi. […] A ragione il Signore, proclamando la beatitudine dei poveri, non dice: «Sarà loro il regno dei cieli», ma: «È loro». È loro non soltanto in forza di un diritto fermamente stabilito, ma anche perché ne possiedono una caparra sicura e ne fanno un ottimo uso; non soltanto perché questo regno è stato preparato per loro fin dalla fondazione del mondo (cfr. Mt 25,34), ma perché hanno già cominciato a entrare, in certa misura, in suo possesso, dal momento che portano già il tesoro celeste in vasi d’argilla (cfr. 2Cor 4,7), poiché hanno già Dio nel loro corpo e nel loro cuore (cfr. 1Cor 6,20). «Beato il popolo il cui Dio è il Signore» (Sal 32 [33], 12). Come sono vicini al regno quelli che già possiedono nel loro cuore questo Re di cui si è detto che servirlo è regnare. «Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi, è magnifica la mia eredità» (Sal 15 [16], 6). Altri litighino per dividersi l’eredità di questo mondo; il Signore è la porzione della mia eredità e del mio calice (cfr. ibi 5). Combattano tra di loro, facciano a gara nell’essere i più miserabili; io non invidio loro nulla di tutto ciò che cercano. Io e l’anima mia avremo la nostra gioia nel Signore (cfr. Sal 103 [104], 34). O gloriosa eredità dei poveri! O beata ricchezza di quelli che non hanno nulla! Non soltanto tu ci doni tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ma ci colmi anche di ogni gioia, poiché tu sei la misura sovrabbondante versata nel nostro seno.

(GUERRIC D’IGNY, Omelia per la festa di tutti i santi 1.6, SC 202, pp. 498; 510-512)

Tutti i santi

La Colletta della messa di questo giorno si rivolge al Signore chiedendogli «l’abbondanza della tua misericordia»: è questa la fonte della santificazione dell’uomo: la misericordia di Dio. La festa di tutti i santi è la celebrazione della vittoria della misericordia di Dio sul peccato e sulla debolezza dell’uomo. Le letture bibliche consentono di contemplare i santi del cielo, della prima e della nuova alleanza, riuniti attorno al Dio tre volte santo e all’Agnello, il Santo di Dio (Apocalisse). Esse si rivolgono anche ai santi della terra, i cristiani, chiamati a divenire ciò che sono vivendo in Cristo la loro figliolanza divina, e indicano la via della santificazione: fissare la speranza in Cristo (seconda lettura), vivere lo spirito delle beatitudini che è lo spirito di Gesù stesso mite, povero in spirito, misericordioso, operatore di pace (vangelo) . La santità è un cammino, non uno stato: sequela dell’Agnello (prima lettura), tensione dinamica tra ciò che siamo e ciò che saremo (I Gv), cammino quotidiano in cui sperimentare la comunione con Cristo, e dunque la beatitudine, anche nelle difficoltà (vangelo).

La comunione dei santi oggi celebrata ricorda ai cristiani che la santità ha una dimensione comunionale e comunitaria. Nel Nuovo Testamento «santi» è il nome dei cristiani chiamati a formare un solo corpo in Cristo separandosi dagli idoli, dalla mondanità (e separazione è il senso etimologico di santità), ed è dunque come corpo che essi devono narrare e testimoniare la santità. La luce della santità si riflette nella koinonía, nella comunione, cioè nella qualità dei rapporti che attraversano la comunità cristiana e che essa intrattiene con tutti gli uomini e le realtà storielle, che deve emergere. Questo è tanto più importante se si pensa che la tradizione occidentale ha individualizzato e moralizzato la santità.

Per la rivelazione cristiana, invece, il santo è l’uomo che, per grazia, riflette nella sua vita e nelle sue relazioni la luce di Dio, manifestatasi sul volto di Cristo e comunicata dallo Spirito santo.

«Nella vita dei nostri compagni di umanità più perfettamente trasformati a immagine di Cristo, Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In essi Dio stesso ci parla, ci dà un segno del suo regno, ci attira a sé con forza» (Lumen Gentium 50). I santi sono nostri fratelli in umanità, segnati anch’essa come noi, da fragilità e vulnerabilità: non dei senza-peccato, ma dei credenti nella misericordia di Dio più forte della loro pur potente debolezza. Si tratta dunque di essere umanamente santi, somigliantissimi a Colui che nella sua umanità ha narrato pienamente il volto di Dio. Non silhouette spirituali o anime devote e pie, ma uomini che con l’umile risolutezza che viene dalla consapevole accoglienza del dono di grazia, vivono la loro umanità in Cristo: questi i santi!

E se il testo evangelico suggerisce di declinare la santità come beatitudine, questa beatitudine non elimina ma suppone la sofferenza e la tribolazione. Afflitti, perseguitati, tribolati, i santi non solo sono vulnerabili, ma sono realmente vulnerati, feriti, e tuttavia «hanno trovato forza dalla loro debolezza» (cfr. Eb 11,34).

Ostacolo alla santità non è la debolezza in quanto tale, ma il negarla: assumendola di fronte al Signore santo e misericordioso, essa può divenire fortezza. La fortezza cristiana suppone la vulnerabilità. Al cuore di questa trasfigurazione della debolezza in forza vi è la fede che porta a vivere contraddizioni e prove come occasione di sequela dell’Agnello.

La prima portata delle beatitudini è cristologica: ciò che le beatitudini attribuiscono a uomini, in verità è ciò che è stato vissuto da Cristo e da lui, grazie allo Spirito che agisce nel credente, è comunicato agli uomini. Esse dunque non predicano rassegnazione, ma suscitano una speranza: le situazioni di afflizione e persecuzione non hanno l’ultima parola, non chiudono inesorabilmente l’uomo nel suo presente di miseria, ma gli aprono un futuro che incide profondamente sull’oggi.

Mirabile è Dio nei suoi santi

II profeta salmista dice: «Mirabile è Dio nei suoi santi», e aggiunge: «Egli darà potenza e forza al suo popolo» (Sal 68,36). Riflettete con la vostra intelligenza sulla potenza delle parole profetiche: a tutto il popolo – dice – Dio darà potenza e forza. Dio non fa preferenze di persona, ma è magnificato soltanto nei suoi santi. Come infatti il sole dall’alto doviziosamente effonde su tutti i suoi raggi, ma li vedono soltanto coloro che hanno occhi, e occhi non chiusi, e dalla luce pura godono coloro che, per la purezza dei loro occhi, hanno uno sguardo acuto, non indebolito dalla malattia, dall’offuscamento o da qualche male simile che abbia offeso i loro occhi, così dall’alto dei cieli Dio distribuisce a tutti la ricchezza del suo aiuto. Egli, infatti, è fonte di salvezza e di luce, da cui sgorgano misericordia e bontà. Non tutti indistintamente usufruiscono della grazia e della potenza che viene da là per ottenere forza e perfezione nella virtù e capacità di operare miracoli, ma coloro che hanno scelto il bene, e attraverso le loro opere danno prova di amore e di fede in Dio. Essi si sono allontanati completamente dalle vanità, si attengono fermamente ai comandi di Dio, con l’occhio della mente fisso sul sole di giustizia (cfr. Mt 3,20; Lc 1,78), Cristo.

Egli non solo invisibilmente tende dall’alto la sua mano salvatrice, ma rivolgendosi oggi a noi, dice: «Chi dunque avrà dichiarato di credere in me davanti agli uomini, anch’io dichiarerò di credere in lui davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32). Vi rendete conto che noi non siamo in grado di dichiarare con franchezza la nostra fede in Cristo senza la forza e la potenza che da lui proviene e che il nostro Signore Gesù Cristo non potrà parlare con franchezza di noi nel secolo futuro e non potrà presentarci e introdurci nella familiarità col Padre suo altissimo, senza che noi gliene diamo la possibilità? Volendo chiarire questo, non disse: Chi dunque dichiarerà di credere davanti agli uomini, ma: «Chi dunque avrà dichiarato di credere in me»; poiché soltanto in lui e con il suo aiuto è possibile dimostrare sinceramente la propria fede. E così ancora: «Anch’io dichiarerò di credere in lui»; e non ha detto: a lui, ma: «in lui», cioè attraverso la buona disposizione e la fermezza di colui che lo riconosce, di cui questi ha dato prova a motivo della sua fede […]. La chiesa di Cristo, onorando anche dopo la morte coloro che sono vissuti secondo Dio, ogni giorno dell’anno fa memoria dei santi che in quel giorno sono migrati da qui e da questa vita mortale, e propone ad esempio, per il nostro bene, la vita di ciascuno di essi e la loro fine, sia che si siano addormentati in pace, sia che abbiano concluso la loro vita col martirio […]. Vi prego, fratelli, presentiamo anche noi i nostri corpi e le nostre anime in modo che siano graditi a Dio, in questo giorno di festa, affinché, per intercessione dei santi, possiamo anche noi essere partecipi di quella festa e di quella gioia senza fine.

(GREGORIO PALAMAS, Omelie 25, PG 151,321B-324A; 329A; 332B).

Nella vita ordinaria

Che la tua vita non sia una vita sterile.

Sii utile.

Lascia traccia.

Illumina con la fiamma della tua fede e del tuo amore.

Cancella, con la tua vita di apostolo l’impronta viscida e sudicia che i seminatori impuri dell’odio hanno lasciato.

E incendia tutti i cammini della terra con il fuoco di Cristo che porti nel cuore…

Non vi è altra strada, figli miei:

o sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai.

(J. Escrivà)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004; 2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

TUTTI I SANTI 

XXX DOMENICA TEMPO ORDINA-RIO

Prima lettura:  Esodo 22,20-26

Così dice il Signore:  «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.

Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».

 

Il brano è preso da quello che gli esegeti (in base a Es 24,7) chiamano “Codice dell’Alleanza” (Es 20,22-23,19), inserito fra la teofania del Sinai, col dono del decalogo (Es 19,1-20,21), e il rito della stipulazione (Es 24). Offre un chiaro esempio di alcuni precetti sociali profondamente motivati dalla opzione fondamentale dell’amore di Dio e del prossimo. Introducono bene al Vangelo.

     Per forma e contenuto si possono dividere in due gruppi.

     Il primo gruppo (vv. 20-23) si occupa dei comportamenti verso le persone emarginate di allora; il forestiero, la vedova e l’orfano, un trinomio spesso ricorrente nei profeti. La forma è apodittica: esprime un comando, accompagnato da una motivazione.

     Prima proibisce le molestie e le oppressioni verso il forestiero (gher), cioè colui che ha lasciato il proprio ambiente di origine, per motivi economici o politici o di altro genere, e si è inserito nel popolo di Israele. Di solito era persona povera e indifesa, facilmente vittima di soprusi e sfruttamenti.

     Motivo della proibizione: anche Israele è stato forestiero in Egitto. Un modo concreto di dire: ama il tuo prossimo come te stesso! A monte c’è pure il motivo teologico, che domanda ancora più amore. A Israele, infatti, Dio dice anche: «La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini» (Lv 25,23). Col cristianesimo questo motivo diventa universale e perenne. I discepoli di Gesù sono «nel mondo» ma non «del mondo» e impegnati a redimerlo (cf. Gv 17,11-19). Per san Paolo «la nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20) e «finché abitiamo nel corpo siamo in esilio»: qui e là occorre essere graditi a Dio (cf. 2Cor 5,6-9; e pure 1Pt 2,11; Eb 13,14). La lettera A Diogneto infine delinea mirabilmente i cristiani nel contempo cittadini e stranieri e benefattori del mondo.

     Il brano liturgico proibisce poi i maltrattamenti alla vedova e all’orfano, le persone prive di sostegno per la morte del marito e del padre, quindi esposte a tanti abusi e sopraffazioni. Il motivo qui è subito teologico: Dio stesso si farà loro vindice e punirà i trasgressori con la pena del contrappasso; le loro mogli diventeranno vedove e i loro figli orfani.

     Il secondo gruppo (vv. 24-26) ha due precetti su cose necessarie al prossimo indigente. La forma è casuistica: pone un caso e detta la norma, aggiungendo però anche qui delle motivazioni.

     Il primo caso riguarda il prestito di denaro e proibisce l’usura, in modo assoluto, verso il povero. Il Deuteronomio riserva questa norma verso ogni fratello israelita e consente di riscuotere interessi dallo straniero (cf. Dt 23,20-21). In pratica i comportamenti devono essere stati piuttosto vari. Nel Nuovo Testamento, Gesù stesso parla di depositi in banca e di interessi (cf. Mt 25,27 e Lc 19,23). Le norme bibliche comunque sono sempre a tutela dei poveri e deboli e opposte ai profittatori.

     Il secondo caso riguarda il pegno preso a garanzia della restituzione di un prestito. Se si tratta del mantello, al tramonto bisogna renderlo al proprietario, perché gli serve anche da coperta. Il motivo è altamente umanitario: il pegno non deve mai compromettere la vita o la salute del debitore. Per questo il Deuteronomio vieta assolutamente di prendere la macina, che serve a fare il pane (Dt 24,6), e stabilisce che non si entri in casa a prendersi il pegno, ma si aspetti che il proprietario lo porti fuori. Al motivo umanitario il Codice dell’alleanza aggiunge ancora quello teologico di Dio che ascolta il lamento dell’oppresso, perché è misericordioso, come ha già fatto con Israele in Egitto.

     Da notare come questa legislazione ancora primitiva è assai rispettosa nei dettagli pratici e molto ricca nelle motivazioni umane e teologiche.

 

Seconda lettura: 1 Tessalonicesi  1,5-10 

Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.

E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia. Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acàia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.  Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.

 

A causa della persecuzione, Paolo era dovuto fuggire da Tessalonica, poche settimane dopo la fondazione di quella chiesa, ed era rimasto in ansia per i riflessi negativi che il fatto poteva avere. Ma Timoteo, inviato a supplirlo (1Tess 3,2,6), gli ha portato ottime notizie. Allora scrive questa lettera, che storicamente è il primo documento del Nuovo Testamento. La liturgia ne propone l’esordio, del quale riporta i passaggi finali, dopo solo un cenno di quelli iniziali, sul soggiorno dell’apostolo fra i Tessalonicesi, tutto proteso al bene (v. 5).

     Esprime una serie di complimenti ai destinatari, perché nella vita pratica si sono fatti imitatori dell’apostolo e di Cristo, anche nella tribolazione (v. 6), perché sono diventati modelli a tutti i credenti della Grecia, nella quale contribuiscono con la testimonianza alla diffusione della parola del Signore (vv. 7-8), e perché la loro conversione dagli idoli morti al Dio vivente li ha posti nell’attesa fattiva del Cristo risorto, che libera il mondo dall’ira divina (vv. 9-10). Nei versetti sulla conversione, gli esegeti vedono un sunto della catechesi orale di Paolo: lo suggerisce la successione di frasi brevi e simmetriche che riecheggiano la sua predicazione ai pagani, in particolare quella agli Ateniesi di poco anteriore alla lettera (cf At 17,22-31).

     Presa in tutto il suo contesto, anche questa seconda lettura ha legami col tema dell’amore di Dio e del prossimo ispiratore di tutti i comportamenti pratici, che è proprio delle altre due. Perché Paolo scrive i suoi pensieri in ginocchio, per così dire, dato che li esprime nel ringraziamento a Dio e li attinge dalla preghiera continua per i Tessalonicesi, come dice all’inizio dell’esordio (1Tess 1,2-5). E si compiace per la loro fede impegnata, per la carità operosa e per la speranza perseverante nel Signore Gesù Cristo. Colloca quindi se stesso e i suoi cristiani in rapporto profondo con la fonte delle loro esperienze e comportamenti. Inoltre pensiero dominante è il ricordo della conversione (vv. 9-10), che ha implicato una opzione fondamentale, in risposta all’iniziativa di Dio che li ha eletti (v. 4): essa che va continuamente rinnovata e coltivata nella preghiera. Richiamato questo, a Paolo non è necessario impartire tanti precetti.

 

Vangelo: Matteo 22,34-40

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».  Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

 

Esegesi 

     Siamo alla quarta delle cinque controversie affrontate da Gesù a Gerusalemme prima della passione, riferite dai Sinottici. Sommi sacerdoti, sadducei, farisei ed erodiani, ormai determinati a ucciderlo, si alternano nel contestargli le prese di posizione e gli insegnamenti. In questo episodio, Matteo abbrevia il corrispondente testo di Marco, dove la controversia si conclude con un complimento reciproco tra Gesù e un dottore della legge, che sembra staccarsi dal coro degli avversari.

     «Qual è il grande comandamento della legge?»

L’interlocutore si riferisce al libro della legge o Torâh, contenuta nel Pentateuco e sancita con l’Alleanza tra Dio e Israele, domanda quale sia l’impegno basilare di tale Alleanza, dal quale deriva ogni altro. La stipulazione di essa infatti, con opportuni adattamenti, ricalcava lo schema dei patti di vassallaggio tra i popoli dell’area mesopotamica e hittita. Prima avevano un prologo, con la presentazione dei contraenti e dei rapporti già intervenuti fra loro. Poi invitavano all’adesione reciproca totale e perenne che in termini attuali possiamo dire anche una opzione fondamentale: questo è il comandamento «grande» al quale derivano tutti gli altri. Esso è molto chiaro in Dt 6,4-5 nella preghiera «Ascolta, Israele», tuttora recitata quotidianamente, da dove è presa la risposta di Gesù, ed è racco-mandato particolarmente nelle omelie dei capitoli di Dt 5-11.

     I patti di vassallaggio elencavano poi le clausole particolari derivate. Quindi era previsto il rito sacro per la stipulazione dell’Alleanza. Infine erano enumerate le maledizioni o penalità per le infrazioni e le benedizioni o vantaggi della fedeltà reciproca.

     In questa prospettiva, il dottore della legge non ha proposto a Gesù una sottigliezza rabbinica, ma lo ha sfidato sull’impianto fondamentale della sua fede. Ed ha avuto una risposta adeguata, con l’aggiunta anzi che il secondo comandamento, dell’amore al prossimo, è «simile» al primo, del quale è come l’altra faccia: insieme costituiscono la opzione fondamentale della fede biblica. Per questo Gesù può dire che da ambedue dipendono tutte le sacre scritture, legge e profeti.

     Con questa impostazione diventa chiaro pure per noi che i comandamenti dell’amore non sono propriamente comandati (che amore sarebbe?), ma conseguenti all’impegno dell’alleanza con Dio, nella fede.

     Similmente gli altri comandamenti, sviluppati sulla base di essi, non sono soltanto legge naturale resa positiva con la promulgazione del decalogo, ma impegni presi tuttora in una adesione a Dio nella fede e nell’amore.

     Una eloquente conferma, per contrasto in negativo, viene da certi comportamenti oggi diffusi: dove sono carenti le opzioni fondamentali di amore a Dio e al prossimo, sono trascurati e calpestati anche tutti fili altri valori morali.  

 

Meditazione

La prima lettura presenta alcune leggi tratte dal più antico corpus legislativo della Torâh (il codice dell’alleanza); nel vangelo Gesù, interrogato su quale sia il più grande comando presente nella Torâh, risponde citando il comando di amare Dio con la totalità del proprio essere (Dt 6,5; Mt 22,37-38) e accostandovi,  come secondo e simile, il comando di amare il prossimo come se stessi (Lv 19,18; Mt 22,39). La Torâh, in bocca a Gesù e vissuta da Gesù, è vangelo.

     Le leggi e i precetti presenti nell’Antico Testamento, spesso ignorati o conosciuti male dai cristiani, sono testi di ricchezza perenne (come «perenne» è il valore dell’Antico Testamento per i cristiani: Dei Verbum 14) e contengono spesso un importante insegnamento che tende all’umanizzazione dell’uomo. La legge che prescrive al creditore di restituire al povero «al tramonto del sole» il mantello preso in pegno è motivata con una affermazione che esprime la compassione per il sofferente e con una domanda che vuole svegliare l’umanità del creditore nei confronti del misero, che è un essere umano ben prima e ben più di un debitore: «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?» (Es 22,25-26). Qui la legge afferma che la vita di un uomo mette dei limiti a ciò che si è in diritto di pretendere da lui.

     La legge che proibisce di opprimere l’immigrato e di sfruttarlo è motivata coinvolgendo il destinatario della legge: «perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20). Questa legge chiede un lavoro interiore, chiede di fare memoria delle sofferenze subite dai padri dei destinatari della legge, quando quelli si sono trovati a vivere e a lavorare da stranieri nel paese d’Egitto. La memoria divenuta legge può ispirare un rapporto umano con chi ora è immigrato nel proprio paese.

     La pagina evangelica pone in stretto rapporto la Scrittura e l’amore. La Scrittura che chiede di amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi si compie nell’amore fattivo e concreto: la prassi dell’amore è compimento della Scrittura, è esegesi esistenziale. Si narra che abba Serapione, incontrato un giorno un povero intirizzito dal freddo, si sia denudato per coprirlo con il proprio abito e che, incontrato un uomo che veniva condotto in prigione per debiti, abbia venduto il suo vangelo per pagare il suo debito e sottrarlo alla prigione. Tornato nella sua cella nudo e senza vangelo, a chi gli chiese: «Dov’è il tuo vangelo?», rispose: «Ho venduto colui che mi diceva: “Vendi quello che possiedi o dallo ai poveri”». Il comando diviene grazia, la pagina diviene vita, lo sta-scritto diviene relazione umana.

     Il comando di amare il prossimo come se stessi significa anche che, amando il prossimo, io amo veramente me stesso. L’amore per l’altro concreto, con un nome, un volto, un corpo, una storia, mi converte alla realtà e mi conduce a uscire da me, a essere veramente me stesso proprio nell’uscire da me per incontrare l’altro. La nostra verità è personale e relazionale.

     Amore degli altri e amore di sé sono spesso contrapporti come ciò che è virtuoso a ciò che è peccaminoso. In realtà, amare gli altri come se stessi implica la capacità di sviluppare e nutrire un sano amore di sé. «Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente» (Erich Fromm). Vi è il rischio di un altruismo nevrotico che porta a voler amare gli altri disprezzando se stessi e ritenendo indegno del cristiano l’amore di sé: ma agli occhi di Dio anch’io sono «un altro», sono un essere umano amato personalmente da Dio, e non ho alcun diritto di disprezzare ciò che Dio stesso ama.

     La somiglianza (Mt 22,39) dei comandi di amare Dio e di amare il prossimo è anche la somiglianza dell’amore per Dio e per il prossimo. Noi abbiamo un solo modo di amare. E l’amore del prossimo è criterio di autentificazione del nostro amore di Dio: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

 

Preghiere e racconti

Il cantus firmus

Ogni grande amore comporta il rischio di farci perdere di vista quella che amerei definire la polifonia della vita. Mi spiego. Dio e la sua eternità vogliono essere amati da noi pienamente. Ma quest’amore non deve ne nuocere a un amore terreno ne indebolirlo; deve essere in qualche modo il cantus fìrmus attorno al quale cantano le altre voci della vita. L’amore terreno è uno di quei temi in contrappunto che, pur avendo la loro piena indipendenza, si ricollegano comunque al cantus fìrmus. Là dove il cantus fìrmus è chiaro e distinto, il contrappunto può esprimersi con la maggior potenza possibile. I due sono inseparabili e tuttavia distinti, per usare il linguaggio del concilio di Calcedonia, come la natura umana e la natura divina del Cristo. La polifonia musicale è così vicina a noi e così importante per noi forse proprio per il fatto di essere l’immagine musicale di questo dato cristologico, e quindi anche della nostra vita cristiana?

(D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e appunti dal carcere)

Chi non ha l’amore

Chi non ha l’amore guarda gli alberi

e non vede mai bruciare le loro foglie.

Non vede l’uccello, non vede l’ape

né il giorno che ritorna dalle Cicladi.

Chi non ha l’amore non sente gli alberi

la musica dei muschi sui loro tronchi.

L’autunno si fa uggioso, gli uomini

Dicono – È finita la bella stagione! –

Essi non sanno – mai sapranno –

che basta un uccello a farci svernare.

L’ape, l’uccello, gli alberi, l’azzurro…

Chi non ha l’amore non ne è cosi certo!

(Ch. le Quintrec)

Aprire il cuore all’amore di Dio

E così, più impari ad amare Dio, più impari a conoscere e a voler bene a te stesso. La conoscenza e l’amore di noi stessi sono frutti della conoscenza che abbiamo di Dio e dell’amore che nutriamo per lui. Ora puoi comprendere meglio il significato del grande comandamento: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22,37-38). Se apriremo totalmente il cuore all’amore di Dio, avremo per noi stessi un amore che ci darà la forza di amare il prossimo con tutto il cuore. E nel segreto del nostro cuore che impareremo a conoscere la presenza nascosta di Dio; e con questa conoscenza spirituale potremo vivere una vita d’amore. Ma tutto questo esige disciplina. La vita spirituale richiede una disciplina del cuore. La disciplina è il distintivo del discepolo di Gesù. Il che però non mira a crearti difficoltà, ma a mettere a tua disposizione uno spazio interiore dove Dio possa toccarti con un amore che ti trasforma completamente.

(Cf. H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 2008).

A causa dell’amore per lui, dimostreremo amore per gli altri

Cerchiamo, vi prego, di amare Cristo. Egli da te non desidera nient’altro se non che tu lo ami con tutto il cuore e compia i suoi comandamenti. Chi lo ama come si deve, evidentemente si sforza anche di adempiere i suoi comandamenti. Quando infatti si comporta con sincerità nei confronti del prossimo, cerca di fare di tutto per attirare a sé l’amato. Anche noi, dunque, se amiamo con sincerità il Signore, possiamo adempiere i suoi comandamenti e non far nulla di ciò che può irritare l’amato.

Questo è il regno dei cieli, questo il godimento dei beni, questo ottiene i mille beni: l’amare sinceramente e nel modo dovuto. Lo ameremo sinceramente se, a causa dell’amore per lui, dimostreremo grande amore per gli altri, servi al pari di noi. Sta scritto: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i profeti» (Mt 22,40), cioè dall’amare il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutte le tue forze e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come e stesso (cfr. Mc 12,30-31). Questo è il culmine di tutte le virtù, questo è il fondamento. All’amore verso Dio si aggiunge anche l’amore verso il prossimo. Colui che ama Dio, infatti, non deve disprezzare suo fratello, e non deve stimare il denaro più di un membro del suo corpo, e deve mostrare una grande benevolenza nei suoi confronti, ricordando ciò che Cristo ha detto: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). E considerando che il Signore dell’universo ritiene come reso a se stesso il servizio prestato a un compagno, farà tutto con grande sollecitudine e nell’elemosina mostrerà una grande generosità; non rifiuterà la miseria apparente del povero, ma guarderà alla grandezza di Colui che ha promesso di accogliere come compiuta per sé stesso qualunque cosa operata a favore di un povero. Non tralasciamo, dunque, il profitto delle nostre anime, la medicina delle nostre ferite. E questo, infatti, è questo che ci offre una medicina tanto efficace da far scomparire le ferite delle nostre anime in modo da non lasciare nessuna traccia, nessuna cicatrice, cosa che non è possibile per le ferite del corpo.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla Genesi, Om. 55,3, PG 54,482-483). 

L’amore incomincia in casa propria

«Non possiamo parlare dell’amore per gli altri se non riconosciamo che l’amore incomincia in casa propria. Dobbiamo innanzitutto amare noi stessi. L’esperto di relazioni interpersonali Harry Stack Sullivan, afferma che “si ama una persona, quando la sua felicità, la sua sicurezza ed il suo sentirsi bene ci stanno a cuore come o più delle nostre”. La tesi evidente che sta dietro a questa affermazione, è che io abbia a cuore la mia felicità, la mia sicurezza ed il mio star bene. Infatti, nella stessa misura in cui non riesco ad amare me stesso sarò incapace di amare gli altri».

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 69).

Amare l’altro con umiltà, discrezione e rispetto

«La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. “Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. “Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui».

(Thomas Merton, un monaco trappista).

Voglio Te solo, Signore

Ti ho cercato, o Signore della vita,

e tu mi hai fatto il dono di trovarti:

te io voglio amare, mio Dio.

Perde la vita, chi non ama te:

chi non vive per Te, Signore,

è niente e vive per il nulla.

Accresci in me, ti prego,

il desiderio di conoscerti

e di amarti, Dio mio:

dammi, Signore, ciò che ti domando;

anche se tu mi dessi il mondo intero,

ma non mi donassi te stesso,

non saprei cosa farmene, Signore.

Dammi te stesso, Dio mio!

Ecco, ti amo, Signore:

aiutami ad amarti di più.

 (Sant’Anselmo di Aosta)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXX DOM TEMP ORDINARIO (A)

XXIX DOMENICA TEMPO ORDINA-RIO

Prima lettura:  Is 45,1.4-6

Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri».

 

Il profeta fa in questo brano una rivelazione da parte di Dio che a prima vista suona strabiliante: Ciro, un re pagano uno che non conosce il Signore (Is 45,4) è chiamato «eletto» (Is 45,1), anzi il termine ebraico è «unto», messia, titolo riservato normalmente al re di Israele (1Sam 9,26). Ma i piani di Dio sono «imperscrutabili» (cf. Is 55,6-9) ed egli è Signore della storia: «non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri» (Is 45,5).

     Dentro alla storia universale ce n’è una guidata in modo particolare da Dio. È la storia di Israele; infatti Dio spiega la scelta di Ciro in questo modo: «Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca» (Is 45,4). Tali parole fanno chiaramente vedere che l’iniziativa è del Signore, che agisce in piena libertà, al di fuori di ogni iniziativa umana. Del resto chi può vantare di aver dato consigli a Dio? (cf. Is 14,13).

     La chiamata di Dio è per il servizio, la gloria se arriverà sarà conseguenza dell’aver servito fedelmente nella missione affidata da Dio. Ciro come eletto da Dio è anche suo servo e il modello per eccellenza del «servo del Signore» è Israele, la cui chiamata è per il bene delle nazioni e non per la propria gloria.

 

Seconda lettura: 1Ts 1,1-5

Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace. Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro. Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.

 

La seconda lettura ci presenta l’inizio della prima lettera ai Tessalonicesi. Paolo e i suoi compagni Silvano e Timoteo augurano «grazia e pace» «alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo» (1Tes 1,1).

     Vale la pena di soffermarsi su questo saluto augurale, che racchiude significati profondi. L’espressione di saluto si ripete all’inizio e alla fine delle lettere paoline; essa può venire letta come formula stereotipata, oppure nello spessore che le due parole, grazia e pace, assumono nell’orizzonte biblico. Tale è la molteplicità e la ricchezza dei loro significati che in questo contesto è possibile solo qualche accenno fugace.

     Grazia è il favore di Dio assolutamente libero da ogni condizionamento, strettamente legato alla sua misericordia (cf. Es 33,19; Sap 3,9). In Cristo abbiamo ricevuto la grazia e la misericordia di Dio, che in lui ha rivolto il suo sguardo benevolo sui peccatori (cf. Rm 3,21-26).

     Pace è bene grande e comprensivo di tutti gli altri beni donati da Dio. Pace su Israele è invocata dalla benedizione sacerdotale (cf. Num 6,26); pace è una caratteristica fondamentale dell’epoca messianica; titolo del Messia è «principe della pace» (cf. Is 9,5); la pace stessa insieme con la giustizia governeranno in Sion città del Signore: «Costituirò tuo sovrano la pace, tuo governatore la giustizia» (Is 60,17).

     Nel saluto è sottolineata anche la caratteristica essenziale della Chiesa: essere «in Dio Padre e in Gesù Cristo». La missione della Chiesa è diffondere il vangelo, opera possibile per mezzo della parola, sostenuta, però, dalla potenza divina, vale a dire lo Spirito Santo (1Tes 1,5).

     «Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui» (1Tes 1,4). L’elezione è dono gratuito di Dio ed anche per i discepoli della chiesa di Tessalonica vale quanto detto nella prima lettura: l’iniziativa è di Dio, a lui bisogna rispondere, lui bisogna servire a modello del «servo Israele», a cui si è conformato Gesù Cristo.

 

Vangelo: Mt 22,15-21

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

 

Esegesi 

     Nella prima parte del brano che leggiamo oggi sono nominati tre gruppi di ebrei: i farisei, i sadducei e gli erodiani, attivi ai tempi di Gesù. Gli erodiani erano i sostenitori del re Erode e nei vangeli sono nominati normalmente insieme ai farisei; non traspare un preciso pensiero teologico a loro attribuito. I farisei e i sadducei, invece, si qualificavano per un diverso e incompatibile atteggiamento rispetto al valore della Torâh scritta (Pentateuco) e della Torâh orale, che potremmo chiamare la Tradizione. Molto schematicamente, possiamo dire che i sadducei, il gruppo da cui uscivano i sacerdoti del tempio, sostenevano che ci si doveva attenere alla lettera della Torâh scritta; i farisei, invece, accettavano lo sviluppo della Torâh orale, che credevano contenuta anch’essa nella rivelazione a Mosè al Sinai.

     Essi si adoperavano, perché, tutto il popolo, non solo i sacerdoti o i dottori della legge, conoscesse i precetti e li mettesse in pratica (per un utile approfondimento cf. J. NEUSNER, Il giudaismo nei primi secoli del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1989; G. STEMBERG, Farisei, Sadducei, Esseni, Paideia, Brescia 1993). Le dispute fra i vari gruppi avvenivano spesso in un clima polemico, come si intravvede anche dal brano di oggi.

     I sadducei sono presentati nei vangeli come «coloro che non credono nella risurrezione e disputano su questo argomento con Gesù» (Mc 12,18-27; Mt 22,23-33; Lc 20,27-39).

     Più variegato è l’incontro-scontro con i farisei, il cui atteggiamento polemico sia con Gesù, sia, come nel caso del nostro brano, con i sadducei, che «Gesù aveva ridotto al silenzio», è senz’altro riconducibile allo zelo per la Torâh e al loro interesse di trovare i modi più adatti per metterla in pratica nella situazione concreta. All’interno stesso del gruppo dei farisei c’erano diversità di vedute; lo intravediamo in Luca dove i farisei ospitano Gesù (cf. Lc 7,36; 11,37; 14,1) e sono dei farisei che avvertono Gesù del pericolo dell’ostilità di Erode: «In quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: ‘Allontanati da qui, perché, Erode vuole ucciderti’» (Lc 13,31). Matteo è più interessato alla disputa teorica e meno attento alla realtà storica, a cui invece guarda Luca e dalla quale risulta che, anche all’interno di uno stesso gruppo, vi sono posizioni e atteggiamenti diversi.

     L’annotazione di Matteo secondo cui i farisei prendono coraggio di interrogare Gesù dopo che hanno udito che «aveva chiuso la bocca ai sadducei» e lo fanno per «metterlo alla prova» (Mt 22,34) porta subito all’atmosfera di polemica, che regnava fra i diversi gruppi, ma al tempo stesso mostra che Gesù è riconosciuto un maestro.

     Al Maestro veritiero che insegna la via di Dio e non guarda in faccia a nessuno (Mt 22,16) viene posta la cruciale questione, che spaccava di netto le correnti ebraiche del tempo, sulla legittimità di versare il tributo all’imperatore romano. Gesù rispose riproponendo la stessa alternativa tra Dio e gli uomini. Si dia pure, per ora, il tributo a Cesare, ma si ricordi che la scelta decisiva sta nel rendere a Dio quel che è di Dio; proprio come prima era decisivo sapere, come fecero i pubblicani e le prostitute (Mt 21,32), che il battesimo di Giovanni veniva dal cielo e non dagli uomini.

     Per giungere a questa conclusione Gesù si fa mostrare la moneta del tributo chiedendo di chi sia l’effigie e l’iscrizione impressa su di essa. All’inevitabile risposta che esse appartengono a Cesare, Gesù replica affermando: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21; Mc 12,17; Lc 20,26). Il verso impiegato da tutti e tre i sinottici in questa risposta (apodidômi) allude a un significato non solo di un semplice dare, quanto piuttosto di un «dare indietro», di un «restituire». Restituite pure a Cesare quanto è suo, come è comprovato dall’effigie e dall’iscrizione, ma soprattutto restituite a Dio quanto porta impressa in sé la sua immagine: cioè voi stessi. È l’uomo stesso la moneta di Dio che gli deve essere restituita con frutto (cf. Mt 25,14-30). Rashi, — il massimo commentatore ebreo medievale della Bibbia — nel suo commento alla Genesi, chiosa così il versetto secondo cui Dio creò l’uomo a sua immagine (Gn 1,27): Cioè secondo il modello fatto per lui. Infatti tutte le altre cose furono create con la Parola, ma l’uomo fu creato con le mani, come sta scritto: «Hai posto su di me la tua mano» (Sal 139,5). Egli fu fatto con un sigillo, come una moneta che è fatta con un conio. Allo stesso modo sta scritto: «Si trasforma come creta da sigillo» (Gb 38,14)» (cf. Commento alla Genesi, cit., 13). Chi porta in se stesso l’immagine e il sigillo del Signore a lui appartiene, a lui deve innanzitutto obbedire (cf. At 5,29). (PIERO STEFANI, Sia santificato il tuo nome, Commenti ai Vangeli della domenica. Anno A, Marietti, Genova 1986, 200s).

     Gesù non cade nel tranello di risolvere una questione contingente, relativa all’istituzione politica del momento, per la quale sono gli interessati stessi che devono trovare una soluzione adatta a quel preciso momento. Egli, da parte sua, ribadisce il principio della dignità delle persone umane, che hanno la facoltà di scegliere proprio perché create ad immagine di Dio.

 

Meditazione 

     La signoria di Dio è al cuore della prima lettura come del vangelo. Isaia presenta un’audace pagina di teologia della storia in cui si afferma che Ciro, re persiano, dunque pagano, è stabilito da Dio come Messia, con un’estensione inaudita di quella che era una prerogativa della dinastia davidica. Il passo profetico sottolinea l’assoluta libertà di Dio e la sua unicità («Io sono il Signore, non ce n’è altri»: Is 45,6). Il vangelo mostra la rela-tivizzazione delle autorità umane, anche l’imperatore, che all’epoca era divinizzato, davanti a Dio. Se l’autorità statale può esigere tasse e tributi (cfr. Rm 13,7), se alle autorità va accordato il rispetto (Rm 13,7), il timore va riservato a Dio (1Pt 2,17), creatore e signore di ogni uomo.

     La risposta di Gesù alla domanda trabocchetto che gli viene rivolta dai suoi avversari batte due piste: evita la politicizzazione dell’immagine di Dio e si oppone alla sacralizzazione del potere politico. Gesù infatti, da un lato, si distanzia dagli zeloti che consideravano Dio come unico «Cesare» legittimo e, dall’altro, critica la sacralizzazione del potere politico demitizzando Cesare. In entrambi i casi siamo di fronte a tentazioni idolatriche. Nel primo caso la tentazione è di dare a Dio quel che spetta a Cesare, all’entità statale, cadendo in posizioni religiose totalitarie e non dialogiche, irrispettose dalla «laicità» dello stato e del potere politico; nel secondo, la tentazione è di dare a Cesare quel che spetta a Dio, all’interno di una assolutizzazione del potere politico.

     Interessante il commento a questo passo di Kierkegaard, commento giocato sul tema dell’infinita indifferenza di Gesù nei confronti di Cesare e dell’infinita differenza che egli pone tra Dio e Cesare: «O infinita indifferenza! Che Cesare si chiami Erode o Salmanassar, che sia romano o giapponese, è cosa che a Gesù non importa minimamente. Ma, d’altra parte, quale abisso d’infinita differenza egli stabilì fra Dio e Cesare».

     Le parole di risposta di Gesù ai suoi interlocutori sono importanti particolarmente nella loro seconda parte, quando Gesù aggiunge – non necessaria perché non richiesta dalla domanda che gli era stata posta – l’affermazione che riguarda il «dare a Dio quel che è di Dio». Questa rivendicazione significa che, se l’imperatore esige per sé ciò che spetterebbe a Dio, come l’adorazione, il cristiano – memore della parola che dice: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29) – non è tenuto a dargliela, anzi può perfino affrontare il martirio, mostrando che solo Dio è il Signore della vita.

     Tertulliano scrive: «Quali saranno le cose di Dio che siano simili al denaro di Cesare? Si intende l’immagine e la somiglianza con lui. Egli comanda quindi di rendere l’uomo al creatore, nella cui immagine e nella cui somiglianza era stato effigiato» (Contro Marcione IV, 38,1). Se il tema dell’immagine rinvia naturalmente all’uomo creato da Dio e capax Dei, il tema dell’iscrizione la si ritrova in un passo isaiano in cui designa l’appartenenza dell’uomo a Dio. I convertiti alla fede nel Dio d’Israele porteranno sulla mano l’iscrizione «Del Signore» e diranno: «Io appartengo al Signore» (Is 44,5). Le parole di Gesù spingono ogni credente a porsi la domanda: a chi appartengo? Chi è il mio signore?

     Nella dialettica posta da Gesù tra Cesare e Dio si situa la condizione del credente che è nel mondo, ma non del mondo (cfr. Gv 17,11.16), che abita la città secolare, ma attende il Regno di Dio, che vive la pólis, ma ha il políteuma, la cittadinanza nei cieli (cfr. Fil 3,20). Una fedeltà alla terra e alla pólis autentica il cristiano la vive grazie alla sua riserva escatologica, alla sua attesa escatologica.

     Il ridare a Dio quel che è di Dio va inteso anche nel senso di operare perché il mondo – uscito dalle mani di Dio e affidato a quelle dell’uomo -, nei suoi ordinamenti e nelle sue istituzioni, possa rispondere a quei requisiti di giustizia e diritto che sono propri della prassi messianica.

     Ciò che è di Dio è anche, propriamente, ciò che è dell’uomo e nell’uomo, l’umano. E rendere a Dio ciò che è suo implica anche il compito umano di divenire la propria umanità, di umanizzare il mondo e i suoi rapporti.

 

Preghiere e racconti

Dio e Cesare

Dobbiamo concedere certe cose al corpo, un tributo a Cesare a seconda dei casi, cioè nella misura richiesta. Ma le cose che riguardano la natura delle nostre anime, cioè quelle che conducono alla virtù, bisogna offrirle a Dio.

(Origene, Catena aurea).

La moneta del tesoro divino

Siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26). Tu sei uomo, o cristiano. Sei quindi la moneta del tesoro divino che reca l’effigie e la scritta dell’imperatore divino. Perciò, io chiedo con il Cristo: «Quest’effigie e questa scritta di chi sono?». Tu rispondi: «Di Dio». Aggiungo: «Perché quindi non rendi a Dio ciò che è suo?».Se vogliamo essere realmente un’immagine di Dio dobbiamo assomigliare al Cristo, poiché egli è l’immagine della bontà di Dio e l’effigie che esprime il suo essere (cf. Eb 1,3). E Dio ha destinato coloro che conosceva in anticipo ad essere l’immagine del suo Figlio (Rm 8,29)… Così coloro che somigliano al Cristo con la loro vita, la loro condotta e le loro virtù, modellandosi su di lui, rendono veramente visibile l’immagine di Dio.

(Lorenzo da Brindisi, Omelia sul Vangelo)

Chiesa e comunità politica

La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane… Predicando la verità evangelica e illuminando tutti i settori dell’attività umana con la sua dottrina e con la testimonianza resa dai cristiani, [la Chiesa] rispetta e promuove anche la libertà politica e la responsabilità dei cittadini.

(Vaticano II, Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, 76; EV 1/1581)

Memorie della clessidra

Il volto di Dio

nel bronzo o nella cera,

il volto di Dio

chi saprà dirmelo?

In quale secolo in quale luogo

raggiungere questo volto?

Il volto di Dio

è senza casa e senza età.

Narciso nel suo specchio

invano si contempla

sognando di scorgere

un dio che gli somigli.

Interrogare il cielo

del solstizio e il suo midollo

di fuochi? È un altare

che nasconde troppe stelle.

Forse con occhi

di bambini, puri come neve,

il volto di Dio

sarà intrappolato?

(J. Vuaillat, Memorie della clessidra)

Angeli smemorati

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.

Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.

Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.

E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.

Se solo si guardassero “dentro”!

Dio richiede la sua immagine impressa nell’uomo

Se con la dissomiglianza ci allontaniamo da Dio, con la somiglianza ci avviciniamo a lui. Quale somiglianza? La somiglianza secondo la quale siamo stati creati, che peccando abbiamo rovinato, che abbiamo ritrovato con il perdono dei peccati. È un’immagine che si rinnova nel profondo di noi stessi, è l’immagine del nostro Dio che viene, per così dire, scolpita nuovamente sulla moneta, cioè nell’anima perché ritorniamo a far parte dei suoi tesori. Perché, fratelli, il Signore nostro Gesù Cristo volle mostrare a quanti lo tentavano ciò che Dio richiede da noi si servì di una moneta? A proposito del tributo dovuto a Cesare, essi cercavano un pretesto per calunniarlo (cfr. Mt 22,15-22); vollero consultarlo come maestro di verità e lo tentarono chiedendogli se fosse lecito o no pagare il tributo a Cesare. Ed egli cosa rispose? Perché mi tentate, ipocriti? Chiese che gli fosse portata una moneta e quando gli fu portata, disse: «A chi appartiene l’immagine?». Risposero a Cesare. Ed egli: «Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mt 22,21).

E come se dicesse: Se Cesare richiede la sua immagine impressa sulla moneta, forse che Dio non richiede la sua immagine impressa nell’uomo? Il nostro Signore Gesù Cristo invitandoci a tale somiglianza ci comanda di amare anche i nostri nemici e da quale esempio Dio stesso. Dice: «Siate come il Padre vostro che è in cielo fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Siate dunque perfetti come il Padre vostro è perfetto» (Mt 5,45-48). Quando dice: «Siate perfetti come egli lo è», ci invita a alla somiglianza con lui. E se ci invita alla somiglianza, ciò significa che, diventati dissimili, ci eravamo allontanati. Andati lontano per la dissomiglianza, ci riavviciniamo attraverso la somiglianza.

(AGOSTINO DI IPPONA, Esposizione sul salmo 94,2, NBA XXVII, pp. 306-308).

Il diamante caduto nel fango

Ho conosciuto un santo, gli ero intimo amico come un Figlio di Dio: si chiamava Don Giovanni Calabria, fondatore d’una grande opera caritativa.

Quando c’incontrammo in occasione della mia prima messa, mi disse: «Se tu trovassi sulla strada un diamante caduto nel fango che cosa faresti?». Risposi: «Non avrei nessuna ripugnanza a sporcarmi; lo prenderei su, lo laverei, ridonandolo in tal modo alla sua originale brillantezza». «Fà così con l’uomo» soggiunse.

(Zeno SALTINI, L’uomo è diverso, Ed. Stai).

Preghiera

O Dio, tu sei il Re della storia e tutto fai concorrere al bene di coloro che ti amano: anche le prove più difficili, i nostri esili. Ti preghiamo di donarci il tuo Spirito, affinché  possiamo vedere nella luce della fede le complesse vicende della storia, scorgendovi la tua mano amorosa che realizza il meraviglioso piano di salvezza per il tuo popolo e per l’intera umanità. Ti ringraziamo perché ci chiami a collaborare al tuo progetto e ci chiedi di saper assumere le nostre responsabilità nell’ambito civile e politico. La parola del tuo Figlio c’infonde un’accresciuta consapevolezza: il potere umano non può essere né  demonizzato né divinizzato, ma in esso si deve manifestare l’orientamento della nostra libertà.

Ti ringraziamo per averci fatti a tua immagine e per averci rivelato la nostra vocazione cristiana: essa ci impegna a rispondere della qualità morale delle scelte grandi e piccole nella vita d’ogni giorno. Grazie perché con il tuo aiuto potremo vivere tutto questo, rendendo a Cesare ciò che è di Cesare e a te, o nostro Dio, quanto è tuo. Ossia le nostre stesse vite!

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO

XXIX DOM TEMP ORDINARIO (A)

XXVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 25,6-10a

Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati.

Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre.

  Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.

  Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza, poiché la mano del Signore si poserà su questo monte». 

 

I capitoli 24-27 costituiscono una raccolta di oracoli apocalittici, di epoca post-esilica, inseriti nel libro di Isaia. Vi si descrive in particolare il banchetto che celebra l’intronizzazione del Signore.

v. 6 – Il banchetto simboleggia la salvezza universale realizzata nel regno dei cieli.

Il monte Sion sarà il luogo di questa celebrazione universale: il Signore preparerà il banchetto, descritto con immagini colorite ed esuberanti, per tutti i popoli.

v. 7 – La festa escatologica segnerà anche la definitiva e universale rivelazione del Signore: il velo che rendeva ciechi i popoli e la coltre che nascondeva la verità alle nazioni sono rimossi. «Il re presenta i suoi regali durante il banchetto: prima i popoli non vedevano il Signore, perché erano ciechi: ora il Signore stesso scopre i loro occhi perché possano conoscerlo» (L. ALONSO SCHÖKEL).

v. 8 – «Apocalisse» significa «rivelazione», e oracolo apocalittico non è sinonimo di catastrofe ma di salvezza. Il Signore vince la morte, vince il dolore e le lacrime; la parola del Signore farà cessare l’infelicità del popolo: l’oracolo sarà ripreso in Ap 7,17; 21,4.

vv. 9-10a – Segue il canto del popolo salvato, che esulta nel Signore e proclama le sue lodi.

 

Seconda lettura: Filippesi 4,12-14.19-20 

 Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni.

Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù.  Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

La lettera ai Filippesi è una delle «lettere dalla prigionia». Paolo è in attesa di giudizio, e rischia la condanna a morte. Nonostante questa condizione drammatica, egli esorta all’obbedienza e all’amore, con speranza e gioia.

     Scrive ai cristiani di Filippi, in Macedonia (Grecia), la prima chiesa da lui fondata in Europa.

     Le catene della prigionia di Paolo risultano essere un incoraggiamento a predicare il Vangelo: nella persecuzione l’apostolo riconosce un dono di grazia che giova alla diffusione del messaggio di Cristo.

     In chiusura della lettera Paolo ha parole toccanti di gratitudine nei confronti dei Filippesi per la premura che hanno dimostrato nei suoi confronti.

     Tuttavia, egli ribadisce di non pretendere nulla: le tribolazioni e soprattutto una vita spesa al servizio del Vangelo gli hanno insegnato a far fronte a tutto, forte solo dell’aiuto di Colui che mi dà la forza.

     v. 12 – Per due volte ripete «so vivere»; il terzo verbo, «sono allenato», era usato per i riti di iniziazione. L’oggetto — le circostanze che Paolo ha imparato ad affrontare — sono indicate da una serie di infiniti. Paolo è stato iniziato a tutti i misteri della vita, le vicissitudini della realtà quotidiana sono state come riti di iniziazione che lo hanno reso capace di far fronte a tutto.

     v. 13 – L’apostolo qualifica la propria autosufficienza: «tutto questo» (ciò che ha elencato nel versetto precedente), posso affrontarlo grazie al Signore. Il segreto della sua indipendenza è la dipendenza da un altro, viene dal trovarsi in unione vitale con Colui che mi dà forza.

     v. 14 – Ed ecco cosa possono fare di buono e giusto i Filippesi: diventare partners di Paolo, prendendo parte alle sue tribolazioni.

     vv. 19-20 – Nei due ultimi versetti (seguono i saluti e il commiato) Paolo ripete il verbo «colmare» (pleroun) e la parola «bisogno» (chreia) che ha adoperato più sopra (vv. 16 e 18): là per dire che i Filippesi hanno dato a Paolo ciò che gli era necessario, qui per dire che Dio colmerà di doni i Filippesi per ogni loro bisogno. L’espressione «il mio Dio» è rara in Paolo. La conclusione è una doxologia.

 

Vangelo: Matteo 21,1-14 

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:  «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.

Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.

  Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.  Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.  Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

Esegesi

     Siamo nell’ultimo periodo del ministero di Gesù, la sua predicazione in Gerusalemme, dall’ingresso festoso e trionfale nella città (21,1-10) alla Pasqua.

     L’evangelista raggruppa qui una serie di parabole che più si avvicinano al tema del giudizio, sviluppato poi nel cap. 25 (i due figli, i vignaioli omicidi, il banchetto di nozze; più avanti, le dieci vergini e i talenti).

     Le tre parabole del primo gruppo sono poste in crescendo e legate fra loro: nella prima e nella seconda si parla di «vigna», nella seconda e nella terza di invio dei servi. Sono introdotte dalla domanda sull’autorità di Gesù (21,23), alla quale Gesù non risponde apertamente, ma appunto in parabole.

     Nella prima Gesù si riferisce al Battista: «non gli avete creduto». È un verdetto di colpevolezza nei confronti di coloro che non hanno riconosciuto ciò in cui «i pubblicani e le prostitute… hanno creduto» (21,32). La seconda parabola parla di Gesù, il Figlio inviato per ultimo, e della pena inflitta su indicazione degli stessi ascoltatori (cf. 21,40-41): «a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produrrà frutti»  (21,43). Infine, la terza parla dei discepoli, e raffigura l’esecuzione della pena. Il culmine si ha con l’ammonizione alla comunità, su cui pende la possibilità di questo destino di condanna (22,11-14).

     La parte conclusiva (11-14) dove si parla dell’abito nuziale, che manca nel parallelo di Luca, costituiva forse originariamente una parabola autonoma, introdotta dal v. 2. Si evita con questa ipotesi l’incongruenza di pretendere che invitati improvvisati e casuali dovessero avere l’abito adatto (l’usanza di fornire l’abito agli ospiti non è attestata per i tempi di Gesù); inoltre si usano vocaboli diversi per indicare i «servi» (douloi, vv. 3-10; diakonoi, v. 13). Le due parabole — dell’invito rifiutato e dell’abito nuziale — sarebbero poi state unificate nella figura complessiva del «re» che prepara le «nozze» del «figlio»: diventa chiaro sia il riferimento al giudizio finale e all’età della salvezza (il banchetto del regno), sia al compimento in Gesù (il Figlio).

     I servi mandati a chiamare gli ospiti, specialmente per il secondo invito quando il banchetto è già pronto, sono per Matteo i discepoli che invitano nel nome di Gesù. Il rifiuto opposto dagli invitati è netto fin dal primo momento e senza scuse né motivi: «non volevano venire» (v. 3); solo in seguito si dice che, non essendo venuti, badavano ai propri affari.

     I vv. 6-7 mostrano un crescendo che aggrava in maniera quasi incomprensibile l’accaduto, e che manca nella versione lucana: alcuni uccidono i servi, il re fa uccidere gli assassini e addirittura incendiare la loro città (al singolare!). Subito dopo (senza citare «il re») giudica indegni i primi invitati e manda i servi a cercare altra gente. Si pensa che i vv. 6-7 siano un’interpolazione successiva, che risente dell’eco degli eventi del 70 d.C. e indica la persecuzione dei messaggeri di Gesù e il giudizio di Dio su Gerusalemme. Furono probabilmente aggiunti dopo l’unificazione delle due parabole; vi si parla infatti di un re, mentre la parabola degli invitati non fa pensare a un re che invita altri capi di città, ma semplicemente a un uomo ricco che invita suoi pari (cf. il parallelo di Luca).

     I servi escono infine a chiamare «cattivi e buoni» e la sala si riempie.

     La parabola dell’abito nuziale (vv. 2.11-14) qui inserita è un monito alla comunità. Essa indica il rifiuto di Gesù da parte di Israele, e avverte la comunità di non fare la stessa cosa. «Invitare» è detto con il verbo kaleô, che significa «chiamare»: è Dio che chiama alla salvezza.

     La parabola dell’abito mostra che i chiamati al banchetto del regno non possono restare come prima, ma assumono un nuovo modo di essere: il battezzato è un «uomo nuovo» (Col 3,10), «indossa Cristo» (Gal 3,27), come dice Paolo.

     Il finale (v. 14) mette in guardia dalla falsa sicurezza di chi pensa di avere già in tasca la salvezza: «chi è chiamato da Dio non può mai considerare questa vocazione un ‘possesso’ acquisito, ma deve viverla giorno per giorno» (Eduard SCHWEIZER, Il vangelo secondo Matteo, Paideia, 2001, p. 391). Non si può così ridurre il significato della parabola a una sostituzione della predicazione a Israele con la predicazione ai pagani: l’evangelista vuole ricordare ai discepoli di Gesù che l’accettazione dell’invito e il battesimo devono continuare a caratterizzare tutta la vita del cristiano, perché possa restare seduto al banchetto.

 

Meditazione

     La prospettiva escatologica traversa la prima lettura e il vangelo: Isaia intravede la fine della morte e Matteo il giudizio finale (soprattutto in Mt 22,13).

     Le immagini utilizzate per evocare l’evento finale, il Regno, l’atto con cui Dio mette fine alla storia compiendo la storia, sono umane, umanissime: banchetto e nozze. La realtà più divina è espressa con le immagini più umane: convivialità e nuzialità, cibo e eros.

     Sono immagini che al loro cuore hanno la relazione, l’incontro, l’amore, la celebrazione della vita attorno a una tavola e nell’abbraccio nuziale. La vita spirituale cristiana si realizza non con un distanziamento dall’umano, quasi che questa fosse la via per divenire più spirituali, ma come un fare ciò che Dio stesso ha fatto: divenire umani, assumere la propria umanità come compito da realizzare.

     L’immagine profetica del Dio che ammannisce un banchetto per tutti i popoli, preparando cibi succulenti e grasse vivande, rinvia all’amore di Dio per l’umanità. Preparare da mangiare per qualcuno significa amarlo, significa dirgli: «Io voglio che tu viva», «Io non voglio che tu muoia». Ma se il nostro cibarci ci fa vivere, ma non ci libera dal morire, Isaia aggiunge che Dio «eliminerà la morte», anzi, letteralmente, «divorerà la morte», «inghiottirà la morte» (Is 25,8). Il Dio che prepara da mangiare per tutti i popoli compie una promessa di vita per l’umanità intera, vita che sarà «per sempre» (Is 25,8). Il banchetto preparato dal Dio che divora la morte, un banchetto in cui il mangiare è anche una liberazione dalla morte, è simbolo di una realtà altra da quella terrena, una realtà in cui Dio regna, non l’uomo. Di questa realtà è figura e preannuncio l’eucaristia.

     La parabola evangelica è una sorta di visione teologica di una fase della storia della salvezza. Essa parla allegoricamente dell’evento pasquale messianico (le nozze del figlio del re: v. 2), del rifiuto opposto ai missionari cristiani da parte di Israele (gli invitati indifferenti o violenti fino all’omicidio: vv. 3-6), della distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. (il re irato che fa perire gli uccisori e incendia la loro città: v. 7), dell’estensione della missione cristiana ai pagani (gli invitati che si trovano ai crocicchi delle vie: vv. 8-10), del giudizio che incombe sulla chiesa stessa e sui nuovi invitati (l’uomo che non ha l’abito nuziale: v. 11-13). La chiesa, come Israele, è situata nell’orizzonte del giudizio.

     La parabola è giocata sulla dialettica tra dono e responsabilità. L’invito è gratuito, ma impegna chi lo riceve e gli chiede di farsene rispondente. L’abito nuziale significa il prezzo della grazia. C’è una risposta che il chiamato è tenuto a dare all’invito gratuito, una sinergia in cui deve entrare. Molti sono gli ostacoli che l’uomo oppone alla chiamata. Anzitutto, la non volontà: «non volevano venire» (v. 3). Non basta essere invitati, occorre voler rispondere, mettere la propria volontà a servizio della chiamata. La trascuratezza e la superficialità di chi non stima adeguatamente il dono ricevuto, non ne coglie la preziosità e si rinchiude nei propri orizzonti ristretti, nei propri affari (v. 5). L’aggressività e la violenza di chi nell’invito rivolto o nel dono ricevuto vede solo l’intrusione, non la libertà e la liberalità, condannandosi alla reattività e alla ribellione. La non adesione di chi risponde all’invito senza corrispondervi in verità, senza lasciarsene mutare, senza entrare in una reale conversione (vv. 11-12).

     Uno dei nemici più insidiosi e diffusi della fede, più temibile anche dell’ateismo e dell’opposizione aperta, è l’indifferenza. Ben espressa nel v. 5 dal disinteresse, dal non far conto dell’invito ricevuto, dal non dargli alcun peso e dal preferirgli la routine quotidiana, le piccole occupazioni, i propri affari, il proprio interesse. L’indifferenza mette il credente in una crisi particolarmente acuta perché dice l’insignificanza e l’irrilevanza della vita di fede. Ma nella misura in cui il credente stesso cade nell’individualismo e nella gelosa difesa del proprio interesse e nel culto del profitto, anch’egli svuota la propria vita di fede, mostrando di non avere indossato l’abito nuziale.

 

Preghiere e racconti

Gustate tutti il banchetto della fede

«Chi ama il Signore si rallegri in questa festa bella e luminosa!

Il servo fedele entri lieto nella gioia del suo Signore!

Chi ha atteso questo giorno nella penitenza riceva ora la sua ricompensa.

Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il salario che gli è dovuto.

Chi è arrivato dopo la terza ora, sia lieto nel rendere grazie.

Chi è giunto dopo la sesta ora, non dubiti, non avrà alcun danno.

Chi ha tardato fino alla nona ora, venga senza esitare.

Chi è arrivato all’undicesima ora, non creda di essere venuto troppo tardi.

Perché il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo.

Concede il riposo all’operaio dell’undicesima ora come a quello della prima ora.

Ha misericordia dell’ultimo e premia il primo.

Al primo dà, all’ultimo regala.

Apprezza le opere di ciascuno, loda ogni intenzione.

Entrate tutti, dunque, nella gioia del nostro Signore;

primi e secondi, ricevete tutti la ricompensa;

ricchi e poveri, danzate insieme;

sia che abbiate digiunato, sia che abbiate fatto festa,

siate tutti nella gioia, onorate questo giorno!

Il banchetto è pronto, godetene tutti!

Il cibo è abbondante, basterà per tutti, nessuno se ne andrà affamato.

Gustate tutti il banchetto della fede.

Gustate tutti la larghezza della bontà.

Nessuno pianga la sua miseria:

il regno di Dio è aperto a tutti. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati.

Dominato dalla morte, egli l’ha spenta.

Il Cristo è risorto e regna la vita!

A lui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli. Amen».

(Annuncio pasquale della Chiesa orientale)

La festa nel castello

Il signore di un castello diede una gran festa, a cui invitò tutti gli abitanti del villaggio aggrappato alle mura del maniero. Ma le cantine del nobiluomo, pur essendo generose, non avrebbero potuto soddisfare la prevedibile e robusta sete di una schiera così folta di invitati.

Il signore chiese un favore agli abitanti del villaggio: “Metteremo al centro del cortile, dove si terrà il banchetto, un capiente barile. Ciascuno porti il vino che può e lo versi nel barile. Tutti poi vi potranno attingere e ci sarà da bere per tutti”. Un uomo del villaggio prima di partire per il castello si procurò un orcio e lo riempì d’acqua, pensando: “Un po’ d’acqua nel barile passerà inosservata… nessuno se ne accorgerà!” Arrivato alla festa, versò il contenuto del suo orcio nel barile comune e poi si sedette a tavola. Quando i primi andarono ad attingere, dallo spinotto del barile uscì solo acqua. Tutti avevano pensato allo stesso modo, e avevano portato solo acqua.

Se siamo a volte scontenti del mondo, è perché troppi portano solo acqua, aspettando che siano gli altri a portare il vino.

L’abito nuziale

Il giorno in cui il re entra per vedere i commensali è il giorno del giudizio. Dio viene a visitare i cristiani che sono invitati alla tavola delle sacre Scritture. Essi sono tranquilli nella fede e prendono parte al banchetto degli insegnamenti celesti. Oppure è il giorno della prova. Il Signore si degna di mettere alla prova la sua Chiesa, per vedere chi ha la fede, chi presenta opere degne della chiamata del Cristo. L’abito nuziale è la vera fede, quella che passa attraverso Gesù Cristo e la sua santità. È di essa che parla l’apostolo: «Spogliatevi dell’uomo vecchio con le sue azioni» (Col 3,9)…

Chi vuole essere di Cristo faccia le opere di Cristo. Se non vuole fare le opere di Cristo, non venga al Cristo.

(Omelia greca anonima e incompleta del V secolo)

Il Re e la sua gente

II Re invitando al banchetto

persone di alto rango

fa loro l’onore di un messaggio

di suo pugno.

Siccome non si affrettano

il Re manda ancora a dire

non quale signore li onori

ma quali grandi pietanze.

Ora ognuno si inventa una scusa

uno va a vedere la sua terra

l’altro prova una coppia

di animali da tiro.

Strana scusa quando un Re

invita alla sua tavola

l’avere a che fare con la stalla

o con i propri trasporti.

Uno rifiuta per orgoglio

un altro per pigrizia

uno teme il rango dell’altezza

l’altro il suo buon piacere.

E dandosi l’aria

[di essere] al di sopra dell’invito

ciascuno sotto la sua maschera evita

l’occhio regale e chiaro

temendo che un così grande Signore

esiga che egli tolga

almeno il sudiciume delle sue colpe

per fargli onore.

Il Re ordina alla sua gente

di radunare in fretta

le prostitute all’angolo delle piazze

e gli indigenti

che seduti in cerchio a mensa

nessuna questione di precedenza

si tengono alla sua presenza

meglio di baroni.

(P. Emmanuel, Evangeliario)

Qual è l’abito di nozze?

Qual è l’abito di nozze? Eccolo: «Il fine del precetto è la carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera» (1 Tm 1,5).[…] Se non avrò la carità, anche distribuire elemosine ai poveri, giungere a confessare il nome di Cristo fino a versare il sangue, arrivare a subire il fuoco, tutto questo può essere fatto anche per amore della gloria, e allora è inutile. Poiché queste cose possono diventare inutili perché fatte per amore della gloria e non in virtù della carità colma dell’amore di Dio, l’apostolo Paolo le ricorda; ascoltale: «Se distribuissi tutti i miei beni ai poveri e consegnerò il mio corpo perché sia bruciato, ma non avrò la carità, non mi gioverà a nulla» (l Cor 13,3). Ecco l’abito di nozze! Interrogate voi stessi. Se lo avete, starete sicuri al banchetto del Signore. Nell’essere umano esistono due impulsi: la carità e il desiderio disordinato. Nasca in te la carità, se non è ancora nata; e se già è nata, venga allevata, nutrita, cresca. Il desiderio disordinato in questa vita non può essere eliminato del tutto «poiché se diremo di non avere peccati, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1Gv 1,8); nella misura in cui vi è in noi il desiderio disordinato, non siamo senza peccato. Cresca allora la carità, diminuisca il desiderio disordinato affinché quella, cioè la carità, venga portata un giorno ad essere perfetta e il desiderio disordinato venga annientato. Indossate l’abito delle nozze, parlo a voi che non l’avete ancora. Già siete dentro la chiesa, già vi siete accostati al banchetto e non avete ancora l’abito da indossare in onore dello sposo, perché cercate ancora i vostri interessi e non quelli di Cristo.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 90,6, NBA XXX/2, pp. 106-108).

 La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione

Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della crescita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.

Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di accettazione da parte del genere umano. L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita. C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fissa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio. Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui. […]

Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165, 167).

La vostra fede sia forte

La vostra fede sia forte;

non tentenni, non vacilli dinanzi ai dubbi,

alle incertezze che sistemi filosofici

o correnti di moda vorrebbero suggerirvi.

La vostra fede sia gioiosa,

perché basata sulla consapevolezza

di possedere un dono divino.

Quando pregate e dialogate con Dio

e quando vi intrattenete con gli uomini,

manifestate la letizia

di questo invidiabile possesso.

La vostra fede sia operosa;

si manifesti e si concretizzi

nella carità fattiva e generosa verso i fratelli

che vivono accasciati nella pena e nel bisogno;

si manifesti nella vostra serena adesione

all’insegnamento della Chiesa,

madre e maestra di verità;

si esprima nella vostra disponibilità

a tutte le iniziative di apostolato,

alle quali siete invitati a partecipare

per la dilatazione e la costruzione

del regno di Cristo.

(Giovanni Paolo II)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO

XXVIII DOM TEMP ORDINARIO (A)

XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:  Isaia 5,1-7

Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna.

  Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi. 

 

Il richiamo della vigna e delle premure del padrone nei suoi confronti ha un noto antecedente nell’Antico Testamento, come testimonia il brano di Isaia, scelto come prima lettura. Questo piccolo poema è un autentico gioiello della letteratura universale.

     Un valido cantore intona questo canto per il suo amico che ha avuto una vicenda dolorosa con la sua vigna. L’inizio fa echeggiare note di amore che celebrano la premurosa sollecitudine di un uomo nei confronti della sua vigna (vv. 1-2). Poi il cantore si tira in disparte e prende il suo posto lo stesso interessato che convoca gli abitanti di Gerusalemme come testimoni e proclama il suo totale impegno (vv. 3-4). Nella terza parte, cambiando decisamente registro, troviamo una requisitoria e una condanna verso Israele, presentato in forma criptata nella figura della vigna (vv. 5-7).

     La cura amorosa per la vigna è espressa con la scelta di vitigni che danno l’uva vermiglia, una qualità ancora oggi molto apprezzata nel vicino Oriente per i suoi rubicondi grappoli. Oltre a ciò, alcuni interventi quali l’asportazione di pietrame e la costruzione di una torre difensiva erano garanzia di un frutto di qualità. Inaspettatamente, il risultato deludente contraddice tanta passione e tanto sforzo: i grappoli presentano solo agresta, un tipo di uva ad acini piccoli, fibrosi e per di più asprigni, così da allegare i denti.

     Concluso lo status quaestionis, la scena si trasforma da amorosa in giudiziale. Ci sono tutte le premesse: lo stesso danneggiato prende la parola, espone il caso negativo (produzione di uva selvatica), cita i testimoni, dichiara il proprio stato di innocenza.

     La reazione, che è altresì una punizione, serve a scoprire le carte. Dopo le cure infruttuose, ecco lo stato di abbandono (eliminazione della siepe e abbattimento del muro di cinta) che rende la vigna proprietà selvaggia di presenze indesiderate (animali e erbe male). Il vertice della narrazione è raggiunto con l’identificazione dei contendenti. Da una parte sta l’amato tradito che è Dio in quanto è colui che può comandare alle nubi di non far piovere (cf. v. 6) e dall’altra la vigna che è il popolo di Israele che produce grappoli amari di malvagità, espressa sinteticamente come «spargimento di sangue» e «grida di oppressi» (v. 7). Nonostante tutte le premure di Dio, l’elezione, la protezione dai suoi nemici e altro ancora, il popolo non ha realizzato le aspettative del suo Dio. Davvero una vigna ingrata, incapace di relazionarsi correttamente con chi l’ha tanto amata.

Seconda lettura: Filippesi 4,6-9

Fratelli, non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.  E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù. In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!

 

Verso la parte finale della lettera alla comunità di Filippi, Paolo si attarda in una serie di raccomandazioni. Aveva esortato ad una gioia ben fondata perché il Signore era vicino. La sua vicinanza funge da deterrente contro ansie incontrollate. Chi lascia operare nella propria vita la semplice parola ‘il Signore è vicino’, esperimenta già ora la pace di Dio. Paolo non pensa tanto alla pace tra gli uomini, ma alla calma interiore del cuore, che ha il suo fondamento nelle promesse di Dio. Il cristiano che organizza la propria esistenza alla luce di Cristo, non si lascia irretire da lacci che frenano il suo impegno o che smorzano la sua serenità di fondo.

     Paolo non fa mistero circa le reali e spesso dure difficoltà dell’esistenza cristiana ed è già stato chiaro, alludendo fin dall’inizio alle sue catene (cf. 1,13). È pure convinto che non giova lasciarsi prendere da ansiose inquietudini (cf. lo stesso verbo di Mt 6,25.31 dove si raccomanda un sincero abbandono alla Provvidenza) che bloccano e rendono improduttivi. Positivamente, tutto prende senso e valore nella comunione con Cristo/Dio di cui la «pace» del v. 7 è la sacramentalizzazione. La fiducia in Dio si concretizza nel manifestare a lui la nostra situazione, attraverso «preghiere, suppliche e ringraziamenti». Non è certo un ‘far conoscere’ qualcosa che non sa, ma è il modo per l’uomo di mantenere il filo diretto con Dio, nel dialogo di amore, nel sereno abbandono alla sua volontà, nella fiduciosa attesa davanti a lui. Colui che è capace di pregare e di ringraziare depone il suo affanno in Dio.

     La formula «in conclusione» del v. 8 raccoglie un insieme di ammonimenti che appartenevano alla sapienza classica. Passiamo ora, dopo le pennellate teologiche, ad affreschi di tutto rispetto ma nell’ordine della normalità. E questo non dispiace. Il cristiano non è pensato come un abitante della stratosfera dello spirito, bensì come un essere incarnato che, partendo dalle virtù umane, risponde agli impulsi dello spirito per tendere alla perfezione. Non ci sarà santità di vita senza una piattaforma di sana ‘normalità’. Per questo un elenco di 8 virtù invita a ricercare e a perseguire «quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode». Le prime quattro indicano valori etici e spirituali individuali, le altre quattro invece, a due a due, sottolineano di più l’aspetto pubblico e sociale. Il cristiano è capace di valorizzare tutto, di integrare i valori proposti dai pagani e dai giudei e di inserirli in una sintesi superiore.

     Paolo rimanda ancora al proprio esempio, concretizzazione di vita cristiana alla quale i Filippesi possono ispirarsi perché l’hanno, almeno in parte, sperimentata personalmente. Per loro Paolo, in quanto apostolo, rimane il collegamento diretto e sicuro con Cristo.

     Con la promessa benedicente «Il Dio della pace sarà con tutti voi!» si conclude il presente brano a carattere esortativo.

 

Vangelo: Matteo 21,33-43

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.  Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?».  Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».  

 

Esegesi

     Cronologicamente siamo verso la fine della vita pubblica di Gesù, dopo il solenne ingresso nella città santa. Gli ultimi giorni terreni sono segnati da un conflitto sempre più aspro con i capi. Gesù ha già polemizzato con loro a proposito della sua autorità nel tempio (cacciata dei venditori) e pronosticato un rivoluzionario sorpasso («i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio», 21,31). In questo rovente clima giunge la nostra parabola che, con la successiva riguardante il banchetto, rincara la dose arrivando addirittura all’esclusione dei capi giudei.

     La parabola ha un canovaccio particolare. La minuta esposizione imbastita sui generosi interventi del padrone nei confronti della vigna e sulla feroce ostilità dei vignaioli produce una reazione immediata nell’uditorio, pronto a condannare un comportamento inqualificabile. Gli ascoltatori non si avvedono però che le loro parole sono un’autocondanna. Gesù raccoglie e fa proprio il loro giudizio orientando il senso della parabola in chiave d’istologica e pasquale.

     Possiamo allora ravvisare questo schema:

     vv. 33-39: esposizione del racconto parabolico;

     vv. 40-41: domanda di Gesù e risposta (autoaccusa) degli ascoltatori;

     vv. 42-43: prospettiva cristologica e passaggio di consegne da un popolo improduttivo a uno produttivo.

     1. Il canovaccio della parabola

     I primi destinatari delle parole di Gesù sono i principi dei sacerdoti e gli anziani del popolo (cf. 21,23), coloro che dovevano guidare il popolo sui sentieri di Dio. Di fatto, loro stessi si sono smarriti sui viottoli di un bieco interesse personale.

     L’azione del padrone è minuziosamente descritta con una raffica di sette verbi («piantò, circondò, scavò, costruì, affidò, andò, mandò») di cui i primi cinque sono direttamente riferiti al rapporto padrone-vigna. Ne viene un itinerario dettagliato di appassionato amore. Si inizia dal fatto che il padrone pianta la vigna. Essa nasce quindi da una precisa volontà altrui. Sarebbe logico aspettarsi un profondo legame tra lei e colui che l’ha voluta. L’idea di dipendenza è arricchita da una serie di interventi che mostrano la cura che il padrone ha nei confronti della sua creatura. Dopo averla «generata» si premura di assicurarle un futuro prosperoso. Ecco le azioni di recinzione e di costruzione di una torre, con evidente intento difensivo. La costruzione del torchio nella stessa vigna è pure un atto di attenzione; è una vigna dove c’è tutto. Non occorre quindi trasportare il futuro raccolto da un’altra parte.

     Il quarto verbo — «affidò» — sta ad indicare che il padrone non intende creare un monopolio nei confronti della vigna e associa altre persone come collaboratrici della sua opera. Consegna loro una situazione ottimale: vigna piantata e protetta, munita di tutto il necessario. Si tratta di continuare nella stessa linea, permettendo alla vigna di produrre e raccogliere il prodotto. In qualità di collaboratori, associati in un’opera da loro non fondata e ricevuta già ben avviata, devono anch’essi mantenere un legame di amorosa sudditanza nei confronti del padrone. Questi infatti se ne va, lasciando campo libero alla vigna e ai vignaioli.

     Potrebbe sembrare che i punti di attenzione siano due: la produttività della vigna e la sollecitudine dei vignaioli nel favorire tale produttività. In realtà l’asse si sposta invece su un interesse che riguarda i vignaioli, perché non si fa parola sulla produttività della vigna, dando per acquisito l’esistenza dei frutti. Tutto l’interesse della parabola è fissato sul rapporto tra il padrone e i vignaioli a proposito della consegna del raccolto. Dal settimo verbo riferito al padrone — «mandò» — scaturisce tutto lo sviluppo della parabola (cf. vv. 34-39). Ciò fa capire che la punta polemica della parabola è rivolta verso i capi («principi dei sacerdoti e anziani del popolo») citati all’inizio.

     L’esigenza del padrone di ritirare il raccolto è legittima e secondo le regole dell’epoca. Non si dice che lui voglia tutto il raccolto, costringendo i lavoratori alla fame. Possiamo ipotizzare qui una saggia regola della mezzadria e perciò anche i lavoratori partecipano alla rendita della vigna. Ciò che qui viene esplicitato, quindi degno di nota, è il rifiuto totale di consegnare qualche frutto al padrone, delegittimando così la sua autorità. I vignaioli infatti dimostrano un rifiuto totale e violento che diventa aggressione e uccisione dei servi inviati allo scopo d’impossessarsi dei frutti.

   Anche qui troviamo un elenco di verbi che pubblicizzano i sentimenti dei lavoratori che si sono impossessati dei servi del padrone («presero»), compiendo azioni violente: «bastonarono, uccisero, lapidarono».

     Il padrone è doppiamente danneggiato: non riceve i frutti della vigna e perde i suoi servi. Tuttavia mostra magnanimità nell’inviare altri servi, in numero maggiore dei primi. Stesso risultato fallimentare. Egli compie un ultimo tentativo, con l’invio del proprio figlio. Pure in questo caso, la sorte è analoga: espulsione dalla vigna e uccisione. I mezzadri non vogliono riconoscere alcuna autorità e si pongono come antagonisti nei confronti del padrone, usurpando la sua proprietà e uccidendo le persone che gli appartengono.

     Come sempre succede nelle parabole, anche qui l’attenzione è posta sull’ultimo elemento, l’invio del figlio. L’importanza è ben messa in evidenza anche dalla duplice riflessione — del padrone e dei vignaioli — che permette al lettore di accedere ai sentimenti più profondi dei protagonisti. È un’introspezione psicologica che rivela i meccanismi profondi delle scelte e dello stile di vita. Il padrone è presentato come PADRE che investe tutto sul FIGLIO, pensando che a questo punto termini la furia omicida dei suoi dipendenti e che si rendano conto dei loro obblighi, riconoscendo così la legittima autorità. I vignaioli sanno bene che il figlio è l’EREDE e pensano di eliminarlo per entrare in possesso della vigna. Il loro pensiero denuncia un preciso piano: c’è in loro una lucida e programmata malvagità.

     Qui termina la parte espositiva della parabola. Potrebbe suonare un po’ irreale (l’uccisione di coloro che vengono a riscuotere), se non fosse in filigrana la tragica vicenda che vede coinvolto Gesù. Egli è il figlio che «patì fuori della porta della città» (Eb 13,12) e che fu ucciso. E prima di lui tanti profeti hanno vissuto una sorte analoga.

     Un aspetto abbastanza originale della parabola è la chiara domanda posta da Gesù ai suoi uditori (v. 40) e l’altrettanto chiara la risposta dei suoi uditori che non hanno titubanze nell’esecrare il comportamento dei vignaioli prospettando una drastica soluzione: «li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo» (v. 41). La prima parte della risposta riguarda la condanna di collaboratori indegni, sottoposti al supplizio da loro applicato a coloro che venivano a riscuotere (una specie di legge del taglione). La seconda parte, positiva, prospetta il corretto atteggiamento di collaboratori fedeli, pronti a consegnare i frutti al legittimo proprietario.

     I poveri ascoltatori non si avvedono che la parabola è diretta contro di loro. Proprio perché sono liberi da condizionamenti e da pregiudizi convengono sulla necessità di punire gli empi mezzadri e di sostituirli con altri onesti e corretti.

     L’immagine della vigna attinge i suoi colori ad una tavolozza tante volte impiegata nel mondo biblico, basti ricordare il cap. 5 di Isaia (cf. prima lettura) e il Salmo 80 (79). La vigna era una rappresentazione del popolo di Israele. Il padrone che pianta e cura la vigna era l’icona del comportamento di Dio. I vignaioli omicidi sono i capi che hanno rifiutato di essere il legittimo tramite tra Dio e la sua vigna. Su di loro si abbatte la scure di un giudizio senza appello.

     2. La prospettiva cristologica

     Gesù riprende in mano le redini del discorso a cui imprime una chiara svolta cristologica e pasquale. La citazione del Sal 118 (117), 22-23 sposta l’asse di interesse dal rapporto padrone-vignaioli a quello di accoglienza-rifiuto di Cristo. È lui la pietra di cui parla il salmo. Una pietra apparentemente senza valore, tanto da essere gettata dai costruttori perché ritenuta inutile, ma presa da Dio per diventare un punto di forza di tutta la costruzione. Il rapporto di Dio con gli uomini ha avuto il suo punto culminante con l’incarnazione, che è l’invio del figlio fatto carne, dell’erede che chiamava tutti gli uomini a diventare eredi del padre celeste. Lui non è stato accolto e gli è stata riservata una sorte analoga a quella dei profeti, condannandolo a morte. L’idea che siano i capi i primi e principali responsabili della sua morte affiora anche altrove nel vangelo (cf. Lc 24,20). Il rifiuto di Cristo è l’atto supremo di malvagità che squalifica una persona, facendole perdere l’occasione unica e irripetibile della sua vita. Per questo occorre ripristinare una nuova relazione.

     Per fortuna, o meglio, per grazia, esiste qualcun altro con il quale è possibile ricominciare. Il brano termina positivamente con la prospettiva di un popolo capace di far fruttificare il regno di Dio. Ciò grazie all’opera salvifica di Cristo che culmina nel mistero pasquale. La sua morte è premessa e condizione di vita nuova che crea un popolo capace di opere degne e soprattutto di un rapporto filiale con Dio.

Meditazione

     Isaia e Matteo sottolineano il tema del fare: c’è un fare di Dio che attende un fare umano come risposta; in particolare, attende da parte della vigna-Israele un fare frutti adeguati. La prassi dei credenti è un fare frutto: si tratta di entrare in una relazione che dona fecondità. L’agire cristiano, pastorale in specie, rischia spesso la cecità dell’attivismo, la pigrizia della forza d’inerzia, l’insipienza di chi ha «freddo il senso e perduto il motivo dell’azione» (Thomas Stearns Eliot). Il raffreddarsi della carità (Mt 24,12) si può accompagnare a un fare dissennato, indiscreto e senza discernimento. La fede nel fare di Dio per l’uomo, dunque nel suo amore, è il fondamento dell’agire del credente.

     Il fare di Dio per la sua vigna è un lavorare (Is 5,2) che ne esprime l’amore (Is 5,1). L’amore è un lavoro, una fatica: la «fatica dell’amore» ( 1Ts 1,3). Anche per l’uomo, lungi dall’essere un’attività facile e immediata, l’amore è un lavoro che esige un’ascesi. La maturità umana trova nella capacità di lavorare efficacemente e di amare in modo adulto due elementi qualificanti decisivi.

     L’amore divino nutre un’attesa nei confronti dell’amato: non attende amore di ritorno, ma giustizia (Is 5,7). La giustizia umana onora l’amore di Dio. L’amore che attende qualcosa dall’amato esercita una dolce violenza, ma un amore che non attenda nulla dall’amato è semplicemente irreale.

     Prima lettura e vangelo sono brani di teologia della storia, di rilettura della storia alla luce della fede. Isaia parla dell’agire di Dio verso il suo popolo e la parabola evangelica rilegge la storia degli invii dei profeti e del loro rigetto da parte del popolo, fino all’invio del Figlio. Emerge la difficoltà di discernere il servo di Dio, il profeta. L’alterità insostenibile di Dio diviene l’alterità del profeta che si traduce nella sua presenza scomoda, imprevedibile, non racchiudibile in etichette del tipo «progressista» o «conservatore». Uomo del pathos di Dio, le reazioni del profeta agli eventi storici ed ecclesiali sfidano il buon senso comune e il comune sentire religioso e appaiono di volta in volta eccessive, non allineate, sproporzionate, difficilmente comprensibili, trascurabili, ininfluenti. Ed egli stesso viene sentito spesso come insopportabile o deriso come sognatore o considerato come presenza di cui si può tranquillamente non tener conto alcuno.

     L’atteggiamento dei contadini a cui è affidata la vigna (Mt 21,33-39) denuncia un pericolo perenne nella comunità cristiana: l’occupazione dello spazio ecclesiale da parte di chi vi esercita una leadership (Mt 21,38). Questo avviene quando un gruppo di persone che rivestono ruoli dirigenti nella chiesa assolutizza la propria visione e cerca di far divenire norma generale le proprie opzioni.

     La parabola pone di fronte all’enigma della violenza che può scandalosamente farsi presente in uno spazio religioso. Nell’alveo ecclesiale la violenza non riveste normalmente forme clamorose come la violenza fisica, ma più sottili come il non ascolto, il rifiuto, l’emarginazione, il disprezzo, la non accoglienza, il disinteresse, la pressione e l’abuso psicologico.

     Avviene così che l’agire di Dio, che fa dello scarto umano il fondamento della storia di salvezza (Mt 21,42), sia contraddetto dall’agire ecclesiale che crea scarti e produce emarginati. Questo l’agire di Dio: «Dio sceglie ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato» ( 1Cor 1,28). Questo lo scandaloso agire messianico, e questo è chiamato a essere l’agire dei messianici, i «cristiani».

     Lo stupore e lo scandalo che suscita in noi l’agire del padrone della vigna che, dopo avere visto tanti suoi servi subire una sorte violenta, infine invia il figlio, quasi sottovalutando il rischio, è indice della nostra distanza dal pensare di Dio, dalla radicalità del suo amore, dalla follia della sua gratuità.

     Il passaggio della vigna a un popolo che la farà fruttificare non è un giudizio sulla vigna-Israele, ma sui suoi capi, ed è anche invito e ammonimento, agli «eredi» a essere fecondi. Nessun sostituzionismo (i vignaioli non si sostituiscono alla vigna!): nessuna idea di chiesa come nuovo o vero Israele scaturisce dal testo. 

Preghiere e racconti

Curare la vigna è come curare la vita

Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, all’andata come al ritorno, dovevo camminare mezz’ora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche. Cosi ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle. La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno scostato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.

D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E li, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio li, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).

Io sarò vigna

Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.

Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: « Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti.

   Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo ».

   E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: « I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni ».

E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».

E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.

(K. GIBRAN, Il Profeta)

Continuate a esortarli finché vengano alla fede

Cristo «ci ha affidato il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18). Di nuovo con queste parole Paolo mostra la grandezza degli apostoli indicando quale ministero è stato loro affidato e contemporaneamente la sovrabbondanza dell’amore di Dio. Egli non si è adirato né ha abbandonato gli uomini per il fatto che non avevano ascoltato il suo inviato, ma persevera nell’esortare da se stesso o per mezzo di altri. Chi si meraviglierebbe a sufficienza dinanzi a tale sollecitudine? È stato ucciso il Figlio, il vero Unigenito venuto a riconciliare gli uomini con Dio, e il Padre non ha voltato le spalle a quelli che l’hanno ucciso; non ha detto: «Ho inviato mio figlio quale mediatore, e loro non solo non hanno voluto ascoltarlo, ma l’hanno messo a morte e l’hanno crocifisso. È giusto che li abbandoni». Ha fatto proprio il contrario, e ora che Cristo ha lasciato la terra, l’incarico è stato affidato a noi. Ci ha affidato il ministero della riconciliazione poiché Dio stesso era in Cristo e ha riconciliato a sé il mondo non tenendo conto dei peccati degli uomini. Vedi l’amore che supera ogni pensiero, ogni intelligenza! Chi era stato offeso? Dio. Chi fa il primo passo verso la riconciliazione? Dio. […] Paolo dice: «Ci ha affidato il ministero della riconciliazione»; queste parole necessitano di una precisazione. Non pensate che questo potere risieda in noi; siamo servi, colui che opera tutto è Dio che si è riconciliato il mondo attraverso il suo unico Figlio. E come se lo è riconciliato? Questa è la cosa meravigliosa che non solo lo abbia amato, ma che l’abbia amato in questo modo. Come? Perdonando agli uomini i peccati; non v’era altro modo. Perciò Paolo aggiunge: «Non tenendo conto dei peccati degli uomini» (2Cor 5,19). […] «Ci ha affidato il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18). Non veniamo a voi per sottoporvi a un’opera faticosa, ma per fare di tutti gli uomini degli amici di Dio. Poiché non hanno ascoltato, ci dice il Signore,  continuate a esortarli finché vengano alla fede. Perciò Paolo prosegue: «Fungiamo da ambasciatori per Cristo; è come se Dio vi esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo, nel nome di Cristo, lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor5,20).

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla seconda lettera ai Corinti 11,2-3, PG 61,476-477).

La tensione degli opposti

“La vita è una sorta di tiro alla fune. Vorresti fare una cosa, ma sei costretto a fare qualcos’altro. Qualcosa ti fa male, eppure tu sai che non dovrebbe. Prendi per scontate alcune cose, pur sapendo che non c’è nulla di scontato. “La tensione degli opposti, come un elastico che si tira. E quasi sempre stiamo da qualche parte, nel mezzo.” Sembra un incontro di pugilato, commento io. “Già, un incontro di pugilato”, ride lui. “Ecco, potresti proprio descrivere la vita così”. “Chi vince?” Mi sorride, e gli si formano le rughe intorno agli occhi, gli si scoprono i denti storti. “Vince l’amore. L’amore vince sempre”.

(Mitch ALBOM, I miei martedì col professore, Milano, Rizzoli, 2006, 47).

No, lui, io non l’ho conosciuto

Del resto, si interessava poco

a questo figlio sfortunato

che si rese antipatico

a tutti i poteri politici.

No, lui, io non l’ho conosciuto.

E tuttavia, suo figlio lo adorava,

diceva: io, ciò che spero

e augurerei a tutti

è di andare a vivere presso mio padre.

No, lui, io non l’ho conosciuto.

Non fece assolutamente nulla

per salvare questo figlio, un vero santo

che fu condannato ingiustamente

e morì fra atroci supplizi.

Ma lui, io non l’ho conosciuto.

(Norge, Suo figlio e lui)

Preghiera

O Padre, celeste vignaiolo che hai piantato sulla nostra terra la tua vite scelta – il santo germoglio della stirpe di David – e compi il tuo lavoro in ogni stagione.

Fa’ che accettiamo le potature di primavera, anche se, teneri tralci, gemiamo trasudando lacrime sotto i colpi decisi delle tue cesoie. Vieni pure a mondarci nel culmine della stagione estiva, perché i viticci superflui non sottraggano linfa vitale al grappolo che deve maturare.

Frutto della nostra vita sia l’amore, quel «più grande amore» che dal tuo cuore, attraverso il cuore di Cristo, con flusso inesauribile si riversa in noi. E tutti gli uomini, fratelli nostri nel tuo nome, ne siano ricolmati, con spirito di dolcezza, di gioia e di pace.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO

XXVII DOM TEMP ORDINARIO

XXVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:  Ezechiele 18,25-28

Così dice il Signore:  «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore a punto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».

 

Questi versetti sono presi dal capitolo più tipico di Ezechiele sulla responsabilità personale. Egli parla ai deportati a Babilonia, consapevoli dei peccati del popolo d’Israele e ormai rassegnati che i figli debbano pagare le colpe dei padri. Essi vanno ripetendo: «I padri han mangiato l’uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» (Ez 18,2). Ma il profeta, a nome di Dio, li contraddice: «Voi non ripeterete più questo proverbio… chi pecca morirà» (Ez 18,3-4). In questo capitolo lo fa in quattro riprese, articolate tutte allo stesso modo: un’obiezione degli israeliti, la confutazione del profeta e la sua istruzione sull’argomento. È il genere letterario del responso sacerdotale o Torâh. Il brano liturgico presenta la risposta alla terza obiezione, molto simile alla seconda che precede (Ez 18,19) e alla quarta che segue (Ez 18,29). Applica gli insegnamenti della lunga risposta data alla prima, con i casi specifici del nonno buono, del figlio malvagio e del nipote ancora buono (Ez 18,2).

     C’è una botta e risposta iniziale (v. 25). Gli interlocutori del profeta obiettano che non è retto il comportamento del Signore, se adesso non fa più scontare ai figli le iniquità dei padri, ed egli subito ribatte con l’interrogativo se piuttosto il loro comportamento non sia retto, non approfondendo i motivi profondi del problema.

     Poi c’è la spiegazione dettagliata (vv. 26-28). Ezechiele ribadisce quanto ha già detto e ripetuto. Al di là degli aspetti legali di colpa e pena, egli fa considerare l’ordine delle cose in se stesse, nel quale c’è un rapporto stretto fra iniquità e morte e fra giustizia e vita. Nel dire questo, allarga di molto le visuali. Alla morte da lo stesso significato di disfacimento dell’essere umano, quale conseguenza della colpa dei progenitori (Gen 2,17), e alla vita quello della crescita piena prevista originariamente, nell’armonia con Dio (Gen 1,28). L’iniquità e la giustizia inoltre le intende in base alla Torâh, della quale appena prima ha ripetuto per tre volte una sintesi (Ez 18,5-9.10-13,15-17), sulla quale regolare la responsabilità personale, e in riferimento alla quale già il Deuteronomio proclamava: «Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male» (Dt 30.15).

     Nel Pentateuco però l’orizzonte rimane terreno e certamente anche Ezechiele lo ha, guardando alla fine della deportazione, al ritorno in patria e alla ricostruzione. Ma questo non basta per le singole persone, malvagie o giuste. Per esse le insistenze del profeta pongono una promessa allo sviluppo della rivelazione sulla retribuzione ultraterrena. Solo in vista di essa, infatti, vale per tutti lo stretto rapporto fra iniquità e morte e fra giustizia e vita. Del resto lo esige anche l’affermazione all’inizio di questo capitolo: «Tutte le vite sono mie» (Ez 18,4), fatta da colui che si è proclamato «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,15), proclamazione che comprova la risurrezione dei morti, secondo Gesù (cf. Mt 22,33).

 

Seconda lettura: Filippesi 2,1-11

Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

 

Filippi è la prima Chiesa che Paolo ha fondato in Europa, durante il secondo viaggio missionario (ca. 50-53 d.C.), dalla quale ha accettato più volte aiuti anche materiali, con molta riconoscenza ma tenendoci anche a non lasciarsi condizionare dai doni, nel proporre gli impegni del vangelo. Lo dice con tanta intensità alla fine della lettera (Fil 4,10-21). Alla luce di quelle espressioni si capisce il triplice e appassionato «se» rivolto ai suoi  benefattori, che apre questo brano: «se c’è qualche conforto… se c’è qualche comunione di spirito… se ci sono sentimenti di amore e di compassione…». Se tutto questo c’è verso Paolo, ci sia anche fra di loro, con l’unione degli spiriti e con le prestazioni della collaborazione in tutta umiltà e non per spirito di rivalità o per vanagloria. Al riguardo ha da dire dell’altro e lo fa nel resto del capitolo. Ma prima richiama loro il modello supremo di Cristo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù». Un richiamo sempre necessario, specialmente nel nostro tempo, nel quale si vorrebbe che Cristo avesse i nostri sentimenti…

     L’inno cristologico molto più probabilmente Paolo lo ha preso dalla liturgia delle prime comunità cristiane e lo ha inserito qui perché fondamentale per il suo messaggio. Sintetizza infatti il mistero pasquale negli aspetti del dono totale di sé, per i quali Cristo ha avuto il massimo della esaltazione. Si sviluppa in due strofe parallele e antitetiche.

     La prima strofa è discendente per una serie di gradini, segnati dalla kènosi o svuotamento e dalla obbedienza di Cristo. Dalle perfezioni della natura divina egli ha svuotato se stesso, assumendo la forma umana e la condizione di servo. Il servizio dell’obbedienza, che ha scelto, lo ha realizzato fino alla morte, cioè totalmente, e alla morte di croce, cioè nel modo più infamante del supplizio riservato agli schiavi e ai peggiori delinquenti, per raggiungere col suo esempio e la sua grazia anche le situazioni estreme.

     La seconda strofa è ascendente per un’altra serie di gradini, contrapposti ai precedenti ma frutto di essi e segnati dalla esaltazione di Cristo e dalla obbedienza di tutti gli esseri sottoposti a lui. Perché si è «svuotato» della natura divina, Dio gli ha dato un «nome», cioè una dignità e un potere, al di sopra di ogni altro nome. Perché si è fatto obbediente fino ai livelli infimi. Dio destina ogni ginocchio a piegarsi, cioè ogni essere a sottomettersi a lui, in cielo, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua o cultura, umana e angelica, a proclamarlo Signore, Kyrios, lo stesso nome dato a Dio tradotto in greco l’ebraico Adonaj. La sua gloria sarà nuova gloria per il Padre, dal quale ha avuto origine tutta la vicenda: è abbozzato qui il ritornello che scandisce l’inno trinitario all’inizio della lettera agli Efesini.

Vangelo: Matteo 21,28-32

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

 

Esegesi 

     La parabola dei due figli mandati a lavorare nella vigna è riportata dal solo Matteo, dopo che i membri del Sinedrio, sommi sacerdoti e anziani del popolo, hanno chiesto a Gesù con quale autorità compie gesti clamorosi e non autorizzati, quali l’ingresso messianico a Gerusalemme, la cacciata dei venditori dal tempio e l’insegnamento all’interno di esso. A rincararne la dose aggiunge subito quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-45). In precedenza, sullo stesso argomento ha raccontato quella dei chiamati al lavoro in diverse ore del giorno (Mt 20,1-16).

     1. Il significato è chiarissimo. Il lavoro nella vigna è il paragone classico con il quale i profeti parlano dell’opera di Dio per educare il suo popolo (cf. specialmente Is 5.1-7). Sulla corrispondenza a tale opera Gesù prende posizioni molto dure, nel suo ultimo ministero a Gerusalemme. In questa parabola pone i casi di un consenso a parole e rifiuto nei fatti e di un rifiuto a parole e consenso nei fatti. Con una domanda all’inizio e una alla fine, chiede ai suoi avversari la valutazione dei due comportamenti. Essi danno quella più ovvia e, lontani dall’immaginare le intenzioni del loro interlocutore, pronunciano così la propria condanna.

     2. L’applicazione di Gesù. Essa, è rivolta proprio a loro. Nella volontà del padre della parabola egli intende quella che Dio manifesta al suo popolo, mediante i suoi inviati. Ma non rimane sul generico. Va al caso specifico della predicazione del Battista, che ultimamente ha indicato anche ai membri del Sinedrio la «via della giustizia» cioè della corrispondenza alla effettiva volontà di Dio in questo tempo di grazia.

     Di fronte ad essa, era un no in partenza la condotta delle prostitute e dei pubblicani, ma poi hanno creduto e si sono convertiti. I pubblicani, esattori delle tasse, erano considerati pubblici peccatori perché imbroglioni e perché sacrileghi, in quanto versavano i tributi all’invasore pagano. Era invece un sì in partenza il compito dei sommi sacerdoti e degli anziani, in quanto servizio voluto da Dio per il suo popolo, ma in pratica essi non hanno avuto nemmeno un cenno di pentimento delle proprie infedeltà e non hanno creduto al Battista. La parabola è stata così in primo luogo un puntuale atto di accusa nei loro riguardi.

     Quando Matteo l’ha messa in iscritto, dopo il concilio di Gerusalemme (49 d.C.), era già applicabile all’altro contesto, preannunciato da Gesù, della defezione di tanti giudei convertiti, mentre i pagani accoglievano in massa il vangelo: «molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori» (Mt 8,11-12). E da allora rimane sempre aperto un terzo contesto: quello delle successive letture in ogni tempo e luogo. Adesso è aperto il nostro contesto da interpretare.

     In questo modo le parabole sono uno degli strumenti più forti della predicazione di Gesù. Egli non racconta storielle per bambini, ma affronta con esse i responsabili della cosa pubblica, civile e religiosa, e provoca prese di coscienza e scelte precise, alla maniera dei profeti, in particolare di Natan di fronte a David (2Sam 12). Le parabole stanno alla frontiera della evangelizzazione, usava dire il compianto monsignor Vittorio Fusco.

 

Meditazione

Prima lettura e vangelo propongono un messaggio sul pentimento. L’uomo ingiusto può desistere dalla sua ingiustizia e agire con rettitudine (Ezechiele); il figlio che in un primo tempo si è rifiutato di andare a lavorare nella vigna del padre, dopo decide di andarvi (vangelo).

     L’unità delle due letture può anche essere espressa con le categorie della conversione e della responsabilità.

     Il pentimento è attestazione di libertà. Anche il malvagio può cambiare. Questa possibilità di conversione dice che il peccato non è una potenza metafisica che schiaccia l’uomo e che ha su di lui l’ultima parola. Nel pentimento l’uomo ritrova la retta via e «torna» a se stesso e a Dio allo stesso tempo.

     Atto di libertà, il pentimento è anche atto di liberazione. Il malvagio che cambia condotta «fa vivere se stesso» (Ez 18,27), da vita alla sua esistenza, mostrando di non essere schiavo dei precedenti comportamenti.

     Che cosa porta il malvagio a cambiare condotta? Com’è possibile evocare il pentimento, questo evento in cui è in gioco il mistero della persona e la coscienza della contraddizione fra sé e sé che conduce al dolore e alla lacerazione interiori? Ezechiele evoca il cammino interiore che conduce al pentimento con le parole: «ha visto» (Ez 18,28, letteralmente; Vulgata: considerans). Che cosa ha visto? In Ez 18,14 si parla del «vedere i peccati del padre» da parte del figlio, che pure non fa della visione dei peccati paterni un alibi per il proprio peccare, anzi, non si lascia generare al peccato dal padre peccatore. Quella visione indica allora la presa di coscienza dei propri peccati, è la dolorosa visione di sé nella non-unificazione, nella divisione profonda. Nel pentimento noi vediamo noi stessi nella contraddizione con noi stessi. E sappiamo di poterci rivolgere a Dio proprio in quella condizione di chi ha il cuore contrito.

     Nell’odierna parabola evangelica (Mt 21,28-31), il figlio che ha risposto «no» all’invito del padre e poi, «pentitosi», «avendo provato rimorso», ha fatto la volontà del padre, rivela che il credere passa a volte anche attraverso un ricredersi. L’obbedienza alla parola e alla volontà di Dio passa a volte attraverso uno smentire la propria parola e la propria volontà. La fede non ci chiede di non sbagliare e di non peccare, ma di riconoscere l’errore e di confessare il peccato.

     In quel «ricredersi» c’è il dialogo interiore, c’è la presa di coscienza della realtà, c’è l’audacia di guardare in faccia se stessi, preliminare essenziale per l’agire responsabile. Insomma, c’è l’inizio del movimento verso la responsabilità, della decisione di passare dall’irresponsabilità alla responsabilità. In questo senso, lungi dall’essere un segno di debolezza, il pentimento è segno di coraggio e di forza. Per quanto sia raro e impopolare, anche nella chiesa, il gesto di chi riconosce di aver sbagliato, di chi ammette di aver assunto posizioni che si sono rivelate poco conformi al vangelo e muta la propria posizione cercando di essere più fedele al vangelo, è segno di grandezza umana e spirituale.

     Nel cristianesimo il pentimento è la via maestra per accedere alla volontà di Dio. «Noi cristiani abbiamo il privilegio di disporre di un metodo altro, rispetto alla mondanità, per avvicinarci alla verità: il pentimento» (Christos Yannaras).

     I due figli della parabola sono entrambi in contraddizione tra il dire e il fare. Ma con una differenza essenziale. Il figlio che dice «no» si espone a un conflitto con il padre, con una persona esterna a lui, e questo lo conduce a prendere coscienza del suo conflitto interiore e a mutare opinione. Cosa che non avviene in chi risponde «sì» e che compiace l’altro, si adagia sull’altro, non si espone conflittualmente all’altro e può evitare di guardare alla tentazione della disobbedienza che abita pure in lui. Per Matteo è evidente che coloro che vivono nel «sì» sono i religiosi (sacerdoti e anziani del popolo: Mt 21,23) che possono non sentirsi bisognosi di conversione perché già «a posto», a differenza di coloro che invece vivono nel «no», pubblicani e prostitute, e che possono fare spazio all’evangelo ed entrare nel Regno.

Preghiere e racconti

Un «sì» continuamente ripetuto

Questa parabola riguarda ciascuno di noi. Abbiamo detto «sì» quando abbiamo riconosciuto la legittimità della legge di Dio e promesso di sottometterci ad essa; ma il più delle volte continuiamo a vivere o riprendiamo a vivere senza preoccuparci della volontà di Dio. Crediamo di vivere nel Regno perché un tempo il nostro «sì» è stato sincero, ma ciò che vi è di più abituale in noi sfugge alla volontà di Dio che ci chiama al Regno. Spesso le nostre azioni sono in sintonia con la volontà di Dio, ma, quando ciò che vogliamo non si accorda con la sua volontà, è in genere il nostro volere ad avere la meglio; obbediamo ai nostri desideri e ai nostri capricci. Ma la vita nel Regno non consiste nell’iscrizione del nostro nome in un libro [dei battesimi o dei matrimoni]. L’ingresso nel Regno richiede una volontà viva e continua, un’accettazione costante e attuale della volontà di Dio su di noi. È un«sì» continuamente ripetuto.

(Y. de Montcheuil, Il Regno e le sue esigenze)

La possibilità di rispondere NO

Un amore reale secerne la possibilità di una rivolta. Può proporre solo il SI e il NO. Tutto sommato, un buon padre è colui che dà al figlio la possibilità di rispondergli NO. Certo, non è l’amore a produrre il NO (il figlio lo ha scoperto da solo), ma lo rende possibile. Si noterà questa specie di misteriosa simpatia che il Cristo sembra aver avuto nei riguardi dei ribelli. La loro condotta gli sembrava dovuta a un malinteso, un malinteso che non poteva durare e, soprattutto, che in seguito si sarebbe dimostrato benefico. Il figlio-schiavo non ha alcuna possibilità di riconoscere l’amore del Padre; il figlio ribelle, più tardi, ha la possibilità di scoprirlo.

(A. Maillot, Le parabole di Gesù oggi)

Il mio «sì»…

Maria, vorrei che il mio «sì» fosse semplice come il tuo,

che non avesse astuzie mentali.

Vorrei che il mio  «sì», come il tuo,

non mi mettesse al centro, ma a servizio.

Vorrei che il mio  «sì» al disegno di un altro, come il tuo,

volesse dire soffrire in silenzio.

Vorrei che il mio  «sì»,  come il tuo,

volesse dire tirarsi indietro per far posto alla vita.

Vorrei che il mio  «sì» , come il tuo,

racchiudesse una storia di salvezza.

Ma il mio peccato, il mio orgoglio, la mia autosufficienza,

dicono un  «sì» ben diverso.

Il tuo sguardo su di me, Maria,

mi aiuti ad essere semplice,

una che si dimentica,

una che vuole perdersi nella disponibilità

di chi sa di esistere da sempre

soltanto come un pensiero d’amore. Amen.

Non importa

L’uomo è irragionevole,

illogico, egocentrico

non importa, amalo.

Se fai bene

ti attribuiranno secondi fini egoistici,

non importa, fa il bene.

Se realizzi i tuoi obiettivi

troverai falsi amici e veri nemici,

non importa, realizzali.

Il bene che fai

verrà domani dimenticato,

non importa, fa il bene.

L’onestà e la sincerità

ti rendono vulnerabile,

non importa, sii franco e onesto.

Quello che per anni hai costruito

può essere distrutto in un attimo,

non importa, costruisci.

Se aiuti la gente

se ne risentirà,

non importa, aiutala.

Dà al mondo il meglio di te

e ti prenderanno a calci,

non importa, dà il meglio di te.

(Calcuta, scritta sul muro casa dei bambini di Madre Teresa)

Il Padre accoglie con gioia il figlio che veramente si converte

A chi si è rivolto in verità con tutto il cuore a Dio si aprono le porte e il padre accoglie con gioia il figlio che veramente si converte. La vera conversione consiste nel non ricadere nelle stesse colpe, ma di estirpare completamente dall’anima i peccati per i quali sei giudicato meritevole di morte. Una volta eliminati questi, Dio ritornerà ad abitare in te, perché, come dice il Signore, grande e insuperabile è la gioia e la festa nei cieli per il Padre e per gli angeli quando un solo peccatore si converte e si pente (cfr. Lc 15,10). Perciò il Signore ha proclamato: «Misericordia voglio e non sacrificio (Os 6,6; Mt 9,12; 12,7); non voglio la morte del peccatore, ma la conversione (Ez 33,11); e se i vostri peccati fossero come lana scarlatta, li farò diventare bianchi come neve, e se fossero più neri della tenebra, li laverò e li farò diventare come lana bianca» (Is 1,18). Dio solo, infatti, può perdonare i peccati e non tener conto delle cadute. Anche a noi il Signore comanda di perdonare ogni giorno i fratelli che si pentono. E se noi, che siamo cattivi, sappiamo dare cose buone (cfr. Mt 7,11), quanto più il Padre delle misericordie, il Padre buono, «di ogni consolazione» (2Cor 1,3), pieno di tenerezza e di compassione sa pazientare. Egli aspetta quelli che si sono convertiti. Ora, la vera conversione è smettere di peccare e non guardarsi più indietro. Dio accorda il perdono dei peccati passati, mentre per ciò che riguarda il futuro ciascuno è responsabile di se stesso. Anche questo è pentirsi, riconoscere gli errori passati e chiedere al Padre di non ricordarli più. Lui solo può rendere non compiuti i peccati compiuti, cancellando con la misericordia che viene da lui e con la rugiada dello Spirito i peccati commessi in passato.

(CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Quale ricco si salva? 39,2-40,1, GCS 3,185-186)

Sì, ma…

O Signore, mio Dio e mio Salvatore, Gesù Cristo, continuo a chiederti di darmi la grazia della conversione. Giorno e notte spero soltanto una cosa: che tu mi mostri la tua misericordia e lasci che io sperimenti la tua presenza nel mio cuore. Fa’ che io pervenga a un genuino atto di pentimento, a una preghiera sincera e umile e a una generosità libera e spontanea. Vedo così chiaramente la strada da seguire! Comprendo così bene che mi è necessario venire a te. Posso insegnare e parlare con eloquenza sulla vita in te; ma il mio cuore esita, il mio io interiore e più profondo ancora si tira indietro, vuole mercanteggiare, vuole dire: «Sì, ma…». O Signore, continuo forse a dimenticare che tu mi ami, che tu mi aspetti a braccia aperte? Come un padre con le lacrime agli occhi, tu vedi come il tuo figlio stia distruggendo la vita stessa che tu gli hai dato. Ma anche come un padre tu sai che non puoi costringermi a tornare a te. Solo quando verrò liberamente a te, quando mi scuoterò liberamente di dosso le preoccupazioni e gli affanni e confesserò liberamente le mie vie sbagliate e chiederò liberamente misericordia, solo allora tu potrai darmi liberamente il tuo amore.

Ascolta la mia preghiera, o Signore, ascolta la mia difesa, ascolta il mio desiderio di ritornare a te. Non lasciarmi solo nella mia lotta. Salvami dalla dannazione eterna e mostrami la bellezza del tuo volto. Vieni, Signore Gesù, vieni. Amen.

(J.M. NOUWEN, (manoscritto inedito), in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 239-240)

Aiutami a dire “sì”.

Ho paura a di “sì”, Signore.

Dove mi porterai?

Ho paura del “sì” che comporta altri “sì”.

Ho paura a mettere la mia mano nella tua;

perché tu possa stringerla […]

O, Signore, ho paura delle tue richieste,

ma chi può opporti resistenza?

Che venga il tuo regno, non il mio,

che sia fatta la tua volontà e non la mia,

Aiutami a dire “sì”».

(Michel QUOIST)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 20

PER APPROFONDIRE:

XXVI DOM TEMP ORDINARIO (A)

XXV DOMENICA TEMPO ORDINA-RIO

Prima lettura: Isaia 55,6-9 

 Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

 

Siamo nell’ultimo capitolo del secondo Isaia (40-55), un profeta anonimo del tempo dell’esilio babilonese (VI sec. a. C.) i cui oracoli di consolazione sono stati aggiunti al libro di Isaia (VIII sec. a.C.). Il cap. 55 si conclude con una esortazione a cercare e invocare il Signore, la rinnovata promessa dell’alleanza e l’efficacia della parola di Dio.

     Nei versetti precedenti il nostro brano il profeta annuncia la nuova alleanza e la realizzazione delle promesse fatte a Davide, in un orizzonte universalistico che coinvolge i popoli e le nazioni: anche chi non conosce Israele accorrerà a rendergli onore a causa del Signore.

     L’oracolo si apre con il v. 6 che esorta gli esiliati a cercare il Signore, mentre è vicino e si fa trovare.

     È un tema caratteristico della profezia esilica quello della vicinanza del Signore, proprio in terra straniera, dove gli esuli temevano di averlo perduto. Gli ebrei avevano legato infatti la presenza del Signore al possesso della Terra, alla città santa e al Tempio: con la distruzione di quest’ultimo e la deportazione tutto sembrava compromesso, l’alleanza infranta e la salvezza irraggiungibile. Invece, proprio la condizione di smarrimento dell’esilio, assimilata dai profeti al deserto, è una condizione favorevole alla conversione e al ravvedimento.

     Il v. 7 invita ad abbandonare le vie e i pensieri iniqui e a ritornare al Signore: il verbo shûv indica la conversione, la metanoia. Il Signore avrà misericordia: la radice rhm indica le viscere materne del Signore che prova compassione per il popolo, senza che esso lo abbia in alcun modo meritato.

     Le «vie» e i «pensieri» ritornano al v. 8 per riaffermare con maggior forza la necessità della conversione: le vie e i pensieri degli uomini infatti (l’iniquo e l’empio del v. 7, ma anche tutto il popolo che si illude di essere nel giusto) non corrispondono alle vie e ai pensieri di Dio.

     La differenza sostanziale e la superiorità assoluta del progetto di Dio rispetto ai progetti umani sono pari alla distanza infinita tra terra e cielo (v. 9): non è semplicemente l’idea filosofica della trascendenza di Dio, ma la grandezza e la profondità del suo amore, della sua misericordia e del suo perdono, che l’uomo non riesce nemmeno a immaginare.

     L’efficacia della parola del Signore, che porta a compimento ciò che promette, viene riaffermata nei versetti seguenti.

 

Seconda lettura: Filippesi 1,20-24.27 

Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.

Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.  Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.  Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo. 

 

La lettera ai Filippesi è una delle «lettere dalla prigionia». Paolo è in attesa di giudizio, e rischia la condanna a morte. Nonostante questa condizione drammatica, egli esorta all’obbedienza e all’amore, con speranza e gioia.

Scrive ai cristiani di Filippi, in Macedonia (Grecia), la prima chiesa da lui fondata in Europa.

     Le catene della prigionia di Paolo risultano essere un incoraggiamento a predicare il vangelo: nella persecuzione l’apostolo riconosce un dono di grazia che giova alla diffusione del messaggio di Cristo (cf. l,14ss.).

     Paolo sviluppa in questi versetti un’audace e paradossale contabilità della sua missione apostolica.

     I vv. 20c-22 pongono il problema.

     La «partita doppia» tra sofferenze e pericoli della persecuzione e glorificazione di Cristo si chiude in pari, anzi in attivo: Cristo sarà glorificato, sia che l’apostolo venga liberato e viva, sia che subisca la condanna e muoia.

     La morte, infatti, rappresenta per Paolo un guadagno perché significa essere ricongiunti a Cristo, che è la vita vera. Il discorso sembrerebbe qui chiuso con l’aspirazione al martirio: ma Paolo vi oppone un argomento altruistico. Per sé, egli sceglierebbe il martirio; ma la vita al servizio dei fratelli e del vangelo può dare frutti alla Chiesa, allora ecco che la scelta si fa più difficile.

     I vv. 23-24, centrali nella pericope, propongono con chiarezza l’alternativa: morire in Cristo (espresso con il verbo analysai, come una liberazione) sarebbe il meglio, ed è il desiderio di Paolo; ma vivere è più necessario per i fratelli.

     Gli ultimi tre versetti (25-27) risolvono la questione indicando la scelta di Paolo: «continuerò a rimanere in mezzo a voi». Ne segue, logica conseguenza, l’esortazione ai Filippesi perché si rendano degni del vangelo di Cristo: questo è il solo «vanto» (kauchema) riconosciuto valido dall’apostolo.

     L’opposizione vita/morte si compone in Cristo, che sarà comunque glorificato dall’apostolo, sia con una morte testimoniale sia con una vita dedicata alla predicazione.

 

Vangelo: Matteo 20,1-16

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:  «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzo giorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

     Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.  Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi». 

 

Esegesi

     Siamo nella sezione del vangelo di Matteo dedicata al cammino verso la Passione (capp. 16-20).

     La sezione si apre con la confessione di fede di Pietro — tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente (16,15) — e prosegue con i tre annunci della Passione (16,21; 16,22-23; 20,18-19). Poco prima dell’ultimo annuncio l’evangelista inserisce la parabola degli operai dell’ultima ora, incorniciata da due detti quasi identici sugli ultimi che saranno primi e i primi che saranno ultimi (19,30; 20,16). Il tutto è a sua volta incastonato fra due brani che riguardano il discepolato e pongono il problema della ricompensa (cf. il salario della parabola) e della gerarchia (cf. l’ordine di priorità fra gli operai della prima e dell’ultima ora). Il brano che precede è la domanda di Pietro sulla ricompensa che spetta a chi ha «lasciato tutto» per seguire Gesù, e la risposta di Gesù (19,27-29); segue immediatamente il terzo annuncio della Passione, e la richiesta della madre dei figli di Zebedeo sui posti da assegnare nel regno.

     Nella parabola si possono distinguere tre parti.

1) la prima (vv. 1-7) racconta ciò che succede durante il giorno. Si tratta della giornata lavorativa tipica nella società agricola palestinese del tempo, che durava «dai primi raggi del sole fino al sorgere delle stesse» (cf. Sl 103/104,22-23). La suddivisione in 12 ore quindi, nella stagione estiva, comporta una durata dell’ora lavorativa ben superiore ai 60 minuti. Si susseguono quattro brani sul padrone di casa che esce cinque volte a cercare operai per la sua vigna. Nei primi tre abbiamo una contrattazione in cui si pattuisce un salario («Si accordò con loro per un denaro», la paga giornaliera normale, cf. Tob 5,15; «quello che è giusto ve lo darò»; «fece altrettanto»). Nell’ultimo brano si riferisce nei particolari il dialogo, ma non si parla di salario.          

     Si crea così una sospensione e un’attesa: anche il lettore si aspetta che gli altri ricevano di meno. Ciò anche perché rimane inespresso il motivo per cui a sera sono ancora disoccupati: non c’era lavoro a sufficienza o erano pigri? dov’erano, quando il padrone era uscito all’alba, alla terza, alla sesta e alla nona ora?

2) Al centro, il v. 8 crea il collegamento tra la parabola e ciò che precede e che segue: abbiamo il rovesciamento tra gli ultimi e i primi (che anticipa la risposta ai figli di Zebedeo), l’ordine inverso nella paga (la ricompensa rivendicata da Pietro). Il tutto a opera del «Signore della vigna» (il «padrone di casa» dei vv. 1 e 11), chiara metafora del regno dei cieli.

     La tensione, già creata con il v. 7, viene qui accentuata. È insolito, anche se non impossibile, che si assumano operai al termine della giornata; ancor più insolito che si inizi da costoro il pagamento, costringendo chi ha faticato fin dall’alba ad attendere e rinviare così il momento del riposo. Tanto più che la Legge prescriveva di pagare senza indugio i lavoratori a giornata, che non avevano altro mezzo per provvedere al cibo per sé e per la famiglia: «gli darai il salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole» (Deut 24,15).

     A questo punto ci aspettiamo che possa seguire qualcosa di ancora più strano. Era necessario del resto quest’ordine inverso, perché così i primi assistono al pagamento degli ultimi e possono attendersi di ricevere di più (v. 10).

3) Nell’ultima parte vengono messi in parallelo gli ultimi e i primi (vv. 9-10): «e venuti quelli dell’undicesima ora…», «e venuti i primi…». In seguito si riferisce il dialogo: la domanda dei primi operai (vv. 11-12) e la risposta del padrone (vv. 13-15).

     Il padrone rivendica a sé la sovrana libertà di disporre del proprio come vuole. Un denaro non era solo la paga consueta, era anche il necessario per vivere: ebbene, la volontà del padrone della vigna è che ciascuno abbia il necessario per vivere (il pane quotidiano), indipendentemente dai propri meriti. Il problema nasce quando si fanno dei confronti, e ci si erge a giudici pretendendo che la giustizia del Signore segua i nostri criteri.

     Alcuni elementi colpiscono particolarmente, e portano a comprendere che non di equità sociale o di diritti sindacali vuol parlare l’evangelista.

     Il padrone della vigna sottolinea l’opposizione giusto/ingiusto: «quello che è giusto ve lo darò» (v. 4); «non sono ingiusto con te» (v. 13). Si tratta evidentemente di una strana giustizia: «la si perde se l’uomo la reclama per sé con leggerezza, come un suo diritto ovvio, confrontando il proprio curriculum con quello degli altri e non concentra così lo sguardo sulla bontà del Signore davanti alla quale tutto quello che egli ha fatto e meritato svanisce. Così proprio l’incomprensibile bontà di Dio diventa uno scandalo per colui che non vuole liberarsi dei suoi concetti umani di merito e giustizia» – (EDUARD SCHWEIZER, Il vangelo secondo Matteo, Paideia, 2001, p. 367).

     Il padrone, che nella prima parte della parabola appare tanto premuroso e generoso da uscire ben cinque volte alla ricerca di disoccupati cui offrire lavoro, si rivela subito dopo, se non ingiusto (è pur vero che rispetta i patti), quanto meno capriccioso e brusco («prendi il tuo e vattene», v. 14a). Il contrasto viene sciolto dall’ultima domanda che il padrone rivolge non a tutti gli operai, ma a uno, chiamandolo «amico»: rivolta perciò al lettore del vangelo, a ciascuno di noi personalmente, suona alla lettera: «o il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?». La cattiveria sta nell’occhio dei primi, come Caino verso Abele, i fratelli verso Giuseppe: «Gli operai della prima ora non vogliono riconoscere che è stato un dono essere stati assunti: certo, hanno lavorato dodici ore, ma solo grazie all’invito del padrone di casa. Come la vita è un dono, regalata dal Padre, senza alcun merito da parte di chi la riceve» (ROLAND MEYNET, Una nuova introduzione ai vangeli sinottici, EDB, 2001, p. 249).

Meditazione 

     La dichiarazione divina trasmessa dal profeta «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8) trova una esposizione narrativa nella parabola evangelica secondo la quale gli operai che hanno lavorato un’ora sola nella vigna del padrone ricevono una paga identica a quella di coloro che hanno lavorato tutto il giorno. Nello scandalo patito dagli operai della prima ora vi è tutta la distanza tra il pensare e l’agire di Dio e il pensare e l’agire degli uomini.

     Questa distanza non dice il capriccio di Dio o il suo arbitrio, ma la sua misericordia. Ciò che gli operai della prima ora contestano al padrone è infatti di aver dato la stessa ricompensa agli ultimi arrivati come a loro che avevano patito il peso dell’intero giorno di lavoro. Letteralmente essi dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo» (Mt 20,12). Il fare agli ultimi come ai primi abbatte le discriminazioni e i privilegi. Il Dio biblico, infatti, è il Dio della grazia. Esprime bene questo primato della misericordia e della grazia sulle logiche giuridiche un brano della Catechesi sulla santa Pasqua dello Pseudo-Giovanni Crisostomo: «Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il giusto salario; chi è venuto dopo la terza, renda grazie e sia in festa; chi è giunto dopo la sesta, non esiti: non subirà alcun danno; chi ha tardato fino alla nona, venga senza esitare; chi è giunto soltanto all’undicesima, non tema per il suo ritardo. Il Signore è generoso, accoglie l’ultimo come il primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato dalla prima. Fa misericordia all’ultimo come al primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora come a chi ha lavorato fin dalla prima».

     Il testo ci interpella su ciò che è al cuore della nostra vita con Dio: la relazione o la prestazione? Concepire il proprio servizio a Dio come prestazione conduce a misurarlo e a confrontarlo con il servizio degli altri entrando in un rapporto di competizione. Se invece c’è la relazione con il Signore allora anche il peso della giornata di lavoro è «giogo soave e leggero» e la bontà del Signore verso tutti è motivo di ringraziamento, non di contestazione.

     La distanza tra pensieri di Dio e pensieri umani è importante da salvaguardare perché impedisce l’operazione perversa di identificare i propri pensieri umani con quelli di Dio. Questa affermazione contesta la presunzione religiosa che proietta in Dio le proprie azioni e i propri pensieri e identifica le proprie parole su Dio con Dio e la propria volontà con quella di Dio. L’istanza espressa dal profeta è un invito all’umiltà del pensiero, in particolare del pensiero teologico, del pensiero che osa «pensare Dio».

     Gli operai della prima ora sono smascherati come invidiosi. E l’invidia è definita come avere «l’occhio cattivo» (Mt 20,15). L’etimologia è illuminante: invidere, significa «non vedere», «vedere contro», ed esprime lo sguardo torvo di chi si chiede: «perché lui sì e io no?»; «perché a lui come a me che meritavo di più?». L’invidia ci acceca. Se essa è l’insofferenza verso i propri limiti che ci impediscono di raggiungere quello status che vediamo realizzato in altri da noi, essa chiede di essere corretta imparando a desiderare il possibile.

     Nell’invidia non solo non si vede più il Dio misericordioso, ma non si vedono neppure più i fratelli: si entra in un rapporto giuridico padrone-servi, e si esce dalla solidarietà con gli altri operai, gli altri uomini.

     Male della vita comunitaria ed ecclesiale è la mormorazione (Mt 20,11). Mormorando, gli operai della prima ora affermano che il padrone non aveva il diritto di comportarsi come si è comportato. La mormorazione non è una parola personale chiara che esprime un dissenso leale, ma movimento sotterraneo che aggrega diverse persone che si fanno forza vicendevolmente con il loro malumore per poi esprimersi in accuse e lamentele. La sua logica è la complicità, non la responsabilità.

 

Preghiere e racconti

Rattristati dalla felicità degli altri

È indiscutibile: noi siamo spesso rattristati dalla felicità degli altri. È uno degli aspetti del mistero del peccato, della ferita presente in ciascuno di noi, Vi sono persone che si rattristano quando vedono che gli altri si amano. Vi sono degli sventurati che non perdonano agli altri la loro giovinezza, la loro bellezza, la loro intelligenza. Vi sono nella Chiesa dei cristiani imbronciati e laboriosi che non perdonano a certi convertiti di essere stati soggiogati dalla grazia di Dio, apparentemente senza alcun sforzo e merito da parte loro… L’inizio della santità sarebbe riconoscere che, nonostante la disuguaglianza delle nostre vite, non ci manca nulla se Dio è con noi; e allora potremmo gioire della bontà di Dio che sembra amare maggiormente i nuovi arrivati nel suo amore.

(Cl. Geffré, Uno spazio per Dio)

Lavorare nella vigna del Signore

Nella liturgia di oggi inizia la lettura della Lettera di San Paolo ai Filippesi, cioè ai membri della comunità che l’Apostolo stesso fondò nella città di Filippi, importante colonia romana in Macedonia, oggi Grecia settentrionale. Paolo giunse a Filippi durante il suo secondo viaggio missionario, provenendo dalla costa dell’Anatolia e attraversando il Mare Egeo. Fu quella la prima volta in cui il Vangelo giunse in Europa. Siamo intorno all’anno 50, dunque circa vent’anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù. Eppure, nella Lettera ai Filippesi, è contenuto un inno a Cristo che già presenta una sintesi completa del suo mistero: incarnazione, chenosi, cioè umiliazione fino alla morte di croce, e glorificazione. Questo stesso mistero è diventato un tutt’uno con la vita dell’apostolo Paolo, che scrive questa lettera mentre si trova in prigione, in attesa di una sentenza di vita o di morte. Egli afferma: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). E’ un nuovo senso della vita, dell’esistenza umana, che consiste nella comunione con Gesù Cristo vivente; non solo con un personaggio storico, un maestro di saggezza, un leader religioso, ma con un uomo in cui abita personalmente Dio. La sua morte e risurrezione è la Buona Notizia che, partendo da Gerusalemme, è destinata a raggiungere tutti gli uomini e i popoli, e a trasformare dall’interno tutte le culture, aprendole alla verità fondamentale: Dio è amore, si è fatto uomo in Gesù e con il suo sacrificio ha riscattato l’umanità dalla schiavitù del male donandole una speranza affidabile. San Paolo era un uomo che riassumeva in sé tre mondi: quello ebraico, quello greco e quello romano. Non a caso Dio affidò a lui la missione di portare il Vangelo dall’Asia Minore alla Grecia e poi a Roma, gettando un ponte che avrebbe proiettato il Cristianesimo fino agli estremi confini della terra.

Oggi viviamo in un’epoca di nuova evangelizzazione. Vasti orizzonti si aprono all’annuncio del Vangelo, mentre regioni di antica tradizione cristiana sono chiamate a riscoprire la bellezza della fede. Protagonisti di questa missione sono uomini e donne che, come san Paolo, possono dire: “Per me vivere è Cristo”. Persone, famiglie, comunità che accettano di lavorare nella vigna del Signore, secondo l’immagine del Vangelo di questa domenica (cfr Mt 20,1-16). Operai umili e generosi, che non chiedono altra ricompensa se non quella di partecipare alla missione di Gesù e della Chiesa. “Se il vivere nel corpo – scrive ancora san Paolo – significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere” (Fil 1,22): se l’unione piena con Cristo al di là della morte, o il servizio al suo corpo mistico in questa terra.

Cari amici, il Vangelo ha trasformato il mondo, e ancora lo sta trasformando, come un fiume che irriga un immenso campo.

(Benedetto XVI, Angelus, 18-09-2011).

Il tuo occhio è malvagio, perché io sono buono?

      La vigna sono i precetti e i comandi di Dio, il tempo della fatica, la vita presente; gli operai quelli che in modo diverso sono chiamati a compiere i precetti; quelli venuti al mattino, all’ora terza, alla sesta, alla nona e all’undicesima ora sono quelli che sono giunti [alla fede] in età diverse e si sono fatti onore. Ma ciò che è da indagare è se i primi, che si sono splendidamente distinti e sono stati graditi a Dio e che per tutto il giorno hanno brillato per le loro fatiche, si lasciano dominare da quel male estremo della malvagità che è dato dall’invidia e dalla gelosia.

Vedendo infatti che quelli avevano usufruito della stessa ricompensa, dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e del caldo» (Mt 20,12). E sebbene non ricevessero alcun danno e il loro compenso non fosse diminuito, si dispiacevano e si irritavano per i beni altrui, cosa che è propria dell’invidia e della gelosia. E il fatto più importante è che il padrone, che aveva preso le difese di quelli e si era giustificato dinanzi a chi aveva parlato in questi termini, lo condanna per la sua malvagità e la sua estrema invidia, dicendo: «Non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene! Io voglio dare anche a quest’ultimo come a te. Forse il tuo occhio è malvagio perché io sono buono?» (Mt 20,13-15). Che cosa si ricava da queste parole? Quella stessa cosa che possiamo vedere anche in altre parabole. Infatti il figlio stimato per la sua buona condotta viene presentato con gli stessi sentimenti quando vede che il fratello dissoluto riceve molti più onori di lui (cfr. Lc 15,28). Come quelli godettero di un bene maggiore ricevendo la ricompensa per primi, così anche quello veniva onorato di più per l’abbondanza dei doni e lo testimonia il figlio dalla buona condotta.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, om. 64,3, PG 58,612-613).

Il ricco e il povero

C’era una volta due fratelli; uno molto ricco, l’altro molto povero. Un giorno il povero faceva la guardia ai covoni di grano ammucchiati nel campo del fratello ricco e mentre se ne stava lì seduto sul covone scorse una donna in bianco che raccoglieva le spighe rimaste nei campi mietuti e le aggiungeva ai covoni. Quando la donna giunse fino a lui, la prese per mano, se la tirò vicino e le chiese che cosa facesse lì. “Sono la Felicità di tuo fratello e raccolgo le spighe rimaste, perché il suo grano sia ancora più abbondante.” “Dimmi, allora, e la mia felicità, dov’è?” replicò il poveretto. “verso Oriente” rispose la donna, e scomparve.

Fu così che il povero si mise in testa di andare per il mondo in cerca della propria Felicità. E quando un giorno di buonora stava per mettersi in viaggio, dal suo camino saltò fuori la Miseria e piangeva e pregava che la prendesse con sé. “Mia cara, – disse il povero  sei troppo debole per affrontare un viaggio così lungo, non ce la faresti mai; ma qui c’è una boccetta vuota, fatti piccina, infilatici dentro e ti porterò con me”.  La Miseria s’infilò nella boccetta e lui senza perdere tempo la tappò con un turacciolo e l’avvolse bene in modo che non si rompesse.

Quando si trovò per via, appena arrivò a un pantano tirò fuori la boccetta e la gettò via, liberandosi così dalla Miseria.

Dopo qualche tempo giunse a una grande città e un certo signore lo prese al suo servizio con l’incarico di scavargli uno scantinato. “Non riceverai del denaro, – gli disse  ma tutto ciò che trovi scavando è tuo”.

Dopo un po’ che scavava trovò un lingotto d’oro, secondo gli accordi gli sarebbe spettato, ma lui ne diede una metà al signore e riprese il lavoro. Arrivò finalmente a una porta di ferro, l’aperse e vi trovò un sotterraneo pieno di ogni ricchezza. Ed ecco che da una cassa lì sotto s’udì una voce: “Mio signore, aprimi! Aprimi!”. Egli spostò il coperchio e da dentro saltò fuori una bella fanciulla tutta in bianco che s’inchinò davanti a lui e gli disse: “Sono la tua Felicità, quella che hai cercato così a lungo; d’ora innanzi sarò vicina a te e alla tua famiglia”. Dopo di che scomparve. Egli rimase poi a guardarsi intorno e a rimirare quella ricchezza  con il suo signore di una volta e da quel momento fu immensamente ricco e la sua fama cresceva di giorno in giorno. Eppure non dimenticò mai l’indigenza di un tempo e si prodigò in tutti i modi per aiutare i poveri del luogo.

Un giorno, mentre passeggiava per la città, incontrò il fratello che si trovava da quelle parti per affari. L’invitò a casa e gli raccontò con tutti i particolari le sue avventure e che aveva visto la Felicità spigolare nel campo di grano e come s’era liberato della propria Miseria e altro ancora. L’ospitò per qualche giorno e quando il fratello stava per partire gli diede molto denaro per il viaggio, fece molti doni alla moglie e ai figli e si separò da lui fraternamente.

Ma suo fratello era un uomo sleale e invidiava la Felicità dell’altro. Da quando aveva lasciato la sua casa non faceva che pensare come far tornare il fratello nella Miseria. Non appena giunse alla palude dove il fratello aveva ficcato la boccetta, si mise a cercarla e non si dette pace finché non la trovò. L’aperse subito. La Miseria  saltò fuori immediatamente, cominciò a crescere davanti ai suoi occhi, saltargli intorno, l’abbracciò, lo baciò e lo ringraziò di averla liberata da quella prigionia.  “Sarò sempre grata a te e alla tua famiglia e non vi abbandonerò fino alla morte”.

Inutilmente il fratello invidioso cercò di dissuaderla, invano la mandava dal suo padrone di una volta; non riuscì in nessun modo a togliersi la Miseria di dosso, né a venderla né a regalarla né a sotterrarla né ad annegarla, gli stette sempre alle calcagna. I briganti lo derubarono della merce che stava portando a casa; riuscì a ritornare chiedendo l’elemosina; al posto del suo palazzo trovò un mucchio di cenere e tutto il suo raccolto era stato portato via da una inondazione. Fu così che al fratello invidioso non rimase null’altro che… la Miseria.

(da: Fiabe di Praga magica,  Arcana ed., 1993).

Quando sei chiamato, va’

Tu, quando sei chiamato, va’.

Sei chiamato a mezzogiorno? Va’ a quell’ora.

È vero che il padrone ti ha promesso un denaro anche se vai nella vigna all’ultima ora, ma nessuno ti ha promesso se vivrai fino alla prima ora del pomeriggio. Non dico fino all’ultima ora del giorno, ma fino alla prima ora dopo mezzogiorno.

Perché dunque ritardi a seguire chi ti chiama? Sei sicuro del compenso, è vero, ma non sai come andrà la giornata.

Vedi di non perdere, a causa del tuo differire, ciò che egli ti darà in base alla sua promessa.

(Agostino D’Ippona, Discorso 87, 6.8).

Non desiderare le cose altrui

“Se stai cercando di darti delle arie con chi sta in alto, scordatelo. Ti guarderanno dall’alto in basso comunque. E se stai cercando di darti delle arie con la gente che sta in basso, scordatelo lo stesso. Ti invidieranno e basta. Gli status-symbol non ti porteranno da nessuna parte. Solo un cuore sincero ti permetterà di stare alla pari con tutti.” […] “Fa’ il genere di cose che ti vengono dal cuore. Quando le farai, non ne resterai insoddisfatto, non sarai invidioso; non desidererai le cose altrui. Al contrario, sarai sommerso da quel che ti verrà in cambio.”

(Mitch ALBOM, I miei martedì col professore, Milano, Rizzoli, 2006, 132-133).

Non andare via, Signore

Quando trovi chiusa la porta del mio cuore,

abbattila ed entra: non andare via, Signore.

Quando le corde della mia chitarra dimenticano il tuo nome,

ti prego, aspetta: non andare via, Signore.

Quando il tuo richiamo non rompe il mio torpore,

folgorami con il tuo dolore: non andare via, Signore.

Quando faccio sedere altri sul tuo trono,

o re della mia vita: non andare via, Signore.

(Rabindranath Tagore)

Il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo

«Chi ama il Signore si rallegri in questa festa bella e luminosa!

Il servo fedele entri lieto nella gioia del suo Signore!

Chi ha atteso questo giorno nella penitenza riceva ora la sua ricompensa.

Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il salario che gli è dovuto.

Chi è arrivato dopo la terza ora, sia lieto nel rendere grazie.

Chi è giunto dopo la sesta ora, non dubiti, non avrà alcun danno.

Chi ha tardato fino alla nona ora, venga senza esitare.

Chi è arrivato all’undicesima ora, non creda di essere venuto troppo tardi.

Perché il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo.

Concede il riposo all’operaio dell’undicesima ora come a quello della prima ora.

Ha misericordia dell’ultimo e premia il primo.

Al primo dà, all’ultimo regala.

Apprezza le opere di ciascuno, loda ogni intenzione.

Entrate tutti, dunque, nella gioia del nostro Signore;

primi e secondi, ricevete tutti la ricompensa;

ricchi e poveri, danzate insieme;

sia che abbiate digiunato, sia che abbiate fatto festa,

siate tutti nella gioia, onorate questo giorno!

Il banchetto è pronto, godetene tutti!

Il cibo è abbondante, basterà per tutti, nessuno se ne andrà affamato.

Gustate tutti il banchetto della fede.

Gustate tutti la larghezza della bontà.

Nessuno pianga la sua miseria:

il regno di Dio è aperto a tutti. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati.

Dominato dalla morte, egli l’ha spenta.

Il Cristo è risorto e regna la vita!

A lui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli. Amen».

(Annuncio pasquale della Chiesa orientale)

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo ordinario – Parte prima, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 5, pp. 36.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 200

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXV DOM TEMP ORDINARIO (A)