XVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 2Re 4,42-44

In quei giorni, da Baal Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.

 

 

Il brano fa parte del ciclo di Eliseo (2Re 2,1-9,10; 13,14-21), del quale si narrano l’intervento negli affari politici del tempo, il ruolo da lui svolto nella rivolta di Iehu e i prodigi, fra cui questo della moltiplicazione delle primizie offerte all’uomo di Dio.

    Il possidente terriero proveniente da Baal Salisa (l’attuale Ketr-Tilt distante 26 km a ovest di Galgala), porta, secondo le prescrizioni di Levitico 23,17-18 («Porterete dai luoghi dove abiterete due pani per offerta con rito di agitazione, i quali saranno di due decimi di efa di fior di farina e li farete cuocere lievitati; sono le primizie in onore del Signore»), «il pane di primizia», fatto cioè con il raccolto dell’anno e destinato a Dio. Con la sua offerta esso vuole onorare l’uomo di Dio, che dal contesto risulta essere chiaramente Eliseo.

    La pietà del profeta verso la folla che soffre la fame a causa della carestia (v. 38) spinge Eliseo a dividere generosamente l’offerta con i cento discepoli dei profeti che lo seguivano. La quantità è sufficiente solo per venti dei presenti. L’obiezione del servo è motivata: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?» (v. 43a). Ma più forte della ragione umana è la fede del profeta nell’intervento di Dio: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”» (v. 43b).                                      

    Dio non delude chi confida nel suo nome e dona ai suoi eletti più di quanto sia necessario: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare» (v. 44).

 Seconda lettura: Efesini 4,1-6

Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.

 

 

Questo brano della lettera agli Efesini presenta un discorso parenetico che ha per contenuto l’esortazione all’unità per mezzo dell’amore. Quello di Paolo è un premuroso incoraggiamento. È Paolo stesso, infatti, che invita in prima persona, presentandosi non solo come «l’Apostolo di Cristo», ma anche come «prigioniero a motivo del Signore».

    Per effetto della sua esperienza di sofferenza ha acquistato una sapienza delle cose divine e quindi può esortare i membri della comunità a una vita che corrisponda alla beneficenza divina. La condotta corrispondente si attua soltanto se i membri della Chiesa, rinunciando alla superbia, si lasciano guidare dall’umiltà collaborando col prossimo.

    Accanto all’umiltà si trova la mansuetudine o mitezza che consiste in un comportamento pacifico e paziente, dolce e amichevole che trae origine dal timore di Dio e dall’amore.

    All’umile mansuetudine si accompagna la magnanimità, dono dello Spirito, che è sopportazione paziente e longanime del prossimo e che sgorga dalla carità. Paolo completa e precisa il suo pensiero esortando i fedeli a sopportarsi nell’amore che avviene quando si perdonano reciprocamente, mantenendo e custodendo la pace.

    Ciò che i cristiani devono custodire, però, non è stato prodotto da essi, né deve essere da essi acquisito, ma è stato loro concesso e devono semplicemente custodirlo. Ciò che devono custodire è l’unità dello spirito: il pneuma (lo spirito), infatti, è la forza che produce e conserva l’unità. Chi è anche solo pigro nel custodire l’unità tiene una condotta indegna della sua vocazione, dimostrando di mancare di umiltà e mansuetudine, di pazienza e magnanimità, di libertà d’amore.

    L’unità si custodisce nel vincolo della pace, nella pace alla quale i fedeli sono stati ammessi quando hanno accolto la chiamata di Dio. L’esortazione a custodire l’unità è fondata e giustificata dal fatto che uno è il corpo, uno lo spirito ed unica anche la speranza. Non custodire l’unità dell’unico corpo significherebbe negare l’unità dell’unico spirito, ledere la nuova natura in cui i credenti vivono dal momento del battesimo. Significherebbe negare l’unità dell’unico Signore, della sola fede, del solo battesimo.

    Dall’unica Chiesa, attraverso l’unico Signore, lo sguardo dell’Apostolo giunge all’unico Dio, che è il supremo e più intimo fondamento dell’unità. In definitiva l’unità si fonda sul fatto che nei cristiani abita l’unico Dio.

Vangelo: Giovanni 6,1-15

In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

 

 

Esegesi

     Con una indicazione generica di tempo (v. 1: «Dopo questi fatti»), l’evangelista racconta un trasferimento di Gesù all’altra riva del lago di Galilea, cioè a quella orientale, e lo colloca lontano dalla città santa. Da dove venga la folla, che compare improvvisamente (v. 2: «… e lo seguiva una grande folla »), qui non è detto. Di un seguito di tanta gente non si fa mai parola nel Vangelo di Giovanni. Le folle inizialmente seguono Gesù per i segni che egli compie sugli infermi, ma ora partecipano al prodigio straordinario della moltiplicazione dei pani. Tuttavia, il giorno seguente, rifiuteranno la rivelazione del Figlio di Dio e non lo riconosceranno (6,26ss).

   Il monte (v. 3: «Gesù salì sul monte»), su cui Gesù si reca con i suoi discepoli, non è una montagna qualsiasi, ma il monte della Galilea. Monte teologico e punto fondamentale di interesse per i Sinottici che vi collocano i fatti più importanti della vita di Gesù. L’interesse di Giovanni è anch’esso teologico e non geografico e segue la tradizione biblica che presenta Dio che si rivela sul monte (il Sinai).

    Anche l’annotazione sull’imminenza della Pasqua ha un significato teologico e corrisponde pienamente allo stile dell’evangelista che inquadra i vari episodi della vita di Gesù nelle principali feste giudaiche (2,13; 7,2; 11,15). C’è però molto di più: Gv 6,4 sembra, infatti, porre la moltiplicazione dei pani sotto il segno della pasqua cristiana, l’Eucaristia.

   L’esplicitazione che la pasqua è la festa dei giudei sembra insinuare che al tempo dell’evangelista si celebrava un’altra pasqua (quella cristiana), riattualizzata nel sacramento dell’Eucaristia.

    Giovanni non si sofferma a sottolineare la compassione di Gesù per la folla. A differenza dei Sinottici, è Gesù che rivolge a Filippo la domanda per metterlo alla prova (v. 5: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?») e non i discepoli.

    Un acquisto rilevante di pane, quanto si sarebbe potuto comprare con un denaro (il salario giornaliero di un operaio), sarebbe stato ugualmente insufficiente. Lo sforzo umano, infatti, anche se generoso, è sempre insufficiente a saziare, mentre l’intervento del Verbo incarnato appaga non solo i bisogni dei presenti, ma di tutto il mondo, come insinua la raccolta dei dodici pezzi avanzati.

    L’informazione data da Andrea sul ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci è propria del quarto vangelo: solo Giovanni scrive che i pani erano d’orzo, per indicare che si tratta di cibo dei poveri e per rievocare l’analogo prodigio operato dal profeta Eliseo (2Re 4,42-44).

    Giovanni (ma anche i Sinottici) sottolinea che sul posto c’era molta erba tipico della primavera in Palestina. Questa osservazione concorda con quella di 6,4 sulla vicinanza della Pasqua. Il numero dei commensali, come la menzione dei gesti del Maestro, fanno parte della tradizione comune e sono riferiti allo stesso modo dai Sinottici.

    Le particolarità più rilevanti del quarto vangelo si trovano nell’uso del verbo eucharistéin (rendere grazie) che sostituisce eulogéin (benedire) dei Sinottici, nella presenza del participio anakéimenois (seduti) e nella distribuzione dei pani fatta da Gesù in persona. Nella moltiplicazione dei pesci adopera òpsos invece di ichthys.

    Anche l’ordine di radunare i pezzi avanzati è proprio di Giovanni. I Sinottici, infatti, non riportano questo ordine del Maestro.

    L’annotazione finale, sui dodici cesti di pezzi avanzati, dopo che le cinquemila persone si erano saziate, sottolinea per contrasto l’abbondanza e la ricchezza del dono di Gesù, come avviene alle nozze di Cana per il vino (Gv 2,1-11).

     Gv 6,14 descrive la reazione della folla dinanzi al prodigio straordinario e ricorda l’entusiasmo del popolo ebreo in attesa del Messia. Il Maestro è riconosciuto come il profeta atteso per la fine dei tempi dalla folla sfamata, ma il passo finale ci fa capire che l’entusiasmo messianico della folla è di carattere politico (6,15). La folla vuole rapire Gesù per farlo re, ma siccome la sua regalità è fraintesa dalla folla egli fugge sul monte (6,15), per sottrarsi al loro sguardo.

 L’immagine della domenica

 

Carezze 

Quando mi fermo

stanco sulla lunga strada

e la sete mi opprime sotto il solleone;

quando mi punge la nostalgia di sera

e lo spettro della notte copre la mia vita,

bramo la tua voce, o Dio,

sospiro la tua mano sulle spalle.

Fatico a camminare

per il peso del cuore

carico dei doni che non ti ho donati.

Mi rassicuri la tua mano nella notte,

la voglio riempire di carezze,

tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore

segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(R. Tagore)

Meditazione 

     «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (v. 9). Effettivamente, davanti ad una folla di cinquemila uomini – senza contare le donne e i bambini – chi non si porrebbe una simile domanda? Che chiede, peraltro, risoluzione pressoché immediata! Ma, a ben pensarci, a ogni livello, da quello economico a quello educativo, da quello religioso a quello relazionale, chi si sente certo di poter offrire a ognuno ciò che gli è necessario per una crescita sana e completa? Chi non si sente inadeguato dinanzi al compito di diventare adulto, a qualunque epoca, situazione, cultura appartenga? Questa cruda constatazione non è conferma del detto ‘mal comune, mezzo gaudio’, ma forse ci aiuta a relativizzare le affermazioni spavalde di chi, magari politico, assicura la risoluzione di ogni problema in scioltezza…

     Ma torniamo al nostro brano, che ci pone drammaticamente dinanzi alla dimensione più essenziale della nostra stessa sussistenza: il cibo. Il pane, evidente immagine simbolica dell’elemento più elementare e necessario per la nostra vita, non c’è. O almeno, non c’è per tutti. La nostra superficialità e la nostra ricchezza occidentale ci permettono di riuscire a dimenticare che ogni giorno nel mondo migliaia di persone muoiono di fame e di sete. Le ragioni sono molteplici e il vangelo non è un testo di strategia socio-politico-economica (anche se questa dimensione non è esclusa). Eppure ci può aiutare ad affrontare in modo più corretto la totalità della nostra – e altrui – vita.

     Si può, ad esempio, osservare che se cinque pani e due pesci non sono praticamente nulla per un’immensa folla come quella che Gesù aveva raccolto attorno a sé, è altrettanto vero che sono tanti per una sola persona. Perché i beni essenziali sono nelle mani di pochi, di pochissimi? Una riflessione sulla nostra sobrietà e sulla nostra volontà di condivisione di quei beni che per essenza non possono diventare strumento di ricatto e di schiavitù verso altre persone meno fortunate di noi – perché solo di fortuna si tratta: che merito c’è nell’essere nato in una zona del mondo piuttosto che in un’altra? – si impone.

     Ma poi, ci poniamo questa domanda – «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (v 5) – oppure resta un optional per ‘anime belle’? Quale prezzo siamo disposti a pagare perché vi sia oggettivamente una migliore giustizia per tutti? Non a caso la domanda viene posta da Gesù. Il racconto di questo grande segno, riportato – unico caso nei vangeli, segno che effettivamente il fatto è storico e ha stupito non poco – anche da Matteo, Marco e Luca, ci svela impietosamente quale fu il suggerimento dato dai discepoli al Signore: «Congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare» (Mt 14,15). Detto altrimenti, ‘si arrangino’!

     Cosa fa allora Gesù? Innanzi tutto non fa un discorso: di ottimi e unanimemente condivisi principi morali e spirituali. Non lo fa nemmeno per prendere tempo. O meglio, il discorso lo tara, bellissimo e profondo, il più lungo mai riportato nei vangeli, capace di far interrogare tutti i presenti sul senso di quanto appena avvenuto (cfr. vv. 22-59). Ma, appunto, lo farà solo dopo aver agito, solo dopo aver preso a cuore questa impellente urgenza alimentare. E per prima cosa fa sedere i presenti (cfr v. 10), li mette comodi: c’è un desiderio e uno stile di qualità dietro questo particolare. Non si vuole ‘fare la carità’ – intendendo quest’espressione nel peggior modo possibile, ovvero mantenendo ben evidenti le distanze tra chi dona e chi riceve esasperando l’umiliazione degli indigenti – ma raggiungere una relazionalità accogliente, attenta, umana. Successivamente si parte da quello che si possiede, da quanto – seppur pochissimo che sia – viene messo a disposizione di Gesù. La rinuncia a trattenere solo per sé, con il rischio che tolga al possessore la propria sicurezza, è una forza inestimabile di condivisione. E Gesù ringrazia, il Padre e – certamente – anche l’offerente. E nelle mani di Gesù avviene la possibilità che ognuno trovi nutrimento sufficiente, anzi abbondante (cfr. vv. 11-13). Era già successo nei tempi antichi, quando un altro ragazzo, Davide, offrendo anch’egli la disponibilità a giocare tutta la sua vita e affidandosi alla forza di Dio, aveva vinto Golia con una fionda e qualche ciottolo di fiume (cfr. 1Sam 17).

     Solo Gesù è in grado di colmare la nostra fame e sete di vita, di una vita piena. Lui desidera nutrire la nostra esistenza, essere il cibo che rende bella e giusta la nostra vita. Ma lo vuole per tutti, proprio tutti.

Preghiere e racconti

Sofferenza

Se qualche volta la nostra povera gente è morta di fame, ciò non è avvenuto perché Dio non si è preso cura di loro, ma perché voi ed io non abbiamo dato, perché non siamo stati uno strumento di amore nelle sue mani per far giungere loro il pane e il vestito necessario, perché non abbiamo riconosciuto Cristo quand’egli è venuto, ancora una volta, miseramente travestito nei panni dell’uomo affamato, dell’uomo solo, del bambino senza casa e alla ricerca di un tetto.

Dio ha identificato se stesso con l’affamato, l’infermo, l’ignudo, il senza tetto; fame non solo di pane, ma anche di amore, di cure, di considerazione da parte di qualcuno; nudità non solo di abiti, ma anche di quella compassione che veramente pochi sentono per l’individuo anonimo; mancanza di tetto non solo per il fatto di non possedere un riparo di pietra, bensì per non aver nessuno da poter chiamare proprio caro.

(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1998, 28-29).

Questi è davvero il profeta

Furono riempite dodici ceste. Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale. Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi. Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo. Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede. Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi. Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: «Beati quelli che non vedono e credono» (Gv 20,29). Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire. Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo. Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? «Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta» (Gv 6,14). […] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: «Susciterò per loro un profeta simile a te» (Dt 18,18). Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà. E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli. Lo stesso Signore dice di se stesso: «Un profeta non riceve onore nella sua patria» ( Gv 4,44). Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta. Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli. Egli stesso è detto angelo del grande consiglio. E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr. Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 24,6-7, NBA XXIV, pp. 564-566).

Il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro

«Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».

È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.

Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).

Offerta al mondo

Noi cittadini e cittadine del mondo,

gente del cammino, gente che cerca,

eredi del legato di antiche tradizioni,

vogliamo proclamare:

– che la vita umana è, per se stessa, una meraviglia;

 che la natura è la nostra madre e il nostro focolare,

 e che dev’essere amata e preservata;

– che la pace dev’essere costruita con sforzo,

 con la giustizia, col perdono e la generosità;

– che la diversità di culture

 è una grande ricchezza e non un ostacolo;

– che il mondo ci si presenta come un tesoro

 se lo viviamo in profondità,

 e le religioni vogliono essere dei cammini

 verso tale profondità;

– che, nella loro ricerca, le religioni trovano forza e senso

 nell’apertura al Mistero inafferrabile;

– che fare comunità ci aiuta in questa esperienza;

– che le religioni possono essere un punto di accesso

 alla pace interiore, all’armonia con se stesso e col mondo,

 ciò che si traduce in uno sguardo ammirato, gioioso e grato;

– che noi che apparteniamo a diverse tradizioni religiose

 vogliamo dialogare tra di noi;

– che vogliamo condividere con tutti

 la lotta per fare un mondo migliore,

 per risolvere i gravi problemi dell’umanità:

 la fame e la povertà,

 la guerra e la violenza,

 la distruzione dell’ambiente naturale,

 la mancanza di accesso ad un’esperienza profonda di vita,

 la mancanza di rispetto per la libertà e la differenza;

– e che vogliamo condividere con tutti

 i frutti della nostra ricerca

 delle aspirazioni più alte dell’essere umano,

 nel rispetto più radicale di ciò che ciascuno è

 e col proposito di poter vivere tutti insieme

 una vita degna di essere vissuta.

(Testo elaborato dalle diverse tradizioni religiose radunate per il IV Parlamento delle Religioni del Mondo, a Barcellona nel 2004).

Rese grazie per insegnarci a rendere grazie

Il fatto che Gesù sollevasse gli occhi e vedesse venire la moltitudine è segno della compassione divina, perché egli è solito andare incontro con il dono della misericordia celeste a tutti quelli che desiderano venire a lui. E perché non si perdano nel cercarlo, è solito aprire la luce del suo spirito a coloro che corrono a lui. Che gli occhi di Gesù indichino spiritualmente i doni dello Spirito, lo testimonia Giovanni nell’Apocalisse; costui, parlando di Gesù simbolicamente, dice: «Vidi un agnello che stava in piedi, come sgozzato, con sette corna e sette occhi, che sono gli spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6). […] Il Signore diede i pani e i pesci ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Il mistero dell’umana salvezza iniziò a narrarlo il Signore e dai suoi ascoltatori è stato confermato fino a noi. Spezzò i cinque pani e i due pesci e li distribuì ai discepoli quando svelò loro il senso per comprendere ciò che su di lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (cfr. Lc 24,44-45). I discepoli li offrirono alla folla quando «predicarono dovunque con l’aiuto del Signore, che confermava la parola coi miracoli che l’accompagnavano» (Mc 16,20). […] E non bisogna trascurare che quando fu sul punto di rifocillare la folla, Gesù rese grazie. Rese grazie per insegnare anche a noi a rendere sempre grazie per i doni celesti che riceviamo e per mostrarci quanto egli stesso gioisce dei nostri progressi, della nostra rigenerazione spirituale. […] Saziata la moltitudine, Gesù comandò ai discepoli di raccogliere gli avanzi perché non andassero perduti. «Li raccolsero e riempirono dodici canestri di avanzi» (cfr. Mc 6,43). Poiché con il numero dodici si è soliti indicare la somma della perfezione, con i dodici canestri pieni di avanzi si intende tutto il coro dei dottori spirituali, ai quali viene ordinato di radunare, meditare, consegnare allo scritto e conservare per uso proprio e del popolo i passi oscuri delle Scritture che il popolo da sé non riesce a comprendere. Così hanno fatto gli apostoli e gli evangelisti inserendo nelle loro opere non poche citazioni della Legge e dei Profeti da loro interpretate in modo spirituale. Così hanno fatto alcuni loro discepoli, maestri della chiesa su tutta la terra studiando accuratamente interi libri dell’Antico Testamento, e anche se sono strati disprezzati dagli uomini, sono ricchi del pane della grazia celeste.

(BEDA IL VENERABILE, Omelie sul vangelo 2,2, CCL 122, pp. 195-198).

 

Preghiera

Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.

Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà. Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre. Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di essere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza. Tu mi ripeti, Gesù, che proprio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.

Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVII DOM TEMP ORD ANNO B

XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Geremia 23,1-6

Dice il Signore: «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore. Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo, e lo chiameranno con questo nome: Signore-nostra-giustizia». 

 

I nostri versetti stanno tra due requisitorie pronunziate da Dio contro i governanti degeneri, che hanno causato la punizione terribile dell’esilio, e contro i falsi Profeti (cc. 21-24). In essi possiamo distinguere tre diversi oracoli: il primo (vv. 1-2) conclude la requisitoria contro i re e le classi dirigenti, che hanno dissipato il patrimonio di Dio, cioè il suo  popolo; secondo (vv. 3-4) annunzia la restaurazione del popolo di Dio mediante il raduno del resto che sopravviverà alla dispersione tra le genti; il terzo (vv. 5-6) annunzia, col formulario tipico delle profezie messianiche la nascite di un germoglio giusto, cioè di un re che realizzerà un vasto piano di salvezza per Giuda e per Israele. La distinzione dei tre oracoli viene scandita dalla ripetizione dell’espressione «oracolo del Signore»: essa ricorre due volte nel primo oracolo (dopo la frase sintetica iniziale e come sua conclusione), conclude il secondo oracolo e apre il terzo.

     Il v. 1 contiene già, in forma sintetica il primo oracolo, espresso in terza persona, che è una minaccia contro i pastori, cioè contro i capi responsabili della nazione. 

     Il v. 2 contiene lo stesso oracolo in forma diretta, cioè riportando le parole con cui Dio si rivolge ai pastori, che hanno tenuto conto (la versione della CEI traduce: non ve ne siete preoccupati) del popolo che è suo patrimonio, comportandosi come dei dissipatori di ricchezza. L’oracolo si conclude con una minaccia espressa con un gioco di parole: Dio si impegna a tener conto (la versione della CEI dice: io mi occuperò di voi) del loro comportamento malvagio.

     Nel v. 3 ha inizio il secondo oracolo, che è un oracolo di salvezza. Dio stesso si impegna a far ritornare  dalla dispersione dell’esilio un resto, cioè una porzione del popolo che egli si era scelto, dimostrando così la sua fedeltà alle promesse.

     Il v. 4 conclude il secondo oracolo. Dopo che Dio stesso avrà ricostituito il suo popolo, susciterà altri pastori, i quali finalmente svolgeranno bene il compito che a loro spetterà: pascolare il gregge.   

     I vv. 5-6 contengono il terzo oracolo, anch’esso oracolo di salvezza. Esso viene introdotto con solennità, al modo dei grandi messaggi profetici. Tenendo sullo sfondo la profezia di Natan di 2Sam 7, in espressa antitesi con i re di Giuda distintisi per il loro comportamento contrario alla giustizia (22,3.13.15), il germoglio di David, cioè il re che Dio farà germogliare sul ceppo davidico, si distinguerà per la sua giustizia, con lui Giuda e Israele, i due rami del popolo di Dio, saranno stabiliti nella salvezza e nella sicurezza. Essendo la giustizia il fulcro del suo governo e rivelandosi egli come dono di Dio, il suo nome sarà Signore-nostra giustizia.

Seconda lettura: Efeseni 2,13-18

Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.

 

 

Tema centrale della lettera agli Efesini è il misterioso piano salvifico che Dio ha concepito sin dall’eternità ed ha realizzato mediante il suo Figlio Gesù Cristo, che si è sacrificato sulla croce.

     Il nostro brano descrive un momento importantissimo dell’attuazione del piano della salvezza, quello della riunificazione del popolo dei Giudei con i popoli pagani, finora vissuti in profondo contrasto tra di loro.

     Nel v. 13, lo scrittore sacro si ispira a Is 57,19 (che annunzia la futura pacificazione tra i rimpatriati e gli Ebrei rimasti nella diaspora: «…Pace ai lontani e ai vicini…»), per descrivere quanto è oggi accaduto con la riunione di Ebrei e pagani in una sola comunità di credenti, tutti salvati dal sangue redentore di Gesù Cristo.

     Nel vv. 14-16, con slancio lirico, viene celebrata la pace, quale frutto multiforme dell’opera redentrice di Gesù Cristo: è stata abbattuta l’inimicizia che opponeva radicalmente il popolo eletto ai popoli pagani (v. 14); hanno perduto il loro valore le prescrizioni e i precetti della legge mosaica, che facevano da muro invalicabile tra il primo e i secondi (v. 15); l’uno e gli altri si sono trovati uniti nell’abbraccio salvifico di Dio, che li ha accolti entrambi come figli.

     Il v. 17 utilizza ancora più integralmente del v. 13 il testo di Is 57,19, che si rivela così come la fonte ispiratrice di tutto il nostro brano, che però spazia in un orizzonte assai più ampio.

     Nel v. 18, alla menzione del Padre (al quale possiamo presentarci come figli) e a quella del Figlio Gesù Cristo (che ha fatto da mediatore: «per mezzo di lui») si aggiunge quella dello Spirito: in tal modo il nostro brano celebrativo si conclude quasi con una dossologia trinitaria.

Vangelo: Marco 6,30-34

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

 

 

Esegesi 

     Il nostro brano evangelico si può qualificare come un brano di transizione; esso infatti si ricollega direttamente al racconto dell’invio in missione dei Dodici dei vv. 7-13 dello stesso capitolo 6 e non ha alcun legame con il racconto del martirio di Giovanni il Battista, posto prima del nostro brano. Fa invece da introduzione al successivo miracolo della moltiplicazione dei pani ed è ricco di spunti per la riflessione.

     v. 30: «Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato». Leggendo questo brano in stretta continuità con 6,7-13, il vocabolo apostoli conserva ancora fortemente il senso etimologico di inviato, messaggero. Il riferimento a Gesù di quanto avevano fatto e insegnato sottolinea il concetto che l’attività iniziata dai Dodici e quella dei loro continuatori, nella Chiesa, non potrà mai interrompere il contatto stretto con Gesù e la sua parola.

     v. 31: «Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare». Lo stretto rapporto che gli annunziatori del vangelo debbono conservare con Gesù, qui è ulteriormente sottolineato: l’invito ad andare in un luogo solitario richiama ciò che (secondo Mc 1,35) fece lo stesso per il termine della sua giornata missionaria di Cafarnao; anche l’accenno al fatto che non avevano neanche il tempo di mangiare assimila gli apostoli allo stesso Gesù, come è detto in 3,20.

     vv. 32-33: «Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero». Questi due versetti hanno soltanto un valore narrativo generico. Non è data alcuna indicazione circa il luogo dell’approdo. Non ci aiuta neppure a capire come abbia potuto fare la folla a precedere, a piedi, il cammino della barca. Forse si vuole, ancora una volta, sottolineare l’assoluto bisogno che l’umanità intera ha di Gesù.

     v. 34: «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose». In questo versetto si affollano tre diversi suggerimenti: a) prima di tutto c’è il sentimento della compassione, che nell’Antico Testamento caratterizza l’atteggiamento di Dio nei confronti del suo popolo; b) c’è poi il richiamo della metafora del gregge senza pastore, che serve a qualificare lo stesso Gesù come un pastore e la folla dei suoi seguaci come il nuovo popolo di Dio; c) c’è infine l’accenno all’insegnamento impartito da Gesù alla folla, che per l’evangelista Marco viene al primo posto, anche prima del pane che, al termine della giornata, sarà moltiplicato.

     Possiamo anche notare che, in questo brano, sembra esserci più di un richiamo implicito al contenuto del Salmo 23 (22): «Il Signore è il mio pastore…».

L’immagine della domenica

 

LAUDES CREATURARUM

Altissimu, onnipotente bon Signore,

Tue so’ le laude,

la gloria e l’honore

et onne benedictione.

Ad Te solo, Altissimo,

se konfano,

et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate

e serviateli cum grande humilitate.

(Francesco d’Assisi 1226?)

Meditazione 

     La liturgia di questa domenica, nella lectio continua di Marco, ci propone pochi versetti del cap. 6, ma di una intensità sorprendente, quasi una sorta di rivelazione che cattura il nostro sguardo interiore per fissarlo sul volto stesso di Gesù e da esso ricevere quella luce che ci permette di comprendere il significato profondo del nostro essere suoi discepoli. E i tratti del volto di Gesù che emergono in questa pericope sono essenzialmente quelli che ci trasmettono la compassione di Dio per il suo popolo, quella misericordia senza limiti che sgorga dal cuore stesso di Dio e che lo accende di sdegno di fronte ad ogni abuso nei confronti del popolo che si è scelto. Attraverso la forza profetica della parola di Geremia, Dio aveva condannato l’arroganza delle sedicenti guide del popolo le quali, invece di «pascere il suo popolo», lo avevano disperso: «Radunerò io stesso il resto delle mie pecore… e le farò ritornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno» (Ger 23,3). Il pastore che agisce secondo il cuore di Dio, quel «germoglio giusto» che «eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra», suscitato dalla casa di Davide e preannunciato nello stesso oracolo del profeta (cfr. Ger 23,5-6), trova compimento in Gesù, il pastore bello (cfr. Gv 10). E proprio i versetti di Marco, riportati nella liturgia, ce lo rivelano come il vero pastore che dona al popolo smarrito e affamato la parola e il pane, ma che, soprattutto al vedere quella grande folla che lo stava inseguendo «ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (v. 34).

     La pericope di Marco colloca significativamente la persona di Gesù al centro della scena, o meglio, al centro di due movimenti che vedono Gesù in relazione con i discepoli e con la folla.

     Il primo movimento vede i discepoli ritornare da Gesù, dopo essere stati inviati in missione (cfr. Mc 6,7-13). La relazione tra Gesù e i discepoli in Marco è fortemente accentuata: Gesù stesso, ci dice Marco, «chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui» e «ne costituì Dodici… perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni» (3,13-15). Ora, dopo aver faticato nell’annuncio, i discepoli «si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato» (v. 6,30). Il ‘riunirsi attorno a Gesù’ (in greco è usata la particella pros che indica lo stare vicino a e davanti a una persona, particella usata anche in Mc 3,13) si trasforma, per i discepoli, in un ritorno alla motivazione radicale della loro chiamata, alle fonti della loro missione, quasi un chiarire a se stessi la propria identità di discepoli e inviati (apostoli) a partire da un confronto e da una comunione con Gesù. Ma questa rinnovata consapevolezza è possibile solo se il discepolo impara da Gesù stesso un ritmo interiore che permette di staccarsi dalla fatica e dagli impegni della missione per trovare un autentico riposo. È questo il senso dell’invito di Gesù: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto e riposatevi un po’» (v. 31). Il discepolo deve fare come Gesù: stare in mezzo alle folle, ma anche sapersi staccare e ritirarsi in solitudine immergendosi nella preghiera (è il vero riposo di Gesù, il riposare pros tou theou come Marco ci testimonia in 1,35; 6,46; 9,2 e infine, prima della passione, in 14,32ss.).

     Dunque, il discepolo che fatica per il Regno deve comprendere che tutto ciò che fa, tutto ciò che dice, ha una radice profonda, una unica motivazione che può sostenerlo passo a passo nel suo cammino: quell’amore per Gesù che diventa il riposo nella sua fatica quotidiana e che gli permette una libertà interiore che gli da pace e gioia. Gesù ha scelto quel gruppo di discepoli «perché stessero con lui»; ora vuole che essi imparino a riposare con lui, a ritornare alla fonte della loro scelta, ad immergersi in quell’ascolto che li rende veramente discepoli, attenti alla parola del loro Maestro, capaci di contemplare il suo volto, gioiosi di stare con lui.

     Ma sorprendentemente un secondo movimento sembra interrompere questo risposo: Gesù ritorna a quella folla che sembra assorbire totalmente il tempo e le forze di questo piccolo gruppo di missionari: «erano molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare» (v. 31). E inaspettatamente di fronte a questa folla che lo insegue, Gesù non si sottrae; anzi,«ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (v. 34). Gesù «si commosse»: nello sguardo di Gesù si riflette la compassione di Dio, quelle ‘viscere di misericordia’ che custodiscono il nome stesso di Dio e ne manifestano al sua infinita gratuità e tenerezza. E ciò che commuove Gesù non è tanto il vedere una folla affamata oppure segnata da sofferenza (questo è presente nei racconti paralleli di Mt 14,14 e di Lc 10,1), ma il vedere lo smarrimento: gente abbandonata a se stessa, senza punti di riferimento, affaticata, in cerca di qualcosa che dia senso alla vita (è l’immagine della folla che ritorna nel testo di Geremia e in 1Re 22,17). Di fronte a questa folla Gesù «si mise ad insegnar loro molte cose» (v. 34). Nel racconto di Matteo e di Luca, Gesù guarisce e sfama; in Marco invece insegna. La sua compassione si rivela nel donare la Parola, quella parola che solo lui insegna con autorità (cfr. l’insistenza su questo aspetto in Mc 1). E ciò che realmente raduna dalla dispersione quel gregge che erra nel deserto è la Parola di Dio: come attraverso Mosè, Dio aveva nutrito e istruito le folle nel deserto, così è in Gesù che viene donato ciò che nutre la vita dell’uomo, quella Parola «che esce dalla bocca di Dio» (cfr. Dt 8,3).

     Due movimenti in profonda continuità: dai discepoli a Gesù e da Gesù alla folla. Ma non si può non rimanere colpiti dal contrasto tra questi due movimenti così come sono vissuti da Gesù: da una parte lui stesso invita i discepoli a stare con lui in un luogo appartato, ad una pausa riposante dopo una faticosa missione che li ha visti annunciatori del Regno in condizioni non sempre facili ed entusiasmanti; d’altra parte sembra abbandonarli e disinteressarsi di loro per immergersi nuovamente nelle folle che lo stanno cercando e inseguendo. E ci lascia, d’altronde, stupiti il modo libero, quasi spontaneo, con cui Gesù passa dalla solitudine alla folla e dalla folla ritorna alla solitudine della preghiera (infatti dopo aver sfamato le folle, Gesù si ritira sul monte a pregare). È un movimento che appare faticoso per noi: l’armonizzare due scelte apparentemente contraddittorie (stare in silenzio, in preghiera oppure stare in mezzo ai fratelli in un servizio) crea sempre in noi una rottura interiore e il passaggio da una scelta all’altra è sempre percepito come una sorta di tradimento di ciò che sentiamo fondamentale per la nostra vita. E allora potremmo domandarci: perché Gesù riesce a fare questo passaggio in modo così libero e pacificante? Che cosa deve imparare il discepolo da Gesù?

     Tra le folle che lo inseguono e lo cercano e nella solitudine del monte, Gesù non abbandona mai quel luogo nel quale incessantemente ritrova se stesso e il senso della sua missione: non abbandona mai quella comunione con il Padre che è il pane della sua vita: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34. Cfr. anche Mc 14,36). Ecco il segreto di Gesù, ecco perché Gesù può passare dalla solitudine alle folle e dalle folle ritornare in una preghiera silenziosa senza rottura interiore, in una libertà pacificante: il suo cuore rimane sempre uno perché è sempre radicato nell’ascolto e nella ricerca della volontà del Padre.

     Stando con Gesù, il discepolo deve proprio imparare da lui questo cammino interiore. Il discepolo deve comprendere che ciò che permette di superare questo scarto tra il desiderio di riposarsi e la fatica di essere immersi nella folla, tra la preghiera e il servizio, è la consapevolezza di esser stato chiamato per ‘stare con Gesù’. Ed è questo ‘stare’, questa intimità profonda che da pace e gioia alla propria vita, che crea una continuità nel faticoso cammino del discepolo, pur nella diversità degli impegni, spesso frammentari ed in apparente contraddizione tra di loro. Lo ‘stare con Gesù’ è il vero riposo a cui è chiamato il discepolo.

Preghiere e racconti

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso  col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Ognuno di noi è un originale fatto da Dio

C’ è una vecchia trazione giudeo-cristiana secondo la quale Dio manda ognuno di noi in questo mondo con un messaggio speciale da consegnare, con uno speciale atto d’amore da compiere. Il tuo messaggio e il tuo atto d’amore sono affidati soltanto a te, il mio è affidato soltanto a me. Se questo messaggio debba raggiungere solo poche persone o tutti gli abitanti di una città o il mondo intero dipende esclusivamente dalla scelta di Dio. L’unica cosa importante è essere convinti che ognuno di noi è adeguatamente equipaggiato: tu hai i doni giusti per consegnate il tuo messaggio ed io ho i doni appositamente scelti per consegnare il mio.

Un aspetto particolare della verità di Dio è stato messo nelle tue mani, e Dio ti ha chiesto di condividerlo con ognuno di noi, e lo stesso vale per me. Proprio perché tu sei unico, la tua verità è data soltanto a te e nessun altro può dire al mondo la tua verità, o compiere per gli altri il tuo atto d’amore. Solo tu hai tutti i requisiti per essere e fare ciò che devi essere e fare. Solo io ho tutto ciò che è necessario per portare a termine il compito per cui sono stato inviato in questo mondo.

Sarebbe inutile e anche sciocco confrontare me stesso con te. Ognuno di noi è unico, non esistono fotocopie o cloni di nessuno di noi. Un simile confronto significherebbe la morte dell’accettazione di sé. Guarda la tua mano: le dita non sono di uguale lunghezza. Se lo fossero, tu non potresti di fatto afferrare una mazza da baseball o lavorare ai ferri. Allo stesso modo, alcuni sono alti e altri bassi, alcuni hanno un talento e altri un dono diverso. Tu sei fatto su misura per realizzare il tuo compito, e così tu non sei me e io non sono te. E questo è bene, è meraviglioso. Noi dobbiamo non solo accettare, ma anche esaltare le nostre differenze. Il mondo custodisce gelosamente gli originali, e ognuno di noi è un originale fatto da Dio.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 23-24).

Rese grazie per insegnarci a rendere grazie

     Il fatto che Gesù sollevasse gli occhi e vedesse venire la moltitudine è segno della compassione divina, perché egli è solito andare incontro con il dono della misericordia celeste a tutti quelli che desiderano venire a lui. E perché non si perdano nel cercarlo, è solito aprire la luce del suo spirito a coloro che corrono a lui. Che gli occhi di Gesù indichino spiritualmente i doni dello Spirito, lo testimonia Giovanni nell’Apocalisse; costui, parlando di Gesù simbolicamente, dice: «Vidi un agnello che stava in piedi, come sgozzato, con sette corna e sette occhi, che sono gli spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6). […] Il Signore diede i pani e i pesci ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Il mistero dell’umana salvezza iniziò a narrarlo il Signore e dai suoi ascoltatori è stato confermato fino a noi. Spezzò i cinque pani e i due pesci e li distribuì ai discepoli quando svelò loro il senso per comprendere ciò che su di lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (cfr. Lc 24,44-45). I discepoli li offrirono alla folla quando «predicarono dovunque con l’aiuto del Signore, che confermava la parola coi miracoli che l’accompagnavano» (Mc 16,20). […] E non bisogna trascurare che quando fu sul punto di rifocillare la folla, Gesù rese grazie. Rese grazie per insegnare anche a noi a rendere sempre grazie per i doni celesti che riceviamo e per mostrarci quanto egli stesso gioisce dei nostri progressi, della nostra rigenerazione spirituale. […] Saziata la moltitudine, Gesù comandò ai discepoli di raccogliere gli avanzi perché non andassero perduti. «Li raccolsero e riempirono dodici canestri di avanzi» (cfr. Mc 6,43). Poiché con il numero dodici si è soliti indicare la somma della perfezione, con i dodici canestri pieni di avanzi si intende tutto il coro dei dottori spirituali, ai quali viene ordinato di radunare, meditare, consegnare allo scritto e conservare per uso proprio e del popolo i passi oscuri delle Scritture che il popolo da sé non riesce a comprendere. Così hanno fatto gli apostoli e gli evangelisti inserendo nelle loro opere non poche citazioni della Legge e dei Profeti da loro interpretate in modo spirituale. Così hanno fatto alcuni loro discepoli, maestri della chiesa su tutta la terra studiando accuratamente interi libri dell’Antico Testamento, e anche se sono strati disprezzati dagli uomini, sono ricchi del pane della grazia celeste.

(BEDA IL VENERABILE, Omelie sul vangelo 2,2, CCL 122, pp. 195-198)

La casa della Parola

Nella sua Parola è Dio stesso a raggiungere e trasformare il cuore di chi crede: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di di­visione dell’anima e dello spirito, fino alle giun­ture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Ebrei 4,12). Affidiamoci, al­lora, alla Parola: essa è fedele in eterno, come il Dio che la dice e la abita. Perciò, chi accoglie con fede la Parola, non sarà mai solo: in vita, come in morte, entrerà attraverso di essa nel cuore di Dio: “Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio” (San Gregorio Magno).

Alla Parola del Signore corrisponde veramente chi accetta di entrare in quell’ascolto accoglien­te che è l’obbedienza della fede. Il Dio, che si comunica al nostro cuore, ci chiama ad offrirgli non qualcosa di nostro, ma noi stessi. Questo ascolto accogliente rende liberi: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8,31-32).

Per renderci capaci di accogliere fedelmente la Parola di Dio, il Signore Gesù ha voluto lasciarci – insieme con il dono dello Spirito – anche il do­no della Chiesa, fondata sugli apostoli. Essi hanno accolto la parola di salvezza e l’hanno tramandata ai loro successori come un gioiello prezioso, custodito nello scrigno sicuro del po­polo di Dio pellegrino nel tempo. La Chiesa è la casa della Parola, la comunità dell’interpreta­zione, garantita dalla guida dei pastori a cui Dio ha voluto affidare il suo gregge. La lettura fedele della Scrittura non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pietro.

(Bruno FORTE, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 63-64).

Preghiera

Concedimi, Gesù benignissimo, la tua grazia, la quale sia con me e con me lavori e con me sino alla fine perseveri. Dammi di desiderare e volere solo quello che è a te più accetto e più caramente piace a te. Fa’ che la tua volontà sia la mia, e la mia volontà segua sempre la tua e concordi con essa a perfezione. Che io abbia un unico volere e non volere con te; e che possa volere o non volere se non ciò che tu vuoi o non vuoi.

Dammi di morire a tutte le cose che sono nel mondo, e per te d’essere sprezzato e ignorato in questa vita. Dammi sopra ogni cosa desiderata, di riposare in te e pacificare in te il mio cuore. Te, vera pace del cuore, solo riposo, fuor di te ogni cosa è dura e inquieta. In questa pace – cioè in te solo, sommo, eterno bene – dormirò e riposerò. Così sia.

(L’imitazione di Cristo, III, 15).

 

  * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVI DOM TEMP ORD ANNO B

 

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Amos 7,12-15

In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».

 

 

Il brano — unico cenno biografico del libro — riferisce la polemica tra Amos e la classe sacerdotale, legata alla corte e al potere. Il sacerdote Amasia accusa Amos di cospirazione contro il re, e vuole cacciarlo dal santuario di Betel, ma Amos risponde con la serena consapevolezza della propria fedeltà alla missione ricevuta dal Signore.

     Non ci sono particolari motivi per negare un fondamento storico all’episodio, anche se non è semplice identificare l’attività e la condizione sociale del profeta nel suo luogo d’origine.

     vv. 12-13 – Il discorso di Amasia è ben costruito, con un sapiente uso del parallelismo e una cadenza ritmata, anche se sono tradotti in prosa. Evidente l’alterigie e il sarcasmo di chi si ritiene investito della funzione ufficiale di vegliare sull’istituzione regale.

     Amos è chiamato «veggente» (chozeh) e non profeta (nabi’), ma questo di per sé non ha un accento spregiativo; la terminologia è varia e oscillante, specialmente per i profeti più antichi. Si sottolinea la contrapposizione fra i due regni: Amos, originario di Giuda, svolge il suo ministero in Samaria, e Amasia si ritiene autorizzato a respingerlo al suo paese. Il santuario di Betel è infatti un «tempio del regno», quasi un’istituzione politica, più che religiosa. Ritornato nel regno del Sud, Amos potrà tranquillamente guadagnarsi da vivere; nel Nord invece la sua attività è considerata sovversiva e pericolosa.

     vv. 14-15 – Nella sua replica Amos afferma con forza la propria vocazione profetica. Egli non è stato sempre profeta, né ha mai appartenuto alle confraternite o scuole di profeti che allora abbondavano in Palestina. Al contrario, era un allevatore o un contadino, aveva un lavoro e forse delle proprietà che gli consentivano di vivere dignitosamente, senza dover ricorrere, come sembra insinuare Amasia, alla carità pubblica presso i santuari.

     È il Signore che lo ha chiamato da dietro il gregge — come Mosè: cf. Es 3,1 —, e alla sua vocazione non si disobbedisce: è fuori discussione quindi che Amos abbandoni la sua missione.

     Qualche incertezza nell’identificare esattamente il precedente mestiere di Amos: il v. 14 sembra alludere all’allevamento di bovini, mentre il 15 parla di «gregge», quindi di ovini. Quanto al sicomoro, la cui corteccia veniva incisa per utilizzarne i succhi, Amos sarebbe stato proprietario delle piante, da cui ricavava il foraggio per il suo bestiame. Sia che fosse un pastore o un incisore di sicomori, sia che fosse proprietario di terre o bestiame, in ogni caso Amos viveva del suo lavoro e non era profeta prima della vocazione.

Seconda lettura: Efesini 1,3-14

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo. In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto,  avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.

 

 

La lettera agli Efesini, come quella ai Colossesi cui è molto vicina, fa parte delle cosiddette deuteropaoline, attribuite a Paolo secondo l’uso antico, ma dovute a una posteriore scuola paolina.

     Il brano 1,3-14, inserito tra l’indirizzo e la preghiera di ringraziamento, costituisce un blocco monolitico, quasi un prologo alla lettera. È una benedizione, secondo la prassi liturgica giudaica, formata da un unico periodo in cui si susseguono frasi concatenate, quasi senza pause.

     Il v. 3 – la formula di benedizione — è introduttivo. Il verbo benedire (euloghein) è ripetuto due volte, con sensi diversi: lodare Dio (da parte nostra), beneficare il popolo (da parte di Dio). Duplice anche il riferimento a Cristo: se ne afferma la relazione singolare con il Padre e la qualifica di Signore, e la sua opera salvifica: siamo salvati per mezzo di Cristo e in quanto incorporati a Lui nella Chiesa.

     La prima parte – vv. 4-10 – descrive i contenuti della benedizione, con una serie di verbi con soggetto Dio:

     1. l’elezione e la predestinazione alla filiazione divina (vv. 4-6a)

     2. la grazia della redenzione (vv. 6b-7)

     3. la conoscenza del piano salvifico (vv. 8-10), culmine dell’azione benedicente di Dio. Dio ha stabilito dall’eternità che Cristo sia l’amministratore dei tempi nuovi della salvezza, e rappresenti perciò la pienezza del tempo e della storia. «Ricapitolare» (anakephalaiosasthai) tutto in Lui significa portare all’unità tutto ciò che è frammentato e disperso, e anche sottoporre tutto il creato a Lui come capo di tutta la realtà.

     La seconda parte – vv. 11-14 – descrive l’impatto storico della benedizione sulla comunità, con l’alternanza dei soggetti noi/voi:

     1. il primo «noi» indica la comunità giudeo-cristiana, in cui Paolo si identifica, e la sua modalità di accesso alla salvezza: l’elezione divina, per cui la comunità diventa proprietà di Dio, come Israele (vv. 11-12).

     2. il «voi» indica gli etno-cristiani, destinatari della lettera, e la loro modalità di appropriazione della salvezza (v. 13).

     3. il secondo «noi» è inclusivo delle due componenti. Lo Spirito è caparra — acconto che garantisce — della salvezza per tutti i credenti (v. 14).

     È una benedizione motivata dall’esperienza e dal riconoscimento dell’iniziativa salvifica di Dio, caratterizzata dall’economia trinitaria.

Vangelo: Marco 6,7-13

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.  E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

 

 

Esegesi

     La pericope della missione ai Dodici appare slegata dal contesto ed è quindi difficile la sua collocazione storica nella vita di Gesù. Marco pone l’episodio tra la predicazione a Nazaret e il martirio del Battista, e narra il ritorno dei discepoli prima della moltiplicazione dei pani (cap. 6). Si riconoscono molti contatti con i paralleli sinottici, Mt 10,1.5-15 e Lc 9,1-6.

     Sembra che Marco desideri limitare al minimo la parte relativa all’insegnamento del ministero degli Apostoli: il contenuto della proclamazione non è infatti precisato, e il v. 12 si limita a un generico invito alla conversione.

     L’importanza della missione tuttavia è fuor di dubbio, e sufficientemente testimoniata dalla relazione che ne fanno i tre evangelisti.

     v. 7 – L’espressione «i Dodici» è cara a Marco. Bene attestata nell’ambiente giudaico la pratica di lavorare in coppia (cf. i discepoli del Battista e Paolo). Il «potere sugli spiriti immondi» è indicato più avanti, quando si dice che i discepoli riescono a operare un esorcismo (9,18).

     vv. 8-9 – Le indicazioni di Gesù sull’equipaggiamento dei discepoli mostrano l’urgenza della missione: non ci si può attardare nei preparativi. Matteo e Luca vietano, tra l’altro, anche di portare con sé un bastone, permesso invece da Marco: indizio forse dei pericoli che presentava la situazione in cui fu scritto questo vangelo.

     Il senso generale è comunque quello di testimoniare distacco dai bisogni terreni e fiducia in Dio. Il discepolo è libero da paure e ansietà per quanto riguarda le necessità quotidiane della vita: i gigli del campo e gli uccelli del cielo gli sono di esempio.

     vv. 10-11 – L’ospitalità ricevuta e semplicemente accettata enfatizza l’importanza e la santità della missione. Il gesto di «scuotere la terra sotto i piedi» era compiuto dal giudeo al ritorno da una terra pagana, quasi a evitare ogni contatto tra il mondo pagano e la terra d’Israele. Qui il gesto è rivolto, non ai pagani in quanto tali, ma a chiunque rifiuta di accogliere il messaggio evangelico.

     L’espressione «a testimonianza per loro» va intesa come una direttiva per un cambiamento del cuore, della mentalità: una conversione. Il senso del termine greco non è quello di un giuramento «contro qualcuno», ma piuttosto del «mettere in guardia».

     vv. 12-13 -La predicazione è appena accennata, con parole familiari in Marco. Nuova (solo 3x nel N.T.: Lc 10,34 e Gc 5.14) è l’azione di «ungere (aleipho) con olio (elaion)» i malati, cui Marco attribuisce un’efficacia miracolosa per la guarigione.

 L’immagine della domenica

 

 UN CUORE CHIUSO

Ti aspettavo, Signore, ma non sei venuto.

L’attesa è stata lunga, e solo tardi ho capito

che non eri entrato perché il cuore non ti aspettava.

Avevi bussato alla porta: «Alzati, amica mia, mia bella e vieni!

Perché l’inverno è passato, è cessata la pioggia,

i fiori sono apparsi nei campi, la stagione del canto è tornata

e si sente cantare la tortora.

Aprimi!». Ma il cuore era chiuso,

appiattito su orizzonti terreni.

Ma quando sei finalmente entrato,

vincendo la mia sordità, ho capito, Signore,

che il cuore si popola di idoli quando tu scompari,

e che tu abiti, soltanto,  dove ti si lascia entrare.

(S. Ambrogio)

Meditazione 

    Dopo l’insuccesso sperimentato da Gesù nella propria patria, l’evangelista Marco ci narra l’invio dei Dodici in missione. La deludente e fallimentare visita a Nàzaret non distoglie Gesù dalla sua attività missionaria; al contrario, egli sembra voler ancor più ampliare e intensificare il suo raggio d’azione chiamando i Dodici a collaborare alla sua opera di evangelizzazione. Ciò che finora ha fatto lui solo, ora è affidato anche alle mani e alla bocca dei suoi collaboratori.

    In 3,13-19, riferendo la chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici, Marco ne sottolinea i due scopi principali: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14). Da allora i Dodici hanno sempre accompagnato Gesù, condividendo la sua vita, ascoltando il suo insegnamento e assistendo ai suoi gesti prodigiosi. Ora è giunto il momento di porre in atto il secondo scopo indicato dal ‘programma’ apostolico: l’invio in missione. «E prese (lett. cominciò) a mandarli…» (v. 7). Abbiamo qui un inizio, una nuova tappa del cammino di sequela dei Dodici. È la prima volta, infatti, che vengono «mandati» (apostéllein) ed è significativo che solo dopo aver eseguito la loro missione saranno designati con il nome di «apostoli» (apostólous, inviati, mandati: v. 30).

    Quando chiama (al v. 7 ricompare, per la seconda volta, lo stesso verbo della prima chiamata: proskaleîtai, «chiama a sé»; cfr. 3,13), Gesù lo fa sempre in vista di una missione, la sua è sempre una chiamata per. Così che la missione fa intrinsecamente parte della vocazione apostolica, della vocazione della Chiesa e di ogni vocazione. Non è qualcosa che si aggiunge in un secondo tempo alla sua struttura costitutiva: ne fa parte sin dall’inizio. E ciò che va ricordato al riguardo è che Dio sceglie sempre chi vuole, indipendentemente dalle sue qualità umane e spirituali, dalla sua condizione sociale, dal suo livello di preparazione culturale. Ne è un esempio il profeta Amos (prima lettura), semplice pastore e raccoglitore di sicomori, che il Signore un bel giorno, senza il minimo preavviso, chiama (anzi «prende») e manda a profetizzare al suo popolo (Am 7,14-15). Anche in questo caso, nel medesimo istante in cui chiama, Dio affida una missione («Va’…»), senza lasciare al chiamato troppo tempo per meditarci sopra…

    Marco è l’unico evangelista a riferire che i Dodici sono inviati «a due a due». Certamente questo dato rispecchia la prassi della Chiesa primitiva (cfr. At 8,14; 13,2; 15,2.22; ecc.) e si fonda sul fatto che, secondo la prospettiva biblica, una testimonianza ha valore solo se convalidata da almeno due testimoni (cfr. Dt 19,15). Ma si può vedere in questo tratto qualcosa che non è estraneo alla natura stessa del messaggio che i missionari devono portare. Essi infatti non annunciano un sistema dottrinale o morale, ma la buona notizia del Regno, la vicinanza e la prossimità di Dio a ogni uomo, la comunione di vita che Egli vuole instaurare con tutti i suoi figli attraverso il Figlio suo. Per questo è importante vivere in prima persona questo messaggio di comunione, per evangelizzare anzitutto con la stessa vita e per rendere più credibile la parola che si proclama. Due persone formano già una piccola comunità (cfr. Mt 18,20), uno spazio cioè in cui è possibile vivere la relazione, la condivisione, il mutuo affetto e l’amore reciproco. Quando si è in due, poi, ci si può sempre aiutare e sostenere vicendevolmente, «infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro…» (Qo 4,9-12). E questo semplice fatto dell’andare insieme, a due a due, può essere già una ‘buona notizia’ per l’uomo di oggi, tanto afflitto dal male della solitudine e dell’isolamento…

    Nelle istruzioni che Gesù dà ai Dodici al momento della loro partenza (ossia come devono equipaggiarsi per il viaggio e come devono comportarsi quando arrivano in un determinato luogo) non viene precisato né dove essi devono andare, né cosa devono dire: c’è solo questo andare in coppia, con un «potere» ricevuto per delega (quello sugli «spiriti impuri» che, in primo luogo, spetta solo a Gesù) e con un bastone, unico ‘bagaglio’ da avere con sé. I missionari devono andare ‘nudi’ e ‘leggeri’, consci di non avere nulla da offrire se non la parola stessa di Gesù e il suo potere, necessario per affrontare coraggiosamente la stessa lotta che egli ha ingaggiato contro lo spirito del male. Questa povertà estrema, questa sobrietà radicale, questa spoliazione assoluta che deve caratterizzare la missione non è un aspetto secondario, anzi: ne è la condizione indispensabile. Perché il vangelo si annuncia anzitutto con uno stile di vita connaturale al vangelo stesso, che insegna ad affidarsi a Dio non confidando in se stessi (perché, comunque, Lui si prende in ogni caso cura dei suoi figli più che degli uccelli del cielo e dei gigli del campo), che manifesta l’amore privilegiato di Dio per i più poveri (e quindi predilige anche i mezzi poveri), che spinge ad andare incontro a tutti senza fare discriminazioni di sorta (e quindi ad accettare con gratitudine l’ospitalità di chiunque senza cercarne una migliore). In questo la Chiesa di ogni tempo è sempre chiamata a confrontarsi e a verificarsi.

    Il discorso ai missionari si chiude con una nota ‘domestica’ e, altresì, ‘drammatica’. Il «rimanere in una casa» (v 10) apre uno squarcio sulla dimensione intima, familiare, quotidiana della vita. La parola evangelica ha bisogno di incarnarsi in primo luogo lì, nel tessuto più ordinario dell’esistenza, tra le mura dove nasce e cresce l’amore, dove si imparano a vivere le relazioni, ma dove anche cominciano a sorgere le prime sofferenze, le prime incomprensioni, le prime rotture. «Casa» dice luogo dove si abita, si dimora; così Dio vuole abitare, prendere dimora in ogni nostra casa.

    Ma questa stessa «casa» può diventare luogo di rifiuto di non accoglienza. «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero. » (v. 11). Sembra quasi che la parola del vangelo abbia difficoltà a trovare un terreno buono in cui porre radici tanto e sottolineato, nel nostro testo, il rilievo dato alla chiusura, all’opposizione. Il rifiuto è messo in preventivo fin dall’inizio. Ma questo non deve scoraggiare il discepolo (non è stato così anche per il suo Maestro?): egli deve solo portare a termine, con tutto l’impegno possibile, il compito affidatogli, lasciando poi a Dio il risultato. Nella certezza che la parola di Dio possiede una forza e una efficacia che gli permetteranno comunque di portare frutto.

Preghiere e racconti

Hanno annunciato

“Signore, tieni presenti le loro minacce, e concedi ai tuoi servi di annunciare la tua Parola in tutta franchezza“. (At 4,29)

Hanno annunciato che un sapone fa primavera,

hanno proclamato che un tipo di benzina

t’assicura il coraggio e formidabile potenza.

Hanno gridato per le piazze e sui tetti

le pseudosicurezze dell’uomo robotizzato.

Ma hanno taciuto il Verbo

e nelle loro bocche si è spenta perfino la parola:

la parola della vera amicizia e del cordiale saluto.

Hanno annunciato che la pace

è fatta di tante uova di cioccolata,

e della tredicesima, e di molte banconote,

di frigoriferi colmi d’ogni bene,

e di appartamenti in città con bagni di maiolica.

Ma la violenza è esplosa per le strade

e dalle uova di cioccolata sono nati serpenti

che celano nella coda mitra e bombe molotov.

O uomini e donne del nostro tempo,

noi manchiamo di vero annuncio,

perché manchiamo di conoscenza contemplativa.

Ignoriamo la parola che nasce dal Verbo di Dio

perché abbiamo smarrito il silenzio,

anzi ne abbiamo paura.

E lo uccidiamo perfino al mare e sui monti

a colpi di radioline e transistor.

Ma invano noi edifichiamo la città

se non è il Signore a costruirla con noi.

Se la sua Parola non ci penetra e non ci cambia

invano attendiamo la pace

da noi e dai nostri fratelli.

(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).

Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio

     Il Signore non solo ammaestra i Dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca. Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo. Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi. Ne manda dunque due. «Due sono meglio di uno», dice l’Ecclesiaste (Qp 4,9). Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né  pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà. Chi al vedere un apostolo senza bisaccia né pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti. […] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi. In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero. […] «Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13). Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio. Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: «Chi è malato chiami a se i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio» (Gc 5,14). Così l’olio serve a confortare nella sofferenza. Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.

(TEOFILATTO, Commento al vangelo di Marco 6, PG 123,548C-549C).

Il mio sì

Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato. Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio: un posto da nessun altro occupato. Poco importa che io sia ricco, povero disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome. Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro. Io ho la mia missione. In qualche modo sono necessario ai suoi intenti tanto necessario al posto mio quanto un arcangelo al suo. Egli non ha creato me inutilmente. Io farò del bene, farò il suo lavoro. Sarò un angelo di pace un predicatore della verità nel posto che egli mi ha assegnato anche senza che io lo sappia, purché io segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione.

(John Henry Newman).

Portatrici dell’amore di Cristo

Cerchiamo di vivere lo spirito delle missionarie della carità fin dall’inizio, spirito di totale abbandono a Dio, di amorevole fiducia reciproca e di gioia in ogni situazione.

Se accettiamo veramente questo spirito, allora saremo sicuramente delle autentiche cooperatrici di Cristo, le portatrici del suo amore. Questo spirito deve irraggiare dal vostro cuore sulle vostre famiglie, sul vostro vicinato, sulle vostre città, sul vostro paese, sul mondo. Cerchiamo di aumentare sempre di più il capitale dell’amore, della cortesia, della comprensione e della pace. Il denaro verrà, se cerchiamo anzitutto il regno di Dio: allora ci sarà dato il resto.

(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Ed. San Paolo).

Una Chiesa missionaria

«Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo della vita si  apre al desiderio di condividere e comunicare la sua gioia, non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato agli “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio in tutta la comunità» (CVMC 46). «La Chiesa ha bisogno soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo» (CVMC 63).

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

parola del Padre a te ci rivolgiamo.

Custodisci i nostri propositi,

ravviva il nostro servizio ecclesiale,

sorreggi le nostre fatiche,

guida i nostri passi

nella ricerca delle vie più adatte

per annunciare il tuo vangelo.

La nostra povertà è grande,

noi non confidiamo in noi stessi, ma solo in te:

incoraggiaci, assicuraci, donaci la tua benedizione.

Tu che, con il Padre e lo Spirito Santo,

vivi e regni in noi nella tua Chiesa,

per tutti i secoli dei secoli. Amen.

(Paolo VI).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER APPROFONDIRE:

XV DOM TEMP ORD ANNO B

XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Ezechiele 2,2-5

In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».

 

 

Nei capp. 1-3 del libro di Ezechiele troviamo raccolte alcune visioni avute dal profeta Ezechiele: la visione del «carro del Signore», che indica la mobilità di Dio che segue il suo popolo dovunque, anche in terra di esilio (1,4-28; 3,12-16) e la visione del libro, che sottolinea come le parole dette dal profeta sono in realtà parole di Dio (2.1-3,11). Si ritiene che la visione del libro fosse quella inaugurale, legata cioè alla visione di Ezechiele (nel 593 a.C.). La nostra breve I Lettura contiene appena gli inizi di questa suggestiva scena programmatica, in cui il Signore ordina al profeta di mangiare e assimilare il libro, ossia la sua Parola.

     Questi quattro versetti (vv. 2-5) andrebbero integrati nell’insieme della visione, per meglio coglierne la valenza profetica.

— Nella loro brevità, contengono preziose indicazioni sulle tre fondamentali coordinate di ogni missione: il mandante, il mandato, i destinatari.

     a) Mandante, colui che manda Ezechiele («io ti mando», v. 3) è il Signore Dio. Qui il profeta non lo contempla direttamente ma attraverso alcuni segni della sua presenza: uno spirito (= ruah) o forza divina che lo solleva e lo rende capace di ascolto (v. 2), la parola o voce (v. 3), una mano tesa contenente un rotolo (v. 9). Segni che velano la vera identità di Dio e ne sottolineano il mistero, la trascendenza.

     b) Mandato è il profeta, caratterizzato frequentemente (più di 90 volte) qui e altrove, come Figlio dell’uomo, figlio di Adamo tratto dalla terra, e pertanto essere debole, fragile, effimero. Nonostante questa sua condizione di estrema debolezza, il profeta è abilitato a parlare in nome di Dio, a riferirne le parole: Dice il Signore Dio (v. 4). Il fatto che il profeta è mandato ed esercita la sua missione («un profeta si trova in mezzo a loro», v. 5) dimostra — di per sé e indipendentemente dall’ascolto che avrà («ascoltino o non ascoltino») che Dio è presente nella storia del suo popolo e veglia sul suo piano salvifico. Il fatto stesso della presenza di un profeta prova l’interesse di Dio per il suo popolo.

     c) Destinatari della missione sono gli Israeliti, storicamente gli esuli delle 10 tribù del nord ed il resto del regno di Giuda. La storia lunga della loro infedeltà, considerata sia nel passato («i loro padri») che nel presente («di me fino ad oggi», v. 3) è caratterizzata come storia di ribelli non contro una legge o un patto, ma «contro di me» (cf. v. 5).

     Tre espressioni caratterizzano l’infedeltà degli israeliti:

— si sono rivoltati contro di me (v. 3), per la precisione si tratta del gesto arrogante con cui il suddito rifiuta il vassallaggio al proprio sovrano;

— hanno peccato (v. 3), cioè hanno trasgredito precisi obblighi e statuti che avevano con me;

figli testardi e dal cuore indurito (v. 4). Alla lettera: impudenti di faccia e duri di cuore. Il peccato si traduce in un duplice indurimento, interiore (cuore) ed esteriore (faccia), che solo un cuore di carne (cf. Ez 36,26) potrà eliminare.

Seconda lettura: 2 Corinzi 12,7-10

Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

 

 

Ci troviamo all’interno della terza sezione della 2Cor, rappresentata dai capp.  10-13. È una sezione particolare che si può definire globalmente Apologia di Paolo (come fa la Bibbia di Gerusalemme) dai toni violenti e sferzanti: l’Apostolo difende il suo ministero contro alcuni «falsi apostoli» (11,13) che lo accusano e lo screditano davanti alla comunità di Corinto. L’Apostolo parla anche di se stesso, facendo in certo qual modo il proprio elogio. La lettura odierna rappresenta un momento importante di questa confessione autobiografica (11,22-12,13), riconoscendo che dietro la sua debolezza agisce la potenza di Dio (12,7-10).

     Siccome precedentemente ha parlato di favori e rivelazioni, Paolo parla ora di una prova particolare destinato a evitare che egli monti in superbia (v. 7).

     Il breve brano presenta alcuni punti, che vanno chiariti. Consideriamo le seguenti espressioni:

a) una spina nella carne, termine enigmatico, variamente interpretato nella storia dell’esegesi: malattia cronica, persecuzioni (padri latini e greci), tentazioni contro la castità (Gregorio Magno), ecc. Oggi si tende a vedere nella «spina» una malattia che poneva intralci e ritardi al ministero di Paolo.

b) un inviato di Satana, inteso in senso metaforico, esprime la convinzione ebraica secondo cui prove, disgrazie, sofferenze, vengono non da Dio, ma da Satana. È la stessa concezione che troviamo nel libro di Giobbe (cf. Gb 2.6).

c) mi vanterò, mi compiaccio (vv. 9.10), sono verbi che dovrebbero avere come oggetto realtà gloriose: vittorie, virtù, imprese, ecc. Paradossalmente qui hanno come oggetto delle condizioni di cui umanamente ci si vergogna: «debolezze», «infermità», «angosce», ecc.

d) quando sono debole, è allora che sono forte (v. 10). Altro noto paradosso.

     Questi paradossi esprimono questa convinzione di Paolo: è la potenza salvifica di Cristo che opera in lui quando è debole. Ecco perché non solo accetta le prove, ma addirittura si vanta e si compiace in esse.

 

Vangelo: Marco 6,1-6

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.  Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

 

 

Esegesi 

     Dopo una serie di prodigi culminati nel racconto di una risurrezione (c. 5) si direbbe che Mc comincia a preparare il destino di condanna e di morte, cui Gesù va incontro, narrando le reazioni di scetticismo e di rifiuto che egli affronta nella sua stessa patria (6,1-6), cioè a Nazaret. È questo il brano del Vangelo di questa domenica.

— Lo stupore, in senso scettico, che l’insegnamento di Gesù desta nei suoi compatrioti, si esprime in una serie incalzante di cinque domande (vv. 2-3). Esaminiamone distintamente il senso:

     a) Prima domanda: Da dove gli vengono queste cose? (v. 2), «queste cose» sono le cose che insegna. L’insegnamento di Gesù potrebbe avere diverse origini, ed il dove? varie risposte: dal cielo o dagli uomini (cf. Mc 11,30), da Satana (3,22.30), ecc. Il fatto che, pur conoscendone il nome, i suoi compatrioti lo indichino ripetutamente dicendo «costui» esprime distanza e dubbio.

     b) Seconda domanda: dietro l’insegnamento c’è un certo tipo di sapienza che secondo gli ascoltatori egli non possiede da sé, ma gli è stata data. Questo passivo esige un completamento, un agente: sapienza data da chi? Le risposte possono essere due: o da Dio (passivo «divino»), o da Satana (passivo «diabolico»). Il fatto che i compatrioti si scandalizzino di lui (v. 3) indica che essi pensino alla seconda, non alla prima, possibilità.

     c) Terza domanda, relativa ai prodigi cui si assiste (vedi cap. 5). Se i prodigi avvengono attraverso le mani del taumaturgo, la domanda che ci si pone è: chi opera questi fatti tramite Gesù? Se si esclude che egli sia il Messia, non resta altra risposta che questa: non Dio, ma il diavolo opera questi strani miracoli.

     d) Quarta e quinta domanda, partono dall’origine di Gesù, nota a tutti, per affermare che non può essere il Messia, che invece — secondo la tradizione ebraica — non sarebbe stato conosciuto da nessuno, date le sue origini misteriose. Di Gesù si indica prima la nota professione personale, il falegname (non «il figlio del carpentiere» come in Mt 13,55), e poi le persone della sua parentela: figlio di Maria (probabilmente è avvenuta già la morte di Giuseppe), con «fratelli» e «sorelle» (congiunti) a tutti noti.

Ed era per loro motivo di scandalo (v. 3). «Scandalizzarsi» propriamente designa una caduta provocata da un inciampo (skándalon). Nel Nuovo Testamento spesso questo termine lo si indica in senso religioso, un’occasione di peccato, una seduzione all’apostasia e all’incredulità. Gesù diventa occasione di scandalo per i suoi compaesani, perché in certo senso ne provoca la caduta (peccato di incredulità) con il suo insegnamento e le sue azioni.

Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria (v. 4). Indirettamente e senza grosse polemiche, Gesù reagisce enunciando il principio del profeta disprezzato in patria; e non solo nel suo paese natio, ma anche tra i suoi parenti e nella sua stessa famiglia. Marco accentua questi due ultimi termini (parentela, famiglia) radicalizzando così il rifiuto che Gesù ha trovato tra i suoi (vedi 3,21). Dicendo «un profeta» e attribuendo a sè tale detto, in qualche modo Gesù rivendica la dignità e le prerogative del profeta escatologico rifiutato dagli altri.

E lì non poteva compiere nessun prodigio (5a). Frase apparentemente in contrasto con quella che segue: impose le mani a pochi malati e li guarì (5b). In realtà, l’evangelista non vuole assolutizzare il principio che l’incredulità escluda del tutto i miracoli e paralizzi la compassione di Gesù. Con il v. 5b vuole lasciarci un’impressione positiva.

Si meravigliava della loro incredulità (v. 6). Anche se ha enunciato il principio del v. 4 (un profeta non è disprezzato che…). Gesù prova un certo stupore verso l’incredulità dei suoi. Questo vuol dire che, benché sia di regola così, l’incredulità non è, per lui un fatto scontato, da accogliere con supina rassegnazione.

 L’immagine della domenica

 

 

 

 

 

 

 

L’amore è servizio

 

Il frutto del silenzio è la preghiera,

il frutto della preghiera è la fede,

il frutto della fede è l’amore,

il frutto dell’amore è il servizio,

il frutto del servizio è la pace.

(Dagli scritti di Madre Teresa di Calcutta 

Veduta Duomo di Milano – Italia – 2009

 

Meditazione 

    La pagina evangelica di questa domenica ci narra la visita di Gesù alla sua città natale. È la prima volta che Gesù, dall’inizio del suo ministero pubblico, fa ritorno nella sua patria. A Nazaret «era stato allevato» (Lc 4,16) e aveva trascorso i primi trent’anni della sua vita (cfr. Lc 3,23), conducendo un’esistenza segnata dall’ordinarietà e dalla condivisione del comune destino dei suoi abitanti. Gli evangelisti non ci dicono pressoché nulla di questi anni di vita ‘nascosta’ e noi non possiamo far altro che prendere atto di questo riserbo rispettando un silenzio che, forse, la dice lunga sulla ‘serietà’ di quel mistero che noi chiamiamo incarnazione.

    Possiamo immaginare la curiosità e l’animazione dei nazaretani nel rivedere un loro concittadino diventato tanto ‘famoso’ negli ultimi tempi (già dopo il primo miracolo a Cafàrnao si dice che «la sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea»: Mc 1,28). Una curiosità che si tramuta in stupore appena cominciano a sentirlo parlare nella loro sinagoga, nella consueta celebrazione liturgica sabbatica. «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?…» (vv. 2-3). L’evangelista accumula qui una serie di ben cinque domande per dare corpo a tutta la meraviglia degli abitanti di Nàzaret: come è possibile che quest’uomo parla in questo modo e compie tali cose? Lo conosciamo bene tutti: è uno di noi…! E così lo stupore iniziale cede subito il passo a un atteggiamento di scetticismo e di incredulità: «Ed era per loro motivo di scandalo» (v. 3b). È lo sconcerto di chi non riesce a mettere insieme una sapienza e una potenza che si reputa non possano venire altro che da Dio con le modeste e umili origini di colui che è conosciuto come «il falegname, il figlio di Maria» (v. 3a). Come può il divino conciliarsi con un umano così ‘umano’? Come può Dio manifestarsi in una realtà così quotidiana e familiare? La presunta conoscenza di Gesù da parte dei nazaretani è l’ostacolo più grande alla loro apertura di fede, a una fede che si apre a un ‘oltre’ che travalica l’immediatezza della propria esperienza quotidiana, pur non negandola. «La meraviglia è un pochino sempre a doppio esito: c’è la meraviglia che vuol capire, che si lascia educare a capire. […] E c’è invece la meraviglia che non nasce dall’intelligenza, cioè dalla volontà dell’uomo di capire, di piegarsi e di incontrare la verità o comunque ciò che gli si manifesta: ma è la meraviglia della ragione, che conduce a misurare questa cosa secondo il metro che sono io. Questa meraviglia conduce all’incredulità e al rifiuto, mentre la prima conduce all’ammirazione, si lascia educare dall’avvenimento, si lascia piegare» (G. Moioli).

    È  significativo che a questa meraviglia incredula faccia eco l’amara meraviglia di Gesù: «E si meravigliava della loro incredulità» (v. 6a). Gesù non riesce a capacitarsi che si possa arrivare a un tale livello di incredulità. E proprio tra i suoi parenti, nella sua casa, nella sua patria… Sembra una costante nella storia della salvezza, ma proprio i più vicini, coloro che dovrebbero conoscere meglio l’inviato di Dio, che vantano con lui una certa familiarità, sono quelli che meno accolgono il suo messaggio, che più si chiudono alla sua azione. Ne sono testimonianza le parole disincantate che il profeta Ezechiele riceve da parte del Signore: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli… Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito…» (Ez 2,3-4; prima lettura). Il detto popolare, citato da Gesù, sul profeta disprezzato tra i suoi (cfr. Mc 6,4) è una conferma di questo atteggiamento di ‘ribellione’ del popolo al quale Dio manda i suoi messaggeri. Si potrebbe dire che Gesù è sì stupito e sorpreso di questo rifiuto, ma non impreparato: conosce, infatti, la sorte di tutti i profeti che lo hanno preceduto.

    In questo clima di incredulità Gesù non può compiere alcun miracolo. La non-fede degli abitanti di Nàzaret ha il triste effetto di ridurre all’impotenza Gesù («E lì non poteva compiere nessun prodigio»: v. 5a); al contrario della fede della donna emorroissa e del capo della sinagoga Giairo (cfr. Mc 5,21-43), che permettono a Gesù di sprigionare tutta la sua potenza salvifica, capace persino di risuscitare i morti! La fede può tutto (cfr. Mc 9,23), l’incredulità invece rende impossibile ogni opera di Dio. I gesti e i prodigi che Gesù compie sono sempre in vista della fede e in risposta a essa; per questo non ha alcun senso un miracolo fuori dall’’ambito vitale’ in cui solamente esso può avvenire.

    Tuttavia, prima di lasciare la sua città, Gesù riesce a compiere qualche guarigione (cfr. v. 5b), segno che il rifiuto non è stato totale: qualche barlume di fede si è trovato anche lì, tra i suoi compatrioti. L’insuccesso sperimentato non ferma la ‘corsa’ del vangelo: a dispetto di tutto, Gesù continua a percorrere i villaggi della Galilea portando a tutti la sua parola di vita. Anche da profeta inascoltato e disprezzato continua a diffondere con fiducia il seme del vangelo.

    Un’ultima osservazione circa la ‘parentela’ di Gesù. Già in Mc 3,33 Gesù chiedeva ai suoi ascoltatori: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Conosciamo la risposta che lo stesso Gesù da subito senza aspettare la reazione dei suoi interlocutori. Qui a Nàzaret, dove Gesù giunge con i suoi discepoli (la sua ‘nuova famiglia’), si fa ancora più acuto il contrasto tra parentela ‘carnale’ e parentela ‘di fede’. La prima non è negata, né  disprezzata, ma, ai fini della comunione con il Signore, deve sfociare nella seconda. Perché il solo legame che rende ‘familiari’ del Figlio dell’uomo è l’obbedienza della fede e l’ascolto sincero della parola di Dio.

Preghiere e racconti

Viveva di fede come noi

«Quanto avrei voluto essere sacerdote per poter predicare sulla Madonna! Una sola volta sarebbe stata sufficiente per dire tutto quello che penso a questo proposito. Prima avrei fatto capire quanto poco conosciamo la sua vita. Non occorre dire cose inverosimili o che non sappiamo; per esempio che, da piccola, a tre anni, la Madonna ha offerto se stessa a Dio nel Tempio con sentimenti ardenti di amore e del tutto straordinari ; mentre forse ci é andata semplicemente per obbedire ai suoi genitori… Perché una omelia sulla Madonna possa piacermi e farmi del bene, occorre che io veda la sua vita reale, non la sua vita supposta ; e sono certa che la sua vita reale era molto semplice. Ce la mostrano inabbordabile, mentre bisognerebbe mostracela imitabile, fare vedere le sue virtù, dire che viveva di fede come noi, dare delle prove di questo per mezzo del Vangelo in cui leggiamo : « Non compresero le sue parole » (Lc 2,50). E questa parola molto misteriosa : « I suoi genitori si stupivano delle cose che si dicevano di lui » (Lc 2,33). Questo stupirsi suppone un certo meravigliarsi, non è vero? Sappiamo bene che la Madonna è Regina del Cielo e della terra, eppure è più madre che regina, e non occorre dire a motivo delle sue prerogative, che lei eclissi la gloria di tutti i santi, come il sole al suo sorgere fa scomparire le stelle. Mio Dio! quanto questo mi appare strano! Una madre che fa scomparire la gloria dei suoi figli! Io penso tutto il contrario, ritengo che essa farà crescere molto lo splendore degli eletti. È bene parlare delle sue prerogative, ma non occorre dire soltanto questo… Forse qualche anima andrà fino al punto di sentire allora una certa lontananza con una tale creatura talmente superiore e dirà : « Se le cose stanno così, ci accontenteremo di andare a brillare in un angolino».Ciò che la Madonna aveva in più rispetto a noi, era il fatto che non poteva peccare, che era esente dalla macchia originale, ma d’altra parte, è stata meno fortunata di noi, poiché non ha avuto la Madonna da amare, e questa è una tale dolcezza per noi».

(Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), carmelitana, dottore della Chiesa, in  Ultimi colloqui, 21/08/1897). 

Secondo la fede

     Così la multiforme sapienza di Dio distribuisce la salvezza degli uomini con una molteplice e insondabile compassione e accorda il dono della sua generosità secondo la capacità di ciascuno. Per le guarigioni stesse che opera non vuole regolarsi sull’uniforme potenza della sua maestà, ma sulla fede che trova in ciascuno di noi o che egli stesso ha distribuito. L’uno crede che per essere purificato dalla lebbra basti la sola volontà di Cristo; Cristo lo guarisce con il solo assenso della sua volontà dicendo: «Lo voglio, sii guarito» (Mt 8,3). Un altro lo supplica di venire da lui e di resuscitare sua figlia imponendole le mani; entra a casa sua e gli concede l’oggetto della richiesta nella maniera sperata (cfr. Mt 9,18). Un terzo crede che la salvezza risieda nell’ordine dato con parole: «Dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito» (Mt 8,8); con il comando della sua parola restituisce alle membra illanguidite il loro vigore primitivo: «Va’ e ti sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13). Altri sperano di trovare guarigione toccando la frangia del suo vestito; egli dona loro con generosità il dono della salute (cfr. Mt 9,20). Accorda agli uni la guarigione delle loro malattie su loro richiesta, ad altri offre un rimedio spontaneo, altri li esorta alla speranza dicendo: «Vuoi essere guarito?» (Gv 5,6); porta il suo aiuto ad altri che non speravano più. Sonda i desideri degli uni, prima di soddisfare la loro volontà: «Che volete che vi faccia?» (Mt 20,32). A un altro che non sa per quale via ottenere quello che desidera, dice con bontà: «Se credi, vedrai la gloria di Dio» (Gv 11,40). Su altri effuse abbondantemente la sua potenza di guarigione al punto che l’evangelista riferendosi a essa concluse: «Egli guarì tutti i loro malati» (Mt 14,14); presso altri, però, l’abisso senza limiti dei suoi benefici venne bloccato tanto che si disse: Gesù non poteva operare nessun miracolo a causa dell’incredulità (cfr. Mc 6,5-6). E così la generosità di Dio si conforma alla capacità di fede dell’uomo, al punto di dire a uno: «Ti avvenga secondo la tua fede» (Mt 9,29); a un altro: «Va’ e ti sia fatto come hai creduto» (Mt 8,13); e a un altro: «Ti sia fatto come tu vuoi» (Mt 15,28); e a un altro ancora: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 5,34).

(GIOVANNI CASSIANO, Conferenze 13,15, SC 54, pp. 175-176).

I sepolcri imbiancati

II maestro sembrava non essere assolutamente toccato da ciò che la gente pensava di lui, pur non essendo sempre un rigorosissimo osservante. Quando i discepoli gli chiesero come avessero raggiunto questo grado di libertà interiore, egli rise forte e disse: «Fino a 20 anni non mi è importato nulla di che cosa la gente pensasse di me; dopo i 20 anni mi preoccupavo immensamente di che cosa pensassero i miei vicini; poi un giorno, dopo i 50 anni, capii improvvisamente che essi non pensavano minimamente a me».

(Racconto ebraico).

Questi è davvero il profeta

Furono riempite dodici ceste. Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale. Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi. Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo. Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede. Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi. Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: Beati quelli che non vedono e credono (Gv 20,29). Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire. Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo. Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta (Gv 6,14). […] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: Susciterò per loro un profeta simile a te (Dt 18,18). Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà. E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli. Lo stesso Signore dice di se stesso: Un profeta non riceve onore nella sua patria (Gv 4,44). Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta. Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli. Egli stesso è detto angelo del grande consiglio (cfr. Is 9,6). E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr. Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.

(AGOSTINO, Omelie sul vangelo di Giovanni 24,6-7, in Opere di sant’Agostino, pp. 564-566).

Ogni giorno è da vivere

Ogni mattina

è una giornata intera

che riceviamo dalle mani di Dio.

Dio ci dà una giornata da Lui stesso preparata per noi.

Non vi è nulla di troppo e nulla di «non abbastanza»,

nulla di indifferente e nulla di inutile.

È un capolavoro di giornata

che viene a chiederci

di essere vissuto.

Noi la guardiamo come una pagina d’agenda,

segnata d’una cifra e d’un mese.

La trattiamo alla leggera

come un foglio di carta.

Se potessimo frugare il mondo

e vedere questo giorno elaborarsi

e nascere dal fondo dei secoli,

comprenderemmo il valore di un solo giorno umano.

(M. Delbrêl).

Bramo la tua voce, o Dio

Quando mi fermo stanco sulla lunga strada

e la sete mi opprime sotto il solleone;

quando mi punge la nostalgia di sera

e lo spettro della notte copre la mia vita,

bramo la tua voce, o Dio,

sospiro la tua mano sulle spalle.

Fatico a camminare per il peso del cuore

carico dei doni che non ti ho donati.

Mi rassicuri la tua mano nella notte,

la voglio riempire di carezze,

tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore

segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(Rabindranath Tagore)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO:

XIV DOM TEMP ORD ANNO B

XIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Sapienza 1,13-15;2,23-24

Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.

 

 

Un Gesù sinceramente turbato dalla morte, specialmente dei piccoli e degli innocenti, ci suggerisce l’immagine vera di Dio Padre, anch’egli non contento della soggezione dell’uomo alla morte. Tale percezione, che ci fa accorgere che Dio è molto più solidale con noi di quanto si possa immaginare, viene ripresa con parole intense dall’autore del libro della Sapienza, il quale, alludendo in maniera più o meno esplicita ai primi tre capitoli della Genesi, si esprime così: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale» (1,13-15).

     Occorre però chiarire che l’autore di Sapienza non intende la morte puramente in senso biologico, bensì soprattutto in senso «escatologico». La morte biologica non dipende infatti da una nostra scelta. Eppure essa può segnare la completa disfatta dell’esistenza qualora la si accompagni alla «rovina», o meglio, alla perdizione, che si rivela quale diretta conseguenza di errate scelte morali: «Non provocate la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani» (1,12). Dio, dunque, ha creato tutto per il bene, come il racconto sacerdotale della creazione ci ricorda (Gen 1,31: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona»); suo obiettivo era l’affermazione della vita, dell’armonia, del benessere, perché tutto era orientato positivamente alla salvezza, come la frase «le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte» testimonia. Alla stessa umanità egli ha voluto dare piena fiducia e libertà, infatti era essa a governare, mentre il regno della morte non aveva alcun diritto di cittadinanza (2,23: «Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura»).

     Purtroppo, «la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (2,24): il diavolo, quindi, invidioso di un uomo reso da Dio immortale (ossia sempre in comunione con Dio), suo luogotenente sulla terra e felice, cerca il modo di introdurre un «cuneo» di separazione, agendo ovviamente sulla parte più debole, che è appunto l’uomo. A quest’ultimo è però possibile sottrarsi alla morte «seconda», come direbbe Francesco d’Assisi, testimoniando nella propria esistenza la vicinanza a Dio con l’operare la giustizia e il bene.

Seconda lettura: 2 Corinzi 8,7.9.13-15

Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno». 

 

Il brano paolino è, invece, un forte invito alla solidarietà e alla generosità, sulla scorta dell’esempio del Maestro Gesù Cristo: «come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (8,7.9). Paolo, infatti, era impegnato a coinvolgere tutte le comunità ecclesiali da lui fondate in una colletta a favore della chiesa-madre di Gerusalemme, che versava in condizioni poco floride. Ai corinzi, probabilmente non molto propensi a collaborare nonostante la loro migliore situazione economica, viene ricordato con discrezione che persino chi è più povero di loro (ossia le comunità della Macedonia) ha insistito per partecipare. Colpisce, però, il profondo motivo della «ricchezza» di Cristo, che nella lettera ai Filippesi Paolo esprime così: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (2.5-7). In realtà. Gesù non si è mai risparmiato per coloro che Dio Padre gli ha affidato in quanto fratelli, poiché è stato generoso e disponibile durante la sua missione e, nel momento supremo della croce, ha rivelato la ricchezza della grazia, ossia l’incommensurabile abbondanza della salvezza ponendola a disposizione di chiunque creda, senza alcuna distinzione in base all’età, al censo, alla nazionalità.

     Se quindi tale ricchezza costituisce una grazia per l’umanità, questa allora non si vede trattata in modo disuguale da Dio. Proprio per sottolineare l’«imparzialità» divina che non vuole creare sperequazioni, l’Apostolo richiama esplicitamente in 8,13-15 il caso della raccolta della manna nel deserto da parte degli ebrei: «Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: “Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno”» (precisiamo che il testo prodotto da Paolo si trova in Es 16,18 secondo la versione greca dei Settanta).

Vangelo: Marco 5,21-43

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.          

 

Esegesi 

     A conclusione della giornata delle parabole (4,1-34), il vangelo di Marco ci presenta Gesù che prosegue la sua opera di formazione dei discepoli attraverso la realizzazione di miracoli. Il primo è quello della tempesta sedata, alla fine del quale i discepoli si chiedono chi sia realmente Gesù, che domina persino le forze della natura (cf. 4,41). Segue poi la liberazione dell’indemoniato di Gerasa (5,1-20) e, infine, il brano di questa domenica. Rientra nel piano di tale formazione anche la difficoltà e l’insuccesso: in 5,17, nonostante Gesù avesse guarito un pericoloso indemoniato, i Geraseni «si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio»; in 6,1-6 si riporta che Gesù, pur trovandosi a Nazaret, la propria patria, «non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità».

     I due “casi” che la liturgia oggi ci propone, invece, costituiscono un esempio positivo della stima e dell’attenzione di cui godeva Gesù in terra di Galilea. Infatti, partito dalla sponda gadarena del lago di Tiberiade, egli si vide immediatamente circondato da molta folla appena giunse sulle rive galilaiche. Qui incontrò un uomo molto autorevole, uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo (che in ebraico significherebbe “l’illuminato”). Il vangelo ce lo presenta esplicitamente come un padre disperato: «E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva» (5,22-23).

     Possiamo immaginare la partecipazione emotiva di Gesù a questo dramma, al quale si associa la folla accompagnando fisicamente il Maestro e il padre. Al v. 25 si incastra un’altra storia, quella di una donna che ormai ha tentato in ogni modo, ma senza successo, di guarire dalla malattia che l’affliggeva: «Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando» (5,25-26). Il ragionamento della donna è lineare: il solo toccare Gesù può procurarmi la guarigione. Ed è ciò che avviene. Ci possiamo meravigliare del fatto che Gesù abbia quasi “preteso” che chi aveva ricevuto la guarigione testimo-niasse pubblicamente: non doveva egli avere fretta di recarsi a casa di Giairo? Eppure egli ha da dire qualcosa alla donna che ha nutrito una fede tanto grande: «E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (5,33-34).

     Queste parole di sollievo e liberazione in fondo servono anche a Giairo, che a sua volta riceverà un segno ancora più strepitoso. Benché infatti fosse stato annunciato che la bambina era morta, «Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!» (5,36), perché ciò che costituisce la sorte irreparabile e irrimediabile per l’uomo, per il Figlio di Dio non è un ostacolo al dispiegamento della propria potenza. La bambina viene quindi risuscitata e, con grande senso di delicatezza umana e far certificare meglio la realtà della risurrezione. Gesù «raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare» (5,43).

     In questi due segni emerge con chiarezza un elemento che potremmo definire “discriminante”, ossia la fede. In primo luogo la donna, la quale aveva ormai sperimentato ampiamente la limitatezza dei mezzi della scienza umana, incapace di guarirla ma non di impoverirla. Perciò, piena di speranza, ella fa quello che tanti altri malati prima di lei hanno fatto, secondo la stessa testimonianza di Marco: «Infatti ne aveva curati molti, così che quanti avevano qualche male gli si gettavano addosso per toccarlo» (Mc 3.10). La sua non è fiducia in eventuali virtù magiche detenute da Gesù, bensì vera e propria fede che addirittura suscita quel tremore tipico di chi ha compiuto una forte esperienza dell’ingresso di Dio nella sua vita. A Giairo, poi, viene chiesto qualcosa di autenticamente eroico: aver fede che Gesù è in grado di «risvegliare» sua figlia, per la quale era già pronto il funerale.                                            

     Gesù parla in realtà come figlio di Dio, per il quale la morte è solamente sonno; il suo scopo è rivelare ai genitori della fanciulla e ai tre apostoli, in quanto testimoni qualificati, che la mano potente di Dio, unita all’efficacia della sua parola, è in grado di restituire la vita. Perciò Gesù prende la fanciulla per mano e le dice «Talità kum», frase che i genitori suoi forse tante volte avranno adoperato per destare la propria figlia dal sonno. Quanta gioia avrà investito il cuore di Giairo e della moglie! Ma è lo sconcerto a prendere il sopravvento. Non è difficile da comprendere che anch’essi, «toccato con mano» l’intervento rivelatore e salvatore di Dio nella propria vita, siano rimasti spiazzati. Come è suo solito nel vangelo di Marco, Gesù raccomanda vivamente di non far sapere niente ad alcuno, perché questo miracolo sarebbe frainteso al di fuori del contesto che gli è proprio: la rivelazione del Figlio di Dio sulla croce.

Meditazione 

     La vita! La vita risanata, risuscitata, esaltata. Dio ama e vuole la vita. Come recita la prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Ha creato tutto per l’esistenza» (1,13-14). La vita: ecco il tema che prepotentemente emerge dalla liturgia della Parola odierna.

Nonostante le genealogie che Matteo (1,1-17) e Luca (3,23-38) riportano nei loro vangeli sembrino attribuire ai maschi la dimensione generativa, tutti sanno che è la donna a partorire. Il lungo brano evangelico, insolito per l’evangelista Marco che ci ha abituato a brevi schizzi vivaci, ci trasmette quest’oggi l’esperienza di due figure femminili: l’una fisicamente segnata dalla malattia proprio nella sua femminilità, l’altra ‘ritornata alla vita’ a dodici anni, età ‘ufficiale’ della maturità riproduttiva. Tre quadri: al centro, quasi pietra preziosa incastonata, la vicenda della donna emorroissa; ai bordi, in due tempi, la narrazione della risurrezione della figlia di Giairo.

Un primo elemento che stupisce nel nostro brano è la presenza della folla, avvolgente e pervasiva come un mantello: accompagna Gesù e i suoi discepoli nel tragitto verso la casa del capo della sinagoga, funge da inconsapevole schermo tra l’emorroissa e Gesù stesso, tenta di bloccare il cammino del maestro, ne irride le parole; non può che essere «cacciata fuori» (v. 40) ne deve essere messa a conoscenza (cfr. v. 43) di quanto successo all’interno della casa. Malgrado – o forse proprio grazie a questo tratto, per cui ognuno di noi può riconoscersi nei soggetti del racconto – delle due donne ‘protagoniste’ non venga riportato il nome, bisogna prendere posizione personalmente ed uscire allo scoperto (cfr. vv. 22-23.33), senza paura della propria storia e senza vergogna di Gesù. La relazione con il Signore non può mai essere anonima ed indistinta, non può accontentarsi di fare da spettatore esterno, dentro una folla: è chiamata ad una sequela consapevole, libera e matura.

Ma cosa può spingere una figura pubblica come Giairo ed una donna legalmente impura (cfr. Lv 15,25) a gettarsi a piedi di Gesù, dinanzi a tutti, se non un pericolo ‘mortale’, una situazione in cui la morte sta tentando di inghiottire la vita? Ne nasce allora una lotta tra la paura (cfr. vv. 33.36) e la fede, nella speranza che Gesù possa operare qualcosa e comprendere il dramma di chi lo supplica. Costoro chiedono una vicinanza ‘fisica’ ai loro cari o alla loro persona: «Vieni a imporle le mani» (v. 23), «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello» (v. 28). La guarigione, e la salvezza che ne segue, in quanto riapre ad una relazione nuova con la vita, passa attraverso un contatto. Se questa dimensione è stata assunta con serietà dalla comunità dei discepoli attraverso le forme sacramentali, non deve essere intesa magicamente, superstiziosamente: l’incontro con Gesù è anche sempre mediato dalla parola, dallo sguardo ed è tra persone, non è incontro con un oggetto o un talismano!

Gesù cerca l’incontro personale ma non ha paura di agire e di compromettersi dinanzi a tutti. Se lascia fuori dalla casa di Giairo folla e parenti in trambusto per evitare ogni possibile spettacolarizzazione del suo operato, non si lascia distogliere dall’obiezione dei discepoli (cfr. v. 31) per porre invece dinanzi alla folla la donna che ha sentito «nel suo corpo che era stata guarita da quel male» (v. 29): vuole che tutti ne attestino la guarigione, così da reintrodurla nella comunità dei ‘viventi’! Ma la lotta tra la vita e la morte non lascia attimo di requie: per una figlia risanata e riconsegnata alla vita, un’altra muore a dodici anni (cfr. vv. 34-35). Non si è ancora avuto modo di rendersi conto della meraviglia operata che – sembra di sentire l’opprimente ed incalzante serie di sciagure riportate all’inizio del libro di Giobbe (cfr. 1,16-18) – subito subentra la temuta notizia della dipartita della figlioletta di Giairo. Se Gesù è riuscito a ridare all’emorroissa la capacità di generare vita, potrà fare qualcosa anche in questa situazione limite, disperata, dove la vita sembra aver capitolato per sempre? Qualcuno suggerisce addirittura di non disturbare ulteriormente Gesù… «Soltanto abbi fede!» (v. 36). Un gesto semplice e discreto, accompagnato dalla parola più importante di tutto il vocabolario cristiano – «Alzati!» (v. 41): è il verbo della risurrezione – producono il contatto vivificante anche con questa fanciulla, riportandola letteralmente in vita.

Stare lontani da Gesù apre la strada alla morte, toccarlo con la fede strappa da ogni vincolo di morte e sveglia la vita deposta in noi. Accogliamo la testimonianza di queste donne anonime che non si lasciano morire ma sperano in colui che è «venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).

L’immagine della domenica

  

L’arte di vedere

«Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere…. A che pro, allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo, devi prendere  nota delle difficoltà del tuo cammino; finché sali, puoi vederle. Nella discesa, non  le vedrai più, ma saprai che ci sono, se le avrai osservate bene. Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto.  Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere».

 (Renè Daumal)

Contemplando los Cerros de Moral (Spagna) – 2011

 

Preghiere e racconti

Che significato ha una malattia?

Sono molti i fattori che fanno ammalare gli alberi, ancora di più quelli che debilitano gli uomini.

Quando, in un albero, la malattia va troppo in là è difficile salvarlo: marciscono le radici, si gonfia il tronco, il ricambio si interrompe e le foglie cadono private della linfa.

Quando si ammala un uomo si pensa subito a un virus o a un batterio, che probabilmente c’è, ma nessuno si chiede da dove viene, come mai si e insinuato là dentro, perché proprio oggi e non un mese fa, in quella persona e non in quell’altra che magari era molto più esposta al rischio di un contagio? Perché, a parità di cure, uno guarisce e un altro soccombe?

Basta che un fulmine sfiori la corteccia di una quercia secolare per innescarne la distruzione, in quel varco si insinuano batteri, funghi e coleotteri destinati in breve a propagarsi a discapito della sua vita.

Gli alberi da frutto diventano fragili quando perdono la verticalità: un pino può crescere anche se è piegato dal vento ma non un albicocco: è la perpendicolarità perfetta al suolo a permettergli di vivere e fruttificare.                                    

Per distruggere un uomo, per farlo ammalare, invece, cosa ci vuole? E per guarirlo? Che significato ha una malattia nel corso di una vita? Dannazione? sfortuna? o forse un’occasione improvvisa, un dono prezioso che il cielo ci offre?

(Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 129-130).

La vita umana, “prezioso scrigno da custodire e curare”

“[…] Oggi ci è data l’opportunità di riflettere sull’esperienza della malattia, del dolore, e più in generale sul senso della vita da realizzare pienamente anche quando è sofferente. Nel messaggio per l’odierna ricorrenza ho voluto porre in primo piano i bambini ammalati, che sono le creature più deboli e indifese. E’ vero! Se già si resta senza parole davanti a un adulto che soffre, che dire quando il male colpisce un piccolo innocente? Come percepire anche in situazioni così difficili l’amore misericordioso di Dio, che mai abbandona i suoi figli nella prova? Sono frequenti e talora inquietanti tali interrogativi, che in verità sul piano semplicemente umano non trovano adeguate risposte, poiché il dolore, la malattia e la morte restano, nel loro significato, insondabili per la nostra mente. Ci viene però in aiuto la luce della fede. La Parola di Dio ci svela che anche questi mali sono misteriosamente “abbracciati” dal disegno divino di salvezza; la fede ci aiuta a ritenere la vita umana bella e degna di essere vissuta in pienezza pur quando è fiaccata dal male. Dio ha creato l’uomo per la felicità e per la vita, mentre la malattia e la morte sono entrate nel mondo come conseguenza del peccato. Ma il Signore non ci ha abbandonati a noi stessi; Lui, il Padre della vita, è il medico per eccellenza dell’uomo e non cessa di chinarsi amorevolmente sull’umanità sofferente. Il Vangelo mostra Gesù che “scaccia gli spiriti con la sua parola e guarisce coloro che sono ammalati” (Mt 8, 16), indicando la strada della conversione e della fede come condizioni per ottenere la guarigione del corpo e dello spirito, è la guarigione voluta dal Signore sempre. È la guarigione, d’amore integrale, di corpo e anima, perciò scaccia gli spiriti con la parola. La sua parola è parola d’amore, parola purificatrice: scaccia gli spiriti del timore, della solitudine, dell’opposizione a Dio, perché così purifica la nostra anima e dà pace interiore. Così ci dà lo spirito dell’amore e la guarigione che comincia dall’interno. Ma Gesù non ha solo parlato: è Parola incarnata. Ha sofferto con noi, è morto. Con la sua passione e morte Egli ha assunto e trasformato fino in fondo la nostra debolezza. Ecco perché – secondo quanto ha scritto il Servo di Dio Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Salvifici doloris – “soffrire significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all’opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all’umanità in Cristo” (n. 23).

Cari fratelli e sorelle, ci rendiamo conto sempre più che la vita dell’uomo non è un bene disponibile, ma un prezioso scrigno da custodire e curare con ogni attenzione possibile, dal momento del suo inizio fino al suo ultimo e naturale compimento. La vita è mistero che di per se stesso chiede responsabilità, amore, pazienza, carità, da parte di tutti e di ciascuno. Ancor più è necessario circondare di premure e rispetto chi è ammalato e sofferente. Questo non è sempre facile; sappiamo però dove poter attingere il coraggio e la pazienza per affrontare le vicissitudini dell’esistenza terrena, in particolare le malattie e ogni genere di sofferenza. Per noi cristiani è in Cristo che si trova la risposta all’enigma del dolore e della morte. La partecipazione alla Santa Messa, come voi avete appena fatto, ci immerge nel mistero della sua morte e della sua risurrezione. Ogni Celebrazione eucaristica è il memoriale perenne di Cristo crocifisso e risorto, che ha sconfitto il potere del male con l’onnipotenza del suo amore. E’ dunque alla “scuola” del Cristo eucaristico che ci è dato di imparare ad amare la vita sempre e ad accettare la nostra apparente impotenza davanti alla malattia e alla morte […]”.

(Benedetto XVI, Intervento in occasione della Giornata Mondiale del Malato, 11.02.2009).

 

Per Dio la morte è un sonno

     Ogni testo del vangelo ci è molto utile sia per la vita presente che per la futura, ma il testo di oggi ancora di più perché contiene la totalità della nostra speranza e bandisce ogni motivo di disperazione. […] Ma parliamo del capo della sinagoga che, mentre conduce Cristo presso sua figlia, offre a una donna l’occasione di venire a Gesù. Così comincia la lettura di questo giorno: «Ecco che un capo si avvicinò, si prosternò davanti a Gesù dicendo: “Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà”» (Mt 9,18). Cristo conosceva l’avvenire e non ignorava che questa donna le sarebbe venuta incontro. È lei che farà capire al capo dei giudei che Dio non ha bisogno di spostarsi, che non è necessario mostrargli il cammino né sollecitare la sua presenza fisica. Bisogna credere, invece, che Dio è presente ovunque, con tutto il suo essere, sempre; e ancora che lui può fare tutto senza fatica, donando un ordine, che invia la sua potenza senza trasportarla, che mette in fuga la morte con un ordine senza muovere la mano, che rende la vita per sua decisione, senza far ricorso alla medicina.

     «Mia figlia è morta proprio ora, ma vieni». Questo significa: «Il suo corpo conserva ancora il calore della vita, vi sono ancora dei segni della sua anima, il suo spirito non l’ha ancora lasciata. La famiglia ha ancora la figlia, il regno dei morti non la riconosce ancora come sua. Vieni presto a trattenere la sua anima pronta a partire».

     Insensato! Non credeva che Cristo poteva resuscitare una morta, ma soltanto trattenerla. Così, come Cristo giunse nella casa e vide che la gente piangeva la fanciulla come una morta, volle condurre alla fede i loro cuori increduli e disse che la figlia del capo dormiva, non era morta poiché essi pensavano che risorgere dai morti non fosse più facile che levarsi dal sonno. «La fanciulla non è morta, ma dorme» (Mt 9,23). E, in verità, per Dio la morte è un sonno. […] Ascolta ciò che dice l’Apostolo: «All’istante, in un batter d’occhio i morti resusciteranno» (2Cor 15,52).

(PIETRO CRISOLOGO, Discorso 34,1.5, CCL 24, pp. 193.197-199).

Cerca qualcuno che ti faccia sorridere

Quando la porta della felicità si chiude,

un’altra si apre, ma tante volte guardiamo

così a lungo a quella chiusa,

che non vediamo quella che è stata aperta per noi.

Cerca qualcuno che ti faccia sorridere

perché ci vuole solo un sorriso

per far sembrare brillante una giornataccia.

Trova quello che fa sorridere il tuo cuore.

L’amore comincia con un sorriso.

Quando sei nato, piangevi

e tutti intorno a te sorridevano.

Vivi la vita in modo che quando morirai,

tu sia l’unico che sorride

e tutti intorno a te piangano.

(Paulo Coelho). 

«Sei un pellegrino in viaggio, ma prova a goderti il viaggio»

Una mia ex-studentessa, una ragazza tranquilla e riservata, venne a trovarmi. Chiacchierammo per un po’, quindi le domandai se stava utilizzando il suo diploma di infermiera. «No», rispose. «Vede, sto morendo. Ho la leucemia e sono in fase terminale». Naturalmente, rimasi senza fiato. Quando mi ripresi dall’emozione, chiesi a Betty che cosa provasse: «Che cosa si prova a ventiquattro anni, quando pensi che hai davanti tutta la vita e all’improvviso ti metti a contare i giorni che ti restano?». Col suo solito atteggiamento riservato e sereno, mi rispose: «Forse non riuscirò a spiegarmi, ma questi sono i giorni più felici della mia vita. Quando pensi di avere tanti anni davanti è facile rimandare le cose. Uno dice a se stesso: «Mi fermerò e annuserò il profumo dei fiori la prossima primavera». Ma quando sai che i giorni della tua vita sono limitati, ti fermi ad annusare il profumo dei fiori e a sentire il calore dei raggi solari proprio oggi. A causa della malattia di cui soffro, ho subìto numerosi prelievi del midollo spinale. E’ un procedimento doloroso, ma il mio ragazzo mi stava vicino e mi teneva la mano. Credo che fossi più consapevole del conforto della sua mano nella mia che dell’ago inserito nel mio midollo spinale».

Parlammo a lungo della morte e delle prospettive che essa apre. Avevo sempre sentito dire che non si potrebbe vivere in pienezza se non si sapesse che la vita un giorno o l’altro finirà. Betty mi aiutò a capire questa verità. Adesso è morta, la leucemia se l’ è presa. Grazie a lei ho capito che è indispensabile godere di tutte le cose buone di questa vita. Era come se Dio mi stesse dicendo attraverso di lei: «Sei un pellegrino in viaggio, ma prova a goderti il viaggio».

(John Powell, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 41997, 134-135).

La vita eterna  che cos’è?

«Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo.

Continuare a vivere in eterno  senza fine  appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine –  questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile.

È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: “È vero che la morte non faceva  parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio […] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non illumina la grazia”. Già prima Ambrogio aveva detto: “Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza…”».

(BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, 24-25).

Signore, fa di me uno strumento della tua pace,

Signore, fa di me uno strumento della tua pace,

dove c’ è l’odio che io porti l’amore,

dove c’è l’offesa che io porti il perdono,

dove c’ è la discordia che io porti l’unione,

dove c’ è l’errore che io porti la verità,

dove c’ è il dubbio che io porti la fede,

dove c’ è la disperazione che io porti la speranza,

dove c’ è il buio che io porti la luce,

dove c’ è la tristezza che io porti la gioia.

Fa’, o Signore, che io non cerchi tanto

di essere consolato quanto di consolare,

di essere compreso quanto di comprendere,

di essere amato quanto di amare.

Perché è dimenticando se stesso che ci si trova,

è morendo che si risuscita

alla vita eterna”.

(Preghiera Semplice, attribuita a S. Francesco).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

XIII DOM TEMP ORD ANNO B

XII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Giobbe 38,1.8-11

Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?»                 

 

Il libro di Giobbe può essere diviso in tre parti. La prima parte (1-2) introduce i personaggi; la seconda parte (3-42,6) contiene il dialogo tra gli attori nel quale viene esposto il grande problema della sofferenza del giusto; la terza parte (42,7-17) riferisce la sentenza di Dio al termine dell’azione.

     Il brano della lettura si trova nella seconda parte, ed è costituito dall’inizio del primo discorso di Dio, il quale proclama la sua onnipotenza e trascendenza con queste parole in mezzo al turbine: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?» (Gb 38,1.8-11). Per comprendere questo testo occorre avere presente il contenuto dell’azione precedente. Giobbe, uomo giusto, viene colpito dalla sventura; dapprima è colpito nei beni e nei figli, poi nella sua stessa carne, con una malattia dolorosa e ripugnante. Egli rimane sottomesso a Dio. Tre suoi amici vengono a consolarlo. Dapprima si tratta di una conversazione a quattro; in tre cicli di discorsi Giobbe e gli amici confrontano le loro concezioni riguardo alla giustizia divina. I tre amici difendono la tesi della retribuzione terrena; se Giobbe soffre, ciò vuol dire che egli ha peccato; e se anche egli è giusto ai propri occhi, non lo è agli occhi di Dio. Giobbe sostiene la propria innocenza e gli altri si irrigidiscono nelle loro posizioni.

     Ad essi Giobbe contrappone la propria esperienza dolorosa e la ingiustizia di cui il mondo è pieno. Egli si scontra con il mistero di Dio il quale permette che il giusto sia afflitto. Giobbe alterna momenti di sottomissione a Dio a momenti di protesta della sua innocenza. In questo movimento entra in scena Dio stesso «in mezzo al turbine», cioè nello scenario delle teofanie. Dio riprende Giobbe o meglio, Dio rifiuta di dare risposta alle domande di Giobbe perché l’uomo non ha diritto di mettere Dio sotto inchiesta in quanto Dio è l’infinitamente sapiente e l’onnipotente che non può essere misurato dalla debolezza dell’intelligenza e dalle sue categorie di giustizia. Giobbe riconosce di avere parlato da insipiente e dà ragione a Dio. Il brano della lettura sta nell’inizio dell’intervento di Dio. In esso Dio espone la sua attività creatrice, nella quale si esplica l’infinita sapienza e l’onnipotenza. Di fronte all’opera di Dio non si può che ammirarne la bellezza e grandezza. L’onnipotenza di Dio viene esaltata attraverso la rievocazione della creazione del mare; il mare è una creatura che esprime essa stessa una immensa potenza, ma Dio ha posto dei limiti precisi alla potenza del mare e il mare non può trasgredirli. Questa descrizione esaltante della signoria divina incute riverenza, timore, sottomissione, che sono atteggiamenti non soltanto della volontà ma anche dell’intelligenza.

     L’uomo moderno ha esplorato con grande acume e capacità la creazione, lo spazio, l’universo, ha scandagliato le profondità del mare e ha cercato di spiegare i segreti del cosmo. Il vero saggio, tuttavia, pur avendo raggiunto una tale conoscenza del mondo e capacità di dominarlo, non ne prova orgoglio, al contrario si sente piccolo e sempre superato dai feno-meni della natura e sa di essere ancora impotente di fronte a tanti suoi segreti. Nasce spontanea la domanda: se la creazione è così inesauribile e inafferrabile nella moltitudine e profondità dei suoi segreti, che cosa sarà il Creatore?

Seconda lettura: 2 Corinzi 5,14-17

Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.

 

 

Il passo della lettura si trova nella prima parte della epistola in continuazione con il testo della precedente domenica. San Paolo parla dell’amore di Cristo e della conoscenza di Cristo: «L’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,14-17). La prima affermazione: Cristo è morto per tutti, rivela che Gesù ha compiuto il sacrificio in nome di tutti come capo che rappresenta l’intera umanità. Ciò che ha valore davanti a Dio in questa morte è l’obbedienza di amore che manifesta il sacrificio di una vita interamente donata a Dio. Dice san Paolo di Gesù ai Filippesi: «Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato» (Fil 2,8-9) e ancora ai Romani: «Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19). I fedeli, resi partecipi di questa morte di Gesù con il sacramento del battesimo che li immerge in essa, devono ratificare questa oblazione del Cristo con la loro vita, devono attuare ciò che dice san Paolo nella presente lettura subito dopo: quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per lui che è morto ed è risuscitato per loro (2 Cor 5,15). Poi l’apostolo viene al tema della conoscenza di Cristo: «se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così» (2 Cor 5,16). Paolo non dice che ha conosciuto personalmente Gesù di Nazaret, afferma che tutti, anche quelli che hanno potuto conoscerlo, devono rinunciare a dare importanza alla affinità carnale con Gesù, alla conoscenza di lui secondo la carne: legame di parentela, legame di consuetudine familiare e di nazionalità. Conclude scrivendo: «se uno è in Cristo, è una nuova creatura» (2 Cor 5,17). Dio che aveva creato tutte le cose per il Cristo, ha restaurato la sua opera, sconvolta dal peccato, ricreandola nel Cristo. Il centro di questa nuova creazione che interessa tutto l’universo, è l’uomo nuovo, che è stato creato nel Cristo, per una vita nuova di giustizia e di santità: «Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4). Perciò: «Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,23-24). Così l’uomo nuovo, ricreato nel Cristo, che è l’immagine di Dio ritrova la rettitudine primitiva nella quale aveva avuto origine e giunge alla pienezza della imitazione di Gesù e quindi alla pratica della esistenza morale.

Vangelo: Marco 4,35-41

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».          

 

Esegesi 

     Il tratto della lettura nella prima parte del vangelo di Marco, ove è descritto il ministero di Gesù nella Galilea. Racconta il prodigio della tempesta sedata con lo stile caratteristico di Marco: «In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» (Mc 4,35-41). Il racconto del vangelo sulla tempesta nel lago sedata da Gesù culmina nel tema della fede e mostra Gesù nella sua potestà sulla natura e sui suoi elementi. L’episodio evoca, nei confronti di Gesù, ciò che nella Scrittura è detto di Dio nei riguardi della natura: «Tu fai tacere il fragore del mare, il fragore dei suoi flutti» (Sl 65,8). «Tu domini l’orgoglio dei mari, tu plachi il tumulto dei suoi flutti» (Sl 89,10). «Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare, si rallegrarono nel vedere la bonaccia, egli li condusse al porto sospirato» (Sl 107, 29-30).

     Tale è l’acclamazione finale nell’episodio evangelico; a Gesù anche il vento e il mare obbediscono; la sua potenza è come quella di Dio sulla natura. Gesù nelle parole rivolte ai suoi discepoli sottolinea la necessità della fede: «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40). La fede che Gesù richiede fin dall’inizio della sua attività: «Credete» (Mc 1,15) e che richiederà incessantemente è un movimento di fiducia e di abbandono per il quale l’uomo credente rinuncia a fare affidamento sui propri pensieri e sulle proprie forze per rimettersi alle parole e alla potenza di colui nel quale crede. Gesù richiede la fede particolarmente in occasione dei miracoli. Al centurione che gli chiedeva di guarire il suo servo dice, dopo averne ammirato la fede: «Vai e sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13). Alla donna che pativa flusso di sangue, dice: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha guarito» (Mt 9,22). Ai ciechi che gli chiedono: «Figlio di Davide abbi pietà di noi» (Mt 9,27) Gesù dice: «Credete voi che io possa fare questo? Gli risposero: Sì, Signore. Allora toccò loro gli occhi e disse: sia fatto a voi secondo la vostra fede. E si aprirono loro gli occhi» (Mt 9,27-30). In tale modo i miracoli sono atti che offrono il segno della missione di Gesù e il segno della presenza del regno dei cieli. Gesù non può compiere miracoli se non trova la fede che deve dare ad essi il loro vero significato; a Nazaret, infatti, «non fece molti miracoli a causa della loro incredulità» (Mc 13,58). Esigendo un sacrificio dell’intelligenza e della volontà e di tutto l’essere, la fede è un atto non facile di umiltà che molti rifiutano di compiere, particolarmente in Israele, o lo compiono solo in modo imperfetto, come il padre dell’epilettico indemoniato, il quale dopo avere chiesto a Gesù la guarigione del figlio e avere ascoltato da Gesù: «Tutto è possibile a chi crede» (Mc 9,23) dice: «Credo, aiutami nella mia incredulità» (Mc 9,24). I discepoli stessi di Gesù, che pure gli aderiscono di cuore, mostrano le difficoltà della fede perché sono lenti a credere e sono spesso rimproverati da Gesù per la loro poca fede; nell’episodio raccontato nella lettura Gesù dice: «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40). Quando è forte la fede opera meraviglie: «Se avete fede pari a un granellino di senapa potrete dire a questo monte: spostati di qua e là, ed esso si sposterà e niente vi sarà impossibile» (Mt 17,20). «Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e se berranno qualche veleno non recherà loro danno» (Mc 16,17). L’episodio evangelico della tempesta sedata, attraverso il rimprovero di Gesù ai suoi sulla pochezza della loro fede è un richiamo all’esigenza della fede e della fiducia in Gesù nella vita cristiana come caratteristica che la distingue e che ne costituisce la specificità nel mondo in mezzo agli uomini.

L’immagine della domenica

 Laudato si’

Laudato si’,

mi’ Signore,

per sor’aqua,

 la quale è multo utile

et humile

et pretiosa

et casta.

(Dal Cantico delle Creature)

 Meditazione 

      Il racconto della ‘tempesta sedata’ nella versione di Marco 4,35-41 (la narrazione è presente anche in Mt 8,18.23-27 e Lc 8,22-25) è al centro della liturgia della Parola di questa domenica.

Ed è un racconto ricco di risonanze simboliche che rimandano chiaramente all’immaginario culturale e religioso biblico e che fanno da sottofondo a una narrazione segnata da significativi contrasti, interrogativi aperti, reazioni opposte. Da una parte Marco evidenzia la signoria di Gesù che trasmette una sovrumana tranquillità interiore, espressione di quella capacità di valutare la portata degli eventi, senza lasciarsi travolgere da essi in quanto si conosce il senso di ciò che sta accadendo. Dall’altra, di fronte a questa forza e serenità di Gesù che, singolarmente assume l’espressione simbolica del sonno (interpretata dai discepoli come una sorta di disinteresse: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?»: v. 38), c’è lo smarrimento dei Dodici su cui incombe l’esperienza della morte e che significativamente passa dalla paura al timore. Anche la natura sembra entrare in questo gioco di contrasti, quasi ad esprimere esteriormente ciò che i discepoli stanno vivendo nel loro cuore: Marco ci descrive lo spettacolo di una natura che scatena tutta la sua forza bruta, diventando incontrollabile e minacciosa, e lo spettacolo di una natura che rivela armonia e pace. Ed è un passaggio segnato da una parola e da un gesto che Gesù compie come risposta all’angosciata preghiera dei discepoli e che suscita un interrogativo finale: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mari gli obbediscono?» (v. 41). La dinamica di questo racconto ci suggerisce allora alcune sottolineature.

Anzitutto notiamo che un elemento simbolico e reale allo stesso tempo, emerge come sottofondo biblico di tutto il racconto. Ed è quello del mare. Secondo il linguaggio che caratterizza molti testi del Primo Testamento, l’immagine del mare, caratterizzata dalla superficie instabile delle acque e dai fenomeni minacciosi e imprevedibili della tempesta, rappresenta una potenza misteriosa e oscura, una forza non domabile dall’uomo. È l’esperienza dei naviganti descritta nel Salmo 106, i cui versetti 23-31 compongono il salmo responsoriale: travolti dalla tempesta su di un mare minaccioso, coloro «che commerciavano su grandi acque… si sentivano venir meno nel pericolo, ondeggiavano e barcollavano… tutta la loro abilità era svanita». Di fronte al pericolo minaccioso e alla morte che incombe, l’uomo non ha potere, perde la sua abilità. E appunto la reazione istintiva, connotata dalla paura della morte, che caratterizza anche i discepoli di fronte a quella «grande tempesta di vento» e a quelle «onde che si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena» (v. 37).

Secondo la Scrittura, solo Dio ha la forza di dominare questo spazio misterioso e pieno di incognite, perché solo Dio conosce i limiti entro cui questo simbolico luogo di morte può esercitare il suo potere. Così il Signore dice a Giobbe: «Chi ha chiuso fra due porte il mare?… gli ho fissato un limite… dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde”» (Gb 38,8-11). Il gesto di Dio che pone le acque dentro un spazio ben delimitato è il gesto della creazione (cfr. Gen 1,9-10). Ma Dio ha anche potere di piegare il mare e la sua forza bruta mettendolo a servizio del suo disegno di salvezza: il mare può diventare un cammino di liberazione, una strada sicura per il popolo di Dio (il passaggio attraverso il mar Rosso narrato in Es 14). La straordinaria ricchezza di queste immagini bibliche è come condensata nel gesto e nella parole di Gesù; proprio in quel Gesù, che Marco ci presenta anche molto umano, stanco, affaticato e per questo addormentato, si rivela la potenza di Dio. Gesù assume così i tratti del Kyrios, il Signore della creazione e dell’esodo.

Vediamo che Gesù, svegliato e quasi rimproverato dai discepoli terrorizzati (v. 38), «si destò». Questo movimento segna il passaggio dal sonno all’atteggiamento di colui che veglia ed è ben presente a se stesso e agli eventi che lo circondano; ma indica anche il passaggio da una situazione oscura e pericolosa segnata dalla morte incombente, alla vita (abbiamo qui una allusione alla dinamica pasquale). Ma significativa è anche la parola che Gesù pronuncia sul mare sconvolto dalla tempesta: «minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”» (v. 39). Gesù ha l’ultima parola sul creato, sulla storia, su tutte le forze che la compongono e che la minacciano, perché tutto il creato e ogni evento dipendono da quella parola, in quanto solo essa ha la forza di creare e di rivelare il logos di tutto. Ecco perché a quella Parola «anche il vento e il mari gli obbediscono».

Se tutta la scena con il suo straordinario dinamismo ha la forza di rivelare l’identità di Gesù, essa permette anche di sottolineare l’atteggiamento del discepolo di fronte a questo volto che si rivela. Diventa allora fondamentale l’interrogativo con cui si chiude l’episodio: «Chi è dunque costui?» (v. 41). A un certo punto Gesù domanderà ai discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29; la domanda che è posta da Marco al centro del cammino del discepolo). L’interrogativo pieno di stupore e di timore con cui si conclude il racconto della ‘tempesta sedata’ è come un avvio a questa consapevolezza che il discepolo deve maturare a riguardo della identità di Gesù. Ed è una consapevolezza che mette in gioco la fede. Ecco allora una altro interrogativo che Gesù stesso pone e a cui il discepolo deve dare una risposta proprio a partire da ciò che ha vissuto: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). Nei discepoli c’è fede, perché prendono con loro Gesù «così com’era, sulla barca» (v. 39). C’è fede perché nel pericolo si accostano a Gesù e lo supplicano: «Maestro…». Ma manca in loro ancora fede, c’è un cammino ancora da compiere, devono ancora comprendere molto di Gesù. E soprattutto il salto di qualità da compiere, proprio a partire dalla esperienza vissuta, è quello che permette di passare dalla paura ad una abbandono totale nelle mani di Gesù, quel Gesù che li ha «scelti perché stessero con lui» (Mc 3,14), quel Gesù che, pur addormentato e apparentemente assente, conosce il cammino da seguire. La fede dei discepoli deve compiere un salto; deve, simbolicamente, passare all’altra riva. E proprio l’atteggiamento che suscita la domanda finale, segna l’inizio di questo passaggio. Alla fine il discepolo non ha più paura, ma ha timore, è il timore di fronte alla grandezza e alla potenza di un Dio che può veramente calmare il mare agitato delle vicende umane, un Dio che si prende cura della fragilità e della paure dell’uomo per educarlo alla fede in Lui. Forse il discepolo ha sempre bisogno di sentirsi rivolgere questa domanda da Gesù: Non avete ancora fede? Solo così il discepolo può camminare dietro a Gesù e comprender che la sua fede in lui deve incessantemente compiere altri passi, passare attraverso mari in tempesta, sperimentare pace e calma ed essere sempre accompagnata dall’interrogativo: Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?

 

Preghiere e racconti

L’inquietudine della notte della fede

Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora. Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre. Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.

Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.

Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo. Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi. Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza. Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66).

Cristo comandò al mare e si fece una grande bonaccia

Anche il sonno di Cristo è un segno esteriore di una realtà nascosta. Sono come dei naviganti quelli che fanno la traversata di questa vita su di un’imbarcazione. Anche quella barca era figura della chiesa. E ogni persona è tempio di Dio, naviga nel proprio cuore e non fa naufragio, se prova buoni sentimenti. Se hai udito un’offesa, è come il vento; sei adirato? Ecco la tempesta. Se soffia il vento e giunge la tempesta, corre pericolo la nave, corre pericolo il tuo cuore ed è agitato. All’udire l’offesa, desideri vendicarti; ecco, ti sei vendicato e, godendo del male altrui, hai fatto naufragio. E perché? Perché Cristo in te dorme. Che cosa significa: «In te Cristo dorme»? Che ti sei dimenticato di Cristo. Risveglia dunque Cristo, ricordati di Cristo, sia desto in te Cristo, considera lui. Che cosa volevi? Volevi vendicarti. Ti eri dimenticato che egli, essendo crocifisso, disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,24). Egli che dormiva nel tuo cuore non volle vendicarsi. Sveglialo e ricordalo. Il ricordo di lui è la sua parola, il ricordo di lui è il suo comando. Se in te è desto Cristo, tu dirai tra te e te: «Che razza di uomo sono io che mi voglio vendicare? Chi sono io, che mi permetto di minacciare un altro? Forse morrò prima di vendicarmi. E quando ansante, infiammato di collera e assetato di vendetta, uscirò da questo corpo, non mi accoglierà Colui che non volle vendicarsi, non mi accoglierà colui che disse: «Date e vi sarà dato, perdonate e vi sarà perdonato» (Lc 6,37-38). Frenerò allora la mia collera e tornerò alla pace del mio cuore». Cristo comandò al mare e si fece una grande bonaccia.

In tutte le altre vostre tentazioni attenetevi a ciò che ho detto riguardo all’ira. Quando sorge una tentazione, è come il vento; tu sei agitato, c’è la tempesta. Sveglia Cristo affinché parli con te. […] Imita i venti e il mare: ubbidisci al Creatore!

(AGOSTINO, Discorso 63,1-3, NBA XXX/1, pp. 284-286).

Come si fa ad avere fede?

«Un giorno, durante un acquazzone improvviso, ci riparammo nell’ingresso di una grotta. “Come si fa ad avere fede? gli chiesi là dentro”. “Non si fa, viene”. Lei ce l’ha già ma il suo orgoglio le impedisce di ammetterlo, si pone troppe domande, dov’è semplice complica. In realtà ha soltanto una paura tremenda. Si lasci andare e ciò che ha da venire verrà».

(Susana Tamaro, Va dove ti porta il cuore, Rizzoli, p. 148).

Il dubbio che porta al tramonto

Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione. Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.

Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa. Ben presto fu buio.

La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna, sicché non si poteva vedere assolutamente nulla. Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.

Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa. Nella caduta, l’alpinista poteva  appena vedere  delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità. Continuava a cadere… e in quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.

Rifletteva, ormai vicino alla morte. D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.

In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare:

”Dio mio, aiutami!”

Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò:

”Cosa vuoi che io faccia?”

“Mio Dio, salvami!”

“Credi realmente che io possa salvarti?”

“Sì, mio Signore. Lo credo”

Allora, recidi la corda che ti sostiene!”

Ci fu un momento di silenzio;

poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla corda.

Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che  l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda…  A soli due metri dal suolo…

La vita è un atto di fede

Ho appreso che la ricerca di Dio è una Notte Buia. E che anche la Fede è una Notte Buia. Di certo, non può dirsi una sorpresa. Per l’uomo, ogni giorno è una Notte Buia. Nessuno sa che cosa accadrà nell’istante successivo, eppure tutti vanno avanti. Perché ‘confidano’. Perché hanno Fede. […] Ogni momento della vita è un atto di fede.

(Paulo COELO, Brida, Bompiani, Milano, 2008, 31).

Racconto

In un paese c’ era un incrocio con tre strade: verso il mare, verso la città, verso nessuna parte.

Giovanna domanda, ma dove porta la strada «verso nessuna parte»..? Tutti i saggi del paese dicono che è pericoloso, che nessuno ha fatto mai questa strada, che non si torna più….Nonostante, Giovanna un giorno si decide a percorrere quella strada pericolosa…valli, montagne…alla fine trova un cane….il cane porta Giovanna ad una casa dove abita una fata misteriosa che dice: da tanto tempo aspettavo una visita…..guarda la mia casa e prendi l’oro che vuoi…..Cosi fece Giovanna….quando tornò al paese tutti aspettavano….vedendo l’oro che portava Giovanna tutti si affrettarono a percorrere la strada che ‘porta da nessuna parte’….Non trovarono nulla. Arrabbiati tornano da Giovanna: “sei una imbrogliona….bugiarda…”. Non, ma soltanto che per avere l’oro si deve percorrere la strada che porta verso nessuna parte.

 

Preghiera

Aiutami a fare silenzio, Signore,

voglio ascoltare la tua voce.

Prendi la mia mano,

guidami nel deserto,

per incontrarci soli, Tu e io.

Ho bisogno di contemplare il tuo volto,

ho bisogno del calore della tua voce,

di camminare insieme…

di tacere, perché possa parlare tu.

Mi metto nelle tue mani,

voglio guardare la mia vita,

scoprire ciò che deve cambiare,

rendere più saldo ciò che va bene,

sorprendermi per le novità che mi chiedi.

Aiutami a lasciar da parte la carriera,

le preoccupazioni che riempiono la testa,

blocca i miei dubbi e le mie insicurezze,

aiutami ad archiviare le mie risposte prefabbricate.

Voglio condividere con te la mia vita

e verificarla accanto a te.

Vedere dove “preme forte e sicura la scarpa”

per operare il cambio.

Portami nel deserto, Signore,

liberami da ciò che mi lega,

scuoti le mie certezze

e metti alla prova il mio amore.

Per incominciare nuovamente,

umile, semplice,

con la forza dello Spirito,

a vivere fedele a Te.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XII DOM TEMP ORD ANNO B

XI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Ezechiele 17,22-24

Così dice il Signore Dio: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò».

 

Questo brano dallo stile poetico conclude un oracolo di minaccia rivolto contro il re Sedecia (598-587 a.C.), re di Giuda e di Gerusalemme, oracolo che risale probabilmente a epoca anteriore al 589 e spiega il motivo per cui il re, avendo infranto il suo patto, ha fatto «bancarotta», totale fallimento nella sua politica. Ma di fatto la minaccia (17,1-21) si risolve in una prospettiva di salvezza: l’una e l’altra si corrispondono simmetricamente, come immagini speculari.

Parola di minaccia e parola di salvezza sono presentate tramite un’allegoria: l’immagine dell’albero. Simbolo antichissimo quello dell’al­bero: esso rappresenta il mondo (albero del mondo), le divinità (piante verdi sulle alture cultuali condannate dai profeti), la vita (vedi l’albero della vita in Gen 2), l’uomo stesso («albero piantato lungo corsi d’acque», Sal 1,3: Ger 17), il re (Dan 4), il potere (Gdc 9,7-13; 2 Re 14,9), ecc.

Nella parola di salvezza, il Signore si comporta come un contadino o giardiniere: dalla cima di un albero molto vecchio (un cedro che sim­boleggia la dinastia di Davide) coglie un ramoscello e lo innesta su una pianta più giovane. Dio «giardiniere» è immagine del Dio creatore («piantò un giardino in Eden», Gen 2,8). L’allegoria esprime così la realtà della fine e della continuità: fine, in quanto l’antica dinastia non ci sarà più; continuità, in quanto essa sopravvivrà, anche se sotto altra forma, nel nuovo virgulto.

Il cedro si trova su di un alto monte, vale a dire — al tempo stesso — il mondo ed il colle di Sion, stagliandosi al di sopra di tutti gli altri alberi, nel senso che è più grande e nobile di tutte le altre famiglie regali del mondo (vv. 22-24).

Questo albero inoltre avrà dimensioni tali, da offrire spazio vitale («ombra») e alimento a molti altri esseri viventi (v. 23 ). È un bel tratto allegorico, che ritroveremo nel vangelo odierno, lì dove il Regno di Dio è paragonato al grande albero annunciato nella parola di salvezza del profeta Ezechiele.

Seconda lettura: 2Corinzi 5,6-1 

Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi. Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.

 

Questa lettura ha grande importanza riguardo all’esistenza cristiana, in quanto espone il rapporto tra questa vita temporale e la vita eterna presso Dio.

— Lungi dal nostro Signore e Redentore, siamo come non «a casa» (v. 6). È il famoso tema di questa vita come esilio. Non siamo ancora nella nostra esistenza vera, piena, quella che ci conviene del tutto. Segno di ciò è la morte: un giorno dovremo lasciare questa dimora provvisoria e partire, metterci in viaggio per quella eterna. Questa situazione di esilio però non ci angoscia, ma la viviamo nella fiducia del Redentore (vv. 6-8).

— Noi adesso viviamo nella fede, non nell’evidenza della visione (v.7). Il divario e la tensione tra il credere adesso e giungere allora alla visione presso Dio (v. 7) sono fondamentali sia per Paolo che per noi.

Siamo ancora in cammino verso la visione! Siamo orientati e guidati da un anelito verso la visione di Dio (v. 8). Il «vedere Dio» sarà come un abitare, un «essere a casa»: lì noi saremo completamente noi stessi, senza alcuna alienazione.

— Finché ci troviamo in questo stato, siamo responsabili davanti al Cristo (vv. 9-10), giacché dovremo rendere conto della nostra vita vissuta nel tempo. Paolo ci mostra come azione e contemplazione sono tra loro indissociabili: proprio perché ci prepariamo alla visione finale di Dio, il nostro agire quaggiù sulla terra assume un grande peso. Accederemo infatti alla presenza di Dio come coloro i quali avranno vissuto la loro vita sulla terra in conformità o in contrasto col Cristo.

Vangelo: Marco 4,26-34

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

 

 

Esegesi

Fino al cap. 3, il vangelo di Marco mostra principalmente gli spostamenti continui di Gesù, caratterizzati dall’annuncio del regno di Dio (1,15) e dai molteplici prodigi che ne danno conferma. Questo ministero itinerante culmina con la dichiarazione di Gesù relativa ai suoi «parenti»: «Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre» (3,35).

Nel cap. 4 è come se Gesù si fermasse, e facesse il punto sulla sorte del suo annuncio accolto dai discepoli e dalla gente. Su questo tema vertono le parabole del seminatore (4,1-9) con relativa spiegazione ai discepoli (vv. 13-20), e due parabole del regno, che ne descrivono il misterioso dinamismo: il seme che cresce da solo (vv. 26-29) ed il grano di senape (vv. 30-34). Il vangelo odierno comprende appunto queste due ultime parabole.

a) Nella prima parabola (contenuta soltanto nel vangelo di Marco) il significato centrale è costituito dal punto più impressionante, ossia dal contrasto tra la crescita incessante del piccolo seme nella terra e l’attesa «inerte» da parte dell’uomo. Ma occorre evidenziare due elementi: primo, attesa inattiva e ignara dell’uomo («come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa…», v. 26) non vuole inculcare apatia e disinteresse, ma sottolineare semplicemente la verità che la crescita del seme è dono di Dio, frutto della sua grazia, perciò non dipende dall’uomo; secondo, il riferimento alla mietitura (v. 29) evidenzia che, come per il seminatore è certo il tempo della raccolta , così Dio con certezza farà arrivare, alla fine del mondo, l’ora della pienezza del suo regno. L’avvenuto inizio rimanda con sicurezza da un compimento, progettato da Dio e non dall’uomo.

b) Quanto alla seconda parabola (presente anche in Matteo e Luca), essa fa perno su di un altro sorprendente contrasto: il divario tra l’inizio estremamente minuscolo (proverbiale piccolezza del granello di senapa) la crescita enorme ed inattesa dello stesso, al punto da offrire nutrimento ed ombra anche a molti uccelli. Così come è espressa, la parabola potrebbe significare o che la sovranità di Gesù (inizialmente nascosta e limitata a pochi) si estenderà ad un orizzonte che abbraccia tutti gli uomini, oppure che l’attuale sparuto gruppo di discepoli alla fine dei tempi, per la potenza di Dio, si ingrandirà al punto da accogliere tutta quanta l’umanità. Anche qui l’accento cade sul fatto che i risultati non dipendono né dall’impegno né dalle capacità degli uomini, ma in definitiva sono frutto della potenza di Dio.

L’immagine della domenica

 

 Semina

Getta i semi

nella terra il contadino,

poi si riposa

e guarda tutto intorno;

guarda il campo,

la casa e il mulino,

pensa che i semi

saran pane un giorno.

(C. Del Soldato)

Campo di grano – Pieve Torina (MC) – Italia – 2008

 

 Meditazione 

Ezechiele parla dell’azione di Dio con linguaggio allegorico e Marco parla del Regno di Dio con linguaggio parabolico. L’azione di Dio può essere detta, o meglio, evocata, mediante un linguaggio che par­la di inizi modesti, anzi, pressoché invisibili, ma destinati a uno svi­luppo futuro rigoglioso e grandioso.

«Come rassomiglieremo il Regno di Dio? O In quale parabola lo metteremo?». Così, letteralmente, dice Mc 4,30. Ovvero, come parla­re del Regno di Dio? Che linguaggio adottare per annunciare il Vangelo? Gesù utilizza un linguaggio parabolico, sapienziale, con­creto, non astratto, non dogmatico, né teologico. Un linguaggio nar­rativo aderente al reale. Gesù parla di Dio narrando storie di re e di pescatori, di seminatori e di contadini. Un linguaggio profonda­mente umano, semplice, comprensibile, che attua una comunicazio­ne aperta, inglobante e non escludente. Come noi, oggi, parliamo delle «cose del Padre»? Come far diventare buona comunicazione la buona notizia del Vangelo, se non lasciando alla Parola di Dio la sua forza di evocazione del mistero e di coinvolgimento del destinatario? Il Vangelo chiede di essere annunciato non come sapere chiuso che esprime la sapienza di chi lo predica o come dottrina che manifesta un Dio inaccessibile, ma come offerta di vita e di relazione per chi lo ascolta. Come benedizione. Altrimenti si rischia di soffocare la buona notizia con una cattiva comunicazione: annunciare il Vangelo «contro», piegarlo a precomprensioni parziali, edulcorarne le esi­genze, dimenticarne la dimensione di perdono e di misericordia.

Alla luce della parabola del seminatore (cfr. Mc 4,1-20) in cui si af­ferma che «il seminatore semina la Parola» (Mc 4,14), si comprende che Gesù qui sta parlando dell’efficacia della Parola di Dio. Il seme se­minato germoglia e completa la sua crescita senza intervento del se­minatore (cfr. Mc 4,27-28). Ma di quale efficacia si tratta? Ora, l’effi­cacia della Parola, così spesso affermata nelle Scritture (cfr. Is 55,10-­11; Eb 4,12), non va intesa in senso mondano e pensata come misurabile in termini quantitativi: la Parola di Dio è sempre «la parola della croce» (1Cor 1,18) e la sua efficacia è dello stesso ordine dell’efficacia salvifica della croce: potenza di vita celata nell’impotenza di un crocifisso. Esattamente come il Regno di Dio che è simile a un seme gettato e che deve essere sepolto nella terra per germinare. Del resto, il seme, simbolo della Parola di Dio e del Regno di Dio, non è anche segno di Cristo stesso e della sua Pasqua, della sua morte e del­la sua resurrezione? «Se il chicco di grano caduto in terra non muo­re, rimane solo; se invece muore produce molto frutto» (Gv 12,24). Caduta nel cuore di un uomo, la Parola di Dio deve rimanervi, esse­re interiorizzata, ascoltata sempre di nuovo con perseveranza, deve essere fatta regnare sulle tante altre parole che distraggono dall’essenziale, fino a divenire principio di discernimento e di azione, dun­que di carità, di misericordia, di perdono, di giustizia, di verità. E l’uomo che avrà coltivato così nel proprio cuore la Parola di Dio sarà da essa rigenerato e ne mostrerà l’efficacia nel suo stesso vivere, sen­za esibizionismi, «come, egli stesso non lo sa».

Spesso le parabole che Gesù narra sono seguite dall’incomprensio­ne degli uditori e dalle spiegazioni che Gesù fornisce ai suoi discepoli (cfr. Mc 4,34). In effetti, il linguaggio semplice delle parabole rivela mentre cela, e richiede un’intelligenza umile e non arrogante, una sa­pienza, una capacità di cogliere in unità la terra di cui narrano le pa­rabole e il cielo a cui alludono. L’intelligenza del mistero non va con­fusa con la conoscenza e ancor meno con l’informazione, ma si situa sul piano della sapienza. E la sapienza, etimologicamente, abbraccia in sé tanto il sapere, quanto il sapore, tanto la mente quanto il palato, tan­to lo spirito quanto il corpo. Un’intelligenza capace di gratitudine è aperta al dono perché il mistero del Regno non è conquista degli in­tellettuali, ma dono accolto dai semplici e dai piccoli (cfr. Mt 11,25).

 Preghiere e racconti

La possibilità della fede

“Aumenta la nostra fede!” A questa richiesta degli Apostoli – voce di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio con umiltà e desiderio – Gesù risponde così: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa, direte a questo monte: ‘spostati da qui a là’, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(Matteo 17,20). Credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara o a un progetto privo di incognite: non si crede a qualcosa che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e piacimento. Credere è fidarsi di qualcuno, assentire alla chiamata dello straniero che invita, rimettere la propria vita nelle mani di un altro, perché sia lui a esserne l’unico, vero Signore. Crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da lui nell’ascolto obbediente e nella docilità del più profondo di sé. Fede è resa, consegna, abbandono, accoglienza di Dio, che per primo ci cerca e si dona; non possesso, garanzia o sicurezza umane. Credere, allora, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi. “Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: gèttati, ti prenderò fra le mie braccia!” (Søren Kierkegaard). Eppure, credere non è un atto irragionevole. È anzi proprio sull’orlo di quell’abisso che le domande inquietanti impegnano il ragionamento: se invece di braccia accoglienti ci fossero soltanto rocce laceranti? E se oltre il buio ci fosse ancora nient’altro che il buio? Credere è sopportare il peso di queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile amante che chiama.

(Bruno FORTE, Lettera ai ricercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 27-28)

E il piccolo seme, là sotto, moriva di gioia

«…quando il piccolo seme ruzzolò dalle mani del vecchio contadino in mezzo ai grossi grani di frumento echeggiò tra le zolle una risata impercettibile. Chissà com’era capitato lì quel semino ridicolo! Neppure le vecchie erbe del fossato lo conoscevano. L’avena, già alta, propalò al vento il suo parere: “Divento gialla se ne uscirà una fogliolina sola”.

Il piccolo seme si sentì avvilito da quelle voci di disprezzo, che il vento sparpagliava dappertutto; ma non si rattrappì, né si rassegnò ad essere soltanto un piccolo seme nero per sempre. Qualcosa doveva esser pure capace di fare! Sognò di crescere alto fino a sovrastare anche il granoturco…”Chissà se l’avena diventerà gialla per davvero”, pensò. Voleva riuscirci a tutti i costi! Lasciò che i grossi semi di frumento si crogiolassero pigramente a deriderlo; egli affondò subito le radici nel terreno umido e succoso… Fu un inverno faticosissimo per lui. Venne l’estate ed i viandanti additavano meravigliati una pianta alta e vasta, dominante sulla distesa del grano.

Passò anche il Signore, la vide, indovinò l’enorme fatica del piccolo seme nell’inverno e volle premiare con una sua parola la sua fiducia in se stesso: “Guardate il seme di senapa, è il più piccolo dei semi, eppure cresce come un albero, sì che i passeri si abbandonano sicuri sui rami robusti”. E il piccolo seme, là sotto, moriva di gioia ».

Grande albero e piccolissimo grano

«[Nella Chiesa esiste] La tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri. E questo non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio vale sempre la parabola del grano di senape (cf. Mc 4,31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale. Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».

(J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione in Divinarum Rerum Notitia. Studi in onore del Card. Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).

Il seme delle domande

Dio mio, sono venuto con il seme delle domande!

Le seminai e non fiorirono.

Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte,

ma il vento non le sfoglia!

Dio mio, sono Lazzaro!

Piena d’aurora, la mia tomba

dà al mio carro neri puledri.

Dio mio, resterò senza domanda e con risposta

vedendo i rami muoversi!

(F. García Lorca)

Il seme e il frutto

Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra

nel grembo materno

e aspetta devotamente: esso comincia a lottare,

un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole

cresce, diventa grande e forte

abbraccia con la corona verde delle sue foglie

finché tutto intero splende al sole

diventa gemma e fiorisce un fiore.

E nella fioritura, seme dopo seme,

c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.

E tu pianti nuovamente i mille semi,

e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.

Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli

abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro

guida verso casa i pensieri e pensa:

tutto ciò era nel primo seme.

(Christian Morgenstern)

La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione

Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della crescita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.

Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di accettazione da parte del genere umano. L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita. C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fissa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio. Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui. […]

Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165, 167).

Rinnega se stesso chi ama se stesso

Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […] «Rinneghi se stesso».

In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.

Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).

Piccolo seme

Ho imparato

che non muore

chi lascia dietro di sé

un seme

se c’è qualcuno a custodire

il piccolo seme verde

e a crescerlo nel cuore

sotto un dolore di neve

e a lasciarlo crescere ancora

nel sole senza tramonto dell’amore

finché diventa

un albero grande che da ombra e frutti

e altri semi.

Signore, vorrei lasciargli

un piccolo seme verde

e vorrei, Signore, lasciargli la neve e il sole.

(Preghiere di Mamma e Papa, Gribaudi, Torino, 1989).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO:

XI DOM TEMP ORD ANNO B

SANTISSIMA TRINITA’

Prima lettura: Deuteronomio 4,32-34.39-40

Mosè parlò al popolo dicendo:  «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi? Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».

 

 

La pericope conclude il primo dei tre grandi discorsi di Mosè che costituiscono il libro del Deuteronomio, la «seconda Legge». Siamo nella pianura di Moab, alle porte della Terra promessa, e Mosè ricapitola per il popolo sempre riottoso la storia meravigliosa della liberazione dall’Egitto, con l’esortazione ripetuta a osservare la Legge, non per paura dei castighi o per sottomissione a un Dio tiranno, ma per risposta d’amore a un’elezione d’amore. In questi versetti, si ribadisce l’unicità di Dio e del popolo che Egli si è scelto, non per merito degli Israeliti ma per amore gratuito. Il motivo classico dell’elezione di Israele e della sua particolarità (vv. 32-38) è parallelo a quello dell’unicità del Dio di Israele (v. 39).

     vv. 32-34 – Una serie di domande retoriche, che si ricollegano a quelle con cui il discorso di Mosè si era aperto (4, 7-8), riassume le grandi opere di Dio, dalla creazione (v. 32) alla teofania di Sinai (v. 33) fino ai prodigi e ai miracoli dell’Esodo (v. 34). Nel confronto con gli altri popoli, che seguono altri dèi, è affermata la grandezza del Dio d’Israele; e insieme la familiarità di Dio con il suo popolo, che può ascoltarne la voce e restare in vita (cf. Es 24,11).

     L’espressione «con mano potente e braccio teso» (v. 34), che rappresenta Dio alla guida del popolo nell’attraversamento del mare e del deserto, riprende la tipologia regale egiziana; ve ne è traccia anche nelle lettere di El-Amarna.

     vv. 39-40 – Sono espressioni caratteristiche del Deuteronomio. La proclamazione del monoteismo (v. 39) corrisponde allo Shemà Israel (Deut 6,4: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno»); l’incentivo materiale per incoraggiare l’osservanza della Legge (v. 40 «perché sii felice…») riecheggia i motivi della letteratura sapienziale.

Seconda lettura: Romani 8,14-17

Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». 

Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

 

 

Il brano prosegue nella spiegazione dei frutti dello Spirito, iniziata con Rm 8,1-11: lo Spirito non solo da la vita nuova, ma rende figli adottivi e eredi di Dio. Appare qui per la prima volta nella lettera il tema dell’adozione.

     «Spirito che rende figli adottivi» (pneuma yiothesì as) è un termine sconosciuto alla traduzione dei LXX, e non proviene quindi a Paolo dall’Antico Testamento, ma piuttosto dal linguaggio giuridico del mondo greco-romano. In Israele infatti l’istituto dell’adozione non era pratica abituale tranne rari casi riguardanti schiavi o mèmbri della famiglia. Il concetto di figliolanza divina è tuttavia uno sviluppo dell’idea veterotestamentaria dell’elezione di Israele (cf. Deut 4,34), che viene chiamato più volte «il mio primogenito» (cf. Es 4,22; Is 1,2; Ger 3.19-22; 31,9; Os 11,1) anche se sempre come entità collettiva di popolo e non come singolo individuo credente.

     Per Paolo, il dono dello Spirito inserisce nella famiglia di Dio, è quindi alla base dell’adozione, costituisce propriamente la figliolanza.

     v. 14 – «guidati dallo Spirito di Dio»: si tratta di ciò che i teologi chiameranno la «grazia preveniente», l’influenza attiva dello Spirito nella vita cristiana.

     vv. 15-16- Introdotti da gar (infatti), questi due versetti spiegano il v 14. I cristiani non hanno ricevuto uno spirito da schiavi, ma da figli: Paolo gioca sul senso della parola pneuma, che indica sia lo Spirito di Dio sia il nostro spirito. L’affermazione fondamentale di questo passo è siamo figli di Dio.                                                         

     Anche l’espressione aramaica Abbà, come modo di rivolgersi a Dio, è assente dall’Antico Testamento, dove la relazione filiale (cf. Deut 14 1) è sempre corporativa e non individuale, se si eccettua l’invocazione di Sl 89,27 (Sap 2,16 è in un contesto descrittivo). Qui viene subito tradotta (Abbà ho patèr), in quanto Paolo si rivolge a una comunità di cristiani provenienti dai Gentili.

     v. 17 – Vengono ora le conseguenze escatologiche di questa condizione, ovvero l’eredità che assimila al Cristo, partecipi della sua passione e della sua gloria. Ritornano qui i verbi caratteristici in Paolo composti con la particella syn (con).

Vangelo: Matteo 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

 

 

Esegesi

     I versetti conclusivi del Vangelo di Matteo rivolgono lo sguardo alla continuazione dell’opera nella comunità cristiana, rendendo esplicito il mandato missionario all’esterno di Israele, altrove solo accennato.

     v. 16 – L’apertura alle genti era già indicata nel v. 7: «vi precede in Galilea». Il ritorno dei discepoli in Gallica, determinato forse anche dalla necessità di allontanarsi da Gerusalemme per non essere arrestati subito dopo la Crocifissione, assume un significato teologico visto come obbedienza all’invito di Gesù, e un valore simbolico in rapporto alla missione. La Galilea infatti, abitata in prevalenza da pagani, rappresenta «i popoli» del v. 19. Già vi si era ritirato Gesù dopo l’arresto di Giovanni, e da lì aveva cominciato la sua predicazione (Mt 4, 12-17; cf. anche Is 8, 23: «la Galilea delle Nazioni», Gelil haggoîm).

     Gli Undici si recano dunque all’appuntamento, su un monte che è difficile identificare: il monte delle Beatitudini? il Tabor? Anche qui prevale il valore simbolico del «monte», collegato spesso nell’Antico come nel Nuovo Testamento a teofanie o rivelazioni.

     v. 17 – La prostrazione (prosekynesan, latino adoraverunt) manifesta il riconoscimento della divinità di Gesù, una fede post-pasquale matura, che presuppone una comunità già consapevole e strutturata, e probabilmente un’epoca posteriore. L’affermazione infatti è subito mitigata dalla seguente: «alcuni però dubitavano», che ci riporta all’esperienza immediata delle apparizioni del Risorto: cfr. Mc 16, 8.11.13; Lc 24,37; Giov  21,12).

     vv. 18-19 – Gesù si identifica con il «Figlio dell’Uomo» del libro di Daniele (Dan 7, 13-14), cui viene attribuito un potere eterno e universale: «tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano». Da questo potere universale discende la missione universale degli Apostoli: limitata a Israele nei giorni del suo ministero terreno (cf. 15, 24), ora la predicazione della parola di Gesù è estesa a tutti i popoli.

     Segue il comando specifico di «battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», presente solo qui in forma così definita e completa. Il battesimo indica l’atto di iniziazione nella comunità cristiana, e presuppone significati presenti anche altrove nel Nuovo Testamento: la purificazione con l’acqua e il pentimento (cf. il battesimo di Giovanni Battista), ma anche il perdono e la professione di fede in Gesù come Messia e Signore. Più che una formula liturgica (che si precisa più tardi) si tratta qui di una descrizione di ciò che il battesimo opera nel neofita: l’espressione «nel nome…» descrive l’entrata in comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito. Il concetto di Dio Trinità è antico quanto la comunità cristiana, quale la conosciamo dagli scritti del Nuovo Testamento: cf. 1Cor 12, 4-6; 2Cor 13,13; 1Pt 1,2; 1Giov 3,23-24. Questo naturalmente lascia impregiudicata la delicata questione di quanto si possa retroproiettare alla comunità immediatamente post-pasquale una consapevolezza trinitaria formulata secondo la mentalità post-nicena.

     v. 20 – Il comando dato già ai discepoli di proclamare l’avvento del Regno (10,7) e guarire gli infermi (10,1.8) è completato, ora che Gesù non svolge più il suo ministero in mezzo a noi, da quello di «insegnare». Il passo appartiene agli stadi più recenti della tradizione, quando il ritardo della parusia richiedeva anche un’assicurazione e un conforto per i discepoli rimasti in attesa: «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (cf. 18,20). La fine tante volte annunciata (cf. 13,39.49; 24,3) non è evidentemente più sentita così vicina.

L’immagine della domenica

 

Gloria tibi Trinitas!

La bellezza che attrae, stupisce e coinvolge è la sintonia perfetta, l’unità.

Il Padre non troneggia immobile, giudice sopra il dramma. Il suo testo è il suo stesso piegarsi sulla sua creatura 

L’Attore, il Figlio è ciò che di più caro il Padre abbia. In lui persona e ruolo coincidono perfettamente, non c’è neppure un minuto in cui reciti, vive! Muore e risorge realmente.

Lo Spirito Santo sa cogliere perfettamente lo spirito del testo: è lui! È allo Spirito che il Padre affida il suo testo, è all’interpretazione e alla guida dello Spirito che il Figlio si affida per tradurre in vita il testo.

(Hans Urs von Balthasar)

Meditazione

La Bibbia, pur affermando che Dio è sempre Altro e Oltre il nostro pensiero, si presenta come “rivelazione”, cioè come uno squarcio nel velo di silenzio che nasconde il mistero divino.

La rivelazione cristiana apre ulteriori orizzonti in questa luce invalicabile, che «l’uomo non può vedere continuando a restare in vita», come si ripete spesso nell’Antico Testamento. Appare, così accanto al Padre, il Figlio inviato nel mondo e lo Spirito vivificatore, e nel nome della Trinità noi apriamo questa e ogni altra liturgia, concludiamo ogni preghiera ed è benedetta ogni persona e cosa. Due sono i testi dell’odierna liturgia che esaltano questa rivelazione nuova del mistero divino. Il primo è tratto dal capitolo ottavo della lettera ai Romani, il vertice del pensiero paolino ove con un suggestivo contrappunto l’apostolo presenta due “spiriti”.

C’è innanzitutto lo spirito dell’uomo, cioè il principio del suo esistere, del suo operare, del suo amare e del suo peccare, della sua libertà e della sua schiavitù. Ma c’è anche uno Spirito di Dio, principio del suo amore e della sua comunicazione all’uomo. Ebbene, questo Spirito divino penetra nello spirito dell’uomo, lo invade come un vento che tutto avvolge e permea. La creatura che accoglie e si lascia conquistare da questo Spirito viene trasformata da figlio dell’uomo in figlio di Dio, diventa membro della sua famiglia, è ufficialmente dichiarato coerede del primogenito di Dio, il Cristo.

Paolo, quindi, proclama una vera e propria ammissione dell’uomo all’interno della vita divina. Questo ingresso avviene attraverso il battesimo, visto come radice dell’intera vicenda cristiana, e attraverso l’ascolto obbediente della Parola.

È ciò che è lapidariamente formulato nella scena finale del Vangelo di Matteo che oggi domina la nostra liturgia. In Gallica non si danno solo appuntamento il Cristo risorto e gli Undici, ma il mistero di Dio e quello della Chiesa.

Da un lato, infatti, il Cristo glorioso appare nello splendore più puro della sua divinità; egli è per eccellenza “superiore” e trascendente rispetto a tutta la realtà creata: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra». Davanti a lui l’uomo si prostra in adorazione. La sua presenza non è come quella di una persona terrena. È una presenza che dev’essere scoperta attraverso la via della fede, ed è per questo che conosce anche l’esitazione, l’oscurità, il dubbio.

D’altra parte, però, Cristo è vicino, è «con noi tutti i giorni» e in tutte le epoche storiche. Soprattutto è operante all’interno della Chiesa a cui comunica la sua Parola e la sua grazia salvifica. Infatti alla Chiesa egli affida il compito di annunziare all’umanità «tutto ciò che egli ha comandato», coinvolgendo ogni uomo nella salvezza: l’«ammaestrate» della versione del Vangelo, che oggi leggiamo, nell’originale suona meglio come un «fare discepoli» i popoli.

Per la Bibbia, quindi, il mistero infinito di Dio non respinge ma accoglie in sé i nostri piccoli misteri, immergendoli nella sua luce infinita. Non dobbiamo, perciò, considerare Dio solo come oggetto di discussione filosofica e teologica, non dobbiamo solo parlare in modo distaccato e freddo di Dio e della Trinità. Dobbiamo anche parlare a Dio in un dialogo di intimità e di vita che lui stesso ha inaugurato.

 Preghiere e racconti

L’amore per Dio (e per Gesù)

Nella vita di un essere umano l’amore per Dio si manifesta inizialmente come attaccamento alla propria religione con i suoi simboli, le sue dottrine, le sue liturgie, i suoi rappresentanti. Così uno dice di amare Dio e ama la messa, la Bibbia, il papa, le dottrine del catechismo. Quando più però si procede nella maturità spirituale, tanto più ci si rende conto di come la divinità si trovi ben di là degli insegnamenti e dei riti veicolati dalla propria religione e da ogni altra religione istituita. Si entra allora in una condizione che i mistici descrivono come “tenebre, nube oscura, notte, nulla, vuoto, nube della non conoscenza”, a indicare quel superamento dell’intelletto e di ogni altra facoltà umana che è l’esito a cui approda la vita spirituale autentica, intensa non come adesione a dottrine ma come ricerca della verità e del bene.

Gregorio di Nissa, vescovo e teologo del IV secolo, individua il prototipo del credente in Mosè che sale in solitudine il Monte Sinai e che afferma che Mosè venuto a contatto con l’invisibile divenne egli stesso invisibile, insegnandoci così a “credere che là è la divinità, dove non giunge la comprensione”. Gregorio sostiene che Dio si sperimenta là dove non giunge la comprensione ovvero che fino a quando vi è comprensione non vi può essere adeguata esperienza di Dio. Agostino, un secolo dopo, dirà la stessa cosa: “Se hai capito, non è Dio”. Se infatti Dio venisse compreso dalla nostra ragione, essa lo com-prenderebbe, lo prenderebbe con sé, oppure sotto di sé come evoca il verbo inglese understand, facendo così venir meno ciò a cui il termine Dio rimanda, cioè l’assolutezza del Principio che governa tutte le cose, nostra ragione compresa. In ogni atto di comprensione è insito sempre un senso di dominio, ed è quindi evidente che non si può capire Dio, siamo piuttosto noi a essere “capiti” dalla sua realtà, nel senso fisico di compresi e di contenuti cui rimanda il participio presente “capiente”. Una delle più significative espressioni al riguardo è attribuita all’apostolo Paolo nel discorso all’Areopago di Atene: “In lui viviamo, ci moviamo ed esistiamo” (Atti 17,28). Solo a patto di entrare in questa concezione del divino ci si riferisce sensatamente alla realtà ontologica che intende esprimere dicendo “Dio”.         

(Vito MANCUSO, Io amo – Piccola filosofia dell’amore, Milano, 2014, 71-72).

Trinità

La tradizione cristiana ha interpretato la visita dei tre messaggeri ad Abramo e Sara presso la quercia di Mamre (Gn 18, 1-15) come una rivelazione del Mistero trinitario.

In questa icona, vediamo la premurosa ospitalità di Abramo che imbandisce un banchetto e che offre il vino dell’esultanza ai tre gloriosi pellegrini. Sara, mentre prepara il pane, spia i Tre dall’interno della tenda. Il banchetto di Abramo diventa la tavola eucaristica. La sterilità e la mortalità di Abramo e di Sara, attraverso l’amore dell’ospite accolto, si trasformano nella fecondità e nella vitalità di una generazione che non avrà fine.

Le tre figure angeliche rappresentano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: sono assorti in una santa conversazione che non li rende inaccessibili e lontani, ma che coinvolge Abramo e noi. Dietro le spalle della figura centrale, identificata con il Figlio, sta la quercia di Mamre: è l’albero della vita, l’albero della croce. Dietro le spalle di Abramo sta il monte Moria: è il monte del sacrificio di Isacco, del sacrificio di Cristo.

Tu,

o Padre,

sei circondato dal silenzio.

La bellezza del tuo volto

nascosto

il Figlio e lo Spirito                                                               

lo rivelano al mondo…

C’è un posto vuoto alla vostra mensa,

un posto su cui sostare,

contemplare.

Abramo e Sara,

voi li avete visti,

ma noi li possiamo ospitare.

Come Maria,

noi possiamo contenere l’Incontenibile.

O dolce Trinità,

comunione perfetta di amore,

accoglimi nel tuo grembo

e rendimi degno di sedere

alla tua tavola

per sempre.

La famiglia, icona della Trinità

Il Signore benedica tutti i vostri progetti, miei cari fratelli. Il Signore vi dia la gioia di vivere anche l’esperienza parrocchiale in termini di famiglia. Prendiamo come modello la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito che si amano, in cui la luce gira dall’uno all’altro, l’amore, la vita, il sangue è sempre lo stesso rigeneratore dal Padre al Figlio allo Spirito, e si vogliono bene.

Il Padre il Figlio e lo Spirito hanno spezzato questo circuito un giorno e hanno voluto inserire pure noi, fratelli di Gesù. Tutti quanti noi.

Quindi invece che tre lampade, ci siamo tutti quanti noi in questo circuito per cui e la parrocchia e le vostre famiglie prendano a modello la Santissima Trinità.

Difatti la vostra famiglia dovrebbe essere l’icona della Trinità. La parrocchia, la chiesa dovrebbe essere l’icona della Trinità.

Signore, fammi finire di parlare, ma soprattutto configgi nella mente di tutti questi miei fratelli il bisogno di vivere questa esperienza grande, unica che adesso stiamo sperimentando in modo frammentario, diviso, doloroso, quello della comunione, perché la comunione reca dolore anche, tant’è che quando si spezza, tu ne soffri.

Quando si rompe un’amicizia, si piange. Quando si rompe una famiglia, ci sono i segni della distruzione.

La comunione adesso è dolorosa, è costosa, è faticosa anche quella più bella, anche quella fra madre e figlio; è contaminata dalla sofferenza. Un giorno, Signore, questa comunione la vivremo in pienezza. Saremo tutt’uno con te.

Ti preghiamo, Signore, su questa terra così arida, fa’ che tutti noi possiamo già spargere la semente di quella comunione irreversibile, che un giorno vivremo con te.

(Don Tonino Bello)

 Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito

La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.

Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui. Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose. Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito. Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6]. Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio. A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6). Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.

(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp. 88-90).

S. Agostino e il mistero della Santissima Trinità

Si racconta che un giorno S. Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa, era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità. Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia, vide un bambino che faceva una cosa molto strana: aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino, andava al mare, prendeva l’acqua e la versava nel fosso. E così di seguito. E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede: «Che cos’è che stai facendo?» E il ragazzo: «Voglio mettere tutta l’acqua del mare in questo fosso». S. Agostino sentendo ciò rispose: «Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare. Ma come puoi pensare di riuscirci? Il mare è immenso, e il fosso è piccolo. E poi, con questo cucchiaino non basta la tua vita». E il ragazzo, che era un angelo mandato da Dio, gli rispose: «E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l’infinito mistero di Dio?». Agostino capì che Dio è un grande mistero. E capì che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore, che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.

La mia vita

Sul suo stemma vengono conservati le teste di due mori incoronati, che da circa mille anni, figurano di regola nello stemma dei vescovi di Frisinga. Non è ben chiaro il loro significato, ma per lui sono (Cf. E. BIANCO, Benedetto XVI lavoratore nella vigna, 57.) “l’espressione dell’universalità della Chiesa, che non conosce nessuna distinzione di razza e di classe” (J. RATZINGER, La mia vita, 120-121). La conchiglia è per Ratzinger anzitutto il segno dell’identità dei pellegrini in cammino. Ma essa ricorda a Ratzinger anche la leggenda secondo cui Agostino, che si lambiccava il cervello attorno al ministero della Trinità, avrebbe visto sulla spiaggia un bambino mentre giocava con una conchiglia, con cui attingeva l’acqua del mare per travasarla in una piccola buca. Gli sarebbe stato detto che questa buca poteva contenere l’acqua del mare, quanto la sua ragione poteva afferrare il mistero di Dio (Cf. J. RATZINGER, La mia vita, 121). “Per questo la conchiglia rappresenta per me un richiamo al mio grande maestro, Agostino, un richiamo al mio lavoro teologico e, insieme, alla grandezza del mistero, che è sempre molto più grande di tutta la nostra scienza”.

(J. RATZINGER, La mia vita, 121).

La Trinità, rivelazione della nuova creazione

     Sebbene la santa Trinità abbia donato la salvezza al genere umano mediante un solo e unico amore degli uomini, la fede ci dice che ciascuna delle persone divine vi porta il suo contributo particolare. Il Padre si riconcilia con noi, il Figlio opera la riconciliazione e lo Spirito santo fu il dono accordato a quelli che erano divenuti amici di Dio. Il Padre ci ha liberati, il Figlio fu il prezzo del nostro riscatto; quanto allo Spirito è la libertà. Infatti, «dove è lo Spirito del Signore, là è la libertà» (2Cor 3,l7), dice Paolo. Il Padre ci ha creati, il Figlio ci ha riplasmati, e lo Spirito ci fa vivere (cfr. Gv 6,63). Nella creazione iniziale la Trinità era adombrata come in figura: il Padre plasmava, il Figlio era la mano del plasmatore, lo Spirito il soffio che ispirava la vita. Ma perché dico questo? Soltanto nella nuova creazione ci sono rivelate le distinzioni esistenti in Dio. In effetti, in ogni tempo Dio ha riversato i suoi doni sulla creazione, ma non se ne trova nessuno che si riferisca solo al Padre, solo al Figlio o solo allo Spirito, ma tutti sono comuni alla Trinità, poiché con una sola potenza, una sola provvidenza e una sola attività creatrice essa realizza ogni cosa.

     Nel disegno di salvezza con il quale ha restaurato il nostro genere umano rinnovandolo, è la Trinità intera che ha voluto la mia salvezza e che provvede alla sua realizzazione, ma non è la Trinità intera che l’ha realizzata. Suo artefice non è né il Padre né lo Spirito santo, ma solo il Figlio. È lui che ha assunto la carne e il sangue, è lui che è stato percosso, ha patito è morto ed è risorto. Per questi misteri la natura umana ha ripreso vita ed è stato istituito il battesimo, nuova nascita e nuova creazione. Ecco perché nel battesimo bisogna invocare Dio distinguendo le persone – il Padre, il Figlio, lo Spirito santo – che solo questa nuova creazione ci ha rivelato.

(NICOLA CABASILAS, La vita in Cristo 2, PG 150.532C-533A).

Ancora e sempre sul monte di luce 

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita. 

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D.M. Turoldo).

Oggi è la Domenica della Santissima Trinità

La luce del tempo pasquale e della Pentecoste rinnova ogni anno in noi la gioia e lo stupore della fede: riconosciamo che Dio non è qualcosa di vago, il nostro Dio non è un Dio “spray”, è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: «Dio è amore». Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi. Gesù cammina con noi nella strada della vita.

La Santissima Trinità non è il prodotto di ragionamenti umani; è il volto con cui Dio stesso si è rivelato, non dall’alto di una cattedra, ma camminando con l’umanità. E’ proprio Gesù che ci ha rivelato il Padre e che ci ha promesso lo Spirito Santo. Dio ha camminato con il suo popolo nella storia del popolo d’Israele e Gesù ha camminato sempre con noi e ci ha promesso lo Spirito Santo che è fuoco, che ci insegna tutto quello che noi non sappiamo, che dentro di noi ci guida, ci dà delle buone idee e delle buone ispirazioni.

Oggi lodiamo Dio non per un particolare mistero, ma per Lui stesso, «per la sua gloria immensa», come dice l’inno liturgico. Lo lodiamo e lo ringraziamo perché è Amore, e perché ci chiama ad entrare nell’abbraccio della sua comunione, che è la vita eterna.

(PAPA FRANCESCO, ANGELUS, Piazza San Pietro Solennità della Santissima Trinità Domenica, 26 maggio 2013).

Preghiera

O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente, per stabilirmi in te, immobile e tranquilla come se l’anima mia già fosse nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace né farmi uscire da te, o mio Immutabile; ma ogni istante mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero! Pacifica l’anima mia; fanne il tuo cielo, la tua dimora prediletta e luogo del tuo riposo. Che, qui, io non ti lasci mai solo; ma tutta io vi sia,  ben desta nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice.          

O amato mio Cristo, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne! […]. Ma sento tutta la mia impotenza; e ti prego di rivestirmi di te, di immedesimare la mia anima a tutti i movimenti dell’anima tua, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che una irradiazione della tua Vita vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima a ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e starmene sotto il tuo grande splendore. O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione.

O Fuoco consumatore, Spirito d’amore, discendi in me, perché faccia dell’anima mia quasi una incarnazione del Verbo! Che io gli sia prolungamento di umanità in cui egli possa rinnovare tutto il suo mistero. E tu, o Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura, coprila della tua ombra, non vedere in essa che il Diletto nel quale hai posto le tue compiacenze.

O miei ‘Tre’, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra Luce l’abisso delle vostre grandezze.

(ELISABETTA DELLA TRINITÀ, Scritti spirituali di Elisabetta della Trinità, Brescia 1961, 73s.).

    

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

PER L’APPROFONDIMENTO:

SANTISSIMA TRINITÀ (B)

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

ASCENSIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: Atti 1,1-11

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».        

 

Se il Vangelo di Marco è molto rapido ed essenziale nel parlarci dell’ascensione di Gesù al cielo, il libro degli Atti tenta di «descrivercela» quasi visivamente nella seconda parte del brano oggi propostoci (At 1,6-11).

     Stando al racconto di Luca, sembra che si tratti dell’ultima «cristofania», concessa da Gesù agli Apostoli, i quali peraltro si dimostrano ancora impreparati alla comprensione del mistero di Cristo: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (v. 6). Pur dopo la risurrezione, essi pensano terrenisticamente! Gesù supera la loro incomprensione, rimandando alla discesa dello Spirito la piena illuminazione del suo mistero ed anche della loro missione in ordine a quel mistero: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (1,7-8).

     Come si vede, anche qui siamo davanti ad un mandato «missionario»,di tipo universalistico: si parte, com’era ovvio e doveroso, dalla patria stessa di Gesù, per arrivare «fino agli estremi confini della terra». Il libro degli Atti, conforme a questo comando di Gesù ci illustrerà successivamente le varie tappe di questa evangelizzazione, che Paolo porterà perfino a Roma, nel cuore cioè dell’immenso impero che dominava tutto il mondo allora conosciuto.

     Anche qui la «forza» per adempiere questo compito immane non viene garantita dalle deboli ed impari risorse umane dei discepoli, ma dalla irruzione e dalla continua assistenza dello Spirito. Nel capitolo 2 del libro degli Atti, infatti, Luca ci descriverà la impetuosa discesa dello Spirito e la sua potenza di «trasformazione» dell’anima e dei sentimenti degli Apostoli: da timidi ed impauriti com’erano, diventeranno intrepidi e inarrestabili annunciatori e testimoni del Risorto. È ancora Cristo che «opera insieme a loro»: non direttamente, ma mediante lo Spirito che egli invierà da parte del Padre (cf. At 2,32-33).

     Dopo aver dato loro il suo «mandato» missionario, Gesù «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (At 1,9). Abbiamo già detto della tristezza degli Apostoli nel vedersi «sottrarre» il Risorto. Quello che conta, però, non è la sua presenza fisica, ma la convinzione di fede che egli sarà sempre con i suoi, con la potenza dello Spirito, sino al momento del suo «ritorno» glorioso, come proclamano i due misteriosi personaggi «in vesti candide»: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

     In questo intervallo di tempo, che è già durato più da 2000 anni e non sappiamo per niente quanto durerà ancora, tocca ai suoi discepoli, cioè alla sua Chiesa, allargare gli «spazi» della sua signoria, rendergli testimonianza, facendolo conoscere ed amare da tutti gli uomini.

     È così che il suo «regno» si stabilisce anche lungo la storia, fra gli uomini, per mezzo di altri uomini.

     È a livello di queste considerazioni che possiamo comprendere la «indispensabilità» della Chiesa nel mondo, in attesa del «ritorno» glorioso di Cristo: anzi, proprio per «preparare» e predisporre tutti e tutto, anche il convivere sociale, a quell’incontro con il Signore dell’universo, essa è destinata! 

Seconda lettura: Efesini 4,1-13

 

 Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose. Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.      

 

A proposito della Chiesa, perché compia la sua missione di testimonianza nel mondo, anzi di rappresentanza «vicaria» di Cristo, e in tal modo anticipare addirittura la venuta del «regno», dice delle cose stupende il brano della lettera agli Efesini, oggi proposta alla nostra considerazione.

     Due mi sembrano le idee di fondo che guidano il testo, troppo ricco per entrare nei suoi dettagli esegetici.

     La prima è quella della «unità» di quel «corpo» meraviglioso che è la Chiesa: in essa, proprio per questa esigenza fondamentale, ci deve essere circolazione di «amore», che si manifesta nell’umiltà e nella capacità di «sopportazione» reciproca, allo scopo di «conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3).

     Ci sono troppi motivi di «unione» che obbligano i cristiani a fare «comunione» fra di loro. Una Chiesa «divisa» non rende buona testimonianza né a Cristo, né allo Spirito, che è essenzialmente «Spirito di amore»! E perciò è destinata ad essere fatalmente inerte, se non controproducente. «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo...» (4,4-5).

     La seconda idea, che viene espressa in questo testo e non è per niente antitetica alla prima, è che nella Chiesa, pur nella più rigorosa «unità», c’è una «molteplicità» di «doni», di «carismi» o di «ministeri» che dir si voglia, che permettono, anzi esigono, che tutti diano il loro contributo per la crescita armonica di quell’unico «corpo», di cui tutti siamo «membra».

     E la cosa che più sorprende è che proprio il Cristo, «asceso al di sopra di tutti i cieli» (4,10), ha voluto concedere questi «doni» alla sua Chiesa: essi, pertanto, non sono tanto delle acquisizioni nostre, che nascono da «predisposizioni» di natura e perciò da rivendicare a tutti i costi, quanto «doni» che vengono dall’alto, da esercitare perciò con grande senso di «responsabilità» per il bene di tutti. «A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo» (4,7). Si noti l’espressione «a ciascuno di noi»: perciò ogni battezzato non può non avere uno spazio nella Chiesa!

     A modo di esemplificazione, vengono poi ricordati alcuni «ministeri» tra i più fondamentali nella Chiesa: «Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (4,11-13).

     Come si vede, i «ministeri» qui ricordati non sono dati per esercitare un «dominio» nella Chiesa, come talvolta, da qualcuno si è pensato o si potrebbe pensare, ma un «servizio» di crescita comune. Il traguardo per tutti, siano essi apostoli, o profeti, o pastori, o qualsiasi altra cosa, è quello di «crescere» e far «crescere» fino a raggiungere «la misura della pienezza di Cristo» (4,13). Il che è tremendamente impegnativo per tutti.

Vangelo: Marco 16,15-20 

 

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

 

 

Esegesi 

     Come è risaputo da tutti, questa parte «conclusiva» del Vangelo di Marco (16,9-20) è stata aggiunta successivamente da qualche autore che non conosciamo. Non è che Marco ignorasse questi eventi: è che egli ha voluto chiudere il suo Vangelo con lo «stupore» delle donne davanti al sepolcro vuoto e all’annuncio che Gesù è stato risuscitato da morte (Mc 16,6-8). Ed è proprio questo «stupore» che dovrà accompagnare sempre i credenti nel Signore risorto!

     Comunque, tutto questo non crea per noi alcun problema, perché siamo davanti ad un testo egualmente «ispirato» e come tale riconosciuto dalla Chiesa. Cerchiamo perciò di metterne in evidenza il ricco e molteplice contenuto.

     Si tratta dell’ultima «cristofania» del Risorto ai suoi Apostoli ai quali viene affidato un mandato «missionario» universale.

     Abbiamo detto sopra che l’ascensione al cielo non era l’abbondono di Gesù, ma solo un suo «momentaneo» allontanamento. Nel frattempo gli Apostoli avrebbero dovuto prolungarne l’opera di salvezza, annunciando il suo «Vangelo» ad ogni creatura. Perciò essi vengono rivestiti di un compito di rappresentanza «vicaria» del Cristo, da realizzare ed estendere per tutto l’arco della storia. È attraverso degli uomini che Cristo verrà ormai «annunciato» ad altri uomini! È questo il suo mandato «testamentario»: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (16,15-16).

     Due cose sono da sottolineare in questo «comando» del Signore. Prima di tutto la sua «universalità»: è «in tutto il mondo» che vengono inviati gli Apostoli; il Vangelo deve essere predicato «ad ogni creatura», senza escludere nessuna razza umana, in qualunque parte della terra essa abiti. In secondo luogo, si esige l’accoglienza, per «fede», del dono del «Vangelo», congiunto con il rito del «battesimo», che anche simbolicamente significa la rinascita a vita nuova, come un autentico «lavaggio» dalle sozzure della vita precedente. Dunque «fede» e «battesimo», intimamente congiunti e vissuti dai cristiani, sono le «vie» che portano alla salvezza.

     E se così sarà e i cristiani vivranno in tal modo, potranno compiere anche «gesti» straordinari, così come capiterà agli Apostoli che parlano «nuove lingue» il giorno di Pentecoste, proprio in ordine all’annuncio del Vangelo (At 2,4,11); oppure a Paolo che, morso da una vipera, la getta a terra senza riceverne alcun male (At 28,3-5), e altri fatti simili che si sono verificati, e continuano a verificarsi, lungo la storia. Ed effettivamente il Vangelo di Marco si chiude con l’affermazione che tutto questo è avvenuto: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (16,20).

     Ma si tratterà solo di «segni» che possono solo testimoniare che la «salvezza» procurata dal Vangelo è «totale», includente, oltre l’anima, anche il nostro corpo sofferente.

     Per l’autore però è importante affermare che tutto ciò avviene come frutto della «perdurante» azione di Cristo che, pur salendo al cielo, non ha abbandonato la sua Chiesa e gli annunciatori del suo Vangelo, ma «opera insieme a loro» proprio in virtù del «potere» che gli deriva dall’essersi assiso «alla destra» del Padre: «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio» (16,19).

Meditazione

La festa dell’Ascensione di Gesù ci rende più presente, quasi più attuale, la visione del «cielo». Una volta un monaco di un monastero copto nel deserto egiziano chiese: gli uomini di oggi pensano a suffi­cienza alla loro dimora permanente? E continuò dicendo che per la maggior parte dei cristiani la vita nel cielo non è altro che un’appen­dice, un supplemento alla vita terrena che è invece ritenuta la vera vita stabile e permanente. La vita del cielo è considerata una specie di post-scriptum, l’appendice di un libro di cui la vita terrena è, appun­to, il vero testo. La verità — concludeva il monaco — è esattamente il contrario. La vita sulla terra è solo la prefazione di quel libro il cui testo è la vita del cielo.

Questa riflessione del monaco è molto saggia. Tuttavia potrebbe suo­nare un po’ semplicistico dire che si pensa troppo a questa vita terrena e poco a quella celeste. Il problema è forse un altro e riguarda il modo in cui pensiamo alla vita sulla terra. E c’è da dire che purtroppo è un modo depauperato, depotenziato e perciò sbagliato. Tutti pensiamo che la vita terrena è una cosa e quella del cielo totalmente un’altra. In realtà, la Scrittura ci suggerisce una continuità della vita, sebbene ci sarà una cesura alla fine dei tempi. Ed è in questa prospettiva che nel Credo si parla di «vita eterna» e non semplicemente di vita futura o dell’aldilà. È come dire che questa vita già da ora deve essere impastata di eternità; e lo è sia nel bene che nel male. Il paradiso e l’inferno iniziamo a viverli da questa terra e su questa nostra terra e in questo nostro tempo. In tal senso, la nostra vita terrena sarebbe trasformata di molto se avessimo lo sguardo rivolto verso il futuro, verso l’alto, verso il cielo. L’Ascensione viene a mostrarci qual è il futuro che Dio ha riservato ai suoi figli. E il futuro è quello raggiunto da Gesù. Ecco perché abbiamo bisogno di «vedere» già questo cielo, sebbene «in speculum et in enigmate» come dice l’apostolo Paolo, per poter vivere bene già su questa terra.

Il mistero dell’Ascensione, appena accennato dal Vangelo di Marco, è narrato con maggiore ampiezza dagli Atti degli Apostoli.

Gesù, scrive Luca, al termine dei suoi giorni, dopo aver parlato ai discepoli, «mentre lo guardavano fu elevato in alto e una nube lo sot­trasse ai loro occhi». Fu un’esperienza straordinaria per quel piccolo gruppo di discepoli. Possiamo immaginare il misto di stupore e di tristezza per la separazione; tanto che rimasero a guardare il cielo. Mentre erano fissi in questa posizione, «ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù… verrà allo stesso modo in cui l’ave­te visto andare in cielo”». Normalmente si interpreta questo testo come una sorta di dolce ma fermo rimprovero ai discepoli perché non si fermino a guardare le nubi del cielo, ma ritornino con il loro sguardo e soprattutto con il loro impegno nell’orizzonte della vita di tutti i giorni. Del resto è stato Gesù stesso ad esortare gli apostoli, proprio un momento prima di lasciarli, dicendo: «andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15-20). Tutt’altro quindi che restare a guardare il cielo.

Ma c’è anche una verità nel tenere gli occhi fissi al cielo. Non che i cristiani debbano formare un gruppo di esoterici fermi a contemplare dottrine astratte, magari per evadere la complessa e talora durissima vita quotidiana. Tenere gli occhi fissi verso il cielo vuol dire tenere ben ferma la meta ove dobbiamo condurre noi stessi e il mondo, le nostre comunità e l’intera storia umana. Scriveva il profeta Isaia: «Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui» (Is 64,3). L’ignoranza del cielo che Dio ci ha rivelato rende senza senso e quindi amara e triste, violenta e crudele, la vita sulla terra. L’apostolo Paolo sembra insistere perché i credenti guardino oltre il presente: «La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fa 3,20). Del resto, chi non vede quanto sia necessario far salire più in alto, appunto verso quel cielo che Gesù ha riaperto, questo nostro mondo spesso sbattuto così tragicamente in basso? Siamo entrati nel nuovo secolo senza utopie, senza sogni, a testa bassa e con gli occhi ripiegati solo su noi stessi. E le guerre e le violenze continuano ad avere un predominio incontrastato. E per di più sembra affermarsi più facilmente la ragione della forza che quella del diritto, del dialogo e del confronto pacifico.

In tal senso, la festa della Ascensione è sommamente opportuna, è una grazia concessa agli uomini perché alzino gli occhi un po’ più in alto del loro orizzonte abituale. E vedranno, come attraverso uno spira­glio, il futuro della storia umana anzi dell’intera creazione; non un futuro generico, più o meno ideologico e astratto, ma concreto: fatto di «carne ed ossa come vedete che ho io», potremmo dire parafrasando una affermazione di Gesù. Egli per primo, infatti, inaugura il nuovo futuro di Dio entrandovi con tutto il suo corpo, con la sua carne e la sua vita, che sono carne e vita di questo nostro mondo. Da quel giorno, il cielo inizia a popolarsi della terra, o, con il linguaggio dell’Apocalisse, iniziano i nuovi cieli e la nuova terra. Il Signore li inaugura e li apre perché tutti possano prendervi parte. Già la sua madre, Maria, lo ha raggiunto, assunta anch’essa con il suo corpo. L’Ascensione è il mistero della Pasqua visto nel suo compimento, scorto dalla fine della storia. L’Ascensione non è solo l’ingresso di un giusto nel regno di Dio, ma la gloriosa intronizzazione del Figlio «seduto alla destra» del Padre. Questa raffigurazione, presa dal linguaggio biblico, esprime simbolica­mente il potere di governo e di giudizio sulla storia umana del Cristo risorto: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra», dice Gesù ai discepoli dopo la Pasqua (Mt 28,18).

Noi non siamo più immersi in una storia senza orientamento, vitti­me del caso o degli astri o di forze oscure e incontrollabili. E fanno tristezza coloro che scrutano i cieli (come quella folla di persone che ogni giorno scruta gli oroscopi…) in cerca di segni di protezione per fuggire la paura e l’insicurezza della vita. Il Signore asceso è lui stesso il nostro cielo e la nostra sicurezza. Egli ci attrae verso il futuro che Lui ha già raggiunto in pienezza. E ai discepoli di ogni tempo conferisce il potere di sviluppare la storia e il creato verso questa meta: essi possono scacciare i dèmoni e parlare la lingua nuova dell’amore; possono neu­tralizzare i serpenti tentatori e vincere le insidie velenose della vita; possono guarire i malati e confortare chiunque ha bisogno di consola­zione. Questa forza sostiene e guida i discepoli sino ai confini della terra e verso il futuro della storia. Il Vangelo di Marco conclude: «par­tirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro». Così sia per ciascuno di noi e per tutte le nostre comunità cristia­ne, ognuno secondo il dono e il ministero ricevuto, come dice Paolo nella Lettera agli Efesini, «finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a rag­giungere la misura della pienezza di Cristo».

 L’immagine della domenica

 

Il cielo

«Osservate più spesso le stelle.

Quando avrete

un peso nell’animo,

guardate le stelle

o l’azzurro del cielo.

Quando vi sentirete tristi,

quando vi offenderanno,

 … intrattenetevi … col cielo.

 Allora la vostra anima

troverà la quiete»

(Pavel A. Florenskij)

 Preghiere e racconti

Il cielo

Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione.

(Joseph Ratzinger/BENEDETTO XVI, Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131). 

L’ascensione di Gesù e la nostra ascensione

Quando nel rito liturgico dell’eucaristia siamo invitati a «innalzare i nostri cuori», rispondiamo: «Sono rivolti al Signore», a quel Signore che è asceso in alto, a colui che non è più qui, ma che è risorto, è apparso agli apostoli ed è scomparso dalla vista. Sempre, ma specialmente in questo giorno nel quale commemoriamo la sua risurrezione e la sua ascensione, noi siamo spinti ad ascendere in spirito come il Salvatore, che ha vinto la morte e ha aperto il regno del cielo a tutti i credenti.

Molti uomini però non ascoltano il richiamo della liturgia; essi sono impediti, anzi posseduti, assorbiti dal mondo, e non possono elevarsi perché non hanno ali. La preghiera e il digiuno sono stati definiti le ali dell’anima, e quelli che non pregano e non digiunano, non possono seguire il Cristo. Non possono innalzare a lui i cuori. Non hanno il tesoro in alto, ma il loro tesoro, il loro cuore e le loro facoltà sono sulla terra; la terra è la loro eredità e non il cielo. […] Al contrario le anime sante prendono una via diversa; esse sono risorte con Cristo e sono come persone salite su una montagna e ora si riposano sulla cima. Tutto è rumore e frastuono, nebbia e tenebra ai suoi piedi; ma sulla vetta tutto è così calmo, cosi tranquillo e sereno, così puro e chiaro, così luminoso e celeste che per loro è come se il tumulto della valle non risuonasse al di sotto, e le ombre e le tenebre non ci fossero.

(John Henry Newman).

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso  col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Abbiamo creduto in lui e ne aspettiamo il ritorno

      Fratelli, noi crediamo in quel Gesù che non hanno creduto i nostri occhi. A noi Gesù lo hanno annunciato coloro che lo hanno veduto, l’hanno stretto con le loro mani, hanno udito le parole uscite dalla sua bocca. Essi, affinché tutti gli uomini accettassero le sue parole, furono inviati da lui; non osarono andare di loro iniziativa. Dove furono mandati? L’avete sentito dalla lettura del Vangelo: «Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura che è sotto il cielo» (Mc 16,15). I discepoli furono dunque inviati in ogni parte del mondo, con la testimonianza di prodigi e segni miracolosi perché gli uomini credessero che essi riferivano cose da loro stessi viste. Noi abbiamo creduto in colui che non abbiamo visto con i nostri occhi e ne aspettiamo il ritorno. Chiunque lo aspetta con fede, sarà ripieno di gioia, quando ritornerà. […] Restiamo dunque fedeli alla sua parola, perché non proviamo confusione quando ritornerà. Egli infatti nel vangelo a quelli che avevano creduto in lui dice: «Se rimarrete nelle mie parole, sarete veramente miei discepoli» (Gv8,31). E quasi gli chiedessero: Con quale vantaggio? «Voi conoscete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Attualmente la nostra salvezza è oggetto di speranza, perché ancora non è stata realizzata; ancora non possediamo ciò che è stato promesso e tuttavia ne speriamo la futura realizza-zione. Colui che ha fatto questa promessa è fedele; egli non ti inganna: tocca a te unicamente non mancargli di fiducia, ma attendere la realizzazione delle sue promesse. La verità non conosce inganni. Non voler esser tu il bugiardo, altra cosa professando e altra facendo; conserva la fede e lui manterrà fede alla sua promessa. Se non avrai conservato la fede, sarai stato tu a defraudarti, non certo chi ti ha fatto la promessa.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento all’epistola di san Giovanni 4,2, NBA XXIV, pp. 1708-1709).

Sii un vero amico

Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno. L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale. Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio. L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte. In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte. Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami. È questo il centro del messaggio di Gesù.

Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata. Al contrario, è cresciuta.

È questo il significato dell’invio dello Spirito. Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’amicizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte. È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro. Sai dall’esperienza quanto questo sia reale. Coloro che hai amato profondamente e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze reali.

Osa amare ed essere un vero amico. L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condurrà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo»(At 1,11).

[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.

La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E, dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando  in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?

In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?». Leggiamo che quando gli apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).

 Preghiera

Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…

Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA ASCENSIONE DEL SIGNORE (B)

VI DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 10,25-27.34-35.44-48

Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anche io sono un uomo!». Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga». Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.  

 

Il brano che leggiamo risulta da tre piccoli ritagli di quel grande affresco che è il cap. 10 degli Atti. Consigliamo di rileggere tutto il cap. 10 nella sua interezza. Siamo ad un momento decisivo del cammino missionario della Chiesa primitiva: la conversione di Cornelio assume dimensione emblematica dell’apertura della predicazione al mondo pagano.

— «Si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio» (v. 25). Di fronte ai prodigi e ad un essere superiore che si ritiene celeste, il mondo pagano reagisce con atteggiamento di adorazione. Così capita anche a Paolo e Barnaba, a seguito di un miracolo, a Listra (At 14,11-15).

— «Alzati…» (v. 26). La predicazione cristiana è sempre attenta ad evitare l’equivoco che si può creare sulla persona degli apostoli, chiarendo che non sono esseri celesti e superiori, ma uomini come gli altri. Coerente con tale chiarimento, Pietro conversa con il centurione con familiarità, allargando l’incontro con le molte persone che sono in quella casa (v. 27).

— «Dio non fa preferenze di persone» (vv. 34-35). È l’inizio del discorso di Pietro: non è soltanto citazione dell’AT (vedi Dt 10,17; Sp 6,8; Sir 35,5), ma ammirata constatazione che trova riscontro nei fatti che Pietro sta vivendo: il privilegio di ricevere la parola di Dio non appartiene più esclusivamente al popolo ebraico. È l’inizio del cammino universale della predicazione cristiana, dell’annuncio della salvezza.

— «Accoglie chi lo teme e pratica la giustizia» (v. 35). Allargata a tutti i popoli, la misericordia di Dio non esige che due disposizioni negli uomini ai quali si rivolge: a) timore e rispetto intimo di Dio riconosciuto come unico e onorato nella propria coscienza; b) pratica della giustizia, ossia di una profonda onestà nei doveri naturali.

— «Lo Spirito Santo discese sopra tutti…» (vv. 44-48). Il racconto che segue è indicato come la «pentecoste dei pagani». Lo stesso Pietro sottolinea che «questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo» (v. 47). Questi pagani, senza seguire le usanze giudaiche, e senza alcuna particolare preparazione, ricevono lo Spirito Santo: ciò dimostra — come rileva l’apostolo Pietro — che sono già pronti per ricevere il battesimo (v. 47). L’effetto carismatico, prodotto nei pagani dalla discesa dello Spirito Santo, è simile a quello ricevuto dagli apostoli nella prima pentecoste: consiste nel fatto di esprimersi in lingue nuove e nel lodare Dio in modo estatico (v. 46). In entrambi gli aspetti è da vedere la unificazione della famiglia umana nel dono delle lingue e della preghiera, questa volta anche nel mondo pagano.

Seconda lettura: 1Giovanni 4,7-10

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.

 

 

In uno sviluppo parenetico (cioè di carattere prevalentemente esortativo) pressocché parallelo a quello della II Lett. di domenica scorsa, la Prima Epistola di Giovanni insiste sulla necessità, per i cristiani, di avere una fede autentica ed un vero amore (4,7;5,4), con la

probabile intenzione di stigmatizzare l’insorgere di alcune eresie nella chiesa primitiva. Senza vero amore non c’è vera fede, e viceversa. Il brano di oggi si colloca esattamente all’inizio di tale sviluppo.

     Tre le affermazioni fondamentali contenute nella nostra lettura:

     — Prima: Dio non è conoscibile se non attraverso la via dell’amore (vv. 7-8). Perché? Dio è amore, in senso operativo, cioè ogni sua attività è mossa da amore. Ne derivano due conseguenze che si possono esprimere in termini positivi e negativi: solo chi ama è nato da Dio (v. 7), solo chi ama i fratelli «conosce», cioè mostra di avere un’esperienza vera e pro-fonda di Dio. Di fatto, l’assenza di amore rende impossibile ogni comunicazione e comunione con Dio (v. 8). Per S. Agostino la conoscenza dello stesso mistero trinitario non avviene se non attraverso un movimento di amore.

     — Seconda: non c’è prova più evidente che Dio è mosso da amore, che il fatto della venuta del Figlio Unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui (v. 9). «Unigenito»: questo titolo attribuito al Figlio ha due valenze: a) è sinonimo di amato, diletto, oggetto di amore unico, e in tal caso sottolinea la grandezza del dono di Dio, mandandolo nel mondo; b) sottolinea l’unicità del Figlio di Dio come rivelatore del Padre; egli è l’unico che veramente possa rivelarci il volto del Padre: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio…» (Mt 11,27).

     — Terza: caratteristica dell’amore divino è che previene l’amore dell’uomo; non aspetta di essere amato per amore. Non siamo stati noi ad amare Dio, (v. 10) anzi noi abbiamo tradito il suo amore col peccato. Ma egli ha preso per prima l’iniziativa e ha mandato il suo Figlio in funzione di espiare, cioè offrire il sacrificio, per i nostri peccati.

Vangelo: Giovanni 15,9-17

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri». 

 

Esegesi 

     Il brano evangelico odierno costituisce l’immediato seguito del vangelo di domenica scorsa (vv. 1-8), ed in certo senso ne è l’illustrazione in termini parenetici. Il brano è costituito grosso modo da due sezioni che fanno capo a due parole-chiave: la parola «amore» e la parola «amici».

     Chiariamo il senso di queste due parole fondamentali su cui il nostro brano è costruito: «amore» e «amico»:

     — amore (in gr. agapō) a differenza di altri verbi che implicano reciprocità e scambio, se si applica a Dio, indica un movimento di amore assolutamente gratuito e illimitato (vedi II Lettura). La fonte è divina e eterna: come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi (v. 9), comunicandosi agli uomini nel tempo. Abbiamo così una serie di anelli che costituiscono tutti essenzialmente il senso dell’agape cristiano: Padre-Figlio-discepoli e discepoli tra loro. La comparazione: rimanete nel mio amore, come io rimango nell’amore del Padre (cf. v. 10) non indica solo un rapporto esemplare o di imitazione. Il come indica la natura e il fondamento stesso dell’amore cristiano, che sgorga ed è alimentato dall’amore trinitario. Perciò l’espressione «nel mio amore», pur potendosi intendere nel senso dell’amore dei discepoli per Gesù, è però più coerente intenderlo come amore di Gesù per i discepoli. Concepito così, tale amore va fino al sacrificio di sé, come lo è stato per quello di Gesù (v. 13);

     — amicizia, amico (in gr. philos). Nei rapporti umani, l’amicizia si stabilisce tra due persone che sono sullo stesso piano. Questo è vero per l’amicizia di Gesù per i discepoli, se si tiene però conto che è lui ad elevarci dal livello di schiavi (doulos) a quello di amici. La differenza, come spiega il Signore, va capita nella prospettiva della comunicazione: tra servo e padrone non c’è comunicazione, perché abitualmente il padrone non fa sapere, e quindi non comunica al servo quello che fa e perché lo fa (v. 15). Gesù invece comunica e rivela ai discepoli quello che ha «udito» dal Padre, cioè li rende partecipi della sua relazione intima e filiale col Padre (v. 15).

     Inoltre, sul piano dell’amicizia umana, ognuno è e si sente autore delle scelte che fa, e non stabilisce le finalità che l’altro deve raggiungere. Nell’amicizia con Gesù non è così: non i discepoli hanno scelto lui, ma lui ha scelto loro — elevandoli al suo livello — con iniziativa gratuita e sovrana (v. 16), e li ha scelti con un preciso scopo: assegnare loro una missione (portare frutto) stabile e duratura (v. 16).

Meditazione

«Amiamoci gli uni gli altri». È l’imperativo che l’apostolo Giovanni non si stanca di rivolgere alla sua comunità. Egli sa bene quanto l’amore sia centrale nella vita dei discepoli. Lo ha appreso direttamente da Gesù. Ma più che da una lezione teorica o da un’esortazione morale, Giovanni ne ha fatto l’esperienza concreta. Ne ha potuto gustare la dolcezza e la tenerezza, ne ha visto la radicalità e l’ampiezza che giungeva sino all’amore per i nemici, anzi sino al dono della stessa vita. Di questo amore Giovanni è stato un testimone privilegiato, un custode attento e un predicatore sollecito. Nella sua prima lettera vuole svelarne la natu­ra e indicarne la fonte: «Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio; chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio» (1Gv 4,7). L’apostolo parla qui di un amore diverso da quello che normalmente noi intendiamo con questo termine. L’amore per noi è quel complesso di sentimenti che nasce spontaneo dal cuore, fatto di attrazione fisica, simpatia, desiderio, passione, compiacimento e soddisfazione di sé. Nel linguaggio del Nuovo Testamento per indicare tale amore si usa il ter­mine greco «eros». L’apostolo usa, invece, la parola «agape» per con­notare l’amore che nasce da Dio e che deve presiedere i rapporti tra i discepoli.

Per comprendere l’amore di Dio (l’agape) non bisogna perciò par­tire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri senti­menti o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio. Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprendere tale amore; esse infat­ti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell’amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina, nelle Sante Scritture scorgia­mo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell’uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che sant’Agostino applicava all’uomo: «Inquietum est cor meum…». Un sacerdote poeta, Davide Maria Turoldo, ha parlato del «cuore inquieto di Dio»: Egli è venuto sulla terra per cercare e salvare ciò che era per­duto, per dare la vita a ciò che non aveva più vita. È un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. In verità, mentre Egli stende la mano per chiedere amore lo dà agli uomini. Egli è la luce che penetra nelle tenebre, per dare vita, per spiritualizzare, per elevare e salvare. Questo è l’amore cristiano: Dio che scende, gratuitamente, nel più basso per raggiungere l’amato.

Sì, Dio è inquieto finché non trova l’uomo. E lo è a tal punto «da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). L’amore di Dio, potremmo dire, «è in discesa», si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, «sino a dare la vita per i propri amici, come Gesù stesso dice. Si legge ancora nella prima lettera di Giovanni: «In questo sta l’amore (cristiano): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4, 10). È Dio che ama per primo, e ama perfino gli esseri immeritevoli del suo amore. È, in effetti, un amore totalmente gratuito; anzi immotivato. Dio, infatti, non ama i giusti ma i peccatori, i quali non sono degni di essere amati. Paolo dice che Dio ha scelto le cose che non contano perché contassero; ha scelto le cose che sono abominevoli di fronte agli uomini, per farne oggetto della sua grazia (1Cor 1, 28). Questo è il Dio dei Vangeli: un Dio che è mosso da un amore che non si fa indietro neppure davanti alla mancanza di vita, alla negazione dell’amore. Dio si fa piccolo pur di raggiungere il più disgraziato degli uomini e arricchirlo della sua amicizia. La storia stessa di Gesù è racchiusa in tale amore. Dio, infatti, non è l’Essere in sé, alla maniera del pensiero aristotelico, ma è l’Essere per noi, è apertura infinita, è amore appassionato per noi.

Se l’intera Scrittura è la storia dell’amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò, se vogliamo balbettare qualcosa dell’amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l’amore è Gesù. L’amore è tutto ciò che Gesù ha detto, vissuto, fatto, amato, patito… L’amore è cercare i malati, è avere per amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. Infatti «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». L’amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito… Questo è l’amore di Dio. Davvero altra cosa dall’eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori… Per questo per la Bibbia e per Gesù l’amore, l’agape, non è un sentimento in balia delle circostanze o dei sentimenti, ma un «comandamento», qualcosa a cui rispondere e che si deve costruire: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi». Forse è proprio quel «come» la novità dell’amore cristiano. Siamo chiamati ad amare nella stessa misura di Gesù.

Il vuoto d’amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili. L’egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti. Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il nostro personale benessere. I legami di affetto tra gli uomi­ni basati sull’attrazione «naturale» sono labili, basta poco per rovesciar­li e distruggerli. È diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire i rapporti definitivi e fedeli. L’eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d’essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l’agape è come la roccia salda che ci risparmia dalla distruzione, perché prima dell’io c’è l’altro. Gesù ce ne ha dato l’esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9).

Il rapporto esistente tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell’amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore; possiamo però riceverlo da Dio; se accolto, ha una forza dirom­pente: fa crollare i muri, cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l’amore di Dio si incrocia, quasi sino all’identificazione, con l’amore vicendevole. L’uno infatti è causa dell’altro. Un noto teologo russo amava dire: «Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!». Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L’amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera dì razza, di cultura, di nazio­ne, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Cornelio. L’agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l’amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11).

L’immagine della domenica

 

 Amare

Ama Dio

per amore del prossimo

e di te stesso;

ama il prossimo

per amore di Dio

e di te stesso ;

ama te stesso

per amore del prossimo e di Dio.

Non opporre gli opposti,

anzi congiungili nell’amore.

Preghiere e racconti

Abitare nella casa dell’amore

Questa è una singolare metafora dell’amore. L’amore non è soltanto un sentimento passeggero. È uno spazio in cui si può rimanere. Gesù, tuttavia, indica anche la condizione per rimanere nell’amore: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,10). Non possiamo godere da soli dell’amore di Dio. Dobbiamo continuare a farlo scorrere verso gli altri. Altrimenti ristagna. E allora lo spazio d’amore, in cui si può abitare tanto bene, crolla.

L’amore di Gesù non prende, come fa spesso il nostro, ma dà. È puro dono. A un amore del genere, che lascia liberi e si dona, che muore per noi e scorre senza confini per noi, aneliamo nel profondo del nostro cuore.

Di fronte al Cristo crocifisso percepiamo che siamo incapaci di vero amore. Il nostro amore si mescola spesso al desiderio di avere l’altro tutto per noi, di riuscire a possederlo. Vogliamo tenerlo stretto, in modo che non ci lasci mai più. E non ci accorgiamo di come gli togliamo la possibilità di evolversi, di diventare interamente se stesso. Spesso vogliamo essere noi a plasmare la persona amata e comprimerla nella forma che ci sembra amabile. Il gesto della croce esprime il contrario: ci lascia liberi, ci invita a farci abbracciare, ma ci lascia anche andare, affinché possiamo percorrere in libertà il nostro cammino.

(Anselm Grün, Apri il tuo cuore all’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 19-20).

Rimanete nel mio amore

 «Rimanete nel mio amore» (Gv 15,10). In che modo ci rimarremo? Ascolta quanto segue: «Se osservate i miei comandamenti», dice il Signore, «rimarrete nel mio amore» (ibi). È l’amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l’osservare i comandamenti che fa nascere l’amore? Ma chi può mettere in dubbio che l’amore precede l’osservare i comandamenti? Chi non ama non ha motivo di osservare i comandamenti. Dicendo: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», il Signore non vuole indicare l’origine dell’amore, ma la prova. Come se dicesse: Non crediate di poter rimanere nel mio amore se non osservate i miei comandamenti; potrete rimanervi solo se li osserverete. Questa sarà la prova che rimanete nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti. Nessuno quindi si illuda di amare il Signore, se non osserva i suoi comandamenti, perché lo amiamo in quanto osserviamo i suoi comandamenti, e quanto meno li osserviamo tanto meno lo amiamo. Anche se dalle parole: «Rimanete nel mio amore» non appare chiaro di quale amore egli stia parlando, se di quello con cui amiamo lui o di quello con cui egli ama noi, possiamo però dedurlo dalla frase precedente. Egli aveva detto: «Anch’io ho amato voi», e subito dopo ha aggiunto: «Rimanete nel mio amore». Si tratta dunque dell’amore che egli nutre per noi. E allora che cosa significa: «Rimanete nel mio amore», se non: rimanete nella mia grazia? E che cosa significa: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», se non che voi potete avere la certezza di essere nel mio amore, cioè nell’amore che io vi porto, se osserverete i miei comandamenti? Non siamo dunque noi che prima osserviamo i comandamenti di modo che egli venga ad amarci, ma il contrario: se egli non ci amasse, noi non potremmo osservare i suoi comandamenti. Questa è la grazia che è stata rivelata agli umili, mentre è rimasta nascosta ai superbi.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 82,3, NBA XXIV, p. 1248).

 Credo

Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero

che non mi seduce con un miracolo

e che non mi opprime con la sua autorità.

Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà,

che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male,

che non accetta compromessi,

ma che benedice la follia di chi lo segue.

Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione,

che non rimette a posto le cose dall’alto,

che non esercita la giustizia degli uomini.

Credo in un Dio che si lascia tradire,

che al mio no risponde con un bacio silenzioso,

credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.

Credo in un Dio che non ho inventato io,

che non soddisfa i miei bisogni,

che non dice e fa quello che voglio io,

un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.

Credo in un Dio vero,

che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità,

che si fa piccolo, debole indifeso

perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.

Credo in un Dio che gioca a nascondino

perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo,

credo in un Dio che mi si fa vicino,

che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.

Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.

(Ester Battista).

Da’ gratuitamente

«Il tuo amore, in quanto viene da Dio, è permanente. Puoi reclamare il carattere permanente del tuo amore come un dono di Dio. E puoi dare questo amore permanente agli altri. Quando gli altri cessano di amarti, non devi cessare di amarli. A livello umano, i cambiamenti possono essere necessari, ma a livello del divino tu puoi rimanere fedele al tuo amore.

Un giorno sarai libero di dare un amore gratuito, un amore che non chiede niente in cambio. Un giorno sarai anche libero di ricevere un amore gratuito. Spesso l’amore ti viene offerto, ma tu non lo riconosci. Lo metti da parte perché rimani fissato nell’idea di riceverlo dalla medesima persona alla quale l’hai dato.

Il grande paradosso dell’amore è che proprio quando hai rivendicato il fatto che sei il diletto figlio di Dio, hai posto dei confini al tuo amore, e quindi hai contenuto i tuoi bisogni, è allora che cominci a crescere nella libertà di dare gratuitamente».

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Queriniana, Brescia. 2005, 27-28).

L’amore

Noi delle strade siamo certissimi di poter amare Dio sin quando avrà voglia di essere amato da noi. Non pensiamo che l’amore sia una cosa che brilla, ma una cosa che consuma; pensiamo che fare tutte le piccole cose per Dio ce lo fa amare altrettanto che il compiere grandi azioni. D’altra parte pensiamo di essere molto male informati sulla misura dei nostri atti. Non sappiamo che due cose: la prima, che tutto quello che facciamo non può essere che piccolo; la seconda, che tutto ciò che fa Dio è grande. Questo ci rende tranquilli di fronte all’azione. Sappiamo che ogni nostro lavoro consiste nel non gesticolare sotto la grazia, nel non scegliere le cose da fare, e che Dio agirà per nostro mezzo. Non c’è niente di difficile per Dio, e chi teme la difficoltà si crede capace di agire. Poiché troviamo nell’amore un’occupazione sufficiente, non abbiamo cercato il tempo per classificare gli atti in preghiere e in azioni. Troviamo che la preghiera è un’azione e l’azione una preghiera; ci sembra che l’azione veramente amorosa è tutta piena di luce. Ci sembra che di fronte ad essa l’anima è come una notte tutta protesa verso la luce che sta per venire. E quando la luce si fa – il volere di Dio chiaramente compreso – ecco l’anima viverla con dolcezza piena, con pacatezza piena, guardando Dio animarsi e agire in essa. Ci sembra che l’azione sia anche una preghiera d’implorazione. Non ci sembra che l’azione c’inchiodi nel nostro terreno di lavoro, di apostolato o di vita. Al contrario, ci sembra che l’azione perfettamente compiuta là dove ci viene reclamata innesta noi in tutta la Chiesa, ci diffonde in tutto il suo corpo, ci fa disponibili in essa. I nostri passi camminano in una strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero. E’ per questo che i nostri piccoli atti, nei quali non sappiamo distinguere fra azione e preghiera, uniscono così perfettamente l’amore di Dio e l’amore dei nostri fratelli. Il fatto di abbandonarci alla volontà di Dio ci consegna nello stesso istante alla Chiesa che da questa volontà medesima è resa costantemente salvatrice e madre di grazia. Ciascun atto docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio in una grande libertà di spirito. Allora la vita è una festa. Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso. Non importa che cosa dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella per il suo Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Un’informazione? …eccola: è Dio che viene ad amarci. E’ l’ora di metterci a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare.

(Madeleine Delbrêl).

Parlami d’Amore

Amore supera l’amore, mio caro. L’amore è volo d’uccello nel cielo infinito. Ma il volo dell’uccello è più che il volteggiare in aria di un esserino di carne, più che le sue ali innamorate, corteggiate dal vento, è più che l’indicibile gioia quando muoiono i battiti delle ali e il corpo in pace plana nella luce. L’amore è canto di violino che canta il canto del mondo. Ma il canto del violino è più che il legno e l’archetto, inerti e solitari, più che le note in abito da sera che danzano sulla partitura, e più che le dita dell’artista che corrono sulle corde. L’amore è luce, per le strade umane. Ma la luce che si dà è più che carezza mattutina che apre gli occhi notturni, più che raggi di fuoco che riscaldano i corpi, e più che mille pennelli d seta che colorano i volti. L’amore è fiume d’argento che scorre verso il mare. Ma il fiume vivo, che indugia o che si affretta, è più che il suo letto accogliente, scrigno che non trattiene, più che l’acqua che si arrossa allo sguardo del tramonto, e più che l’uomo sulla riva che getta l’esca e ne estrae i frutti. L’amore è veliero che sulle acque fende le onde. Ma la corsa del veliero è più che la prora sedotta che penetra il mare, che si offre o i dibatte, più che le vele frementi sotto il tocco della brezza o gli schiaffi del vento, è più che le mani del marinaio afferrate al timone, mentre instancabile insegue la sua selvaggina. …l’Amore supera l’amore. L’Amore è soffio infinito, che viene da un altrove e vola verso l’altrove. L’amore è mente d’uomo che conosce e riconosce il soffio, è libertà d’uomo che tutto si volge verso di Lui. L’amore è consenso dell’uomo al soffio che invita, è cuore dell’uomo che si apre per accoglierlo e donarLo, è corpo dell’uomo che si raccoglie, disponibile, perché da Lui abitato, da Lui invaso prenda il volo verso gli altri, verso… l’altro, e perché infine ciò che era lontano si ricongiunga e si accordi ciò che era separato diventi uno e che dall’uno sgorghi una nuova vita. 

(Michel Quoist).

La mia vocazione

Nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore… la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore.

( Santa Teresa di Gesù Bambino).

Una luce splende alla mia anima

Che ti amo Signore, non ho alcun dubbio; ne sono certo.

Con la tua parola hai toccato il mio cuore, e io ho cominciato ad amarti.

Ma che cosa amo amandoti?

Non una bellezza corporea né una grazia transitoria;

non lo splendore di una luce così cara a questi miei occhi;

non dolci melodie di svariate cantilene;

non un profumo di fiori, di unguenti e di aromi;

non manna né miele, non membra invitanti ad amplessi carnali.

Amando il mio Dio, non amo queste cose.

E tuttavia nell’amare lui amo una certa luce,

una voce, un profumo, un cibo ed un amplesso

che sono la luce, la voce, il profumo,

l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce

che nessun fluire di secoli può portar via,

dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere,

dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire,

dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare.

Tutto questo io amo quando amo il mio Dio.

(S. Agostino)

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

VI DOMENICA DI PASQUA (B)