IV DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 13,14.43-52

 

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisidia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero. Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio. Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”». Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

 

 

 La Chiesa nasce con i problemi di tutte le istituzioni. Il gruppo missionario, partito da Antiochia di Siria (13,1-3), è composto da Barnaba, Saulo e Giovanni Marco; ma a Cipro, evidentemente per dissensi, Giovanni torna indietro e Saulo che prende il nome di Paolo diventa il primo della comitiva (v. 14).

  La nuova meta è Antiochia di Pisidia, una delle più grandi città all’interno dell’Asia minore (Turchia). La tattica missionaria consiste innanzitutto in un approccio con i giudei del luogo, al primo sabato nella sinagoga. Le parole dell’apostolo non lasciano indifferenti gli ascoltatori, sia i giudei che i proseliti ossia i pagani in via di conversione al giudaismo e si fissa un appuntamento per il sabato seguente.

     Ma nel frattempo i giudei hanno tempo di riprendersi e consultarsi e organizzano una ferma resistenza ai nuovi arrivati avvalendosi dell’appoggio di persone autorevoli che erano o riuscirono a far schierare dalla loro parte.

     Non è detto che cosa contestassero, ma verosimilmente la posizione egemonica di Gesù rispetto agli altri profeti. Le loro «bestemmie» non riguardavano certamente Dio, ma Gesù Cristo che essi non accettavano come l’unto del Signore. È sempre Gesù la pietra di scandalo (cf. At 4,11), il segno di contraddizione (Lc 2,34).

     I giudei neanche accettano di mettere in discussione il primato di Abramo e di Mosè, non possono perciò prendere in considerazione le attribuzioni assegnate a un falegname nazaretano. Il Cristo storico non offriva garanzie per essere ritenuto inviato di Dio (cf. Mc 6,1-6; Lc 4,28-29).

     Il settarismo giudaico trova il suo corrispettivo nell’intransigenza cristiana. Gli apostoli che provengono anch’essi dal mondo dei loro oppositori non si provano a cercare un punto di contatto con i loro avversari che pur sono loro fratelli, egualmente figli di Abramo e adoratori dello stesso Dio. Per gli uni la fede in Mosè porta all’esclusione della fede in Cristo, per gli altri l’adesione a Gesù Cristo mette da parte tutti gli altri intermediari tra l’uomo e Dio. Non c’è altro nome in cui è dato salvarsi, è affermato fin dai primi discorsi degli Atti (4,12).

     Ad Antiochia avviene la rottura ufficiale tra il cristianesimo e il giudaismo della diaspora come a Gerusalemme era avvenuta la separazione con il giudaismo palestinese. Il cristianesimo nasce dal solco della tradizione giudaica, ma d’ora in avanti perseguirà un cammino tutto proprio e spesso antagonistico con quello della sinagoga.

     La chiesa dei giudei o della circoncisione diventa presto la chiesa dei soli gentili. Era evidentemente un fatto incomprensibile, uno scandalo si dirà presto. Bisognava cercare una spiegazione biblico-teologica per renderlo plausibile. I testi che parlavano della salvezza dei gentili non prevedevano l’esclusione dei giudei.

     La vertenza di Antiochia, si chiude, come spesso accadrà in futuro nella storia cristiana, con il ricorso al braccio secolare. I giudei, non potendo far tacere gli apostoli con le loro controargomentazioni, mobilitano i notabili della città e con il loro appoggio riescono a far allontanare degli uomini che erano pericolosi per la quiete pubblica.

     Ma la risposta degli apostoli è pari all’ostilità ricevuta: scuotono persino la polvere dai loro calzari in segno di protesta. È il rifiuto di ogni comunione con quanti quella terra calpestavano.

 

Seconda lettura: Apocalisse 7,9.14-17

 Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani.
E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».

 

 

L’Apocalisse trasferisce il lettore sempre in un mondo ideale, quello della risurrezione, di cui tutto si può dire, ma di nulla si può esser certi, salvo la sua realtà.

     L’uomo passa la sua prima esistenza in una realtà opaca, piena di contrasti e di contraddizioni e sogna che l’era futura sia il suo contrario, luminosa, pacifica, accattivante. Un mondo sempre da desiderare oltre che attendere, in cui le ingiustizie e le sofferenze di quaggiù, la stessa morte scompariranno per sempre.

     La fede è una visione ottimistica del futuro, la proiezione verso una vita senza fine dove non un piccolo numero ma una moltitudine sterminata e plurirazziale entrerà a far parte. Quella di Ap 7 è una scena consolante ed esaltante.

     La vita terrena è una grande tribolazione in particolare per i credenti. Essi spesso soccombono sotto il peso dei tiranni, ma la loro fine segna l’inizio di una vita nuova. Sono caduti sotto i ferri degli aguzzini, ma si sono rialzati, indossano tuniche bianche che simboleggiano la luce da cui sono avvolti e nelle loro mani stringono la palma della vittoria. Erano degli sconfitti, ora sono dei vincitori!

     La vita del cielo è per l’ebreo l’idealizzazione della sua esperienza religiosa sulla terra. Gerusalemme e il suo tempio sono trasferiti negli al di là e lo stesso rituale liturgico si ritrova davanti al trono di Dio e l’Agnello.

     L’Agnello è il simbolo di Gesù Cristo morto e risorto; infatti anch’egli è «come immolato» e «in piedi» (5,6), per questo «è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore e gloria e benedizione» (5,12). E quanto la moltitudine dei martiri gli tributa in segno di riconoscenza. «La salvezza appartiene al nostro Dio e all’Agnello» (7,10).

     Ma la gioia nasce dal fatto che i credenti sono diventati partecipi del trionfo dell’Agnello che pascola e guida il suo gregge alle fonti dell’acqua della vita (v. 17).

     Per l’israelita il massimo della beatitudine era ritrovarsi davanti a Dio nel suo santuario; la stessa è la condizione degli eletti. E la tenda dell’abitazione di Dio, il tabernacolo celeste è diventata la loro dimora e la loro vita sarà alimentata da una sorgente perenne.

     Tutte immagini precarie che vogliono ritrarre una realtà inimmaginabile, la sorte dei giusti. In tutti i casi essa sarà di piena felicità spirituale e fisica poiché la presenza di Dio e dell’Agnello è accompagnata dall’assenza di intemperie e di catastrofi.

 

Vangelo: Giovanni 10,27-30 

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.  Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

 

 

Esegesi

     Il breve testo evangelico segna il momento culminante dell’ultimo dibattito di Gesù con le autorità giudaiche. Come il primo, in occasione della purificazione del tempio (2,13), quest’ultimo ha la stessa collocazione topografica.

     È la festa della dedicazione (10,22). Gesù ha rimesso piede nei cortili del tempio, dove in precedenza aveva denunciato gli abusi dei dirigenti giudaici (8,44) e questi avevano cercato di catturarlo e ucciderlo (8,20,37,40,59). Ciò nonostante è di nuovo sul posto e si muove liberamente (sta passeggiando) sotto i loro occhi.

     L’evangelista fa notare che era inverno. Dato che la festa della dedicazione cadeva nel mese di dicembre l’osservazione è superflua; sta facilmente a indicare il clima di freddezza che regnava attorno o più ancora la desolazione che sovrastava sul luogo santo.

     Il tema della conversazione, come nel primo incontro nel tempio (2,15) o nell’interrogatorio fatto al Battista (1,19), riguarda sempre la messianità di Gesù. Questa volta gli interlocutori mostrano ansia e accoramento. Lo attorniano nel senso che lo accerchiano, gli sono addosso quasi da soffocarlo. La loro domanda è ambigua: fino a quando ci tieni sospesi tra la vita e la morte. Può indicare interesse per un quesito teologico essenziale oppure può semplicemente dire che da esso dipende la loro sopravvivenza istituzionale. Se Gesù si dichiara re d’Israele la loro fine è segnata.

     Ma la risposta di Gesù è volutamente circospetta. Egli aggira l’ostacolo; non pronuncia la parola messia, ma suggerisce ai suoi obiettori la strada per arrivarvi. Le parole non fanno grande nessuno; sono i fatti che indicano quello che uno è.

     Le opere a cui Gesù si appella non sono tanto i miracoli, quanto le azioni benefiche compiute a pro degli uomini, i gesti di benevolenza a favore degli afflitti nel corpo e nello spirito, dei malati, dei peccatori. Egli si è definito poco sopra il buon pastore che dà se stesso per le pecore (10,11), che conosce, cioè le ama, come le pecore conoscono Lui, corri-spondono al suo amore; ma non è amore teorico, bensì fatto di gesti concreti per il bene di tutto il gregge, sia quello del recinto israelitico come di altra provenienza (10,16). Gesù non ha mai agito per il suo prestigio personale, cercando la propria gloria (8,50), l’applauso degli uomini (5,41); anzi è fuggito quando questi volevano farlo re (6,15).

     Le «opere» di Gesù sono le stesse che Dio compie e perciò autenticano la sua missione. Egli ha ricevuto lo Spirito nel giorno del battesimo (1,32) e da quel giorno si è lasciato guidare unicamente dalle sue mozioni. Sempre e ininterrottamente. Il suo cibo è compiere la volontà del Padre (4,34). E più chiaramente: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato… che io non perda nessuno di quanti mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno» (6,39-40).

     Gesù non si è messo in testa un suo ideale messianico; non ha assecondato le voci della carne e del sangue (Gal 1,16), meno ancora le istigazioni sataniche (Mt 4,1-12) bensì le proposte dello Spirito di Dio, lo stesso che ha parlato a Mosè e ai profeti, solo che allora il suo discorso era incompleto o carente, ora è senza veli e riserve. Il Dio che si è rivelato ad Abramo, Isacco e Giacobbe è in realtà il padre di tutti gli uomini e rivolge a tutti non solo ad alcuni le sue premure (10,16).

     Gesù ha capito che Dio è un padre prima che un Signore; non mira alla realizzazione del regno d’Israele, ma del regno dei cieli sulla terra, cioè a una convivenza tra gli uomini che assomigli a quella che vige nel mondo in cui egli vive.

     La risurrezione di cui Gesù segnala l’avvento (6,39-40) o la vita eterna non è che il passaggio nella famiglia dei figli di Dio, che non conosce circoscrizioni di tempo o di spazio, ma comincia subito con il germogliare della fede (5,19-30).

     Il discepolo di Gesù non si misura da quello che egli sa dire su di lui, ma da quello che sa compiere sul suo esempio (13,15). Mosè ha dato dieci comandamenti; Gesù uno solo che è quello di amarsi di uni gli altri (14,15; 15,12).

     Gesù ricapitola in un termine convenzionale il gruppo dei suoi seguaci, gregge, e i suoi discepoli nel termine pecore, un animale noto per la sua mansuetudine. Per questo designa se stesso con l’appellativo di pastore (10,11-16). Il vero pastore ama il suo gregge, ma occorre che questi risponda alla sua attenzione. Come ci sono buoni e cattivi pastori ci sono pecore docili e pecore ribelli. I giudei che arbitrariamente ostacolano l’opera di Gesù sono di quest’ultima categoria. «Non siete mie pecore», dichiara Gesù (v. 26). Essi non credono in lui perciò non fanno parte del suo gregge. Non tendono l’orecchio a quello che egli dice in nome di Dio, ma ascoltano solo se stessi, le loro aspirazioni egemoniche (10,1), assecondano lo spirito di rapina, di sfruttamento degli altri (10,8,10); non possono credere a Gesù che chiede di amare il prossimo.

     Gesù segnala in due verbi la figura del discepolo, akouein (ascoltare) e akolouthein (seguire). Alla base di tutto c’è l’ascolto. La fede nasce dall’udito, afferma Paolo (Rm 10,14) e quando si accoglie ciò che si è percepito si è sulla via della fede, non ancora nel numero dei credenti. Il profeta parla e i passanti si fermano ad ascoltarlo; alla fine ritengono veritiero il suo messaggio. È un primo passo, ma occorre compierne un altro decisivo. Non basta ascoltare, occorre avvertire la carica di bontà, di amore che è in colui che parla e riuscire a farla propria.

     Gesù vanta di conoscere le sue pecore. Il verbo conoscere ha un senso pieno; non indica solo apprensione mentale ma comunione di amore e di vita con la persona conosciuta. «Nessuno conosce il padre se non il figlio» afferma Gesù; nessuno lo ama tanto quanto lui (Mt 11,27). Allo stesso modo Gesù conosce le sue pecore perché le ama; così sono suoi discepoli quelli che hanno creduto al suo amore (cf. 1Gv 4,16) e si sono messi alla sua sequela (v. 27). Il verbo akolouthein significa mettersi materialmente al seguito di qualcuno, ma nel vangelo equivale a diventare discepolo di Gesù, farsi suo «accolito». Allo stesso modo il verbo akouein indica più di un ascolto auricolare: è accettare la parola o proposta udita, credere, ubbidire.

     Il credente è colui che riesce ad accettare quanto gli è comunicato in nome di Dio e a metterlo in pratica. Non è un discorso di logica ma di rischio; egli non vede colui che parla in Gesù, ma accetta egualmente la sua presenza e la parola che gli fa pervenire. L’unica garanzia che Gesù può offrire sono i suoi comportamenti che sono gli stessi di Dio.

     Il bene è il distintivo di Dio e di chiunque si propone in suo nome. L’albero si riconosce dai frutti, afferma altrove Gesù (Mt 7,17); il buon pastore è colui che dà la vita per le pecore; chi non è contro di noi è per noi (Mc 9,40); non si raccolgono le uve dagli spini (Lc 6,44).

     L’agire di Dio è inequivocabile, e tale è anche il modo di comportarsi di Cristo; non ci possono essere dubbi sulla sua intesa con lui. Egli è della sua famiglia, il Figlio, perché ha le stesse attitudini naturali, le stesse capacità operative del Padre. Più che sul piano dell’essere a cui non è fatto nessun accenno è sull’operare che Gesù raggiunge la perfetta iden-tità con Dio.

     La frase «Io e il Padre siamo una cosa sola» (v. 30) è la chiave di tutto il discorso che Gesù sta portando avanti con i suoi interlocutori. Essi vogliono un segno della sua messianità e la risposta unica che ha addotto (cap. VIII) e che ora ribadisce è nella sintonia operativa tra lui e Dio. Quello che il Padre fa da sempre, il bene, fa anche lui che sta spendendo

la vita per gli altri.

     Non c’è che Gesù e il Padre che sanno amare così disinteressatamente, anzi con il discapito della propria reputazione e della stessa vita, per questo può affermare che il suo amore per l’uomo è estremo (13,1) e che non esiste un’altra carità più grande della sua (15,13).

     Il disegno della salvezza è un circolo concentrico che parte da Dio e a lui fa ritorno. Accettarlo, farlo proprio, credere è inserire la propria esistenza in questo circuito che porta l’uomo all’amicizia e alla comunione di vita con Dio. Non per nulla anche il credente è dichiarato «nato da Dio» (1,12) e può rivolgersi a lui con l’appellativo di Padre, può sentirsi

suo vero figlio (cf. Mt 6,9; 1Gv 3,1-2). Uno stato di vita inammissibile che né le ostilità presenti (10,9), né la morte verranno a distruggere.

     Gesù è il buon pastore che difende il suo gregge (10,11); il Padre non si lascia strappare nessuno di coloro che sono uniti a lui: questa fede è quella che conta sopra ogni cosa (v. 29). Ma agli occhi dell’uomo non appare nulla di questi legami misteriosi; bisogna avere il coraggio di credere che essi esistono realmente e cercare di rinsaldarli ogni giorno perché ogni giorno c’è il pericolo di perderli di vista.

 

L’immagine della domenica

 

 

Il Signore è il mio pastore

Non manco di nulla, su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male perché tu sei con me.

Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza. Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici, and cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca. Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni.

(Cf. Salmo 23).

 

Meditazione 

La quarta domenica di Pasqua è sempre dedicata alla figura di Gesù-Pastore, e ogni anno si legge come brano evangelico un passo del cap. 10 del vangelo di Giovanni. Come sempre dobbiamo collocare questi testi nel contesto liturgico di questo tempo e coglierli dunque nel loro significato pasquale: Gesù è presentato non come pastore in astratto, ma come pastore in rapporto alla sua Pasqua.

La seconda lettura, tratta dall’Apocalisse, ci fornisce la chiave per interpretare il brano evangelico nel contesto del Tempo pasquale. In particolare, è significativo il passo che accosta l’immagine del Pastore a quella dell’Agnello. Gesù è Pastore perché è Agnello: cioè è divenuto pastore e guida perché ha donato la vita per l’umanità. La moltitudine immensa di salvati ha lavato la veste nel suo sangue, non in modo auto­matico e distaccato, bensì passando attraverso la grande tribolazione, cioè facendo proprio il dono di vita che l’Agnello-Gesù ha già vissuto, scon­figgendo per sempre la morte. Questa visione finale della storia, che si conclude con la bellissima immagine di Dio che terge ogni lacrima dagli occhi dell’umanità, è lo sfondo sul quale collocare i versetti del vangelo: uno dei frutti della Pasqua che irradia di luce nuova la storia è proprio la costituzione di Gesù come Pastore.

Nella pagina degli Atti degli Apostoli (prima lettura) questo frutto della Pasqua viene contemplato nelle vicende della Chiesa nascente, che speri­menta — anche nelle contraddizioni delle vicende umane fatte di chiusure e contrapposizioni — la guida del suo Pastore, che apre strade inattese e insperate, colmando i cuori dei discepoli di gioia e di Spirito Santo.

Le mie pecore ascoltano la mia voce… mi seguono

Proviamo a vedere quali sono, nel testo di Giovanni, i verbi che deno­tano l’azione delle pecore e quali quelli che hanno per soggetto il pastore-Gesù.

Anzitutto le pecore ascoltano la voce del Pastore (la mia ‘voce’: è Gesù che sta parlando in prima persona). Il secondo verbo che ha come sog­getto le pecore è ‘seguire’. Le pecore che ascoltano la voce di Gesù lo seguono. Anche nelle altre ricorrenze del verbo ‘ascoltare’ e del termine `voce’, che troviamo nel cap. 10, è presente il verbo ‘seguire’.

Le pecore, quindi, ascoltano e seguono. Ma su cosa si basa l’ascolto della voce di Gesù e la sequela da parte delle pecore? La risposta a que­sta domanda si trova nei verbi che hanno per soggetto Gesù. Egli conosce le pecore e dona loro la vita eterna. Anche queste espressioni sono pre­senti in altri punti del discorso del cap. 10 sul buon Pastore. Al v. 14 leggiamo che il buon Pastore conosce le sue pecore e le sue pecore lo conoscono. Al v. 15 si afferma che il pastore-Gesù dà (depone) la sua vita per le pecore: un’espressione diversa, che però presenta somiglianze e legami con quella del v. 28a.

Se c’è un nesso per le pecore tra l’ascolto e la sequela, il testo crea un nesso anche tra conoscere e dare la vita (nei due sensi) per Gesù. Nella Bibbia la conoscenza non è una realtà principalmente razionale, ma è qualcosa di `relazionale’, rimanda a un’esperienza. Si conosce, quando si è sperimentata una cosa/persona e si è rimasti toccati dall’incontro con essa. La conoscenza reciproca tra Pastore e pecore è allora una relazione fondata sull’amore di Gesù per le sue pecore, i suoi discepoli, fino al dono della vita. Per Gesù conoscere le pecore significa donare per loro la vita perché abbiano la vita eterna (cfr. Gv 10,10).

Questo è uno dei frutti della Pasqua di Gesù: la conoscenza recipro­ca fondata sull’amore. Sempre nel vangelo di Giovanni, un episodio delle apparizioni del Risorto il mattino di Pasqua rievoca anch’esso questa realtà. Maria Maddalena nel giardino della risurrezione ricono­sce il Signore risorto solo quando si sente chiamata per nome, quando ode la sua voce e la sa riconoscere: «Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: Maestro!» ( Gv 20,16).

Io e il Padre siamo una cosa sola

Il secondo paragrafo del vangelo passa a parlare della relazione tra il Padre e Gesù, come fondamento della sicurezza con la quale Gesù tiene nelle sue mani le pecore. È il Padre che ha affidato a Gesù le peco­re e lo ha quindi costituito pastore: su questo fondamento esse stanno sicure nelle sue mani.

Come in tutto il vangelo di Giovanni, anche qui si afferma che il fondamento della relazione tra Gesù e i suoi discepoli è la relazione esi­stente tra Gesù e il Padre. Questo appare chiaro in Gv 17,22: «Io ho dato loro la gloria che tu mi hai data, perché siano uno come noi siamo uno». Quel ‘come’ per Giovanni ha un valore molto forte: con esso l’evangelista afferma che la relazione Padre/Figlio è il ‘modello’ della relazione Figlio/discepoli. I discepoli sono sicuri nella mano del Figlio, perché in essa si rende presente la mano del Padre.

Un’altra realtà che emerge dal testo è la mediazione che Cristo esercita tra il Padre e le pecore/discepoli. Se nella prima strofa i due perso-naggi sono il Figlio e i discepoli e nella seconda il Figlio e il Padre, vediamo anche come il Figlio sia ciò che congiunge e crea la relazione tra il Padre e i discepoli. Anche in questo caso si tratta di un frutto della Pasqua di Gesù: la relazione dei suoi discepoli con Dio Padre, che Gesù ha stabilito nella sua carne. Egli è divenuto la via attraverso la quale l’umanità può rivolgersi a Dio in un modo nuovo.

I due paragrafi si illuminano a vicenda e, con la premessa ricavata dalla seconda lettura della liturgia della Parola di questa domenica, possiamo cogliere in questo testo un tratto essenziale della Pasqua. Nella sua Pasqua, Gesù è divenuto Pastore. Ma questa sua investitura proviene dal Padre in forza della sua vita donata, evento definitivamen-te sigillato dalla risurrezione. È una relazione reciproca e non più cancellabile quella che la Pasqua di Gesù ha creato tra lui e le sue pecore: egli è Pastore perché Agnello che ha dato la sua vita.

Ma che cos’è che rende indelebile e definitiva la ‘vita’ che Gesù può ora donare alle pecore? Egli ci attira nella relazione che intercorre tra lui e il Padre. E perché siamo divenuti partecipi di quella relazione, perché noi viviamo in Gesù la nostra relazione con Dio, che la nostra vita ha già da ora il volto dell’eternità.

 Preghiere e racconti

Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo

«Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore» (10,14s). In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto. La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore. La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre. I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù. Allora potremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro. Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.

Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo. Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione empirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo. L’uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio. Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.

La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comunione della conoscenza e dell’amore di Dio. Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinitario.

L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre. «La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità.

Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre. Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».

(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).

Le mie pecore ascoltano la mia voce

«La prova della nostra appartenenza alle pecore di Cristo è l’ascoltare volentieri ed essere pronti a obbedire, come pure non star dietro a cose estranee. E l’ascoltare lo intendiamo come credere a ciò che viene detto. Sono poi conosciuti da Dio quelli che l’ascoltano; esser conosciuto equivale a essere suo familiare e assolutamente nessuno è sconosciuto a Dio. Quando Gesù dice dunque: Conosco le mie pecore (Gv 10,14), è come se dicesse: “Le abbraccerò e le unirò a me con un’unione mistica, con un’unione di affetti”. Ma qualcuno potrebbe dire che egli, in quanto è uomo, unisce a sé tutti gli uomini per il fatto che appartengono anch’essi al genere umano. In questo modo tutti siamo familiari di Cristo in modo mistico in quanto si è fatto uomo. Sono invece estranei quanti non conservano nella santità l’immagine [di Dio che è in essi] (cfr. Gen 1,27) […] Dice poi: E le mie pecore mi seguono; quelli che credono, infatti, per un dono divino seguono le orme di Cristo, non osservando le ombre della Legge ma seguendo con la sua grazia i comandamenti e le parole di Cristo, saliranno alla sua dignità, in quanto chiamati ad essere figli di Dio. Poiché Cristo è asceso, anch’essi lo seguiranno […] Gesù dice: Nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio (Gv 10,29), cioè da me. Dichiara di essere la mano onnipotente del Padre, come se il Padre operasse tutto per mezzo suo, così come ciò che è fatto da noi viene compiuto dalla nostra mano. In molti passi della Scrittura Cristo è chiamato la mano e la destra del Padre, cosa che indica la potenza. E semplicemente è chiamata mano di Dio la potenza e la forza che compie tutte le cose».

(CIRILLO DI ALESSANDRIA, Commento al vangelo di Giovanni 7, PG 74,20A-21B).

Essere conosciuti da Gesù

Gesù, il buon pastore, dice di sé che conosce i suoi. Essere conosciuti da Gesù significa la nostra beatitudine, la nostra comunione con lui. Gesù conosce solo coloro che ama, coloro che gli appartengono, i suoi (2 Tm 2,19). Ci conosce nella nostra qualità di perduti, di peccatori, che hanno bisogno della sua grazia e la ricevono, e al tempo stesso ci conosce come sue pecore. Nella misura in cui ci sappiamo da lui conosciuti e da lui soltanto, egli si da a conoscere a noi, e noi lo conosciamo come colui a cui solo apparteniamo in eterno (Gal 4,9; 1 Cor 8,3).

II buon pastore conosce le sue pecore e solamente esse, perché gli appartengono. Il buon pastore, e lui soltanto, conosce le sue pecore, perché lui solo sa chi gli appartiene per l’eternità. Conoscere Cristo significa conoscere la sua volontà per noi e con noi, e farla; significa amare Dio e i fratelli ( 1 Gv 4,7s.; 4,20).

È la beatitudine del Padre riconoscere il Figlio come figlio, ed è la beatitudine del Figlio riconoscere il Padre come padre. Questo riconoscersi reciprocamente è amore, è comunione. Ugualmente, è la beatitudine del Salvatore riconoscere il peccatore quale sua proprietà acquistata, ed è la beatitudine del peccatore riconoscere Gesù quale suo Salvatore. Per il fatto che Gesù è legato al Padre (e ai suoi) da una tale comunione di amore e di conoscenza reciproca, per questo il buon pastore può deporre la propria vita per le pecore e acquistarsi così il gregge quale sua proprietà per tutta l’eternità.

(D. BONHOEFFER, Memoria e fedeltà, Magnano, 1979, 163s.).

Preghiera a Gesù Buon Pastore

O Gesù buon Pastore,

nei santi apostoli Pietro e Paolo

hai dato alla tua Chiesa

due modelli di Pastori

secondo il tuo cuore.

 

Fa’ che, sul loro esempio

e confortati

dalla loro testimonianza,

impariamo ad amare

e servire i fratelli

con gioia e gratuità. 

O santi apostoli Pietro e Paolo

intercede per noi,

affinché possiamo vivere

in comunione nelle diversità dei doni e dei ministeri.

Amen!

(Dagli scritti di don Alberiore)

Preghiera per le vocazioni sacerdotali

Signore Gesù, guida e pastore del tuo popolo,

tu hai chiamato nella Chiesa

San Giovanni Maria Vianney,

curato d’Ars, come tuo servo.

Sii benedetto per la santità della sua vita

e l’ammirabile fecondità del suo ministero.

Con la sua perseveranza

egli ha superato tutti gli ostacoli

nel cammino del sacerdozio.

Prete autentico,

attingeva dalla Celebrazione Eucaristica

e dall’adorazione silenziosa

l’ardore della sua carità pastorale

e la vitalità del suo zelo apostolico.

Per sua intercessione:

Tocca il cuore dei giovani

perché trovino nel suo esempio di vita

lo slancio per seguirti con lo stesso coraggio,

senza guardare indietro.

Rinnova il cuore dei preti

perché si donino con fervore e profondità

e sappiano fondare l’unità delle loro comunità

sull’Eucaristia, il perdono e l’amore reciproco.

Fortifica le famiglie cristiane

perché sostengano quei figli che tu hai chiamato.

Anche oggi, Signore, manda operai alla tua messe,

perché sia accolta la sfida evangelica del nostro tempo.

Siano numerosi i giovani che sanno fare

della loro vita un «ti amo» a servizio dei fratelli,

proprio come San Giovanni Maria Vianney.

Ascoltaci, o Signore, Pastore per l’eternità. Amen.

(Mons. Guy Bagnard, vescovo di Belley-Ars).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

IV DI PASQUA

III DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 5,27-32.40-41

 

In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo». Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono». Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.

 

 

Questo compito di pascere gli agnelli, ossia di dare come cibo al popolo la dottrina predicata da Cristo, viene contestato espressamente a Pietro e agli apostoli dalle autorità di Gerusalemme. Un primo incidente si era già verificato in precedenza, quando Pietro e Giovanni guarirono lo storpio che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del Tempio (At 3). In quell’occasione, mentre Pietro teneva un discorso, sopraggiunsero i sacerdoti e il comandante delle guardie del Tempio per arrestare i due apostoli, che avevano suscitato la fede in circa cinquemila uomini (At 4,1-4). Pietro non esitò a parlare con franchezza di Gesù davanti alle autorità, ricevendo soltanto il solenne ammonimento di non evangelizzare più (4,13-17). Pietro e Giovanni, però, altrettanto decisamente risposero: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi piuttosto che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (4,19-20).

     Tenendo presente quest’antefatto, divengono più chiare le parole di rimprovero che il sommo sacerdote rivolge agli apostoli. Ma costoro riprendono l’argomento della volta precedente: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (5,29). Senz’altro viene da porsi quest’interrogativo: come mai un gruppo di persone sprovvedute, o almeno così giudicate, ha tale franchezza nel parlare ai capi del popolo, toccando il tasto ancora dolente della morte di Gesù? Da dove nasce questo coraggio di «obiettare»? L’unica risposta accettabile e che non necessita di molti commenti proviene dalle loro stesse parole: «E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono» 5,32). Lo Spirito quindi è l’anima di queste persone, a cui un giorno il Maestro disse: «Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc12,11-12). E nemmeno la fustigazione li fece recedere, piuttosto considerarono un onore e perfetta letizia l’essere stati percossi a causa di Gesù Cristo e del suo Vangelo (cf. Mt 5,10-11 e Gc 1,2-4).

 

Seconda lettura: Apocalisse 5,11-14

 

Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli». E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.

 

 

L’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto ha dominato sempre l’attività degli apostoli. Essi però aggiungono che «Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati» (At 5,31 ). Quest’innalzamento nella gloria il libro dell’Apocalisse ce lo descrive con il suo tipico linguaggio simbolico. Gesù è chiamato Agnello, e come tale entra in scena al v. 6 del capitolo 5. Egli è al contempo «ritto», per indicare che è risorto e possiede tutta la forza che gli deriva dalla risurrezione, e «come immolato» (anche se sarebbe meglio tradurre «come ammazzato»), per sottolineare che egli ha pure tutte le virtualità che provengono dalla sua passione e morte. In virtù di tutto ciò, l’Agnello è in grado di «prendere il libro e di aprirne i sigilli» (5,9), ossia di saper leggere il piano di Dio.

     Il veggente assiste a uno spettacolo straordinario: un numero infinito di angeli, insieme agli esseri viventi e ai vegliardi, che lodano l’Agnello, di cui si ricorda ancora una volta la sua passione e morte violenta, ma in più si dice che è degno di ricevere una serie di prerogative e riconoscimenti. L’aggettivo «degno» non deve trarre in inganno: esso non si riferisce a valori morali, bensì alla capacità, da lui detenuta, di ricevere da Dio la potenza di agire, la ricchezza delle risorse divine, la sapienza nel condurre la storia e la forza di vincere il male, e dagli uomini l’onore, cioè la riconoscenza della sua azione di salvezza, insieme alla gloria e alla benedizione nella preghiera e nella liturgia.

     Ciò in effetti avviene al v. 13, quando ogni essere creato nei cieli (gli angeli), sulla terra (gli uomini), sotto terra (i morti) e sul mare (coloro che, uomini o angeli, hanno dimostrato di saper vincere il male, di cui il mare sarebbe la sede) elevano l’inno di lode a Dio, il grande dominatore della storia e della natura, che perciò siede sul trono, e all’Agnello, che ha concretamente realizzato le condizioni di questo dominio divino. Le creature, quindi, consapevoli che Dio e Cristo-Agnello hanno donato loro tutto quello di cui bisognavano per vincere il male, a modo loro nella lode colma di gratitudine tentano di restituire ciò che hanno ricevuto.

 

Vangelo: Giovanni 21,1-19

 

In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi». 

 

Esegesi

     Il primo versetto della pericope evangelica inquadra bene il taglio da conferire alla sua lettura: «Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così». Il verbo «manifestare» (in greco faneroo), poi, ricorre successivamente al v. 14, quasi a conclusione della prima parte di quest’ultimo incontro tra Gesù e i suoi discepoli: «Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti». In realtà, questo termine non è nuovo nel Vangelo di Giovanni, viene usato in 1,31 quando Giovanni Battista spiega che l’obiettivo della propria missione è «far conoscere» il Cristo; in 2,11 viene detto che Gesù «manifestò» la sua gloria nel segno compiuto a Cana; in 3,21 Gesù conclude il dialogo con Nicodemo affermando che chi compie la verità cammina verso la luce, allo scopo di «far apparire» che le sue opere sono fatte in Dio; in 7,4 viene tentato a «manifestarsi», cioè a compiere qualche segno grandioso; in 9,3 giustifica la cecità del cieco nato con l’opportunità di «manifestare» le opere di Dio; in 17,6 Gesù riassume la sua missione dicendo che «ha manifestato» il nome del Padre all’umanità. Questa volta, invece, Gesù non deve manifestare altro che se stesso in quanto risorto.

     Il verbo «manifestare» svolge una funzione importante nel capitolo 21: essendo presente nei vv. 1 e 14, esso ne delimita la prima parte, tutta dedicata al riconoscimento del Maestro, mentre i vv. 15-19 e 20-23 sono occupati da due dialoghi tra Gesù e Pietro, di cui la pericope proposta nella liturgia ci riporta solo il primo. Fatte queste premesse, siamo pronti ad addentrarci nel brano.

     Per l’evangelista Giovanni questa fu la terza e ultima apparizione di Gesù ai suoi discepoli (cf. 21,14), senza appunto contare quella a Maria Maddalena nel mattino stesso di Pasqua (20,11-18). Quanto tempo dopo l’apparizione a Tommaso (20,26-29) Gesù si sia nuovamente manifestato ai discepoli, il Vangelo non lo dice. Conosciamo però il luogo dell’avvenimento: non più Gerusalemme, teatro della passione, morte e risurrezione del Maestro, bensì «sul mare di Tiberiade» (21,1), zona dalla quale provenivano molti dei discepoli. I testimoni dell’accaduto, elencati al v. 2, sono sette dei Dodici discepoli, ma soltanto di cinque ci viene riferito il nome, ossia Simon Pietro, Tommaso, Natanaele e i due figli di Zebedeo. Possiamo però supporre che gli altri due siano il discepolo che Gesù amava, espressamente richiamato nel v. 7, e Andrea, fratello di Pietro. La narrazione evangelica esordisce mettendoci al corrente della decisione di Pietro, a cui si accodano anche gli altri. Ma l’iniziativa si conclude in verità con un radicale fallimento: «Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla » (v. 3).

     A questo punto entra in scena Gesù: quando era già l’alba, egli si presentò sulla riva. Benché gli apostoli si trovassero a poco più di novanta metri dalla riva (il testo greco parla di duecento cubiti, v. 8), non riconobbero che quella persona dalla terraferma era il Signore se non quando, ordinando di gettare le reti dalla parte destra della barca, si verificò il segno della «pesca miracolosa» e, quindi, il discepolo prediletto pronunciò la frase che forse tutti avevano in mente ma nessuno aveva il coraggio di pronunciare: «È il Signore!» (v. 7). La reazione di Pietro è immediata: si vestì, si gettò in acqua e guadagnò la riva, mentre gli altri la raggiunsero con la barca. I discepoli trovarono che era già stata preparata per loro una «colazione», a cui Gesù chiese di aggiungere del pesce appena preso. Ciò offre al narratore di volgere l’attenzione sulla rete che, tratta da Simon Pietro, non si ruppe, benché contenesse una gran quantità di pesci, ben centocinquantatre.

     Non ci soffermiamo sul tema del riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli, che è tipico di tutti i racconti pasquali e certamente già analizzato. Prestiamo invece attenzione alla figura di Pietro, il cui ruolo era stato in un certo qual senso definito quando Gesù lo incontrò: «Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: ‘Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti

chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)’» (1,42; cf. Mt 16,17-19). Prima di chiudere del tutto la sua vicenda terrena, Gesù vuole finalmente chiarire il suo progetto, che potremmo sintetizzare intorno a tre principi. In primo luogo, non esiste alcuno che possa realizzare qualcosa prescindendo da Lui, nemmeno Pietro. Lo dimostra la pesca infruttuosa intrapresa da questi e dagli altri: ci sembra sentire risuonare le parole di Lc 5,5: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla». In secondo luogo, è Pietro che si sobbarca la fatica di trarre a riva la rete piena di pesci, ossia è a lui in prima istanza che è data la responsabilità di essere «pescatore di uomini» (cf. Lc 5,10). Infine, la rete che non si rompe sottolinea il fatto che, autenticamente fondata sulla parola di Gesù e guidata da Pietro, la chiesa non si divide (il testo greco usa il verbo schízo, quasi a voler escludere «scismi»).

     Il dialogo dei vv. 15-19 esplicita la simbologia del racconto della manifestazione. Gesù chiede a Pietro per ben tre volte se lo ama, perché è sulla base di quest’amore totale e incondizionato che diventa concreta e fruttuosa l’esecuzione della missione. La missione viene esplicitata con il comando di pascere, come al v. 11 era stata indicata con il verbo «trarre». Ma le pecore e gli agnelli da pascere non appartengono a Pietro, bensì a Gesù, che ha offerto la propria vita per loro, al fine di riunirle e di proteggerle da chi vuole disperderle (cf. Gv 10,11-18). Ma pure a Pietro viene chiesto di offrire la vita per il gregge che Gesù gli ha affidato (vv. 18-19), perciò acquisisce un senso più chiaro quell’invito a seguirlo nel peso di pascere il gregge e di morire per esso.

 L’immagine della domenica

 

                         

Preghiera

Gesù, pastore e pascolo dei tuoi fedeli,

guida sicura e sentiero di vita,

tu che conosci tutti per nome e ci chiami ogni giorno a uno a uno,

rendici capaci di riconoscere la tua voce,

di sentire il calore della tua presenza che ci avvolge,

anche quando la strada è angusta, impraticabile,

e la notte profonda, interminabile.

Seguendoti senza resistenze e senza paure,

giungeremo ai prati verdeggianti,

alle fresche sorgenti della tua dimora,

dove tu ci farai bere e riposare.

 

Meditazione 

     Dopo averci fatto ascoltare il racconto della venuta del Risorto nel cenacolo, la liturgia di questa terza domenica di Pasqua ci conduce presso il lago di Tiberiade per assistere alla terza e ultima manifestazione di Gesù narrataci da san Giovanni. È un manifestarsi di nuovo, come l’evangelista precisa al v. 1: «Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo». Dopo questi fatti, dopo tutto ciò che il Quarto Vangelo e i Sinottici ci hanno raccontato della vicenda storica e pasquale di Gesù, il Signore torna a manifestarsi nella ferialità della vita, laddove i discepoli sembrano tornare alle occupazioni di sempre. Con ogni probabilità il vangelo di Giovanni, nella sua prima redazione, si concludeva al capitolo 20; il capitolo 21 costituisce dunque un’aggiunta successiva da parte della comunità. Al di là di questi problemi storico-letterari, noi lettori ci troviamo di fronte a questo fatto sorprendente: nel momento in cui il vangelo si chiude, torna ad aprirsi. Il Signore si manifesta nuovamente nel tempo della Chiesa, anche dopo ‘quei fatti’ che appartengono alla memoria storica dei primi discepoli. Giovanni parla qui di manifestazione, un termine che non usa mai nei racconti di risurrezione del capitolo precedente. Quasi a suggerirci che si tratta di un manifestarsi diverso rispetto agli incontri vissuti con il Risorto dai suoi discepoli storici. Nello stesso tempo precisa che si tratta della «terza manifestazione», ricollegandola così alle apparizioni precedenti. È un manifestarsi del Risorto diverso, ma in continuità con gli incontri vissuti dai discepoli della prima ora. Il primo invito con cui questa pagina ci interpella è allora a vigilare per riconoscere questa manifestazione sempre nuova del Signore nella nostra vita e nella vita delle nostre comunità.

     Siamo già nella luce piena del tempo pasquale, eppure il racconto giovanneo ci conduce ancora nella notte, che non è solo la notte dell’infecondità di una pesca vana, ma anche la notte dell’assenza del Signore. Inoltre la barca, nell’insieme della tradizione evangelica, sembra essere luogo di prova e di purificazione della fede. Il Vangelo di Giovanni ci parla solo in un altro passo del lago di Tiberiade e di questa barca su cui i discepoli sono soli, senza il Signore; lo fa al capitolo sesto, dopo il segno dei pani, quando la barca si trova esposta al pericolo del mare agitato e del forte vento. La barca è dunque anche luogo di paura, di timore, di fronte al mare che simboleggia ogni forma con cui il male minaccia la vita degli uomini e la fede dei discepoli. La barca è il luogo in cui una piccola fede, una fede che è sempre ‘poca’, per dirla con Matteo, è chiamata a divenire una fede matura attraverso il fuoco purificatore della prova. Certo, nella tradizione la barca è anche un simbolo ecclesiale, ma la Chiesa non è appunto questo: una comunità in cui la piccola fede è chiamata a divenire una grande fede; in cui il non-sapere che era Gesù può divenire la conoscenza piena di chi grida «È il Signore!», in cui l’infecondità di una rete vuota si trasforma in una rete traboccante di centocinquantatre grossi pesci? Ma a quali condizioni è possibile vivere nella Chiesa questo passaggio che è sempre un passaggio pasquale? Il capitolo 21 non ci parla solo dell’incontro con il Risorto, ma anche del cammino di conversione e di purificazione della fede che occorre vivere per giungervi.

     Tra i molti spunti che il testo offrirebbe, ne cogliamo solamente uno. Il capitolo si apre con la decisione di Pietro: «io vado a pescare». Se in queste parole c’è l’aspetto positivo di una responsabilità vissuta in prima persona, capace di suscitare la collaborazione e l’operosità di altri – «Veniamo anche noi con te» (v. 3) – in esse si nasconde comunque la tentazione di un’impresa autonoma e autoreferenziale, vissuta nell’assenza del Signore. Non perché lui non ci sia, ma perché non lo si riconosce presente, e soprattutto perché non si ha abbastanza cura nel porre in relazione il nostro operare con la sua Parola, i criteri del nostro agire con i suoi criteri. È la tentazione di un agire autoreferenziale e autonomo che, per quanto vissuto in nome del Signore, rischia di rendere marginale o non incidente la sua presenza. Quando e laddove il Signore si rende presente con la sua parola, egli esige e rende possibile la nostra conversione. Infatti, in quella notte in cui il Signore rimane assente e c’è soltanto la propria autonoma decisione, i discepoli «non presero nulla». Giovanni usa il verbo piàzo, che significa più precisamente ‘arrestare’. È il medesimo verbo che l’evangelista utilizza più volte nel suo racconto per descrivere il tentativo vano da parte delle autorità giudaiche di arrestare Gesù, perché non era ancora giunta la sua ‘ora’. È vano il tentativo di arrestare Gesù, solo lui può liberamente consegnare se stesso in un amore più forte e radicale dell’odio di chi tenta di catturarlo. Come non si arresta Gesù, così è vano ogni tentativo di vivere il proprio ministero di pescatore di uomini nella modalità di un potere, in qualsiasi forma esso venga esercitato, che tenta o pretende di arrestare, di catturare, di bloccare, di trattenere. Occorre entrare in una logica diversa, che è appunto la logica pasquale di chi non si lascia arrestare, e neppure ‘cattura’ gli altri, ma si consegna nell’amore.

     Al v. 6 l’evangelista annota che, dopo il segno della pesca miracolosa, i discepoli non potevano più tirare la rete per la gran quantità di pesci. Sono sette e non riescono. Al v. 11 narra invece che «Simon Pietro salì sulla barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti la rete non si spezzò». Pietro, riesce a fare ora, da solo, quello che prima, in sette, non erano riusciti a fare. Perché ora può? Il racconto risponde a questo interrogativo in modo simbolico: ora può, perché si è gettato in mare. Il mare nella Bibbia è metafora di male, sofferenza, pericolo, morte… In questo mare Pietro si getta, con un gesto che ha un marcato valore battesimale: immergersi nelle acque significa immergersi nella morte del Signore per divenire partecipi della sua risurrezione. Ed è pro-prio il gettarsi nelle acque per essere pienamente partecipe del mistero pasquale, che consente a Pietro di divenire davvero, in modo autentico, quel pescatore di uomini a cui già nel suo primo incontro il Signore Gesù lo aveva chiamato. Il simbolismo battesimale è rafforzato anche dal verbo ‘salire’ del v. 11, che però nel testo originario rimane senza complemento di luogo. Il traduttore aggiunge «salì sulla barca», ma in greco non è detto; Pietro semplicemente risale dalle acque, ed è ancora un modo per alludere al battesimo che ci immerge nelle acque per renderci partecipi della morte di Gesù, e poi da esse ci fa risali- re, rendendoci partecipi della sua risurrezione. Solamente questa conformazione battesimale alla Pasqua di Gesù può consentire a Pietro non solo di vedere la sua rete riempirsi, ma di trarre i pesci fuori dal mare, dalle acque impetuose, per condurli alla terra ferma dell’incontro con il Signore Risorto. Per descrivere Pietro che trae la rete dal mare, Giovanni usa lo stesso verbo greco (hélko) con cui Gesù afferma solennemente al capitolo 12: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32). È attraverso la sua Pasqua che Gesù ci attira a sé, ed è attraverso la sua conformazione battesimale al mistero pasquale che anche Pietro può attrarre a Gesù tutti coloro che la sua rete trova e custodisce. Si possono liberare gli uomini dalle acque della morte solo accettando di immergersi in esse, di attraversare personalmente l’esperienza della compassione, condividendo il destino del proprio Maestro e Signore nelle sofferenze stesse dei suoi fratelli, dei quali bisogna prendersi cura.

Preghiere e racconti

«Simone mi ami tu?»

… Il gallo cantò per la terza volta.

Gesù uscì dalla sala…… e Simon Pietro,

seguendo il rumore, guarda dalla sua parte.

Lo vede e « pianse amaramente ».

Lo stesso Pietro che da quel momento

è diventato vergognoso e intimidito,

perennemente intimidito,

anche se non riusciva a trattenere i suoi slanci abituali,

li compiva, poi si fermava bloccato dalla vergogna,

dalla vergogna del ricordo… 

…era là in disparte quella mattina sulla riva…

erano là tutti intorno quel mattino,

in silenzio timoroso, intimiditi

così che nessuno domandava qualche cosa

perché tutti sapevano

che era il Maestro.

Nella frescura di quell’ora mattutina

coi pesci – quei pesci che si agitavano ancora

alle loro spalle – dopo una notte arida di frutto

erano là a mangiare il pesce…

…il pesce preparato da Lui

che aveva pensato anche al loro mangiare

perché sarebbero tornati stanchi.

Il Signore si era steso vicino,

era lì vicino, a mangiare con loro.

Il Signore lo guardava.

Lui sguardava,

ma non guardava

perché aveva vergogna più del solito…

Il Signore forse l’avrà guardato intensamente

finché Pietro disagiato da quello sguardo fisso

si sarà voltato, come a dire « Che vuoi?».

E Gesù, immediatamente,

senza porre frammento di tempo in mezzo:

«Simone, mi ami tu più di costoro?».

Lo diceva a chi l’aveva offeso,

lo diceva al temperamento più facile all’incoerenza, al traditore.

Dopo Giuda, lui.

Ma in lui era evidente che Cristo era.

« Signore, tu lo sai che ti amo».

Non poteva non voltare la faccia

e dire la sua risposta.

Non poteva.

Sarebbe stata una menzogna. 

Gli voleva bene,

l’aveva tradito ma gli voleva bene.

Perciò si è voltato verso di Lui

e gli ha dato quella risposta che non era mai venuta meno,

eccetto che in quei momenti terribili.

Gli ha dato la risposta

per cui era continuamente

voltato verso di Lui, dovunque fosse,

fosse sulla barca, nel mare del mattino,

tra la folla sulla montagna,

quando era in casa e Lui non c’era…

Non è vero che ti ho odiato,non è vero che non ti ho amato…

perché «tu lo sai, Signore, che ti amo».

Ma è il contrario di quello che hai fatto…

Io non so come sia, so che è così.

« Simone, mi ami tu?».

Non ha detto

«Non peccare non tradire, non essere incoerente».

Non ha toccato nulla di questo.

Ha detto:« Simone, mi ami tu?».

Ognuno di noi

non riesce a sfuggire completamente

al fatto che Cristo è amabile

e ama noi esattamente così come siamo.

Cristo è chi si compiace di noi.

di me, dice san Pietro piangendo,

la Maddalena, la Samaritana, l’assassino.

Cristo è colui che si compiace di me e perciò mi perdona.

Mi ama e mi perdona.

(Luigi Giussani)

Mi ami tu?

Ecco che il Signore, dopo la sua resurrezione, appare di nuovo ai suoi discepoli. Interroga l’apostolo Pietro e spinge a confessare per tre volte il proprio amore colui che aveva rinnegato tre volte per timore. Cristo è risorto secondo la carne, Pietro secondo lo spirito. Mentre Cristo moriva soffrendo, Pietro moriva rinnegando. Il Signore Cristo resuscita dai morti e nel suo amore resuscita Pietro. Ha interrogato l’amore di colui che lo confessava e gli ha affidato le sue pecore. […] Il Signore Cristo volendo mostrarci in che modo gli uomini debbano provare che lo amano, lo rivela chiaramente: va amato nelle pecore che ci sono affidate. Mi ami tu? Ti amo. Pasci le mie pecore. E questo una volta, due volte, tre volte. Pietro non dice altro se non che lo ama. Il Signore non gli domanda altro se non se lo ama.

A Pietro che gli risponde non affida altro se non le sue pecore. Amiamoci a vicenda e ameremo Cristo. Cristo, infatti, eternamente Dio, è nato uomo nel tempo. È apparso agli uomini come uomo e figlio dell’uomo. Essendo Dio nell’uomo, opera molti miracoli. Ha molto sofferto, in quanto uomo, da parte degli uomini, ma è risorto dopo la morte perché era Dio nell’uomo. Ha passato sulla terra quaranta giorni come un uomo con gli uomini. Poi, sotto i loro occhi, è asceso al cielo come Dio nell’uomo e si è assiso alla destra del Padre. Tutto questo lo crediamo, non lo vediamo. Ci è stato ordinato di amare Cristo Signore che noi non vediamo e tutti noi proclamiamo: «Io amo Cristo». Ma se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi? (I Gv 4,20). Amando le pecore, mostra di amare il pastore, perché le pecore sono membra del Pastore.

(AGOSTINO, Discorso Morin Guelferbytanus 16, PLS 2,579-580).

Rispondere all’amore di Dio

Dio dice: «Ti amo di un amore eterno», e Gesù è venuto a insegnarci questo. Quando Gesù fu battezzato, si udì una voce che diceva: «Questo è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». È un’affermazione molto importante e Gesù vuole che noi l’ascoltiamo. Noi siamo i prediletti, non perché abbiamo fatto qualcosa, non perché abbiamo dato prova di noi stessi.

Sostanzialmente Dio ci ama qualunque cosa facciamo. Se questo è vero, per i pochi anni in cui siamo in questo mondo siamo invitati a dire, nel contesto della nostra esistenza: «Sì, o Dio, anch’io ti amo».

Proprio come Dio si prende cura di noi, è molto importante che noi ci prendiamo cura di Dio nel mondo. Se Dio è nato come un piccolo bambino, Dio non può camminare o parlare se qualcuno non insegna Dio. È questa la storia di Gesù, che per crescere ha bisogno degli esseri umani. Dio dice: «Voglio essere debole affinché tu possa amarmi. Quale modo migliore per aiutarti a rispondere al mio amore se non diventando debole affinché tu possa prenderti cura di me?». Dio diventa un Dio vacillante, che cade sotto la croce, che muore per noi e che ha un totale bisogno di amore. Dio fa questo affinché possiamo essergli più vicini. Il Dio che ci ama è un Dio che diviene vulnerabile, dipendente nella mangiatoia e dipendente sulla croce, un Dio che fondamentalmente ci chiede: «Sei qui per me?».

Dio – si potrebbe dire – aspetta la nostra risposta. In modo molto misterioso Dio ‘dipende’ da noi. Dio dice: «Voglio essere vulnerabile, ho bisogno del tuo amore. Ho desiderio di una tua dichiarazione d’amore». Dio è un Dio geloso nel senso che vuole il nostro amore e vuole che diciamo di sì. Per questo, alla fine del Vangelo di Giovanni, Gesù chiede a Pietro tre volte: «Mi ami tu?». Dio aspetta la nostra risposta. La vita ci offre infinite opportunità di dare questa risposta.

(Henri J.M. NOUWEN, La via della Pace, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 81-82).

Butto la rete

Signore,

la mia sola sicurezza sei tu

come il mare che ho davanti

e nel quale butto la rete della mia vita.

Anche se finora non ho pescato nulla

anche se a volte non ne ho la voglia

io so Signore che se avrò la forza

di buttare continuamente questa rete

troverò il senso della verità.

(E. OLIVERO, L amore ha già vinto. Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005).

Gli atti dell’amore

L’amore di Cristo per Pietro fu così senza limiti: nell’amare Pietro egli mostrò come si ama l’uomo che si vede. Egli non disse: «Pietro deve cambiare e diventare un altro uomo prima che io possa tornare ad amarlo». No, tutt’al contrario. Egli disse: «Pietro è Pietro e io lo amo; è il mio amore semmai che lo aiuterà a diventare un altro uomo!». Egli non ruppe quindi l’amicizia per riprenderla forse quando Pietro fosse diventato un altro uomo; no, egli conservò intatta la sua amicizia, e fu proprio questo che aiutò Pietro a diventare un altro uomo. Credi tu che, senza questa fedele amicizia di Cristo, Pietro sarebbe stato recuperato? A chi tocca aiutare chi sbaglia se non chi si dice amico, anche quando l’offesa è fatta contro l’amico?

L’amore di Cristo era illimitato, come l’amore deve essere quando si deve compiere il precetto di amare amando l’uomo che si vede. L’amore puramente umano è sempre pronto a regolare la sua condotta a seconda che l’amato abbia o non abbia perfezioni; mentre l’amore cristiano si concilia con tutte le imperfezioni e debolezze dell’amato e in tutti i suoi cambiamenti rimane con lui, amando l’uomo che vede. Se non fosse così, Cristo non sarebbe mai riuscito ad amare: infatti, dove avrebbe egli mai trovato l’uomo perfetto?

(S. KIERKEGAARD, Gli atti dell’amore, Milano, 1983, 341-344).

Mi ami? Una domanda cruciale

Per tre volte il Signore chiede a Pietro di proclamare il suo amore, di dichiararlo apertamente. È logico chiederci: perché l’ha fatto? Evidentemente l’ha fatto perché lo avvertiva come un bisogno molto importante di Pietro: tre volte Pietro l’aveva rinnegato, tre volte davanti a tutti lo invita a proclamare il suo amore.

È interessante questo particolare: a ogni proclamazione di amore segue una consegna precisa di Gesù. Gesù conferisce un compito e una responsabilità solenne: «Pasci le mie pecorelle», il che in sostanza significa: da’ la prova che mi ami, spendendoti per i tuoi fratelli, diventando strumento di salvezza per i tuoi fratelli. […] Alla terza dichiarazione solenne di Pietro, Gesù chiede veramente tutto: chiede nientemeno che l’offerta della vita. Disse: «Seguimi!». «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio».

Non è certo impossibile che il nostro amore se ne stia tranquillamente nel vago; dobbiamo sempre temere che resti ovattato di belle parole. Finché stiamo solo nel mondo delle belle parole, non siamo sicuri di amare veramente il Signore. E allora Gesù smantella le parole e aiuta a verificarle con la concretezza: «Pasci! ». Cioè: aiuta! salva! Che per Pietro significa: istruisci, organizza, cioè spenditi per i tuoi fratelli per amore verso di me, perché te lo dico io stesso.

È sempre incombente il pericolo che nella nostra preghiera del cuore non scendiamo alla concretezza. Gesù pretende la concretezza dell’amore.

Vigiliamo dunque sulla concretezza della nostra preghiera del cuore: dobbiamo alzarci dai piedi del Signore con in mano una verifica precisa del nostro amore, un dono preciso, una conversione precisa.

E dobbiamo essere attenti che non sia un dono scelto soltanto da noi, ma scelto veramente da lui, gradito a lui, voluto e specificato da lui: maturato cioè nella preghiera. […] Pietro probabilmente avrebbe dato altro al Signore; il Signore invece gli chiede di fare bene il Capo, un capo capace di pascere, cioè di nutrire il gregge, e un capo tanto impegnato col gregge da essere pronto a giocare anche la vita quando sarebbe scoppiata la persecuzione.

(A. GASPARINO, Maestro insegnaci a pregare, Torino, Elle Di Ci, 1993, 205-207)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

III DI PASQUA C

II DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Apostoli 5,12-16

Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico  di Salomone;  nessuno degli altri osava associarsi a  loro,  ma il popolo li esaltava. Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.

 

 

È uno dei cosiddetti «sommari» degli Atti: quadretti che dipingono la comunità cristiana primitiva. È una comunità che evidentemente ha fatto esperienza della risurrezione di Cristo e lo manifesta nella concordia: tutti erano soliti stare insieme (v. 12). Una unità tra cristiani sostenuta dalla preghiera e dalla frazione del pane (2,42-46). La fede cristiana si manifesta nella carità e nella comunione gioiosa. L’attività taumaturgica di Gesù continua ora nella chiesa per mezzo degli apostoli (v. 12). Tra gli apostoli un posto particolare ha la figura di Pietro. In lui continuava in modo singolare ad essere presente la potenza di Cristo: almeno la sua ombra (v. 15) guariva. La gente si rendeva conto di una speciale presenza divina negli apostoli e li stimava, ma, forse per un sacro timore, nessuno degli altri osava associarsi a  loro (v. 13).

     La presenza dello Spirito del Risorto si manifestava nella serie di prodigi, che aiutavano gli umili ad accogliere la predicazione apostolica (vv. 15-16). Nella comunità cristiana primitiva, sotto la direzione di Pietro, sono presenti così i segni che chiamano alla fede: le guarigioni miracolose, prolungamento del mistero storico di Gesù, ma soprattutto il segno dell’unità dei fratelli nella fede del Cristo risorto.

 

Seconda lettura: Apocalisse 1,9-11.12-13.17-19

Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese». Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito». 

 

Il brano riporta la visione di Cristo glorioso avuta da Giovanni nel giorno del Signore (v. 10), la domenica, il giorno in cui la comunità cristiana si riunisce per l’ascolto della parola e per celebrare la risurrezione. Giovanni si sente fratello e compartecipe della comunità che sta in ascolto. Anche lui come le piccole comunità cristiane soffre la persecuzione per amore di Gesù Cristo: si trova a Patmos, una isola delle Sporadi a 75 Km a sud-ovest di Efeso. Egli riceve l’incarico di scrivere un libro per le sette chiese (v. 11). Il numero sette è simbolico: indica la totalità.

     Sta parlando quindi alla chiesa universale, che poi è presente nella chiesa locale, in modo particolare nell’assemblea liturgica. L’Apocalisse è un libro diretto a una comunità liturgica che lo interpreta. Richiamandosi a immagini presenti in Daniele e Ezechiele, Giovanni presenta Cristo come uno simile a un Figlio d’uomo, con le insegne del giudice escatologico. L’abito lungo fino ai piedi è simbolo della sua dignità sacerdotale, mentre la fascia d’oro esprime la sua regalità. La voce potente indica una rivelazione chiara senza ombra di dubbio. Gesù Cristo è in mezzo ai sette candelabri: egli è presente attivamente nella sua chiesa. Egli è alla destra di Dio, ma vive nella comunità cristiana. Giovanni e la sua comunità non devono temere, perché egli è il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Egli ha vinto definitivamente la morte e chi si appoggia a lui ha la vita. Nel libro che si leggerà nella comunità in ascolto si troveranno poi le cose viste, nella presente visione, quelle presenti, cioè le lettere alle sette chiese; quelle che devono accadere, le visioni sul futuro escatologico della chiesa (vv. 17-19).

 

Vangelo: Giovanni 20,19-31

 La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. 

 

 

Esegesi

     Dopo l’apparizione a Maria Maddalena, avvenuta all’aperto, in un giardino, Gesù appare ai suoi discepoli, chiusi per paura in una stanza. Essi ricevono lo Spirito Santo per poter annunciare la sua parola e perdonare i peccati agli uomini. La fede crescerà dall’ascolto della parola all’interno della comunità. Con questo brano Giovanni vuole sottolineare l’importanza della testimonianza per la fede pasquale.

     1) Incontro con i discepoli (20,19-23)

Avviene il primo giorno della settimana, nel giorno di Pasqua. Gesù torna ma non nel suo stato precedente: entra a porte chiuse. Si pone al centro della comunità cristiana: stette in mezzo loro (v. 1), come unico punto di riferimento. I discepoli lo possono vedere e riconoscere con lo sguardo della fede. Le conseguenze della nuova luce sono la «gioia» e la «pace», i doni messianici. Gesù dà loro l’incarico missionario: devono continuare la missione a lui affidata dal Padre: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (v. 21). Ma solo uomini nuovi sono capaci di questo compito. Gesù dona loro lo Spirito Santo: soffiò su di loro (v. 20) come soffiò all’inizio la vita nuova al primo uomo. Il dono dello Spirito era stato anticipato simbolicamente dall’acqua e dal sangue usciti dal costato di Cristo (19,34). La missione degli apostoli avrà come obiettivo la remissione dei peccati (v. 23). Il potere viene dato al gruppo dei dodici, nominati nel versetto seguente (v. 24). Viene esercitato certamente nel sacramento della penitenza secondo il concilio di Trento per i peccati commessi dopo il battesimo. Non si esclude il perdono dei peccati mediante il sacramento del battesimo e la proclamazione del vangelo.

     2) Apparizione presente Tommaso (Gv 20,24-29)

I dubbi di Tommaso esprimono l’esperienza del gruppo, dell’intera comunità apostolica, e la personale esperienza di Giovanni: «Colui… che abbiamo visto con i nostri occhi… contemplato… e toccato con le nostre mani» (1Gv 1,1-2). Anche questo incontro avviene nel primo giorno della settimana, giorno del Signore (Ap 1,10). In esso la comunità proclama con i discepoli: Abbiamo visto il Signore! (v. 25). Ma Tommaso non condivide la fede della comunità. Gesù si rende visibile per lui e lo convince di non essere un fantasma: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani» (v. 25). Bastò sentire le parole di Gesù, per credere, come per Maria bastò sentirsi chiamare per nome da lui. Tommaso fa la più bella confessione di fede del quarto Vangelo. L’esperienza della risurrezione era indispensabile per la Chiesa. I futuri discepoli di Gesù avrebbero dovuto credere senza vedere, ma accettando la testimonianza degli apostoli, che invece hanno visto. Anch’essi però saranno beati. Sperimenteranno la gioia dell’incontro con il Cristo risorto.

     3) Conclusione (Gv 20,30-31)

Segni non sono solo i miracoli, ma tutto quello che Gesù ha fatto e insegnato. Chi vuole conoscere altri segni si legga i vangeli sinottici. Tutti i segni dicono che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio (v. 31). I lettori vengono invitati ad accogliere la testimonianza degli apostoli senza esigere di toccare con mano per credere. Ora per i cristiani la testimonianza apostolica è scritta, contenuta nel vangelo, ma è una testimonianza di qualcuno che ha visto.

 

L’immagine della domenica

  

 L’ho cercato, ma non l’ho trovato

«Così dice la sposa: “Sul mio letto, lungo la notte ho cercato l’amato nel mio cuore, l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città, per le strade e per le piazze, voglio cercare l’amato del mio cuore. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda avete visto l’amato del mio cuore. Da poco le avevo oltrepassate quando trovai l’amato del mio cuore» (Ct 3 1-4).

Pasqua a Moral de Hornuez (Spagna) – 2015

 

Meditazione

     In ciascuno dei tre anni del ciclo liturgico, nella seconda domenica di Pasqua viene proclamato il racconto giovanneo della duplice manifestazione del Risorto nel cenacolo: la prima, nella sera stessa della resurrezione, mentre Tommaso è assente; la seconda, otto giorni dopo, questa volta con Tommaso presente. È evidente la motivazione che sostiene questa scelta liturgica: siamo nell’ottavo giorno dalla domenica di Pasqua e ascoltiamo il racconto di quanto è avvenuto nella comunità apostolica a distanza di otto giorni. Vale tuttavia anche la considerazione inversa: non solo il tempo liturgico determina la scelta del testo evangelico, ma lo stesso racconto di Giovanni, nella sua scansione cronologica, è probabilmente determinato dalla scansione liturgica: il Risorto si rende presente nella comunità dei discepoli storici ‘otto giorni dopo’, così come la comunità dei discepoli di ogni generazione successiva si raduna ogni otto giorni per celebrare l’eucaristia nella memoria della Pasqua, e riconoscere in questo modo, nei segni sacramentali del pane e del vino e del suo stesso riunirsi, la presenza del Signore che fedelmente accompagna il cammino della Chiesa. La stessa figura di Tommaso, con il suo non esserci dapprima e il suo esserci dopo, mette ancora più in risalto questa fedeltà del Signore alla sua comunità. I discepoli possono essere presenti o assenti, la comunità può essere anche segnata dalle ferite di una mancanza; il Signore viene comunque e sta in mezzo ai suoi, donando la sua pace e il suo Spirito. Anche colui che inizialmente non c’era, e sembra chiudersi in un atteggiamento di incredulità, non rimane escluso dal desiderio che spinge il Risorto a riallacciare vincoli di comunione con i suoi, capaci di vincere non solo la separazione della morte, ma anche l’incredulità, o comunque la fatica del credere.

     Se il racconto del Vangelo di Giovanni ogni anno caratterizza questa seconda domenica di Pasqua, le altre due letture variano sempre. Nell’anno C ascoltiamo come seconda lettura un testo tratto dal primo capitolo dell’Apocalisse, che narra l’ultima manifestazione del Risorto consegnataci dal Nuovo Testamento, almeno nell’ordine canonico dei suoi libri. Il tempo, come accade nel Quarto Vangelo, è ancora liturgico. Infatti, il v. 10 ci ricorda che tutto quello che accade si colloca in un giorno preciso: «fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore». Questo è peraltro l’unico passo del Nuovo Testamento in cui questo giorno riceve già il suo nome cristiano: è il giorno del Signore, in dominica die nel latino della Vulgata, da cui il nostro termine ‘domenica’. Anche in questo caso, dunque, l’autore insiste nel ricordarci che l’incontro con il Risorto avviene di domenica, quando la comunità è convocata dalla memoria della Pasqua e la celebra facendo eucaristia. Il testo non si premura soltanto di precisare il tempo, ma anche il luogo in cui avviene l’incontro: l’isola di Patmos, che non è solo un luogo geografico, ma luogo simbolico dell’esilio, dove Giovanni si trova «a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù» (v. 9). È necessario considerare insieme queste due coordinate dell’esperienza: il luogo è quello della tribolazione, della prova nella fede, della persecuzione, ma già illuminato dal giorno del Signore, cioè dalla sua Pasqua.

     In questo luogo e in questo giorno Giovanni ha una visione: «fui preso dallo Spirito», racconta al v. 10. Tutto ciò che vede e scrive è dono dello Spirito, che diventa l’ambito in cui si muove e il respiro stesso della sua vita. Essere nello Spirito significa per Giovanni rileggere la propria esperienza, quella della sua comunità, nonché la storia più ampia del mondo, collocandosi dal punto di vista di Dio, secondo i suoi criteri e la sua logica, che rimane una logica pasquale. L’espressione – ‘rapito dallo Spirito’ – non vuole perciò indicare un’esperienza straordinaria che l’autore vive e che solo pochi altri possono sperimentare con lui. Allude al contrario a qualcosa di più ordinario, cui anche la nostra vita deve sentirsi chiamata: leggere la storia, ma nello Spirito di Dio, dunque con i suoi criteri di giudizio e di discernimento. Nello Spirito lo sguardo di Dio viene ad abitare e a trasformare il nostro stesso sguardo. Ci sono donati occhi nuovi, occhi ‘spirituali’, per giudicare il mondo così come lo giudica Dio stesso. Quella di Giovanni dovrebbe diventare l’esperienza che a nostra volta viviamo nel giorno del Signore: ogni volta che di domenica ci raduniamo per ascoltare la parola di Dio e condividere insieme il pane, la nostra vita dovrebbe aprirsi al dono dello Spirito e acquisire un modo diverso di stare nelle situazioni della storia personale e collettiva.

     C’è di conseguenza anche una conversione da vivere, che il racconto evidenzia con un linguaggio simbolico. «Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro» (vv. 12-13). Il verbo ‘voltarsi’ ricorre due volte, con enfasi. La visione sembra attraversare due distinte tappe: c’è una prima tappa, in cui Giovanni ode una voce che lo raggiunge da dietro; poi si volta e inizia una seconda tappa nella sua esperienza di Dio. Con questo linguaggio allusivo l’autore intende probabilmente evocare le due tappe della rivelazione di Dio: la prima, attraverso i profeti e le scritture del Primo Testamento, in cui si ascoltava Dio, ma ancora come ‘di spalle’; la seconda, quella definitiva, attraverso Gesù Cristo, che compie quanto era stato annunciato e preparato, e in cui possiamo udire Dio faccia a faccia. Il compimento della rivelazione tuttavia non avviene senza coinvolgere la libera risposta dell’uomo. Giovanni deve ‘voltarsi’ per avere la piena visione del Figlio dell’uomo; il verbo greco qui usato (epistréphein) è tipico per indicare la ‘conversione’ (et conversus sum, traduce la Vulgata). Soltanto dopo che si sarà voltato, e dunque convertito, solo dopo che avrà visto Gesù Cristo faccia a faccia, il senso delle Scritture diventerà chiaro per Giovanni. Conferma questa lettura l’uso di due verbi diversi per narrare il ‘vedere’ del profeta: nella visione ‘di spalle’ in greco ricorre blépo, che esprime la semplice percezione fisica (vv. 11.12); nella visione ‘di fronte’ c’è invece horáo, che esprime il vedere più profondo della fede (vv. 12.17). In questi versetti, dunque, l’Apocalisse descrive un duplice e corrispondente progresso: alla crescita oggettiva della rivelazione di Dio risponde la maturazione soggettiva e spirituale del credente, che può giungere a una comprensione piena delle Scritture, e del significato della storia che esse illuminano, a condizione di ‘voltarsi’, dunque convertirsi al Signore Gesù, che è l’oggetto fondamentale del suo vedere nella fede.

     È l’itinerario che anche Tommaso deve percorrere per passare dall’incredulità alla fede. La sua sarà una conversione piena, poiché la più alta professione di fede riportata dal vangelo di Giovanni l’ascoltiamo proprio dalle sue labbra: «Mio Signore e mio Dio!» (v. 28). Ed è anche esemplare il cammino che lo conduce alla fede: deve fissare lo sguardo sulle mani del Risorto trapassate dai chiodi, sul suo fianco aperto. Tommaso accoglie l’invito che l’evangelista rivolge a ogni lettore del suo racconto, quando concludendo la narrazione della morte di Gesù cita la Scrittura: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto (cfr. 19,37), testo che peraltro risuona anche nell’Apocalisse, pochi versetti prima di quelli che ascoltiamo in questa liturgia: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto» (Ap 1,7). Voltarsi verso Gesù per comprendere il suo mistero e la rivelazione che egli ci dona del Padre significa fare come Tommaso: voltare lo sguardo per contemplare i segni dell’amore crocifisso, che nell’acqua e nel sangue si effonde su di noi. Si è ‘presi dallo Spirito’, come accade al veggente dell’Apocalisse, quando comprendiamo che la rivelazione insuperabile di Dio, la sua parola definitiva, sgorgano proprio da quel costato trafitto, segno della vita di Dio che ci viene donata fino al compimento (cfr. Gv 13,1) perché possiamo anche noi divenire partecipi della vita eterna. Ogni paura è vinta: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap

1,18-19).

Preghiere e racconti 

Beati quelli che non hanno visto e credono

    Gesù entra a porte chiuse. Eppure alla sua resurrezione, la pietra del sepolcro è rotolata e la porta del sepolcro si è aperta. […] Ma qui egli entra e le porte sono chiuse, affinché quelli che dubitavano della resurrezione fossero presi da stupore al suo ingresso e da questo prodigio fossero condotti come per mano all’altro prodigio. […] Gli apostoli, nascosti in una casa, vedono il Cristo. Egli entra a porte chiuse. Ma Tommaso, che in quel momento era assente, rimane incredulo. Desidera vedere Gesù con i suoi occhi e rifiuta i racconti degli altri di-scepoli. Chiude le orecchie e vuole aprire gli occhi. L’impazienza lo brucia, quando pronuncia queste parole: «Se non metto il mio dito nel segno dei chiodi e se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20,25). Troppo esigente per credere, Tommaso sfoga la sua diffidenza, sperando così che il suo desiderio sia esaudito. «I miei dubbi non spariranno se non quando lo vedrò, dice. Metterò il mio dito nei segni dei chiodi e abbraccerò quel Signore che tanto desidero.

    Rimproveri la mia incredulità, ma colmi i miei occhi. Incredulo, quando lo vedrò, crederò quando lo stringerò tra le mie braccia e lo contemplerò. Voglio vedere le mani trafitte, che hanno guarito le mani che hanno trasgredito. Voglio vedere quel costato che ha scacciato la morte dal suo fianco. Voglio essere il testimone del Signore e non do peso alla testimonianza altrui. I vostri racconti esasperano la mia impazienza. La buona novella che mi portate non fa che ravvivare il mio turbamento. Non guarirò di questo male se non tocco colui che le guarisce». Ma il Signore appare di nuovo e dissipa contemporaneamente la tristezza e il dubbio del suo discepolo. Che dico? Non dissipa il suo dubbio, colma la sua attesa. Entra a porte chiuse e con questa visione incredibile conferma la non creduta resurrezione. Trova un nuovo motivo di stupore per convincere Tommaso. «Metti il tuo dito nel segno dei chiodi» (Gv 20,27), gli dice. Tu mi cercavi quando non c’ero, approfittane ora. Conosco il tuo desiderio nonostante il tuo silenzio. Prima che tu me lo dica, so che cosa pensi. Ti ho sentito parlare, e benché invisibile, ero accanto a te, accanto ai tuoi dubbi, e senza farmi vedere, ti ho fatto aspettare per meglio vedere la tua impazienza. «Metti il tuo dito nei segni dei chiodi, metti la tua mano nel mio costato e non essere più incredulo, ma credente». Allora Tommaso lo tocca, tutta la sua diffidenza si dissolve e colmo di una fede sincera e di tutto l’amore che si deve a Dio, esce in un grido: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). E il Signore gli dice: «Perché hai veduto, hai creduto. Beati quelli che non hanno visto e credono!» (Gv 20,29). Tommaso, porta la buona notizia della mia resurrezione a quelli che non hanno veduto. Conduci la terra intera alla fede non della visione, ma della parola. Va’ tra i popoli e le città barbare e insegna loro a portare sulle spalle la croce invece delle armi. Annunciami: crederanno e mi adoreranno. Non esigeranno altre prove. Di’ loro che sono chiamati per grazia e contempla la loro fede. In verità: «Beati quelli che non mi hanno veduto e hanno creduto!».

(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia sulla santa Pasqua 2-4, PG 28,1084A-1085C).

L’ho cercato, ma non l’ho trovato         

    “Così dice la sposa: “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato nel mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: avete visto l’amato del mio cuore? Da poco le avevo oltrepassate, quando trovai l’amato del mio cuore” (Ct 3,1-4).

    Mi colpisce anzitutto la duplice ripetizione: “L’ho cercato ma non l’ho trovato”. Che cosa concluderebbe l’animus, cioè quella parte di noi che è calcolatrice ed efficientista? Se non l’hai trovato, vuol dire che non è per te, che forse è troppo alto, che non sei fatto per lui, che sei sulla strada sbagliata.

    Invece l’anima, più profonda, intuisce.

    Ricordo il titolo di un libro scritto da un ateo, che riporta le parole del Cantico, in latino: “Quaesivi et non inveni”. E l’autore racconta la sua ricerca di Dio affermando di non essere riuscito razionalmente a trovarlo.

    Si è evidentemente fermano all’animus, lo ha cercato attraverso i ragionamenti esteriori e, a un certo punto, si è stancato. La personalità completa è quella che dice: “L’ho cercato e, dal momento che non l’ho trovato, lo cerco ancora di più, lo cerco con maggiore amore”.

    Non l’ho trovato vicino a me, e allora: “Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore” (Ct 3,2). Qui leggiamo l’estasi interiore, la presenza già nascosta di Dio che opera.

    Questo è importante per capire a fondo noi stessi. In noi c’è un dinamismo della ricerca di Dio, che opera anche quando non lo troviamo, e opera di più. Se diamo voce a tale dinamismo, che è già la grazia dello Spirito santo, il dito dello Spirito santo che scrive la lettera di Dio in noi, noi entriamo nella totalità della nostra persona, che è ricerca razionale e logica, ma poi ricerca affettiva, amorosa. Ed entriamo anche a conoscere meglio il mistero di Dio che è amore. Amore non significa soltanto efficienza, produzione di beni in serie; amore è libertà di Dio, capacità di amare ciascuno in modo diverso, gusto di nascondersi per farsi trovare. Quando arriviamo a comprendere qualcosa di questo mistero di Dio che è Trinità di amore, gioco di amore perenne in sé, che è dono, non ci stupiamo più scoprendo che Dio talora si nasconde a noi per acuire nel nostro cuore il desiderio di cercarlo e per darci la gioia di ritrovarlo.

    Dio è vitalità infinita, inventività continua nell’amore, libertà assoluta.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 52-53).

Mio Signore e mio Dio!

Tommaso, uno dei discepoli, non era forse un uomo, uno come tanti? Gli altri discepoli gli dicevano: Abbiamo visto il Signore, ma lui ribatteva: Se non lo toccherò, se non metterò il dito nel suo fianco, non crederò (Gv 20,25). Te lo annunziano dei messaggeri dell’evangelo e tu non credi? A loro ha creduto il mondo e il discepolo non crede. Di loro è stato detto: II loro messaggio si è diffuso su tutta la terra e le loro parole fino ai confini del mondo [Sal 18 (19),5]. Dalla loro bocca escono parole che giungono fino ai confini del mondo e tutto il mondo crede; tutti insieme annunciano la buona notizia a uno solo e questi non crede. Non era ancora il giorno fatto dal Signore [Sal 117 (118),24]; le tenebre erano ancora sull’abisso; nelle profondità del cuore umano c’erano le tenebre. Ma venga lui, il capo di quel giorno e gli dica con pazienza e mitezza, non con ira, perché egli è medico: «Vieni, vieni, tocca, e credi. Tu hai detto: Se non toccherò, se non metterò il mio dito, non crederò. Vieni, tocca, metti il dito. E non essere incredulo, ma credente. Vieni, metti il dito. Conoscevo le tue ferite; per te ho conservato la mia cicatrice». E Tommaso mettendo la mano raggiunse la pienezza della fede. E qual è questa pienezza? Che Cristo non venga creduto soltanto uomo, né soltanto Dio, ma uomo e Dio. Questa è la pienezza della fede, poiché il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi (Gv 1,14). E quel discepolo, dopo che gli furono presentate le cicatrici e le membra del suo Salvatore perché le toccasse, non appena le ebbe toccate, esclamò: Mio Signore e mio Dio (Gv 20,28). Toccò l’umanità, riconobbe la divinità; toccò la carne, volse gli occhi al Verbo, poiché il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi. Il Verbo ha sopportato che la sua carne fosse appesa al legno, che fosse fissata coi chiodi, che venisse trafitta dalla lancia, che fosse deposta nel sepolcro. Lo stesso Verbo risuscitò la sua carne, la presentò agli occhi dei discepoli perché la vedessero, la fece toccare con mani. Toccano ed esclamano: Mio Signore e mio Dio!

(AGOSTINO, Discorsi 258, 3, in Opere di sant’Agostino 32/2, pp. 826-828).

L’inquietudine della notte della fede

      Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’au­rora. Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’in­quietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre. Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così an­che noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tut­to quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.

    Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che vie­ne incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.

      Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dal­la fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contrad­dirlo. Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciar­si afferrare e toccare da noi. Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chie­sa, a questa debolezza. Essa si fa risposta alle nostre doman­de non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66)

Il dubbio che porta al tramonto

Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione. Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.

Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa. Ben presto fu buio.

La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna, sicchè non si poteva vedere assolutamente nulla. Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.

Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa. Nella caduta, l’alpinista poteva  appena vedere  delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità. Continuava a cadere…e in quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.

Rifletteva, ormai vicino alla morte. D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.

In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare:

”Dio mio, aiutami!”

Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò:

”Cosa vuoi che io faccia?”

“Mio Dio, salvami!”

“Credi realmente che io possa salvarti?”

“Sì, mio Signore. Lo credo”

Allora, recidi la corda che ti sostiene!”

Ci fu un momento di silenzio;

poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla corda.

Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che  l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda…  A soli due metri dal suolo. 

Tu sai Tommaso…

Pure per noi sia Pasqua, Signore:

vieni ed entra nei nostri cenacoli,

abbiamo tutti e di tutto paura,

paura di credere, paura a non credere…

Paura di essere liberi e grandi!

Vieni ed abbatti le porte dei cuori,

le diffidenze, i molti sospetti:

tutti cintati in antichi steccati!

Entra e ripeti ancora il saluto:

«Pace a tutti», perché sei risorto;

e più nessuno ti fermi: tu libero

di apparire a chi vuoi e ti crede!

Torna e alita ancora il tuo spirito

come il Padre alitò su Adamo:

e dal peccato sia sciolta la terra,

che tutti vedono in noi il Risorto.

Credere senza l’orgoglio di credere,

credere senza vedere e toccare!…

Tu sai, Tommaso, il dramma degli atei,

tu il più difficile a dirsi beato!

(D. M. Turoldo)

Ma io credo!

Signore, non ho visto,

come Pietro e Giovanni,

le bende per terra e il sudario

che ricopriva il tuo volto,

ma io credo!

Non ho visto la tua tomba vuota,

ma io credo!

Non ho messo, come Tommaso,

le mie dita nel posto dei chiodi,

né la mia mano nel tuo costato,

ma io credo!

Non ho condiviso il pane con te

nel villaggio di Emmaus,

ma io credo!

Non ho partecipato alla pesca miracolosa

sul lago di Tiberiade,

ma io credo!

Sono contento, Signore,

di non avere visto,

perché io credo!

(Credo Signore! Professioni di fede per ragazzi e giovani, Leumann, Elle Di Ci, 2001, 52).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

II DOMENICA DI PASQUA (C)

DOMENICA DELLE PALME

Prima lettura: Isaia 50,4-7

 Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso.

 

 

Dopo la gioiosa processione iniziale, con le palme benedette, questa prima lettura introduce la partecipazione alle sofferenze e ai sentimenti di Cristo, nella passione. È la parte iniziale del terzo carme di Isaia sul «Servo sofferente», una «confessione», sul tipo «di alcune composizioni di Geremia e dei Salmi di lamento individuale».

     Dapprima il Servo ricorda, in modo appassionato, la missione ricevuta di sostenere gli sfiduciati, quali erano i rimpatriati dall’esilio babilonese, alla fine del VI secolo a.C., in mezzo a tante difficoltà e ostilità. Poi proclama come l’ha vissuta, grazie ai doni del Signore di una lingua e di un orecchio «da iniziati», cioè degli introdotti e pienamente dediti all’ascolto e alla proclamazione della parola di Dio. Ciò implica un impegno profondo e costante anche suo. Anzi, ha richiesto la più dura testimonianza della vita, per le persecuzioni, espresse col piegare il dorso ai flagellatori, e per le umiliazioni subite, che si possono prendere alla lettera, fatte di insulti, sputi in faccia e depilazioni infamanti.

     Di fronte a tutto questo, il Servo riafferma i suoi più profondi sentimenti. Non si tira indietro, ma affronta con coraggio le prove. È sicuro che Dio lo assiste, per questo non ha confusioni e incertezze, ma rende la faccia dura e impavida come roccia.

     La lettura si ferma qui, forse per restare a quanto è più consono ai sentimenti di Cristo nella passione che segue. Nei versetti che completano il carme, il Servo sfida pure gli avversari sulla giustezza delle sue posizioni ed è sicuro che saranno confusi da Dio e logorati come veste intaccata dalle tarme. Non sono sentimenti teneri ma neppure estranei a Cristo. Forse i cristiani d’oggi dovrebbero riscoprire il modo e il coraggio di ripeterli.

 

Seconda lettura: Filippesi 2,6-11

Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre. 

 

La lettera ai Filippesi indirizzata alla prima comunità cristiana fondata da Paolo in Europa, ha in quest’inno cristologico il perno del suo messaggio, carico di stimoli per la vita cristiana di tutti e di sempre. L’apostolo si trova in catene (Fil 1,7.14), fortemente impegnato a vivere il mistero di Cristo morto e risorto, che va predicando. Brama di «cono-scere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti». Dai Filippesi ha accettato più volte aiuti materiali come partecipazione della sua tribolazione (Fil 4,14-16) e li ringrazia. Ma molto di più desidera che siano partecipi della sua adesione a Cristo, da «cittadini degni del vangelo» (Fil 1,27) e da cristiani che vivono in comunione (Fil 2,1-4). Per questo è inscindibile dal brano odierno l’invito che lo introduce: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5). Esso vale anche per noi, oggi, proprio come cittadini e come cristiani.

     Può darsi che Paolo stesso sia l’autore di questa composizione ritmata. Ma più probabilmente l’ha presa dalla liturgia preesistente e l’ha adattata ai suoi intendimenti. È chiaro lo schema in due parti simmetriche, una discendente nella kènosys e l’altra ascendente nella esaltazione.

     Con la kènosys, svuotamento (vv. 6-8), Cristo scende dal trono più alto all’abisso più profondo, per gradini vertiginosi. Al contrario di Adamo, presuntuoso di essere come Dio, egli passa dalla reale «uguaglianza con Dio» alla «condizione di servo»; quindi da regnante supremo a servo obbediente; in una obbedienza non ordinaria, ma fino alla morte; e una morte non qualunque, ma in croce, come si usava per gli schiavi e per i delinquenti peggiori…

     Con la esaltazione (vv. 9-11), Dio gli fa risalire tutti i gradini. Vi sono coinvolte tutte le creature ed è conseguente, anzi intrinseca, all’annientamento. A Cristo da, anzitutto un Nome, cioè una realtà e missione al di sopra di ogni altro; quindi sottomette a lui tutti gli esseri buoni e cattivi, nei cieli, sulla terra e sotto terra; e, nel riconoscimento della signoria universale di lui, da ad ogni persona la possibilità di ritrovare e di vivere la gloria della paternità divina.

     Di seguito, Paolo indica ai Filippesi alcune conseguenze pratiche da tirare, che valgono anche per noi se le attualizziamo, rapportandole alla vita nella società e nella Chiesa di oggi.

 

Vangelo: Luca 22,14-23,56

 

Quando fu l’ora, Gesù prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: + “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”. C E preso un calice, rese grazie e disse: + “Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finche non venga il regno di Dio”.

Fate questo in memoria di me

C Poi preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: + “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. C Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice dicendo: + “Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”.

Guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo è tradito

“Ma ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell’uomo dal quale è tradito!”. C Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò.

Io sto in mezzo a voi come colui che serve

Sorse anche una discussione, chi di loro poteva essere considerato il più grande. Egli disse: + “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è il più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele.

Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli

Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”. C E Pietro gli disse: P “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte”. C Gli rispose: + “Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi”.

Deve compiersi in me questa parola della Scrittura

C Poi disse: + “Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?”. C Risposero: P “Nulla”. C Ed egli soggiunse: + “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: ‘‘E fu annoverato tra i malfattori’’. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine”. C Ed essi dissero: P “Signore, ecco qui due spade”. C Ma egli rispose: + “Basta!”.

In preda all’angoscia, pregava più intensamente

C Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: + “Pregate, per non entrare in tentazione”. C Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava: + “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. C Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: + “Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione”.

Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?

C Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: + “Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?”. C Allora quelli che eran con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: P “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”. C E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: + “Lasciate, basta così!”. C E toccandogli l’orecchio, lo guarì. Poi Gesù disse a coloro che gli eran venuti contro, sommi sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: + “Siete usciti con spade e bastoni come contro un brigante? Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre”.

Uscito, Pietro pianse amaramente

C Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: P “Anche questi era con lui”. C Ma egli negò dicendo: P “Donna, non lo conosco!”. C Poco dopo un altro lo vide e disse: P “Anche tu sei di loro!”. C Ma Pietro rispose: P “No, non lo sono!”. C Passata circa un’ora, un altro insisteva: P “In verità anche questo era con lui; è anche lui un Galileo”. C Ma Pietro disse: P “O uomo, non so quello che dici”. C E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E uscito, pianse amaramente.

Indovina: chi ti ha colpito?

Frattanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo schernivano e lo percuotevano, lo bendavano e gli dicevano: P “Indovina: chi ti ha colpito?”. C E molti altri insulti dicevano contro di lui.

Lo condussero davanti al sinedrio

Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i sommi sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al sinedrio e gli dissero: P “Se tu sei il Cristo, diccelo”. C Gesù rispose: + “Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma da questo momento starà il Figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio”. C Allora tutti esclamarono: P “Tu dunque sei il Figlio di Dio?”. C Ed egli disse loro: + “Lo dite voi stessi: io lo sono”. C Risposero: P “Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L’abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca”.

Non trovo nessuna colpa in quest’uomo

C [Tutta l’assemblea si alzò, lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: P “Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re”. C Pilato lo interrogò: P “Sei tu il re dei Giudei?”. C Ed egli rispose: + “Tu lo dici”. C Pilato disse ai sommi sacerdoti e alla folla: P “Non trovo nessuna colpa in quest’uomo”. C Ma essi insistevano: P “Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui”. C Udito ciò, Pilato domandò se era Galileo e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme.
Erode con i suoi soldati insulta Gesù

Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. C’erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c’era stata inimicizia tra loro.

Pilato abbandona Gesù alla loro volontà

Pilato, riuniti i sommi sacerdoti, le autorità e il popolo, disse: P “Mi avete portato quest’uomo come sobillatore del popolo; ecco, l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate; e neanche Erode, infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò”. C Ma essi si misero a gridare tutti insieme: P “A morte costui! Dacci libero Barabba!”. C Questi era stato messo in carcere per una sommossa scoppiata in città e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, volendo rilasciare Gesù. Ma essi urlavano: P “Crocifiggilo, crocifiggilo!”. C Ed egli, per la terza volta, disse loro: P “Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò”. C Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà.

Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me

Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù. Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso le donne, disse: + “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato. Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! E ai colli: Copriteci! Perché, se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?”. C Venivano condotti insieme con lui anche due malfattori per essere giustiziati.

Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno

Quando giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: + “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”.  C Dopo essersi poi divise le sue vesti, le tirarono a sorte.

Questi è il re dei Giudei

Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: P “Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto”. C Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano: P “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. C C’era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei.
Oggi sarai con me nel paradiso

Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: P “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. C Ma l’altro lo rimproverava: P “Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. C E aggiunse: P “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. C Gli rispose: + “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”.

Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito

C Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù, gridando a gran voce, disse: + “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. C Detto questo spirò.

Qui si genuflette e si fa una breve pausa.

Visto ciò che era accaduto, il centurione glorificava Dio: P “Veramente quest’uomo era giusto”. C Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, osservando questi avvenimenti.]

Giuseppe pone il corpo di Gesù in una tomba scavata nella roccia

C’era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, persona buona e giusta. Non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Egli era di Arimatea, una città dei Giudei, e aspettava il regno di Dio. Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto. Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo, secondo il comandamento.

 

 

Esegesi

     Essendo qui impossibile l’analisi esegetica dell’intero racconto della passione, che è sostanzialmente conforme a quello degli altri evangelisti, ci limitiamo a segnalare alcune particolarità di questo racconto, che ci consentono di capire i principali messaggi religiosi ad esso collegati da Luca. Si tratta soprattutto di omissioni e di aggiunte, rispetto al testo di Marco, da cui certamente il racconto di Luca dipende. Sottolineeremo soltanto le variazioni più significative e di più facile interpretazione.

     Tra le variazioni apportate al racconto marciano della passione, si deve considerare quello che contiene l’insegnamento di Gesù su chi sia il più grande tra i suoi discepoli, che Luca sposta qui, nella cornice dell’ultima cena: 22,24-27.

     Questo testo Marco lo riporta in 10,41-45 e Matteo in 20,24-28. Lo spostamento serve a Luca per sottolineare l’idea che la passione e morte di Gesù non si deve considerare affatto come una sconfitta, ma è un elemento integrante della via della salvezza.

     Elemento aggiuntivo è il brano detto delle due spade: 22,35-38. In esso Gesù annunzia con molta chiarezza ai discepoli che, con la passione del loro maestro, comincia anche per loro il tempo delle difficoltà e dei contrasti. Per dare maggior forza alle sue parole, Gesù stabilisce una contrapposizione tra la missione in Galilea, descritta in Lc 9,1-6 («non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, … né denaro,…»), e la missione che essi dovranno svolgere nel futuro: «…ora chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha una spada, venda il mantello e ne compri una». Gli apostoli non capiscono il senso metaforico dell’accenno alla spada e ne mettono due a disposizione del maestro. Ma Gesù interrompe il discorso con un basta! Il brano è servito a Luca per ricordare che anche la condizione della sua Chiesa sarà caratterizzata da contrasto e persecuzione.

     Il racconto dell’agonia nell’orto degli ulivi (22,39-45), sostanzialmente conforme a quello di Marco e Matteo, se ne differenzia per elementi omessi e per altri aggiunti. Mentre non si attenua in nulla l’angoscia sofferta da Gesù durante la sua preghiera, arrivando essa addirittura a un sudore come gocce di sangue (v. 44); nulla è detto del bisogno di Gesù di sentire vicini a sé i discepoli oranti; egli prega solo, lontano dai suoi e, alla fine, «Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo» (v. 43). Con queste variazioni, risplende maggiormente, pur nella sofferenza intensa, la maestà solitaria di Gesù.

     Notevoli variazioni, rispetto al testo di Marco-Matteo, ci sono in Luca nella descrizione del comportamento di Pilato. Di costui l’evangelista sembra voler sottolineare una certa dignità e compostezza. Udite le molte e confuse accuse mosse contro Gesù dalla folla, egli si limita a porre una lapidaria domanda all’accusato: «Sei tu il re dei Giudei?» (23,3). La risposta ricevuta gli basta per decretare l’inconsistenza di quelle accuse e dichiara senz’altro:

«Non trovo nessuna colpa in quest’uomo» (23,5-7). Messa poi in evidenza la inconsistente fatuità di erode, Luca ritorna a parlare di Pilato, ribadendo la sua correttezza di magistrato romano, che vuol chiudere il caso con una dichiarazione solenne dell’innocenza di Gesù, appoggiato anche all’opinione di Erode. Pensa di rabbonire quei forsennati dicendo loro: «Perciò dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò» (23,13-16). Alla fine, Luca non può negare che Pilato cedette alla richiesta dei nemici di Gesù, ma gli risparmia l’umiliante scena del lavarsi le mani, riportata in Mt 27,24. Questo comportamento di Luca sembra sia determinato dalla sua volontà di attenuare i motivi di tensione tra la comunità cristiana e le autorità romane.

     Questo stesso motivo ha forse indotto l’evangelista  a omettere  di riferire la flagellazione e i maltrattamenti dei soldati, nel corso della sua detenzione (Mc 15,15-20 e Mt 27,26-31). Questa omissione cambia il senso dell’episodio di Cireneo (Lc 23,26): esso non è più motivato dallo spossamento di Gesù (così in Marco e Matteo) e l’uomo che porta la croce per Gesù appare qui piuttosto come uno scudiero che segue il suo cavaliere.

     Nel viaggio verso il Calvario, secondo Luca Gesù cammina dritto davanti alla folla con la consueta maestà, tanto che è in grado di parlare alle donne con accento profetico, rifiutando la loro compassione e annunziando che ben più miseranda è la condizione di chi lo rifiuta. Questo episodio (23,27-31) è tra quelli che Luca aggiunge al racconto della passione, in armonia con la sua volontà di non sminuire mai l’atteggiamento maestoso di Gesù.

     Luca non smette di sottolineare il comportamento maestoso e regale di Gesù anche quando egli è inchiodato e innalzato sulla croce. La sua regale maestà l’evangelista la esprime soprattutto con le parole di lui.

     Luca omette di riferirci il grido angoscioso del crocifisso «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34 e Mt 27,46), mentre riporta tre sue frasi piene di maestà. La prima frase è quella con cui Gesù invoca il perdono per tutti quelli che lo hanno respinto e condotto alla croce, perché «non sanno quello che fanno» (23,34). La seconda è la risposta al ladrone crocifisso con lui, che si ravvede all’ultimo momento e gli si affida: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (23,42). La terza è quella con cui Gesù esprime, gridando «a gran voce», il suo totale abbandono nel Padre: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (23,46).

     Alle parole pronunziate da Gesù sulla croce sembra che Luca abbia voluto affidare il significato ultimo di quella crocifissione e dell’intero suo vangelo.

     Nelle parole con cui Gesù prega perché il Padre perdoni. Luca afferma che tutti quelli che lo hanno respinto e condannato sono responsabili di una vera colpa, che ha bisogno del perdono divino, ma contemporaneamente afferma che quella colpa non coincide con un giudizio di condanna definitiva. Tutti quelli che, con diversa gradazione di responsabilità, lo hanno condotto in croce possono prendere parte, a condizione che si convertano, ai frutti della salvezza portata da lui, tanto i pagani quanto i figli dell’antico Israele. Inoltre, la preghiera di Gesù per i suoi nemici manifesta l’amore di Dio per i peccatori (quale è espresso da Luca nelle tre parabole della misericordia del c. 15) e presenta insieme, in concreto, un modello di comportamento per tutti i cristiani (quale è enunciato in Lc 6,27-35).

     Le parole con cui Gesù risponde al ladrone convertito contengono un messaggio correttivo dell’attesa giudaica del Messia. «Gesù, ricordati di me quando entrerai (o verrai) nel tuo regno», dice il ladrone, esprimendosi con puro linguaggio biblico e pensando, come tutti i giudei del suo tempo, che il regno messianico si sarebbe realizzato solo alla fine dei tempi. La risposta di Gesù, che riconosce possibile la conversione e la salvezza per tutti i peccatori fino all’ultimo respiro, afferma che il regno di Dio e la salvezza non sono eventi dell’indeterminato futuro, ma cominciano oggi. Questa parola era già risuonata sulla bocca degli angeli annunzianti la buona novella ai pastori di Betlemme («Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore»: Lc 2,11) e sulla bocca dello stesso Gesù all’inizio del suo ministero pubblico nella sinagoga di Nazaret («Oggi si è adempiuta questa scrittura»: Lc 4,21).

     L’ultima frase che Luca attribuisce a Gesù sulla croce mette il sigillo sulla sua presentazione generale della persona del redentore, che soffre e muore senza mai sminuire od offuscare la sua maestà regale. Volutamente sembra che Luca abbia sostituito le parole attribuite a Gesù da Marco e Matteo: mentre questi gli pongono sulle labbra il versetto iniziale del Salmo 22, Luca deriva il suo testo dal Salmo 30 versetto 6, dove non c’è ombra di abbandono da parte di Dio ed è anzi espressa la certezza della sua vicinanza. In tal modo, Gesù è presentato come il supremo modello del giusto, che gli uomini maltrattano e offendono, ma sperimenta sempre la protezione divina. Nelle ultime parole del crocifisso, ai lettori del terzo vangelo è offerto il motivo ispiratore di un comportamento simile a quello del protomartire Stefano, che morì dicendo queste stesse parole (At 7,59-60).           

 L’immagine della domenica

 

Croce nel Santuario di Hornuez (Moral-Spagna)  –   2015

 

 CANTO ALLA CROCE 

Nel riposo, nella fatica,

quando ridi e quando piangi,

conserva ben stretta

– quando vai, quando vieni,

nelle gioie, nei dolori –

la croce nel cuore!

(San Bonaventura)

 

Meditazione

     Nel racconto della passione secondo san Luca compare un personaggio, che non incontriamo negli altri racconti evangelici, il quale può offrire il giusto angolo prospettico dal quale guardare a quello che l’evangelista definisce lo ‘spettacolo’ della Croce (cfr. Lc 23,48). È il cosiddetto ‘buon ladrone’, con il quale Gesù ha un ultimo intenso dialogo proprio nell’imminenza della morte. Il terzo vangelo, peraltro, sottolinea con insistenza che Gesù è crocifisso tra due malfattori. Soltanto Luca parla della loro presenza durante la via che sale al Calvario: «insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori» (23,32). Nel versetto successivo insiste precisando: «quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra». Egli vede realizzarsi in questo evento il versetto di Isaia che Gesù ha citato durante l’ultima cena applicandolo a sé e al destino che lo attendeva: «e fu annoverato tra gli empi» (Lc 22,37; cfr. Is 53,12d). Crocifisso in mezzo a due malfattori, Gesù ora viene davvero annoverato tra gli iniqui. Luca, tuttavia, non intende solo mostrare il realizzarsi della profezia; gli preme soprattutto mettere in luce il suo significato salvifico. Il dialogo con il buon ladrone ha proprio questo intento teologico: rivelare il senso salvifico che questo modo di morire in mezzo a due peccatori possiede. Assume perciò, nel contesto del racconto della passione, un valore sintetico e interpretativo di come l’evangelista comprenda e descriva tutto l’evento pasquale.

     A introdurre il dialogo è il buon ladrone stesso, che per prima cosa si rivolge non a Gesù, ma al suo compagno per rimproverarlo di non avere il giusto atteggiamento di fronte a Dio, che ora egli inizia ad assumere. Anche questo ‘buon ladrone’ non ha avuto finora timore degli uomini, al punto da compiere azioni gravi che lo conducono a subire la condanna capitale, ma in questo momento giunge ad avere timore di Dio. Ovviamente ‘timore’ non va inteso nel senso di ‘paura’ o ‘terrore’ (ad esempio della morte, o del giudizio), ma nel suo significato squisitamente biblico: avere il giusto senso di Dio, in particolare della sua giustizia. Rimanendo davanti a Dio con ‘timore’ egli riconosce da un lato la propria colpevolezza e il proprio peccato – noi siamo condannati giustamente (cfr. v. 41) – dall’altro l’innocenza e la giustizia di Gesù. Questi due aspetti vanno insieme e non possono essere separati: contemplare la giustizia di Gesù illumina la nostra vita e ci porta a riconoscere il nostro peccato; d’altro lato, circolarmente, la consapevolezza del nostro peccato fa risaltare la giustizia di Gesù in cui si manifesta la giustizia stessa del Padre. Avere timore di Dio significa vivere insieme questi due atteggiamenti, consentendo all’uno di illuminare e rendere possibile l’altro. Si apre così per questo personaggio la via verso un pentimento che si esprime poi in un’invocazione molto breve e molto ricca nella sua essenzialità: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (v. 42). Gesù: è l’unica ricorrenza in tutto il Nuovo Testamento in cui leggiamo il nome di Gesù al vocativo, senza che venga aggiunto qualche altro titolo. Nessun altro personaggio si rivolge a Gesù con la stessa familiarità di questo ladrone, accomunato a lui dalla medesima terribile pena. Non è però soltanto la confidenza a farlo parlare in questo modo. Gesù significa ‘Dio salva’ e negli Atti degli Apostoli Luca afferma che questo è il solo nome in cui si può trovare salvezza. Il buon ladrone, anziché oltraggiare, schernire, bestemmiare, invoca in Gesù la salvezza di Dio, e lo fa proprio mentre Gesù non sta salvando se stesso, e rimane insieme a lui sul medesimo patibolo infame.

     Quanti altri personaggi del vangelo di Luca si sono accostati al profeta itinerante in Galilea, potente in parole e opere, con la fede che chiedeva una liberazione dal male? Gesù li aveva accolti rispondendo ‘la tua fede ti ha salvato’. Ma ora questo ladrone rivolge la sua invocazione a un Gesù che sembra impossibilitato a salvare persino se stesso. Il racconto di Luca suscita così una domanda fondamentale: da dove e come nasce questa fede? In Luca la voce in cui si ricapitola e si esprime la pienezza della fede è proprio quella del buon ladrone. C’è quindi una differenza rispetto al racconto di Marco, in cui la pienezza della fede risuona piuttosto nelle parole del centurione, il quale «avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39). Per Marco la fede matura risuona nelle parole di un centurione romano, vale a dire di un pagano. In Luca in un peccatore, in modo coerente con l’intero suo vangelo che ha cura di rimarcare come durante la sua vita Gesù abbia mangiato con i peccatori e sia stato accolto dalla loro fede. Pensiamo ad esempio alla peccatrice che gli cosparge di olio e di lacrime i piedi nella casa di Simone il fariseo (cfr. Lc 7,36-50), o a Zaccheo, il pubblicano di Gerico, che in Gesù accoglie la salvezza di Dio mentre tutti mormorano: «è entrato in casa di un peccatore!» (cfr. Lc 19,1-10). Zaccheo è proprio l’ultimo personaggio che Gesù incontra nel suo cammino verso Gerusalemme: un peccatore che viene cercato e salvato da Gesù. «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (19,10), dichiara Gesù nella sua casa. Il significato di queste parole diviene chiaro sulla croce: Gesù è venuto a cercare e a salvare anche questo ladrone, e con lui ciascuno di noi. Ci ha cercati non solo fino a entrare nella casa di un pubblicano – il che era vietato a un pio e osservante giudeo – ma fino a salire con noi, lui l’unico giusto, sulla croce del nostro ostinato peccato. Ecco perché Gesù non risponde alla triplice sfida che gli viene lanciata di salvare se stesso. O meglio, lo fa con le parole che rivolge al buon ladrone. Non salva se stesso perché è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto, e lo ha fatto fino al punto di perdere se stesso, fino a non salvare se stesso dalla croce e dalla morte.

     Rimane però aperta la domanda iniziale. Come può questo ladrone giungere a questa fede? Cosa significa riconoscere in Gesù la salvezza? Che tipo di salvezza è quella che si manifesta in un giusto crocifisso? Per rispondere a tali interrogativi dobbiamo ricordare ancora la citazione di Isaia 53: «e fu annoverato tra gli empi». La fede del buon ladrone rivela il significato salvifico di questo accettare la morte insieme agli iniqui. Gesù, condividendo il destino dei peccatori, prende su di sé il loro peccato per donare loro la sua giustizia. Anche per questo motivo in Luca il centurione romano esclama, diversamente dal racconto di Marco: «veramente quest’uomo era giusto». Giusto perché ci rende giusti, assumendo il nostro peccato per comunicarci la sua giustizia. La salvezza consiste nel riconoscere questa misericordia che ci giustifica raggiungendoci nel nostro peccato e facendosi solidale con il nostro destino di peccatori. La fede del ladrone, che per Luca rappresenta la figura esemplare della fede di ogni discepolo, riconosce la salvezza di Dio proprio nella misericordia con cui Gesù accetta liberamente di morire come lui e insieme a lui.

     Nel racconto di Luca la vita di Gesù è interamente abbracciata da un oggi, che per la prima volta risuona nel racconto della nascita e per l’ultima volta in quello della morte. È  interessante notare il gioco delle preposizioni che risuona nei due testi. Nella nascita gli angeli annunciano: «oggi è nato per voi un salvatore» (cfr. Lc 2,7). Nella morte Gesù promette: «oggi sarai con me». La vita di Gesù segna questo passaggio: dal per voi al con me. Egli nasce per noi perché noi possiamo essere definitivamente con lui. Ecco l’oggi della salvezza!

     Vita est enim esse cum Christo, quia ubi Christus ibi regnum. «La vita è essere con Cristo, perché dove c’è Cristo, lì c’è il regno» (Ambrogio di Milano).

Preghiere e racconti

Confessare l’unica gloria: Cristo Crocifisso

«Io vorrei che tutti, dopo questi giorni di grazia, avessimo il coraggio di camminare in presenza del Signore, con la Croce del Signore; di edificare la Chiesa sul sangue del Signore, che è versato sulla Croce; e di confessare l’unica gloria: Cristo Crocifisso. E così la Chiesa andrà avanti.»

(Papa Francesco, omelia del 14 marzo 2013).

Uno stemma che è un programma

Postato in General il 14 marzo, 2013

Nello stemma episcopale di papa Jorge Mario Bergoglio ci sono tre parole latine di non immediata comprensione: “Miserando atque eligendo”.

Ma se si va a vedere da dove sono riprese si scoprono tratti importanti del programma di vita e di ministero di papa Francesco.

In questa piccola caccia al tesoro è d’aiuto una nota del dotto teologo Inos Biffi su “L’Osservatore Romano” del 15 marzo.

Il motto proviene da un’omelia di san Beda il Venerabile (672-735), monaco di Wearmouth e di Jarrow, autore di opere esegetiche, omiletiche e storiche, tra cui la “Historia ecclesiastica gentis Anglorum”, per cui è chiamato il “Padre della storia inglese”.

Nell’omelia, la ventunesima di quelle che ci sono giunte, Beda commenta il passo del Vangelo che racconta la vocazione ad apostolo di Matteo, pubblico peccatore.

Nel brano da cui è ricavato il motto si legge:

“Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: ‘Seguimi’ (Matteo, 9, 9). Vide non tanto con lo sguardo degli occhi del corpo, quanto con quello della bontà interiore. Vide un pubblicano e, siccome lo guardò con amore misericordioso in vista della sua elezione, gli disse: ‘Seguimi’. Gli disse ‘Seguimi’, cioè imitami. ‘Seguimi’, disse, non tanto col movimento dei piedi, quanto con la pratica della vita. Infatti ‘chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato’ (1 Giovanni, 2, 6)”.

In latino, il brano inizia così:

“Vidit ergo Iesus publicanum, et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi, Sequere me. Sequere autem dixit imitare. Sequere dixit non tam incessu pedum, quam exsecutione morum”.

Includere nello stemma il motto “Miserando atque eligendo” significa dunque mettersi al posto di Matteo, da Gesù guardato con misericordia e chiamato, nonostante i suoi peccati.

Ma l’importante è il seguito del passo citato. Dove Beda spiega cosa comporta seguire ed imitare Gesù:

“Non ambire le cose terrene; non ricercare i guadagni effimeri; fuggire gli onori meschini; abbracciare volentieri tutto il disprezzo del mondo per la gloria celeste; essere di giovamento a tutti; amare le ingiurie e non recarne a nessuno; sopportare con pazienza quelle ricevute; ricercare sempre la gloria del Creatore e non mai la propria. Praticare queste cose e altre simili vuol dire seguire le orme di Cristo”.

Conclude Inos Biffi:

“È il programma di san Francesco d’Assisi, iscritto nello stemma di papa Francesco. E intuiamo che sarà il programma del suo ministero, come vescovo di Roma e pastore della Chiesa universale”.

Come vivere la settimana Santa

La benedizione delle palme, da cui questa domenica prende il nome, e la processione che ne è seguita vogliono evocare l’ingresso in Gerusalemme di Gesù e la folla che gli va incontro festosa e acclamante.

Forse la nostra processione appare un po’ povera rispetto a ciò che dovrebbe rievocare. L’importante, tuttavia, non è prendere in mano le palme e gli ulivi e compiere qualche pas-so, ma esprimere la volontà di iniziare un cammino. Questa scena infatti, che vorrebbe essere di entusiasmo, non ha valore in sé: assume piuttosto il suo significato nell’insieme degli eventi successivi che culmineranno nella morte e nella risurrezione di Gesù. Contiene perciò una domanda che è anche un invito: vuoi tu muovere i passi entrando con Gesù a Gerusalemme fino al calvario? Vuoi vedere dove finiscono i passi del tuo Dio, vuoi essere con lui là dove lui è? Solo così sarà tua la gioia di Pasqua.

Entriamo dunque con la domenica delle Palme nella Settimana santa, chiamata anche “autentica” o “grande”. Grande perché, come dice san Giovanni Crisostomo, «in essa si sono verificati per noi beni infallibili: si è conclusa la lunga guerra, è stata estinta la morte, cancellata la maledizione, rimossa ogni barriera, soppressa la schiavitù del peccato. In essa il Dio della pace ha pacificato ogni cosa, sia in cielo che in terra».

Sarà dunque una settimana nella quale pregheremo in particolare per la pace a Gerusalemme e ci interrogheremo pure sulle condizioni profonde per attuare una reale pace a Gerusalemme e nel resto del mondo.

La liturgia odierna è quindi un preludio alla Pasqua del Signore. L’entrata in Gerusalemme dà il via all’ora storica di Cristo, l’ora verso la quale tende tutta la sua vita, l’ora che è al centro della storia del mondo. Gesù stesso lo dirà poco dopo ai greci che, avendo saputo della sua presenza in città, chiedono di vederlo: «È venuta l’ora in cui sarà glorificato il Figlio dell’uomo» (Gv 12,23). Gloria che risplenderà quando dalla croce attirerà tutti a sé.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 159-160).

Andremo alla casa del Signore

Mi rallegrai quando mi dissero:

«Andremo alla casa del Signore».

E ora i nostri piedi

sono nell’interno delle tue porte,

Gerusalemme!

Gerusalemme costruita come città,

in sé ben compatta!

Là salivano le tribù, le tribù del Signore,

secondo il precetto dato a Israele

di lodarvi il nome del Signore.

Sì, là s’ergevano i seggi del giudizio,

i seggi della casa di Davide.

Augurate la pace a Gerusalemme:

vivano in prosperità quanti ti amano!

Sia pace fra le tue mura,

prosperità fra i tuoi palazzi.

Per amore dei miei fratelli e amici

dirò: Sia pace in te!

Per amore della casa del Signore, nostro Dio,

chiederò: Sia bene per te!

(Salmo 121)

Osanna nel più alto dei cieli!

Dopo la risurrezione di Lazzaro, morto da quattro giorni, il Signore trovò un asinello che era stato preparato dai discepoli, come racconta l’evangelista Matteo (cfr. Mt 21,1-11), montò su di esso ed entrò in Gerusalemme secondo la profezia di Zaccaria, che aveva predetto: «Non temere, figlia di Sion! Ecco, giunge a te il tuo re, re di giustizia e di salvezza; mite cavalca il piccolo di un’asina» (Zc 9,9). Attraverso queste parole il profeta voleva indicare che Cristo è il re profetizzato, l’unico vero re di Israele. Il tuo re — dice – non mette paura a quelli che lo vedono, non è duro né malvagio, non conduce con sé soldati armati di scudo o guardie del corpo, né una quantità di fanti e di cavalieri, superbo, pronto a riscuotere imposte e tasse, a imporre schiavitù e servitù ignobili e dannose, ma sue insegne, invece, sono l’umiltà, la povertà, la sobrietà. Montato su un asino, infatti, faceva il suo ingresso senza ostentare alcuno sfarzo mondano. Per questo egli è il solo re giusto, che salva nella giustizia, mansueto perché la mansuetudine è l’attributo che più gli è proprio. Ed è lo stesso Signore che dice di sé: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore». Colui dunque che risuscitò Lazzaro dai morti, re montato su un asino, entrava allora in Gerusalemme e subito tutta la gente, bambini, uomini, adulti e vecchi, stesero per terra i loro mantelli e, presi dei rami di palma, simbolo di vittoria, gli andavano incontro come all’autore della vita e al vincitore della morte, gli si prostravano davanti, lo scortavano e non solo all’esterno, ma anche dentro il recinto del tempio, e a una sola voce cantavano: «Osanna al figlio di David! Osanna nel più alto dei cieli!» (Mt 21,9). «Osanna» è un inno che si eleva a Dio; infatti tradotto significa: «Salvaci, Signore!»; e la parte che segue «nell’alto dei cieli» significa che l’inno è cantato non solo sulla terra, non solo dagli uomini, ma anche nell’alto dei cieli dagli angeli del cielo.

(GREGORIO PALAMAS, Omelie 15, PC 151,184B-185).

Settimana Santa

Signore Gesù Cristo, nell’oscurità della morte

Tu hai fatto che sorgesse una luce;

nell’abisso della solitudine più profonda

abita ormai per sempre la protezione potente

del tuo amore;

in mezzo al tuo nascondimento

possiamo cantare l’Alleluja dei salvati.

Concedici l’umile semplicità della fede,

che non si lascia fuorviare

quando tu chiami nelle ore del buio, dell’abbandono,

quando tutto sembra apparire problematico;

concedi in questo tempo nel quale attorno a te si combatte una lotta mortale,

luce sufficiente per non perderti;

luce sufficiente perché noi possiamo darne

a quanti ne hanno ancora più bisogno.

Fai brillare il mistero della tua gioia pasquale,

come aurora del mattino, nei nostri giorni,

concedici di poter essere veramente uomini pasquali

in mezzo al sabato della storia.

Concedici che attraverso i giorni luminosi ed oscuri

di questo tempo

possiamo sempre con animo lieto

trovarci in cammino verso la Tua gloria futura.

Amen.

(J. Ratzinger)

Preghiera

Il tuo volto, Signore Gesù, è il volto del Dio dell’umiltà che ci ama fino a spogliarsi, fino a rendersi povero in mezzo a noi. Il tuo volto è il volto del nostro dolore, della nostra solitudine, della nostra angoscia, della nostra morte che tu hai voluto assumere perché non fossimo più soli e disperati.                                     

Fa’ che impariamo a riconoscere questa sconcertante rivelazione della tua onnipotenza, l’onnipotenza di chi ama fino a condividere la sofferenza, fino a lasciarsi crocifiggere per nostro amore. Insegnaci che cosa significa amare come tu ci ami, per accettare in silenzio di partecipare al tuo mistero di passione e morte e gustare con te e in te la gioia della vittoria piena e totale sulla divisione, sul peccato e sulla morte.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

Sett Santa Vangelo delle PALME (C)

 

V DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Isaia 43,16-21

 

Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo; essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi». 

 

Il brano fa parte del secondo Isaia, la cui raccolta comprende i capitoli 40-55, divisi in due serie di vaticini: gli inni di JHWH e di Israele (40-48) e gli inni di Sion Gerusalemme (49-55). Il testo della lettura descrive la restaurazione di Israele come un nuovo esodo che supera in grandiosità quello dell’Egitto. La pericope contiene una sintesi dei principali temi del profeta.

     Israele celebra sempre i prodigi dell’antico Esodo come il passaggio del Mar Rosso e la sconfitta degli Egiziani; quei prodigi non sono nulla in confronto a ciò che Dio sta preparando: gli esiliati ritorneranno direttamente attraverso il deserto, trasformato in oasi. Le immagini della descrizione profetica sono molto belle. Il profeta ha il dono di far rinascere la speranza. L’inizio allude all’esodo dall’Egitto; le nuove gesta che stanno per essere descritte ne sono una sublimazione. «Non ricordate più le cose passate» è espressione che segna il transito dal passato al futuro immediato; il ricordo è di per sé legge fondamentale; ricordare, trasmettere di generazione in generazione, proclamare le azioni di Dio; da questo nasce il senso della storia; però la memoria non deve essere una fuga psicologica nostalgica verso il passato ma deve aprirsi verso il futuro: è la profezia; la memoria si cambia in speranza; il paradosso della descrizione sottolinea la superiorità dell’avvenire e prepara gli uditori a farne l’esperienza: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto» (Is 43,19-20).

     La cosa nuova che sta germogliando, che Dio sta operando è la fine della prigionia; si tratta di un evento inatteso, senza precedenti; il nuovo prodigio sarà mirabile; come nell’esodo antico il mare era stato reso asciutto, così ora il deserto riceverà fiumi di acqua, così che tutti potranno essere dissetati. Anche le bestie selvatiche saranno pacificate; il paradiso degli animali è la raffigurazione della giustizia che regnerà nel mondo. La frase finale: «Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi» rivela che il nuovo esodo non produce una condizione magica di salvezza; la storia continua; la proclamazione della lode ha significato soltanto in un progresso storico.

 

Seconda lettura: Filippesi 3,8-14

Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.

 

 

Il tratto della lettura si trova nel punto in cui san Paolo polemizza contro i Giudei o i Giudeocristiani, che ritengono indispensabile la pratica della circoncisione anche per chi crede in Cristo. Ora la nuova fede è unione totale a Cristo nella più grande libertà spirituale. Anche la più scrupolosa osservanza della legge è solo pratica umana, che appartiene alla sfera della carne. L’incontro di Paolo con Gesù è il suo unico centro di orientamento e di interesse; tutto il resto non vale.

     San Paolo, che apparteneva all’ebraismo, ha reputato i vantaggi che gliene potevano provenire come una perdita a confronto del guadagno della persona di Gesù Cristo che egli ha incontrato. La conoscenza di Cristo accordata all’apostolo sulla via di Damasco ha iniziato un rapporto tra lui e Cristo che è infinitamente superiore a tutti i privilegi del passato. Ciò che prima egli teneva in grandissima considerazione ora è diventato come spazzatura, come immondizie. Lo scopo è guadagnare Cristo; ciò significa avere di lui non soltanto una conoscenza intellettuale, ma una comunione di vita intima; la quale viene significata con l’espressione: essere trovato in lui. Questa identificazione mistica con Cristo fa si che l’apostolo è rivestito dalla giustizia della fede la quale proviene dal dono di Dio. Le parole che seguono descrivono la relazione di Paolo con Cristo; egli desidera arrivare a conoscere la potenza della sua risurrezione, ad avere la partecipazione alla sofferenza del Signore per comunicare alla sua condizione di risuscitato.

            Una tale tensione di assimilazione a Cristo non diventerà perfetta che al momento della morte: «Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù (Fil 3,8-14)». Questa descrizione che san Paolo fa per se stesso costituisce la fenomenologia della vita di fede, della vita cristiana; essa è un continuo tendere alla meta più alta, mai raggiungibile perfettamente fin che siamo nell’esilio terreno; l’influsso di Cristo pone il credente nella situazione di assimilarsi a lui, di identificarsi in un certo modo con lui, nelle sofferenze e poi nella risurrezione di cui i sacramenti hanno già deposto il germe; l’ultimo traguardo sarà raggiunto dopo la vita terrena, nella esistenza futura.

 

Vangelo: Giovanni 8,1-11

In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». 

 

Esegesi 

     Il brano della lettura che contiene il racconto dell’incontro di Gesù con la donna adultera, è collocato nella prima parte del vangelo, denominata: libro dei segni. Tuttavia l’opinione comune degli studiosi è che questo racconto non sia giovanneo. Esso infatti interrompe la sequenza dei discorsi tenuti nella festa delle capanne, è omesso da molti testimoni importanti, era sconosciuto ai santi padri e manca in molte versioni antiche. Lo stile letterario è affine a quello di Luca e si pensa che probabilmente faceva parte del suo vangelo. Una delle ragioni per cui può essere stato collocato qui sta nel fatto che l’episodio è una illustrazione di quanto Gesù dirà in Gv 8,15: «Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno».

     I nemici di Gesù cercano di metterlo in difficoltà proponendogli un caso difficile, in modo che qualunque sia la sua risposta possa essere rivolta contro di lui. «Gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo» (Gv 8,3-5). È un caso di adulterio; la legge puniva di morte tale trasgressione. Coloro che interpellano Gesù pensavano di avere buon gioco contro di lui; se avesse detto che la colpevole non doveva essere lapidata, l’avrebbero accusato come violatore della legge; se l’avesse condannata, si poteva accusarlo di durezza di cuore, di mancanza di misericordia.

     Gesù di fronte alla proposizione del caso si mette a scrivere in terra; questo gesto ha dato luogo a molte congetture; con esso molto probabilmente il Signore intende mostrare il proprio disinteresse per quanto stava accadendo. È caratteristico che Gesù si rifiuti di trattare il caso come una questione puramente legale; egli trasferisce il caso sul livello pratico; quando si trattava di una sentenza capitale il testimone a carico doveva essere il primo a dare inizio all’esecuzione secondo la prescrizione: «La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per farlo morire; poi la mano di tutto il popolo» (Dt 17,7). Gesù invita gli astanti a pensare anzitutto se la loro coscienza li proclama degni di essere giudici e condannatori: «Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra» (Gv 8,7-8). Rendendosi conto della ineccepibilità della risposta di Gesù e avvertendo anche un senso di vergogna per avere cercato di sfruttare l’umiliazione di una donna allo scopo di mettere in difficoltà Gesù, gli accusatori si allontanano cominciando dai più vecchi.

     A questo punto si delinea l’incontro tra Gesù e la donna; è l’incontro dell’innocenza con chi ha commesso peccato: la scena diventa una illustrazione plastica dell’invito al pentimento. Dio odia il peccato e ama il peccatore; tale atteggiamento si attua in Gesù. Il quale, benché non giudichi e non condanni, invita la donna a non peccare più: «Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,9-11). La legge condanna il peccato non perché gli uomini si giudichino a vicenda, ma perché essi sentano il bisogno di essere salvati da Dio. Gesù porta in sé questa salvezza: odia infinitamente il peccato, ama infinitamente il peccatore. Questo è possibile soltanto a Dio.

 

L’immagine della domenica

 

 UMANITÀ

Il grado di sensibilità

per le sofferenze degli altri,

per l’umanità degli altri uomini,

è l’indice del grado di umanità raggiunto…

Il contrario dell’umanità

è la brutalità,

l’incapacità a riconoscere

l’umanità del prossimo,

l’incapacità ad essere sensibile ai suoi bisogni, alla sua situazione.

(A. HESCHEL)

 

Meditazione

     Il volto di Dio che la parabola di Lc 15,11-32 ci ha rivelato nell’abbraccio accogliente del padre misericordioso (il testo evangelico della IV domenica di Quaresima) si riflette nello sguardo e nella parola che Gesù rivolge a una donna adultera in procinto di essere condannata alla lapidazione dagli scribi e dai farisei, secondo i dettami della legge mosaica. Il perdono che Gesù offre a questa donna è come un cammino rinnovato, una rigenerazione, una possibilità inaspettata di salvezza. Solo Dio ha il coraggio di dimenticare ciò che è passato e aprire «nel deserto una strada» (Is 43,19) che conduce al luogo della vita e della pace. La parola di Gesù è come un balsamo che ridà alla donna peccatrice la forza per camminare nuovamente verso la vita: «neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11). Lo sguardo di quella donna, attraverso la potenza e la gratuità del perdono, è ormai proiettato verso un futuro carico di speranza; il peccato che la tratteneva prigioniera è alle spalle, è passato, è stato consumato dalla misericordia di Gesù. Sulle labbra di quella donna si potrebbero porre le parole con cui Paolo esprime la dinamica della sua vita, ormai afferrata dall’amore di Cristo: «dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta… mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (Fil 3,12-14).

     Il racconto di Gv 8,1-11 è realmente una parabola che ci rivela la capacità di Dio di creare e rinnovare la vita dell’uomo. La promessa di Dio ai deportati di Israele a Babilonia, riportata nel testo di Isaia (prima lettura), trova come una realizzazione personale nel cammino di vita che Gesù apre a una donna peccatrice: «Non ricordate più le cose passate – dice il Signore attraverso il suo profeta – non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova» (Is 43,18-19). E sotto il segno della novità è, infatti, tutto l’episodio dell’incontro di Gesù con la donna adultera. Sorprendentemente questa pericope, inserita nel racconto di Giovanni, ma mancante in molti manoscritti del quarto vangelo, ci è stata conservata come un racconto a se stante, irriducibile alle tradizioni evangeliche che noi conosciamo.

     Pur presentando agganci con lo stile narrativo di Luca (si pensi all’episodio quasi speculare dell’incontro di Gesù con la peccatrice nella casa di Simone in Lc 7,36-50), questo racconto è carico di originalità, nella forma, ma soprattutto nel contenuto. E probabilmente il comportamento di Gesù è apparso scandaloso alla stessa comunità cristiana, se ha faticato a inserirlo nel canone dei vangeli. Certamente, in questo racconto si cammina sul filo del rasoio. Si ha quasi l’impressione che la gravità di un comportamento moralmente negativo non venga presa in seria considerazione dalle parole di Gesù. Ma tutto, in questo racconto, conduce a un luogo di rivelazione: il cuore di Dio colmo di compassione. Si può allora dire – e questo di per sé è già un messaggio fondamentale – che l’agire inaudito di Gesù, il perdono e la misericordia che emergono nell’incontro con i peccatori, sono il riflesso di quel volto di Dio a cui la stessa comunità cristiana è chiamata a convertirsi. Il testo di Gv 8 diventa come una icona che deve plasmare e motivare non solo il cammino personale di conversione, ma la prassi ecclesiale di fronte a ogni peccatore. Anche la comunità dei credenti deve incessantemente mettersi alla scuola di Colui che ha detto: «voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno» (Gv 8,15).

     Possiamo cogliere il centro del racconto proprio a partire da Gesù, dal suo sguardo su coloro che gli stanno di fronte (gli scribi, i farisei, la donna adultera), dalle sue parole, dai suoi silenzi (essenziali e autorevoli), dai suoi gesti, misteriosi ed eloquenti allo stesso tempo. Parole, silenzi, gesti, sguardo, hanno il peso del giudizio di Dio e, nella misura in cui vengono accolti e lasciati macerare nel cuore, aprono l’orizzonte interiore spostando il nostro sguardo dalla realtà del peccato (che non viene assolutamente minimizzata) al volto stesso di Dio. E ancora una volta ci viene rivelata l’autentica traiettoria della conversione, la forza che permette un cammino di liberazione dal peccato: il perdono inaspettato e totalmente gratuito di Dio.

     E in questa dinamica di liberazione, in questo paradossale esodo interiore, sono invitati a entrare sia la donna adultera che gli scribi e i farisei. Ci soffermiamo soprattutto sul confronto tra Gesù e gli scribi e i farisei. Coloro che conducono davanti a Gesù una donna, colta in flagrante adulterio, possiedono già una chiave di lettura della situazione in cui quella donna è stata coinvolta. Si tratta della legge di Mosè, un testo della Scrittura che prevede una soluzione drastica per questa sorta di peccato: la lapidazione (cfr. Lv 20,10 e Dt 22,21). La sicurezza di questi uomini (hanno la parola di Dio dalla loro parte) contrasta con il fatto che esigono da Gesù un coinvolgimento, un’interpretazione del caso. Perché rivolgere a Gesù quella domanda – «ora Mosè nella legge ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (v. 5) – quando il ‘caso’ era già risolto nella Legge? C’è forse un desiderio di uscire dalle strettoie legalistiche per percorrere una via nuova oppure c’è l’intenzione di mettere alla prova Gesù, metterlo in contrasto con Mosè?

     Questi maestri si aspettano che Gesù rompa il silenzio iniziando la sua risposta con quella parola che spesso hanno udito: «Mosè vi ha detto… ma io vi dico…». Ciò che Gesù fa, invece, è sorprendente e mette costoro con le spalle al muro. In due successivi momenti, ritmati dal silenzio e dalla parola, Gesù riesce a creare il vuoto attorno a questi uomini e, quasi sospendendoli su di esso come su di un abisso, li obbliga a spostare lo sguardo sul loro cuore, sul loro comportamento, sul loro modo di giudicare, sul loro modo di rapportarsi a Dio. E tutto avviene attraverso un gesto e una parola. Un gesto misterioso ripetuto due volte, un gesto che ha suscitato molte interpretazioni: «Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra… e chinatesi di nuovo, scriveva per terra» (vv. 6,8). È un gesto profetico, simbolicamente carico della forza del giudizio di Dio su ogni uomo, un gesto che potrebbe tradurre questa parola di Geremia: «coloro che si allontanano da me, saranno scritti per terra» (Ger 17,13). Gesù non pronuncia alcun giudizio contro questi uomini così sicuri della loro giustizia; li rimanda al tribunale della loro coscienza perché in esso facciano la verità. E la parola che finalmente Gesù pronuncia, rompendo quel silenzio carico di attesa, è come una spada che penetra nel cuore di questi uomini: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v. 7). Gesù non nega il giudizio di Dio o la Legge e neppure chiede pietà per la donna, scusandola o difendendola per un peccato che sicuramente ha commesso; vuole che ciascuno rivolga il giudizio della parola di Dio anzitutto verso se stesso. Adulteri o no, tutti siamo peccatori e bisognosi di conversione e di perdono.

     Gesù vuole che il giudizio di Dio sia di Dio, non dell’uomo; l’uomo non può arrogarsi questo diritto. E in Dio il giudizio non è mai senza una possibilità di salvezza, perché Dio non vuole la morte ma la vita. E il cerchio mortale attorno a quella donna viene così spez-zato, aprendosi alla vita: «quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani» (v. 9), «accusati dalla loro coscienza», come aggiunge un manoscritto. Ora Gesù è solo di fronte alla donna adultera. E per quella donna la solitudine del peccato che quasi la rendeva anonima (è semplicemente una ‘adultera’; è identificata con il suo peccato, è prigioniera di esso) si apre all’incontro con la misericordia.

     Con una espressione lapidaria, sant’Agostino così dice: «rimasero solo loro due: la misera e la misericordia». E il dialogo tra Gesù e quella donna rivela la profondità del cuore di Dio: è un dialogo in cui ogni parola trasmette compassione, pace, libertà, gioia; un dialogo in cui ogni parola è carica della serietà dell’amore di Dio e attende dall’uomo una risposta responsabile e fedele. La parola di Gesù non è la parola di chi semplicemente invita a dimenticare e a fuggire un passato fatto di morte e di schiavitù, ma una parola che impegna a guardare la propria vita con serietà, con gli occhi di Dio, e ad aprirla a un orizzonte di grazia e di misericordia. Quella donna perdonata perché non condannata ma salvataneppure io ti condanno»), d’ora in poi dovrà vivere in conformità con la liberazione ricevuta («va’ e d’ora in poi non peccare più»). L’essere perdonati gratuitamente, senza condizioni, è la forza per riprendere il cammino. Possiamo mettere sulle labbra di questa donna, sulle nostre labbra di peccatori perdonati, queste parole tratte dal Sal 103,10-14 e dal Sal 32,1.11: «Il Signore non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe… egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere»… «Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato… Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti! Voi tutti, retti di cuore, ridete di gioia».

 

Preghiere e racconti

Giubileo della Misericordia

“Questo Giubileo della Misericordia è tempo favorevole per accogliere la presenza di Dio, per sperimentare il suo amore e ritornare a Lui con tutto il cuore… buttiamo via, cioè, quello che impedisce di essere spediti nel cammino verso di Lui, senza paura di lasciare ciò che ci dà sicurezza e a cui siamo attaccati; non rimaniamo seduti, rialziamoci, ritroviamo la nostra statura spirituale, in piedi, la dignità di figli amati che stanno davanti al Signore per essere da Lui guardati negli occhi, perdonati e ricreati. E la parola forse che oggi arriva nel nostro cuore, è la stessa della creazione dell’uomo: ‘Alzati!’. Dio ci ha creati in piedi: Alzati!'”.

(Papa Francesco presiede la celebrazione penitenziale, marzo 2016).

Racconto

Un brigante del deserto venne un giorno a morire davanti alle porte del monastero di Scete.

Dio mi perdonerà -disse al fratello che era subito accorso.

Perché ne sei sicuro? -chiese questi.

Perché è il suo mestiere.

(R. KERN, Arguzie e facezie dei Padri del deserto, Torino, 21987, 87).

Nostalgia della fede

Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose in cui io dubito e sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero anche me.

«Abbi sempre misericordia»

San Francesco d’Assisi, in una commovente lettera ad un ministro/ superiore, dava le seguenti istruzioni circa eventuali debolezze personali dei suoi frati: «E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore e ami me servo suo e tuo, se farai questo, e cioè: che non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attirarlo al Signore; e abbi sempre misericordia di tali fratelli».

(Francesco d’Assisi, Lettera a un Ministro, 7-10).

La polvere del peccato

Benché, Signore, non abbia quasi mai infilato la perla dell’obbedienza alla tua legge, benché non abbia spesso lavato la polvere del peccato dal mio volto, io non dispero della tua bontà, della tua generosità, del tuo perdono. Confesso il mio grande peccato; tormentami, se tu lo vorrai; accarezzami, se tu lo vorrai. Io so però che tu desideri abbracciarmi.

(Ornar Khayyam, poeta persiano).

«Neanch’io ti condanno»

Cari fratelli e sorelle! Siamo giunti alla Quinta Domenica di Quaresima, nella quale la liturgia ci propone, quest’anno, l’episodio evangelico di Gesù che salva una donna adultera dalla condanna a morte (Gv 8,1-11). Mentre sta insegnando nel Tempio, gli scribi e i farisei conducono a Gesù una donna sorpresa in adulterio, per la quale la legge mosaica prevedeva la lapidazione. Quegli uomini chiedono a Gesù di giudicare la peccatrice con lo scopo di “metterlo alla prova” e di spingerlo a fare un passo falso. La scena è carica di drammaticità: dalle parole di Gesù dipende la vita di quella persona, ma anche la sua stessa vita. Gli accusatori ipocriti, infatti, fingono di affidargli il giudizio, mentre in realtà è proprio Lui che vogliono accusare e giudicare. Gesù, invece, è “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14): Egli sa che cosa c’è nel cuore di ogni uomo, vuole condannare il peccato, ma salvare il peccatore, e smascherare l’ipocrisia. L’evangelista san Giovanni dà risalto ad un particolare: mentre gli accusatori lo interrogano con insistenza, Gesù si china e si mette a scrivere col dito per terra. Osserva sant’Agostino che quel gesto mostra Cristo come il legislatore divino: infatti, Dio scrisse la legge col suo dito sulle tavole di pietra (cfr Comm. al Vang. di Giov., 33, 5). Gesù dunque è il Legislatore, è la Giustizia in persona. E qual è la sua sentenza? “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. Queste parole sono piene della forza disarmante della verità, che abbatte il muro dell’ipocrisia e apre le coscienze ad una giustizia più grande, quella dell’amore, in cui consiste il pieno compimento di ogni precetto (cfr Rm 13,8-10). E’ la giustizia che ha salvato anche Saulo di Tarso, trasformandolo in san Paolo (cfr Fil 3,8-14). Quando gli accusatori “se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani”, Gesù, assolvendo la donna dal suo peccato, la introduce in una nuova vita, orientata al bene: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». È la stessa grazia che farà dire all’Apostolo: “So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3,14).Dio desidera per noi soltanto il bene e la vita; Egli provvede alla salute della nostra anima per mezzo dei suoi ministri, liberandoci dal male col Sacramento della Riconciliazione, affinché nessuno vada perduto, ma tutti abbiano modo di convertirsi.

Cari amici, impariamo dal Signore Gesù a non giudicare e a non condannare il prossimo. Impariamo ad essere intransigenti con il peccato – a partire dal nostro! – e indulgenti con le persone. Ci aiuti in questo la santa Madre di Dio che, esente da ogni colpa, è mediatrice di grazia per ogni peccatore pentito.

(Le parole del Papa Benedetto XVI alla recita dell’angelus, 21.03.2010).

Delitto e perdono

Se tu conoscessi i tuoi peccati, ti perderesti d’animo.

– Allora mi perderò d’animo, o Signore, se me li rivelerai.

– No, tu non ti dispererai, perché tu li conoscerai nel momento stesso in cui ti saranno perdonati.

(Pascal)

Lo sguardo compassionevole e misericordioso di Cristo

«Un giorno stavo parlando con uno studente nel mio studio, e sul cavalletto avevo appena finito di dipingere un volto di Cristo di grandi dimensioni. Ho chiesto allo studente:

 -Secondo te, chi guarda Cristo?

-Guarda me.

Poi gli ho detto di alzarsi, di continuare a guardare Cristo e, passo per passo, lentamente, venire dalla mia parte. Gli ho chiesto di nuovo:

-Adesso sei da solo, hai la testa piena di pensieri cattivi, violenti. E Cristo?

-Mi guarda, risponde.

Al passo successivo gli dico:

-Sei con i tuoi amici, ubriaco, di sabato sera. E Cristo?

-Mi guarda, risponde ancora.

Ancora un altro passo  gli chiedo:

-Ora sei con la tua fidanzata, e vivi la sessualità nel modo in cui hai parlato, che ti turba la memoria. E Cristo?

-Mi guarda con una grande compassione.

-Ecco, gli dico, quando sentirai addosso in tutte le circostanze della tua vita questo sguardo compassionevole e misericordioso di Cristo, sarai una persona veramente spirituale, sarai di nuovo completamente integro, vicino a ciò che possiamo chiamare pace interiore, serenità dell’anima, felicità della vita».

(M.I. RUPNIK, Paternità spirituale: un cammino regale per l’integrazione personale.« Nella nuova evangelizzazione dell’Est e dell’Ovest», in  CENTRO ALETTI (ed.), In colloquio. Alla scoperta della paternità spirituale, Roma, LIPA, 1995, 203-204).

Rimasero in due: la misera e la misericordia

«Allora i farisei e gli scribi gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, gli dicono: Maestro, questa donna è stata colta in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che cosa dici? Questo dicevano per metterlo alla prova, onde avere di che accusarlo» (Gv 8,3-6). Che cosa rispose il Signore Gesù? Che cosa rispose la Verità? Che cosa rispose la Sapienza? Che cosa rispose la stessa giustizia contro la quale era rivolta la calunnia? Non disse: «Non sia lapidata» Si sarebbe messo contro la legge. Ma si guarda bene anche dal dire: «Sia lapidata!». Egli era venuto non per perdere ciò che aveva trovato, ma per cercare ciò che era perduto. Che cosa rispose dunque? Considerate che risposta colma di giustizia e insieme di mansuetudine e di verità.

Dice: Chi di voi è senza peccato, getti per primo una pietra contro di lei (Gv 8,7). O risposta della Sapienza! Come li costrinse a rientrare in se stessi! Stavano fuori, intenti a calunniare gli altri, invece di scrutare se stessi; vedevano l’adultera, ma non la capivano […] Se Gesù dicesse: «Non lapidate l’adultera!», verrebbe accusato come ingiusto. Se dicesse: «Lapidatela!», non si mostrerebbe mansueto. Dica quel che deve dire colui che è mansueto e giusto: Chi di voi è senza peccato, getti per primo una pietra contro di lei. Questa è la voce della giustizia: «Si punisca la peccatrice, ma non per mano di peccatori; si adempia la legge ma non per opera di trasgressori della legge». Questa è veramente la voce della giustizia. E quelli colpiti dalla sua giustizia come da una grande freccia, guardando dentro di sé e trovandosi colpevoli, uno dopo l’altro, tutti se ne andarono (Gv 8,9). Rimasero in due: la misera e la misericordia […] Gesù poi dopo aver respinto gli avversari della donna con la voce della giustizia, levando verso di lei gli occhi della mansuetudine, le chiese: Nessuno ti ha condannato? Essa rispose: Signore, nessuno. Ed egli: Neppure io ti condanno, neppure io dal quale forse hai temuto di essere condannata, perché in me non hai trovata nessun peccato. Neppure io ti condanno. Come, Signore? Favorisci il peccato? No. Ascoltate ciò che segue : Va’e d’ora innanzi non peccare più. Il Signore condanna il peccato, non il peccatore.

(AGOSTINO, Commento al vangelo di Giovanni 33, 5-6, in Opere di sant’Agostino, pp. 706-710).

Preghiera

Gesù, misericordia del Padre, venuto a incontrare la nostra miseria sulle strade del mondo, nelle piazze di ogni città. Tu dalle braccia infinite sempre aperte a riaccogliere chi era perduto, volgiti a noi, nell’impeto della tua pietà. Noi non vogliamo essere «scribi e farisei», accusatori dei nostri fratelli, ma spesso ci troviamo ma lanciare sugli altri la pietra del nostro peccato.       

Gesù, Signore del sovrano silenzio, in mezzo al tumulto delle nostre passioni rendici capaci di tacere davanti a te mentre, nuda e piena di vergogna, l’anima nostra si confessa semplicemente lasciandosi guardare dai tuoi occhi di mite pastore. Chi ci condannerà se tu ci assolvi? Chi ci disprezzerà se tu ci ami? Tu solo rimani con noi, o Innocente, o Puro, o Santo che non puoi vedere il male. Eccoci purificati dal tuo perdono: noi non vogliamo più peccare. Confermaci nella fedeltà dell’amore. Amen.

                 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DI QUARESIMA

IV DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Giosuè 5,9-12

 In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.                   

 

Aria di novità, di ‘riconciliazione’ si respira nella prima lettura. Si conclude la lunga esperienza di permanenza nel deserto e si prepara l’ingresso nella Terra Promessa. È come un ritorno a casa, un incontrare Dio in modo rinnovato. Il capitolo inizia con la circoncisione di tutto il popolo: Giosuè lo vuole preparare al passo decisivo.

     La lettura inizia con una proclamazione ufficiale di avvenuta riconciliazione, perché Dio dice a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». È conclusa la ‘lunga quaresima’ della peregrinazione; è stato un tempo di purificazione e di esperienza di Dio. Il popolo, ora rinnovato e riconciliato da Dio stesso, può celebrare la Pasqua nella terra promessa. Un mistico abbraccio unisce nuovamente Dio al suo popolo.

     Un segno concreto è dato dalla possibilità di mangiare «i frutti della terra di Canaan», la loro nuova terra. Si apre un nuovo periodo, una nuova epoca, di cui la Pasqua segna l’avvio.

 

Seconda lettura: 2 Corinzi 5,17-21

 

Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.

 

 

Il tema della riconciliazione domina anche la seconda lettura e si inserisce perfettamente nella liturgia odierna.

     Dopo una premessa in cui Paolo ribadisce di operare rettamente perché sta sempre alla presenza di Dio, e dopo il rifiuto di cercare ancora una raccomandazione, passa ora a trattare un tema teologico di primaria importanza, quello della riconciliazione.

     Nell’affrontare l’argomento, Paolo indica due principi ispiratori che sono anche due guide: il principio cristologico e il principio ecclesiologico. Con il primo si afferma che tutto viene da Dio in Cristo, con il secondo che a Paolo e agli apostoli («noi», 5,19) è affidato il ministero della riconciliazione.

     È bello constatare che all’inizio della trattazione sta una attestazione di amore di Cristo: pensando a lui, morto per tutti gli uomini, si imposta correttamente il tema preso in esame. La morte di Cristo apre una certezza di vita che si fonda sulla sua risurrezione: «Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (5,15). Prima di offrire agli altri il dono preziosissimo della riconciliazione, Paolo sente di goderne come di un beneficio grande che ha trasformato la sua vita. Ogni altra conoscenza deve scomparire, per lasciare posto all’esperienza di un inserimento nel Cristo pasquale. L’appartenenza a Cristo genera una inedita condizione di vita, bene espressa dal concetto di «creatura nuova»; il greco, a differenza della lingua italiana, usa un termine proprio per indicare una novità qualitativa (kainós) distinguendola da una novità puramente cronologica (néos).

     Se è Dio «che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo» (5,19), a lui spetta ogni precedenza e l’iniziativa della riconciliazione. Si esclude così ogni possibilità di appropriazione da parte dell’uomo, beneficiario del dono di Dio. Ma è lo stesso Dio a chiedere collaborazione agli uomini, cosicché il principio teologico-cristologico sfocia in quello ecclesiale: «Era Dio infatti […], affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta» (5,19-20).

     La necessità della riconciliazione suppone la peccaminosità dell’uomo. Un compito dell’apostolo sarà appunto di richiamare le strutture di peccato che impediscono all’uomo di costruire una nuova personalità con Cristo: la riconciliazione, infatti, è un atto creativo che risistema una creatura fragile e vittima del peccato. Occorre prendere coscienza del proprio stato e aprirsi all’amore di Dio manifestato in Cristo; questo significa l’accorato appello: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (5,20).

 

Vangelo: Luca 15,1-3.11-32 

  In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».   

 

Esegesi

     L’introduzione dei vv. 1-3 fornisce una preziosa chiave ermeneutica al cap. 15 in generale e al nostro testo in particolare. Essi denunciano l’atteggiamento ostile dei farisei che non comprendono perché Gesù sia così accogliente con i peccatori. La parabola è una splendida icona del comportamento di Dio che si riflette puntualmente nel comportamento di Gesù.

     Da un punto di vista organizzativo del materiale, osserviamo che dopo una introduzione che mette in scena i personaggi (vv. 11-12), la parabola si articola in due atti di due scene ciascuno, il primo dominato dal figlio minore e dal padre (vv. 13-24), il secondo dal figlio maggiore e dal padre (vv. 25-32); nel secondo atto si rivelerà molto importante se non addirittura decisiva la relazione fratello-fratello.

     Introduzione: il padre e due figli (vv. 11-12). Un inizio sobrio ed essenziale presenta i personaggi, il padre e i suoi due figli. I tre creano due tipi di relazioni, la prima quella di padre-figlio sdoppiata in padre-figlio minore e padre-figlio maggiore e la seconda quella di fratello-fratello, relazione non espressa se non verso la fine del racconto e tuttavia di capitale importanza. Dopo i personaggi, ecco l’antefatto che causa il tutto: la richiesta del figlio più giovane di entrare in possesso anzitempo del patrimonio paterno. Il padre, inspiegabilmente, accondiscende, senza reagire negativamente e senza opporre resistenza. Sembrerebbe un uomo indifferente e distaccato. Poiché il seguito mostrerà esattamente il contrario, dobbiamo concludere che egli ha un rispetto sommo del figlio, anche prevedendo un suo sbaglio.

     Atto primo: il Padre e il minore (vv. 13-24). Questa parte, sebbene dominata dalle azioni del figlio, ha come sottofondo la presenza del padre.

     Prima scena: il minore si allontana e ritorna dal Padre (vv. 13-20a). L’autore della parabola racchiude la prima scena tra un partire (v. 13) e un tornare (v. 20a), due verbi che esprimono un opposto movimento fisico, ma che riveleranno pure due momenti contrastanti nell’animo del giovane. La partenza per un paese lontano vuole significare la distanza dal padre, perfino la sottrazione ad una sua possibile influenza. Il figlio va all’estero (in Israele non si allevavano i porci, cf. invece il v. 15). La partenza avviene all’insegna delle più lusinghiere prospettive perché il figlio minore possiede gli elementi che solitamente la gente considera gli ingredienti della felicità: giovinezza, ricchezza e libertà (intesa qui negativamente come capacità di compiere tutto ciò che si vuole). Sciupato malamente il capitale, subentra l’imprevisto della carestia e quindi della fame. Il lavoro vergognoso per la mentalità ebraica e il disinteresse generale (cf. v. 16) fanno scattare nel giovane un pensiero di ritorno per avere il pane. Il bisogno materiale mette in moto un meccanismo, responsabile di due tipi di ritorno, uno morale e l’altro fisico:

     — Il ritorno morale fatto di riconoscimento del proprio errore e di coscienza di aver perso il rapporto padre-figlio. Qui troviamo la grandezza morale di chi è capace di riconoscere e di ammettere il proprio sbaglio, con lucidità e senza reticenze; è lo slancio sincero e umile del giovane che si assume tutta la propria responsabilità; è la umile ammissione del suo errore che fa da contrappunto alla sfacciata presunzione che lo aveva spinto ad allontanarsi.

     — Il ritorno materiale, fatto di risoluta decisione maturata alla luce di una riflessione che integrava la vita in una visione meno miope. La prima scena termina con questo ritorno alle persone e alle cose abbandonate, anche se con la coscienza di non possederle più come prima. Il ritorno motivato dal bisogno materiale rivela un atteggiamento di fiducia nel padre che — così egli spera — lo accoglierà come garzone e gli garantirà il sostentamento. Pur con tutto il bagaglio di esperienze negative e di sbagli che il giovane porta con sé, egli dimostra un aspetto non consueto che lo rende grande, in quanto è disposto a riconoscere il proprio errore e ad assumere tutte le conseguenze, prima fra tutte la perdita del suo rapporto di figlio.

     Seconda scena. Incontro tra padre e figlio minore (vv. 20b-24). L’iniziale impressione di un padre insensibile o indifferente che lascia partire il figlio senza una parola o un estremo tentativo per trattenerlo, rivela ora tutta la sua infondatezza. Il padre era in attesa, segno che l’amore non si arrende mai, che crede nella vittoria del bene sul male, che spera nel fiorire dei buoni principi insegnati. Solo a questo punto inizia a svelarsi la vera attitudine del padre che con la sua sollecitudine nel correre incontro al figlio indica che lui viveva in perenne attesa che lo portava a sperare e a scrutare continuamente l’orizzonte. Merita speciale attenzione il termine tradotto in italiano con «compassione » (cf. lo stesso verso in Lc 7,33 e 10,33). La parola esprime una compassione profonda che interessa tutta la persona, una tenerezza materna: ecco perché manca la figura della madre: il padre è al contempo anche madre! A questo punto il giovane si esprime con le parole che aveva preparato e manifesta la sua convinzione che, dopo quello che è successo, non è più degno di essere chiamato figlio. Il padre rimane padre, forse lo è ancora di più in questo momento di accoglienza, ma lui non può rimanere figlio perché il suo passato grava su di lui come un’onta incancellabile. Egli vive più di passato che di presente o futuro. Il padre lascia parlare il figlio perché la confessione che esprime il pentimento fa bene, ha benefico effetto liberatorio. Non accetta però le conclusioni proposte dal figlio e non lo lascia terminare: il «Trattami come uno dei tuoi salariati» il figlio non riesce a dirlo, ovviamente perché interrotto dal padre che è attento più al presente e al futuro che non al passato, ora cancellato dal pentimento. Egli non rimprovera, non richiama il passato, perché sarebbe un’inutile riacutizzazione di una ferita non ancora rimarginata. Se il figlio ha maturato e dimostrato il suo pentimento, che bisogno c’è di insistere? La punizione più grave e il rimprovero più severo se li è dati il figlio che accetta di essere non-figlio.

     Alle parole del figlio, il padre risponde con una serie di gesti che valgono assai più delle parole. Si rivolge ai servi perché si prendano cura del figlio, come avveniva per il passato, anzi, ancora di più. Il vestito bello (in greco stolè cioè il vestito lungo delle grandi occasioni) indica la situazione di solennità, i calzari che in quel tempo portavano solo poche persone, la dignità, l’anello sul quale era impresso il sigillo di famiglia, l’autorità, e infine l’uccisione del vitello e lo stare insieme a mensa, la gioia, della festa e della condivisione. Tale accoglienza, a dir poco trionfale, necessita una spiegazione: il padre ha lasciato partire il figlio e ora riceve tra le braccia questo mio figlio; aveva visto partire un giovane presuntuoso e arrogante e ora vede ritornare un uomo maturato dal dolore, dalla lontananza e dal pentimento. Nel padre si sprigiona la gioia per il figlio «cresciuto» e la festa che segue valorizza la nuova maturità raggiunta, il nuovo rapporto tra padre e figlio. In questa scena la parola figlio ritorna tre volte e sempre in crescendo: al v. 21 «figlio» appartiene al racconto, poi diventa «non tuo figlio» sulla bocca del giovane, per trasformarsi infine in «questo-mio-figlio» nelle parole del padre. Forse risulta non del tutto comprensibile il comportamento del padre, ma a lui Pascal presterebbe il suo celebre pensiero: «Il cuore ha delle ragioni che la ragione non riesce a comprendere».

     Atto secondo: il padre e il maggiore (vv. 2 5-32): fa la sua comparsa l’altro figlio, il maggiore, che movimenta tutto il secondo atto rivelando i suoi sentimenti verso il padre e verso il fratello. Tuttavia anche in questo atto, come nel precedente, il ruolo principale spetterà al padre.

     Prima scena: Il ritorno a casa del maggiore (vv. 25-28). Il figlio maggiore che torna a casa sente musica e danze. Interrogato un servo, viene a sapere del ritorno del fratello. La notizia, lungi dal procurargli gioia come era avvenuto per il padre, lo stizzisce: come è possibile che per quello scapestrato spendaccione si organizzi una festa? E più ancora, come è possibile che per lui sia stato ammazzato il vitello che veniva ingrassato per qualche grande occasione, in molti casi proprio per le nozze del primogenito? La sua è una reazione di ostilità e di rottura: «si indignò, e non voleva entrare». Incontriamo ora la seconda annota-zione psicologica, l’ira del maggiore, che contrasta con la commozione del padre nel riavere il figlio minore. Il ritorno del giovane provoca due reazioni contrastanti, la commozione per il padre, ira per il maggiore. La famiglia rimane ancora frantumata dal sentimento di isolamento e di rifiuto di uno dei mèmbri che non intende prendere parte alla festa.

     Seconda scena: incontro tra padre e figlio maggiore (vv. 28-32). Il padre va incontro a lui come era andato incontro al minore. È sempre il padre a prendere l’iniziativa e a muovere il primo passo per raccorciare le distanze. Il figlio rivendica i suoi diritti proprio come il minore che chiedeva la parte di patrimonio per andarsene. Nelle sue parole si legge la orgogliosa sicurezza del suo perbenismo, la sua incondizionata e assoluta fedeltà, con un non troppo velato rimprovero al padre considerato come «padrone» dal pesante verbo «ti servo», tipico degli schiavi. Il lavoro, più che collaborazione e compartecipazione, sembra sia stato vissuto come servile dipendenza. Dopo l’accusa al padre, il discorso prosegue attaccando duramente il minore. Egli parla al padre di «questo tuo figlio», incapace di riconoscere l’altro come fratello che demolisce ritornando a un passato ormai sepolto per il padre. Questi riconosce le ragioni del maggiore: quanto egli afferma non è né falso né esagerato, perché di fatto egli ha sempre lavorato in casa. Le ragioni ci sono, d’accordo, ma non devono diventare pretesto per alzare palizzate di divisione. Il padre lo ascolta e poi gli rivolge la parola chiamandolo «figlio», ricordandogli così quella relazione di comunione che il maggiore ha sempre vissuta, forse senza capirla pienamente, sicuramente senza apprezzarla se ora, in un momento di tanta gioia, egli si estranea e mai si rivolge al padre chiamandolo con questo nome. «Figlio, tu sei sempre con me»: il padre difende la posizione privilegiata del maggiore; è una comunione di persone che si travasa naturalmente in una comunione di beni: «tutto ciò che è mio è tuo». Le parole del padre hanno smantellato la pretesa sicurezza del figlio, hanno messo a nudo che neppure lui ha compreso il padre perché non ne condivide i sentimenti e si estranea alla festa della comune riconciliazione. Le sue ragioni valgono, ma nel momento e nel modo in cui vengono rivendicate manifestano la intrinseca debolezza di relazione con il padre.

     La festa autentica ci sarà quando il maggiore riconoscerà e accetterà l’altro non come «questo tuo figlio», bensì come «questo mio fratello». Se ciò avviene, non è detto, e la parabola rimane ‘aperta’ come monito per i farisei di tutti i tempi (cf. v. 2).

L’immagine della domenica

 

 CAMMINARE

«Togli ad un viaggiatore

la speranza di arrivare

e gli avrai tolto anche

la forza di camminare»

(Guglielmo di S. Thierry).

Monti Sibillini – Loc. Bolognola (MC) Italia  – 2013

 

 Meditazione

     Una luce particolare, che emerge dai testi scritturistici di questa domenica, orienta il nostro sguardo verso un punto focale che dà unità alle varie tematiche che si intrecciano nella liturgia della Parola: si tratta del volto misericordioso di Dio, un volto che, attraverso il perdono, comunica la gioia della comunione ritrovata con l’uomo peccatore. «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20) è l’appello accorato che risuona in questa domenica. Dio allontana dal suo sguardo l’umiliazione che la schiavitù del peccato imprime sul volto dell’uomo, perché nel suo cuore prevale la compassione. Assicurando Giosuè della sua fedeltà al popolo di Israele, Dio dice: «oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto» (Gs 5,9a). E così il padre della parabola di Lc 15, 11-32, riabbracciando il figlio che si era allontanato, lo rassicura del suo amore dicendo: «portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare…» (v. 22). Mediante il suo perdono, Dio ridà all’uomo la dignità perduta, la dignità del figlio: dal volto di questo figlio perduto, cercato, atteso, ritrovato, scompaiono le ferite che ne deturpano il volto e riappare la fiducia e la libertà dei figli. Solo la gioia della festa può dare compimento e voce a questa comunione ritrovata: «bisognava far festa e rallegrarsi…» v. 32); è l’invito del padre al figlio maggiore per il fratello che è ritornato a casa. Il vitello grasso che il padre fa ammazzare per preparare il banchetto al figlio minore (v. 23) è il simbolo di quella Pasqua che viene celebrata al termine del lungo e faticoso cammino di liberazione del popolo di Israele dall’Egitto (Gs 5,10-12) ed è un’anticipazione del compimento nella Pasqua del Cristo, vero agnello immolato che riconcilia l’uomo con Dio: «tutto questo però – ci ricorda l’apostolo Paolo viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo…» (2Cor 5,18).

     Nella liturgia della Parola di questa domenica, il testo che lascia trasparire con stupenda luminosità il volto compassionevole di Dio è sicuramente la parabola di Luca. È come un’icona, poiché Luca ha la capacità, nel suo racconto, di renderci quasi protagonisti di una vicenda allo stesso tempo squisitamente umana e paradossalmente divina. E, come protagonisti, siamo chiamati ad aprire lo sguardo per poter contemplare, attraverso questa parabola, il volto stesso di Dio, un volto che spesso ci illudiamo di conoscere, ma che continuamente richiede da noi un cammino di conversione per scoprirlo in tutta la sua inaudita bellezza. Accostarsi a questa parabola, significa lasciarsi catturare da un volto: «da qualsiasi angolatura si guardi questo racconto, ci si accorge che al centro c’è la figura del padre: lui davanti ai suoi i figli e i due figli davanti a lui. Il padre è la figura che dà unità all’intera narrazione. Le due vicende si scontrano con l’originalità della sua paternità» (B. Maggioni). E allora rileggiamo brevemente le due vicende tenendo fisso lo sguardo sul volto del padre: «un uomo aveva due figli…» (v. 1).

     Il bisogno di autonomia, di indipendenza e libertà nei confronti del padre, orienta le scelte del figlio più giovane. Ma questo desiderio, in sé molto umano e tipico per un giovane, si intreccia con una pretesa: «dammi la parte di patrimonio che mi spetta» (v. 12). E la pretesa di ciò che di fatto è un dono e che solo nella gratuità di una comunione (con quel padre che vuole dargli tutto ciò che ha) è possibile renderlo occasione di libertà e di vita. Possedere un dono (Luca usa un’espressione significativa ed emblematica per esprimere questo bisogno di avere per sé: «raccolte tutte le sue cose», v. 13) significa renderlo sterile e infecondo, ed è questo il risultato della vita di quel giovane. E Luca non manca di descrivere con precisione un fallimento in qualche modo annunciato (cfr. vv. 13-16): dissipazione, solitudine e lontananza che gradualmente conducono a una perdita della libertà, della dignità e, alla fine, della propria identità. Fuori metafora, tutto questo processo è la degradazione a cui conduce il peccato come lontananza dal volto di Dio. La domanda che Dio rivolge al primo uomo in Gen 3,9 – «dove sei?» – è l’interrogativo pungente che può aprire un cammino di ritorno: «Uomo dove sei? Uomo, dov’è il tuo luogo più vero, più profondo, dove puoi sentirti a casa? Dove cerchi la verità della tua vita, la verità del tuo volto?». L’uomo, quando distoglie il suo volto da Dio, perde il suo volto più autenticamente umano. In questo figlio lontano dal padre, distrutto e sfigurato nella sua dignità, ritorna il ricordo della casa del padre, della vita che in essa conduceva: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò… non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati» (vv. 18-19). Conversione? Non ancora. È un primo passo verso questo cammino.

     C’è nostalgia, c’è vergogna, c’è la memoria di una certa felicità perduta; ma in questo figlio, che non si sente tale, manca ancora un ricordo o, meglio, una scoperta. Quella più importante: il ricordo e la scoperta del volto del padre. E questo avviene come dono da parte del padre: «quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò (v. 20). Quella lontananza che sembrava incolmabile e che, con la paura di essere rifiutati e giudicati, pesava nel cuore di quel figlio proprio nell’ultimo tratto di strada da percorrere, all’improvviso scompare. Ma è il padre che ha il coraggio di annullare quella distanza e lo fa con l’impazienza di chi a lungo ha atteso un incontro. La conversione del figlio è proprio questa: scoprire questo volto e sapere che di fronte ad esso lui, il figlio perduto e ritrovato, non ha mai cessato di esser tale, figlio amato. «Facciamo festa… e cominciarono a far festa» (vv. 23-24): la gioia è l’atteggiamento che traduce il cuore del padre di fronte a questo figlio, gioia gratuita e autentica non tanto per un figlio riavuto (non c’è possesso in questo padre) ma per un figlio amato.

     La tristezza è invece ciò che caratterizza l’altro figlio, quello maggiore. Tristezza che si trasforma in rabbia covata, in indignazione e rifiuto, in incapacità di comprendere la gratuità del padre. «Ecco io ti servo da tanti anni…» (v. 29): in queste dure parole piene di pretesa, è riflesso il volto di questo figlio. È un servo che, nonostante una vita passata con il padre, non ha mai potuto conoscerne il volto. Ha servito attendendo di essere ripagato («non mi hai mai dato un capretto…»: v. 29); ha obbedito convinto di guadagnarsi una qualche giustizia. In fondo non ha amato il padre perché non lo ha mai sentito come tale.

     Ma anche di fronte a questo figlio si rivela lo stesso volto di misericordia del padre. E questa rivelazione avviene anzitutto attraverso una parola: «Figlio…» (v. 31): davanti a questo padre, non c’è un servo, non c’è uno che è oppresso, ma c’è un figlio che è chiamato a gioire per un fratello ritrovato. E questo figlio che non si sente tale deve capire due cose: «tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (v. 31). È l’amore del padre, il suo dono, quella gratuità che diventa trasparenza nella festa per il figlio ritrovato, a rivelare il volto del padre e trasformare in figli quei due giovani che si sentivano solo servi. Questo deve diventare il cuore della loro conversione, perché, pur con percorsi differenti, tutti e due questi figli sono chiamati a conoscere chi è il loro padre.

     Attraverso questa parabola, siamo orientati con forza alla gioia pasquale, perché è nella Pasqua di Cristo che ci viene rivelata, nella sua massima trasparenza, la compassione del volto di Dio. La veste più bella, l’anello al dito, i calzari, i segni del figlio, ci verranno donati nella notte in cui celebreremo la vittoria di Cristo sulla morte; e in questa notte l’agnello ucciso per far festa, per celebrare la liberazione, ci comunicherà tutta la gioia di un Padre che nel Figlio vuole essere in comunione con noi. Per ora si tratta di continuare questo cammino di ritorno, non dimenticando però, alla luce di questa parabola, che la vera conversione, la vera svolta nella nostra vita è anzitutto riscoprire il volto di un Padre che ci ama e, alla sua luce, essere consapevoli di ciò che possiamo diventare grazie a questo vol-to: «se uno è in Cristo è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17).

Preghiere e racconti

Accetto i miei errori?

La condizione umana è una condizione di debolezza, ecco perché ci sono le gommine sulle matite. Tutti compiono errori. Dio ha fornito solo animali e uccelli di istinti infallibili. Noi esseri umani dobbiamo imparare molte cose dalle prove e dagli errori.

Un vecchio saggio disse una volta: “Impara dagli errori degli altri: non vivrai abbastanza per compierli”.

Molti di noi danno per scontato che, se non avessimo mai compiuti errori, probabilmente non avremmo mai fatto scoperte. Certo, l’unico vero errore è quello dal quale si è imparato nulla. Gli errori sono esperienze istruttive. Dunque, benvenuti nel club!

Così come avviene per molte virtù, lo spirito di comprensione e tolleranza incomincia a casa propria. In un modo o nell’altro molti di noi devono giungere alla disperazione, prima di poter offrire a se stessi comprensione e gentilezza. Dobbiamo toccare il cosiddetto fondo prima di poterci di nuovo rialzare.

E allora, devo domandarmi: a che punto sono? Mi sono liberato dall’abitudine di rivangare gli errori del passato? Mi sono liberato dei sentimenti di imbarazzo per le mie colpe e le mie lamentele? Posso dire con onestà e in pace: “Questa è la persona che abitualmente ero, il mio vecchio io; non è la persona che sono ora, l’io nuovo e attuale?” Molti di noi non capiscono di aver imparato dagli errori passati, e di avere superato grazie ad essi alcune immaturità. Mi rendo conto che il “vecchio io” ha insegnato molte cose al “nuovo io”?

La trappola, qui, consiste nell’identificarmi con il lato oscuro della mia personalità e con i miei errori passati, nel pensare a me stesso com’ero una volta. Quasi come quella persona che da piccola era grassa, ma che da grande è diventata snella.

La domanda fondamentale è: penso a me stesso come grasso o come magro? Chiaramente, crescere significa cambiare, e cambiare significa “lasciar perdere”. È una cosa difficile o facile per te? Ricorda, dobbiamo cominciare con un’onestà spietata, o non potremo mai giungere alla verità. E senza verità, non c’è crescita né gioia.

(John POWELL, Esercizi di felicità, Effatà Editrice, 2004, Cantalupa (TO), 25-26).

Una Conversione possibile

«L’amore del Padre non è un atto di costrizione. Sebbene il Padre voglia guarirci da tutte le nostre tenebre interiori, siamo sempre liberi di fare la nostra scelta, di rimanere nelle tenebre o di entrare nella luce dell’amore di Dio. Dio è là. La luce di Dio è là. Il perdono di Dio è là. L’amore sconfinato di Dio è là. Ciò che è sicuro è che Dio è sempre là, sempre pronto a donare e perdonare, in modo assolutamente indipendente dalla nostra risposta. L’amore di Dio non dipende dal nostro pentimento o dai nostri cambiamenti ulteriori o esteriori.

Che io sia il figlio minore o il figlio maggiore, l’unico desiderio di Dio è di portarmi a casa. Arthur Freeman scrive: “Il padre ama ogni figlio e da ad ognuno la libertà di essere ciò che vuole, ma non può dar loro la libertà che non si sentiranno di assumere o che non comprenderanno adeguatamente. Il padre sembra rendersi conto, al di là dei costumi della società in cui vive, del bisogno dei propri figli di essere se stessi. Ma egli sa anche che hanno bisogno del suo amore e di una “casa”. Come si concluderà la storia dipende da loro. Il fatto che la parabola non abbia un finale garantisce che l’amore del padre non dipende da una conclusione appropriata del racconto. L’amore del padre dipende solo da lui e fa esclusivamente parte del suo carattere. Come dice Shakespeare in uno dei suoi sonetti: “L’amore non è amore se muta quando trova mutamenti”».

(H.J.M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia, Queriniana, 2004, 114-115).

Il lungo cammino verso casa

«Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale è ricevere il perdono di Dio. C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo. Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie tenebre sono troppo grandi per essere dissolte. Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò come garzone. Ma voglio davvero essere restituito alla piena responsabilità di figlio? Voglio davvero essere totalmente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Ho fiducia in me stesso e in una redenzione così radicale? Voglio rompere con la mia ribellione profondamente radicata contro Dio e arrendermi in modo così assoluto al suo amore da far emergere una persona nuova? Ricevere il perdono esige la volontà totale di lasciare che Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e rinnovamento. Fin quando voglio fare anche soltanto una parte di tutto questo da solo, mi accontento di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone. Come garzone posso ancora mantenere le distanze, ribellarmi, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarmi della paga. Come figlio prediletto devo rivendicare la mia piena dignità e cominciare a prepararmi a diventare io stesso il padre».

(H.J.M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia, Queriniana, 2004, 78-79)

Lasciarsi amare dal Padre

Un padre ama i figli e li perdona solo perché sono i suoi figli, non perché sono buoni. I padri aspettano con ansia i figli, se questi un giorno lo abbandonano. E se così si comportano i padri terreni, quanto grande sarà il perdono e l’immensa misericordia del Signore? Dio è amore e generosità assoluta e gratuita. Fa splendere il sole sui giusti e sugli ingiusti, e allestisce un banchetto memorabile, perché un figlio ingrato e scapestrato è tornato alla casa del Padre. Perciò, sappi che è importante amare Dio e tenerlo con te nel tuo cuore, ma che è ancor più importante lasciarsi amare da Dio ed essere nel suo cuore.

(Clemente Arranz Enjuto).

Si levò e venne da suo padre

II figlio lontano si levò e venne da suo padre (Lc 15,20). Venne non attraverso un cammino del corpo, ma attraverso un cammino spirituale. Non ebbe bisogno di percorrere un lungo cammino, perché aveva trovato una via di salvezza più breve. Non ebbe bisogno di cercare il padre divino percorrendo molteplici strade, lui che lo cercò con la fede e lo trovò ovunque accanto a sé. Si levò e venne da suo padre. Quando era ancora lontano […] In che modo è lontano colui che viene? È lontano perché non è ancora arrivato. Viene, si incammina verso la conversione, ma non giunge ancora alla grazia; viene alla casa del padre, ma non giunge ancora alla gloria della sua condizione e del suo onore di prima. Il padre lo vide ed è per questo che il figlio potè slanciarvi verso di lui. Lo sguardo del padre rischiarò gli occhi del figlio e dissipò tutta l’oscurità che ravvolgeva a causa della colpa. Le tenebre della notte non sono nulla a confronto delle tenebre che nascono dalla confusione generata dal peccato […].

Il padre gli corse incontro non con un movimento fisico, ma in uno slancio di tenerezza. Gli si gettò al collo con il peso dell’amore, non con quello del corpo. Gli si gettò al collo non con un movimento delle viscere, ma con la passione delle viscere. Gli si gettò al collo per innalzare colui che giaceva a terra. Gli si gettò al collo per togliere con il peso dell’amore, il peso dei peccati. Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi. Prendete sopra di voi il mio giogo che è leggero (Mt 11,28-30). Il figlio è aiutato da questo peso del padre, non ne è schiacciato. Gli si gettò al collo e lo baciò. È così che il padre giudica, è così che corregge, è così che copre di baci il suo figlio, non di percosse. La forza dell’amore non vede le colpe e perciò il padre con un bacio cancella i peccati, lo circonda con il suo abbraccio, non vuole mettere a nudo i crimini di suo figlio, non vuole disonorarlo. È così che il padre guarisce le ferite del figlio, in modo che nel figlio non restino nessuna cicatrice, nessun segno. Beato, dice il salmista, colui al quale sono perdonate le colpe e i cui peccati sono stati ricoperti [Sal 31 (32), 1].

(PIETRO CRISOLOGO, Discorsi 3,1-3, CCL 24, pp. 26-28).

Preghiera

Nella mia vita ho sperimentato molte bene quanto è difficile per me confidare di essere amato ed avere fiducia che l’intimità in cui ho bisogno e che desidero ardentemente è lì pronta per me. Più spesso vivo come se dovessi meritarmi l’amore, fare qualcosa e poi forse ottenere qualcosa in cambio. Questo atteggiamento abbraccia l’intera questione di ciò che nella vita spirituale viene chiamato “amore preveniente”. Credo davvero di essere amato anzitutto, indipendentemente da ciò che faccio o da ciò che compio? È una questione importante, perché fino a che penso che quello di cui ho bisogno me lo devo conquistare, meritare e ottenere con un duro lavoro, non riuscirò mai ad avere ciò di cui ho più bisogno e che desidero di più, che è un amore che non può essere guadagnato ma che è donato gratuitamente. Pertanto il mio ritorno è la mia disponibilità ad abbandonare la tendenza a ragionare in questo modo e a vivere sempre più secondo la mia vera identità di figlia o figlio prediletto di Dio.

Aiutami ad amare gli altri così come sono, o Signore, nello stesso modo in cui tu hai donato il tuo amore a me.

(H.J.M. NOUWEN, Dalla paura all’amore. Riflessioni quaresimali sulla parabola del figlio prodigo, Brescia, Queriniana, 2002, 59-60).

                 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

IV DOMENICA DI Quaresima

III DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Esodo 3,1-8.13-15

In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.  L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele». Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?».  Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione». 

 

Nei primi due capitoli del libro dell’Esodo abbiamo storie di oppressioni e violenze ai danni di un popolo che vive in schiavitù. D’altra parte, anche l’iniziativa «autonoma» di Mosè fallisce perché offuscata da sospetti, ombre, paure. Storia di miserie umane dove Dio

non è presente. Finché non giungiamo alla fine del cap. 2, vv. 23-24 «Gli Israeliti gemettero… Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo, Giacobbe». Vocazione e missione di Mosè si pongono ad immediato seguito di questa iniziativa libera e gratuita di Dio.

     — Il racconto della vocazione di Mosè contiene momenti caratteristici e costanti di simili narrazioni bibliche. Abbiamo uno schema tripartito:

a) chiamata di Dio (vv. 1-10);

b) obbiezioni del vocato (vv. 11.13);

c) il segno e la protezione di Dio (vv. 12.14-15)

     Lo stesso schema si ritrova nelle vocazioni di Simeone, Isaia Geremia e nell’annuncio a Maria (Lc 1). A motivo di un taglio notevole (vv. 8b-12), nella pericope liturgica non si percepisce bene la struttura «dialettica» di questa chiamata.

     Evidenziamo alcuni punti che aiutino alla comprensione ed all’approfondimento del testo:

     — Simbolismo del fuoco che brucia senza consumarsi (vv. 2-3). In Es 19,18 il Signore discende nel fuoco sul Sinai, lo fa tremare, ma non lo distrugge. Simbolo fondamentale nelle teofanie, il fuoco esprime due aspetti della presenza di Dio: la sua trascendenza (il fuoco che brucia e non consuma è una realtà che non possiamo afferrare e dominare, ma ci sfugge e trascende); la vicinanza di Dio (il suo calore avvolge, illumina, riscalda).

     — Santità del luogo (v. 5). Spesso ricordata nella Sacra Scrittura: vedi Gn 28,16 (santuario di Betel): Certo il Signore è in questo luogo, ed io non lo sapevo! Non l’uomo ma Dio, con la sua presenza, santifica un certo luogo. Questo spazio santificato «preesiste alla coscienza dell’uomo» (G. RAVASI) e questi, per accedervi, deve compiere un gesto di distacco e umiliazione, un gesto che qui si esprime nel togliersi i sandali (cosa che ancora vige nelle moschee).

     — Rivelazione del Nome divino (vv. 13-14). Il «nome» corrisponde alla realtà stessa di Dio. Così come viene espresso e spiegato, può aprirsi a vari livelli di comprensione:

     • Mistero che sfugge: «Io sono colui che sono» è tautologia enigmatica ed apparentemente evasiva, che comunque lascia il suo essere nel mistero, senza chiarirlo: irraggiungibile e inconoscibile, il mistero di Dio non si lascia usare o definire dall’uomo.

     • La libertà di essere: il giro di frase, per cui si ripete quel che si è già detto (idem per idem) è tipico di alcune affermazioni divine in cui è messa in luce la sua libertà di essere e di agire. Ad es. in Es 33 19 Dio dice a Mosè: Faccio grazia a chi faccio grazia, uso misericordia con chi uso misericordia. In altri termini Dio non si lascia sindacare o condizionare da niente e da nessuno; è misericordioso con chi vuole esserlo, fa grazia a chi vuole. In tal senso, con l’espressione: Io sono colui che sono, Dio afferma che nel suo essere è determinato solo dal suo «volere»: veramente libero di essere quello che vuole essere!

     • Nome di speranza. Il verbo «essere» (hyh) in ebraico è verbo «attivo»; non indica uno stato, ma una attività. In tal senso Dio si rivela a Mosè come Colui che è, che agisce e vale (a differenza degli idoli che sono un nulla, perché non contano e non valgono niente). Alla luce di ciò, il versetto che conclude la nostra lettura assume tutto il suo spessore teologico: «Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (v. 15). «Per sempre», Dio è e sarà per il suo popolo quello che è, presente per liberarlo e guidarlo. Dio, nel rivelare il suo nome, non consegna una definizione filosofica di esso (Io sono l’ESISTENTE), anche se questa verità è in fondo supposta, ma un solido titolo di speranza. L’Apocalisse di Giovanni augura la grazia e la pace derivanti da «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,4).

 

Seconda lettura: 1Corinzi 10,1-6.10-12

 

Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.        

 

Nei capp. 8-10 della Prima Lettera ai Cor., Paolo affronta lo spinoso problema degli «idolotiti», ossia delle carni degli animali sacrificati agli idoli. I resti di questi sacrifici venivano messi in vendita e regolarmente consumati dalla gente. Per i cristiani di Corinto si poneva il problema, se fosse lecito o no consumare queste carni. Pur affermando, da una parte, il principio della fondamentale libertà del cristiano (c. 8), testimoniato col proprio esempio (c. 9), l’Apostolo, d’altra parte, mette in guardia i Corinzi contro il pericolo di contaminazione e «connivenza» con gli ambienti pagani (c. 10). La nostra pericope si inserisce esattamente al principio di questa lunga ammonizione, che parte dai castighi che colpirono i padri nel deserto a causa della loro infedeltà.

     — Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè… tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, ecc. (vv. 1-4). I fatti principali vissuti da tutto il popolo d’Israele sono riletti alla luce della presente situazione dei cristiani, della loro vita sacramentale (battesimo, eucarestia, presenza del Cristo, ecc.). Si noti l’insistenza martellante sul «tutti»: a nessuno furono negati i doni della salvezza, che prefigurano quelli del regime attuale dei cristiani. Questo accostamento si fa in base alla continuità storico-salvifica che Dio stesso stabilisce tra i fatti dell’esodo e quelli della Chiesa. Il Cristo, preesistente nella storia di Israele, è indicato sia da Mosè («battezzati in Mosè, come noi lo siamo in Cristo), che dalla «roccia» (una tradizione rabbinica voleva che quella roccia, simbolo della sapienza divina, accompagnasse Israele nel deserto).

     — La maggior parte di loro… furono sterminati nel deserto (v. 5). Nonostante tali privilegi, la maggioranza degli Israeliti merita il castigo divino. Alla continuità salvifica si contrappone una «discontinuità» etica da parte di Israele.

     — Ciò avvenne come esempio per noi…» (vv. 6.11). La parola italiana «esempio» corrisponde al greco «typos», che qui assume un duplice significato: prefigurazione ed esempio ammonitore. Come prefigurazione, la storia dell’esodo anticipa, prepara ed è in funzione degli eventi vissuti dai cristiani, eventi ultimi e definitivi della storia della salvezza («è arrivata la fine dei tempi», v. 11).

     Come storia ammonitrice, quella dell’esodo ha la funzione di scuotere i corinzi dalla loro illusoria sicurezza («chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere»). Non si tratta solo di stare in guardia contro la mormorazione (v. 10), ma soprattutto — stando ai vv. 7-9 stranamente omessi nel brano liturgico — di non incorrere nel peccato di idolatria, che equivale a fornicazione, di quanto porta a tradire Dio, per prostituirsi ad altri idoli.

     Pur restando saldo il principio della libertà, occorre evitare il peccato di presunzione, ed essere umili nel ruggire ogni occasione di comunione con gli idoli pagani (v. 14: «Fuggite l’idolatria»).

 

Vangelo: Luca 13,1-9

 

In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

 

 

Esegesi

     La pericope si colloca in quella lunga sezione del vangelo di Luca riguardante il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51 – 21,27). Gesti, insegnamenti, ammonizioni di Gesù sono «segnati» da questa tensione verso il compimento decisivo della sua missione, attraverso la passione, la morte, la risurrezione, e quindi dalla dimensione pasquale.

     In particolare, il vangelo di oggi si inserisce tra due momenti che ne caratterizzano ulteriormente il senso kerygmatico:

     — prima, Gesù parla dei «segni dei tempi» invitando ad una condotta che ottenga il giudizio più benevolo possibile da parte di Dio (12,54-59);

     — dopo, la guarigione della donna curva (13,10-17), che rivela potenza salvifica di Gesù, superiore allo stesso sabato, a favore di una «figlia di Abramo».

     In tale contesto il richiamo di oggi a due fatti di cronaca e la parabola del fico, assumono, il senso ineludibile di un invito alla conversione, in presenza di Gesù che sale a Gerusalemme e si immola per tutti, disposto ad attendere, ma ancora per poco, che rispondiamo alle sue chiamate.

     — Il vangelo si compone di due brevi sezioni, ognuna con la sua introduzione: la prima, un monito chiaro alla conversione, prendendo occasione da due fatti tragici (vv. 1-5); la seconda, una parabola che invita ad approfittare, finché dura, del tempo della grazia.

     — Tre annotazioni per evidenziare l’aspetto kerygmatico del testo.

     Prima: i due episodi di morte violenta (strage ordinata da Pilato e crollo della Torre di Siloe) hanno lo scopo di sottolineare come non sempre è da cercare un nesso diretto tra colpa e morte, peccato e infortunio (cf. Gv 9 3) essi devono interpellare chi ascolta, e indurlo a conversione, per non essere impreparato se travolto da eventualità del genere.

     Seconda: in base al Lv 19,23 i frutti di un albero si possono cogliere solo al quarto anno. Se il proprietario dice: «sono tre anni che vengo a cercare frutti» vuol dire che sono passati almeno sei anni da quando il fico è stato piantato. Ma a parte questo lungo tempo, il fico gode del privilegio di essere piantato dentro il vigneto. Albero di poco conto e ingombrante, il fico veniva solitamente piantato altrove, fuori della vigna per non sfruttare il buon terreno destinato alle viti. Il che sottolinea sia la bontà del proprietario, sia il diritto che ha di aspettarsi dei frutti.

     Terza: concimare il terreno di un vigneto, di per se già di buona qualità è operazione insolita. Il fatto che la proposta del vignaiolo non venga respinta – come sarebbe normale – ma accolta dal proprietario, sta ad indicare che egli non vuole risparmiare, ma è disposto a accordare tempi lunghi e a fare tutto il possibile per mettere il fico in condizione di portare frutti.

   — Queste concessioni gratuite e generose contengono una lezione chiara per ogni cristiano: se il giudizio di Dio «ritarda» e se la nostra vita e i benefici di Dio si prolungano nel tempo, tutto questo va letto come «segno» di un tempo di grazia, che urge mettere a frutto, prima che sia tardi.

 L’immagine della domenica

 

 Cambiare

«Dio mio,

dammi la forza di cambiare le cose

che possono essere cambiate;

dammi la forza di accettare le cose

che non possono essere cambiate;

e dammi la luce per distinguere le une dalle altre»

(Anonimo)

 

 Meditazione 

     Ogni parola che Dio rivolge all’uomo esige non solo un ascolto attento e disponibile, ma soprattutto una scelta di vita che sia conseguente alla parola udita. Non è importante il luogo che Dio sceglie per rivolgere la sua parola all’uomo: può essere un luogo misterioso e pieno di fascino in cui si può incontrare Dio nell’intimità di un dialogo e di uno sguardo pieno di stupore (è l’esperienza di Mosè sull’Oreb, narrata nel testo di Es 3,1-8); può essere la vicenda quotidiana dell’uomo con i suoi eventi drammatici e inquietanti, che esigono un discernimento per cogliere in essi un senso, una presenza che interpella, una parola di vita (cfr. Lc 13,1-9). Ma nel momento in cui l’uomo accoglie nella sua esistenza questa parola, la sua vita deve cambiare: c’è come uno ‘spostamento’, una ‘inversione di rotta’, una conversione.

     Così è avvenuto per Mosè nel terribile e affascinante incontro con quella misteriosa voce che lo chiamava dal roveto ardente. Avvicinarsi a Dio (Es 3,3), essere da Lui chiamati e co-nosciuti per nome (v. 4), essere consapevoli dell’alterità e della santità di Dio (v. 5), accogliere la rivelazione del suo volto e del suo ineffabile nome (vv. 6.14-15), velarsi il viso consapevoli della propria indegnità (v. 6), essere inviati a testimoniare la compassione di Dio per il suo popolo (vv. 7-8), sono le tappe di una radicale conversione che Mosè deve compiere a partire da quella parola pronunciata da Dio dal fuoco del roveto. E dal mo- mento in cui questa parola gli viene rivolta, Mosè ha un diverso rapporto con Dio, con il popolo, con se stesso. Prende a cuore il progetto di Dio, la condizione del popolo oppresso; la sua stessa vita rimane come ferita da questa parola. Ha scoperto l’iniziativa divina, che non può esser condizionata dal capriccio dell’uomo. Non è più lui a decidere, ma è Dio a inviarlo (cfr. il contrasto con l’episodio narrato in Es 2,11-15). Mosè è giunto ad ascoltare la verità di Dio; da allora non ascolta più se stesso e come Abramo è costretto a lasciarsi condurre da Dio e dalla sua parola. In Mosè il cammino di conversione alla parola di Dio sarà continuo e incessantemente ritmato da due domande che lo aprono alla consapevolezza della propria povertà e dell’infinita grandezza di Dio: «Chi sono io per andare dal farao-ne…?» (v. 11) e «Quale è il suo nome?» (v. 13).

     Lo stesso cambiamento di vita a partire da una parola udita è il messaggio che ci propone il testo di Lc 13,1-9. La parola di Gesù di fronte a due avvenimenti di cronaca e la breve parabola del fico che non porta frutto, richiamano la necessità di saper leggere le parole di Dio negli eventi della storia per entrare e collocarsi in essa in una verità di vita, nella vigilanza e nel discernimento. Si tratta di passare da una vita ‘in superficie’ a una vita ‘in profondità’, a una vita convertita alla logica di Dio. Ecco perché di fronte alla negatività della storia, il discepolo di Cristo non può accontentarsi di una semplice cronaca o di un giudizio affrettato e rassicurante. Con un tono che non lascia scampo, proprio a partire da due eventi drammatici noti a tutti (alcuni rivoltosi galilei uccisi da Pilato e alcune persone morte in seguito al crollo di una torre), Gesù pone ciascuno di fronte alla propria responsabilità e alla propria vita: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo steso modo» (v. 3). Ogni segno presente nella storia, ricorda Gesù, ha sempre un risvolto personale: è un invito a cogliere l’importanza decisiva del tempo, la necessità di accogliere l’of-ferta di perdono da parte di Dio resa attuale nella parola e nella persona di Gesù. E così di fronte a un evento drammatico, il discepolo è chiamato a esercitare un discernimento in cui deve lasciarsi coinvolgere come credente. C’è un discernimento illusorio che divide i buoni dai cattivi in nome della giustizia (cfr. la parabola della zizzania in Mt 13,24-30) o considera il male come inevitabile e fatale. Il discernimento a cui invita Gesù apre a una lettura della storia in profondità: il tempo che ci è donato è in vista di una salvezza e gli avvenimenti contengono la parola accorata ed insistente di un Dio che ama la vita e ci chiama a condividerla con lui. Ogni fatto, letto in questa prospettiva può essere un’occasione per mettere in gioco la nostra responsabilità, cambiare modo di pensare e di vivere, ma, soprattutto cambiare il nostro modo di rapportarci a Dio.

     Sotto questa angolatura, il tempo donato all’uomo in vista di una conversione si trasforma in tempo della pazienza (makrothumia) di Dio. A questo ci orienta la breve parabola del fico sterile (vv. 6-9). L’agire dei personaggi, in questa parabola, si colloca tra l’ovvio e il paradossale. È ovvio, per il padrone di una vigna, tagliare un albero da frutto piantato in mezzo a essa, un fico, che dopo alcuni anni non produce il raccolto desiderato (qui c’è anche un’allusione all’immagine della vigna che produce uva selvatica, in Is 5,1-7): «taglialo, dunque! Perché deve sfruttare il terreno?» (v. 7) dice quel padrone al suo contadino. È paradossale la risposta del contadino al comando del suo padrone: «lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno… vedremo se porterà frutti… se no, lo taglierai» (vv. 8-9). È una proposta che rasenta l’assurdo: come potrebbe portare ancora frutto questo albero sterile? Eppure quel contadino ha uno sguardo che va oltre il fallimento evidente: una possibilità e un tempo ulteriori, con un supplemento di cure, forse gioverà a quell’albero, tanto da poter dare il frutto sperato. «Taglialo… lascialo!»: le due battute di questo breve dialogo ricordano quello tra Dio e Abramo a proposito della distruzione delle città del lago (cfr Gen 18,22 ss.). Come Abramo, quel contadino fa emergere il desiderio di vita che, nonostante la dura e sofferta decisione, rimane nascosto nel cuore di quel padrone. Fuori metafora, la parabola ci rivela il modo di agire di Dio. Dio ha pazienza e il suo sguardo va lontano: non toglie gli occhi dal male e solo lui è capace di sopportare il male con tale sicurezza e fiducia, poiché sa come e quando intervenire. La sua pazienza, allora, e spazio donato per la conversione e la salvezza Ecco perché il comportamento di Dio, proprio alla luce di questa parabola e per noi, così impazienti, tanto assurdo: sfocia nell’impossibile che, per Dio, diventa possibile. Ma, possiamo ancora aggiungere, la pazienza di Dio ha un volto: Gesù. Come non riconoscere nel contadino che implora una possibilità ulteriore, lo stile di Gesù che è venuto a chiamare i peccatori a conversione? Nella parabola Gesù rilegge la propria missione: tre anni di annuncio, di attesa perché il popolo porti frutto e alla fine un

ultimo ed estremo tentativo… «Gerusalemme, Gerusalemme quante volte ho voluto raccoglierei tuoi figli… e voi non avete voluto!» (13,34).

     La parabola rimane aperta: non dice quale sia stato il risultato finale. Tutto è rimandato alla responsabilità e alla capacità di accogliere questa possibilità e questo tempo donati. Sta qui la serietà della conversione. Lo spazio che ci è concesso non ha altra ragione di essere se non nel cuore stesso di Dio. E non c’è altra forza che provochi una reale conversione se non la pazienza, la misericordia di Dio. Possiamo invertire la rotta di un modo di essere sbagliato, non attraverso uno sforzo eroico di volontà, ma se impariamo a guardare noi stessi e gli altri con lo sguardo vasto, infinito di Dio. Uno sguardo che va oltre i confi-ni delle nostre possibilità, del nostro giudizio, del nostro cuore Dio e abituato a vedere le cose in grande; come un contadino sa portare il peso del tempo dell’attesa, non rinuncia a lavorare, ha fiducia nelle potenzialità del terreno, pensa al frutto che può maturare. Non ha piantato l’albero per tagliarlo, ma per raccoglierne i frutti.

 Preghiere e racconti

Peccatori in conversione

Tutto è provvisorio nella vita dell’uomo, tutto è legato al tempo: in questo senso i peccatori come i giusti vivono nel tempo, un tempo che è dono di Dio per loro, un tempo di grazia e quindi un tempo aperto alla conversione. Ne il peccatore incallito ne il giusto incallito resteranno tali per sempre, tutti sono chiamati a diventare ‘peccatori in conversione’.

Dio viene a toccarci in infiniti modi per renderci docili a questo stato di conversione; da parte nostra possiamo solo prepararci a essere toccati da Dio.

Estranei alla conversione siamo estranei all’amore. In questo caso rimarrebbero all’uomo solo due alternative: o l’autosoddisfazione e la giustizia propria, oppure una profonda insoddisfazione e la disperazione. Al di fuori della conversione non possiamo stare alla presenza del vero Dio: non saremmo davanti a Dio, bensì davanti a uno dei nostri numerosi idoli. D’altro lato, senza Dio, non possiamo dimorare nella conversione, perché questa non è mai frutto di buoni propositi o di qualche sforzo sostenuto: è il primo passo dell’amore, dell’amore di Dio molto più che del nostro.

Convertirsi significa cedere all’azione insistente di Dio, abbandonarsi al primo segnale d’amore che percepiamo come proveniente da lui. Abbandono, dunque, nell’accezione forte di ‘capitolazione’: se capitoliamo davanti a Dio, ci offriamo a lui. Allora tutte le nostre resistenze fondono davanti al fuoco divorante della sua Parola e davanti al suo sguardo; non ci resta altro che la preghiera del profeta Geremia: «Sconvolgici [lett: rovesciaci], Signore, e noi saremo convertiti [lett.: rovesciati]» (Lam 5,21; cfr. Ger31,18).

(A. LOUF, Sotto la guida dello Spirito, Magnano, 1990, 15-17).

La conversione

La conversione attesta la perenne giovinezza del cristianesimo: il cristiano è colui che sempre dice: «Io oggi ricomincio». Essa nasce dalla fede nella resurrezione di Cristo: nessuna caduta, nessun peccato ha l’ultima parola nella vita del cristiano, ma la fede nella resurrezione lo rende capace di credere più alla misericordia di Dio che all’evidenza della propria debolezza, e di riprendere il cammino di sequela e di fede. Gregorio di Nissa ha scritto che nella vita cristiana si va «di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine». Sì, sempre il cristiano e la chiesa abbisognano di conversione, perché sempre devono discernere gli idoli che si presentano al loro orizzonte, e sempre devono rinnovare la lotta contro di essi per manifestare la signoria di Dio sulla realtà e sulla loro vita. In particolare, per la chiesa nel suo insieme, vivere la conversione significa riconoscere che Dio non è un proprio possesso, ma il Signore. Implica il vivere la dimensione escatologica, dell’attesa del Regno di Dio che deve venire e che la chiesa non esaurisce, ma annuncia. E annuncia con la propria testimonianza di conversione.

(Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, 67-70).

Dio attende pazientemente la nostra conversione

Fratelli amatissimi, mostriamo, sottomettendoci spiritualmente, quali servi e adoratori di Dio, la pazienza che ci viene insegnata con ammaestramenti divini.

Quale immensa pazienza in Dio! Sopportando pazientemente ciò che l’uomo ha stabilito in oltraggio della sua maestà e della sua gloria, i templi pagani, le immagini e i culti idolatri, fa nascere il giorno e la luce del sole tanto sui buoni quanto sui malvagi (cfr. Mt 5,45); e quando irriga di pioggia la terra, nulla è escluso dai suoi benefici. Senza distinzione prodiga piogge abbondanti per i giusti e per i peccatori (cfr. Mt 5,45).

E sebbene Dio sia amareggiato dalle nostre continue offese, domina la propria indignazione e attende pazientemente il giorno della retribuzione, prestabilito una volta per tutte, e sebbene la vendetta sia in suo potere, preferisce serbare pazienza a lungo, sopportando e indugiando con clemenza perché, se è possibile, la malvagità perpetrata a lungo si trasformi un giorno e l’uomo, dopo essersi compiaciuto in sbandamenti e mali contagiosi, ritorni a Dio che l’ammonisce e gli dice: Non voglio la morte di chi muore, ma che si converta e viva (Ez 18,32). E ancora: Ritornate al Signore vostro Dio perché è misericordioso e buono, paziente e colmo di compassione e tardo all’ira (Gl 2,13b). Il beato apostolo Paolo ricorda queste cose e cerca di ricondurre il peccatore a penitenza dicendo: «O forse disprezzi le ricchezze della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di tè per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rm 2,4-6). Ha definito giusto il giudizio di Dio, perché è tardivo, perché è differito a lungo in modo che la grande pazienza di Dio possa provvedere alla vita dell’uomo.

(CIPRIANO, II bene della pazienza 3-4, SC 291, pp. 186-190).

Convertirsi significa “andare controcorrente”

Il periodo quaresimale deve essere un periodo per “andare controcorrente” e “cambiare direzione nel cammino della vita”. È quanto ha detto Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale di mercoledì nell’Aula Paolo VI.

All’inizio del cammino quaresimale, il Papa ha invitato i fedeli a cogliere “la sorprendente novità” sprigionata dal richiamo alla conversione che “mette a nudo e denuncia la facile superficialità che caratterizza molto spesso il nostro vivere”.

Il Papa ha spiegato che per conversione si intende “una vera e propria inversione di marcia”, in cui ci si lascia trasformare dal mistero pasquale di Gesù.

“Conversione ha detto è andare controcorrente, dove la ‘corrente’ è lo stile di vita superficiale, incoerente ed illusorio, che spesso ci trascina, ci domina e ci rende schiavi del male o comunque prigionieri della mediocrità morale”.

“Con la conversione, invece, si punta alla misura alta della vita cristiana, ci si affida al Vangelo vivente e personale, che è Cristo Gesù”.

“Non è una semplice decisione morale ha aggiunto, che rettifica la nostra condotta di vita, ma è una scelta di fede, che ci coinvolge interamente nella comunione intima con la persona viva e concreta di Gesù”.

La conversione, ha continuato il Papa, è il “sì totale di chi consegna la propria esistenza al Vangelo, rispondendo liberamente a Cristo che per primo si offre all’uomo come via, verità e vita”.

Del resto, ha sottolineato, l’appello alla conversione e a credere al Vangelo “non sta solo all’inizio della vita cristiana”, ma ne accompagna tutti i passi.

“Ogni giorno è momento favorevole e di grazia, perché ogni giorno ci sollecita a consegnarci a Gesù, ad avere fiducia in Lui, a rimanere in Lui, a condividerne lo stile di vita”.

“Ogni giorno, anche quando non mancano le difficoltà e le fatiche, le stanchezze e le cadute, anche quando siamo tentati di abbandonare la strada della sequela di Cristo e di chiuderci in noi stessi, nel nostro egoismo, senza renderci conto della necessità che abbiamo di aprirci all’amore di Dio in Cristo, per vivere la stessa logica di giustizia e di amore”.

(Benedetto XVI, In occasione dell’Udienza generale per il Mercoledì delle Ceneri, mercoledì, 17 febbraio 2010).

Cambiare la storia

Chi spera cammina, non fugge!

Si incarna nella storia!

Costruisce il futuro,

non lo attende soltanto!

Ha la grinta del lottatore,

non la rassegnazione di chi disarma!

Ha la passione del veggente,

non l’aria avvilita di chi si lascia andare.

Cambia la storia, non la subisce!

(don Tonino Bello)

                

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

 III QUARESIMA 

II DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Genesi 15,5-12.17-18

In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia. E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo». Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò. Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono. Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate».   

 

Nella seconda domenica di quaresima la liturgia ci propone nell’anno A la chiamata, nell’anno B il sacrificio di Isacco e nell’anno C l’alleanza. La vita di Abramo era completamente cambiata dopo che aveva sentito la chiamata del Signore (Gn 12). Si era fidato della sua parola. Era partito per una terra che non conosceva fidandosi di Dio che gli aveva promesso un figlio. Il tempo però era passato e la promessa non sembrava realizzarsi. Abramo sperimenta l’incertezza, l’oscurità della fede per il silenzio prolungato di Dio.

     Ma ora il Signore stesso prende l’iniziativa e gli parla: Guarda in cielo e conta le stelle(v. 5). Nonostante la sterilità avrà una discendenza come le stelle del cielo. Abramo ancora una volta credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia (v. 6). È l’”amen” della fede proclamata dai profeti. La fede è un “credente in” prima ancora di un “credere che”. È fondare la propria vita sulla parola del Signore. Come i sacerdoti usavano pronunciare un giudizio a riguardo della perfezione della vittima sacrificale (cf. Lv 7,18), ora il giudizio viene pronunciato da Dio a riguardo della decisione di fede di Abramo. Era quello il giusto rapporto della creatura con il suo creatore. Anche i profeti dicevano: “obbedire è meglio del sacrificio” (cf. 1Sam 15,22). Nell’interpretazione paolina “giustizia” è l’atto ultimo della storia della salvezza. Abramo diventa il primo dei credenti a sperimentare la giustizia di Dio, la riconciliazione con lui, a prescindere da ogni opera della legge, in quanto la circoncisione gli verrà chiesta solo più tardi. (c. 17).

     Il Signore con un rito tradizionale in cui si tagliavano le bestie a metà, sigilla con Abramo un’alleanza: Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra (v. 7). Con essa egli gli rinnova la promessa della terra. I contraenti dovevano secondo l’uso passare attraverso gli animali tagliati imprecando la stessa sorte se venissero meno alla parola. Dio non permette ad Abramo di passare. Lui solo passa in mezzo agli animali come braciere fumante (v. 17), impegnandosi da solo a mantenere le promesse.

Seconda lettura: Filippesi 3,17-4,1

Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose. Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!

 

 

Paolo in questa lettera parla alla comunità di Filippi della propria esperienza di Gesù Cristo, come sia stato lui afferrato sulla via di Damasco e come ora tutta la sua vita non sia altro che un correre dietro a lui, in attesa di stare sempre con lui in cielo. Allora si capisce come il brano della lettura odierna inizi con questa frase dell’apostolo: Fratelli, fatevi insieme miei imitatori (v. 17). Paolo era stato un giudeo praticante, ma ora tutte le pratiche ebraiche sono diventate una spazzatura di fronte all’esperienza dell’amore salvifico di Cristo manifestatosi nella sua croce.

     Anche i cristiani si mettano nello stesso cammino che sta dando la vita all’apostolo che ha portato loro la fede. Molti si comportano da nemici della croce di Cristo (v. 18). Molti non seguono il suo esempio. Il peccato continua a manifestarsi come potenza efficace. Il fallimento dei cristiani è l’abbandono della croce di Cristo. Nonostante la redenzione si dà ancora tiepidezza, tentazione, tradimento, perciò è importante stare attenti non solo alla predicazione dell’apostolo, ma anche al suo esempio. Alcuni preferiscono salvarsi con i propri sforzi, non accettando l’amore preveniente di Dio manifestatesi nel volto di Cristo in croce.  Ma il cammino della croce è l’unico che conduce al cielo: La nostra cittadinanza infatti è nei cieli (v. 20). La comunità cristiana tiene lo sguardo rivolto all’abitazione celeste. È lì che ci aspetta Cristo risorto. Egli trasfigurerà il nostro misero corpo (v. 21). In cielo ci sarà una nuova esistenza per l’uomo intero. L’uomo vivrà, non sarà più nella bassezza, ma nella gloria, configurato al corpo di risurrezione di Cristo, assiso alla destra di Dio. Vi è un evidente legame di questo passo con il vangelo odierno.

Vangelo: Luca 9,28-36

 

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

 

 

Esegesi

     Il ministero di Gesù in Galilea stava per concludersi con esito deludente. Inizia l’ultima parte dell’esodo di Gesù al Padre che si compirà a Gerusalemme sul monte Calvario. Il monte Tabor, che secondo la tradizione è il monte della trasfigurazione di Gesù, si sovrappone al Calvario per interpretare il senso della passione: La croce è gloriosa.

     Osserviamo chi partecipa a questa esperienza. Innanzitutto Gesù, che salì sul monte a pregare (v. 28). L’evento è così inserito totalmente nella sfera di Dio. L’unione con il Padre si manifesta anche visibilmente nel volto di Gesù che cambiò d’aspetto (v. 29). Come nella preghiera del Getsemani gli appare un angelo a confortarlo, anche ora appaiono due personaggi dell’Antico Testamento, Mosè ed Elia (v. 30), che parlavano con lui del suo esodo (v. 31). Un esodo non è una fine, ma una pasqua, un passaggio dalla sofferenza alla gioia, da questo mondo al Padre, un passaggio che dirà al mondo che egli è sempre vissuto in unione con il Padre.

     I discepoli non ci sono tutti, ma solo Pietro, Giovanni e Giacomo (v. 28). Tre sono sufficienti per dare una legittima testimonianza. Come nell’orto degli Ulivi essi sono oppressi dal sonno (v. 32). È un sonno che manifesta anche l’incomprensione del mistero di Gesù Cristo. Per questo in quei giorni, cioè durante la vita terrena di Gesù, non riferirono a nessuno ciò che avevano visto (v. 36). Dopo Pasqua tutto sarà chiaro e potranno testimoniare la gloria di Gesù. Hanno bisogno degli occhi del cuore per capire il senso della croce. Pietro cerca di rendere eterno quel momento paradisiaco, che forse gli ricordava la gioia della festa delle capanne. Invece Mosè ed Elia si separavano da lui (v. 33); l’antico si ritirava per far posto alla novità.

     Venne una nube e li coprì con la sua ombra (v. 34). La nube è un segno della presenza di Dio, che conferma in questo caso di essere dalla parte di Gesù, cioè che la salvezza si realizza mediante il suo esodo. La voce divina interpreta il significato della trasfigurazione di Gesù. Questi è il Figlio mio, l’eletto (=scelto), parola che evoca la figura del servo di JHWH (Is 42,1). Il Messia è legato alla sofferenza e alla croce. Il comando: ascoltatelo (v. 35) si rifà a Dt 18,15, che invita ad ascoltare il profeta definitivo di Dio, che porta a compimento la Legge (Mosè) e i profeti (Elia).

 

L’immagine della domenica

 

Il cammino particolare

Tutti gli uomini hanno accesso a Dio,

ma ciascuno ha un acceso diverso.

È infatti la diversità degli uomini

la differenziazione delle loro qualità

e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano.

L’universalità di Dio

consiste nella molteplicità infinita

dei cammini che conducono a lui

ciascuno dei quali è riservato a un uomo.

(Martin BUBER, Il cammino dell’uomo, Magnano, Qiqajon, 1990, 28).

Scoglio della Regina – Guardi Piemontese (CS) – Italia – 2013

 

 Meditazione

     Ogni anno liturgico ci fa ascoltare, nella seconda domenica di Quaresima, il racconto della Trasfigurazione del Signore. Il cammino quaresimale sembra così interrompersi, o meglio giungere già alla sua meta, facendoci contemplare la gloria pasquale che traspare dal corpo luminoso del Signore trasfigurato. Dopo il cammino nel deserto della prova (nella prima domenica di Quaresima) oggi saliamo con Gesù e i suoi tre discepoli più intimi sul Tabor. Anche noi probabilmente saremmo tentati con Pietro di arrestare qui la nostra sequela costruendo tre tende, ma di fatto l’esperienza del Tabor non costituisce la meta finale del cammino; ci suggerisce piuttosto quali siano le condizioni e gli atteggiamenti interiori che consentono a Gesù, come a ogni suo discepolo, di proseguire il viaggio – l’esodo lo definisce Luca nel suo racconto – verso Gerusalemme e verso la Pasqua. Più che interrompere il cammino quaresimale, la Trasfigurazione ce ne svela il significato più nascosto, permettendoci di assaporare già il suo frutto.

     Il brano della lettera ai Filippesi che ascoltiamo come seconda lettura ci suggerisce un angolo prospettico in cui rileggere l’esperienza del Tabor. Paolo polemizza con coloro che «si comportano da nemici della croce di Cristo» (3,18). Probabilmente allude a quanti pretendono che l’obbligo della circoncisione e dell’osservanza integrale della Legge di Mosè venga imposto anche ai cristiani provenienti dal mondo pagano. Se per l’autentica esperienza di Dio sono ancora indispensabili i precetti della Torah, allora viene svuotata di significato la Croce, che per Paolo è invece la rivelazione luminosa di una salvezza che ci raggiunge gratuitamente, non in forza delle nostre opere, ma dell’amore di Dio che nel Figlio crocifisso ci libera dal peccato e dalla morte. Noi oggi avvertiamo come molto distanti da noi queste tematiche: non abbiamo più il problema della circoncisione o dell’osservanza della legge mosaica. Eppure le parole di Paolo conservano la loro attualità, perché dietro la posizione di chi si comporta da nemico della croce di Cristo, egli scorge l’atteggiamento di chiunque, in vario modo, presume di potersi salvare in forza delle proprie opere, confidando in se stesso e nelle proprie pratiche religiose. Paolo definirebbe questo atteggiamento un confidare nelle «opere della carne», anziché gloriarsi, o vantarsi di Gesù Cristo, confidando in lui e nella sua grazia. Infatti, all’atteggiamento dei nemici della croce di Cristo, Paolo contrappone quello di coloro che aspettano «come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3, 20-21). Anziché confidare in una salvezza da conquistare con l’opera delle proprie mani, occorre attendere colui che nel suo amore ha la possibilità di trasfigurare la nostra vita rendendola conforme alla sua.

     Tale è anche la fede di Abramo di cui ci parla la prima lettura tratta dal libro della Genesi. «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (v. 6). Abramo crede al Signore e si fida del segno che gli viene donato: «poi lo condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”; e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”» (v. 5). La garanzia della promessa di Dio è un cielo stellato. Ad Abramo che chiede un erede, Dio promette molto di più: una discendenza numerosa come le stelle del cielo. Dio sottolinea l’‘eccesso’ della sua promessa con l’espressione «se riesci a contarle», che sembra anzitutto mostrare quanto il progetto di Dio sia infinitamente più grande dell’attesa di Abramo. Sovrasta la sua speranza quanto il cielo sovrasta la terra. Inoltre, questo cielo stellato che nessuno può contare ricorda ad Abramo che egli dovrà fidarsi della promessa senza poterla verificare. Contare una realtà significa poter esercitare un controllo su di essa. Abramo, al contrario, deve contemplare le stelle senza poterle contare; deve cioè fidarsi del-la promessa senza cercare di dominarla. In una parola, deve semplicemente credere. Ed è ciò che Abramo fa, come afferma il v. 6: «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia». A rendere l’uomo giusto non sono le opere della carne – il confidare in se stessi e nelle proprie possibilità – ma è la fede, come disponibilità ad affidarsi all’opera che Dio compie in noi. Non pretendendo peraltro di avere altra certezza se non quella offerta dalla Parola stessa. In altri termini, non avendo altra garanzia che un cielo stellato, che non puoi contare. Si tratta sempre della garanzia di un affidamento, non di un possesso.

     Questa è la fede che anche Pietro, Giacomo, Giovanni devono ricevere dall’esperienza che vivono sul Tabor. Pietro vorrebbe costruire tre capanne, in qualche modo per bloccare l’esperienza di Dio in ciò che può personalmente dominare, edificare con le proprie mani, tenere sotto il controllo dei propri occhi. Al contrario, Pietro viene rinviato, dalle parole del Padre, all’affidamento dell’ascolto e alla perseveranza della sequela. «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (v. 35). Queste parole risuonano sul Tabor «circa otto giorni dopo questi discorsi», come precisa l’evangelista introducendo il racconto (v. 28). Il riferimento non può che andare a ciò che Gesù ha iniziato a dire ai discepoli subito prima, annunciando il suo destino di passione e invitando Pietro e i suoi compagni a seguirlo lungo la stessa via: «se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (9,23). L’imperativo dell’ascolto è l’imperativo della sequela: si devono ascoltare le parole di Gesù per seguirlo lungo la stessa strada che conduce a Gerusalemme, dove Gesù vivrà l’esodo pasquale del quale conversa con Mosè ed Elia, cioè con la Legge e i Profeti, con tutte le Scritture. È nella luce della parola di Dio che Gesù comprende il significato del suo cammino e trova il sostegno per viverlo. Ed è nella luce delle stesse Scritture che possono farlo anche i discepoli. La gloria di Gesù la si contempla non tentando di circoscriverla nelle tre capanne costruite da mani di uomo, ma seguendolo fino a Gerusalemme, fino ai piedi della croce. Solo lì si manifesterà pienamente la gloria del Figlio di Dio di cui la Trasfigurazione rimane un’anticipazione profetica.

     Anche per Gesù e i suoi discepoli, dopo l’esperienza straordinaria del Tabor, riprende il cammino nella discesa dal monte, forse con la stessa fatica di prima, anzi con una fatica che si fa ancora più grave, giacché ora la via si precisa sempre più come orientata verso Gerusalemme e verso la croce. Ma ora diviene un cammino che può essere vissuto con un cuore trasfigurato dall’incontro con Dio. Questo è stato vero innanzitutto per l’esperienza di fede che ha vissuto Gesù stesso. La scena della Trasfigurazione ci rivela infatti la gloria e la luce in cui Gesù ha potuto vivere fino in fondo, nella fedeltà e nella perseveranza, nell’ascolto della Parola e nell’obbedienza al Padre, il suo cammino esodico e pasquale. Rivela non semplicemente la gloria e la luce che lo attendevano al termine del cammino, ma la gloria nella cui luce ha potuto egli stesso camminare verso la Pasqua. Mentre attorno a lui tutto si oscurava, egli aveva la sorgente della luce dentro di sé, e proprio questa luce intima, segreta, gloriosa, ha continuato a illuminare i suoi passi anche nella notte. E l’aveva dentro di sé, ci ricorda il racconto di Luca, perché ha vegliato nella preghiera e ha conversato con le Scritture. Chi non prega e non ascolta la parola di Dio, come inizialmente accade a Pietro, rimane nella notte e viene sopraffatto dal sonno.

 Preghiere e racconti

 

La Trasfigurazione

L’icona della Trasfigurazione ci rimanda al tema della divinizzazione dell’uomo, tanto caro alla tradizione dell’Oriente cristiano. I colori usati emanano e rivelano la luce taborica. Questa immagine manifesta lo splendore divino e rispecchia il principio per cui un’icona non si guarda, ma si contempla. Anticamente, questa era la prima icona che un allievo iconografo scriveva per apprendere il segreto della sua missione: penetrare nel Mistero di Dio e dischiudere gli occhi alla sua luce, al fine di rendere gli altri partecipi di questa grazia.

Nell’episodio della Trasfigurazione Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li porta sopra il monte alto dove Dio si fa conoscere dall’uomo. Al centro dell’icona Gesù risplende, è avvolto in vesti candide ed è circondato da una nube luminosa. Egli benedice i discepoli e li introduce nell’esodo pasquale che compirà a Gerusalemme. In basso, quasi alle falde del monte, gli apostoli, costretti al suolo e incapaci di sostenere il bagliore della divinità, sono estasiati e turbati spettatori della Gloria di Dio.

Lo splendore e la magnificenza di Gesù ci rendono consapevoli della nostra meschinità e dell’infinita distanza che ci separa da Lui; possiamo, però, essere fiduciosi e sereni: la sua luce accompagna i nostri passi mentre scendiamo dal monte e riprendiamo il quotidiano cammino. L’evento della Trasfigurazione, custodito e meditato in cuore, ci  aiuterà ad affrontare le difficoltà della strada: la Gloria che gli apostoli hanno visto è la meta bellissima che ci attende!

Lasciare che il mio cuore

si sciolga

alla dolce tua presenza,

contemplare il tuo volto

e perdermi…

La tua bellezza mi trasfiguri

la tua luce mi invada

il tuo amore mi trasformi

così potrò percorrere le strade

della terra

irradiando Te.

Così sarà meno duro vivere

nell’attesa di essere con te

per sempre.

La Trasfigurazione di Gesù

Gesù voleva che i suoi discepoli in particolare quelli che avrebbero avuto la responsabilità di guidare la Chiesa nascente facessero un esperienza diretta della sua gloria divina per affrontare lo scandalo della croce. In effetti quando verrà l’ora del tradimento e Gesù si ritirerà a pregare nel Getsemani terrà vicini gli stessi Pietro Giacomo e Giovanni chiedendo loro di vegliare e pregare con Lui (cfr Mt 26 38). Essi non ce la faranno, ma la grazia di Cristo li sosterrà e li aiuterà a credere nella Risurrezione. Mi preme sottolineare che la Trasfigurazione di Gesù è stata sostanzialmente un’esperienza di preghiera (cfr. Lc 9, 28-29). La preghiera infatti raggiunge il suo culmine e perciò diventa fonte di luce interiore quando lo spirito dell’uomo aderisce a quello di Dio e le loro volontà si fondono quasi a formare un tutt’uno. Quando Gesù salì sul monte si immerse nella contemplazione del disegno d’amore del Padre che l’aveva mandato nel mondo per salvare l’umanità. […] Cari fratelli e sorelle vi esorto a trovare in questo tempo di Quaresima prolungati momenti di silenzio possibilmente di ritiro per rivedere la propria vita alla luce del disegno d’amore del Padre celeste. Lasciatevi guidare in questo più intenso ascolto di Dio dalla Vergine Maria maestra e modello di preghiera. Lei anche nel buio fitto della passione di Cristo non perse ma custodì nel suo animo la luce del Figlio divino. Per questo la invochiamo Madre della fiducia e della speranza.

(Benedetto XVI, Parole prima dell’Angelus, 08. 03. 2009).

 

Per fondare la nostra speranza

Era necessario che gli apostoli concepissero con tutto il cuore quella forte e beata fermezza e non tremassero davanti all’asprezza della croce che dovevano prendere; era necessario che non arrossissero del supplizio di Cristo, né che stimassero vergognosa per lui la pazienza con la quale doveva subire le sofferenze della passione senza perdere la gloria del suo potere. Così Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, suo fratello (Lc 9,28), salì con loro su una montagna in disparte e manifestò loro lo splendore della sua gloria […] Senza dubbio la trasfigurazione aveva quale primo scopo quello di rimuovere dal cuore dei suoi discepoli lo scandalo della croce, affinché l’umiltà della Passione liberamente subita non turbasse la fede di coloro ai quali era stata rivelata la sublimità della dignità nascosta. Ma con non minore previdenza veniva fondata la speranza della santa chiesa, in modo che l’intero corpo di Cristo conoscesse quale trasformazione avrebbe ricevuto in dono e i mèmbri si ripromettessero di partecipare all’onore che aveva rifulso sul capo del corpo.

A questo proposito il Signore stesso aveva detto, parlando della maestosità della sua venuta: Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro (Mt 13,43), e il beato Paolo afferma la stessa cosa quando dice: «Io ritengo, infatti, che le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi (Rm 8,18) […] Pietro disse: Signore, è bello per noi stare qui. Se vuoi, facciamo tre tende, una per te, una per Mosè, una per Elia» (Mt 17,4). Il Signore non risponde a tale proposta, volendo mostrare non che era cattiva, ma che era fuori luogo, perché il mondo non poteva essere salvato se non dalla morte di Cristo e la fede dei credenti era chiamata dall’esempio di Cristo a comprendere che, senza giungere a dubitare della felicità promessa, dobbiamo tuttavia in mezzo alle tentazioni di questa vita, chiedere la pazienza prima della gloria, perché la felicità del regno non può precedere il tempo della sofferenza.

(LEONE MAGNO, Discorsi 38,2-3.5, SC 74, pp. 16-19).

Il Tabor e il Getsemani

Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità. Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore. Laggiù amore e dolore si fondono.                                                    

Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta. La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2). La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44). La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani. Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia,1980,140).

Ancora e sempre sul monte di luce 

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D.M. Turoldo).

               

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

QUARESIMA II QUARESIMA (C)

I DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Deuteronomio 26,4-10

Mosè parlò al popolo e disse: «Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”. Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio».

 

 

La bella professione di fede recitata dal singolo israelita, quando si presenta al sacerdote presso l’altare per offrire le primizie dei frutti della terra, rievoca sinteticamente la storia passata, scandita da quattro momenti fondamentali, nei quali si alterna per due volte il momento negativo con quello positivo (vv: 5-9): l) mancanza di una terra propria (neg.); 2) discesa in Egitto e crescita demografica (pos.); 3) oppressione da parte degli egiziani (neg.), liberazione con il conseguente dono della terra promessa (pos.). Così si passa dalla terra non ancora posseduta alla terra ora abitata e coltivata, per dare una motivazione all’offerta dei frutti che da essa si sono ricavati. 

     La tentazione poteva essere ora per Israele quella di dimenticare il Signore, che ha dato la terra e i frutti che essa produce; con l’offerta che se ne fa si riconosce questa dipendenza. «Guardati dunque dal pensare: la mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze. Ricordati invece del Signore tuo Dio perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 8,17-18).

 

 Seconda lettura: Romani 10,8-13

Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».

 

 

Questo brano è stato scelto perché si parla della «professione di fede» (v. 10) cristiana, in analogia con la professione di fede israelita vista nella Prima lettura. Il contenuto ora cambia, perché essa si impernia sulla risurrezione di Gesù e sulla sua attuale e definitiva signoria, ma la sua struttura fondamentale è simile. Si tratta anche ora di un evento che accade nella storia, che è un’opera compiuta in essa da Dio («Dio lo ha risuscitato dai morti», v. 9; cfr. «il Signore ci fece uscireci condusseci diede», Dt 26,8-9).

     La professione di fede deve essere concepita nel cuore e proclamata con la bocca. Questo concetto viene scandito, ancora una volta, con la citazione di tre passi dell’AT: Dt 30,14, che parla insieme della «bocca» e del «cuore» (v. 8); Is 28,18, che accenna al «credere», che si concepisce nel cuore (v. 11); Gl 3,5, che menziona l’«invocare», che si esprime con la bocca (v. 13). È la totalità della persona che così si manifesta nell’atto di fede.

Vangelo: Luca 4,1-13

In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

 

 

Esegesi 

     La tentazione di Gesù è situata unanimemente dai tre Sinottici subito dopo il battesimo, e tutti e tre mettono questa dimora di Gesù nel deserto in rapporto con il dono dello Spirito Santo, ricevuto da lui immediatamente prima nello stesso battesimo (v. 1). Ma nel modo di parlarne gli evangelisti presentano delle significative differenze. Mc riporta in due soli versetti la notizia del digiuno dei quaranta giorni che costituiscono pure, globalmente, tutto il tempo in cui Gesù è tentato (Mc 1,12- 13). Solo Mt (4,1-11) e Lc (4,1-13) parlano di tre speciali tentazioni che si verificano soltanto alla fine dei quaranta giorni di digiuno, ma rispetto a Mt solo Lc sottolinea che Gesù era tentato anche prima (v. 2), durante i quaranta giorni, come dice pure Mc. Ma la differenza più significativa tra Mt e Lc consiste nell’inversione che Lc presenta tra la seconda e la terza tentazione rispetto a Mt, la cui sequenza sembra la più logica e la più primitiva. Infatti, l’adorazione dell’unico Signore a cui si appella Gesù nel respingere l’offerta dei regni della terra si presta meglio a formare l’apice di tutto il racconto che non il rifiuto di tentare Dio, che Lc pone nella terza tentazione. Con questa inversione Lc conferisce più importanza alla città di Gerusalemme (v. 8), sede dell’ultima tentazione, indicando così in essa il preludio alla suprema tentazione di Gesù nella sua passione. Ma nello stesso tempo, con questa inversione Lc dà più importanza al tema della tentazione stessa, come si vede dalla sua conclusione dell’episodio (v. 13): «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato».

     Al di là di questo episodio, il verbo «tentare» o «mettere alla prova» (peirazo) ricorre ancora in Mt 16,1; 19,3; 22,18.35, ma nel significato più scialbo della tentazione o prova a cui i farisei sottopongono Gesù rivolgendogli delle domande capziose; qui Lc riprende l’espressione soltanto nel primo e nell’ultimo caso (Lc 11,16; 10,25, con un ordine diverso rispetto a Mt). Invece l’importanza di questo tema in Lc la si vede meglio se consideriamo l’uso del sostantivo (peirasmos), che lui ha usato già in 4,13. In parallelo con Mt, il termine ricorre nel Padre nostro (Lc 11,4 = Mt 6,13) e nell’ammonizione di Gesù ai tre discepoli nel Getsemani (Lc 22,46; Mt 26,41; Mc 14,38). Al di là di questi casi in comune con Mt, Lc introduce il termine di sua iniziativa nella spiegazione della parabola del seminatore (Mt 13,21; Mc 4,17: «tribolazione o persecuzione»; Lc 8,13: «nel tempo della tentazione»). Ma l’uso forse più interessante del sostantivo in Lc, lo troviamo in queste parole di Gesù ai discepoli dopo l’istituzione dell’eucaristia nell’ultima cena: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie tentazioni (BC: prove) e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno» (Lc 22,28-30a). In questo detto, tutto il ministero pubblico di Gesù, passato in compagnia dei discepoli, è considerato come un continuo periodo di tentazione, nel quale lui ha avuto il confronto della loro compagnia e della loro condivisione; essa trova il suo culmine nella celebrazione dell’eucaristia, prefigurazione della sua mensa nella pasqua del cielo.

     Ma la suprema tentazione di Gesù doveva aver luogo nel tempo della sua passione. Nel Getsemani, dopo la preghiera rivolta al Padre perché allontanasse da lui il calice della sua dolorosa morte imminente, Gesù dice a quelli che sono venuti ad arrestarlo: «Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre» (Lc 22,53).

     Nell’AT il tema della tentazione affiora nel definire lo stretto rapporto che intercorre tra Dio ed Israele, specialmente nel tempo del deserto. Dio «tenta» o «mette alla prova» (ebr. nissah) Israele, per far emergere quello che c’è nel cuore del suo popolo, come si può vedere da questi passi: «Io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no» (Es 16,4); «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi» (Dt 8,2; cfr. anche il v. 16). Ma questa prova o tentazione continua anche dopo, nella terra promessa: «Tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore (che ti vogliono far rivolgere agli dèi stranieri); perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima» (Dt 13,4).

     Come si vede, si aggiunge sempre, con una proposizione finale, il motivo positivo di questa prolungata tentazione a cui il Signore sottopone il suo popolo, che consiste nel desiderio di appurare la consistenza del suo rapporto con lui. È questo un tipico elemento della parenesi deuteronomica, per cui non ci stupisce che nelle risposte di Gesù a Satana vengano citati tre passi, ripresi tutti dal Deuteronomio. Vale la pena considerarli ora separatamente, inquadrandoli nel loro contesto originario.

     a) In Lc 4,4 si cita Dt 8,3: «Egli (il Signore) dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore». Il tempo del deserto consentiva ad Israele di sperimentare la sua dipendenza da Dio, che provvede il cibo della manna con il comando dato dalla sua bocca. Citato da Gesù, questo detto vuol dire che egli, anche se compirà la moltiplicazione dei pani, attirerà le folle non tanto con il cibo materiale, quanto piuttosto con l’annunzio del regno di Dio e con l’invito alla conversione.

     b) La corrispondenza di Lc 4,8 con il Dt non è evidente: «Guardati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile. Temerai il Signore Dio tuo, lo servirai e giurerai per il suo nome» (Dt 6,12-13); qui, «ti presterai» e «adorerai» corrispondono a «temerai» e «servirai» di Dt 6,13. Si noti come queste diverse ingiunzioni

sono precedute dalla raccomandazione a non dimenticare quanto il Signore ha già fatto: ciò che Israele deve fare, è una risposta a quanto Dio ha fatto prima.

     c) Nell’ultima citazione (v. 12) appare l’uso inverso del tema della tentazione, in quanto ora è Israele che tenta Dio, quando lo abbandona e così lo costringe a dargli una punizione: «Non seguirete altri dèi… L’ira del Signore tuo Dio si accenderebbe contro di te e ti distruggerebbe dalla terra. Non tenterete il Signore vostro Dio come lo tentaste a Massa. Os-serverete diligentemente i comandi del Signore vostro Dio…» (6,14-17). Rilette sullo sfondo dell’AT, le tentazioni di Gesù ci appaiono come la dimostrazione della sua totale adesione a Dio, in contrasto con la condotta indocile d’Israele, cosicché i suoi quaranta giorni di digiuno nel deserto corrispondono ai quaranta anni trascorsi da Israele nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto. Ma in maniera più specifica, con queste tre tentazioni satana cerca di distogliere Gesù dalla sua missione messianica, che, rifuggendo dai facili e fallaci successi mondani di una popolarità ottenuta con miracoli molto spettacolari, consiste nell’adesione alla via della croce.

L’immagine della domenica

 

«AIUTO!»

«Nostro Signore mi fa fare questa domanda nel Pater

perché essa mi è necessaria in tutte le ore,

perché deve trovarsi come grido dell’anima

cento volte in ogni preghiera,

e per insegnarmi a lanciare incessantemente verso di Lui,

in tutte le ore, questo grido: “Aiuto”».

(CHARLES DE FOUCAULD, Opere spirituali, Roma, Pauline, 1984).

Sagrata Familia – Barcellona – 2006

 

 Meditazione

     Quaresima. Quaranta giorni per ricalibrare la nostra vita e le sue relazioni: con Dio, con gli altri, con il creato, con se stessi. L’esigenza di mettere ordine nella propria esistenza è diffusa, a molti livelli. I testi biblici che ci vengono oggi proposti offrono alcuni criteri per perseguire tale fine.

     Il celeberrimo e impressionante brano delle tentazioni di Gesù nel deserto si apre con una duplice significativa annotazione: Gesù entra in questa esperienza guidato dallo Spirito – non è altro che il nostro desiderio di ‘riprendere in mano’ la vita – e rifiutando di nutrirsi.

     Perché questo digiuno? Cosa c’entra l’alimentazione con i nostri problemi etici, politici, religiosi, di gestione del tempo e del denaro, degli affetti e delle relazioni? L’odierno imperativo sociale, che richiede un corpo palestrato a tutte le età, già può orientarci verso il ‘sospetto’ che forse uno stato complessivo di benessere della persona non è separabile dalle condizioni del corpo. Ma Gesù va ben oltre: un digiuno prolungato, di quaranta giorni, segnala l’intenzione di sondare la propria verità, la propria identità ben oltre la percezione superficiale e puntuale di un’esperienza ‘curiosa’. La testimonianza unanime della pratica ascetica del digiuno, comune a tutte le tradizioni religiose e filosofiche, conferma che la persona che si sottopone ad esso, si apre ad una conoscenza di sé nuova e sorprendente: provare per credere…! Rinunciare ad assumere cibo, quanto cioè ci è di più basilare e necessario per la stessa sussistenza, modifica inevitabilmente la percezione dei nostri valori di riferimento. E se primissima conseguenza potrebbe risultare la limpida precisazione – e distinzione! – dei termini appetito e fame, che noi, nel nostro opulento occidente, impieghiamo impropriamente come sinonimi, perseverare in un regime alimentare misurato, regolare e sobrio –  questo il contenuto autentico del digiuno – riattiva la sensibilità e la capacità di scelta e chiama in causa i valori più profondi. L’essenzialità  a cui si è indirizzati rende la persona più attenta e vigile. È pertanto nella condizione ideale per… riprendere in mano la propria vita e compiere delle scelte nuove! Giungendo così al fine che ci si era proposti e da cui eravamo partiti. L’«ebbe fame» (Lc 4,2) che Gesù stesso avverte dopo quaranta giorni di digiuno conferma questo stato psichico percettivo, dove si conosce, in modo sensibilmente nuovo, la dipendenza dall’esterno per la propria sopravvivenza: nessuno di noi basta a se stesso! La mia vita dipende da qualcosa al di fuori di me. Sorgono allora domande nuove: di cosa ho veramente bisogno? Cosa desidero veramente?

     Gesù, che nel battesimo (cfr. Lc 3,21-22) è appena stato riconosciuto come Figlio di Dio, è spinto ora dal diavolo a indagare su come ‘giocare’ la sua identità. Vuole custodire l’oggettività della gratuità e del dono, che lo lega al Padre e alla storia degli uomini, oppure preferisce rifiutare questa dipendenza e utilizzare le proprie energie per imporsi sulla natura e sugli altri? Significativamente, tra il battesimo e il nostro brano, l’evangelista Luca inserisce una sorprendente genealogia risalente fino ad «Adamo, figlio di Dio» (cfr. 3,23-38), che evidenzia e imprime all’identità di Gesù anche la qualifica di fratello dell’uomo. Il suo essere figlio di Dio non cancella né ‘divora’ l’essere fratello dell’uomo ma, con genialità compassionevole, si coniuga in una sintesi esigente ma feconda, fonte di vita e di libertà infinita per sé e per tutti. Gesù non utilizza la propria divinità per opportunità per opprimere gli uomini né si piega ad un umanesimo gaudente che si riconosce come assoluto e svincolato da ogni solidità. Egli è invece il Figlio di Dio che resta consapevolmente nella dipendenza e nel legame per rinnovare dal di dentro ogni figlio dell’uomo. Con amore.

     Per resistere alla tentazione dell’individualismo egoistico Gesù si nutre – qualcosa si deve pur mangiare! – della parola di Dio, sapientemente interpretata. La prima lettura ci  ricorda di richiamare alla nostra mente tutto quanto si è già ricevuto nel passato per continuare a sostenere la lotta verso una libertà sempre più profonda. Le nostre forze sono, infatti, sempre fragili e quando si è nel digiuno si è ancor più bisognosi di sostegno. Quale dunque il nostro cibo per orientare e compiere le nostre scelte. 

Preghiere e racconti

Prima domenica di Quaresima

In Terra Santa, ad ovest del fiume Giordano e dell’oasi di Gerico, si trova il deserto di Giuda, che per valli pietrose, superando un dislivello di circa mille metri, sale fino a Gerusalemme. Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù si addentrò in quella solitudine condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio.

Nel deserto, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà della kenosi, dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr. Fil 2,6-7).

Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr. Eb 4,15). Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.

(BENEDETTO XVI, nell’introdurre la preghiera mariana dell’Angelus: 01.03.2009).

Due re aspirano a regnare

Tanto il Figlio di Dio quanto l’Anticristo aspirano a regnare, ma l’Anticristo desidera regnare per uccidere quelli che avrà sottomesso, Cristo regna per salvare. E su ognuno di noi, se è fedele, regna Cristo, che è la Parola, la Sapienza, la Giustizia, la Verità. Se invece amiamo i desideri disordinati più di quanto amiamo Dio, su noi regna il peccato di cui l’Apostolo dice: II peccato non regni sul vostro corpo mortale (Rm 6,12). Due re dunque si affrontano per regnare: il re del peccato, il diavolo sui peccatori; il re della giustizia, Cristo, sui giusti.

Il diavolo sapeva che Cristo sarebbe venuto per sottrargli il suo regno e per cominciare a sottomettere al suo potere quelli che erano sottomessi al potere del diavolo. Così gli mostra tutti i regni del mondo e degli uomini di questo mondo, gli mostra come su alcuni regna la lussuria, su altri l’avarizia e come alcuni sono trascinati dal soffio della celebrità, altri sono prigionieri delle seduzioni della bellezza. Non dobbiamo pensare che mostrandogli i regni del mondo gli abbia mostrato il regno della Persia o quello delle Indie; ma gli mostra tutti i regni del mondo, cioè il suo regno, il suo modo di dominare il mondo per invitarlo a fare la sua volontà e cominciare così ad assoggettare Cristo […].

Allora il diavolo disse al Signore: «Sei venuto per lottare contro di me e per strappare al mio potere tutti quelli che io ho soggiogato? Non voglio contendere con te, non voglio che tu ti affatichi, che ti sottoponga alle difficoltà della lotta. Chiedo una cosa sola: prosternati ai miei piedi e adorami, ricevo l’intero mio regno». Senza dubbio il nostro Signore e Salvatore desidera regnare e desidera che tutti i popoli gli siano sottomessi perché servano la giustizia, la verità e le altre virtù, ma vuole regnare in quanto è la Giustizia, senza peccato e senza malizia […] Ecco perché risponde: Sta scritto: adorerai il Signore tuo Dio e lui solo servirai (Lc 4,8). Voglio che tutti costoro mi siano sottomessi perché adorino il Signore Dio e servano lui solo. Così desidero regnare. Tu vorresti che il peccato cominciasse da me, quel peccato che sono venuto a distruggere, da cui desidero liberare anche gli altri. Sappi e riconosci che rimango fedele a ciò che ho detto: che sia adorato solo il Signore Dio e che tutti questi uomini siano sottomessi al mio potere nel mio regno». Quanto a noi rallegriamoci di essere sottomessi a lui e preghiamo Dio che faccia morire il peccato che regna nel nostro corpo (Rm 6,12) e che solo Cristo Gesù regni in noi. A lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli ( I Pt 4,11).

(ORIGENE, Omelie sul vangelo di Luca 30,1.3-4, SC 37, pp. 370-374).

Autenticità e verità

Per essere autentici occorre essere fedeli a se stessi ma, nello stesso tempo, diffidare di sé. C’è un necessario legame con se stessi, ma un’altrettanta necessaria esigenza di superarsi. Il cammino versa la vita autentica consiste quindi nel procedere su una specie di crinale, nel suscitare la libertà ma anche nel disciplinarla, nel voler essere pienamente liberi perché solo così si è uomini e non servi, ma nel voler altresì che la prima vera libertà sia di tipo interiore e corrisponda al dominio sulle menzogne di cui ognuno si sa capace “in pensieri, parole, opere e omissioni”. […] La libertà si compie solo nella misura in cui ci si dedica a qualcosa di più grande di sé o, meglio, del sé: una grandezza che il pensiero umano nomina in vari modi, di cui i principali sono giustizia, bene, verità. Io sostengo che l’uomo autentico è l’uomo giusto, è l’uomo che vive per attuare il bene dentro e fuori di sé, è l’uomo che ama sopra ogni cosa la verità.

(Vito MANCUSO, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, 2009, Milano, 15-16).

Non ci indurre in tentazione

«Nostro Signore mi fa fare questa domanda nel Pater perché essa mi è necessaria in tutte le ore, perché deve trovarsi come grido dell’anima cento volte in ogni preghiera, e per insegnarmi a lanciare incessantemente verso di Lui, in tutte le ore, questo grido: “Aiuto”».

(CHARLES DE FOUCAULD, Opere spirituali, Roma, Pauline, 1984).

Non è strano che Antonio e i monaci suoi compagni considerassero un disastro spirituale l’accettare passivamente i principi e i valori della loro società. Essi erano riusciti a capire quanto fosse difficile non solo per il singolo cristiano, ma anche per la chiesa stessa, resistere alle seducenti imposizioni del mondo. Quale fu la loro reazione? Fuggirono dalla nave che stava per affondare e nuotarono verso la vita. E il luogo della salvezza è chiamato deserto, il luogo della solitudine…

La solitudine è la fornace della trasformazione. Senza solitudine, rimaniamo vittime della nostra società e continuiamo a restare impigliati nelle illusioni del falso io. Anche Gesù è entrato in questa fornace. Fu tentato con le tre seduzioni del mondo: essere importante («trasforma le pietre in pane»), essere spettacolare («gettati dalla torre»), essere potente («ti darò tutti questi regni»). Gesù ha affermato Dio come unica sorgente della sua identità («Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto»). La solitudine è il luogo della grande lotta e del grande incontro – lotta contro le imposizioni del falso io e incontro con il Dio dell’amore che offre se stesso come sostanza del nuovo io.

(J.M. Nouwen, La via del cuore, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 94).

Deserto

«L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante. Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: aravah, luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chorbah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, senz’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte.

Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale (Genesi 2,815). E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,12). Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che parla). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,114); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 1924); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rinnovare l’alleanza nuziale…

Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione. Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deuteronomio 8,2). Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Genesi 12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,1112; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Anche Gesù vivrà il deserto come noviziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11). Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico!

Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa. Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.

Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e, così esso diviene cifra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».

(Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 47-51).

Solitudine

La solitudine è un elemento antropologico costitutivo: l’uomo nasce solo e muore solo. Egli è certamente un «essere sociale», fatto «per la relazione», ma l’esperienza mostra che soltanto chi sa vivere solo sa anche vivere pienamente le relazioni. Di più: la relazione, per essere tale e non cadere nella fusione o nell’assorbimento, implica la solitudine. Solo chi non teme di scendere nella propria interiorità sa anche affrontare l’incontro con 1’alterità. Ed è significativo che molti dei disagi e delle malattie «moderne», che riguardano la soggettività, arrivino anche a inficiare la qualità della vita relazionale: per esempio, l’incapacità di interiorizzazione, di abitare la propria vita interiore, diviene anche incapacità di creare e vivere relazioni solide, profonde e durature con gli altri. Certo, non ogni solitudine è positiva: vi sono forme di fuga dagli altri che sono patologiche, vi è soprattutto quella «cattiva solitudine» che è l’isolamento, il quale implica la chiusura agli altri, il rigetto del desiderio degli altri, la paura dell’alterità. Ma tra isolamento, chiusura, mutismo, da un lato, e bisogno della presenza fisica degli altri, dissipazione nel continuo parlare, attivismo smodato, dall’altro, la solitudine è equilibrio e armonia, forza e saldezza.

Chi assume la solitudine è colui che mostra il coraggio di guardare in faccia se stesso, di riconoscere e accettare come proprio compito quello di «divenire se stesso»; è l’uomo umile che vede nella propria unicità il compito che lui e solo lui può realizzare. E non si sottrae a tale compito rifugiandosi nel «branco», nell’anonimato della folla, e neppure nella deriva solipsistica della chiusura in sé. Sì, la solitudine guida l’uomo alla conoscenza di sé, e gli richiede molto coraggio.

La solitudine allora è essenziale alla relazione, consente la verità della relazione e si comprende proprio all’interno della relazione. Capacità di solitudine e capacità di amore sono proporzionali. Forse, la solitudine è uno dei grandi segni dell’autenticità dell’amore. Scrive Simone Weil: «Preserva la tua solitudine. Se mai verrà il giorno in cui ti sarà dato un vero affetto, non ci sarà contrasto fra la solitudine interiore e l’amicizia; anzi, proprio da questo segno infallibile la riconoscerai».La solitudine è il crogiuolo dell’amore: le grandi realizzazioni umane e spirituali non possono non attraversare la solitudine. Anzi, proprio la solitudine diviene la beatitudine di chi la sa abitare. Facendo eco al medievale «beata solitudo, sola beatitudo», scrive MarieMadeleine Davy: «La solitudine è faticosa solo per coloro che non han sete della loro intimità e che, di conseguenza, l’ignorano; ma essa costituisce la felicità suprema per coloro che ne hanno gustato il sapore».

In verità, la solitudine, certamente temibile perché ci ricorda la solitudine radicale della morte, è sempre solitudo pluralis, è spazio di unificazione del proprio cuore e di comunione con gli altri, è assunzione dell’altro nella sua assenza, è purificazione delle relazioni che nel continuo commercio con la gente rischiano di divenire insignificanti. E per il cristiano è luogo di comunione con il Signore che gli ha chiesto di seguirlo là dove lui si è trovato: quanta parte della vita di Gesù si è svolta nella solitudine! Gesù che si ritira nel deserto dove conosce il combattimento con il Tentatore, Gesù che se ne va in luoghi in disparte a pregare, che cerca la solitudine per vivere l’intimità con 1’abba e per discernere la sua volontà. Certo, come Gesù, il cristiano deve riempire la sua solitudine con la preghiera, con la lotta spirituale, con il discernimento della volontà di Dio, con la ricerca del suo volto.

Commentando Giovanni 5,13 che dice: «L’uomo che era stato guarito non sapeva chi fosse [colui che l’aveva guarito]; Gesù infatti era scomparso tra la folla», Agostino scrive: «È difficile vedere Cristo in mezzo alla folla; ci è necessaria la solitudine. Nella solitudine, infatti, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa; per vedere Dio ti è necessario il silenzio». II Cristo in cui diciamo di credere e che diciamo di amare si fa presente a noi nello Spirito santo per inabitare in noi e per fare di noi la sua dimora. La solitudine è lo spazio che apprestiamo al discernimento di questa presenza in noi e alla celebrazione della liturgia del cuore.

Il Cristo poi, che ha vissuto la solitudine del tradimento dei discepoli, dell’allontanamento degli amici, del rigetto della sua gente, e perfino dell’abbandono di Dio, ci indica la via dell’assunzione anche delle solitudini subite, delle solitudini imposte, delle solitudini «negative». Colui che sulla croce ha vissuto la piena intimità con Dio conoscendo l’abbandono di Dio, ricorda al cristiano che la croce è mistero di solitudine e di comunione. Essa, infatti, è mistero di amore!

(Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999).

Preghiera

Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima. È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, seguendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.

Sono ancora così diviso! Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza. Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.

So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me. La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita. Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, azioni che siano le tue azioni. Non vi sono tempi o luoghi senza scelte. E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.

Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo. Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quando verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me. Amen.

(J.M. NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

 

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

 

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

QUARESIMA I QUARESIMA (C)

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 6,1-2.3-8

Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!».

 

 

Vocazione e mandato, ovvero affidamento di un compito da svolgere, nell’Antico Testamento sono sempre strettamente congiunti. Talvolta tuttavia la chiamata è semplicemente supposta ed è indicato solo il mandato di Dio all’uomo: è questo ciò che accade ad Abramo (Gn 12,1). Nel caso di Mosè, la chiamata e il mandato vengono ampiamente e di-stintamente descritti, nella lunga e drammatica cornice di una teofania (Es 3,2-4,17). Altre volte la vocazione non è affatto descritta, ma è soltanto ricordata dall’interessato (Amos 7,14-15) oppure dallo stesso Dio, p. es., nella scena che descrive ampiamente il mandato affidato al profeta Geremia (1,4-5: «La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini: Prima che io ti formassi nel grembo, ti ho conosciuto…»).

     La chiamata di Isaia al ministero profetico richiama in qualche modo la chiamata e il mandato di Mosè descritti nel libro dell’Esodo, ma con un ritmo e un linguaggio molto più concentrati ed essenziali. Nell’uno e nell’altro caso, tutto comincia con una teofania, che sorprende gli interessati. Essi si dichiarano profondamente turbati dalla manifestazione di Dio e consapevoli della loro personale indegnità. Da questo punto in poi, le due situazioni hanno però un diverso sviluppo: Mosè continua a protestare la sua incapacità di assolvere il mandato, mentre Isaia, purificato dai carboni ardenti dell’altare, si offre con slancio come

inviato del Signore. Diverso anche, nei due casi, è il contenuto del mandato: in quello di Mosè sta in primo piano l’annunzio della vicina liberazione dalla schiavitù, in quello di Isaia sta in primo piano un annunzio di sventura, mentre è solo appena intravista la fine della sventura medesima.

     Nel v. 1, il profeta ci dice che il suo ministero profetico ebbe inizio «Nell’anno in cui morì il re Ozìa (nelle traduzioni dato talvolta come Uzzia e nel libro dei Re è chiamato Azaria), cioè probabilmente tra il 740-739. Subito dopo è descritta la teofania, fino al v. 4. Emerge in questa descrizione la santità di Dio, cioè la sua trascendenza, sperimentata come incommensurabilità (i lembi del suo manto riempivano il tempio), maestà reale (seduto su un trono) e santità proclamata a cori alterni dai misteriosi serafini. Il termine «santità», oltre l’idea della trascendenza, include anche l’idea della suprema rettitudine. Ciò è indicato esplicitamente dal v. 5, nel quale è descritta la reazione del profeta, il quale dalla stessa visione di Dio è indotto a riconoscere la sua indegnità di peccatore, partecipe dei peccati del suo popolo.

     Se la teofania si chiudesse con la confessione del peccato, suo effetto sarebbe la disperazione. Essa invece prosegue, nei vv. 5-7, con la descrizione di una purificazione, che è anche una santificazione aperta alla speranza.

     Nel v. 8, è detto come è bastato al profeta purificato sentire che Dio cercava qualcuno da inviare come suo portavoce, perché egli si offrisse con slancio per quel compito.

     Non sono poche le analogie tra questo testo del profeta Isaia e la nostra lettura evangelica.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 15,1-11

 

Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.  

 

Il brano della prima lettera ai Corinzi che costituisce la nostra seconda lettura contiene l’inizio della risposta di Paolo a quello che probabilmente era l’ultimo quesito postogli da quella comunità, riguardante il problema della risurrezione dei morti.

     Nei vv. 1-2 c’è un moderato elogio dei Corinzi, per avere essi accolto il vangelo che egli stesso aveva loro presentato e per avere resistito a quelli che avrebbero voluto corromperlo o deformarlo. Essi hanno anche sperimentato la forza salvifica che c’è in quel vangelo.

     Nei vv. 3-7, l’apostolo riassume l’insegnamento centrale del Vangelo, che egli predica, in piena concordia con la predicazione della Chiesa: che Gesù Cristo è morto per la remissione dei peccati, che fu sepolto e fu risuscitato, conformemente alle affermazioni delle Scritture, che finalmente è apparso a quelli che poi hanno testimoniato quella risurrezione: rispettando l’ordine gerarchico, vengono nominati Cefa, i Dodici, più di cinquecento fratelli e Giacomo (rappresentante dei «fratelli del Signore»). Per questo condensato del kèrigma primitivo, sono adoperati i termini tecnici ricevere e trasmettere. A questo patrimonio comune, nei vv. 8-10, Paolo aggiunge la sua personale testimonianza: anch’egli, ultimo (quasi un aborto, avendo egli prima perseguitato la Chiesa), ha visto il Signore risorto e questa apparizione ha radicalmente cambiato la sua vita, facendolo diventare un apostolo infaticabile.

     La conclusione del brano, nel v. 11, è brevissima e solenne: questa e non altra è la fede di tutta la Chiesa, la fede che ha reso cristiani i destinatari della lettera di Paolo. Solo partendo da questa fede egli potrà affrontare e discutere il problema della risurrezione dei morti.

 

Vangelo: Luca 5,1-11 

 

In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

 

 

Esegesi

     Questo testo di Luca utilizza certamente il racconto della chiamata dei primi discepoli di Gesù, che si trova in Mc 16-20 e Mt 18-22, ma non è semplicemente lo stesso racconto con qualche variazione. Direttamente, il tema del nostro brano è preannunzio del ministero apostolico di Pietro, che egli avrebbe poi svolto insieme agli altri apostoli, qui rappresentati da Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. In tal modo, il terzo vangelo ci assicura che il ministero apostolico, guidato dal gruppo dei dodici, è stato voluto e preordinato da Gesù fin dall’inizio della sua vita pubblica e non è scaturito solo dall’entusiasmo del tempo post-pasquale. Si può pensare che sia questo il motivo per cui nel terzo vangelo non si trova il mandato con cui il Signore risorto affida agli undici la diffusione del vangelo nel mondo (Mt 28,19-20; cf. Mc 16,15) e il potere di rimettere i peccati (Gv 20,21-23).                                                          

     Le parole con cui Gesù esprime la sua volontà e preannunzia il ministero apostolico di Pietro e dei suoi collaboratori sono preparate da una scena d’insegnamento dello stesso Gesù e dal racconto di un miracolo.

     Nella scena di insegnamento (vv. 1-3), Gesù è presentato circondato dalla folla, che vuole ascoltare da lui «la parola di Dio». Perché a tutti più facilmente arrivi quella «parola», Gesù chiede a Simone di poter utilizzare la sua barca.

     Nei vv. 4-7 è raccontato il miracolo di una pesca straordinaria ottenuta su indicazione di Gesù. Il fatto appare come prodigioso, perché avvenuto su semplice segnalazione di Gesù, in condizioni normalmente sfavorevoli, cioè in pieno giorno (mentre di solito la pesca si fa di notte) e in quantità del tutto inusuale: in tal modo Gesù dimostra di avere autorità sul mare e sui pesci. Non pare che l’evangelista abbia voluto dare un valore simbolico all’avvenimento della pesca, quasi per assicurare in anticipo la fecondità dell’attività apostolica della Chiesa. Il prodigio sembra avere soltanto lo scopo di dare autorevolezza a Gesù e alle parole che egli, subito dopo, dice a Pietro. Nei vv. 8-10a, è descritto l’effetto che il prodigio produce su Pietro e i suoi collaboratori: tutti avvertono in Gesù il potere misterioso di Dio e prendono coscienza della loro fragilità peccatrice.

     Nel v. l0b il racconto evangelico tocca il suo culmine, nelle parole di Gesù: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Qui propriamente non è espresso un comando o una chiamata: piuttosto, è pronunziata una profezia. È detto però che essa comincia già a realizzarsi subito, a partire da quel preciso momento. La chiamata appare così inclusa nella profezia, estendendosi anche ai collaboratori di Pietro. Si può anche notare che il termine greco adoperato per pescatore è zogròn, a cui talvolta viene dato il senso di salvare dalla morte: ciò vorrebbe dire che la profezia annunzia per Pietro e i suoi compagni una attività misteriosa al servizio della vita degli uomini.

     Il v. 11 col minimo di parole, descrive l’effetto delle parole sovrane di Gesù: «E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».

     Non si può evitare di confrontare questo testo di Luca con il racconto della apparizione di Gesù risorto presso il lago di Tiberiade, con relativa pesca prodigiosa e conclusivo mandato pastorale affidato a Pietro, che si trova nel c. 21 di Giovanni. Sono tali e tanti gli elementi di somiglianza tra i due racconti, che si è costretti a pensare di avere davanti due trasmissioni indipendenti dello stesso avvenimento. Pur con persistenti esitazioni, si può pensare che il testo di Giovanni conservi la formulazione più antica del fatto e che sia stato Luca a spostarlo dai racconti di apparizione all’inizio del ministero pubblico di Gesù. Per l’appunto nel testo di Giovanni, alla fine, appare assai chiaramente che il culmine della storia sta nel mandato affidato a Pietro di pascere, cioè curare e custodire i credenti in Cristo.

 

L’immagine della domenica

Butto la rete

Signore, la mia sola sicurezza sei tu, come il mare che ho davanti e nel quale butto la rete della mia vita. Anche se finora non ho pescato nulla, anche se a volte non ne ho la voglia, io so, Signore, che se avrò la forza di buttare continuamente questa rete, troverò il senso della verità.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto.  Pensieri e lettre spirituali 1977-2005, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 58).

 Meditazione

     Sempre nella storia Dio ha chiamato uomini fragili e peccatori per affidar loro la sua parola da annunciare e per renderli partecipi del suo progetto sull’umanità. I contesti di una chiamata possono essere molto differenti e, in un certo senso, anche le modalità con cui Dio chiama sanno adattarsi all’uomo. Tuttavia nella dinamica di una vocazione ci sono delle costanti e nel narrare una chiamata la Scrittura sembra quasi seguire uno schema. C’è sempre un’esperienza di Dio da parte del chiamato che passa attraverso l’incontro con il suo volto e la sua parola. Questa esperienza, questo ‘contatto’ con Dio coinvolge totalmente colui che è chiamato, il quale sente la sua radicale lontananza da Colui che è il ‘totalmente altro’. Ma Dio quando chiama ha la potenza di cambiare radicalmente il cammino e la vita di una persona: ogni vocazione è sempre una conversione. E questo cambiamento è in vista di una missione. Possiamo scorgere questi elementi, che caratterizzano, secondo la Scrittura, la dinamica di una chiamata, nei due testi che la liturgia della Parola di questa domenica accosta e che ci fa leggere in parallelo. Si tratta del testo di Is 6,1-8, la vocazione profetica di Isaia e il suo invio al popolo di Israele, e del racconto della chiamata dei primi discepoli di Gesù, secondo la narrazione di Lc 5,1-11. In due contesti molto diversi, la stessa parola di Dio entra nella vita dell’uomo, con essa inizia un dialogo che si trasforma in chiamata e in missione. Isaia vede qualcosa allo stesso tempo affascinate e tremendo: «vidi il Signore seduto su un trono alto… i lembi del suo manto riempivano il tempio… Santo, santo, santo il Signore degli eserciti…» (Is 6,1-3). Gesù, tra la folla che «fa ressa attorno a lui per ascoltare la parola di Dio» (Lc 5,l), vede due barche e dei pescatori. Isaia sperimenta smarrimento e lontananza da questo Dio così al di là di ogni possibilità umana: «io sono perduto, perché uomo dalle labbra impure» (Is 6,5). Di fronte alla potenza della parola di Gesù, in Pietro avviene una presa di coscienza della propria povertà, del peccato che abita in lui: «Signore, allontanati da me perché sono un peccatore» (Lc 5,8). L’incontro con Dio cambia in profondità Isaia: è chiamato ad essere profeta e le sue labbra vengono purificate per una missione che Dio stesso gli affida (cfr. 6,6-8). Proprio Pietro, il peccatore, e i suoi compagni sono chiamati a diventare discepoli di Gesù e annunciatori del Regno in mezzo agli uomini: da pescatori di pesci diventano «pescatori di uomini» (Lc 5,10). Di fronte alla potenza e alla gratuità di Dio, Isaia si arrende: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8). I quattro pescatori «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e seguirono Gesù» (Lc 5,11). Tenendo con-to di questa lettura parallela, ci soffermiamo ora su alcuni elementi del racconto di Luca. Luca inquadra la scena focalizzando l’attenzione su Gesù che insegna, che annuncia la parola di Dio, mentre molta folla si accalca attorno a lui per ascoltarlo. Due barche sulla riva, accanto alle quali ci sono quattro pescatori, attirano l’attenzione di Gesù: possono diventare il mezzo per rendergli più agevole la predicazione. E così sale su una barca e invita il proprietario, Simone, a scostarsi un po’ dalla riva (cfr. Lc 5,1-3). In questa descrizione emergono alcuni elementi che inquadrano la successiva scena, e soprattutto orientano la dinamica della chiamata. Tutto sembra occasionale, ma lo sguardo di Gesù guida invece ogni momento. È lui che vede le barche e i quattro pescatori. Così in mezzo a questa folla anonima, grazie allo sguardo di Gesù emergono quattro volti che entrano in relazione più diretta con lui. E tra questi volti, uno in particolare sembra catturare l’attenzione di Gesù: quello di Simon Pietro. Ma fin da questa prima scena c’è un altro elemento che farà poi da legame a vari momenti dell’episodio: è la parola di Gesù. Gesù infatti sta annunciando la parola di Dio (cfr. v. 1); è sulla parola di Gesù che Simon Pietro getterà le reti al largo (cfr. v. 5); e infine, ancora sulla parola di Gesù i quattro pescatori lasceranno tutto per seguirlo (cfr. vv. 10-11).

     L’incontro diretto di Gesù con questi pescatori è caratterizzato da un ordine perentorio e apparentemente assurdo: «Prendete il largo e gettate le vostre reti per la pesca… Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (vv. 4-5). Sembra quasi che Gesù voglia fare sperimentare a questi uomini un paradosso, il quale può diventare esperienza e incontro con Dio: ciò che all’uomo è impossibile è invece possibile a Dio. Per entrare in questo ‘paradosso’, all’uomo è richiesta fede radicale e obbedienza. Infatti ciò che viene richiesto a Simon Pietro può avvenire solo sulla parola di Gesù. E il pescatore accetta questa sfida: «sulla tua parola getterò le reti. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci» (v. 5-6).

     Questo passaggio dall’impossibile al possibile e, più concretamente, da una pesca senza risultati alla vista di una pesca così abbondante e impensata, provoca una reazione in Simon Pietro: la presa di coscienza della distanza tra lui, peccatore, e Gesù. È il timore di fronte alla santità e alla potenza di Dio che costringe Simone a inginocchiarsi di fronte a Gesù e a riconoscere una sorta di impossibilità a stargli vicino: «si gettò alle ginocchia… allontanati da me; perché sono un peccatore» (v. 8).

     Ma proprio una nuova parola di Gesù supera questa distanza, altrimenti incolmabile per l’uomo. Gesù non solo non si allontana da Simon Pietro, ma si avvicina e con la sua parola lo chiama a stare con lui: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). La parola di Gesù opera una conversione di Simon Pietro e dei suoi compagni, cambiandone l’identità (‘pescatori di uomini’) e il cammino (‘d’ora in poi sarai’). Anche qui a Pietro e agli altri viene richiesta obbedienza e fede (‘non temere…’) che passano attraverso un radicale distacco da ogni certezza, da un passato conosciuto, per camminare dietro a Gesù fidandosi solo di lui e della sua parola: «e, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».

     Ma forse uno dei cambiamenti più paradossali sta proprio nella missione che Gesù affida a questi pescatori: «d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). Simon Pietro e gli altri restano ancora pescatori; ma non cattureranno più pesci ma «prenderanno uomini per la vita» (questo è il significato letterale dell’espressione usata da Luca). Come Gesù e con Gesù, saranno chiamati a incontrare uomini e a comunicare loro la vita mediante l’annuncio dell’evangelo. «A voi infatti ho trasmesso – dirà Paolo ai Corinzi – quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che è apparso a Cefa e quindi ai dodici» (1Cor 15,3-5).

     Questi ‘pescatori di uomini’ dovranno andare sempre di più al largo (e Luca narra questo straordinario viaggio al largo nel libro degli Atti) e continuare a gettare le reti ‘sulla parola di Gesù’. In questo simbolico viaggio in mare aperto, tanti altri uomini e donne si uniranno a questo piccolo gruppo. E questa comunità senza confini non è altro che la Chiesa di ogni tempo che continua a prendere nelle reti della parola l’umanità per consegnarla alla vita. 

Preghiere e racconti

Chiamati a qualcosa di più

L’insuccesso mostra all’uomo lo scarto tra l’infinità dei suoi desideri e la possibilità di realizzarli. La pesca infruttuosa suscita nei discepoli l’amara sensazione che non basta dire di andare a pescare per riuscire a pescare. C’è uno scarto tra la potenza dei desideri e la loro realizzazione effettiva. Quanti sogni di gioventù restano castelli in aria proprio per lo scarto tra ciò che noi vorremmo essere nella vita e ciò che poi si realizza! Vorremmo essere come il tale o il tal’altro, il nostro “io ideale” si proietta e alla fine vediamo che c’è una differenza enorme; l’insuccesso mostra la distanza tra l’infinità dei desideri e la possibilità di realizzarli.

La pesca infruttuosa diventa il simbolo di questo scarto, ed è una delusione salutare perché ci permette di riappropriarci con ordine dei nostri desideri. Ma può essere anche molto pericolosa: scatena reazioni negative e drammatiche.

Ricordo il caso di un uomo molto per bene che non riuscì ad accettare l’umiliazione di essere retrocesso nella carriera e per questo giunse a uccidere. L’insuccesso aveva provocato in lui lo scatenamento di desideri, che c’erano ma che prima riusciva a dominare perfettamente. È un’immagine di ciò che l’insuccesso provoca, per la violenza delle forze che si agitano dentro di noi, e che gli antichi chiamavano le passioni dell’uomo. Le passioni non sono soltanto la sensualità; sono anche l’invidia, l’ambizione, l’orgoglio e i risentimenti più forti; come pure sono passioni l’amore, la fedeltà, l’impegno, il coraggio, l’entusiasmo e la perseveranza. Queste sono le forze dell’uomo che dobbiamo imparare a conoscere e a dominare.

Anche se non arriviamo a casi drammatici, dobbiamo però dire che la pesca infruttuosa si ripete spesso nella nostra vita. Viene ad esempio, magari in giovanissima età, una malattia che immobilizza ed ecco tutta una serie di sogni che crollano. E uno passa due, tre, quattro anni prima di riuscire, se riesce, a ricomporre la profondità dei suoi desideri con la realtà che sta vivendo. Conosco situazioni in cui da questa ricomposizione è venuta fuori una forza speculare formidabile. Ma quanta fatica per arrivare a questa ricomposizione! Anche un’amicizia che sfuma è spesso fonte di grande delusione; un posto non ottenuto, un posto di lavoro sul quale avevamo puntato, soprattutto in situazioni in cui c’è una carriera quasi obbligata. È la notte sul lago di Tiberiade. E il Vangelo non dice tutto; ma quando cominciavano a tirar su la rete vuota, sarà cominciata la litania delle colpe: «È colpa tua, quanto mai siamo venuti, chi ci ha fatto uscire, chi ha avuto questa idea». Cioè vengono fuori tutti i sentimenti negativi.

Dobbiamo riflettere per capire, come gli apostoli, che in fondo l’importante non è “andare a pescare”, che si è chiamati a qualcosa di più grande e che il Signore può farci conoscere quel “qualcosa di più” attraverso l’insuccesso.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 42-43). 

Da peccatore a pescatore (Lc 5,1-11)

Quando finisce di parlare, Gesù da un ordine a Simone: « Prendi il largo e calate le reti per la pesca » (Lc 5, 4). E Simone risponde: «Signore, avendo faticato tutta la notte nulla abbiamo preso» (Lc 5,5): il verbo usato da Luca è kopiasantes (part. aor. di kopiao), che in Atti si riferisce alla fatica apostolica, la fatica di annunciare il Vangelo. È la fatica di chi, pur avendo speso molte energie, pur avendo messo in opera tutte le proprie forze, non ottiene alcun risultato. E Simone decide di rischiare ancora una volta, di ignorare la fatica che lo opprime, di rischiare il ridicolo: «ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5, 5). È l’immagine dell’Apostolo che supera la prova di fiducia, che non cade nella delusione e nella disperazione, ma trova la forza di provarci ancora una volta… «sulla tua parola».

Simone diventa immagine dell’uomo che rischia se stesso anche in situazioni piccole ma che esigono decisione e coraggio. Santo è colui che sa rischiare, che si butta fuori, che non agisce in base a ragionamenti soltanto di convenienza. Non  sarà la sola fatica umana, neanche il calcolo o gli interessi ma l’amore che permetterà a Pietro di buttarsi, di andare fuori, di saper rischiare con e per Gesù. E Gesù ripaga la fatica di Simone: «E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano» (Lc 5,6).

Giunti a riva, Simone davanti a tutta la folla «si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”» (Lc 5,8). La potenza della parola di Gesù gli ha aperto gli occhi sulla propria condizione di peccatore. Posto dinanzi alla potenza di Gesù, Simone riconosce la propria fragilità e trova la sua autorealizzazione. E Gesù, accogliendo il peccatore, lo trasfigura in… pescatore di uomini!

Sono pronta a partire

«Sono pronta a partire,

e il mio desiderio con vele spiegate aspetta il vento.

Solo un altro respiro respirerò in quest’aria calma,

solo un altro sguardo d’amore

volgerò all’indietro,

e poi sarò tra voi, un navigante tra naviganti.

E tu vasto mare, madre insonne,

unica pace e libertà per fiumi e rivi

solo un’altra svolta farà questa corrente,

solo un altro mormorio in questa radura,

e poi io verrò da te,

una goccia sconfinata in uno sconfinato oceano»

Tuffati profondo!

La perla di gran prezzo

giace nascosta giù nel profondo.

Come un pescatore di perle,

anima mia, tuffati,

tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo e cerca!

Può darsi che non trovi nulla

la prima volta,

Come un pescatore di perle, anima mia,

senza stancarti, persisti e persisti ancora,

tuffati profondo, sempre più profondo,

e cerca!

Quelli che non conoscono il segreto

si prenderanno gioco di te

e tu ne sarai rattristata.

Ma non perderti di coraggio,

pescatore di perle, anima mia!

La perla di gran prezzo

è proprio nascosta là

nascosta proprio in fondo.

E’ la tua fede

che ti aiuterà a trovare il tesoro,

è essa che permetterà

che ciò che era nascosto

sia finalmente rivelato.

Tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo,

come un pescatore di perle, anima mia,

e cerca, cerca senza stancarti.

(Swami Parmánanda) 

«Amore»

Il Signore ha bisbigliato una parola all’orecchio di un fiore e questo si è aperto in tanti petali colorati.

Il Signore ha bisbigliato una parola ad una pietra, e questa ha assunto i colori iridescenti e le sfumature del diamante.

Il Signore ha bisbigliato una parola al ruscello, ed esso è sgorgato con la freschezza di una sorgente d’acqua viva e perenne.

Il Signore, alla fine, si è chinato all’orecchio dell’uomo e gli ha sussurrato dolcemente una sola parola: amore.

(Gilal Ed-Din Rumi, monaco sufita del XIII secolo).

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta                                            

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau).

Preghiera

Signore Gesù,                                           

Tu ci chiami a seguirTi,                                    

nel Tuo cammino di croce;                                     

Tu sconvolgi i nostri sogni                                           

e i nostri progetti:                                                   

eppure, Tu sei la nostra pace…                                       

Accettaci con le nostre paure

e le esitazioni del cuore;

accogli il nostro umile amore,

capace di darTi soltanto

il poco che siamo.

ConvertiTi a noi, Signore,

e noi ci convertiremo a Te,

lasciandoci condurre

dove forse non avremmo voluto,

ma dove Tu ci precedi

e ci attendi,

perforo delle povere storie

della nostra vita

e del nostro dolore

la Tua storia con noi.

Amen. Alleluia.

(Bruno Forte)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOM TEMP ORD (C)