XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 66,10-14

Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria. Perché così dice il Signore: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi».

 

 

La comprensione del brano sarebbe resa più chiara dal suo contesto anticipando la lettura al v. 5. Nel v. 9 poi è il Signore che parla in modo diretto usando l’immagine del parto per illustrare la sua azione rigenerante verso il suo popolo. Il v. 8 aveva notato un fenomeno impossibile a verificarsi nella realtà: la formazione di un popolo non è istantanea, richiede tempo, conflitti, generazioni e fatiche. L’affetto del Signore per il suo popolo ha superato tutto questo, la rinascita d’Israele dopo l’amara esperienza dell’esilio sembra non conoscere i limiti imposti dalla storia. Nell’ottica del profeta basta un solo istante al Signore per rigenerare il suo popolo; il ritorno a Gerusalemme è come un parto in cui rapidamente una nuova vita viene alla luce.

     Ora il contenuto della lettura è più chiaro, I vv. 10-11 sono un invito alla gioia rivolto ai rimpatriati. Essi amano la loro città e ne hanno fatto il lutto al momento della loro partenza, al tempo della vittoria dei nemici che l’hanno resa vedova e priva di figli (Lam 1,1; Ger 14,17-19; 15,5-9). Ma ora la situazione è rovesciata, anziché essere privata dei figli, Gerusalemme li ha partoriti di nuovo, li ha riavuti tutti insieme, il loro ritorno è felice come il giorno della loro nascita. Nonostante le dure prove, Sion ora è prospera, il suo seno turgido e può offrire nutrimento a tutti senza razionamento. 

Nel giorno della nascita i regali sono una consuetudine. Di questo parla il v. 12. Il Signore assicura alla sua città un dono proporzionato per un evento così felice: la ricchezza dei popoli arriverà come un torrente in piena. Ma ancora più importante dei doni materiali, che tra l’altro un neonato non è in grado di apprezzare, è l’affetto. Neppure questo man-cherà alla rinata popolazione di Sion; la tenerezza e le coccole le saranno pure garantite come il segno più percepibile dell’affetto divino.

     Nel v. 13 troviamo ancora una grande espressione di tenerezza applicata a Dio: Egli sa consolare con delicatezza materna. Bisognerebbe ricordare il passaggio di 49,15 per gustare di più l’immagine:

Si dimentica forse una donna del suo bambino,

così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?

Anche se queste donne si dimenticassero,

io invece non ti dimenticherò mai.

     Se la consolazione, da una parte è un grande atto di forza — come dice 40,1-2 dove si vede che per consolare il suo popolo Dio rovescia le sorti della storia e delle grandi potenze, ponendo fine alla schiavitù del suo popolo — dall’altra parte questo intervento a favore d’Israele è compiuto con sentimenti materni. Forza divina e tenerezza materna si ab-bracciano senza contrasto nel Dio d’Israele.

     Il v. 14 assicura che la descrizione fatta fin qui non è un miraggio. Essa sarà una realtà visibile e la sua vista sarà il sollievo definitivo del popolo provato. Le ossa spezzate sono il segno più evidente della tribolazione e del peccato (cf. Sal 31,11; 51,10). Il loro vigore ritrovato e paragonato all’erba primaverile, primizia di vita, è un ulteriore, tangibile segno del perdono concesso da Dio. La manifestazione della mano del Signore, cioè della sua forza operante, sarà salvezza per Israele, rovina per i suoi nemici.

 

Seconda lettura: Galati 6,14-18

Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio. D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.

 

 

Si tratta dei versetti finali della lettera e ne costituiscono una buona sintesi. In riferimento al v. 11 si potrebbe quasi dire che si tratta di ipsissima verba, dell’apostolo, ma al di là di questa esagerazione esse appartengono alla parte autografa con la quale Paolo ha concluso lo scritto come segno di autenticità della missiva.

     Il v. 14 si capisce meglio se non si perde il contrasto con quello precedente nel quale si parla del vanto dei circoncisi. Essi lo ripongono nell’avere proseliti, in un incremento numerico di coloro che sono sottoposti alla legge. Per essi dunque i galati sono uno strumento della loro vanagloria. Si dovrebbe rileggere a questo proposito 4,12-20 per comprendere come i giudaizzanti non avevano sentimenti corretti verso i galati, mentre Paolo li amava teneramente: 4,19. C’è anche un altro contrasto che non va perso e che è da ricercare nell’esperienza personale di Paolo. Anch’egli un tempo si vantava della pratica della legge e della circoncisione come lui stesso dice in 2Cor 11,21b-22; Fil 3,4-6. A quel periodo della sua vita fa cenno anche nella stessa lettera ai galati: 1,13-14. Ora tutto è cambiato, l’unico vanto che gli è rimasto è la croce. Non è una novità nel pensiero dell’apostolo. Già in 1Cor 1,31 mentre Paolo parla della sapienza della croce scrive: «chi si vanta si vanti nel Signore». Ma ora il legame tra croce e vanto è ancora più stretto, veramente personale. In 2,1.9 Paolo aveva già dichiarato di essere stato crocifisso con Cristo e in 5,24 aveva dichiarato che quelli che sono in Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con i suoi desideri e le sue passioni. Qui Paolo riprende quelle dichiarazioni. La croce lo ha estraniato al mondo e gli ha dato una nuova sapienza (cf. 1Cor 1,17-1,16). Se poi volessimo prescindere da una ricerca tecnica del significato della parola mondo ci potremmo indirizzare verso Fil 3,7-11 dove Paolo dice di voler diventare conforme a Cristo nella morte (v. 10) e fa questa affermazione alla fine di un brano in cui ha dichiarato di aver abbandonato la pratica della legge come strumento per arrivare alla giustizia.

     Nei vv. 15-16 Paolo sembra puntare su quanto è essenziale, cioè essere una nuova creatura. Leggendo 2Cor 5,14-17 si comprende meglio il significato di quello che viene detto qui. L’essere nuova creatura è il frutto dell’amore di Cristo e della sua morte. La norma dunque è quella di non vivere più per se stessi, ma per Gesù, una norma che da pace a tutti, anche ad Israele che per Paolo è pure destinato alla salvezza (Rm 11,26).

     Il v. 17 presenta il motivo per cui Paolo chiede che non venga più contestato e rattristato: egli è conformato anche fisicamente a Gesù. Chi sa se si tratta delle stigmate come ce le immaginiamo noi per alcuni mistici?

     Molto più probabilmente Paolo allude qui a tutto quello che ha sofferto nell’annuncio del vangelo e che l’apostolo narra in 2Cor 6,4-5; 11,23-25. Sono queste sofferenze che egli ha sopportato per il vangelo a costituire il segno più chiaro della sua appartenenza a Gesù. In 1,10 si è dichiarato servitore (doulos), schiavo di Cristo. Nell’antichità gli schiavi portavano il marchio del loro padrone. Le cicatrici rimaste sul corpo di Paolo per le ferite ricevute durante l’apostolato lo dichiarano senza equivoco alcuno proprietà di Gesù.

     Il v. 18 è un saluto affettuoso di ispirazione liturgica.

 

Vangelo: Luca 10,1-12.17-20

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.  Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città». I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».      

 

Esegesi 

     Il brano presenta l’inizio e la conclusione della missione dei settantadue discepoli, omettendo i vv. 13-16 del capitolo 9 in cui Gesù si lamenta fortemente per la mancanza di fede di Corazin, Betsaida e Cafarnao in cui ha operato miracoli senza ottenerne la conversione.

     v. 1 – Il soggetto che agisce è Gesù nella sua qualità di «Signore», quindi nella sua veste regale. Come un sovrano, egli invita davanti a sé degli araldi con l’incarico di preparare la sua venuta. Ciò da già una prospettiva particolare alla missione, essa non è opera autonoma, annuncio di un proprio messaggio, ma preparazione di una presenza superiore realmente salvifica. Non si dimentichi che il titolo «Signore» indica Gesù nella sua nuova condizione di risorto, quindi qui Luca non vuole semplicemente narrare un fatto accaduto nel passato egli descrive l’attualità della Chiesa alla quale il suo «Signore» non lascia mancare gli annunciatori della salvezza. Luca stabilisce anche una salvaguardia alla unicità del ministero dei dodici. Questi settantadue vengono qualificati come «altri». Non si deve però pensare ad evangelizzatori di rango inferiore, perché all’origine del loro ministero c’è il medesimo gesto che Gesù ha compiuto per i dodici: «li inviò» (9,2). Il numero 72 e preso dalla versione greca (LXX) di Gen 10 dove viene data la tavola dei popoli ampliata di due unità rispetto all’originale ebraico. Il numero è dunque altamente simbolico, di una simbologia particolarmente cara a Luca, così interessato all’evangelizzazione dei pagani. Essa non risulterebbe così per lui esclusa dall’intenzione del Gesù terreno. I discepoli sono mandati a due a due per sottolineare l’attendibilità della loro testimonianza in base ai parametri della legge giudaica: Dt 17,6; 19,15.

     v. 2 – L’immagine della messe non ha, in questo caso sapore escatologico (cf. Gl 4,13; Is 27,12). Si tratta di completare l’opera di Gesù al quale è toccato il compito della semina (Lc 8,4-8). Luca, profondamente coinvolto nella missione paolina aveva un senso drammatico della vastità della missione. Nonostante questo, egli pone un principio preciso e irrinunciabile: l’esito della messe non dipende dallo sforzo umano, è unicamente nelle mani di Dio, padrone del vasto campo dell’evangelizzazione. Questa consapevolezza viene posta a fondamento della preghiera fiduciosa. La sproporzione altissima tra immensità del campo e quantità di operai può essere colmata solo dall’esaudimento della preghiera fiduciosa per avere le forze necessarie.

     vv. 3-9 – Le istruzioni pratiche per la missione sono precedute da un’immagine che crea subito il clima nel quale la missione sarà portata avanti. Gli inviati saranno agnelli in mezzo ai lupi, lavoreranno dunque in un ambiente ostile e aggressivo. In quelle condizioni però essi devono rinunciare alla violenza e mantenersi nello spirito del discorso della pianura (Lc 6,27-35). L’equipaggiamento del missionario cristiano deve essere estremamente sobrio. Questa sobrietà va notata specialmente in Luca così sensibile al tema della povertà. Il fatto che i missionari non salutino nessuno lungo il cammino non è un invito alla maleducazione, ma una sottolineatura dell’urgenza della missione. L’ordine sarebbe meglio compreso se si conoscessero direttamente i costumi dell’antico vicino oriente che prevedevano per i saluti un cerimoniale complimentoso e ripetuto.

     Ancora più importante tuttavia è il contenuto dell’annuncio. Il missionario è portatore di pace. Questa parola che costituisce il saluto tipico ebraico ha però un contenuto preciso. La pace è la caratteristica dell’epoca messianica (Is 9,5-6) e per conoscerne il contenuto basterebbe rileggere il salmo 72. Quel programma del re ideale, il messia appunto, viene realizzato in pieno da Gesù e i missionari devono essere i prosecutori della sua opera. Con la missione cristiana si estende il dominio pacifico di Gesù «da mare a mare e dal fiume sino ai confini della terra» (Sal 72,8). Ma ancora più interessante sarebbe riascoltare i vv. 12-14 del salmo che sono una sintesi di quanto Gesù ha compiuto nel suo ministero e una indicazione valida di programma per il missionario cristiano come certifica il v. 9 del nostro brano. I malati saranno i primi destinatari dell’annuncio e la loro guarigione è il segno che il regno si è realmente avvicinato. Viene così ripreso il contenuto della missione dei dodici: 9,2. Il saluto di pace deve essere dato prima di entrare in casa; è la condizione per verificare se vi è disponibilità ad accogliere il messaggio. Accertata questa condizione il missionario può restare senza scrupolo di pesare su chi lo ospita e senza chiedere di più rispetto all’ospitalità che viene offerta. Chi sa che non si trovi qui la problematica affrontata in 1Cor 9,4-18 dove si trova un detto di Gesù non registrato alla lettera dai vangeli. «Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il vangelo vivano del vangelo». Il divieto di passare di casa in casa verte ad evitare la dispersione e la tentazione di cercare un alloggio migliore. Per il v. 8 invece la questione è diversa. Viene affrontato il problema della promiscuità di cibo con i pagani. Mt e Mc non affrontano il problema nei loro discorsi missionari. Nella chiesa primitiva si trattava però di una questione molto sentita, basti pensare a Gal 2,11-14. Qui Luca si rifà ad una istruzione data da Paolo in 1Cor 10,27 e risulterà utile l’accostamento a At 10,9-16 in cui Pietro attraverso una visione riceve dal cielo la dichiarazione del superamento del problema della purità legale in ambito alimentare, visione che prelude all’accoglienza dei pagani nella Chiesa come avverrà con il battesimo di Cornelio (At 10,34-48).

     vv. 10-12 – La missione cristiana non è garantita di successo, lo scacco, il rifiuto sono più di una probabilità. In questo caso si deve seguire il costume orientale di scuotere la polvere dai piedi, gesto che dice dissociazione totale. Con chi rifiuta positivamente e consapevolmente il vangelo il messaggero non vuole avere nulla da spartire neanche la polvere della città che è rimasta attaccata ai suoi piedi. Anzi il rifiuto del vangelo attira un giudizio ben più grave di quello riservato a Sodoma che secondo la Bibbia è l’iperbole del male. Il peccato di Sodoma non segna il limite della perversione. C’è un peccato più grande: la chiusura di fronte al vangelo.  

     vv. 17-20 –  In 9,1 Gesù aveva dato ai dodici il potere di scacciare i demoni. Nel discorso appena commentato non se ne è fatto cenno, ma doveva essere incluso se i settantadue di fatto hanno operato esorcismi con successo. Il risultato positivo della missione ha riempito gli inviati di gioia. Il tema è assai caro a Luca che vede la gioia come la reazione umana alla salvezza operata da Dio. I settantadue sono ora il soggetto di quel sentimento e diventano così l’eco universale della gioia per la salvezza che si diffonde. Il detto su Satana è più problematico.  Se ci rifacciamo a Gb 1,6-12; 2,1-7 3 Zc 3,1 in cui Satana è presentato come accusatore degli uomini davanti a Dio nel cielo significa che questa sua attività è finita, gli uomini davanti a Dio non hanno più accusatori. Se ci riferiamo a Ap 12 7-10 si alluderebbe al combattimento finale contro Satana dal quale Dio esce vincitore. Si prospetta pertanto la vittoria apocalittica. In ogni caso l’attività esorcistica dei missionari con risultati positivi è sintomo chiaro della vittoria definitiva sulle forze diaboliche. Da ultimo Gesù svela agli inviati il motivo vero della gioia: non tanto i fatti eccezionali di cui sono protagonisti nella missione bensì la conoscenza personale che Dio ha di loro e che sarà la loro eredità. I loro nomi infatti sono scritti in cielo.

 L’immagine della domenica

 

 

L’importante è seminare

Semina semina:

l’importante è seminare

-poco, molto, tutto-

il grano della speranza.

Semina il tuo sorriso

perché splenda intorno a te.

Semina le tue energie per affrontare le battaglie della vita.

Semina il tuo coraggio per risollevare quello altrui.

Semina il tuo entusiasmo,

la tua fede

il tuo amore.

Semina le più piccole cose,

il nonnulla.

Semina e abbi fiducia:

ogni chicco arricchirà

un piccolo angolo della terra

Campo di grano – Moral de Hornuez (Segovia) – 2006

 

(Ottaviano Menato)

 

 

 

 

Meditazione

 

     Un annuncio di consolazione e di gioia parte da Gerusalemme e raggiunge il mondo intero; la gioiosa notizia della salvezza, l’evangelo della pace non cessa di risuonare e di richiamare all’unità l’Israele di Dio disperso. Simbolicamente questo annuncio unisce i testi della Scrittura proposti dalla liturgia della Parola di questa domenica. «Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate… Io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati» (Is 66,10.13): è questo l’annuncio pieno di gioia che il profeta proclama al popolo di Israele che sta giungendo nella città amata dopo il lungo esilio babilonese. Gerusalemme ritorna ad essere una madre feconda e in questa maternità piena di tenerezza si riflette la compassione stessa di Dio quell’amore inesprimibile che infonde pace e che solo l’esperienza di una madre che ha cura del suo figlio può fare intuire: «…sarete allattati e portati in braccio e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò…» (Is 66,12-13). La stessa gioia colma di pace risuona nell’evangelo affidato da Gesù ai discepoli: «Pace a questa casa è vicino a voi il regno di Dio!» (Lc 10,5.9). Ma l’orizzonte che si apre sotto lo sguardo del discepolo non è più ristretto nei limiti di una città: è come un campo immenso e colmo di grano maturo che deve essere raccolto, è l’abbondanza di una umanità che deve essere salvata, a cui l’evangelo porta la pace e la gioia (cfr. Lc 10,2). L’evangelo che rende vicino il Regno e che dona la consolazione ha però un volto: quello di Gesù, quello dell’amore fedele di Dio che non si arresta di fronte alle resistenze e alle infedeltà dell’uomo. L’evangelo della pace ha il volto del Crocifisso, della parola rifiutata e continuamente donata. Il discepolo che annuncia pace e consolazione, che guarisce e dona la salvezza, ha una sola forza che lo sostiene per le strade del mondo: la croce di Cristo. Stupendamente lo esprime Paolo concludendo la sua lettera ai Galati: «…non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo… e su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio» (Gal 6,14.16).

     Il discepolo che è chiamato a donare l’evangelo al mondo deve farlo con lo stile stesso di Gesù. Ed è su questo aspetto che si sofferma maggiormente il discorso missionario di Luca al cap. 10 relativo all’invio dei settantadue discepoli. Nelle parole che Gesù rivolge ai discepoli si riflette la responsabilità della missione, della missione della comunità ecclesiale e di ogni singolo in essa, la posta in gioco dell’annuncio (il regno di Dio) e la conseguente trasparenza di stile e radicalità con cui questo deve essere proclamato. E si potrebbe dire che questa trasparenza è motivata anzitutto dal fatto che il discepolo inviato ad annunciar il Regno è colui che precede il volto di Gesù: «(Gesù) mandò messaggeri davanti a sé e questi si incamminarono…» (Lc 9,52).

     Nella storia, nel mondo, il discepolo annuncia la venuta del Signore, l’approssimarsi del suo regno; ma gli occhi del discepolo sono sempre rivolti a Colui che annuncia e senza questa continua relazione di sguardi, la parola proclamata diventa solo parola umana. L’inviato non deve mai dimenticare che è il Signore a mandarlo nel mondo come apostolo – «…ecco, io vi mando» (10,3) – e che il contenuto dell’annuncio è il regno di Dio, qualcosa che non gli appartiene e che ha ricevuto gratuitamente (cfr. Mt 10,8).

     Lo stile e, nello stesso tempo, la forza dell’annuncio sono custoditi nel paradosso: debolezza, mancanza di mezzi, pericolo, rifiuto, ma anche fiducia, libertà, pace, salvezza, accoglienza. L’immagine della messe immensa e abbondante con cui Gesù apre il suo discorso, contrasta con lo sparuto gruppo di ‘mietitori’ chiamati a lavorare il questo campo. Eppure sta qui, in questo contrasto, la forza della missione: «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (10,2). I discepoli, consapevoli di essere piccolo gregge a cui è affidato un compito immenso, si aprono così alla lucida consapevolezza che il regno non è loro, ma di Dio: lui ha cura affinché esso cresca e raggiunga gli estremi confini della terra. Lo stile della missione allora si nutre della preghiera: essa è il segno umile di chi lavora in un campo che non è suo, sapendo che ciò che ha seminato sicuramente crescerà, nei tempi e nei modi che Dio stesso, il signore della messe, sceglie.

     C’è tuttavia una seconda immagine che presenta la missione dei discepoli come un cammino fatto di contrasti e confronti: il discepolo è come un agnello mandato non in un recinto sicuro, ma in mezzo a dei lupi (cfr. v. 3). Il discepolo deve essere cosciente che la parola annunciata provocherà tensioni e giudizio; è una parola di salvezza, ma deve essere accolta. E la sua valenza di giudizio può provocare rifiuto. Questo determina tutto un modo di porsi di fronte al mondo, modo che Gesù descrive attraverso simboli e atteggiamenti. Il rapporto con il mondo è delicato: c’è un rischio ed è quello che potrebbe trasformare il discepolo o in un carrierista che cerca successi e consensi oppure in uno spietato giudice nei confronti del mondo cattivo e crudele. Non è questo lo stile che Gesù insegna al discepolo. Questi non deve mai dimenticare che è inviato al mondo e ogni uomo è il destinatario dell’evangelo; il mondo è ‘capace’ dell’evangelo. Ma nel mondo agisce anche una logica idolatrica, anti-evangelica: da questa deve guardarsi il discepolo. Ecco allora la radicalità della testimonianza che deve rendere trasparente l’essenziale dell’annuncio: niente di superfluo nei mezzi usati (e qui Lc 10,4, nell’elencare l’equipaggiamento, è ancora più radi-cale di Mc 6,8-9). E poi una libertà da legami e logiche di potere: lo stile del discepolo deve esser discreto e convincente allo stesso tempo, aperto ad ogni uomo, lontano da un certo mondo caratterizzato dal vuoto verbalismo e dalla ricerca di beni (cfr. vv. 4-8). Nella precarietà (accoglienza o rifiuto), il discepolo impara a non preoccuparsi di se stesso, della riuscita o meno del suo annuncio, ma solo del dono contenuto in questo annuncio, la pace e la salvezza che Dio offre ad ogni uomo (cfr. vv. 9-10).

     Il discepolo che si lascia plasmare da questo stile è sicuro della riuscita della sua missione? Sì e no. Il discepolo sa che questo stile è quello vissuto da Gesù e quindi, misteriosamente, sa che in esso è custodita la forza del regno che, come chicco nascosto sotto terra, produrrà il frutto abbondante. Ma lo sguardo del discepolo, umanamente, può incontrare il fallimento, nonostante tutto: «…quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: …sappiate però che il regno di Dio è vicino» (v. 10-11). La radicalità dell’annuncio incontra nel rifiuto la prova e la spogliazione più dura: il discepolo è chiamato a staccarsi anche da una legittima gratificazione, cioè vedere l’evangelo accolto. Un annuncio che si avvale solo della parola e della testimonianza in favore del Regno, può essere esposto al rischio del fallimento; così è avvenuto per Gesù, così avviene per il discepolo. Il Regno però non si ferma: nonostante tutto deve essere annunciato. Il discepolo sa che, tra il rifiuto e il giudizio (cfr. vv. 13-15), il Signore pone un tempo di pazienza e di conversione e questo tempo può veramente diventare, nuovamente, la forza per riprendere l’annuncio. Il discepolo è un umile e povero operaio nella messe del Signore: questa è la sua vera gioia.

 

Preghiere e racconti

 

La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai!

Inviando gli apostoli a raccogliere la messe, [Gesù] non li invia a mietere la messe di un altro, ma ciò che egli stesso ha seminato per mezzo dei profeti. E non si limita a dar coraggio ai discepoli mostrando che il loro lavoro, il loro ministero consiste nella mietitura di una messe già pronta, ma anche li rende atti a questo ministero. […] Notate come è opportuno il momento scelto dal Signore per la loro missione. Gesù non li invia a predicare prima, quando essi avevano appena cominciato a seguirlo, ma solo dopo che l’hanno seguito e sono stati sufficientemente insieme con lui. […] Li invia a predicare e a compiere miracoli, solo dopo aver offerto loro sufficienti prove della sua potenza, sia con le parole sia con le opere (GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, Roma 19682, il, 99s.).

Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio

II Signore non solo ammaestra i dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca. Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo. Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi. Ne manda dunque due. Due sono meglio di uno, dice l’Ecclesiaste (Qo 4,9). Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà. Chi al vedere un apostolo senza bisaccia ne pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti [… ] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi. In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero. […] Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano (Mc 6,12-13). Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio. Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio (Gc 5,14). Così l’olio serve a confortare nella sofferenza. Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.

(TEOFILATTO, Commento sul vangelo di Marco 6, PG 123.548C-549C)

Il seme

La fecondità della nostra piccola vita, una volta riconosciuta e vissuta come la vita di colui che è Amato, va oltre qualunque cosa si possa immaginare. Uno dei più grandi atti di fede è credere che i pochi anni che viviamo su questa terra sono come un piccolo seme piantato in un suolo molto fertile.

Perché questo seme porti frutto, deve morire. Noi spesso vediamo o sentiamo solo l’aspetto finale della morte, ma il raccolto sarà abbondante anche se noi non ne siamo i mietitori.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 101)

 

Preghiera

A causa del tuo amore infinito, Signore,

mi hai chiamato a seguirti,

a essere tuo figlio e tuo discepolo.

Poi mi hai affidato una missione

che non somiglia a nessun’altra,

ma con lo stesso obiettivo degli altri:

essere tuo apostolo e testimone.

Tuttavia l’esperienza mi ha insegnato

che io continuo a confondere le due realtà:

Dio e la sua opera.

Dio mi ha dato il compito delle sue opere.

Alcune sublimi, altre più modeste;

alcune nobili, altre più ordinarie.

Impegnato nella pastorale in parrocchia,

tra i giovani, nelle scuole,

tra gli artisti e gli operai,

nel mondo della stampa,

della televisione e della radio,

vi ho messo tutto il mio ardore

impiegando tutte le capacità.

Non ho risparmiato niente, neanche la vita.

Mentre ero così appassionatamente immerso nell’azione,

ho incontrato la sconfitta dell’ingratitudine,

del rifiuto di collaborazione,

dell’incomprensione degli amici,

della mancanza di appoggio dei superiori,

della malattia e dell’infermità,

della mancanza di mezzi…

Mi è anche capitato, in pieno successo,

mentre ero oggetto di approvazione,

di elogi e di attaccamento per tutti,

di essere all’improvviso spostato

e cambiato di ruolo.

Eccomi, allora, preso dallo stordimento,

vado a tentoni, come nella notte oscura.

Perché, Signore, mi abbandoni?

Non voglio disertare la tua opera.

Devo portare a termine il tuo compito,

ultimare la costruzione della chiesa…

Perché gli uomini attaccano la tua opera?

Perché la privano del loro sostegno?

Davanti al tuo altare, accanto all’Eucaristia,

ho sentito la tua risposta, Signore:

«Sono io colui che segui e non la mia opera!

Se lo voglio mi consegnerai il compito affidato.

Poco importa chi prenderà il tuo posto;

è affar mio. Devi scegliere me!».

(Card. F.-X. Nguyen Van Thuan)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

 

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO (C)

 

XIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 1Re 19,16.19-21

 In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto». Partito di lì, Elìa trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.

 

 

Viene narrato in questo brano la chiamata di Eliseo, destinato a succedere a Elia. Il contesto è quello di una vita semplice, entro le preoccupazioni di ogni giorno, come farà Gesù con i suoi discepoli. L’ordine del Signore è di ungere Eliseo: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto». Il rituale dell’unzione del re viene esteso anche al profeta. Il profeta è un uomo che deve avere lo Spirito, per dire le parole del Signore e agire secondo la sua volontà. «Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello» (v. 19). È  un gesto che esprime l’idea di protezione e di appartenenza, ma anche il passaggio dei poteri e di altre forze speciali da un uomo ad un altro. Qui esprime la chiamata, la nuova dignità con cui Eliseo viene avvolto. Il possidente benestante (aveva 12 paia di buoi), ora ha una eredità, quella di non lasciare estinguere l’opera di Elia, il suo zelo per il Signore. Alla richiesta di Eliseo di andare prima a salutare i parenti, Elia risponde: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Ormai non appartiene più a quel mondo. Eliseo accoglie pienamente la nuova missione abbandonando l’attività precedente e la sua famiglia con un banchetto di carne e di buoi cucinati sul fuoco prodotto dall’aratro.

 

Seconda lettura: Galati 5,1.13-18

 

Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.  

 

 

Paolo ricorda ai cristiani di Galazia lo spirito del vangelo che avevano accolto con gioia agli inizi. Ora rischiano di ricadere nel mondo della religiosità ebraica, pensando che si dovessero ancora osservare le prescrizioni antiche per poter piacere a Dio. In questo modo veniva oscurato il dono straordinario che avevano ricevuto dalla Pasqua di Cristo. L’Apostolo richiama innanzitutto i fatti con verbi al modo indicativo: «Cristo ci ha liberati per la libertà!». La redenzione per lui è un esodo, un uscire dalla schiavitù dell’Egitto per ritornare alla libertà al seguito di Gesù Cristo. Solo lui ci può guidare al Padre. La legge mosaica aveva avuto un ruolo importante nella formazione del credente ebreo. Ora ha esaurito la sua funzione. La situazione in cui i fratelli si trovavano prima dell’annuncio del vangelo era quella di uomini carnali: «La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito» (v. 17). Vivevano sperimentando ogni giorno l’incapacità a compiere la legge dell’amore. Ora però hanno

ricevuto lo Spirito di Cristo risorto dalla morte. Hanno quindi la capacità di compiere la legge dell’amore. Allora Paolo li esorta con verbi all’imperativo: «mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri» (v. 13) e «camminate secondo lo Spirito» (v. 16). Solo lasciandosi guidare dallo Spirito il cristiano può essere libero di amare come desidera.

 

Vangelo: Luca 9,51-62

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio. Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

 

 

Esegesi

      Con questo brano inizia una nuova sezione del vangelo di Luca, il cosiddetto «racconto di viaggio» (9,51-19,27). Il contesto è un lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme, perché «non conviene che un profeta perisca fuori di Gerusalemme» (13,33). Gesù all’inizio del suo ministero era stato respinto dai nazareni (4,16ss), ora è respinto da un villaggio di Samaritani.

     Nella prima parte del brano Luca fa notare l’atteggiamento dei discepoli a confronto con Gesù (9,51-56). Essi non appaiono in sintonia con lui. Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme (v. 51): Viene richiamato l’evento centrale della missione di Gesù, il mistero pasquale. Vi è anche un riferimento del rapimento di Elia in cielo su un carro di fuoco (1Re 1,11-12). Gesù si incammina deciso, confidando nell’assistenza di Dio come il Servo di JHWH. E mandò messaggeri davanti a sé (v. 52): si tratta di Giovanni e Giacomo. Il villaggio samaritano nega l’ospitalità a Gesù. I due discepoli reagiscono come se avessero ricevuto un torto

personale e si sentono investiti dello stesso furore di Elia, che fece scendere fuoco dal cielo sui soldati del re Acazia (2Re 1). Gesù non è d’accordo con questo atteggiamento e rimprovera i discepoli. Il termine «rimproverò» significa anche «minacciò», un verbo usato per gli esorcismi.

     Un commento potrebbe essere quello inserito nel testo da alcuni manoscritti antichi: «Non sapete di che spirito siete. Il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le vite degli uomini, ma a salvarle». Gesù si sente «salvatore», il suo è tempo di salvezza e non di condanna. Si sa che la tolleranza di Gesù ha portato grandi frutti di conversione tra i samaritani dopo la pasqua (cf. At 8,8-25).

     Nella seconda parte del brano Luca parla invece della sequela di Gesù: come essere in sintonia con lui. Inserendo questo episodio nel contesto del cammino verso Gerusalemme, Luca fa emergere l’esigenza che il discepolo segua il maestro incondizionatamente sulla via della croce. Gesù forma i discepoli dicendo loro la verità. A un tale che si offre di seguirlo presenta la sua vita continuamente a disposizione di tutti. Non è possibile quindi costruirsi un nido, una dimora fissa dove porre i propri beni: «il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo » (v. 58).

     Un secondo invece è invitato direttamente da Gesù: «Seguimi» (v. 59), ma gli ricorda pure che le esigenze del Regno sono urgenti, non ammettono dilazioni, neppure di fronte ai doveri verso i genitori. Gesù ha bisogno ora di operai, non quando i genitori sono già morti. «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio» (v. 60). Se ora, nel momento della chiamata, non ci si converte e non si entra nella nuova vita del Regno, si continua a appartenere al mondo dei morti, a coloro che non hanno accolto la nuova vita. La presenza di Gesù poi segna la fine del potere della morte e perciò il discepolo non può fare lutto, ma deve gioire per esprimere così l’irruzione del regno di Dio nel

mondo.

     Un terzo poi si offre spontaneamente a Gesù come il primo. Prima però vuole salutare i propri parenti come Eliseo (1Re 19,19-21). Nessuno che mette mano all’aratro… (v. 62): L’urgenza del Regno non ammette ripensamenti o lentezze. Il discepolo è colui che non guarda mai indietro, né per rimpiangere quanto ha lasciato, né per compiacersi di quanto ha fatto seguendo il Cristo. È come Paolo «dimentico del passato e proteso verso il futuro» (Fil 3,13).

 

L’immagine della domenica

 

Campo di girasole – Moral de Hornuez (Segovia) – 2009

 

 Il seme e il frutto 

Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra

nel grembo materno

e aspetta devotamente: esso comincia a lottare,

un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole

cresce, diventa grande e forte

abbraccia con la corona verde delle sue foglie

finché tutto intero splende al sole

diventa gemma e fiorisce un fiore.

E nella fioritura, seme dopo seme,

c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.

E tu pianti nuovamente i mille semi,

e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.

Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli

abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro

guida verso casa i pensieri e pensa:

tutto ciò era nel primo seme.

Christian Morgenstern

 

Meditazione

     Cammino, sequela, viaggio, itinerario… C’è uno spostamento – quello spaziale diviene simbolo di quello esistenziale – da compiere per dirsi credenti. I brani biblici oggi sottoposti alla nostra riflessione e preghiera colgono più l’atto interiore della decisione che il cammino stesso, mettono a fuoco il primo momento dell’itinerario, l’elaborazione intima personale. Facendo peraltro emergere immediatamente, insieme a speranze e attese, difficoltà, resistenze e timori. Più che a una revisione successiva degli avvenimenti, siamo invitati a porre attenzione ai primi desideri che si affacciano alla coscienza dell’aspirante discepolo.

     È Gesù stesso il primo a porsi in questa determinazione. L’evangelista Luca afferma – segnando una svolta anche strutturale nel piano complessivo del suo intero racconto – che «prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (9,51). La vita riserva sempre numerose sorprese e con gli imprevisti ognuno di noi deve fare fin da subito i conti: saper trarre lezione e stimolo da tutto ciò è segno di maturità e realismo. Eppure, anche se le cose poi non vanno come ci si era aspettati, è necessaria una decisione anteriore e interiore che motiva e prepara alla disponibilità di ciò che… non avevamo previsto! Se Gesù, nel suo ministero pubblico, ha fino ad ora compiuto un itinerario apparentemente circolare, senza meta, ora sembra ben determinato ad assumerne una precisa. Gesù sembra abitato anche da una certa fretta: qualcosa lo urge interiormente e un luogo – Gerusalemme – sembra attrarlo a sé come una calamita. Non si tratta però di giungere al più presto in un luogo fisico – in tal caso le compagnie turistiche e aeree risulterebbero le migliori discepole del vangelo! – ma di raggiungere una più completa elaborazione interiore, così che il viaggio, con tutte le sue imprevedibili tappe, acquisti uno spessore esistenziale maggiore. Questo orientamento è tanto necessario e radicale che nemmeno le difficoltà o i fallimenti che certamente si incontreranno possono definitivamente sovvertirlo. Ci si potrà ravvede-re su alcune scelte o su certi atteggiamenti, si potrà riflettere sugli avvenimenti occorsi facendone motivo di ulteriore maturazione e adesione alla realtà, ma tutto ciò non potrà bloccare o impedire lo svolgersi del viaggio, come attesta l’esperienza in terra di Samaria immediatamente riferita (cfr. 9,52-56).

     Il cosiddetto racconto della vocazione di Eliseo e la seconda parte del brano lucano sottopongono alla nostra meditazione alcuni ‘casi storici’ di inizio del cammino di sequela del Signore. Sia che si tratti di rispondere a un appello esplicito proveniente da chi è già in cammino (cfr. 1Re 19,19-20; Lc 9,59-60) o di accogliere un richiamo interiore che si manifesta in una volontaria generosità (cfr. Lc 9,57-58.61-62), nessuno è lodato né incoraggiato; piuttosto vengono immediatamente espresse possibili prossime difficoltà o sono comunicate ulteriori esigenze del cammino stesso. In fondo, viene subito richiesto un ‘supplemento’ di libertà (cfr. Gal 5,13), quasi a visualizzare come la sequela reale è sempre al di là di ogni nostra pur buona e necessaria apertura: si potrebbe forse arrivare a dire che stare die-tro al Signore è faccenda nostra ma anche del Signore stesso, che deve aprire un ulteriore varco nella nostra adesione al vangelo. La sintesi magnifica di tutta la parola di Dio, che Paolo esprime nella seconda lettura in quel «amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14), appare subito impegnativa, esigente ma anche fortemente liberante. Sia che si tratti di rinunciare a una qualche ‘comodità’, di saper dare un ordine nuovo alle priorità della vita o di saper portare la solitudine e reggere alla durata di un impegno definitivo, è solo lo Spirito che può realizzare le nostre aspettative oltre i nostri stessi desideri. «Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste» (Gal 5,16-17). La sequela diviene questione eminentemente interiore, dove non è più possibile scaricare sugli altri, sulle vicende della vita, sugli imprevisti il proprio fallimento. Si tratta di affidarsi con totalità allo Spirito e giocarsi con quella determinazione che il Signore ci domanda e ci testimonia. «Se vi lasciate guidare dallo Spirito…» (Gal 5,18).

 

Preghiere e racconti

La chiamata di Cristo colma il cuore dell’uomo

Le letture bibliche della santa Messa di questa domenica mi danno l’opportunità di riprendere il tema della chiamata di Cristo e delle sue esigenze, tema sul quale mi sono soffermato anche una settimana fa, in occasione delle Ordinazioni dei nuovi presbiteri della Diocesi di Roma. In effetti, chi ha la fortuna di conoscere un giovane o una ragazza che lascia la famiglia di origine, gli studi o il lavoro per consacrarsi a Dio, sa bene di che cosa si tratta, perché ha davanti un esempio vivente di risposta radicale alla vocazione divina. E’ questa una delle esperienze più belle che si fanno nella Chiesa: vedere, toccare con mano l’azione del Signore nella vita delle persone; sperimentare che Dio non è un’entità astratta, ma una Realtà così grande e forte da riempire in modo sovrabbondante il cuore dell’uomo, una Persona vivente e vicina, che ci ama e chiede di essere amata.

L’evangelista Luca ci presenta Gesù che, mentre cammina per la strada, diretto a Gerusalemme, incontra alcuni uomini, probabilmente giovani, i quali promettono di seguirlo dovunque vada. Con costoro Egli si mostra molto esigente, avvertendoli che “il Figlio dell’uomo cioè Lui, il Messia non ha dove posare il capo”, vale a dire non ha una propria dimora stabile, e che chi sceglie di lavorare con Lui nel campo di Dio non può più tirarsi indietro (cfr Lc 9,57-58.61-62). Ad un altro invece Cristo stesso dice: “Seguimi”, chiedendogli un taglio netto dei legami familiari (cfr Lc 9,59-60). Queste esigenze possono apparire troppo dure, ma in realtà esprimono la novità e la priorità assoluta del Regno di Dio che si fa presente nella Persona stessa di Gesù Cristo. In ultima analisi, si tratta di quella radicalità che è dovuta all’Amore di Dio, al quale Gesù stesso per primo obbedisce. Chi rinuncia a tutto, persino a se stesso, per seguire Gesù, entra in una nuova dimensione della libertà, che san Paolo definisce “camminare secondo lo Spirito” (cfr Gal 5,16). “Cristo ci ha liberati per la libertà!”  scrive l’Apostolo e spiega che questa nuova forma di libertà acquistataci da Cristo consiste nell’essere “a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,1.13). Libertà e amore coincidono! Al contrario, obbedire al proprio egoismo conduce a rivalità e conflitti.

(Le parole che Benedetto XVI ha pronunciato questa domenica in occasione della recita dell’Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in piazza San Pietro, domenica, 27 giugno 2010).

Un cuore puro

 “Ah, frate Leone, credimi  riprende Francesco  non preoccuparti tanto della purezza della tua anima. Volgi il tuo sguardo a Dio, ammiralo, gioisci di ciò che è nella sua santità; ringrazialo perché esiste. Questo significa, o mio giovane fratello, avere un cuore puro. E quando guardi a Dio in questo modo, non far più ritorno a te stesso, non chiederti più a che punto è il tuo rapporto con Dio. La tristezza di non essere perfetto e di scoprirsi peccatore è ancora un sentimento umano, troppo umano. Bisogna puntare lo sguardo più in alto, sempre più in alto; c’è Dio, ci sono l’immensità di Dio ed il suo inalterabile splendore. Il cuore puro è quello che non smette mai di adorare il Dio vivente e vero, che si interessa in modo profondo alla vita stessa di Dio e che è in grado, in mezzo a tutte le sue miserie, di vibrare dinanzi all’eterna innocenza e all’eterna gioia di Dio. Un cuore così è allo stesso tempo nudo e vestito: gli basta che Dio sia Dio. In questo soltanto trova tutta la sua pace, tutta la sua santità”.

“Dio però pretende da noi sforzi e fedeltà”, fa notare frate Leone.

“Sì, indubbiamente” replica Francesco; “ma la santità non è una realizzazione di sé e neppure una pienezza che ci si offre. È innanzitutto un vuoto che scopriamo e che accettiamo e che Dio viene a riempire nella misura in cui ci apriamo alla sua pienezza. Vedi, il nostro nulla, se lo accettiamo, diventa lo spazio libero in cui Dio può ancora creare. Il Signore non permette a nessuno di rubargli la gloria: egli è il Signore, l’Unico, il solo che è santo. Eppure prende per mano il povero, lo tira fuori dal fango e lo fa sedere tra i principi del suo popolo perché osservi la Sua gloria. Dio diventa così il cielo della sua anima. Contemplare la gloria di Dio, fra’ Leone, scoprire che Dio è Dio, eternamente Dio, al di là di quello che siamo o che possiamo essere, gioire pienamente di ciò che è, estasiarsi di fronte alla sua eterna giovinezza e ringraziarlo perché esiste, perché è infallibile nella sua misericordia: questa è l’esigenza più profonda di quell’amore che lo Spirito del Signore non smette mai di diffondere nei nostri cuori. Questo vuol dire avere un cuore puro. Ma tutta questa purezza non si raggiunge attraverso sforzi e sacrifici.”

“Come, allora?” chiede Leone.

“Bisogna semplicemente rinunciare a tutto di sé. Spazzare via ogni cosa, anche la stessa acuta percezione della nostra miseria. Fare tabula rasa, accettare di essere poveri, rinunciare a tutto ciò che è pesante, al peso stesso dei nostri errori. Vedere soltanto la gloria del Signore, lasciarsene irradiare. Dio è: questo basta. Il cuore diventa allora leggero, si sente diverso, come una rondine persa nello spazio immenso ed azzurro. È libero da ogni preoccupazione, da ogni inquietudine; il suo desiderio di perfezione è diventato pura e semplice volontà di Dio”.

(Eligio Leclerc, Sapienza di un povero, Bibl. Francescana, MI ’82).

Rinnega se stesso chi ama se stesso

Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […] «Rinneghi se stesso».

In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.

Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).

Sulla via dell’amore

Quello che fa avanzare sulla via è l’amore di Dio e del prossimo. Chi ama corre, e la corsa è tanto più alacre quanto più è profondo l’amore. A un amore debole corrisponde un cammino lento, e se addirittura manca l’amore, ecco che uno si arresta sulla via, e se rimpiange la vita mondana, è come se volgesse indietro lo sguardo, non guardando più alla patria.

Non giova che uno si metta sulla via e poi invece di camminare torni indietro. Se uno si è posto sulla via – cioè, fuori di immagine, si è fatto cristiano cattolico – e guarda indietro volgendo ancora il suo amore al mondo, non fa che ritornare là donde era partito.

(AGOSTINO D’IPPONA, Discorso 346/B,2).

Il modo autentico di vivere

La carità non è anzitutto l’amore del prossimo o l’amore di Dio: è questa situazione oggettiva di essere nella comunione, nell’alleanza, che poi si svolge in tutti i rapporti, in tutte le situazioni, in tutte le esigenze che fanno l’esistenza di un uomo. Per cui, dal punto di vista cristiano, non c’è alternativa tra comunione con Dio e comunione con il prossimo; c’è piuttosto bisogno di lasciarsi prendere, di lasciarsi ‘ferire’ da tutte le esigenze di questa comunione e di non darla né come assolutamente ovvia, considerandola come un dato di fatto per cui ci si occupa di altre cose, né di renderla senza significato, come se il significato fosse piuttosto nel fare questa o quest’altra cosa, nell’impegnarsi in questa o in quest’altra situazione […]. Dunque, non c’è l’uomo e tanti modi di entrare in comunione con le persone; c’è l’uomo definito da questa comunione che assume il modo autentico di vivere e tradurre tutti i rapporti; assume cioè il modo di Gesù Cristo. Come a dire che c’è un modo autentico di vivere, di assumere la vita e la morte, di soffrire, di godere, di amare, di operare, di parlare, di agire, di impegnarsi, di non impegnarsi, di tacere: e questo modo è quello di Gesù Cristo (G. MOIOLI, Va’ dai miei fratelli (Gv 20,17), Milano 1996, 39s.).

La rinuncia a se stessi

Quando una situazione umana ci chiede una totale rinuncia a noi stessi, istintivamente cerchiamo il compromesso o semplicemente imbocchiamo la strada della fuga, ci accomuniamo agli apostoli, che anch’essi sono fuggiti di fronte al realismo della Passione di Gesù. A tanti livelli e su tanti piani dobbiamo cercare di smascherare le forme di fuga che caratterizzano il nostro preteso “servizio agli altri”. Quante volte a livello della famiglia, ci lasciamo andare alla ricerca soltanto della gratificazione dell’affermazione di noi stessi e non accettiamo le persone che ci sono vicine così come sono nella loro realtà, le vorremmo sempre diverse e ci arrovelliamo? Quante volte nell’ambito professionale ci lasciamo trascinare solo dall’interesse e non cerchiamo di rendere un servizio fino in fondo, servizio che ci chiede di uscire da noi stessi di prendere parte in qualche modo alla croce e di partecipare alla sua forza rivelatrice? Quante volte di fronte alle richieste che i nostri fratelli avanzano, noi manifestiamo disagio, stizza, rifiuto: tante realtà semplici della nostra vita quotidiana in cui Gesù dalla croce ci chiede di operare una profonda conversione, di metterci davvero in ginocchio davanti alla croce per coglierne il realismo e la fedeltà che cambiano la vita.

Innanzitutto, si rimane colpiti dal fatto che, nel Vangelo di Marco, la descrizione dei miracoli compiuti da Cristo sfuma, fino a scomparire del tutto, quanto più ci si avvicina alla Croce: è qui, dove Gesù non salva se stesso, che anche i miracoli muoiono. Se i miracoli sono i segni tangibili della potenza di Dio, la Croce ci dice in modo chiaro che questa potenza si manifesta soprattutto nell’amore e nel dono che Cristo fa di sé. Per Marco, il vero discepolo è colui che sa riconoscere il Figlio di Dio inchiodato sulla croce per la nostra salvezza (15,39).

«La croce è diventata la suprema cattedra per la rivelazione della sua nascosta e imprevedibile identità; il volto dell’amore che si dona e che salva l’uomo condividendone in tutto la condizione, escluso il peccato (Ebrei 4,15). La Chiesa non lo dovrà mai dimenticare: sarà questa la sua strada a servizio dell’amore e della rivelazione di Dio agli uomini».

(CVMC 14).

 Preghiera

Soltanto la carità può dilatare il mio cuore.

Gesù, da quando questa fiamma dolce mi consuma,

corro con gioia sulla via del comandamento nuovo.

Voglio correre in essa fino al giorno felice,

nel quale potrò seguirti negli spazi infiniti

cantando il tuo cantico nuovo,

quello dell’amore.

(TERESA DI LISIEUX, Manoscritto C).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

 

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XIII DOM TEMP ORD (C)

XI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 2Samuele 12,7-10.13

In quei giorni, Natan disse a Davide: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro. Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Urìa l’Ittìta, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammonìti. Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Urìa l’Ittìta». Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai».

 

 

Il pentimento di Davide, riportato dal brano, è la tappa conclusiva della storia del suo peccato e dell’intervento di Dio che lo guida verso il pentimento. Ciò che Davide aveva commesso – l’adulterio, il tentativo di nasconderlo, la decisione di far morire Uria, l’accoglienza di Betsabea nella reggia – era stato un male agli occhi del Signore. Solo l’intervento di Dio poteva ristabilire nella sua bellezza e potenza vitale la relazione personale che si era rotta tra i due. E Dio aiuta Davide a ritornare in se stesso. «Lo libera facendo presa, nella sua infinita bontà e finezza psicologica, sui suoi sentimenti migliori: la lealtà, il bisogno di difendere la giustizia […]. Rivolge il suo appello non a Davide peccatore, bensì a Davide giusto, leale, e per questo riesce» (C.M. Martini).             

     Il profeta Natan, attraverso un racconto semplice ricostruito sulla trama della vicenda di Davide, aiuta il re a rileggere, con distacco e oggettività, la propria vicenda personale, quindi lo porta a rientrare in sé e lo restituisce alla sua personale verità con un coraggioso passaggio: «Tu sei quell’uomo!», proprio quello che tu hai giudicato meritevole di morte. A questo punto prende Davide come per mano e lo aiuta a ripercorrere tutta la sua storia segnata da tanti interventi di benevolenza divina.       

     La sintesi riportata richiama il testo di Isaia sulle cure del Signore per la sua vigna e tutta la serie dei benefici di Dio in favore del suo popolo che rispose con ingratitudine e infedeltà (cfr. Is 5,1-7). Le parole di Natan giungono al cuore dell’uomo Davide che non si difende, ma confessa: «Ho peccato contro il Signore!». Quasi un’eco del «sono nudo» di Adamo (Gen 3,10)! Questa confessione restaura tutta la statura spirituale di Davide e lo libera da quel groviglio di menzogna e infedeltà nel quale si era sempre più intricato volendosi liberare da solo. Il pentimento di Davide è grande: c’è tutto il suo cuore contrito, c’è l’infrangersi di tutte le sue resistenze e un’esperienza molto concreta di abbassamento interiore. Su questo volto dell’umiltà umana – non acquisita, ma subita e accolta – scende il perdono del Signore, che libera Davide dalla morte: «Tu non morirai».       

 

Seconda lettura: Galati 2,16.19-21  

 

Fratelli, sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno. In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano. 

 

Lo stralcio della lettera ai Galati ci offre una sintesi del ‘vangelo’ di Paolo. Potremmo rileggerlo a partire dal suo nucleo centrale: «Cristo vive in me», per trovare qui espressa l’autentica vita cristiana e la profonda esperienza religiosa di Paolo: una vita vissuta al di sopra dell’io naturale, segnata dalla presenza e irruzione di Dio nell’uomo. È la vita nuova che trae la sua origine dal battesimo e la sua risorgente energia dall’adesione fiduciosa della fede nell’amore con cui Gesù abbraccia ogni uomo. Ecco il battesimo: morire alla legge, cioè sottrarsi alla sua influenza, al suo dominio, e morire dunque al passato, all’uomo esteriore, al peccato, per vivere per Dio, cioè consacrato a Dio. Ed ecco la fede: l’uomo viene giustificato, cioè reso moralmente retto davanti a Dio e capace di agire come tale, non dalle opere della legge, ma dalla salvezza operata da Gesù Cristo. La fede è – per così dire – la porta di accesso a Gesù salvatore; è quell’atteggiamento con cui l’uomo accoglie la rivelazione divina manifestata in Gesù Cristo e risponde dedicando a lui tutta la propria vita. Questa giustificazione è dunque un dono gratuito di Dio che cambia dal di dentro la vita dell’uomo entrato in contatto con Cristo mediante la fede e il battesimo.

     In virtù di questo contatto tra Cristo e il credente si opera come uno scambio reciproco, una simbiosi. È la vita di Cristo che si realizza nel credente, ma non nel senso che Cristo diventa il soggetto delle azioni umane. Il soggetto resta sempre il credente, con la sua vita di carne, tutta umana, con il peso delle sue debolezze, fragilità, della sua miseria, ma sulla quale si innesta un principio di vita superiore, che è Cristo stesso. La comprensione di questa verità operata dalla fede nell’inabitazione di Cristo trasforma, rinnovandola, la vita dell’uomo, fino a compenetrarne la coscienza psicologica.

 Vangelo: Luca 7,36-8,3

 

In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.             

 

Esegesi

     Nel brano evangelico due personaggi si impongono alla nostra attenzione interiore: Simone, il fariseo, simbolo dell’uomo giusto, autosufficiente, controllato, che rispetta la legge ma ha il cuore indurito all’amore, e una peccatrice la cui storia ci è ignota, mentre ci è noto il suo stato interiore di conversione, il suo cuore pentito, frantumato.

     I gesti di questa donna racchiudono tutte le sfumature della gratitudine. L’andare diretta verso Gesù, il prostrarsi ai suoi piedi (gesto tipico di chi ha visto salvata la propria vita), lo sciogliersi dei capelli in segno di umiliazione, il versare il profumo (segno di gioia, di abbondanza, di amore e consacrazione), e poi le lacrime e i baci: tutte espressioni che parlano di accoglienza e di vita. Questa donna dice così l’autentico stare dell’uomo davanti a Dio: nessuna giustificazione e tanta gratitudine; pronuncia così l’amen della sua fede nel perdono di Gesù e del suo amore che accetta di lasciarsi amare.

     Tra il fariseo e la peccatrice sta Gesù, il vero profeta, che conosce i disegni di Dio e sa leggere nel cuore degli uomini. Gesù vede il disprezzo e la freddezza del cuore di Simone, il suo sentirsi giusto e credere che l’amore di Dio può essere meritato. Il suo peccato è tutto qui: voler meritare l’amore di Dio che è per essenza pura gratuità. Potremmo chiamarlo «un peccato di prostituzione nei confronti di Dio» (S. Fausti). Nel cuore della donna, probabilmente una prostituta, Gesù coglie invece l’apertura e l’accoglienza al dono dell’amore che si manifesta pienamente nel perdono. La donna si lascia amare, cioè perdonare, e il suo amare di più è effetto e causa insieme del perdono. Amore e perdono si alimentano a vicenda: la donna ama in quanto perdonata e, in quanto ama, è aperta ad accogliere il perdono.

     Il cristianesimo è questo amore per Gesù, la fede che salva è apertura alla salvezza portata da Gesù. La conversione più profonda è dunque il semplice riconoscersi bisognosi del perdono. La donna si pone come uno specchio non solo, per Simone, ma anche per tutti noi ogni volta che abbiamo difficoltà a piegarci fino ai piedi di Gesù: solo chi è piccolo e a terra può toccare i piedi del messaggero che porta il lieto annuncio della salvezza e della pace.

L’immagine della domenica

 

TU CI AMI PER PRIMO, SEMPRE

Noi parliamo di te

come se ci avessi amati per primo

una volta sola.

Invece, continuamente,

di giorno in giorno,

tu ci ami per primo.

Quando al mattino mi sveglio

ed elevo il mio spirito a te,

tu sei il primo,

tu mi ami per primo.

Se mi alzo all’alba

ed immediatamente elevo a te

il mio spirito e la mia preghiera,

tu mi precedi.

Tu mi hai già amato per primo.

È sempre così.

E noi ingrati,

che parliamo come se

tu ci avessi amato per primo

una volta sola.

(Sören Kierkegaard)

Cascata delle Marmore (Umbria) – 2009

 

 Meditazione

     «Ho peccato contro il Signore!… Il Signore ha rimosso il tuo peccato» (2Sam 12,13). Questo essenziale dialogo tra Davide e il profeta Natan, in cui sono messi di fronte l’uomo peccatore e il Dio ricco di misericordia, potrebbe riassumere il tema che attraversa la liturgia della Parola di questa domenica. E infatti, quasi come una eco dell’annuncio rivolto dal profeta al re peccatore, ci giungono le parole che chiudono il racconto della peccatrice perdonata da Gesù, tramandatoci dall’evangelista Luca: «I tuoi peccati sono perdonati… va’ in pace» (Lc 7,48.50).

L’accostamento di questi due testi della Scrittura, proposto dalla liturgia, ha realmente la forza di una rivelazione del volto di Dio che permette all’uomo di ritrovare la verità della sua vita nell’orizzonte infinito del perdono che ricrea e che apre quel cammino nella pace che il peccato aveva interrotto. Lo sguardo di compassione che Dio posa sull’uomo che ha il coraggio di riconoscere la sua colpa (come Davide e come la donna peccatrice) è più forte della morsa del peccato e solo chi sperimenta su di sé questo sguardo di misericordia donato nella assoluta gratuità, può intraprendere l’avventura di un amore senza più riserve. È il paradosso di un amore che sgorga dal perdono e di un perdono che può essere donato e accolto solo da chi ama. Gesù, rivolgendosi a Simone, ma parlando di quella donna che con i suoi gesti ha rivelato tutta la sua miseria e tutto il suo amore per Lui, dice: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché molto ha amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (Lc 7,47). Chi non ha il coraggio di riconoscersi nella estrema nudità e fragilità in cui l’esperienza del peccato lo pone di fronte al Dio infinitamente compassionevole, non riuscirà mai ad entrare nello spazio della gratuità; di fronte agli altri sarà come il fariseo Simone, duro nel giudizio, illuso di saper discernere il cuore dell’uomo, ma di fatto cieco e incapace di guardare l’altro con occhi di misericordia.

     Il racconto di Luca, sul quale ci soffermiamo brevemente, è davvero una icona da contemplare. Si resta profondamente colpiti dai contrasti che caratterizzano la dinamica di questo brano evangelico: una giustizia e una rettitudine che non riescono a varcare la soglia della gratuità (il fariseo), un grande peccato che si trasforma in un grande amore, parole non dette e parole sussurrate dietro le quali l’uomo si nasconde, e gesti forse ambigui ma attraverso i quali si ha il coraggio di compromettersi e di esprimere tutta la forza dell’amore. E poi in questo brano tutto è eccessivo: il peccato, il perdono, l’amore, i gesti, i silenzi, gli sguardi. Veramente si deve riconoscere che Luca ha saputo esprimere stupendamente il paradosso della gratuità e soprattutto il paradosso di una conversione che sa trasformare un desiderio appassionato in una porta aperta all’amore di Cristo.

Con un linguaggio sorprendente, Giovanni Climaco così descrive questa ‘conversione’ dall’eros all’agape, questa apertura della dimensione affettiva, attraverso cui noi amiamo, alla charitas Christi di cui è protagonista la peccatrice: «Ho visto anime impure che si gettavano nell’eros fisico fino al parossismo. È stata proprio la loro esperienza di tale eros a portarli al capovolgimento interiore. Allora concentrarono il loro eros sul Signore. Oltrepassando il timore, cercavano di amare Dio con un desiderio insaziabile. Ecco perché Cristo, parlando della casta prostituta, non ha detto che ella aveva avuto paura, ma che aveva molto amato, e che aveva potuto superare agevolmente l’amore con l’amore» (Scala del paradiso, 5,54).

     La forza di questo racconto sta nel contrasto tra due modi di rapportarsi a Dio e agli altri, espressi proprio dagli atteggiamenti del fariseo che invita a pranzo Gesù e della peccatrice che improvvisamente irrompe nella sala e compie verso Gesù dei gesti imbarazzanti e inauditi per Simone e gli altri invitati. Questa donna è conosciuta come una peccatrice (7,37) e ciò che compie sembra essere risucchiato in questa situazione di vita moralmente scandalosa. Così appare allo sguardo di Simone. E infatti quella donna, senza dare alcuna spiegazione, senza presentarsi, senza dire una parola, inizia a compiere dei gesti così inau-diti da gettare tutti nello sconcerto. Tutti, ma non Gesù, il quale la lascia fare, perché quella donna è venuta per lui ed è lui che vuole incontrare. Ogni suo gesto sprigiona il desiderio di questo incontro. Stando «dietro presso i piedi di Gesù» (v. 38), quella donna sembra quasi voler deporre tutta la miseria della sua vita ai piedi di chi ha la forza di risollevarla. E «piangendo cominciò a bagnarli di lacrime» (v. 38): quelle lacrime che dai suoi occhi scendono sui piedi di Gesù sono le lacrime di chi finalmente ha saputo porsi di fronte alla verità della sua vita e ora può vivere un momento di liberazione. E poi si mette ad asciugare i piedi di Gesù «con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (v. 38): le lacrime, segno del pentimento, confondendosi con il profumo dell’unguento, diventano il segno più limpido del suo amore per Gesù. Questa immagine eccessiva di amore turba il fariseo Simone e quasi in contrasto con la passione espressa dalla donna nei suoi gesti, c’è la freddezza nel giudizio che quest’uomo, giusto e retto, esprime nel suo cuore: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!» (v. 39). Parole di condanna non solo per la donna, ma anche per Gesù: è un profeta che di fatto non sa discernere e donare il giudizio di Dio!

     È sorprendente notare come tutto ciò che quella donna compie è sotto lo sguardo di ognuno, mentre il giudizio di Simone è formulato nel segreto, nel cuore. Eppure, ad un certo punto tutto viene messo allo scoperto e rivelato nella verità. E questo avviene quando Gesù, attraverso una parabola, risponde a quei tanti interrogativi e giudizi che Simone (e forse anche tutti gli altri invitati) aveva formulato nel cuore e non aveva osato far affiorare sulla labbra. «Simone, ho da dirti qualcosa….» (v. 40): nel momento in cui Gesù pronuncia questa parola e poi racconta la storia dei due debitori, uno con un ‘grande’ debito da restituire e uno con un ‘piccolo’ debito, due debitori ugualmente perdonati, ecco che Simone è obbligato a confrontarsi con la donna, a convenire il suo sguardo su di lei, a vedere nei gesti che ha fatto il segno di un amore senza limiti, a misurare su di essi la piccolezza della sua giustizia, ad allargare gli orizzonti del suo sguardo per andare oltre le apparenze, a cambiare il suo modo di interpretare l’agire di Dio verso il peccatore. È lui il piccolo debi-tore che è rimasto intrappolato solo nella logica del dovere e non ha saputo, come quella donna, avventurarsi nello spazio senza limiti della gratuità, della sovrabbondanza e dell’eccesso dell’amore. Queste stupende parole di Isacco il Siro possono offrire un commento alle parole che Gesù rivolge al fariseo (cfr. vv. 44.47): «La giustizia è la rettitudine di una eguale misura che dà a chiunque in modo eguale, che non adatta la sua retribuzione a nulla, badando a ciò che ha sotto agli occhi. La misericordia invece, è una passione mossa dalla bontà, che si piega su tutto con indulgenza. Non retribuisce colui che merita il male, né colui che merita il bene, ma dà in abbondanza il doppio… È misericordioso colui che fa misericordia al suo prossimo, non solo con i doni, ma che, anche quando sente e vede qualcosa che causa sofferenza a qualcuno, soffre nel suo cuore un incendio; e ancora, quando riceve uno schiaffo da suo fratello, non si ribella e non gli rende il contraccambio neppure con la parola, ma ne soffre nel suo pensiero».

     «Simone, ho da dirti qualcosa…» (v. 40). Ciò che avviene in quella sala, attorno a quella tavola, è la parabola che Gesù vuole ora raccontare anche a ciascuno di noi. E ce la racconta perché anche noi abbiamo bisogno di comprendere che cosa significano perdono e misericordia, che cosa significano gratuità e rischio di amare, giustizia e compassione. Questa parabola ci è narrata per rispondere ai tanti interrogativi del nostro cuore: come Simone anche noi tratteniamo nel profondo del nostro cuore pensieri e domande che temiamo di porre al giudizio del Signore Gesù, per paura di essere smentiti. Gesù ce la racconta per aprire il nostro sguardo interiore a discernere ciò che va oltre le apparenze, per renderci capaci di perdono e di misericordia. Gesù ci racconta questa parabola perché anche noi, troppe volte, siamo come Simone.

 Preghiere e racconti

Presenta a Dio una preghiera fatta carne

L’amore di Dio, uscito alla ricerca dei peccatori, ci è annunciato da una donna peccatrice. Rivolgendosi a lei, Cristo invita all’amore tutti noi; in lei attirava al suo perdono tutti i peccatori.

Parlava a lei soltanto, ma invitava la creazione intera a divenire partecipe della sua misericordia. Nessun altro l’ha convinto a tenderle la mano perché si accostasse al perdono. Soltanto il suo amore per colei che ha plasmato l’ha convinto […]. Il pastore è disceso dal cielo verso la pecora perduta, per riprendere, in casa di Simone, colei che il lupo astuto aveva rapito. A casa di Simone ha trovato colei che cercava […]. La peccatrice con le sue parole prega Gesù come suo creatore. Le sue parole, benché non siano state scritte, si lasciano indovinare dai suoi gesti. Colei che con le sue lacrime bagna i piedi di Gesù, li asciuga con i suoi capelli e versa su di essi un profumo di grande valore, non può che dire parole corrispondenti ai suoi gesti. Presenta a Dio una preghiera fatta carne; manifestando la sua umiltà, testimonia la sua fiducia in lui […]. Gesù non parla subito e, quando parla, dice una parola soltanto, ma con questa parola, distrugge il peccato, annienta le colpe, scaccia la trasgressione, accorda il perdono, sradica il peccato, fa germogliare la giustizia. Il suo perdono apparve all’improvviso dentro alla sua anima e ne scacciò le tenebre del peccato; la donna fu guarita, si riprese e, risanata, ritrovò la forza […]. E perché tutto questo accada anche a te, renditi conto che il tuo peccato è grande, ma che disperare del perdono perché il tuo peccato ti sembra troppo grande è bestemmiare contro Dio e fare torto a se stessi. Il Signore ti ha promesso di perdonare i tuoi peccati per quanto grandi siano e tu ribatti che non gli credi, gli dici:  «II mio peccato è troppo grande perché tu lo perdoni. Tu non puoi guarirmi dalle mie malattie»? Fermati e grida con il profeta: «Signore, ho peccato contro di te» (2Sam 12,13) e subito ti risponderà: «Ti ho perdonato il tuo peccato; non morirai».

(Omelie anonime sulla peccatrice 1,4.26. 28, in L’Orient syrien 7 (1962), pp. 179; 189; 193; 195).

Naturale e artificiale

La nostra vita è vita davvero non quando conosciamo la data esatta della nostra morte ma quando ne accettiamo l’esistenza come dato fondante della nostra complessità. La nostra vita è davvero vita non quando livelliamo la diversità nel nome di un malinteso bene comune, ma quando diventiamo consapevoli che la nostra verità non sta nell’avere ma nell’essere, nel costruire il nostro destino esercitando la vita contro la morte, l’accoglienza invece del rifiuto, la compassione invece dell’intolleranza, la gratitudine al posto del risentimento.

Per essere grati, dobbiamo però rompere l’idolatrica maschera che genera sterilità e risentimento.

Per essere grati, dobbiamo fare un passo indietro e provare stupore per il puro fatto di esistere, fuori dal mistero dell’oscurità.

Per essere grati, dobbiamo imparare a purificare il nostro cuore da tutte le sozzure, da tutti gli idoli, liberarlo dall’ego onnipresente perché al suo posto si possa accasare la Sapienza.

Per essere grati, dovremmo raggiungere quel punto in noi stessi in cui il finito tocca l’infinito e provare nostalgia per il bene racchiuso nell’Alleanza.

Per essere grati, dobbiamo riconoscere la vita come dono e come immensa potenza del sacro presente nel mondo.

Lo sguardo della gratitudine è uno sguardo che non teme le emozioni più profonde, al contrario trova proprio nel viverle il suo vero compimento. Non c’è ritrosia, non frigidità nella gratitudine ma, piuttosto, abbondanza di lacrime. Quanta bellezza abbiamo sprecato, quanta armonia abbiamo distrutto, quanta misericordia non abbiamo vissuto! Eppure era lì, davanti a noi, sarebbe bastato aprire gli occhi, le orecchie, mettersi umilmente seduti in ascolto: ascoltare il silenzio e, con il silenzio, tutto ciò che al suo interno si nasconde.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 112-113).

Lasciatela libera

Lasciatela libera di fare quello che desidera, perché è l’amore che la ispira.

Lasciatela libera: lei mi conosce attraverso l’amore e sa ciò che desidero e ciò di cui ho bisogno.

Lasciatela libera di annunciarmi: è piena di amore e di entusiasmo…

Lasciatela libera: lei realizzerà con me soltanto opere di bellezza, opere che saranno un’effusione di amore. In realtà ho bisogno solo di questo ministero, un bisogno urgente. Perché il mondo per il quale io ho dato la vita muore senza festa e senza acqua, senza luogo di adorazione e senza canto, senza danza e senza colori, senza speranza e senza giardino.

E’ di questo ministero che ho bisogno: non avete letto che, mentre asciugava i miei piedi con i suoi capelli, tutta la casa si riempiva di profumo?

Ad essa ho inviato il mio Spirito perché mi chiami, mi desideri, perché attenda con ansia la mia venuta. Lasciatela, lasciatela libera di fare.

(Maria Teresa Porcile Santiso, La donna spazio di salvezza, EDB, Bologna 1996, 348-349).

Il valore della gratuità

«A sprecare la vita per Cristo, cioè il valore della gratuità, così lontana dall’utilitarismo corrente.

In un epoca in cui prevalgono la produttività e l’efficientismo, il valore della gratuità non è tramontato. Come a Betania una donna ruppe il vaso d’alabastro per versare il profumo sul capo di Gesù, così il certosino “spreca” la sua vita per Cristo e il profumo di questa vita donata si può diffondere in tutta la Chiesa e nel mondo.

…Tutti si scandalizzano: il profumo poteva essere venduto, il ricavato offerto ai poveri. Ma quel gesto apparentemente illogico è in realtà una testimonianza di amore. E perciò Gesù dice a chi la rimprovera: “Lasciatela in pace, perché tormentarla? Questa donna ha fatto una buona azione verso di me”.

L’amore vero non conosce misure e non ha la preoccupazione del contraccambio. Un amore che pretende un corrispettivo è un amore verso se stessi più che verso l’altro. L’amore verso Dio non può che essere gratuito, perché Lui ci ama gratuitamente.

Cosa c’è di più utile e di più giusto per l’uomo se non amare Dio?

La vera utilità, per lui, non è ciò che si vede e che si può ottenere subito, ma l’amore per Dio, perché Lui è l’unico bene che può riempire il cuore dell’uomo. “Donarsi senza aspettare nulla in cambio, questo è il nostro ideale. Perché la nostra vita vuol essere un dono d’amore e l’amore autentico è sempre gratuito”».

(Enzo Romeo, I solitari di Dio. Separati da tutto, uniti a tutti, Catanzaro/Roma, Rubbettino/Rai-Eri, 2005, 15).

Il profumo che deve riempire la casa

L’unguento che Maria spande è il simbolo della comunione nuziale con Gesù espresso dalla comunità cristiana. Celebriamo la chiamata delle nostre comunità cristiane, rappresentate da Maria di Betania, alla comunione totale con Gesù, datore di vita. È lui che trasforma quello che sarebbe dovuto essere il banchetto funebre in memoria di Lazzaro in un banchetto di gioia. È lui che tramuta il fetore insopportabile di un morto “quadriduano” nel profumo che inonda la casa di letizia. È lui che protesta contro tutti i Giuda della terra, i quali considerano sprecato l’unguento prezioso della intimità con Dio e oppongono i poveri al Signore. È lui che rifiuta la “praticità” di tutti coloro che preferiscono l’efficienza del denaro a ogni estasi di amore, e riducono malinconicamente in valuta monetaria anche ciò che non ha prezzo. È lui, insomma, che dobbiamo ricercare nella preghiera d’abbandono, nell’esperienza contemplativa e nella consuetudine di vita.

Il Signore ci preservi dall’errore di Giuda il quale, insensibile al profumo del nardo, avverte solo il tintinnare dei soldi, e, invece che percepire la lucentezza dell’olio, si lascia sedurre dallo scintillo dell’argento. Qual è questo profumo d’unguento di cui dobbiamo riempire la casa, e qual è questo buon profumo di Cristo che dobbiamo diffondere nel mondo? Il profumo che deve riempire la casa è la comunione. Naturalmente, come quello comprato da Maria di Betania, l’olio della comunione ha un prezzo carissimo. E noi dobbiamo pagarlo, senza sconti, con tanta preghiera, anche perché non è un prodotto commerciale in vendita nelle nostre profumerie, né è frutto dei nostri sforzi titanici. È dono di Dio che dobbiamo implorare senza stancarci. Ma l’otterremo, ne sono certo; e il suo profumo riempirà tutta la nostra Chiesa”.

(A. Bello, Lessico di comunione, Terlizzi, 1991, 69-75).  

Gli idoli

Un papà aveva passato la cera sulla carrozzeria dell’automobile e ora la strofinava accuratamente per renderla splendente. Il figlio lo aiutava, passando lo straccio sui paraurti.

“Vedi, ragazzo mio, l’auto è un capitale della famiglia. Dobbiamo dedicarle cure, attenzioni e tempo” diceva il padre.

“Certo, papà”.

Un momento di silenzio.

“Allora io non sono un capitale della famiglia” mormorò piano il figlio.

“Perché?”

“Tu non hai mai tempo per me!”

Da’ gratuitamente

«Il tuo amore, in quanto viene da Dio, è permanente. Puoi reclamare il carattere permanente del tuo amore come un dono di Dio. E puoi dare questo amore permanente agli altri. Quando gli altri cessano di amarti, non devi cessare di amarli. A livello umano, i cambiamenti possono essere necessari, ma a livello del divino tu puoi rimanere fedele al tuo amore.

Un giorno sarai libero di dare un amore gratuito, un amore che non chiede niente in cambio. Un giorno sarai anche libero di ricevere un amore gratuito. Spesso l’amore ti viene offerto, ma tu non lo riconosci. Lo metti da parte perché rimani fissato nell’idea di riceverlo dalla medesima persona alla quale l’hai dato.

Il grande paradosso dell’amore è che proprio quando hai rivendicato il fatto che sei il diletto figlio di Dio, hai posto dei confini al tuo amore, e quindi hai contenuto i tuoi bisogni, è allora che cominci a crescere nella libertà di dare gratuitamente».

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Queriniana, Brescia. 2005, 27-28).

La propria interiorità

A proposito di differenza verso se stessi, sono celebri le spietate autoanalisi di sant’Agostino che nelle Confessioni si dichiara “terra di miseria” (regio egestatis), dice di “provare disgusto” di se stesso (displicere mibi), e non teme di esplicitare questo suo sentimento dicendo che la sua anima, “coperta di piaghe, si proietta fuori di sé, miseramente bramosa di sfregarsi al contatto con le cose sensibili […]. Inquinavo così la fonte dell’amicizia con le sozzure della concupiscenza e ne oscuravo il candore con le tenebre della libidine, e tuttavia, sporco e volgare, smaniavo dalla vanità di apparire elegante e raffinato”. Ecco di che cosa è capace il sé, non solo di sporcarsi ma anche di pretendere di essere pulito. Ancora Agostino: “La volontà traviata genera la passione, e la soggezione alla passione genera l’abitudine, e il cedimento all’abitudine genera la necessità. Con questa specie di anelli agganciati l’un l’latro – perciò ho parlato di catena – mi teneva avvinghiato una dura schiavitù”.

Prima di Agostino era stato l’apostolo Paolo a presentare un severo giudizio sulla propria interiorità, in un brano che è opportuno citare diffusamente perché ha segnato nel profondo la storia della coscienza occidentale: “Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me” (Romani 7,15-21).

(Vito MANCUSO, La vita autentica, Milano, Raffaello Cortina Ed., 2009, 105-106)

Preghiera

Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.

Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà. Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre. Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di essere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza. Tu mi ripeti, Gesù, che proprio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.

Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

XI DOMENICA TEMPO ORDINARIO (C)

X DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 1Re 17,17-24

 

In quei giorni, il figlio della padrona di casa, [la vedova di Sarepta di Sidòne,] si ammalò. La sua malattia si aggravò tanto che egli cessò di respirare. Allora lei disse a Elìa: «Che cosa c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?». Elia le disse: «Dammi tuo figlio». Glielo prese dal seno, lo portò nella stanza superiore, dove abitava, e lo stese sul letto. Quindi invocò il Signore: «Signore, mio Dio, vuoi fare del male anche a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?». Si distese tre volte sul bambino e invocò il Signore: «Signore, mio Dio, la vita di questo bambino torni nel suo corpo». Il Signore ascoltò la voce di Elìa; la vita del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere. Elìa prese il bambino, lo portò giù nella casa dalla stanza superiore e lo consegnò alla madre. Elìa disse: «Guarda! Tuo figlio vive». La donna disse a Elìa: «Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità».

 

 

La pericope che narra la rianimazione del figlio della vedova di Zarepta è parte del “Ciclo di Elia” (1Re 17 — 2Re 2), un insieme di capitoli poco unitario ma che ha l’intento di narrare la vita del profeta attraverso una serie di racconti, alcuni dei quali miracolosi. Il contesto storico nel quale si inserisce anche il nostro brano testimonia la forte polemica che la fede yahwista — e in modo speciale la teologia deuteronomista — devono intrat­tenere contro i culti naturalistici e particolarmente baa­lici che tentavano ancora gli israeliti.

     Elia è l’uomo di Dio che testimonia con la propria vita il giudizio di YHWH. Per questo motivo la vedova, alla quale è appena morto il figlio, reagisce con aggressività («Che c’è tra me e te, o uomo di Dio?»: v. 18) alla presen­za del profeta: questi le ‘rinnova il ricordo’ del suo pec­cato. Il profeta, infatti, come uomo di Dio, rende attuale la presenza di Dio che rivela l’iniquità e fa prendere co­scienza delle colpe commesse. Inoltre il rimprovero che la vedova muove a Elia di avergli fatto morire il figlio rivela quel ‘principio della retribuzione’ molto radicato nella mentalità israelita, secondo il quale non c’è pecca­to che non sia accompagnato da un castigo. A tale prin­cipio si opporranno in modo deciso Geremia ed Ezechie­le (cfr. Ez 14,12; 18; Ger 31,29s.: «In quei giorni non si dirà più: i padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati. Ma ognuno morirà per la propria iniquità»).

     Il miracolo della rianimazione compiuto da Elia con un’azione simbolica quasi magica e con la parola sarà il segno per la vedova della veracità della parola e dell’a­zione profetica di Elia, oltreché la dimostrazione che il Dio della vita è YHWH e non Baal, il Dio vero è YHWH e non Baal. Il brano termina non a caso con una confes­sione di fede della vedova: «Ora veramente so che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità» (v. 24). Nel discorso nella sinagoga (Lc 4,17-27), Gesù parlerà della vedova di Zarepta come esemplare nell’accoglienza della grazia offerta.

 

Seconda lettura:  Galati 1,11-19 

 

Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.
Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore.

 

 

Nel contesto del severo ammonimento ai Galati, che si sono lasciati traviare da annunciatori d’un falso vangelo, Paolo rivendica l’autorevolezza del proprio annuncio ricorrendo a un’appassionata e commossa rievocazione della propria storia. È la vita stessa di Paolo, in un certo senso, a garantire che il vangelo da lui annunziato non è di origine umana, ma gli è stato rivelato direttamente da Gesù Cristo. E Paolo non nasconde nulla 

della sua vita: non nasconde lo zelo con cui ha perseguitato la chiesa di Dio e, tanto più, non nasconde l’azione di Dio nella sua esistenza, dalla elezione fin dal grembo materno, alla chiamata per grazia, alla scelta che Dio fa di lui come evangelizzatore del suo Figlio tra i pagani.

Ovviamente quando Paolo parla di questa rivelazione ‘diretta’ non vuole necessariamente intendere di aver ricevuto, sulla via di Damasco, tutto in una volta il ‘deposito della fede’. In altri testi, infatti, riprende i termini del racconto eucaristico, per esempio, o del kérygma pasquale così come li ha ricevuti ad Antiochia o a Gerusalemme (cfr. 1 Cor 11,23ss.; 15,1ss.). È più probabile che Paolo in questo contesto si riferisca alla rivelazione d’un nucleo kerigmatico che riguarda la giustificazione di Dio in Gesù Cristo per la fede e non per le opere della Legge. È questa rivelazione la buona novella che gli ha sconvolto la vita.

Resta il fatto che, pur con l’assoluta certezza dell’ori­gine divina del suo vangelo, sale a Gerusalemme per vi­sitare Cefa, ritenendo la comunione nella fede con chi era stato apostolo prima di lui, e testimone della vita, morte e risurrezione di Cristo, una condizione indispen­sabile dell’evangelizzazione. Quattordici anni dopo, Pao­lo ritornerà a Gerusalemme per esporre a Pietro, Giaco­mo e Giovanni il vangelo che predicava ai pagani, per non trovarsi «nel rischio di correre o di aver corso inva­no» (Gal 2,2).

 

Vangelo: Luca 7,11-17

 

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

 

 

Esegesi

      Oggi è un piccolo villaggio l’antica città di Naim , ai piedi dell’Hermon, a sud-est di Nazaret. Quasi sulla strada che vi conduce, ancora oggi è possibile scorgere delle tombe scavate nella roccia. È facile pensare che lì era diretto il feretro di cui parla Luca nel brano evangelico di oggi.

1)  La porta della città

Un figlio unico di madre vedova viene condotto alla sepoltura accompagnato da molta folla.

Alla porta della città, questa folla si incontra con un’altra folla che segue Gesù e i suoi discepoli. Chi entra, chi esce. Chi segue il morto, chi l’«Autore della vita», come Pietro chiama Gesù. Tra la vita e la morte c’è una porta. Alla porta c’è Gesù, che attende. Egli è la risurrezione e la vita, chi crede in lui anche se muore, vive.

2) Molta gente

La moltitudine di gente che sta con Gesù e la moltitudine che sta col giovane morto simboleggiano i due schieramenti che appariranno alla destra e alla sinistra del Giudice, nel giudizio universale.

Una è formata dalla moltitudine dei morti, l’altra dalla moltitudine dei vivi in Cristo. Dopo il giudizio si chiuderà per sempre una porta che separerà i figli della perdizione dai figli della risurrezione.

La rivelazione dice che sono molti coloro che seguono la strada larga che conduce alla morte, ed è una «moltitudine immensa» quella che segue l’Agnello, che è Via, Verità e Vita.

3) Figlio unico

Tale era il giovane condotto alla sepoltura. Egli è un simbolo. Di fronte al giudizio di Dio, infatti, ciascuno di noi è »unico» e solo. E tuttavia siamo insieme con una «folla» di fratelli santi che possono accompagnarci all’incontro con Gesù.

Quando siamo »morti» solo spiritualmente, cioè durante la vita ter­rena, beati noi se siamo accompagnati all’incontro con Cristo, perché solo lui può farci rivivere e farci sfuggire alla «seconda morte», come si esprime san Francesco.

Ma purtroppo c’è anche una moltitudine di gente intorno a noi che può farci allontanare dall’Autore della vita.

4) La madre vedova

San Luca accenna alla «compassione» di Gesù per la «madre vedova», che accompagnava suo figlio alla tomba: «vedendola — scrive l’evangeli­sta — il Signore ne ebbe compassione».

Il pensiero di Gesù dovette andare a Maria, vedova di Giuseppe, quando seguirà il suo «unico Figlio» dal Calvario alla tomba scavata nella roccia.

Allora non ci sarà nessuno a fermare il feretro e a consolare sua Madre, dicendole «Non piangere».

5) «Non piangere!»

Come si può dire «non piangere» a una madre vedova che perde l’u­nico figlio?

Quante volte si dicono parole vuote a coloro che soffrono, non sa­pendo cosa fare per dar loro consolazione.

Ma Gesù non dice parole vane; egli sa cosa sta per fare. Solo lui può consolarci quando il nostro cuore langue!

6) Si avvicinò e toccò la bara

La donna che da anni soffriva per il flusso di sangue pensò: se riu­scirò a toccare il suo mantello, guarirò». Lo toccò e fu guarita.

Una forza di vita usciva sempre dalla persona del Figlio di Dio:

quando toccava i ciechi, quanto toccava i lebbrosi, quando toccava i morti.

Ora tocca solo la bara, per toccare poi il giovane morto.

Fortunato quel giovane, che i portatori si fermarono al tocco di Gesù: «accostatosi, toccò la bara, mentre i portatori si fermarono». Se non si fossero fermati, il giovane sarebbe rimasto morto.

Anche questo simboleggia il tocco di Gesù alla «bara» che ci circonda. Gesù tocca la nostra bara ogni volta che sentiamo con le orecchie una parola santa e un buon consiglio, ogni volta che siamo sfiorati da un sacerdote, ogni volta che i nostri occhi guardano una chiesa o una tomba: beati noi se ci fermiamo nella nostra corsa verso morte! Gesù sta per mostrarsi a noi!

7) «Ragazzo, dico a te, àlzati!»

Gesù non disse «rivivi», così come a Lazzaro disse solo: «Lazzaro, vieni fuori».

Ma per «alzarsi» e per «venire fuori», un morto deve essere già vivo.

Gli spettatori gridarono al miracolo quando videro Lazzaro «venire fuori», e il giovane «alzarsi». Ma Gesù, in ambedue i casi, aveva già fatto il suo intervento miracoloso e amoroso, perché Gesù precede sempre i nostri desideri.

Fa pensare che i tre miracoli di risurrezione dai morti — nel vangelo — riguardano dei giovani, ivi compresa una fanciulla.

Ciò fa riflettere sull’assurdità della morte, che stronca chi è nato per vivere; sull’imparzialità della morte, che miete come, dove e quando vuole; sulla fragilità della morte di fronte al Salvatore, che la vince come, dove e quando vuole.

Un giorno, anch’egli giovane Uomo-Dio, la vincerà dopo tre giorni di lotta, e la vincerà per sempre e per tutti quando egli stesso ha stabilito.

8) Il morto si mise seduto e cominciò a parlare

La fanciulla dodicenne fu presa per mano, e Gesù la fece alzare. Lazzaro e il giovane ascoltano la voce della Vita — quasi vento che passa su alberi inariditi e li copre di fiori — e riprendono a vivere!…

Il giovane si alza a sedere, quasi a voler insegnare qualcosa dal fondo della bara. Infatti «cominciò a parlare».

Ma un morto insegna anche senza parlare!

9) Lo restituì a sua madre

Oltrepassata la porta della città e la porta della vita, il giovane ap­parteneva ormai non più alla madre ma al Signore che gli era venuto incontro. E il Signore lo restituisce alla madre che l’aveva perduto.

Poi venne un giorno in cui il giovane morì di nuovo e anche Gesù era morto. Ma ambedue riaprirono gli occhi alla vita eterna.

Quando morì la seconda volta, il giovane, Lazzaro e la fanciulla, fu­rono consegnati da Gesù al Padre di tutti.

10) Timore e gloria

La folla non ebbe timore della morte ma del mistero della vita che distrugge la morte per il volere di un «grande profeta è sorto tra noi». Ma il timore si trasforma ma subito in gioia e in inno di gloria per Dio che «ha visitato il suo popolo».

La gente percepisce che Dio visita il suo popolo non quando arriva la morte che è stipendio del peccato, ma quando dona la vita.

 L’immagine della domenica

 

Vetrata del Nuovo Santuario del Divino Amore – Roma 2016

 

 La vita

Con uno stile poetico, ma con echi drammatici, il melanconico Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, rivolge invano alla luna il più importante dei suoi interrogativi, che è quello di sapere qual è il vantaggio del vivere e perché gli uomini si ostinano a farsi protagonisti di questo cerchio mortale che è la continuità della vita stessa: 

Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo corso immortale? […]

Nasce l’uomo a fatica

ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

per prima cosa; e in sul principio stesso

la madre e il genitore

il prende a consolar dell’esser nato. […]

Ma perché dare al sole

perché reggere in vita

chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

perché da noi si dura?

 

Meditazione

      C’erano due cortei, quel giorno, alla porta di Naim: il corteo della vita e il corteo della morte. Il primo rappre­sentato da Gesù con i suoi discepoli, il secondo dalla po­vera vedova che piange il figlio morto «con molta gente»; ma è soprattutto questo secondo contesto che attira l’at­tenzione e avvolge d’amarezza l’intera scena.

Anche la nostra esistenza è spesso attraversata da questi due cortei: c’è la vita che si afferma in noi, come un istinto che sembra invincibile; ma facciamo ogni giorno esperienza anche di morte, in noi e attorno a noi, in molti modi. Anzi, come quel giorno a Naim è la morte, ancor oggi, che si pone al centro dell’attenzione, spesso togliendoci la pace e facendoci dimenticare tutto il resto, la vita che scorre al presente e quella che ci è promessa nel futuro.

La commozione di Gesù di fronte alle lacrime della vedova è per noi consolantissima speranza: ci dice che il Signore vede la nostra condizione e si commuove, che le sue «viscere di misericordia» non restano insensibili di fronte alla nostra miseria, che egli può trasformare i nostri cortei funebri in danze di lode a lui, autore della vita. Per questo egli può chiederci di «non piangere». E se restituisce la vita al giovane allora la speranza diviene certezza, la certezza che la sua tenerezza ci può restituire «il figlio morto», la gioia della vita, l’amore tradito, la speranza delusa, la fede smarrita.

Tutto questo, in realtà, non è forse già successo nel nostro passato? Quante volte Dio ci ha visitato! Perché continuiamo ancora con le nostre processioni funebri? È amaro e rivolto anche a noi il lamento di Gesù su Gerusalemme: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace… ma non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc 19,42.44). Beati noi, invece, se sapremo lasciarci incontrare alla porta di Naim, per finirla una buona volta con i nostri lamenti e intonare il canto della vita…

 

Preghiere e racconti

Viscere delle sue viscere

Anche se c’è peccato grave, che non può essere lavato da voi stessi con le lacrime del vostro pentimento, pianga per voi questa madre, la Chiesa, che interviene per ciascuno dei suoi figli come una madre vedova per figli unici; essa infatti compatisce, con una sofferenza spirituale che le è connaturale, quando vede i suoi figli spinti verso la morte da vizi funesti. Noi siamo le viscere delle sue viscere, poiché esistono anche viscere spirituali. Paolo le aveva, lui che diceva: «Sì, fratello! Che io possa ottenere da te questo favore nel Signore; da’ questo sollievo al mio cuore in Cristo!» (Fm 20). Noi siamo le viscere della Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo, fatti con la sua carne e con le sue ossa. Pianga dunque, la tenera madre, e la assista la folla; non solo una folla, ma una folla numerosa compatisca la buona madre. Allora voi vi rialzerete dalla morte, sarete liberati dal sepolcro; i ministri della vostra morte si fermeranno, voi comincerete a dire parole di vita; tutti temeranno, poiché per l’esempio di uno solo molti saranno ristabiliti; e, inoltre, loderanno Dio per averci accordato simili rimedi per evitare la morte.

(Ambrogio, Trattato sul Vangelo di Luca, I,93)

La sofferenza di Dio

Alle porte di Naim, Gesù ha «le viscere scosse» dal dolore di una vedova che accompagna alla sepoltura il suo unico figlio. Dice: «Non piangere», e poi risuscita il giovane. Ma, alla tomba di Lazzaro, egli piange, vedendo piangere Maria e i giudei che l’accompagnavano. Perché queste lacrime?, si chiede Newman. Tenerezza spontanea dell’amico, orrore del «soffio della tomba», che in seguito dovrà inghiottire nuovamente Lazzaro: il miracolo che egli com­pie è «una tregua, non una risurrezione». Ma c’è di più: qui Dio stes­so si trova faccia a faccia con la sua propria morte.

(Fr. Varillon, La sofferenza di Dio)

O Madre dei dolori

O Madre dei dolori è il tuo figlio che muore così

e l’Ufficio della flagellazione comincia

e le tue piaghe sono i sacri ornamenti che tu indossi

per la celebrazione del tuo martirio…

Il freddo scivola dolcemente sulla tua croce,

il serpente del primo giorno, l’eternità che si dispiega.

Mia Madre è lì ai tuoi piedi, persa nel sogno del suo figlio

e il No le sale in gola, l’urlo della bestia che sanguina

nel suo figlio offerto, partorendo

di nuovo il corpo minuto della sua angoscia,

il suo figlio di tenebre,

questo viso affilato d’ombra che si nutre

al suo stesso Giardino

con il singhiozzo come un diamante nelle sue dita.

Madre tutta fiorita del tuo dolore

ecco la ghirlanda sgualcita dei suoi occhi attorno a te,

la corolla fremente dei suoi pianti che si apre,

le orde illuminate di tutti i nostri morti attorno ai suoi polsi

ecco le sue lacrime che inchiodano la sua carne sul Legno

ecco la spada del suo Grido sulla tua bocca chiusa

ecco il suo cuore già becchettato dagli uccelli neri

della Collera.

(J. Cayrol, Canto funebre in memoria di Jean Gruber)

Preghiera

Ti benedico, Signore, Dio d’Israele, perché hai visitato e redento il tuo popolo. Ti benedico, Signore, perché hai mutato il mio lamento in danza e la mia veste di sacco in abito di gioia. Ti benedico, Signore, perché non resti indifferente davanti alla mia vita, e mi doni quella misericordia che nasce dalle tue viscere di madre. Ti bene­dico, perché ripenso a ogni giorno della mia storia; ri­penso a ogni volta che mi hai detto «Non piangere!», e io non ho più pianto, e ho visto la vita, e ho visto te che mi ridonavi la vita. Grazie, mio Dio!

Ma ti chiedo anche perdono perché molte di più sono state le volte in cui non ti ho saputo riconoscere tra le misteriose pieghe della mia storia, quando in particola­re mi hai nutrito con pane di lacrime per rivelare in me i segni della tua gloria, o quando mi hai associato al mi­stero della tua morte perché la tua vita risplendesse nelle mie membra. Ti chiedo perdono se in quei momen­ti ho avuto timore della tua opera e ho dubitato della tua promessa di vita. Ora so che quello era il tempo in cui mi hai visitato…

Tu, Padre, che sei il consolatore degli afflitti, tu che il­lumini il mistero della vita e della morte, fammi dono ogni mattino della tua visita, fino al giorno in cui chie­derai anche a me, come chiedesti al tuo Figlio, il dono totale della vita. Allora, nella gioia dello Spirito, vivrò per sempre accanto a te.

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER APPROFONDIRE:

 X DOMENICA TEMPO ORD (C)

CORPO E SANGUE DI CRISTO

Prima lettura: Genesi 14,18-20

 

In quei giorni, Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici». E [Abramo] diede a lui la decima di tutto. 

 

Il tema della benedizione ritorna nel brano della Genesi. A pronunciarla è il re di Salem, di cui non conosciamo altro che il nome, Melchisedek. Egli, dice il testo «offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole». Abramo era appena ritornato secondo il racconto di Gn 14, dalla vittoria contro i quattro re che avevano in precedenza sconfitto le città del mar Morto e catturato suo nipote Lot. Il re Melchisedek, che come era allora frequente consuetudine ricopriva pure a carica sacerdotale, portò come ristoro ai vincitori, alla cui testa era Abramo, pane e vino. Le parole di benedizione rivolte ad Abramo suonano dunque come un riconoscimento del suo ruolo nell’aver liberato il campo da pericolosi nemici. Ciò che ci riguarda maggiormente, però, è lo schema della benedizione. Da una parte c’è Dio che benedice, in quanto egli è creatore del mondo, ossia fa essere le cose che esistono; questa è la benedizione costitutiva o discendente. Dall’altra c’è

la benedizione e la lode che l’uomo eleva a Dio, detta dichiarativa o ascendente, perché  chi ha riconosciuto di essere stato beneficato da Dio, lo ringrazia. Quindi Abramo, considerando Melchisedek superiore a sé e intendendo manifestare la propria gratitudine nei confronti di Dio cede la decima a questo re. 

L’inserimento di questo brano nella liturgia del Corpus Domini si può giustificare solo a partire dall’interpretazione che ne hanno fatto i Padri della Chiesa, sulla scia di ciò che era trapelato nel Nuovo Testamento. Infatti diversi dei Padri hanno inteso l’offerta del pane e del vino come una prefigurazione dell’Eucaristia e Melchisedek, che ci viene presentato «senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita» (Eb 7,3), quindi eterno, come la prefigurazione del sacerdozio messianico, superiore a quello di Aronne.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 11,23-26

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
       

 

Ma è il brano della prima lettera ai Corinzi che, in modo inequivocabile, ci riallaccia con la viva tradizione delle comunità dell’epoca apostolica. L’apostolo Paolo così introduce l’argomento: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso». E questa trasmissione viene espressa con il significativo verbo paradidomi, da cui viene anche

l’idea di paradosis, ossia di una vera e propria consegna effettuata da una generazione a un altra, o da una persona a un’altra, in questo caso autorevolissima come il Signore. Paolo, dunque, è conscio di comunicare non qualcosa di suo, bensì qualcosa che appartiene al grande «patrimonio» che Gesù stesso ha lasciato ai suoi discepoli. Il problema posto riguarda perciò la sostanza di quel «vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza se lo mantenete m quella forma in cui ve l’ho annunziato» (1Cor 15,1).

     Di conseguenza, la fedeltà alla «tradizione» si fonde con la fedeltà alla «comunione». Nell’Eucaristia raccontata da Paolo si riprendono tutti gli specifici motivi fondamentali, a partire dal contesto, che è quello della cena precedente la passione e morte di Gesù. Vi viene rievocato il momento amaro del tradimento con lo stesso verbo paradidomi, quasi a voler intendere che la «consegna» di fare il memoriale dell’Eucaristia passa attraverso l’inevitabile «consegna» alla morte. Si prosegue con l’atto del prendere il pane, gesto familiare, da capofamiglia, che prelude al ringraziare (eucharistesas), cioè al benedire il datore di ogni dono, il Padre. Il pane, poi, viene spezzato per essere condiviso, per essere fonte di solidarietà e comunione. Infine, vengono riferite le parole che spiegano i gesti. «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Anche riguardo al calice del vino le parole ne illuminano il senso: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Troppo difficile è il compito di commentare tali parole: c’è il senso dell’offerta, del sacrificio di colui che si fa «spezzare» la carne e «versare» il sangue per l’umanità che ama, inclusa quell’umanità che si sta preparando a consegnarlo alla morte; c’è il senso dell’alleanza del ricucire uno strappo che si sarebbe sempre più approfondito senza l’iniziativa divina di andare incontro all’umanità; c’è il senso del dover costantemente «far memoria» di tutto ciò, perché siamo stati comprati a caro prezzo (cf. 1Cor 6,20). Il mistero eucaristico si trasforma allora in una ricapitolazione della storia, nella quale viene riproposta in continuazione l’alleanza d’amore di Dio, in vista dell’evento finale, la venuta ultima di Gesù Cristo.

 

Vangelo: Luca 9,11-17 

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

 

 

Esegesi

     La pericope evangelica proposta dalla liturgia ci presenta subito un Gesù impegnato nella predicazione e nelle guarigioni. Non è facile entrare nel clima del brano se non diamo uno sguardo al contesto in cui è inserito. Infatti la moltiplicazione dei pani si trova quasi alla fine del periodo di attività in Galilea, quando Gesù stava maturando la decisione

di dirigersi verso la capitale, Gerusalemme: «Mentre si compivano i giorni della sua ascensione, indurì la faccia di dirigersi a Gerusalemme» (Lc 9,51). Il senso letterale del versetto ci rende bene la ferma determinazione di Gesù, «perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33). Quasi a volersi congedare dalla Galilea, egli inviò i Dodici ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi, assegnando loro persino il potere di scacciare i demoni (9,1-2). Al loro ritorno, gli apostoli riferirono in dettaglio a Gesù ciò che avevano operato durante la missione. Egli «allora li prese con sé e si ritirò verso una città chiamata Betsaida» (9,10), perché essi avevano bisogno di riposare. Ma furono intercettati dalla folla, che costrinse Gesù a cambiare programma e a trascurare gli stanchi missionari. E quindi fu direttamente lui che si occupò di parlare del regno di Dio e di guarire quanti avevano bisogno di cure (9,11), come se la folla, dopo aver ascoltato gli apostoli desiderasse andare alla fonte dell’annuncio.

     In verità, l’annuncio del regno di Dio era stata la preoccupazione di Gesù fin dal primo momento. E anche la folla, fin dal principio, lo seguiva senza stancarsi e dargli un attimo di respiro. In 4,42-44 mentre cercava un luogo isolato, venne raggiunto dalla folla che non voleva lasciarlo andare via. Ma egli evitò di fermarsi, perché il regno doveva essere annunziato anche ad altre città. In 8,1, dopo aver perdonato la donna peccatrice e aver insegnato la misericordia al fariseo Simone, ritornò alla sua consueta attività di predicazione del regno e in 8,10 si dedicò a istruire in modo più particolareggiato gli apostoli. Infine al capitolo 9 associò gli apostoli all’opera di evangelizzazione, mai disgiunta dalla realizzazione dei segni delle guarigioni e degli esorcismi. Riguardo alla folla, poi, in 5,1 si dice addirittura che «la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio»; in 6,17-19 si parla di gente che veniva ad ascoltarlo e a essere guarita, o anche solo a toccarlo, proveniente non solo dalla Galilea e dalla Giudea, ma persino da Tiro e Sidone, città pagane della Fenicia; in 8,4, la parabola del seminatore viene raccontata «poiché una gran folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città»; in 8,40, infine, troviamo persino che «al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, poiché tutti erano in attesa di lui».

     Gesù quindi si mostrava molto disponibile nei confronti della folla, comprendendo benissimo il bisogno che essa aveva di parola di Dio e di sollievo dalla sofferenza. Ma tale disponibilità si dimostrò davvero eccezionale in questo caso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Al v. 12 comincia un dialogo: gli apostoli, poiché stava tramontando, invitarono Gesù a congedare gli astanti per permettere a ciascuno di loro di procurarsi del cibo, in quanto il luogo in cui si trovavano era solitario. Essi non si sarebbero mai aspettati la risposta di Gesù: «Voi stessi date loro da mangiare» (9,13). Erano cinquemila uomini e nel passo parallelo del Vangelo di Giovanni l’apostolo Filippo fa una stima approssimativa della cifra necessaria a comprare pane per tutti: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa ricevere un pezzo» (Gv 6,7); a disposizione c’erano soltanto cinque pani e due pesci e l’eventuale spesa da affrontare era quindi insostenibile.

     Qui emerge un dato molto importante: gli apostoli, che erano stati protagonisti della missione con i compiti onorevoli di predicare, guarire e cacciare i demoni, vennero coinvolti nel servizio umile di dar da mangiare a quella folla. Gesù — dice il Vangelo — «prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla» (9,16). Il nutrimento passa quindi attraverso le mani dei discepoli, che davvero offrono da mangiare a quella moltitudine, forse senza nemmeno rendersi conto del tutto della “straordinarietà” del fatto. Lungi dal pretendere di spiegare o razionalizzare il segno — ipotizzando che ognuno aveva delle provviste e che le condivide con gli altri, per cui il vero “miracolo” sarebbe la condivisione — occorre prendere sul serio il racconto evangelico e ammettere che Gesù abbia realmente potuto moltiplicare il poco cibo disponibile.

     Se conosciamo bene Gesù, non ci meraviglia che abbia avuto compassione di quella folla affamata, dopo che per un giorno intero aveva seguito i suoi insegnamenti e aveva assistito ai suoi segni. Infatti, l’evangelista Luca ci presenta un’immagine di Gesù sinceramente sollecito delle necessità della gente, fossero anche quelle corporali. Ma il testo ci suggerisce un’altra traccia ancora: le azioni descritte in 9,16 sono le stesse che Gesù compie in 22,19, nell’istituzione dell’Eucaristia, e in 24,30, durante la cena di Emmaus. Il Vangelo di Luca, però, ci stimola a non ritenere la moltiplicazione dei pani e dei pesci un miracolo che solo Gesù poteva realizzare. Il coinvolgimento degli apostoli è infatti senz’altro significativo, in relazione al fatto che il regno di Dio dev’essere servito con la predicazione, con i segni, ma anche con l’umile servizio del distribuire quel pane necessario a vivere e a rinvigorire le membra; il pane che può dare all’uomo l’opportunità di alzare i propri occhi al cielo e benedire il Padre; il pane che dev’essere gustato con gioia nella fraternità e semplicità; il pane, che crea compagnia e comunione in questo pellegrinaggio terrestre. Perciò in questa maniera il pane delle nostre tavole può acquistare un significato più pregnante che quello di semplice alimento e, di conseguenza, il pane eucaristico può essere considerato sempre più per quello che è: pane-corpo di Cristo, offerto per ringraziamento e benedizione.

 

L’immagine della domenica

 

Il Dio nell’ostensorio

Cantavano le donne lungo il muro inchiodato

quando ti vidi, Dio forte, vivo nel Sacramento,

palpitante e nudo come un bambino che corre

inseguito da sette torelli capitali.

Vivo eri, Dio mio, nell’ostensorio.

Trafitto dal tuo Padre con ago di fuoco.

O Forma consacrata, vertice dei fiori,

dove tutti gli angoli prendono luci fisse,

dove numero e bocca costruiscono un presente

corpo di luce umana con muscoli di farina!

O Forma limitata per esprimere concreta

moltitudine di luci e clamore ascoltato!

O neve circondata da timpani di musica!

O fiamma crepitante sopra tutte le vene!

(F. García Lorca)

 

 Meditazione 

     La festa del Corpus Domini, che la Chiesa colloca immediatamente dopo il tempo pasquale, ci fa riandare a quel mistero eucaristico la cui memoria è già stata celebrata con particolare solennità il giorno del Giovedì santo. La celebrazione odierna assume dunque i caratteri di una ulteriore ‘meditazione’, quasi una sosta contemplativa intorno al mistero centrale della fede cristiana, un mistero che è al cuore stesso della vita della Chiesa. È in questa direzione che sembra orientarci l’orazione iniziale: «Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell’Eucaristia ci hai lasciato il memoriale della tua Pasqua, fa’ che adoriamo con viva fede il santo mistero del tuo Corpo e del tuo Sangue…». Se il corpo e il sangue del Signore si offrono a noi anzitutto come cibo e bevanda di vita, essi sono anche un mistero da ‘adorare’; cioè da circondare di tutta la venerazione e la riconoscenza, lo stupore e l’amore che esso richiede. Nella consapevolezza che tale dono eccede sempre la nostra capacità di recezione e le nostre possibilità di comprensione.

     È significativo che al centro di questa festa troviamo una realtà così umana, così concreta, così ‘materiale’ oseremmo dire, come quella del «corpo e sangue». Corpo e sangue che dicono tutto il mistero dell’incarnazione, tutta l’umanità nostra, debole e fragile, assunta pienamente dal Signore Gesù. Corpo e sangue assunti e donati fino all’ultimo «per noi uomini e per la nostra salvezza», come recita il Credo. L’apostolo Paolo, raccontando l’istituzione dell’eucaristia nella notte della cena pasquale (seconda lettura), ce lo ricorda in modo esplicito: «Il Signore Gesù… prese del pane… e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi..”. Allo stesso modo… prese anche il calice…» (1Cor 11,23-25).

     La prima lettura pone l’accento sull’offerta del pane e del vino da parte di Melchìsedek, singolare figura di sacerdote che fa la sua improvvisa comparsa all’interno delle vicende del patriarca Abramo. Partendo dalla lettura che ne fa la Lettera agli Ebrei (soprattutto nel cap. 7), la Chiesa ha sempre considerato questo episodio una prefigurazione dell’eucaristia. «Pane e vino» sono doni che rimandano, in ultima istanza, a uno dei bisogni primari e vitali dell’uomo: il soddisfacimento della sua fame. Sappiamo che l’uomo è essenzialmente un essere che ha fame, e non solo di cibo. La sua fame va ben al di là del pezzo di pane che può momentaneamente e parzialmente colmarla. Essa abita nel profondo del suo cuore come desiderio, conscio o inconscio, di qualcosa che può venire da Dio solo. Come afferma Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Quaresima 2010. «Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio». È Dio che nutre l’uomo, anzi è Dio stesso che si fa suo nutrimento in quel pane e in quel vino che riceviamo ogni giorno dalle sue mani come «cibo di vita eterna» e «bevanda di salvezza» (rito di offertorio della liturgia eucaristica).

     Il racconto della moltiplicazione dei pani nella versione dell’evangelista Luca (vangelo) ci parla del mirabile e inatteso nutrimento di una folla affamata che, desiderosa di ascoltare Gesù e farsi curare dalle proprie malattie (v. 11 ), lo segue fin nel bel mezzo di un deserto. Al di là del prodigio in sé, ciò che attira la nostra attenzione – soprattutto se leggiamo l’episodio nel contesto della festa liturgica odierna – è il modo con cui si conclude la narrazione: «Tutti mangiarono a sazietà…» (v. 17). È questa sensazione di sazietà che rimane nelle nostre orecchie (e un po’ anche nel nostro corpo) dopo aver ascoltato questa parola. Una fame saziata: ecco cosa ci vuol comunicare il racconto. Già dai tempi della Prima Alleanza il Signore aveva promesso di saziare la fame del suo popolo – unica condizione richiesta: spalancare la propria bocca! -: «Sono io il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto salire dal paese d’Egitto: apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80/81,11). L’antifona d’ingresso della presente celebrazione riprende le parole conclusive dello stesso salmo: «Il Signore ha nutrito il suo popolo con fior di frumento, lo ha saziato con miele della roccia» (Sal 80/81,17). Dio non ha altra volontà che saziare la nostra fame. Possiamo dire che è il suo grande desiderio. A patto però di intendere bene cosa sono quel «fior di frumento» e quel «miele della roccia»…

     In un altro deserto (o forse lo stesso?) Gesù si era rifiutato di trarre pane dalla pietra, come subdolamente gli suggeriva il tentatore (cfr. Lc 4,3). Perché ora dunque compie (moltiplicando un pugno di pani e pesci là dove – essendo deserto – non poteva trovare che pietre) ciò che un tempo aveva categoricamente negato di fare? Al diavolo aveva risposto: «Non di solo pane vivrà l’uomo» (Lc 4,4), ora però non ricusa di donare – e in modo sovrabbondante – anche quell’umile pane a una moltitudine di gente stanca e affamata. Egli sa che l’uomo ha bisogno anche di pane per vivere, purché quel pane sia ricevuto come segno di un’accoglienza amorosa («Le folle lo seguirono. Egli le accolse…»: v. 11) e diventi capace di dire tutta la logica di una vita data in dono («Voi stessi date loro da mangiare»: v. 13), come è stata la vita stessa di Gesù. Per questo il racconto della moltiplicazione dei pani (così come il racconto dell’ultima cena e quello della cena di Emmaus, dove si narra di un pane ‘spezzato’) è una grande e profonda rivelazione della persona di Gesù. Erode, poco prima, si era chiesto: «Chi è dunque costui?» (Lc 9,9) e Gesù, quasi riprendendo la domanda, risponde donando del pane, simbolo e prefigurazione di quel pane che si farà lui stesso cuocendo nel forno della croce, per diventare nostro cibo in ogni eucaristia.

     «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», domandiamo nella preghiera del Padre nostro. Ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno per vivere lo chiediamo a Dio, consapevoli che solo ricevendolo dalle sue mani come dono gratuito esso può soddisfare la nostra più autentica fame di vita. Solo là dove desiderio di Dio e bisogno dell’uomo (bisogno vero, nell’ordine di ciò che più vale nella vita) si incontrano, può nascere un orizzonte nuovo dove trovano casa l’accoglienza grata dei doni ricevuti e la premurosa condivisione che quei doni portano inscritto nella loro stessa natura.

 

Preghiere e racconti

La festa del Corpus Domini

Il Vangelo ci propone il racconto del miracolo dei pani (Lc 9,11-17); vorrei soffermarmi su un aspetto che sempre mi colpisce e mi fa riflettere. Siamo sulla riva del lago di Galilea, la sera si avvicina; Gesù si preoccupa per la gente che da tante ore sta con Lui: sono migliaia, e hanno fame. Che fare? Anche i discepoli si pongono il problema, e dicono a Gesù: «Congeda la folla» perché vada nei villaggi vicini per trovare da mangiare. Gesù invece dice: «Voi stessi date loro da mangiare» (v. 13). I discepoli rimangono sconcertati, e rispondono: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci», come dire: appena il necessario per noi.

Gesù sa bene che cosa fare, ma vuole coinvolgere i suoi discepoli, vuole educarli. Quello dei discepoli è l’atteggiamento umano, che cerca la soluzione più realistica, che non crei troppi problemi: Congeda la folla – dicono -, ciascuno si arrangi come può, del resto hai fatto già tanto per loro: hai predicato, hai guarito i malati… Congeda la folla!

L’atteggiamento di Gesù è nettamente diverso, ed è dettato dalla sua unione con il Padre e dalla compassione per la gente, quella pietà di Gesù verso tutti noi: Gesù sente i nostri problemi, sente le nostre debolezze, sente i nostri bisogni. Di fronte a quei cinque pani, Gesù pensa: ecco la provvidenza! Da questo poco, Dio può tirar fuori il necessario per tutti. Gesù si fida totalmente del Padre celeste, sa che a Lui tutto è possibile. Perciò dice ai discepoli di far sedere la gente a gruppi di cinquanta – non è casuale questo, perché questo significa che non sono più una folla, ma diventano comunità, nutrite dal pane di Dio. Poi prende quei pani e i pesci, alza gli occhi al cielo, recita la benedizione – è chiaro il riferimento all’Eucaristia –, poi li spezza e comincia a darli ai discepoli, e i discepoli li distribuiscono… e i pani e i pesci non finiscono, non finiscono! Ecco il miracolo: più che una moltiplicazione è una condivisione, animata dalla fede e dalla preghiera. Mangiarono tutti e ne avanzò: è il segno di Gesù, pane di Dio per l’umanità.

I discepoli videro, ma non colsero bene il messaggio. Furono presi, come la folla, dall’entusiasmo del successo. Ancora una volta seguirono la logica umana e non quella di Dio, che è quella del servizio, dell’amore, della fede. La festa del Corpus Domini ci chiede di convertirci alla fede nella Provvidenza, di saper condividere il poco che siamo e che abbiamo, e non chiuderci mai in noi stessi. Chiediamo alla nostra Madre Maria di aiutarci in questa conversione, per seguire veramente di più quel Gesù che adoriamo nell’Eucaristia. Così sia.

(PAPA FRANCESCO, Angelus, Piazza San Pietro, Domenica, 2 giugno 2013).

Il miracolo della moltiplicazione dei pani

Il miracolo della moltiplicazione dei pani accade laddove nel popolo di Dio si da ascolto alla Scrittura della quale Gesù ha fornito l’esegesi messianica e, quindi, laddove si rispetta la Scrittura e si obbedisce alla sua parola che trova espressione attuale nell’assemblea della comunità. Ciò significa: laddove si vive tutta la vita quotidiana all’insegna della volontà di Dio […].

Il miracolo della moltiplicazione dei pani accade laddove si celebra il banchetto messianico, al quale Gesù ha voluto invitare proprio tutti, i giusti e i peccatori, i sani e i malati, gli invitati della prima ora e quelli che se ne stanno a guardare, cioè laddove sia resa possibile, in continuazione, l’integrazione e l’unanimità di coloro che vogliono mettersi al servizio della costruzione del popolo di Dio. Ciò significa: laddove al convivium, cioè al banchetto dell’eucaristia, corrisponde di nuovo il convivere, cioè la convivenza dei credenti che precede e segue l’eucaristia e trova la sua sintesi festosa nella celebrazione di settimana in settimana, da una festa all’altra.

Il miracolo della moltiplicazione dei pani si compie laddove è vitale la fede che l’uomo non vive di solo pane ma, in primo luogo, della parola di Dio, della sua promessa e della volontà di Colui che si è creato un popolo da portare in una terra dove scorrono latte e miele. Ciò significa che il miracolo accade anche laddove i credenti osano dar prova della propria fede e metterla alla prova.

(R. PESCH, Il miracolo della moltiplicazione dei pani. C’è una soluzione per la fame nel mondo?, Brescia, 1997, 182ss.).

La prima comunione

Benedetto XVI presiede nel pomeriggio di sabato 15 ottobre 2005, in piazza San Pietro, lo speciale incontro di catechesi con i bambini di prima comunione, al quale partecipano oltre 150.000 persone tra fanciulli, genitori, catechisti e sacerdoti. Dopo la proclamazione della Liturgia della Parola, il Santo Padre risponde alle domande rivoltegli da sette bambini. Questi sono alcuni brani del testo del “dialogo” tra il Papa e i piccoli. 

Andrea: «Caro Papa, quale ricordo hai del giorno della tua prima comunione?».

Innanzitutto vorrei dire grazie per questa festa della fede che mi offrite, per la vostra presenza e la vostra gioia. Ringrazio e saluto per l’abbraccio che ho avuto da alcuni di voi, un abbraccio che simbolicamente vale per voi tutti, naturalmente. Quanto alla domanda, mi ricordo bene del giorno della mia prima comunione. Era una bella domenica di marzo del 1936, quindi 69 anni fa.

Era un giorno di sole, la chiesa molto bella, la musica, erano tante le belle cose delle quali mi ricordo. Eravamo una trentina di ragazzi e di ragazze del nostro piccolo paese, di non più di 500 abitanti.

Ma nel centro dei miei ricordi gioiosi e belli sta questo pensiero – la stessa cosa è già stata detta dal vostro portavoce – che ho capito che Gesù è entrato nel mio cuore, ha fatto visita proprio a me. E con Gesù Dio stesso è con me. E che questo è un dono di amore che realmente vale più di tutto il resto che può essere dato dalla vita; e così sono stato realmente pieno di una grande gioia perché Gesù era venuto da me. E ho capito che adesso cominciava una nuova tappa della mia vita, avevo 9 anni, e che adesso era importante rimanere fedele a questo incontro, a questa Comunione. Ho promesso al Signore, per quanto potevo: «Io vorrei essere sempre con te» e l’ho pregato: «Ma sii soprattutto tu con me». E così sono andato avanti nella mia vita. Grazie a Dio, il Signore mi ha sempre preso per la mano, mi ha guidato anche in situazioni difficili. E così questa gioia della prima comunione era un inizio di un cammino fatto insieme. Spero che, anche per tutti voi, la prima comunione che avete ricevuto in quest’Anno dell’Eucaristia sia l’inizio di un’amicizia per tutta la vita con Gesù. Inizio di un cammino insieme perché andando con Gesù andiamo bene e la vita diventa buona. 

Andrea: «La mia catechista, preparandomi al giorno della mia prima comunione, mi ha detto che Gesù è presente nell’Eucaristia. Ma come? Io non lo vedo!».

Sì, non lo vediamo, ma ci sono tante cose che non vediamo e che esistono e sono essenziali. Per esempio, non vediamo la nostra ragione, tuttavia abbiamo la ragione. Non vediamo la nostra intelligenza e l’abbiamo. Non vediamo, in una parola, la nostra anima e tuttavia esiste e ne vediamo gli effetti, perché possiamo parlare, pensare, decidere, ecc… Così pure non vediamo, per esempio, la corrente elettrica, e tuttavia vediamo che esiste, vediamo questo microfono come funziona; vediamo le luci. In una parola, proprio le cose più profonde, che sostengono realmente la vita e il mondo, non le vediamo, ma possiamo vedere, sentire gli effetti. L’elettricità, la corrente non le vediamo, ma la luce la vediamo. E così via. E così anche il Signore risorto non lo vediamo con i nostri occhi, ma vediamo che dove è Gesù, gli uomini cambiano, diventano migliori. Si crea una maggiore capacità di pace, di riconciliazione, ecc… Quindi, non vediamo il Signore stesso, ma vediamo gli effetti: così possiamo capire che Gesù è presente. Come ho detto, proprio le cose invisibili sono le più profonde e importanti. Andiamo dunque incontro a questo Signore invisibile, ma forte, che ci aiuta a vivere bene. 

Alessandro: «A cosa serve andare alla santa Messa e ricevere la comunione per la vita di tutti i giorni?».                

Serve per trovare il centro della vita. Noi la viviamo in mezzo a tante cose. E le persone che non vanno in chiesa non sanno che a loro manca proprio Gesù. Sentono però che manca qualcosa nella loro vita. Se Dio resta assente nella mia vita, se Gesù è assente dalla mia vita, mi manca una guida, mi manca un’amicizia essenziale, mi manca anche una gioia che è importante per la vita. La forza anche di crescere come uomo, di superare i miei vizi e di maturare umanamente. Quindi, non vediamo subito l’effetto dell’essere con Gesù quando andiamo alla comunione; lo si vede col tempo. Come anche, nel corso delle settimane, degli anni, si sente sempre più l’assenza di Dio, l’assenza di Gesù. È una lacuna fondamentale e distruttiva. Potrei adesso facilmente parlare dei Paesi dove l’ateismo ha governato per anni; come ne sono risultate distrutte le anime, e anche la terra; e così possiamo vedere che è importante, anzi, direi, fondamentale, nutrirsi di Gesù nella comunione. È Lui che ci da la luce, ci offre la guida per la nostra vita, una guida della quale abbiamo bisogno.

 Anna: «Caro Papa, ci puoi spiegare cosa voleva dire Gesù quando ha detto alla gente che lo seguiva: “lo sono il pane della vita?».

Allora, dobbiamo forse innanzitutto chiarire che cos’è il pane. Noi abbiamo oggi una cucina raffinata e ricca di diversissimi cibi, ma nelle situazioni più semplici il pane è il fondamento della nutrizione e se Gesù si chiama il pane della vita, il pane è, diciamo, la sigla, un’abbreviazione per tutto il nutrimento. E come abbiamo bisogno di nutrirci corporalmente per vivere, così anche lo spirito, l’anima in noi, la volontà, ha bisogno di nutrirsi. Noi, come persone umane, non abbiamo solo un corpo, ma anche un’anima; siamo persone pensanti con una volontà, un’intelligenza, e dobbiamo nutrire anche lo spirito, l’anima, perché possa maturare, perché possa realmente arrivare alla sua pienezza. E, quindi, se Gesù dice: «Io sono il pane della vita», vuol dire che Gesù stesso è questo nutrimento della nostra anima, dell’uomo interiore del quale abbiamo bisogno, perché anche l’anima deve nutrirsi. E non bastano le cose tecniche, pur tanto importanti. Abbiamo bisogno proprio di questa amicizia di Dio, che ci aiuta a prendere le decisioni giuste. Abbiamo bisogno di maturare umanamente. Con altre parole. Gesù ci nutre così che diventiamo realmente persone mature e la nostra vita diventa buona. 

Adriano: «Santo Padre, ci hanno detto che oggi faremo l’adorazione eucaristica. Che cosa è? Come si fa? Ce lo puoi spiegare? Grazie».

Allora, che cos’è l’adorazione, come si fa, lo vedremo subito, perché tutto è ben preparato: faremo delle preghiere, dei canti, la genuflessione e siamo così davanti a Gesù. Ma, naturalmente, la tua domanda esige una risposta più profonda: non solo come fare, ma che cosa è l’adorazione. Io direi: adorazione è riconoscere che Gesù è mio Signore, che Gesù mi mostra la via da prendere, mi fa capire che vivo bene soltanto se conosco la strada indicata da Lui, solo se seguo la via che Lui mi mostra. Quindi, adorare è dire: «Gesù, io sono tuo e ti seguo nella mia vita, non vorrei mai perdere questa amicizia, questa comunione con te». Potrei anche dire che l’adorazione nella sua essenza è un abbraccio con Gesù, nel quale gli dico: «Io sono tuo e, ti prego, sii anche tu sempre con me».

(J. RATZINGER [Benedetto XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 91-96).

Siate ciò che vedete e ricevete ciò che siete

Se vuoi comprendere il corpo di Cristo, ascolta l’Apostolo che dice ai credenti: «Voi siete il corpo di Cristo e sue membra» (1Cor 12,27). Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sull’altare del Signore è posto il mistero delle vostre vite. Ricevete il vostro mistero. A ciò che siete, rispondete: «Amen» e, rispondendo lo sottoscrivete. Senti dire: «Corpo di Cristo» e rispondi: «Amen». Sii membro del corpo di Cristo perché il tuo Amen sia vero. Perché il corpo di Cristo nel pane? Non vogliamo dire niente di nostro, ascoltiamo sempre lo stesso Apostolo che, parlando di questo sacramento, dice: «Pur essendo molti, formiamo un solo pane e un solo corpo» (1Cor 10,17). Comprendete e gioite. Unità, verità, fede, carità. «Un solo pane»: chi è quest’unico pane? «Pur essendo molti formiamo un solo corpo». Ricordate che il pane non è formato da un solo chicco di grano, ma da molti […] Siate ciò che vedete e ricevete ciò che siete. Questo ha detto l’Apostolo a riguardo del pane. E ci ha fatto capire con sufficiente chiarezza ciò che dobbiamo intendere riguardo al calice, anche se non lo ha detto esplicitamente. Perché ci sia la forma visibile del pane vengono impastati molti chicchi di grano fino a formare una cosa sola ed è come se avvenisse quanto la santa Scrittura dice dei credenti: «Avevano un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32); così avviene anche per il vino. Fratelli, pensate a come si fa il vino. Molti acini pendono dal grappolo, ma il succo degli acini si fonde in un tutto. Così Cristo Signore ci ha voluto dare un simbolo di noi tutti, ha voluto che facessimo parte di lui e ha consacrato sulla sua tavola il sacramento della nostra pace e unità. Chi riceve il sacramento dell’unità e non conserva il vincolo della pace, non riceve il sacramento a sua salvezza ma una testimonianza a suo danno.

(AGOSTINO, Discorsi 272,1, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp. 1042-1044).

Il pane che ci unisce

Nello spezzare il pane insieme noi affermiamo la nostra condizione spezzata, anziché negare la sua realtà. Diventiamo più consapevoli che mai di essere presi, messi a parte come testimoni di Dio; di essere benedetti dalle parole e dagli atti della grazia; di essere spezzati, non per vendetta o per crudeltà, ma al fine di diventare un pane che può essere dato come cibo agli altri. Quando due, tre, dieci, cento o mille persone mangiano unite alla vita spezzata e versata di Cristo, esse scoprono che la loro stessa vita è parte di quell’unica vita e si riconoscono così a vicenda come fratelli e sorelle.

Vi sono pochi luoghi rimasti al mondo dove la nostra comune umanità può essere elevata e celebrata, ma ogni volta che ci riuniamo attorno ai semplici segni del pane e del vino noi abbattiamo molti muri e cogliamo un barlume delle intenzioni di Dio per la famiglia umana. E ogni volta che questo accade, siamo chiamati a preoccuparci maggiormente non soltanto del benessere dell’altro, ma anche del benessere di tutti nel mondo. Lo spezzare il pane dunque… ci mette in contatto con coloro il cui corpo e la cui mente è stata spezzata dall’oppressione e dalla tortura e la cui vita viene distrutta nelle prigioni di questo mondo. Ci mette in contatto con gli uomini, le donne e i bambini la cui bellezza fisica, mentale e spirituale rimane invisibile a causa della mancanza di cibo e di riparo…

Queste relazioni ci rendono davvero «uniti nel pane» e ci sfidano a operare con tutte le nostre energie per il pane quotidiano di tutti. In questo modo il nostro pregare insieme diventa un appello all’azione.

(Henri J.M. NOUWEN, Compassion, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 197-198).

Preghiera

Non ci sei. Non si vede il tuo Volto.

Ci sei. I tuoi raggi si spargono in mille direzioni.

Sei la Presenza nascosta.

Presenza sempre nascosta e sempre manifesta,

Mistero Affascinante

verso il quale convergono tutte le aspirazioni.

Sei il più lontano e il più vicino di tutto.

Sei sostanzialmente presente

nel mio essere intero.

Tu mi penetri, mi avvolgi, mi ami.

Sei intorno a me e dentro di me.

Con la tua Presenza attiva raggiungi

le zone più remote e più profonde

della mia intimità.

Con la tua forza vivificante

penetri tutto quanto sono e ho.

Prendimi tutto intero,

e fa’ di me una viva trasparenza

del tuo Essere e del tuo Amore,

o Signore amatissimo!

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

CORPUS DOMINI

 

SANTISSIMA TRINITA’

Prima lettura: Proverbi 8,22-31

 

Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo». 

 

Che quanto il Padre possiede sia anche tutto del Figlio si può cominciare a capirlo da questo passo, culmine del lungo prologo del libro dei Proverbi (Pr 1,8-9,18). Là il maestro parla della sapienza al discepolo come il padre al figlio e la stessa Sapienza parla di sé due volte (Pr 1,20-32 e 8,1-36), in una personificazione letteraria, non filosofica o teologica. La seconda volta essa fa questo discorso sulla propria origine, preceduto dalla raccomandazione a seguire lei e i suoi insegnamenti (Pr 8,1-21) e seguito dall’invito ad essere ascoltata (Pr 8,32-36). Delle sue origini parla con riferimenti al racconto della creazione di Gen 1 e con importanti approfondimenti su quello che la parola di Dio dice e lo spirito opera. Prima afferma la sua priorità su tutto quanto esiste e poi la sua presenza nell’opera creatrice.

     La priorità su tutto quanto esiste (Pr 8,22-26) pone la Sapienza in rapporto unico con Dio. Da lui, quando nulla ancora esisteva, è stata «creata» (v. 22), nel senso di acquisita e posseduta quasi fosse una persona (cf. Gen 4,1), un’idea resa ancor meglio poi con «generata» (vv. 24s). Da lui fu «costituita» sulle sue opere, con una specie di investitura regale, «dall’eternità» (v. 23) specificata nel senso dei tempi più remoti con le espressioni «fin dal principio, dagli inizi della terra» e «come inizio della sua attività» (v. 22). «Fin dal principio» può esser inteso anche come «alla base» dell’agire divino, aggiungendo alla priorità temporale quella del modello della causa esemplare.

     La presenza nella creazione (Pr 8,27-31) pone la Sapienza in un rapporto speciale con tutte le opere di Dio. «Io ero là» (v. 26) non significa di per sé una presenza attiva. Ma poi «Io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno» (v. 30) dice una partecipazione al compiacimento divino, ripetuto in Gen 1 con «vide che era cosa buona». E il successivo «dilettandomi» presenta la Sapienza anche come suscitatrice della gioia in ogni opera creata da Dio, in generale sul globo terrestre e in particolare «tra i figli dell’uomo» (v. 31). Quest’ultimo aspetto è portato avanti poi da Sir 24 e da Sap 7,22-8,1.

     Il brano liturgico non rivela dunque ancora la Trinità. Ma è tra quelli che più da vicino, nell’Antico Testamento, hanno preparato la rivelazione della seconda Persona come Sapienza e Parola eterna che procede dal Padre e opera in sintonia con lui. Aiuta a capire l’affermazione di Gesù: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (Vangelo), alla luce del prologo di Giovanni che si ispira a questo passo dei Proverbi (Gv 1,1-18 in particolare 1,3-4), come poi anche l’inno cristologico di Col 1,15-20 e l’esordio della lettera agli Ebrei (Eb 1,2-4). E della paternità di Dio apre la prospettiva cosmica, oltre a quella strettamente religiosa.

 

Seconda lettura: Romani 5,1-5

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

 

 

Idea dominante di questo passaggio della lettera ai Romani è la speranza viva accesa in noi dalla giustificazione o recupero dal peccato e dalle mirabili prospettive di vita nuova, per il dono della grazia di Cristo e per l’amore dello Spirito Santo: inizia gli sviluppi che da Rm 5 culminano in Rm 8. Tutta la Trinità vi appare, ma è opera soprattutto dello Spirito Santo il sostegno nel cammino della speranza, nominata qui da Paolo per tre volte, in altrettante riprese del pensiero.

     Prima (vv. 1-2) egli dice che la risposta di fede al dono della grazia di Cristo mette nella pace con Dio, che nella Bibbia vuol dire crescita armoniosa e piena della vita. A tale pace si accompagna un «vanto» particolare, nel senso anche di ambizione, ma nel significato più santo e profondo, quale il gloriarsi per un fondamento sicuro della vita. È un vanto che si proietta nella speranza nientemeno che «nella speranza della gloria di Dio», cioè di arrivare a tutta la ricchezza e lo splendore dell’opera di salvezza voluta dal Padre (cf. Rm 8 ed Ef 1,3-14).

     Poi (vv. 3-4) l’apostolo fa un passo indietro a indicare quasi un supporto pure umano della speranza. Dice infatti che motivo del vanto è anche il travaglio che continua ad essere richiesto al credente per vivere la fede. Perché è un travaglio che costruisce e solidifica la speranza, salendo quattro ideali gradini: dalla tribolazione o persecuzione alla pazienza o capacità di sopportare, dalla pazienza all’irrobustimento della virtù, e da questo alla sicura speranza.

     Infine (v. 5) torna al fondamento divino per il quale la speranza cristiana non può andare delusa: l’amore di Dio nei nostri cuori, cioè nelle profondità più intime delle nostre persone. Si tratta primariamente dell’amore che Dio ha per noi, portato e alimentato dentro di noi dallo Spirito Santo. Ma, al culmine degli sviluppi di questa parte della lettera, Paolo dirà che lo Spirito Santo rende attivi anche noi nella corrispondenza allo stesso amore, in quanto: ci fa gridare «Abbà, Padre!»; sostiene il gemito per la rivelazione al mondo dei figli di Dio, paragonabile alle doglie di un parto; e ci mette dentro con gemiti inesprimibili i desideri e quello che è conveniente domandare per la piena realizzazione dei disegni amorosi di Dio (cf. Rm 8,15-16.22-24,26-27).

 

Vangelo: Giovanni 16,12-15

 

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

 

Esegesi 

     In questo brano del secondo discorso dell’ultima Cena (Gv 15-16), Gesù torna sulla promessa dello Spirito Santo. Nel primo discorso ne aveva annunciato l’opera a favore della comunità dei discepoli (Gv 14,16-17.25-26), adesso ne prospetta la testimonianza di fronte al mondo, che opererà in un duplice modo (cf. Gv 15,26): come diretto accusatore del mondo nelle coscienze umane (Gv 16,5-11) e come guida nella testimonianza che anche i discepoli hanno da dare, nel continuo e impegnativo sviluppo dell’esistenza dentro al mondo (la lettura odierna). Destinatario del messaggio sono le comunità cristiane della fine del primo secolo e, insieme con loro, tutte le successive impegnate nella lotta contro il male e nella propria crescita.

     Lo Spirito Santo — dice Gesù — sarà intermediario, lungo la storia, fra le Persone divine e noi. Sta per prendere il suo posto e dirà ai discepoli le cose che egli ora non può dire loro, perché non sono in grado di portarne il peso. Non è che manchino di intelligenza, ma il mistero suo e della Trinità hanno bisogno dell’esperienza vissuta per essere approfonditi. E le esigenze concrete della testimonianza si manifestano alla prova dei fatti, spesso tra ostacoli e persecuzioni: là lo Spirito sarà davvero l’altro Consolatore o Paraclito o Avvocato sostenitore. Questa azione è annunciata con le due frasi: «vi guiderà a tutta la verità» e «vi annuncerà le cose future», o meglio «venute o venienti», perché si tratta non del futuro lontano, ma di quello che istante per istante arriva al nostro presente e che anche noi chiamiamo avvenimenti.

     Questo annuncio e questa guida realizzano la mediazione dello Spirito Santo anzitutto tra la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo, e noi. È Cristo infatti «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). E in riferimento a lui il Paraclito è «lo Spirito della verità» (a questo senso del testo originale è tornata la nuova versione della CEI, correggendo il generico «Spirito di verità» ancora in uso). Infatti: «non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito… prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Quest’ultimo verbo è ripetuto per tre volte alla fine degli ultimi tre versetti: «ananghèlei», un annunciare dall’alto, che vuol dire rivelare e insieme progressivamente attualizzare.

     L’ultimo versetto accenna alla mediazione dello Spirito Santo tra la prima persona della Trinità, il Padre, e noi. Essa passa per l’opera del Figlio. Perché, se lo Spirito guida alla verità tutta intera che è Cristo, prendendo del suo, Gesù aggiunge: «tutto quello che il Padre possiede è mio». Questa estensione si intende bene con il Prologo di Giovanni (Gv 1,1-18), che al Padre attribuisce la creazione e la storia della salvezza, operate e rivelate mediante il Figlio e nel Figlio, l’Unigenito. E spiega l’inserimento liturgico come prima Lettura del brano sulla Sapienza eterna di Dio.

L’immagine della domenica

 

 

II mistero della Trinità e del Verbo incarnato

Mentre un quieto silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso,

la tua parola onnipotente dal cielo, dai troni regali, come inflessibile guerriero

si slanciò in mezzo alla terra votata alla morte, portando, come spada acuta,

l’irrevocabile tuo decreto.

(Sp 18, 14-16)

Meditazione 

Solennità della Santissima Trinità. Una festa di recente istituzione, storicamente ben databile, che ci aiuta a concentrare l’attenzione in modo specifico sulle persone del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Noi siamo soliti parlare genericamente di Dio, cerchiamo di cogliere i tratti del suo volto a partire dalla sua Parola e in particolar modo a partire dall’esperienza di Gesù, che ce lo ha «rivelato» (Gv 1,18). Ma ‘dimentichiamo’ sia lo Spirito santo sia di fissare lo sguardo sulla ‘vita interna’ di Dio, sulla sua interiorità più profonda… Ardua impresa, si potrebbe obiettare: già è difficile capire cosa si annida nel cuore di un essere umano, figuriamoci in quello di Dio! Ma è Gesù stesso, la nostra via (cfr. Gv 14,6) per eccellenza, che ci abilita e anzi ci stimola a questa ricerca. È possiamo cercare di addentrarci nel segreto della vita intima di Dio a partire dal brano evangelico dell’evangelista Giovanni, tratto dai cosiddetti ‘discorsi d’addio’ – che giustamente qualcuno ha definito ‘discorsi di arrivederci’, in quanto sono finalizzati a nuovo incontro tra noi e Gesù. In questi dialoghi con i suoi discepoli, pronunciati poche ore prima della tragica conclusione della sua esistenza, Gesù ha raccolto i desideri, le preoccupazioni, le consegne e le parole che maggiormente gli stavano a cuore. E se queste espressioni ci vengono presentate a un altissimo livello di densità e di profondità – così come è per ogni testamento – siamo allora invitati a moltiplicare la nostra attenzione e la nostra ricerca. Anche la colletta di questa eucaristia ci esorta affinché «nella pazienza e nella speranza, possiamo giungere alla piena conoscenza di te, che sei amore, verità e vita».

I quattro versetti (Gv 16,12-15) del brano evangelico si aprono con la disincantata affermazione di Gesù ai discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso» (v. 12). Troppi fatti avvenuti nelle ultime ore, troppe parole ancora da rielaborare: troppo… di tutto! Capita a chiunque, in momenti particolarmente densi, di non avere più ‘spazio’ per accogliere altre indicazioni e stimoli dalla vita: ci vuole una pausa e uno stacco. Ma… se non ora, quando?

Gesù non ha più tempo! Il suo tempo, la sua ‘ora’ (cfr. Gv 2,4) è ormai imminente! È stupefacente osservare la signoria con cui Gesù allora apre all’azione dello «Spirito della verità» (v. 13) e richiama la perfetta comunione tra Lui e il Padre: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (v. 15). Gesù appare perfettamente padrone della situazione e del tempo, non introduce ‘a denti stretti’ il Padre e lo Spirito, quasi a rincalzo e a delega di una sua incapacità a compiere tutto quanto si era prefissato. No, egli sa bene – potremmo dire per esperienza diretta e costante – che è divino non solo il donare ma anche il ricevere, l’offrire come anche l’accogliere. Questo è forse il tratto che ci colpisce maggiormente: la piena condivisione di intenti e di operazioni all’interno della Trinità, condivisione che diviene simbolo e modello per la Chiesa e per ogni compagine umana. L’amore si alimenta in un incessante dare e ricevere e Dio stesso vive così! Un vero leader non fa tutto da solo ma cerca collaborazione e apre volentieri lo spazio all’azione di altri, che completano la sua opera, approfondendola e cogliendone tutte le implicazioni (cfr. vv. 13-14). Non c’è traccia di alcuna forma di durezza, rigidità o autosufficienza: Gesù coinvolge in questo circolo addirittura i suoi discepoli, prolungando l’azione della Trinità stessa! C’è da rimanere stupiti e quasi disorientati da tanta stima e generosità!

Il brano della Lettera ai Romani che costituisce la seconda lettura liturgica riprende la medesima immagine: «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato» (5,5). C’è un dono che ci raggiunge e, se accettiamo di accoglierlo con riconoscenza, ci abilita a un’azione missionaria capace di renderci forti e maturi perfino nelle tribolazioni (cfr. vv. 3-4). La delizia di Dio (cfr. Pr 8,30-31; prima lettura), del Padre, del Figlio, dello Spirito santo risulta allora essere quella di coinvolgere in questa dinamica d’amore ogni essere umano, svelandoci in tal modo la elementare e gioiosa essenza della propria intimità. Domandiamo ancora al Dio uno e trino lo stupore e il coraggio di partecipare in pienezza «a questa grazia nella quale ci troviamo» (Rm 5,2).

Preghiere e racconti

Racconto

Si racconta che un giorno S. Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa, era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità. Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia, vide un bambino che faceva una cosa molto strana: aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino, andava al mare, prendeva l’acqua e la versava nel fosso. E così di seguito. E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede: «Che cos’è che stai facendo?» E il ragazzo: «Voglio mettere tutta l’acqua del mare in questo fosso». S. Agostino sentendo ciò rispose: «Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare. Ma come puoi pensare di riuscirci? Il mare è immenso, e il fosso è piccolo. E poi, con questo cucchiaino non basta la tua vita». E il ragazzo, che era un angelo mandato da Dio, gli rispose: «E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l’infinito mistero di Dio?». Agostino capì che Dio è un grande mistero. E capì che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore, che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.

La mia vita

Sul suo stemma vengono conservati le teste di due mori incoronati, che da circa mille anni, figurano di regola nello stemma dei vescovi di Frisinga. Non è ben chiaro il loro significato, ma per lui sono (Cf. E. BIANCO, Benedetto XVI lavoratore nella vigna, 57.) “l’espressione dell’universalità della Chiesa, che non conosce nessuna distinzione di razza e di classe” (J. RATZINGER, La mia vita, 120-121). La conchiglia è per Ratzinger anzitutto il segno dell’identità dei pellegrini in cammino. Ma essa ricorda a Ratzinger anche la leggenda secondo cui Agostino, che si lambiccava il cervello attorno al ministero della Trinità, avrebbe visto sulla spiaggia un bambino mentre giocava con una conchiglia, con cui attingeva l’acqua del mare per travasarla in una piccola buca. Gli sarebbe stato detto che questa buca poteva contenere l’acqua del mare, quanto la sua ragione poteva afferrare il mistero di Dio (Cf. J. RATZINGER, La mia vita, 121). “Per questo la conchiglia rappresenta per me un richiamo al mio grande maestro, Agostino, un richiamo al mio lavoro teologico e, insieme, alla grandezza del mistero, che è sempre molto più grande di tutta la nostra scienza”.

(J. RATZINGER, La mia vita, 121).

Oggi è la Domenica della Santissima Trinità

La luce del tempo pasquale e della Pentecoste rinnova ogni anno in noi la gioia e lo stupore della fede: riconosciamo che Dio non è qualcosa di vago, il nostro Dio non è un Dio “spray”, è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: «Dio è amore». Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi. Gesù cammina con noi nella strada della vita.

La Santissima Trinità non è il prodotto di ragionamenti umani; è il volto con cui Dio stesso si è rivelato, non dall’alto di una cattedra, ma camminando con l’umanità. E’ proprio Gesù che ci ha rivelato il Padre e che ci ha promesso lo Spirito Santo. Dio ha camminato con il suo popolo nella storia del popolo d’Israele e Gesù ha camminato sempre con noi e ci ha promesso lo Spirito Santo che è fuoco, che ci insegna tutto quello che noi non sappiamo, che dentro di noi ci guida, ci dà delle buone idee e delle buone ispirazioni.

Oggi lodiamo Dio non per un particolare mistero, ma per Lui stesso, «per la sua gloria immensa», come dice l’inno liturgico. Lo lodiamo e lo ringraziamo perché è Amore, e perché ci chiama ad entrare nell’abbraccio della sua comunione, che è la vita eterna.

 (PAPA FRANCESCO, ANGELUS, Piazza San Pietro, Solennità della Santissima Trinità, Domenica, 26 maggio 2013)

Gloria tibi Trinitas!

Hans Urs von Balthasar ha approfondito una stupenda analogia per parlare dell’azione trinitaria in favore di noi uomini, per parlare della Trinità per come la conosciamo noi in quello che ha fatto per noi uomini. L’analogia è quella del teatro.

Pensiamo al teatro, ad un dramma. Pensiamo al rapporto che c’è tra l’Autore del testo del dramma, l’Attore protagonista della scena e il Regista di tutta la scena.

Quanto i tre fanno può essere espresso dai verbi seguenti:

L’Autore genera, concepisce, esprime, formula.

L’Attore incarna, rende vivo, realizza, presta alla parola dell’autore presenza e azione.

Il Regista ispira, suggerisce, dirige, orchestra, armonizza.

Pensiamo ad un dramma in cui i tre sono coinvolti allo stesso modo: perché l’attore è la persona più cara per l’autore, perché nell’attore persona e ruolo coincidono, il dramma cioè è qualcosa in cui non si recita ma si vive, chi fa la parte del re è re davvero, non si muore per finta, ma con vero spargimento di sangue.

La bellezza della rappresentazione dipende tutta dalla sintonia del regista e dell’attore con l’autore. Il pubblico è coinvolto, ci sono ponti fluidi tra platea e scena.

Chi sono l’Autore, l’Attore e il Regista del dramma divino che coinvolge l’uomo? Sono proprio il Padre, il Figlio e lo Spirito.

Il Padre genera, esprime, formula, dà tutto ciò che è.

Il Figlio incarna, rende vivo, realizza, dà presenza e azione.

Lo Spirito Santo ispira, suggerisce, dirige, orchestra, unisce nella distanza.

La bellezza che attrae, stupisce e coinvolge è la sintonia perfetta, l’unità.

Il Padre non troneggia immobile, giudice sopra il dramma. Il suo testo è il suo stesso piegarsi sulla sua creatura.

L’Attore, il Figlio è ciò che di più caro il Padre abbia. In lui persona e ruolo coincidono perfettamente, non c’è neppure un minuto in cui reciti, vive! Muore e risorge realmente.

Lo Spirito Santo sa cogliere perfettamente lo spirito del testo: è lui! È allo Spirito che il Padre affida il suo testo, è all’interpretazione e alla guida dello Spirito che il Figlio si affida per tradurre in vita il testo.

Che il mondo lo voglia o no il suo dramma è dramma trinitario, dramma dell’amore puro dono di sé.

Noi cristiani lo sappiamo, e sappiamo che sta qui il senso vero, ultimo della vita.

Sta a noi lasciarci coinvolgere fino in fondo e portare questo nella vita di ogni giorno.

Gloria tibi Trinitas!

 Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito

La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.

Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui. Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose. Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito. Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6]. Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio. A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6). Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.

(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp. 88-90).

Dio è Amore

Al nonno, professore universitario, che cercava di trasmettergli il concetto che “Dio è onnisciente, onnipotente, non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, insomma è tutto!” il nipotino di cinque anni rivolge a bruciapelo questa domanda inaspettata: “ma senti un po’ nonno, se Dio è tutto perché ha fatto il mondo?

Quando mi raccontarono il fatto rimasi sbalordito, ero appena uscito dalla lettura di due testi, il primo di un fisico, premio Nobel, Steve Weinberg che chiudeva il suo libro sull’origine dell’universo con una frase più o meno simile: quanto più l’universo ci diventa noto, tanto più non riusciamo a spiegarcene il perché, ci resta incomprensibile. Il secondo libro era di un teologo, Hans Urs von Balthasar, il quale affermava che: il mondo rimane per noi incomprensibile non soltanto se Dio non c’è, ma anche se Dio c’è e non è Amore.

La domanda “se Dio è tutto perché ha creato il mondo?” può avere una sola risposta: perché Dio è Amore.

La prima conclusione suona allora così: se il mondo c’è, Dio è Amore.

Il patto di Dio

Dio ha fatto un patto con noi. Il termine inglese covenant (patto, alleanza) significa ‘con-venire’: Dio vuole venire insieme con noi. In molti dei racconti della Bibbia ebraica, troviamo che Dio appare come un Dio che ci difende contro i nostri nemici, ci protegge contro i pericoli e ci guida alla libertà. Dio è un Dio-per-noi. Quando Gesù viene, si rivela una nuova dimensione dell’alleanza. In Gesù Dio è nato, diviene adulto, vive, soffre e muore come noi. Dio è un Dio-con-noi. Infine, quando Gesù lascia questa terra, promette lo Spirito Santo. Nello Spirito Santo Dio rivela pienamente la profondità del suo patto. Dio vuole essere vicino a noi quanto il nostro respiro, Dio vuole respirare in noi, affinché tutto quello che diciamo, pensiamo o facciamo sia completamente ispirato da Dio. Dio è Dio-in-noi. Il patto di Dio ci rivela dunque quanto Dio ci ami.

(Henri J.M. NOUWEN, Pane per il viaggio, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 59).

Preghiera

Lode a te, o Dio, che sei Padre, Figlio e Spirito,

che sei il termine eccedente del mio desiderio

e la fonte inesauribile del mio stupore.

Lode a te che hai voluto entrare nella nostra e nella mia storia

per mostrare che la mia solitudine radicale è vinta,

che la mia morte non potrà avvincermi in forma definitiva.

Lode a te che vinci il mio timore di perdermi se ti lascio spazio nel mio cuore.

Lode a te che mi avvolgi nella tua nube

e in essa mi sveli il tuo mistero,

che è il mistero della mia stessa vita ardentemente indagato.

Lode a te che sei l’amore traboccante e perennemente accogli e salvi la mia fragilità.

Lode a te che mi concedi di entrare nella tua comunione

e mi dischiudi possibilità di relazioni vertiginose.

Lode a te che mi conduci sulla via della dedizione

seducendo il mio spirito desideroso di pienezza.

Lode a te che sei il principio, l’ambiente e la meta di tutto quanto io posso fruire.

Lode a te che sei il mio Tutto.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

TRINITÀ 

PENTECOSTE

Prima lettura: Atti 2,1-11

 

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

 

L’azione formativa di Gesù sulla comunità apostolica era sostanzialmente completata. Mancava però un elemento, certo non trascurabile, per conferire organicità, profondità, pienezza di vedute e forza di azione. Gesù stesso lo aveva richiamato, esigendo dagli apostoli di non muoversi da Gerusalemme prima del compimento della promessa (cf. At 1,4). In modo esplicito, poi, aveva parlato della forza dello Spirito Santo che li avrebbe resi testimoni a Gerusalemme e nel mondo intero (cf. v. 8).

     Luca ci regala nel secondo capitolo degli Atti due splendide icone, quella dello Spirito (2,1-13) e quella della Parola (2,14-41). La seconda dipende in modo determinante dalla prima: lo Spirito è la forza aggregante che fa di vari gruppi una comunità; la Parola è il dono che la comunità ha il compito di vivere e di comunicare agli altri. La lettura odierna si interessa della prima parte del capitolo, composta da una introduzione, con soggetto e luogo (v. 1), dalla rappresentazione del fatto e delle sue conseguenze sugli interessati (vv. 2-4), e, infine, dall’effetto su scala mondiale (vv. 5-11).

     Il giorno di pentecoste segna il compimento della formazione data da Gesù. La piccola e timorosa comunità ecclesiale sta riunita insieme. Possiamo ritenere che sia la stessa, vista precedentemente raccolta in preghiera e formata da apostoli e laici, da uomini e donne (cf. At 1,14). «Mentre stava compiendosi il giorno…» indica, più che una conclusione (sono appena le ore 9 del mattino), un compimento, come ben suggerisce il verbo greco, symplêroô, allusione al compimento di una storia di promesse e di attese (cf. Lc 9,51).

     L’esperienza dello Spirito avviene mediante i segni teofanici del vento e del fuoco che vengono dal cielo; non si tratta di suggestione umana, bensì di dono dall’alto. L’esperienza è soprattutto interiore, ma c’è bisogno di un riscontro esteriore che documenti la nuova realtà (cf. il caso del paralitico di Mt 9,l-8). Ecco allora il «parlare in altre lingue». Forse per questo nuovo parlare in lingue si propone l’immagine di «lingue come di fuoco». A detta di Fabris, questa immagine è suggerita dalla tradizione giudaica circa il dono della legge o della parola al Sinai. Secondo una tradizione testimoniata da Filone e dai Targumim, la voce di Dio si divise in più lingue (Tg Dt 32,2), addirittura in 70 lingue perché tutte le nazioni potessero comprendere. Luca vuole dire che TUTTI sono ora abilitati dal dono dello Spirito ad essere profeti. La vera identità della comunità non si fonda sulla legge, ma sul comune dono ricevuto E sarà questo dono che permetterà di penetrare la legge e di viverla dall’interno realizzando la profezia di Ger 31,31-34 e di Ez 36,25-28.

     Che sia finito il tempo di gruppi elitari, lo si capisce dal concetto di totalità, ben espresso mediante un elenco di diversi gruppi di giudei che provenendo da varie parti, sentono un solo linguaggio. Si incontra infatti una lista di 13 popoli e paesi che Luca riporta per sottolineare, secondo la geografia imperiale dell’epoca, il senso di universalità. La lista è divisa in tre parti. Dapprima compare un gruppo di tre popoli che si trovano oltre il confine orientale dell’impero: «Siamo parti, medi ed elamiti» segue un secondo gruppo con nove regioni: «abitanti della Mesopotamia…»; un terzo gruppo si differenzia dai precedenti presentandosi così: «Romani qui residenti». Si distingue poi tra «Giudei e proséliti» (differenze etnico-religiose) e «cretesi e arabi», equivalente alla distinzione tra «abitanti delle isole e della terra ferma» (differenza culturale). Come si può osservare, la linea geografica si è mossa dall’area mediorientale per arrestarsi a Roma, dopo essere passata per le zone intermedie che collegano idealmente Gerusalemme con Roma. In quel giorno a Gerusalemme sono convocati i rappresentanti dei futuri cristiani. Insomma, il dono dello Spirito arriva a tutti.

     Lo Spinto non restituisce agli uomini un identico linguaggio ma permette agli apostoli di parlare a individui di ogni lingua e di essere da loro compresi. Si scorge l’intento universalistico della Chiesa che hanno dalla sua origine. Sa missione di portare a tutti i popoli il messaggio del suo Signore.

     Lo Spirito dono del Padre richiesto da Gesù, ha pure una sua ‘sacramentalità’ che la prima lettura si impegna a registrare. Non si tratta di una ‘fotografia’, ma neppure di un vago simbolo. Il testo registra dei fatti arricchiti da quella comprensione piena che permette di cogliere la sostanzialità degli eventi. Una fotografia mostra senza spiegare un simbolo spiega senza mostrare. Dalla combinazione nascono le pagine evangeliche e di tutto il N.T.: felice connubio tra storia e teologia (cf. Dei Verbum, 19).

Seconda lettura: Romani 8,8-17

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

 

 

Il cap. 7 si chiudeva con una angosciosa domanda alla ricerca di un liberatore e contemporaneamente con la serena speranza di poterlo trovare in Cristo: a lui veniva indirizzata una preghiera di ringraziamento. Il cap. 8 dà spessore storico-teologico a tale speranza ed ha come tema la nuova condizione esistenziale del credente, ormai liberato dalla potenza del peccato, dalla morte e della legge e in tensione, sotto la guida e la mozione dello Spirito, verso la pienezza della redenzione.

     Lo Spirito è il centro focale del cap. 8: lo si nota anche statisticamente perché ritorna 20 volte in questo capitolo su un totale di 32 in tutta la lettera. Qui, tra l’altro, è posto in antitesi con la carne. L’antitesi Spirito-carne contiene diverse varianti (cf. vv. 4.5.6.8-9.12.13) le quali indicano che la contrapposizione abbraccia l’essere, l’agire, il vivere, l’orientamento, il pensare dell’uomo. Siamo quindi in presenza di determinazioni centrali, essenziali, tanto importanti da determinare il presente e anche il futuro (cf. v. 13).

     L’antitesi paolina non deve essere confusa o assimilata con altre che potrebbero sembrare simili, mentre sono in realtà profondamente diverse. Il mondo greco, per esempio, conosceva l’antitesi tra anima e corpo, la prima spirituale e immateriale, il secondo concreto e materiale. Paolo si orienta molto diversamente: per lui l’antitesi ha carattere dinamico, esistenziale e coglie l’uomo come unità psicofisica e non come composto, alla maniera greca. Per Paolo lo Spirito e la carne sono due opposti dinamismi che orientano radicalmente tutta la vita. Inoltre lo Spirito non rappresenta una possibilità autonoma dell’uomo, un pos-sesso che si ritrova fin dalla nascita solo perché si è uomini, ma è un dono di Dio.

     È di questo dono che bisogna vivere, per non essere debitori alla carne, principio della prassi egocentrica. Paolo ricorda la scelta fatta dai cristiani di Roma e illustra, in modo chiaro, la dimensione trinitaria della vita: «Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene» (v. 9). Non avere lo Spirito equivale a privarsi del dono di Dio, della sua stessa vita, che al v. 10 riprende il nome di ‘giustificazione’, tema ampiamente trattato nei capitoli precedenti. Ora lo stesso tema si arricchisce, sia contenutisticamente perché, si comprende l’azione dello Spirito, sia linguisticamente, perché si introduce il concetto di ‘vita’ (cf. v. 11). Quello di vita è un termine facilmente comprensibile che illustra ulteriormente quello meno comune di giustificazione.

     Dopo aver trattato dell’antitesi Spirito-carne, prende avvio il tema della figliolanza divina che si spinge fino al v. 30 (ben oltre il brano liturgico). L’esperienza dello Spirito è tematizzata come esistenza da figli di Dio. È la vita dinamica, ancora in fase di sviluppo come si vede dal tema dell’attesa, ma già orientata verso la meta. Il v. 14 e la tesi teologica che regge tutto il brano, fondata su due poli, la guida dello Spirito e la figliolanza divina: la seconda dipende dalla prima.

     Lo Spirito, principio di vita nuova in quanto abilita ad essere figli di Dio, è anche principio di preghiera nuova. Tale novità non si limita al solo insegnamento, ma egli stesso prega in noi. Non dice quello che dobbiamo fare, ma lo fa con noi. Egli ci fa dire Abbà. Formula sconosciuta al giudaismo, è invece caratteristica del Figlio di Dio, Gesù Cristo. Lui solo poteva dire in tutta libertà tale titolo (cf. Mc 14,36), e lui solo poteva autorizzare i credenti a ripeterlo (cf. Gal 4,6). Giunge così a conclusione il cammino dell’Antica Alleanza: si era partiti da una paternità rispettosa ma lontana, e si arriva ad una paternità, sempre rispettosa ma confidenziale. Gesù ha insegnato a colloquiare con Dio con il linguaggio semplice, spontaneo e fiducioso del bambino che si rivolse a suo padre chiamandolo teneramente ‘papà’, ‘babbo’. È lo Spirito che fa ripetere questa dolce parola, che infonde il sentimento della figliolanza divina che ci fa sentire figli di Dio (cf. v. 16). Anche da questa prospettiva si coglie la dimensione trinitaria della vita cristiana.

Vangelo: Giovanni 14,15-16.23-26

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

 

 

Esegesi 

     Si comprende la scelta del brano evangelico nel contesto della solennità odierna. Il testo tratta ovviamente dello Spirito Santo, presentando alcuni aspetti della sua molteplice attività. Da quello che Egli fa, veniamo a sapere qualcosa di quello che Egli è. Egli agisce in stretta relazione sia con Gesù e il Padre, sia con la comunità ecclesiale, rappresentata dai discepoli.     

     All’interno dei discorsi di addio Giovanni inserisce cinque affermazioni tipiche e originali sullo Spirito Santo, chiamate spesso dagli studiosi ‘le cinque promesse’. Diamo una essenziale mappa di orientamento. La prima e seconda promessa sono all’interno del primo discorso (14,16-17 e, 14,26), la terza nel secondo discorso (15,26-27), la quarta e la quinta nel terzo discorso (16,5-11 e 16,12-15). Il nostro brano contiene le prime due.

     Vi troviamo, per lo Spirito, il particolare titolo «Paraclito». Esso compare in tutto il NT cinque volte e ricorre solo nei discorsi di addio (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7) e nella prima lettera di Giovanni (1Gv 2,1). Doveva essere un termine noto ai primi destinatari, perché provvisto di articolo determinativo; lo è meno per noi. Il significato base è quello di ‘chiamato presso’ (dal greco kaléo ‘chiamare’ e pará ‘presso’, cf. latino advocatus, italiano ‘avvocato’). Non sembra avesse un significato tecnico, indicando piuttosto un amico o una persona di fiducia ‘chiamata in aiuto’ in occasione di crisi o difficoltà. La radice greca indica anche il conforto, la consolazione che, sappiamo da altri scritti (cf. 1Cor 14,1-3; At 9,31) apparteneva all’attività dello Spirito. Da qui i tentativi di traduzione italiana che propongono «Avvocato» o «Consolatore» (testo ufficiale), cogliendo aspetti veri ma, tutto sommato, sempre parziali. Nell’impossibilità di trovare un equivalente esatto, molti preferiscono usare anche in italiano il termine greco «Paraclito».

     Un’abbagliante luce pasquale si stende sul presente brano e su tutti i discorsi di addio. La dipartita di Gesù non è una partenza senza ritorno, né una partenza infruttuosa. Con la sua morte e risurrezione egli «prepara un posto», cioè rende possibile ai discepoli la comunione con il Padre. Non si tratta, ovviamente di un posto in senso spaziale o geografico, ma di un ‘luogo teologico’ nel senso di immettere i discepoli nel circuito della relazione trinitaria. Il posto potrebbe essere meglio definito come ‘incontro’ con la persona del Padre. Cristo è colui che è via, o mezzo, che rende possibile tale incontro. Quello che è stato Gesù durante la sua presenza fisica, lo sarà lo Spirito nel ‘tempo della Chiesa’. Gesù aiuta i suoi a sbirciare un poco nella vita eterna. Egli diventa la via che conduce al Padre al quale lo lega una relazione unica, espressa precedentemente con una frase lapidaria che vale un trattato di teologia: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Grazie a questa comunione di vita, aggira il problema della inaccessibilità del Padre e ne diventa il rivelatore per eccellenza: «Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9).

     Nonostante queste fulminanti rivelazioni, i discepoli si trovano nella zona d’ombra di smarrimento interiore perché Gesù ha annunciato la sua dipartita. Egli allora enuncia la prima delle cinque promesse dello Spirito (vv. 16-17). Notiamo che Gesù parla di «un altro Paraclito», ovviamente perché ritiene se stesso il primo Paraclito; egli ha assicurato ai discepoli la sua presenza e ha svolto la funzione di guida, compiti che ora trasmette allo Spirito.

     Il v. 26 concentra l’attenzione sulla natura del rapporto misterioso che unisce l’insegnamento dello Spirito e quello di Gesù. Nel «mio nome» indica la perfetta comunione con il Padre e il Figlio nella missione dello Spirito. Se lo Spirito è inviato nel nome di Gesù, allora suo compito sarà quello di rivelare il Cristo, di fare conoscere il suo vero nome di Figlio di

Dio che esprime sotto il mistero della sua persona. L’insegnamento dello Spinto e la sua azione di ricordare hanno un unico e medesimo oggetto: l’insegnamento di Gesù nel suo insieme. Di conseguenza non esiste un insegnamento dello Spirito indipendente da quello di Gesù. Il fatto è di grande importanza teologica perché si dice che lo Spirito non apporta

nulla alla rivelazione di Gesù, il solo che sia LA PAROLA (Logos). L’attività dello Spirito sarà eminentemente attività di interiorizzazione di quello che Gesù ha detto e fatto.

     Esiste quindi una continuità tra l’opera di Gesù e quella dello Spirito, pur nel diverso tipo di presenza. Tale continuità viene evidenziata dall’attività dello Spirito che riprende, per una interiorizzazione e comprensione più matura, l’insegnamento di Gesù (vv. 25-26). Il ‘nuovo Paraclito’ avrà la funzione di continuare, quasi di prolungare, l’attività di Gesù. Vediamo alcuni paralleli: Gesù pregherà il Padre perché lo Spirito rimanga con i credenti per sempre (14,16); attraverso tutto il IV Vangelo si dice che Gesù è stato con i suoi (3,22; 6,3); soprattutto durante l’ultima Cena Gesù richiamerà questi rapporti familiari. In 14,26 si dice che lo Spirito dovrà insegnare; Gesù è sempre stato maestro (6,59; 7,14). Più avanti, fuori dal testo proposto dalla liturgia odierna, in 16,8 lo Spirito mette in luce il peccato del mondo; Gesù non solo è la luce che fuga le tenebre del mondo, ma pure denuncia ripetutamente il peccato dei suoi avversari (8,21).

     Inoltre Gesù rimprovera al mondo di non essersi accorto della presenza dello Spirito nella sua missione terrena: ecco il significato del ‘non vedere’ e quindi del ‘non conoscere’ (cf. v. 17). Il rifiuto di Gesù da parte del mondo, cioè i Giudei, è il rifiuto dello Spirito. In ben altra situazione si trovano i discepoli che hanno accolto Gesù.

     Quello dello Spirito è un dono che Gesù chiede al Padre. Ne viene un bel quadro che raffigura i discepoli in intima relazione con la Trinità. La comunità non è qui sola, né abbandonata alla furia devastatrice del mondo, perché la presenza dello Spirito la conforta rassicurandola che Gesù è sempre con lei, vivo e operante: è un perenne annuncio pasquale. Nasce una nuova famiglia, amata dal Padre, fondata da Gesù, animata dallo Spirito.

 L’immagine della domenica

 

 

Vieni in me, Spirito Santo,

Spirito di sapienza:

donami lo sguardo e l’udito interiore,

perché non mi attacchi alle cose materiali,

ma ricerchi sempre le realtà spirituali.

Vieni in me, Spirito Santo,

Spirito dell’amore:

riversa sempre più

la carità nel mio cuore.

Vieni in me, Spirito Santo,

Spirito di verità:

Concedimi di pervenire

alla conoscenza della verità

in tutta la sua pienezza.

Vieni in me, Spirito Santo,

acqua viva che zampilla

per la vita eterna:

fammi la grazia di giungere

a contemplare il volto del Padre

nella vita e nella gioia senza fine.

Amen.   (S. Agostino)

Interno Markathal (Rotterdam – Olanda) – 2016

 

 

Meditazione 

     «Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste» (At 2,l): Luca introduce il racconto della discesa dello Spirito sugli apostoli radunati a Gerusalemme sottolineando che ciò che accade è un evento di compimento. Si compie la Pentecoste, si compiono i cinquanta giorni della Pasqua. Nella discesa dello Spirito Santo giunge a compimento il mistero pasquale, proprio perché lo Spirito ci viene donato per renderci pienamente partecipi della morte e risurrezione del Signore Gesù; del suo amore e dell’amore del Padre che in modo insuperabile la Croce rivela; della vita nuova e risorta che dalla Croce scaturisce.

     San Paolo lo ricorda con vigore nel brano della lettera ai Romani che ascoltiamo come seconda lettura nell’eucaristia di questo giorno. «E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (v. 11). Poco dopo aggiunge: «tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (vv. 14-15).

     Nello Spirito diveniamo eredi di Dio e coeredi di Cristo: quello che lui vive e che costituisce la sua più intima identità – la comunione d’amore con il Padre – ci viene comunicato. Per questo motivo, in un altro passo delle sue lettere, Paolo può affermare che «il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà» (2Cor 3,l7). Infatti, solamente nello Spirito possiamo gridare «Abbà, Padre»; è lo Spirito a donarci la libertà dei figli, unificando la nostra vita e trasformandola in un’esistenza filiale, in un vivere da figli e non più da schiavi. Il che implica riconoscersi figli dello stesso Padre e fratelli tra di noi, chiamati ad accoglierci e a comprenderci nonostante la diversità delle lingue parlate da ciascuno. Il segno della Pentecoste fa di Gerusalemme il compimento di quel desiderio che gli uomini avevano cercato di appagare in modo confuso progettando Babele, come città agognata «per non disperderci su tutta la terra» (cfr. Gen 11,4). Non si può edificare la città di una pacifica convivenza tra gli uomini imponendo a tutti di parlare la medesima lingua. È, al contrario, necessario accogliere il dono dello Spirito che consente di comprendersi continuando ciascuno a parlare la «propria lingua nativa» (cfr. At 2,6.8). Lo Spirito dona la pos-sibilità di questa reciproca comprensione proprio perché insegna a ogni lingua che è sulla terra a gridare – anche in questo caso nella ‘lingua nativa’ della propria cultura e della propria tradizione religiosa – «Abbà, Padre». La dimensione orizzontale della comunione tra gli uomini può fondarsi unicamente sulla dimensione verticale della loro comunione con Dio, riconosciuto Padre di tutti. Quello che avviene nella Gerusalemme descritta dagli Atti prefigura la Gerusalemme profetizzata dall’Apocalisse, costruita non con mattoni tutti uguali come Babele, ma con pietre preziose, ciascuna diversa dall’altra e rilucente della propria bellezza. La Gerusalemme dell’Apocalisse è insieme città e sposa. L’immagine della sposa allude all’unicità della relazione con il Signore; quella della città alla pluralità di relazioni che gli uomini vivono tra loro. Non si può diventare città senza essere sposa, così come l’essere sposa fa di Gerusalemme una vera città. La relazione con Dio nella quale lo Spirito ci conduce, rendendoci suoi figli ed eredi, fonda un diverso modo di essere in relazione tra noi, non più segnato dalla diffidenza e dall’ostilità, o più semplicemente dall’indifferenza, ma aperto all’accoglienza vicendevole, nella tensione incessante a superare gli steccati dell’incomunicabilità e dell’incomprensione.

     Tutto questo non viene semplicemente dallo sforzo umano, ma dall’agire dello Spirito in noi, come frutto maturo della Pasqua di Gesù e dell’amore trinitario che in essa si è manifestato. L’amore fino al compimento (cfr. Gv 13,1) non si arresta prima di giungere a questa soglia, a divenire cioè amore che si compie in noi, consentendoci di amare come siamo stati amati. Anche questo è il dono dello Spirito Santo nella nostra vita: l’amore con il quale il Padre e il Figlio si amano fino a essere una sola cosa, ci viene donato affinché anche noi possiamo divenire uno (cfr. Gv 17,22-23), dimorando stabilmente in questo stesso amore che, direbbe san Paolo, lo Spirito riversa nei nostri cuori (cfr. Rom 5,5).

     Questo è anche l’annuncio fondamentale che ci raggiunge oggi attraverso il brano evangelico di san Giovanni. Anzi, l’evangelista giunge ad affermare qualcosa di ancora più audace e insperato: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (v. 23). Occorre rimanere nell’amore custodendo la parola di Gesù. Non si tratta tanto della necessità di osservare un comando estrinseco, proposto o imposto all’obbedienza della nostra libertà; piuttosto è necessario accogliere nella parola di Gesù un principio vitale, che manifesta la sua efficacia proprio comunicandoci l’amore stesso di Dio che, mediante la parola ascoltata e accolta, viene ad abitare in noi e ci trasforma, rendendoci capaci di amare come lui ci ama. Il ‘come’ va inteso non in senso imitativo, ma fondativo. Non significa tentare come possiamo, confidando in noi stessi e nelle nostre deboli forze, di imitare l’amore di Dio che Gesù ci rivela; significa piuttosto che sul fondamento di quell’amore, che la parola ci testimonia e ci comunica, ancorandoci a esso e non a noi stessi, diveniamo capaci di una misura di amore che altrimenti non sarebbe nelle nostre possibilità. Se custodiamo la parola in noi, la parola stessa ci condurrà a dimorare stabilmente nell’amore. Riprendendo le immagini dei vangeli Sinottici (cfr. soprattutto il discorso parabolico di Mc 4), possiamo dire che la parola è un seme che porta il frutto abbondante dell’amore. Anche se è indispensabile l’accoglienza del terreno buono, il frutto non dipende dalla qualità del terreno, ma dalla potenza racchiusa nel

seme stesso. Giovanni tuttavia non si accontenta di questa affermazione, si spinge oltre: non solo l’amore di Dio rimane in noi come fondamento delle nostre relazioni; il Padre e il Figlio stessi verranno a prendere dimora presso di noi! Non solo l’amore come dono di Dio, ma la sorgente dell’amore, il Donatore stesso – il Dio-Trinità – viene a dimorare in noi per fare della nostra esistenza il tempio della sua Gloria.

     L’alleanza ora davvero si compie. Tra l’uomo e Dio non c’è più solamente un patto stipulato tra due soggetti, come tale sempre esposto all’infedeltà da parte di uno dei due contraenti (in questo caso l’uomo), e non c’è neppure semplicemente una Legge da osservare come condizione del patto stesso. Ora c’è una reciproca appartenenza nella comunione, addirittura un dimorare l’uno nell’altro. L’uomo dimora in Dio che è amore, il Dio-amore dimora nell’uomo. A sigillare il patto non è più l’osservanza della Legge, il cui dono veniva celebrato nella Pentecoste ebraica; ora è lo Spirito stesso che rimane con noi per sempre. È il respiro di Dio che diviene il nostro respiro; il suo cuore intimo e segreto che trasforma il nostro cuore; l’amore tra il Padre e il Figlio che diviene fondamento e nutrimento del nostro stesso amore. L’amore diviene legge interiorizzata in noi dallo Spirito o, in termini capovolti, lo Spirito interiorizza la Legge in noi unificandola intono al comandamento nuovo, sintesi e compimento di tutti i precetti dell’Alleanza.

     Lo Spirito, promette Gesù, rimarrà con noi «per sempre» (cfr. v. 16). Per sempre non indica solamente una durata temporale. Assicura alla nostra vita che lo Spirito rimarrà con noi anche nei tempi e nei luoghi del nostro peccato e della nostra lontananza da Dio, purché custodiamo la parola di Gesù. Non innanzitutto nel senso che le obbediamo fedelmente e senza incrinature (chi di noi ne sarebbe capace?), ma nel senso che diamo credito alla sua promessa, affidandoci alla sua potenza di perdono e di misericordia. Non è una parola qualsiasi quella che dobbiamo custodire, ma quella Parola, l’ultima e definitiva parola pronunciata dal Padre, senza pentimento alcuno, che è la parola della Pasqua, la parola della Croce. Quella Parola che è il Figlio stesso, crocifisso e risorto per noi e per la nostra salvezza. Nel soffio del suo respiro – lo Spirito Santo – il Padre torna a pronunciare in noi la sua Parola che è il Figlio, per conformarci a lui e chiamare anche noi a divenire suoi figli adottivi. Lo Spirito che abbiamo ricevuto, ci ricorda ancora san Paolo, non è uno Spirito da schiavi, tale da imprigionarci nella paura, ma uno Spirito da figli, che liberando il nostro cuore lo introduce nell’affidamento pieno a colui che possiamo invocare con verità e fiducia come il nostro Abbà, il nostro Padre.

Preghiere e racconti

La Pentecoste

La struttura dell’icona ricorda l’Ultima Cena: allora gli apostoli si stringevano intorno a Gesù per accogliere il suo testamento, ora si raccolgono intorno a Maria per perseverare nella preghiera, in attesa dello Spirito Paraclito. La scena si svolge nella stessa stanza che vide Cristo istituire l’Eucaristia, la «camera alta» di Sion. La comunione di quanti credono in Cristo è custodita dalla sollecita premura di Maria, beata perché per prima ha creduto all’adempimento della parola del Signore (cf Lc 1, 45). La Madre di Dio e degli uomini, che ha conosciuto la potenza dello Spirito nell’Annunciazione, rassicura gli apostoli turbati per il forte vento che si abbatte gagliardo e che riempie tutta la casa dove si trovano. Le lingue di fuoco che appaiono, che si dividono e che si posano su ciascuno di loro non provocano nessun incendio, ma illuminano le loro menti e accendono nei loro cuori il fuoco dell’Amore.

In questa Chiesa nascente, lo Spirito Santo riveste di forza gli apostoli, ricorda loro tutte le parole di Cristo e li rende testimoni del Vangelo sino agli estremi confini della terra.

Maria, nuovamente visitata dalla fecondità dello Spirito Santo, diviene Madre della Chiesa, rifugio mirabile dei discepoli che invocano la sua materna protezione.

Vieni Spirito Santo.

Vento impetuoso,

fuoco che divora,

ma anche brezza leggera,

scintilla di luce.

Vieni in me.

Parola potente,

ma anche lieve sussurro.

Vieni in me. Fresca cascata,

ma anche rivolo d’acqua che estingue l’arsura…

Dammi occhi nuovi,

dammi ali di libertà,

dammi trasparenza di vita,                

dammi tenerezza e audacia

e attenderò con te,

nella speranza,

il nuovo Giorno.

(Domenica GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografa).

Spirito di Dio

Spirito di Dio, che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell’universo e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti. Questo mondo che invecchia, sfioralo con l’ala della tua gloria.

Spirito Santo, che riempivi di luce i profeti e accendevi parole di fuoco sulla loro bocca, torna a parlarci con accenti di speranza. Frantuma la corazza della nostra assuefazione all’esilio. Ridestaci nel cuore nostalgie di patrie perdute.

Spirito Santo, che hai invaso l’anima di Maria per offrirci la prima campionatura di come un giorno avresti invaso la Chiesa e collocato nei suoi perimetri il tuo nuovo domicilio, rendici capaci di esultanza. Donaci il gusto di sentirci estroversi, rivolti cioè verso il mondo, che non è una specie di Chiesa mancata, ma l’oggetto ultimo di quell’incontenibile amore per il quale la Chiesa stessa è stata costituita.

Spirito di Dio, che presso le rive del Giordano sei sceso in pienezza sul capo di Gesù e l’hai proclamato Messia, dilaga sul tuo corpo sacerdotale, adornalo di una veste di grazia, consacralo con l’unzione e invialo «a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, e a promulgare l’anno di misericordia del Signore» (cfr. Lc 4,18-19).

Spirito Santo, dono del Cristo morente, fa’ che la Chiesa dimostri di averti ereditato davvero. Trattienila ai piedi di tutte le croci, quelle dei singoli e quelle dei popoli. Ispirale parole e silenzi, perché sappia dare significato al dolore degli uomini. Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto, e ripeta col salmo: «Le mie lacrime, Signore, nell’otre tuo raccogli» (Sal 56,9).

(Don Tonino Bello).

La fiamma dello Spirito Santo

«Lo Spirito Santo accende sempre il suo fuoco, questa fiamma leggera, silenziosa, che non distrugge e anzi è carica di forza salvifica. Dicendo questo, però, sorge spontaneo chiedersi: Arde ancora, oggi, nella Chiesa, questa fiamma? […]. Arde ancora nella Chiesa questa fiamma riconciliatrice e salvatrice, oppure è soffocata dalla polvere e dalle macerie di una quantità di abitudini, istituzioni, paure? Il cristianesimo è ancora fuoco e Spirito, oppure alla fine anche nel cristianesimo è rimasta solo acqua? l’acqua sollevata dalle teorie e dai discorsi ispirati, che cercano invano di nascondere con belle parole la perdita di realtà che vi si cela?

Quasi ogni giorno, traversando piazza San Pietro mentre vado al lavoro, mi capita di incontrare giovani provenienti da ogni parte del mondo che non rincorrono la carriera, non vogliono solo mettersi in mostra, ma che sono colmi della gioia della fede e vogliono servire Cristo. In essi riluce la gioia e il coraggio della conversione a Cristo. Da incontri come questi io vedo che, sì, quella fiamma arde.

E quando incontro uomini nel pieno degli anni che, senza darsi grande importanza, giorno per giorno, con grande pazienza e umiltà, con bontà e costanza, portano avanti una vita spesso difficile – potrei raccontare parecchie piccole storie di bontà, di cui continuamente vengo a conoscenza – allora so che, sì, quella fiamma silenziosa e pur tuttavia potente arde ancora oggi.

E quando vedo dei vecchi che non hanno in sé alcuna amarezza ma la pura e matura bontà che viene dalla fede, dalla prossimità a Dio in Cristo, allora so che, sì, anche oggi nella Chiesa non c’è solo acqua, ma la fiamma dello Spirito Santo.

[…] Certo, se da qualche parte scoppia uno scandalo, lo si viene a sapere subito in tutto il mondo. La fiamma dello Spirito Santo non dà notizie mediatiche, ma è qui ed è ciò in cui confidiamo. Rimettiamoci ad essa e voglia la Pentecoste aprire gli occhi del nostro cuore affinché possiamo vederla di nuovo.

[…] La fede è risanamento e salvezza. Ma non possiamo essere salvati dalla fede se non accettiamo anche il dolore della trasformazione. Nella lingua di Gesù Cristo, «fuoco» è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce. Senza questa ardente condivisione della croce non esiste cristianesimo.

Ma il fuoco è anche un’immagine d’amore.

Anzi, in realtà queste due immagini coincidono perché la croce è amore e l’amore è croce: proprio in questo stanno la grandezza e la salvezza, e per averne coscienza la semplice esperienza umana è sufficiente. L’attimo di grande entusiasmo e di coinvolgimento non basta, porta a promesse vuote e a delusioni, se non gli diamo continuità e una forma pura attraverso il quotidiano sopportarsi reciproco e sorreggersi, accettarsi e darsi, maturando un amore reale.

Vieni Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco del tuo amore! È una preghiera temeraria, perché chiediamo di essere incendiati dalla fiamma dello Spirito Santo; ma è anche una grande preghiera di salvezza, perché solo questa fiamma ha potere di salvezza. Se ci sottraiamo a essa per voler conservare la nostra vita attuale, perdiamo proprio la vera vita. Solo la fiamma dello Spirito Santo può salvarci, perché solo l’amore redime.

Amen».

(J. RATZINGER [Benedetto XVI], Spirito e fuoco. Discorso tenuto  nel Duomo di Regensburg, 4 giugno 1995 in J. Ratzinger [Benedetto XVI], Vieni spirito Creatore, Lindau, Torino, 2006, 67-76).

«Vieni!»

La Chiesa ha bisogno della sua perenne pentecoste. Ha bisogno di fuoco nel cuore, di parole sulle labbra, di profezia nello sguardo. La Chiesa ha bisogno d’essere tempio dello Spirito Santo, di totale purezza, di vita inferiore. La Chiesa ha bisogno di risentire salire dal profondo della sua intimità personale, quasi un pianto, una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante cioè dello Spirito Santo, che a noi si sostituisce e prega in noi e  per noi «con gemiti ineffabili», e che interpreta il discorso che noi da soli non sapremmo rivolgere a Dio. La Chiesa ha bisogno di riacquistare la sete, il gusto, la certezza della sua verità e di ascoltare con inviolabile silenzio e con docile disponibilità la voce, il colloquio parlante nell’assorbimento contemplativo dello Spirito, il quale insegna «ogni verità».

E poi ha bisogno la Chiesa di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà, l’onda dell’amore che si chiama carità e che è diffusa nei nostri cuori proprio «dallo Spirito Santo che ci è stato dato». Tutta penetrata di fede, la Chiesa ha bisogno di sperimentare l’urgenza, l’ardore, lo zelo di questa carità; ha bisogno di testimonianza, di apostolato. Avete ascoltato, voi uomini vivi, voi giovani, voi anime consacrate, voi fratelli nel sacerdozio? Di questo ha bisogno la Chiesa. Ha bisogno dello Spirito Santo in noi, in ciascuno di noi, e in noi tutti insieme, in noi Chiesa. Sì, è dello Spirito Santo che, soprattutto oggi, ha bisogno la Chiesa. Dite dunque e sempre tutti a lui: «Vieni!».

(PAOLO VI, Discorso del 29 novembre 1972).

Non lasciarmi senza il tuo Spirito

O Signore, ascolta la mia preghiera. Tu hai promesso ai tuoi discepoli che non li avresti lasciati soli, ma avresti mandato lo Spirito Santo per guidarli e condurli alla piena Verità.

Mi sembra di brancolare nel buio. Ho ricevuto tanto da te, eppure è difficile per me stare semplicemente quieto e presente dinanzi a te. La mia mente è così caotica, così piena di idee disperse, di piani, di memorie, di fantasie. Voglio stare con te e con te soltanto, concentrarmi sulla tua Parola, ascoltare la tua voce e guardare a te mentre ti riveli ai tuoi amici. Ma, anche con le migliori intenzioni, divago pensando a cose meno impor-tanti e scopro che il mio cuore è attirato verso i miei piccoli tesori senza valore.

Non posso pregare senza la potenza dall’alto, la potenza del tuo Spirito. Manda il tuo Spirito, Signore, affinché il tuo Spirito possa pregare in me, possa dire «Signor Gesù» e gridare «Abbà, Padre».

Io aspetto, Signore, sono in attesa, spero. Non lasciarmi senza il tuo Spirito. Dammi il tuo Spirito che unisce e consola. Amen.

(J.M. NOUWEN, Manoscritto inedito, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 243-244).

Credere nello Spirito santo

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Dio, significa per me ammettere fiduciosamente che Dio stesso può farsi presente nel mio intimo, che egli come potenza e forza di grazia può diventare il signore del mio intimo ambivalente, del mio cuore spesso così insondabile. E, ciò che qui è per me particolarmente importante: lo Spirito di Dio non è uno spirito di schiavitù. Egli è comunque lo Spirito di Gesù Cristo, che è lo Spirito di libertà. Questo Spirito di libertà promanava già dalle parole e dalle azioni del Nazareno. I1 suo Spirito è ora definitivamente lo Spirito di Dio, da quando il Crocifisso è stato glorificato da Dio e vive e regna nel modo di essere di Dio, nello Spirito di Dio. Perciò a piena ragione Paolo può dire: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Cor 3,17). E con ciò non s’intende soltanto una libertà dalla colpa, dalla legge e dalla morte, ma anche una libertà per 1’agire, per una vita nella gratitudine, nella speranza e nella gioia. E ciò ad onta di tutte le carenze delle strutture e di tutti i tradimenti del singolo. Questo Spirito di libertà, in quanto Spirito del futuro, mi spinge in avanti: non nell’aldilà della consolazione, ma nel presente della prova.

E poiché so che lo Spirito santo è lo Spirito di Gesù Cristo, io ho anche un criterio concreto per saggiare e discernere gli spiriti. Dello Spirito di Dio non si può più abusare come di una forza divina oscura, senza nome e facilmente equivocabile. No, lo Spirito di Dio è con tutta chiarezza lo Spirito di Gesù Cristo. E ciò significa in modo del tutto concreto che né una gerarchia né una teologia e neppure un fanatismo che vogliano richiamarsi allo «Spirito santo» oltre Gesù, possono requisire lo Spirito di Gesù Cristo. Qui hanno i loro limiti ogni ministero, ogni obbedienza, ogni partecipazione alla vita della teologia, della chiesa e della società.

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Gesù Cristo significa per me, anche di fronte ai molti movimenti carismatici e pneumatici: che lo Spirito non è mai una mia propria possibilità, ma è sempre forza, potenza, dono di Dio – da ricevere con fiducia incondizionata. Egli quindi non è un non santo spirito del tempo, della chiesa, del ministero o dell’entusiasmo; egli è sempre il santo Spirito di Dio, che soffia dove e quando vuole, e non si lascia catturare da nessuno: come giustificazione di un potere assoluto di insegnamento e di governo, di infondate leggi dogmatiche della fede o anche di un fanatismo religioso e di una falsa sicurezza della fede. No, nessuno – né vescovo né professore, né parroco né laico – «possiede» lo Spirito, ma ognuno può invocare di continuo: «Vieni, santo Spirito».

Ma, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io posso, con buone ragioni, credere non certo nella chiesa, ma nello Spirito di Dio e di Gesù Cristo anche in questa chiesa, che è composta da uomini fallibili come lo sono anch’io. E, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io sono preservato dalla tentazione di staccarmi, rassegnato o cinico, dalla chiesa. Poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito io, nonostante tutto, posso dire in buona coscienza: credo la santa chiesa. Credo sanctam ecclesiam.

(H. KUNG, Credo)

«Veni Sancte Spiritus!

Cari fratelli e sorelle,

in questo giorno noi contempliamo e riviviamo nella liturgia l’effusione dello Spirito Santo operata da Cristo risorto sulla sua Chiesa; un evento di grazia che ha riempito il cenacolo di Gerusalemme per espandersi nel mondo intero.

Ma che cosa avvenne in quel giorno così lontano da noi, eppure così vicino da raggiungere l’intimo del nostro cuore? San Luca ci offre la risposta nel brano degli Atti degli Apostoli che abbiamo ascoltato (2,1-11). L’evangelista ci riporta a Gerusalemme, al piano superiore della casa nella quale sono riuniti gli Apostoli. Il primo elemento che attira la nostra attenzione è il fragore che improvviso viene dal cielo, «quasi un vento che si abbatte impetuoso» e riempie la casa; poi le «lingue come di fuoco» che si dividevano e si posavano su ciascuno degli Apostoli. Fragore e lingue infuocate sono segni precisi e concreti che toccano gli Apostoli, non solo esteriormente, ma anche nel loro intimo: nella mente e nel cuore. La conseguenza è che «tutti furono colmati di Spirito Santo», il quale sprigiona il suo dinamismo irresistibile, con esiti sorprendenti: «Cominciarono a parlare in altre lingue nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi». Si apre allora davanti a noi un quadro del tutto inatteso: una grande folla si raduna ed è piena di meraviglia perché ciascuno sente parlare gli Apostoli nella propria lingua. Tutti fanno un’esperienza nuova, mai accaduta prima: «Li udiamo parlare nelle nostre lingue». E di che cosa parlano? «Delle grandi opere di Dio».

Alla luce di questo brano degli Atti, vorrei riflettere su tre parole legate all’azione dello Spirito: novità, armonia, missione.

1. La novità ci fa sempre un po’ di paura, perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a costruire, a programmare, a progettare la nostra vita secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti. E questo avviene anche con Dio. Spesso lo seguiamo, lo accogliamo, ma fino ad un certo punto; ci è difficile abbandonarci a Lui con piena fiducia, lasciando che sia lo Spirito Santo l’anima, la guida della nostra vita, in tutte le scelte; abbiamo paura che Dio ci faccia percorrere strade nuove, ci faccia uscire dal nostro orizzonte spesso limitato, chiuso, egoista, per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la storia della salvezza, quando Dio si rivela porta novità – Dio porta sempre novità -, trasforma e chiede di fidarsi totalmente di Lui: Noè costruisce un’arca deriso da tutti e si salva; Abramo lascia la sua terra con in mano solo una promessa; Mosè affronta la potenza del faraone e guida il popolo verso la libertà; gli Apostoli, timorosi e chiusi nel cenacolo, escono con coraggio per annunciare il Vangelo. Non è la novità per la novità, la ricerca del nuovo per superare la noia, come avviene spesso nel nostro tempo. La novità che Dio porta nella nostra vita è ciò che veramente ci realizza, ciò che ci dona la vera gioia, la vera serenità, perché Dio ci ama e vuole solo il nostro bene. Domandiamoci oggi: siamo aperti alle “sorprese di Dio”? O ci chiudiamo, con paura, alla novità dello Spirito Santo? Siamo coraggiosi per andare per le nuove strade che la novità di Dio ci offre o ci difendiamo, chiusi in strutture caduche che hanno perso la capacità di accoglienza? Ci farà bene farci queste domande durante tutta la giornata.

2. Un secondo pensiero: lo Spirito Santo, apparentemente, sembra creare disordine nella Chiesa, perché porta la diversità dei carismi, dei doni; ma tutto questo invece, sotto la sua azione, è una grande ricchezza, perché lo Spirito Santo è lo Spirito di unità, che non significa uniformità, ma ricondurre il tutto all’armonia. Nella Chiesa l’armonia la fa lo Spirito Santo. Uno dei Padri della Chiesa ha un’espressione che mi piace tanto: lo Spirito Santo “ipse harmonia est”. Lui è proprio l’armonia. Solo Lui può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e, nello stesso tempo, operare l’unità. Anche qui, quando siamo noi a voler fare la diversità e ci chiudiamo nei nostri particolarismi, nei nostri esclusivismi, portiamo la divisione; e quando siamo noi a voler fare l’unità secondo i nostri disegni umani, finiamo per portare l’uniformità, l’omologazione. Se invece ci lasciamo guidare dallo Spirito, la ricchezza, la varietà, la diversità non diventano mai conflitto, perché Egli ci spinge a vivere la varietà nella comunione della Chiesa. Il camminare insieme nella Chiesa, guidati dai Pastori, che hanno uno speciale carisma e ministero, è segno dell’azione dello Spirito Santo; l’ecclesialità è una caratteristica fondamentale per ogni cristiano, per ogni comunità, per ogni movimento. E’ la Chiesa che mi porta Cristo e mi porta a Cristo; i cammini paralleli sono tanto pericolosi! Quando ci si avventura andando oltre (proagon) la dottrina e la Comunità ecclesiale – dice l’Apostolo Giovanni nella sua Seconda Lettera – e non si rimane in esse, non si è uniti al Dio di Gesù Cristo (cfr 2Gv 1,9). Chiediamoci allora: sono aperto all’armonia dello Spirito Santo, superando ogni esclusivismo? Mi faccio guidare da Lui vivendo nella Chiesa e con la Chiesa?

3. L’ultimo punto. I teologi antichi dicevano: l’anima è una specie di barca a vela, lo Spirito Santo è il vento che soffia nella vela per farla andare avanti, gli impulsi e le spinte del vento sono i doni dello Spirito. Senza la sua spinta, senza la sua grazia, noi non andiamo avanti. Lo Spirito Santo ci fa entrare nel mistero del Dio vivente e ci salva dal pericolo di una Chiesa gnostica e di una Chiesa autoreferenziale, chiusa nel suo recinto; ci spinge ad aprire le porte per uscire, per annunciare e testimoniare la vita buona del Vangelo, per comunicare la gioia della fede, dell’incontro con Cristo. Lo Spirito Santo è l’anima della missione. Quanto avvenuto a Gerusalemme quasi duemila anni fa non è un fatto lontano da noi, è un fatto che ci raggiunge, che si fa esperienza viva in ciascuno di noi. La Pentecoste del cenacolo di Gerusalemme è l’inizio, un inizio che si prolunga. Lo Spirito Santo è il dono per eccellenza di Cristo risorto ai suoi Apostoli, ma Egli vuole che giunga a tutti. Gesù, come abbiamo ascoltato nel Vangelo, dice: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,16). E’ lo Spirito Paràclito, il «Consolatore», che dà il coraggio di percorrere le strade del mondo portando il Vangelo! Lo Spirito Santo ci fa vedere l’orizzonte e ci spinge fino alle periferie esistenziali per annunciare la vita di Gesù Cristo. Chiediamoci se abbiamo la tendenza di chiuderci in noi stessi, nel nostro gruppo, o se lasciamo che lo Spirito Santo ci apra alla missione. Ricordiamo oggi queste tre parole: novità, armonia, missione.

La liturgia di oggi è una grande preghiera che la Chiesa con Gesù eleva al Padre, perché rinnovi l’effusione dello Spirito Santo. Ciascuno di noi, ogni gruppo, ogni movimento, nell’armonia della Chiesa, si rivolga al Padre per chiedere questo dono. Anche oggi, come al suo nascere, insieme con Maria la Chiesa invoca: «Veni Sancte Spiritus! – Vieni, Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore!». Amen.

(Omelia di Papa Francesco nella solennità di Pentecoste, Santa Messa con i movimenti ecclesiali, Piazza San Pietro, 19 maggio 2013).

Preghiera allo Spirito Santo

Spirito Santo, eterno Amore,

che sei dolce Luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore;

Tu ci guidi qual mano di una mamma;

ma se Tu ci lasci non più d’un passo solo avanzeremo!

Tu sei lo spazio che l’essere mio circonda e in cui si cela.

Se m’abbandoni cado nell’abisso del nulla,

da dove all’esser mi chiamasti.

Tu a me vicino più di me stessa,

più intimo dell’intimo mio.

Eppur nessun Ti tocca o Ti comprende

e d’ogni nome infrangi le catene.

Spirito Santo, eterno Amore.

(Edith Stein [S. Teresa Benedetta della Croce]).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

 PER APPROFONDIRE:

PENTECOSTE  

ASCENSIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: Atti 1,1-11

 

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo». 

 

I primi tre versetti del libro degli Atti lo collegano strettamente al terzo vangelo: ne riassumono infatti il contenuto e ripetono il nome del personaggio a cui ambedue i libri sono dedicati: Teofilo (che può essere il nome di un personaggio storico o può essere soltanto il titolo dato al prototipo del cristiano: l’amico di Dio). Il riassunto del terzo vangelo qui proposto si sofferma soprattutto (nell’intero versetto 3) sul fatto che gli Apostoli sperimentarono a lungo e in maniera pienamente convincente che Cristo era tornato a vivere, dopo la sua passione e morte (cioè, era risorto): infatti era apparso a loro ripetutamente, istruendoli sul regno di Dio. L’espressione «per quaranta giorni» deve avere qui un valore simbolico: deve voler significare che l’esperienza del Cristo risorto fu bensì limitata e conclusa nel tempo, ma sufficiente perché agli Apostoli fosse dato un insegnamento pieno sulla missione a loro affidata.

     Nei vv. 4.8 sono quasi condensati, in un unico episodio, il lungo rapporto intercorso tra Gesù risorto e gli Undici e l’insegnamento che essi da lui ricevettero. L’espressione «mentre si trovava a tavola con essi» contiene forse una allusione alla verità indiscutibile della sua risurrezione (non era un fantasma!) e alla familiarità conviviale con cui il risorto si intratteneva con i suoi. Elemento importante dell’insegnamento di Gesù risorto è considerato quello che riguarda lo Spirito Santo, il quale con la sua forza avrebbe portato a compimento la loro formazione di discepoli. Altro elemento importantissimo di quell’insegnamento è

l’orizzonte universale della missione affidata agli Undici da Gesù: «di me sarete testimoni… fino agli estremi confini della terra». L’universalità di questa prospettiva è presentata con grande decisione, tale da far apparire quasi insignificante il desiderio di conoscere i tempi e i momenti della ricostruzione del regno di Israele; quel desiderio è destinato quasi ad annegare nella vastità dei disegni del Padre.

     I versi 9-11 contengono diversi messaggi tra loro coordinati. Il primo è che Gesù ha concluso la sua presenza visibile sulla terra, essendo rientrato nel modo di essere proprio di Dio, come suggerisce la frase: «una nube lo sottrasse ai loro occhi» (la nube è infatti, nell’Antico Testamento, il nascondiglio e insieme il segno della presenza di Dio). Un altro insegnamento è che ormai la testimonianza su Gesù e del suo vangelo è affidata esclusivamente ai suoi discepoli: questo sembra vogliano suggerire i due misteriosi uomini in bianche vesti, che li invitano a non restarsene lì incantati a cercare con lo sguardo colui che fu elevato in alto. Un ultimo insegnamento è che quel Gesù che non è più visibile con gli occhi, tornerà un giorno e sarà di nuovo visibile, nella sua veste di giudice supremo e universale.

 

Seconda lettura: Ebrei 9,24-28; 10,19-23

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza. Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso. 

 

La lettera agli Ebrei, nel brano che costituisce la nostra seconda lettura, pur non facendo alcun riferimento al racconto del libro degli Atti che include il fatto dell’ascensione del Signore, sembra che ne illustri il profondo significato teologico.

     Come nel libro degli Atti, anche qui è detto che Gesù «è entrato… nel cielo… per comparire ora al cospetto di Dio» (9,24). Per poter approfondire il significato dell’ingresso di Gesù nel cielo, che era un elemento comune della predicazione nella Chiesa primitiva, l’ignoto autore della lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra la persona di Gesù e le pratiche cultuali degli Ebrei, concentrate nel tempio di Gerusalemme. In particolare, qui sembra evocata la festa dell’Espiazione, quella che oggi è per gli ebrei, accanto alla Pasqua, una delle feste religiose più importanti, col nome di jôm Kippùr. Elemento centrale di questa celebrazione era quello che si può chiamare il rito del sangue: il sommo sacerdote, passando oltre il velo che separava il luogo santissimo dalla zona del sacrificio, ungeva il coperchio dell’Arca (detto in ebraico kappòret e tradotto con il termine propiziatorio) con il sangue del vitello e del capro offerti quel giorno in sacrificio per l’espiazione dei peccati dello stesso sacerdote e di tutti gli israeliti (Vedi Levitico, 16). Nella nostra lettura, Gesù Cristo è visto come il celebrante di una nuova festa dell’Espiazione: egli è penetrato nel cielo stesso portando il proprio sangue, quello sgorgato dalla sua persona, e ha ottenuto una volta per tutte di togliere i peccati di molti. Conseguenza grandiosa di questi fatti è che si è aperta una via nuova e vivente, la persona stessa di Gesù Cristo immolatasi per il mondo intero, che consente anche a noi di entrare nel santuario, cioè nella casa di Dio. Perché questo accada è però necessario avere il cuore purificato e il corpo lavato con acqua pura, nella luce della fede e nella professione della speranza: il che vuol dire avere accolto la testimonianza della predicazione apostolica ed essere entrati a far parte della Chiesa voluta da Gesù.

 

Vangelo: Luca 24,46-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

 

 

Esegesi 

     Chi pensasse di trovare nel vangelo di Luca il racconto circostanziato dell’ascensione al cielo di Gesù, così come in certi apocrifi è raccontata l’ascensione di altri personaggi biblici, resterebbe deluso. Al fatto in se stesso il testo evangelico dedica solo queste parole: «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». Queste parole appartengono alla sezione conclusiva del terzo vangelo, che abbraccia l’intero capitolo 24 e lega tra loro strettamente gli avvenimenti che scandirono un’intera giornata, il «primo giorno dopo il sabato» (24,1): le donne scoprirono la tomba vuota e, ricevuto l’annunzio della risurrezione di Gesù, lo comunicarono agli Undici; anche Pietro andò a vedere la tomba vuota e restò «pieno di stupore»; due discepoli che andavano a Emmaus si imbatterono in Gesù, vennero da lui istruiti sul significato delle Scritture e finirono per riconoscerlo nella frazione del pane; finalmente, a tarda sera, Gesù in persona apparve agli apostoli riuniti, diede loro le ultime istruzioni, affidò a loro la missione della testimonianza, li benedisse e si staccò da loro.

     Come si vede, il tema che riempie tutta la durata di questo specialissimo giorno è quello della risurrezione del Signore Gesù, che si conclude con il mandato, affidato agli Undici, di testimoniarla «sino ai confini della terra».

     Diamo qui di seguito il senso globale del brano conclusivo del terzo vangelo, che costituisce la nostra lettura evangelica, senza indugiare sull’analisi dettagliata delle sue singole frasi.

     Poiché Gesù Cristo è realmente risorto, la sua passione e la sua morte non sono e non debbono considerarsi una sconfitta, ma una vittoria sul peccato, sicché a tutti è adesso accessibile il perdono dei peccati. E se il peccato è stato sconfitto non c’è più ragione che l’umanità continui a camminare nella strada della sua rovina, ma può cambiare strada, può dare inizio alla propria conversione. È per l’appunto questa la missione che Gesù intende affidare ai suoi discepoli: egli vuole che essi siano i suoi testimoni. Cominciando da Gerusalemme, la loro testimonianza dovrà arrivare a tutte le genti. A tutte le nazioni della terra, a tutti i popoli, dovrà arrivare la lieta notizia di Gesù Cristo, che ha predicato il vangelo e per questo è stato inchiodato sulla croce ed è morto, ma il terzo giorno è risorto. Per intraprendere questa missione, i discepoli di Gesù hanno però bisogno di una forza dall’alto, hanno bisogno cioè che scenda su di loro la forza dello Spirito Santo, secondo la promessa già fatta ai profeti per gli ultimi tempi. Dopo aver raccomandato loro di restare in Gerusalemme fino alla discesa dello Spirito, con un’ultima benedizione, Gesù «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». La testimonianza della risurrezione poteva così essere completata con quest’ultimo elemento: l’ingresso di Gesù nella vita divina del cielo. Egli dunque non doveva essere considerato assente o lontano dalla vita degli uomini sulla terra, ma doveva essere considerato sempre vicino quanto Dio lo è a tutta la sua creazione.

    L’immagine della domenica

Zaanse schans….Olanda  –   2016

 

C‘è un altro mondo

Il suo tempo non è il nostro tempo, il suo spazio non è il nostro spazio; ma c’è. Non si può situarlo, né assegnargli una localizzazione in alcun posto del nostro universo sensibile: le sue leggi non sono le nostre leggi; ma c’è.

lo l’ho visto, con lo sguardo dello spirito, slanciarsi, quale ‘folgorazione silenziosa’, trascendenza che si dona. […] C’è quasi contraddizione permanente a parlare di quest’altro mondo, che è qui e che è là, come del «regno dei cieli» del vangelo, che può rendersi intelligibile senza parole e visibile senza figure, che sorprende totalmente senza confondere; ma c’è. È verso quest’altro mondo in cui si innesta la risurrezione dei corpi che tutti noi andiamo; […] Non è in una forma eterea che entreremo, ma nel pieno cuore della vita stessa, e vi faremo l’esperienza di quella gioia inaudita che si moltiplica di tutta la felicità che dispensa attorno a sé, e del mistero centrale dell’effusione divina.

(A. FROSSARD, C’è un altro mondo, Torino 1976, 142s.).

 Meditazione 

     La liturgia della parola della solennità odierna ci presenta due racconti del medesimo avvenimento – lo staccarsi definitivo di Gesù, in modo fisico, da questa terra e dai discepoli – narrati dallo stesso autore. Ciò è dovuto alla grande maestria letteraria e teologica dell’evangelista Luca, non certo a una svista! La differenza che salta maggiormente agli occhi è la cronologia: nel brano evangelico l’ascensione avviene la sera stessa di Pasqua (dato storicamente inverosimile, dal momento che nel racconto dei due discepoli di Emmaus siamo già a sera inoltrata), mentre negli Atti degli apostoli si situa alla conclusione di un periodo di quaranta giorni di apparizioni. Tale diversità si spiega a partire da una diversa prospettiva teologica: nell’evangelo tutta l’attenzione è concentrata su Gesù e sulla novità che il giorno di Pasqua porta, non c’è più tempo e spazio per narrare dei discepoli ed è Gesù che domina l’ultima scena; negli Atti degli apostoli è la comunità dei discepoli che diviene soggetto, il tempo è più disteso e si sviluppa il cammino della Chiesa.

     Comunque sia, il fatto si svolge a Gerusalemme, meta del pellegrinaggio terreno di Gesù (cfr. Lc 9,51 ss.) e luogo della sua morte e risurrezione. Lo spazio più sacro della città santa è il tempio, con cui si apre (cfr. 1,8 ss.) e si chiude il racconto evangelico. Ma ora è Gesù stesso il tempio, il luogo dove abita la presenza di Dio e noi siamo portati, insieme con lui, alla destra dell’Altissimo!

     Gerusalemme è anche il luogo dove scenderà lo Spirito santo (cfr. Lc 24,49; At 1,5), che i discepoli devono attendere: si compie l’ultima e principale promessa di Gesù, che introduce alla comunione trinitaria e che abilita alla missione tra le genti. L’Ascensione è pertanto momento di passaggio, di attesa tra la Pasqua e la Pentecoste: c’è il tempo per prepararsi a rendere testimonianza al Signore risorto, che ora siede nei cieli.

     Ma qual è dunque il messaggio, l’incarico a cui sono chiamati i discepoli «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8)? «La conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24,47), la possibilità per ogni uomo di veder rinascere la propria esistenza, di vederla segnata dalla misericordia affinché a tutti si rechi nuovamente misericordia. Il contenuto del messaggio sembra semplice, seppur straordinario; ciononostante, perfino in quel momento, regna l’incomprensione: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (At 1,6). Quanta fatica a staccarsi dai propri progetti, quale conversione chiede tenere insieme il nostro mondo con quello di Dio…

     È lo stesso Gesù a guidare il gruppo nel momento del distacco. Come i patriarchi, si separa da loro mediante la benedizione, un ultimo gesto di sostegno e vicinanza che sostituisce le parole. Se la prima reazione dei discepoli è quella dello sconcerto, della perplessità, del disorientamento, forse anche della nostalgia – «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (At 1,11) – subito subentra l’azione missionaria e della preghiera, da svolgersi nella lode (cfr. Lc 24,53) e nell’attesa del ritorno del Signore: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11). Non c’è pertanto un distacco radicale, una separazione: la tristezza che aveva caratterizzato i discepoli nell’ultima sera trascorsa insieme a Gesù viene rimpiazzata dalla le-tizia di saperlo non nel regno dei morti ma dei viventi, di Dio! Ecco perché l’ultimo gesto nei confronti di Gesù è quello della prostrazione – unico caso in tutto il vangelo di Luca – attraverso il quale si riconosce la divinità del Signore.

     Mi sembra estremamente significativo che il Signore Gesù introduca i discepoli alla predicazione missionaria mediante il richiamo alle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» (Lc 24,46). Nonostante siano compiute, le Scritture restano determinanti per interpretare e conoscere sempre meglio la persona di Gesù: sono il compagno di viaggio dell’autentico discepolo del Signore. 

Preghiere e racconti

Un pastore della chiesa riformata, il pastore Paolo Ricca, scrivendo in questi giorni dell’Ascensione, diceva che “un po’ dappertutto l’Ascensione è diventata o tende a diventare la cenerentola delle feste cristiane”. Ascensione, festa cenerentola. E si chiedeva perché, come mai? Eppure dell’Ascensione si parla ampiamente nelle Sacre Scritture. A confronto per esempio col Natale, molto più ampiamente. Eppure vedete quanta importanza diamo al Natale, e quanta meno all’Ascensione. Perché? Come mai? “La risposta” -scrive Paolo Ricca- “non è difficile: l’Ascensione è poco festeggiata perché la Chiesa esita a far festa nel momento in cui il suo Signore “se ne va”. La Chiesa festeggia volentieri il Signore che viene, ma non il Signore che parte; acclama colui che appare, ma non colui che scompare”. Con l’Ascensione Gesù diventa invisibile. L’invisibilità fa problema: mi ha colpito questa citazione di Dietrich Bonhoeffer, che scriveva: “L’invisibilità ci uccide”. Sì, questo è un pericolo. Non è forse vero che nell’invisibilità ci si allontana a volte? Abbiamo perfino coniato un proverbio: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Quasi a dire che quando viene meno la visibilità -lontano dagli occhi- viene meno anche il rapporto la relazione. E non è proprio questo quello che accade sul monte degli Ulivi, e cioè l’andare lontano dagli occhi? E’ scritto: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo…”. Lontano dagli occhi. Ma ci chiediamo, lontano anche dal cuore questo Signore? Ecco, la storia che seguì -e la storia che segue è certo quella narrata negli Atti degli Apostoli, ma anche quella narrata nei secoli successivi, è la storia anche dei discepoli di oggi- ebbene, la storia che segue contiene una sfida al proverbio, sta a dimostrare che la lontananza dagli occhi di Gesù, la sua invisibilità, non l’ha cancellato dal nostro cuore. “L’invisibilità” -scrive Paolo Ricca- “non significa assenza, ma un altro tipo di presenza, quella dello Spirito con il quale Gesù paradossalmente è più vicino di prima ai suoi discepoli: prima stava “con loro”, adesso dimora “dentro” di loro”. L’Ascensione rovescia il proverbio: “lontano dagli occhi, vicino nel cuore”. Vorrei aggiungere che paradossalmente quella visibilità di Gesù a cui, a volte, guardiamo con nostalgia, la visibilità del passato, quando le folle lo toccavano, quando la donna peccatrice lo ungeva e lo profumava, quella visibilità era anche un ostacolo. Un ostacolo perché tratteneva Gesù: lo tratteneva in un piccolo paese, nei confini che delimitavano la sua azione: quante migliaia di persone lo videro, lo ascoltarono? Poche senz’altro. Da quando è asceso al cielo, pensate quante storie di uomini e di donne -miliardi, miliardi di storie e noi siamo una di queste storie- quante storie di uomini e di donne hanno stretto un legame con questo invisibile Signore. Voi mi capite, che Gesù -lontano dai nostri occhi- viva, viva con la sua presenza, con la sua parola, con la sua luce, con la sua consolazione, nei nostri cuori. E da ultimo è anche vero che questa festa dell’Ascensione -lo faceva notare ancora Paolo Ricca- proprio perché sottrae il Signore ai nostri sguardi, ci fa vivere i nostri giorni anche come attesa. Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno, allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo. Vivere l’attesa. Non è facile imparare l’attesa. Aspettare Dio. Anche nella religione a volte abbiamo più l’aria di chi possiede, che lo sguardo curioso di chi attende. Scrive P. Tillich: “Penso al teologo, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in un edificio dottrinale. Penso all’uomo di chiesa, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in una istituzione. Penso al credente, che non aspetta Dio rinchiuso nella sua propria esperienza. Non è facile sopportare questo non avere Dio, questo aspettare Dio…”. E’ quello che ci insegna la festa dell’Ascensione.

(Angelo Casati, in www.sullasoglia.it)

Trasfigurati dalla speranza

Come si vede, prima componente della speranza, che io propongo, è il dialogo con Dio, da figlio a padre, da povero peccatore a colui che è misericordia infinita; esso va bene tanto nei momenti della gioia quanto in quelli del dolore; chi non lo conosce, questo dialogo, o l’avesse da tempo sospeso o tralasciato, dovrebbe riprenderlo quanto prima.  Altra componente della speranza: dare più spazio alla parte migliore di noi, che bisogna saper scoprire, far riemergere dal profondo e valorizzare.  La gente, oggi, mitizza volentieri e cerca modelli di vita nei divi del cinema, nei campioni dello sport, negli uomini che hanno successo.  Questa gente, si direbbe, si ispira a Carlyle, che pensò agli “eroi” come a “uomini superiori”, sorti a guidare i popoli: Meglio ispirarsi al nostro Giambattista Vico, per il quale l’”eroe” è “qui sublimia appetit”, chi cioè tende a cose alte: alla perfezione morale, all’unione con Dio, a promuovere, secondo le proprie possibilità, l’avanzamento di ogni uomo e di tutto l’uomo. C’è davvero maggiore speranza in noi, quando sentiamo più cocente la nostalgia di un’autentica grandezza umana. Quella, per esempio, che Amleto attribuiva al suo defunto padre, dicendo: “Tutto in lui armonizzava così bene che la natura sembrava alzarsi in punta di piedi e segnarlo a dito dicendo: Quegli era un uomo”.  Oppure l’altra grandezza, di cui un poeta francese: “L’homme est un dieu tombé qui se souvient  des cieux”, l’uomo è un dio decaduto, che ha nostalgia del cielo. Noi siamo infatti una specie di angelo che non ha più le ali, ma se ricordiamo di averle avute e se crediamo che le riavremo, veniamo trasfigurati dalla speranza.

(Albino Lucani [Giovanni Paolo I], Da “Opera Omnia”, voll. VII, Padova, Messaggero, 1975-1976, 540-41).

Racconto

Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: “Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo. Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…

Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo”.

Guardarsi dentro

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.

Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.

Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.

E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.

Se solo si guardassero “dentro”!

Il cielo

«Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione».

(Joseph Ratzinger [BENEDETTO XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo» (At 1,11)

«[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.

La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E, dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando  in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?

In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?». Leggiamo che quando gli apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita».

(BENEDETTO XVI, Dall’omelia nell’eucaristia celebrata sulla spianata di Cracovia-Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER [BENEDETTO XVI], Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso – col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Dall’omelia nell’eucaristia celebrata sulla Cracovia-Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER [BENEDETTO XVI], Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Preghiera

Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…

Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA VII ASCENSIONE C

VI DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 15,1-2.22-29

 

In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione. Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiòchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agl’idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!».

 

 

La liturgia della Parola di questo tempo di Pasqua (anno C) sceglie solitamente per la Prima Lettura brani degli Atti degli Apostoli. Ciò perché in questi brani sono raccontati fatti della chiesa primitiva: così nel tempo di Pasqua si ri-presenta — a livello della liturgia — la nascita della chiesa. Questa nascita è frutto e risultato della risurrezione del Signore. Siccome Egli è risorto, i dodici discepoli e le donne si radunano di nuovo attorno a Lui. Alla fine del tempo pasquale, la solennità di Pentecoste ci fa rivivere la discesa dello Spirito Santo, che realizza e guida la Chiesa.

     Rilievi storico-esegetici

— Nel brano odierno si fa riferimento ad una grave crisi che sta scuotendo la chiesa primitiva. I cristiani che provengono dal mondo giudaico mettono ancora in pratica la legge giudaica e praticano la liturgia del mondo giudaico (la Torah). Il motivo di questa linea di condotta era duplice: primo, il fatto che Gesù stesso aveva ottemperato alla Torah e partecipato alle celebrazioni liturgiche del giudaismo, dato che era un Ebreo: lo stesso avevano fatto gli Apostoli e le donne insieme a Maria Madre di Gesù; secondo, la legge era stata anche rivelata da Dio: era parola e comandamento di Dio. Come la si poteva disattendere? Ecco perché i cristiani venuti dal giudaismo sostenevano che anche i cristiani che provenivano dal mondo pagano fossero tenuti ad osservare la legge giudaica (divina!).

— I primi cristiani, provenienti da ambito non giudaico vivevano ad Antiochia (nella Siria attuale), nella Cilicia (sud-est della Turchia attuale) ed un’altra area dell’Oriente. Essi avvertivano una certa perplessità davanti al fatto di dover osservare precetti biblici del giudaismo: Paolo e Barnaba, infatti, che li avevano portati alla fede cristiana, non ne avevano proprio parlato.

— L’importanza della nostra lettura (decurtata fortemente e privata di una parte notevole: mancano i vv. 3-21) è la seguente: Pietro, Paolo e Barnaba, alla luce della loro fede in Gesù Cristo, ritenevano che ad eccezione di alcune direttive importanti (ad es. il Decalogo), molti comandamenti non avevano se non valore provvisorio, limitato al mondo giudaico, ed erano sostituiti dalla fede in Gesù (Paolo aveva mostrato ciò specialmente nella Lettera ai Galati). Ma questo punto di vista non era chiaro per tutti. Molti lo rifiutavano, specie tra i cristiani della Chiesa Madre di Gerusalemme. Nella lettura noi vediamo come la Chiesa sia

concorde nell’esprimere il suo giusto punto di vista. Certo, Luca ha semplificato le lunghe e dure controversie nel racconto degli Atti. È probabile che ci fosse un clima animato e teso, più che una pacifica, lineare discussione.

     Ma l’importante, qui, è il fatto che emerge: sin dall’inizio alla chiesa si presentarono questioni nuove e imprevedibili, alle quali nessuno sapeva dare subito una risposta. Tuttavia, lo Spirito Santo, l’impegno degli Apostoli e di tutta quanta la Chiesa fecero sì che si approdasse ad una vera e giusta soluzione.

 

Seconda lettura: Apocalisse 21,10-14.22-23

 

L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina  e la sua lampada è l’Agnello.

 

 

Com’è noto, la struttura del libro dell’Apocalisse è caratterizzata dalla serie di sette settenari (7 chiese, 7 sigilli, 7 trombe, 7 visioni, 7 coppe e ancora 7 visioni…). La nostra pericope si colloca all’interno dell’ultimo settenario, che rappresenta, in certo senso, la conclusione di tutta la vicenda della Parola di Dio, da Abramo agli eventi finali. In questo settenario, il cap. 21 descrive la settima visione, quella in cui Giovanni contempla il realizzarsi della profezia di Is 65,17: «Ecco io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente». In realtà, Giovanni vede una creazione trasfigurata, si direbbe in continuità con l’antica creazione, dove però non c’è più il mare (simbolo del male e della forza che fa resistenza alla liberazione dell’esodo…). Nel brano di questa domenica si riportano solo alcuni versetti di questa visione conclusiva, quelli che riguardano la Gerusalemme celeste.

     Chiavi di lettura

     È estremamente arduo entrare nei dettagli simbolici della visione e spiegarli singolarmente. Preferiamo offrire al lettore alcune chiavi di lettura, che chiariscano il senso teologico della descrizione.

     — Prima chiave di lettura: il compimento delle profezie. Ezechiele, nei cc. 40-48 descrive dettagliatamente il Tempio nuovo che sorgerà nella Gerusalemme escatologica. Questa città avrà un nome emblematico: «Il Signore è là» (Ez 48,35). Inoltre Isaia 60 rivolge una promessa a Gerusalemme: «Alzati, rivestiti di luce, perché… su di te risplende il Signore la sua Gloria appare su di te» (vv. 1-2). Quanto era promesso e annunciato come realtà futura dai profeti, ora Giovanni lo contempla come realtà presente. Questa Gerusalemme rappresenta la nuova umanità redenta, intimamente legata a Gesù Cristo, essendo la sposa dell’Agnello (21,9).

Seconda chiave di lettura: ecclesiologica. I fondamenti di questa città celeste sono 12, come in Ezechiele, ma Giovanni precisa che sono i nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello. I Dodici prolungano e realizzano l’unità del popolo di Dio formato dalle dodici tribù. Nel realizzare il suo disegno di salvezza. Dio vuole un accordo profondo ed un progresso all’insegna della continuità. La Chiesa non è che il punto di approdo del cammino del popolo di Israele. La chiesa non è massa di umanità anonima e priva di relazioni. La città ha la sua compattezza e le sue strutture; in essa gli individui sono legati da vincoli, conoscenze, interessi comuni, formando una comunità gioiosa e fraterna.

Terza chiave di lettura: ecumenica. La struttura della città è orientata, in mirabile simmetria, secondo i quattro punti cardinali: oriente, occidente, settentrione e meridione (tre porte per ogni punto cardinale, v. 13). La Chiesa di Dio non è una società chiusa, ripiegata sulla fruizione dei suoi privilegi (la gloria di Dio la illumina  e la sua lampada è l’Agnello, v. 23). La salvezza di cui essa gode si apre a tutta l’umanità e a tutto l’universo. Si potrebbe inoltre osservare che le iniziali dei quattro punti o coordinate universali (anatolé, dysis, àrktos, mesembría) formano esattamente il nome Adam il capostipite di tutta quanta l’umanità. Tutto il genere umano, fino agli estremi confini della terra, è chiamato ad accedere attraverso quelle porte e integrarsi nella luminosa società dei santi.

 

Vangelo: Giovanni 14,23-29

 

In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate». 

 

Esegesi

     La pericope è desunta dai cosiddetti «Discorsi di addio» di Gesù nel Vangelo di Giovanni. Si tratta di un complesso di insegnamenti (cc. 13-17) che l’Evangelista avrebbe raccolti da vari momenti del ministero di Gesù e posti sulle sue labbra nel momento più solenne della sua missione terrena (quando passa dalla sua esistenza terrena a quella celeste), una specie di testamento spirituale che illumina in retrospettiva tutto il senso della vita e dell’opera di Gesù. Nella nostra lettura è presentato lo Spirito Consolatore, inviato dal Padre, in preparazione alla ormai vicina Pentecoste.

     Annotazioni

     — «Se uno mi ama, osserverà la mia parola… (v. 23). Questa verità, qui enunciata in termini positivi, viene poi ribadita in termini negativiChi non mi ama, non osserva le mie parole», v. 24) e ripresa più avanti: «Se mi amaste, vi rallegrereste…» (v. 28). Questo amore, di cui parla Gesù, deve possedere due condizioni o prove di autenticità: 1. chi ama Gesù, osserva le sue parole, vale a dire vive di esse; 2. chi ama Gesù si rallegra che Gesù vada al Padre, cioè sia nella gloria, perché lì Egli si trova nella «casa del Padre» anche in quanto uomo.

     — «Vedremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (v. 23). Chi ama Gesù e vive, cioè realizza pienamente, le sue parole, diventa un tempio, nel quale dimora Dio. L’inabitazione di Dio nell’anima degli uomini costituisce uno dei doni più grandi che Dio possa elargire a noi sulla terra. In modo misterioso l’anima diventa «cielo sulla terra».

     — «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome…» (vv. 25-26). Dal greco (paráclétos): non solo nel senso dell’avvocato che difende gli uomini, ma anche nel senso di colui che parla e intercede in loro favore. «Paraclito» nel senso che noi siamo sostenuti e protetti da lui.

     — «Vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (v. 26). Lo Spirito Santo ci proteggerà perché ci farà capire la parola di Gesù, che non è altro che la parola stessa del Padre (v. 24). Svolgerà questo compito dando calore, forza e intelligibilità a tale parola nella nostra vita. Riporta alla memoria quella parola, non come qualcosa di dimenticato, ma come realtà riscoperta a livello più profondo di fede e di gioia cristiana.

     — «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (v. 27). Il prezioso bene della pace è dono di Gesù, è lui che ce lo lascia. Dove c’è Dio, ivi è la pace. Questa pace, intimamente commessa con la presenza di Dio, può sussistere anche in mezzo agli assalti o alle insidie del male, anche in mezzo alle sofferenze. Spesso i Santi parlano dell’esperienza di questa pace profonda, che nessuno al mondo può toglierci.

     —«Vado e tornerò da voi…» (vv. 28-29). Gesù non si sottrae che al contatto materiale, corporeo con noi. Ma egli ritornerà in due modi: primo, con lo Spirito Santo; secondo, alla fine dei tempi come Risorto nella sua gloria.

 

L’immagine della domenica

 

Andremo alla casa del Signore

Mi rallegrai quando mi dissero:

«Andremo alla casa del Signore».

E ora i nostri piedi

sono nell’interno delle tue porte,

Gerusalemme!

Gerusalemme costruita come città,

in sé ben compatta!

Là salivano le tribù, le tribù del Signore,

secondo il precetto dato a Israele

di lodarvi il nome del Signore.

Sì, là s’ergevano i seggi del giudizio,

i seggi della casa di Davide.

Augurate la pace a Gerusalemme:

vivano in prosperità quanti ti amano!

Sia pace fra le tue mura,

prosperità fra i tuoi palazzi.

Per amore dei miei fratelli e amici

dirò: Sia pace in te!

Per amore della casa del Signore,

nostro Dio, chiederò: Sia bene per te!

(Salmo 121)

Montes de Oca – Villafranca (Cammino di Santiago) – 2007

 

 Meditazione

     La prima e la seconda lettura di questa sesta domenica di Pasqua ci offrono due immagini simboliche di Gerusalemme. Nel racconto degli Atti è la sede di un incontro, che la tradizione successiva definirà ‘concilio di Gerusalemme’, attraverso il quale la prima comunità cristiana dovrà assumere una decisione fondamentale per la sua storia successiva: se imporre o meno ai cristiani provenienti dal mondo pagano l’obbligo della circoncisione e dell’osservanza integrale della legge mosaica. Il brano dell’Apocalisse ci porta invece a contemplare già la Gerusalemme celeste, che viene da Dio e risplende della sua gloria. Una

città perfetta, aperta a tutte le tribù di Israele (ma è un linguaggio simbolico per affermare che tutti i popoli della terra vi trovano ospitalità come nella loro vera patria). Anche le me-diazioni di ogni tipo – quelle religiose come il tempio, quelle cosmiche come il sole e la luna – vengono meno, poiché cedono il passo all’immediatezza della presenza di Dio e dell’Agnello, simbolo con il quale l’Apocalisse allude sempre al Signore Gesù crocifisso e risorto. Dio e l’Agnello sono il suo tempio e la sua luce. Se ora noi abbiamo bisogno di segni per incontrare il mistero di Dio e percepire la sua presenza nella nostra storia, allora potremo contemplare Dio faccia a faccia, senza più mediazioni. Se ora abbiamo bisogno di essere illuminati per camminare verso Dio, allora sarà Dio stesso a farsi nostra luce. Se ora

viviamo la nostra appartenenza ecclesiale come luogo di distinzione tra coloro che credono e coloro che non credono o vivono altre appartenenze religiose, allora scopriremo Gerusalemme come luogo di incontro di tutti i popoli. La città, infatti, ha porte aperte verso ogni punto cardinale; da ogni confine della terra i popoli vi giungeranno e potranno accedervi, come ricorda anche il salmo responsoriale:

Ti lodino i popoli, o Dio,

ti lodino i popoli tutti.

La terra ha dato il suo frutto.

Ci benedica Dio, il nostro Dio,

ci benedica Dio e lo temano

tutti i confini della terra (Sal 66,6-8).

     L’Apocalisse stessa, nei versetti che seguono immediatamente quelli proclamati dal lezionario liturgico, insiste nel descrivere queste porte sempre aperte e verso tutti: «le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni» (vv. 24-26). Nella città non potrà entrare niente di falso e di impuro, ma «solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello» (v. 27). È lui, infatti, l’Agnello, la vera porta, in virtù del suo mistero pasquale. La sua mediazione salvifica si rende presente nella storia attraverso la comunità cristiana, fondata sulla testimonianza apostolica dei Dodici, che porta a compimento l’elezione di Israele e delle sue tribù. I nomi delle Dodici tribù sono infatti scritti sopra le dodici porte, così come i nomi dei Dodici apostoli sui dodici basamenti della città santa. Il simbolismo è ricco, complesso, ma affascinante: la salvezza di Dio, attraverso l’elezione di Israele e della Chiesa, si apre – come queste porte rivolte a oriente e a settentrione, a mezzogiorno e a occidente – per accogliere tutti i popoli, secondo la promessa di Gesù custodita nei vangeli: «Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio» (Lc 13,29).

     Proprio perché la vera porta è l’Agnello, e nella sua Pasqua la salvezza di Dio può essere annunciata a tutte le genti, la comunità storica di Gerusalemme giunge a decidere, nel discernimento guidato dallo Spirito Santo (cfr. At 15,28), che non è necessario imporre la circoncisione ai convertiti dal paganesimo. Infatti, afferma Pietro nella riunione di Gerusalemme (in un passo che la lettura liturgica omette): «Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati, così come loro» (v. 11). Per la sua grazia, non per altro.

     Queste due immagini di Gerusalemme, che le prime due letture dell’eucaristia ci offrono, evocano in fondo la Chiesa in tutto il suo mistero. È una comunità che cammina nella storia, come ci ricordano gli Atti, e in questa sua dimensione è attraversata da tensioni e visioni differenti, sempre impegnata in un faticoso discernimento spirituale della volontà di Dio, chiamata a decisioni che possono anche mutare nel tempo e adattarsi a differenti contesti storici e culturali. Nello stesso tempo, annuncia l’Apocalisse, c’è una dimensione misterica della Chiesa, un suo scendere dall’alto e dal mistero di Dio, che già la abita e la trasfigura nella sua luce, per renderla «una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino» (Ap 21,11). È soprattutto per farne sacramento di salvezza per tutti i popoli, nonostante tutti i suoi l imiti storici.

     Noi siamo in cammino verso la Gerusalemme celeste per scoprire – ma solo a condizione di essere già per via, protesi verso la meta – che è Gerusalemme stessa a scendere verso di noi in tutta la sua bellezza, per compiere il nostro desiderio e il nostro pellegrinaggio. In questo cammino, come ci ricorda Gesù nell’evangelo di Giovanni, dobbiamo portare con noi un bagaglio sobrio, essenziale ma indispensabile. Innanzitutto una parola da osservare e custodire, o meglio, quella parola che è Gesù stesso come rivelazione definitiva del Padre. Dimorando in lui e nel suo amore siamo certi di essere già in comunione con il Padre, anche nel tempo del nostro pellegrinaggio. A consentirci di rimanere nella Parola c’è il dono dello Spirito Santo – il secondo bene essenziale da portare con sé – che ci insegna ogni cosa ricordando tutto ciò che il Signore Gesù ci ha detto. Quello dello Spirito è un insegnare ricordando, consentendoci di approfondire la rivelazione di Gesù e anche di discernere nella sua luce le decisioni da assumere di volta in volta, di fronte ai problemi che man mano insorgono lungo il cammino. Appunto come accade nel concilio di Gerusalemme, quando le decisioni vengono prese sulla base di quanto «è parso bene allo Spirito Santo e a noi» (v. 28). Un terzo bene da portare con sé è la pace donata dal Signore, che vince ogni turbamento e timore. 

     Non mancano infatti lungo la via rischi, pericoli, ostilità, scelte coraggiose da assumere. Tutto può però essere affrontato senza paura, nella pace che è dono del Signore e non del mondo, e che dunque possiamo accogliere se siamo disponibili a una comunione con il Signore che ci converte dalle logiche mondane per farci aderire sempre di più al suo stesso ‘sentire’.

     Preparando in questo modo il bagaglio per il viaggio ci si accorge tuttavia che si porta con sé un bene infinitamente più grande: la presenza stessa di Dio che cammina con noi e in noi. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Già lungo il cammino si gusta anticipatamente ciò che ci attende al suo compimento: il Padre e il Figlio abitano in noi così come il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello abitano nel cuore della Gerusalemme celeste.

Preghiere e racconti 

«Quando lo Spirito Santo verrà, v’insegnerà ogni cosa» (Gv 14,26).

Cari figli, non si tratta qui di come questa o quella guerra sarà composta, o se il grano crescerà bene. No, no, figli, non così. Ma quell’«ogni cosa» significa tutte le cose che ci sono necessario per una vera vita divina e per una segreta conoscenza della verità e della malvagità della natura. Seguite Dio e camminate per la santa e retta via, cosa che certe persone non fanno: quando Dio le vuole dentro, esse escono e quando le vuole fuori, entrano; ed è tutta una cosa a rovescio. Queste sono «tutte le cose», tutte le cose che ci sono necessarie interiormente ed esteriormente, sono il conoscere profondamente e intimamente, puramente e chiaramente i nostri difetti, l’annientamento di noi stessi, grandi rimproveri per come restiamo lontani dalla verità e dannosamente ci attacchiamo alle piccole cose.

Lo Spirito Santo c’insegna a inabissarci in una profonda umiltà e a raggiungere una totale sottomissione a Dio e a tutte le creature. Questa è una scienza in cui sono racchiuse tutte le scienze di cui si ha bisogno per la vera santità. Questa sarebbe vera umiltà, senza commenti, non a parole o in apparenza, ma reale e profonda. Possiamo noi disporci in tal modo che ci venga dato in verità lo Spirito Santo! In ciò Dio ci aiuti. Amen.

(GIOVANNI TAULERO, I sermoni, Milano, 1997, 233s.). 

Lo Spirito di Dio

Senza lo Spirito Santo, se, cioè, lo Spirito non ci plasma interiormente e noi non ricorriamo a lui abitualmente, praticamente può darsi che camminiamo al passo di Gesù Cristo, ma non con il suo cuore. Lo Spirito ci rende conformi nell’intimo al vangelo di Gesù Cristo e ci rende capaci di annunziarlo esternamente (con la vita). Il vento del Signore, lo Spirito Santo, passa su di noi e deve imprimere ai nostri atti un certo dinamismo che gli è proprio, uno stimolo cui la nostra volontà non rimane estranea, ma che la trascende. Dio ci donerà lo Spirito Santo nella misura in cui accoglieremo la Parola, ovunque la sentiremo.

Dovrebbe esserci in noi una sola realtà, una sola verità, uno Spirito onnipotente che si impossessi di tutta la nostra vita, per agire in essa, secondo le circostanze, come spirito di carità, spinto di pazienza, spirito di dolcezza, ma che è l’unico Spirito, lo Spirito di Dio. Tutti i nostri atti dovrebbero essere la continuazione di una medesima incarnazione. Bisognerebbe che consegnassimo tutte le nostre azioni allo Spirito che è in noi, in modo tale che si possa riconoscere in ciascuna di esse il suo volto. Lo Spirito non chiede che questo. Non è venuto in noi per riposarsi; egli è infaticabile, insaziabile nell’agire; una sola cosa può impedirglielo: il fatto che noi, con la nostra cattiva volontà, non glielo permettiamo, oppure non gli accordiamo abbastanza fiducia e non siamo fino in fondo convinti che egli ha una sola cosa da fare: agire. Se lo lasciassimo fare, lo Spirito sarebbe assolutamente instancabile e di tutto si servirebbe. Basta un nulla a spegnere un focherello, mentre un fuoco avvampante consuma ogni cosa. Se noi fossimo gente di fede, potremmo consegnare allo Spirito tutte le azioni della giornata, qualunque siano: le trasformerebbe in vita.

(M. DELBRÊL, Indivisibile amore. Frammenti di lettere, Casale Monferrato, 1994, 43-45, passim).

Preghiera per la pace

Signore, noi abbiamo ancora le mani insanguinate dalle ultime guerre mondiali, così che non ancora tutti i popoli hanno potuto stringerle fraternamente fra loro;

 Signore, noi siamo oggi tanto armati come non lo siamo mai stati nei secoli prima d’ora, e siamo così carichi di strumenti micidiali da potere, in un istante, incendiare la terra e distruggere forse anche l’umanità;

Signore, noi abbiamo fondato lo sviluppo e la prosperità di molte nostre industrie colossali sulla demoniaca capacità di produrre armi di tutti i calibri e tutte rivolte a uccidere e a sterminare gli uomini nostri fratelli; così abbiamo stabilito l’equilibrio crudele della economia di tante Nazioni potenti sul mercato delle armi alle Nazioni povere, prive di aratri, di scuole e di ospedali;

 Signore, noi abbiamo lasciato che rinascessero in noi le ideologie, che rendono nemici gli uomini fra loro: il fanatismo rivoluzionario, l’odio di classe, l’orgoglio nazionalista, l’esclusivismo razziale, le emulazioni tribali, gli egoismi commerciali, gli individualismi gaudenti e indifferenti verso i bisogni altrui;

 Signore, noi ogni giorno ascoltiamo angosciati e impotenti le notizie di guerre ancora accese nel mondo;

 Signore, è vero! Noi non camminiamo rettamente! Signore, guarda tuttavia ai nostri sforzi, inadeguati, ma sinceri, per la pace nel mondo! Vi sono istituzioni magnifiche e internazionali; vi sono propositi per il disarmo e la trattativa;

 Signore, vi sono soprattutto tante tombe che stringono il cuore, famiglie spezzate dalle guerre, dai conflitti, dalle repressioni capitali; donne che piangono, bambini che muoiono; profughi e prigionieri accasciati sotto il peso della solitudine e della sofferenza; e vi sono tanti giovani che insorgono perché la giustizia sia promossa e la concordia sia legge delle nuove generazioni;

 Signore, Tu lo sai, vi sono anime buone che operano il bene in silenzio, coraggiosamente, disinteressatamente e che pregano con cuore pentito e con cuore innocente; vi sono cristiani, e quanti, o Signore, nel mondo che vogliono seguire il Tuo Vangelo e professano il sacrificio e l’amore;

 Signore, Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace.

 (Paolo VI)

Porremo la nostra dimora presso di lui

Io e il Padre, dice il Figlio, verremo a lui, cioè all’uomo santo, e porremo la nostra dimora presso di lui (Gv 14,23) […] E l’Apostolo dice chiaramente che Cristo abita per la fede nei nostri cuori (Ef 3,l7). Non fa meraviglia se il Signore Gesù è lieto di abitare [nell’anima], che è come un cielo per la cui conquista ha lottato e per la quale non si è limitato, come per gli altri cieli, a dire una parola perché essi fossero creati. Dopo le sue fatiche, manifestò il suo desiderio e disse: Questo è il mio riposo per sempre; qui abiterò poiché l’ho scelto [Sal 131 (132),14]. E beata colei alla quale è detto: Vieni, mia eletta, e porrò in te il mio trono (Ct 2,10-13).

Perché ora sei triste, anima mia, e perché gemi su di me? Pensi di trovare anche tu un posto per il Signore dentro di te? [cfr. Sal 41 (42),6] E quale posto in noi è degno di una tale gloria ed è in grado di accogliere la sua maestà? Potessi almeno adorarlo nel luogo dove si sono fermati i suoi passi! Chi mi darà di poter almeno seguire le tracce di un’anima santa che si è scelta come sua dimora? Se potesse degnarsi di infondere nella mia anima l’unzione della sua misericordia e così stenderla come una tenda, la quale quando viene unta, si dilata, perché anch’io possa dire: Ho corso per la via dei tuoi comandamenti quando tu hai dilatato il mio cuore [Sal 118 (119), 32], potrò forse anch’io mostrare in me stesso se non una grande sala tutta pronta, dove possa mettersi a tavola con i suoi discepoli, almeno un posticino ove possa adagiare la testa (cfr. Mt 8,20). Guardo da lontano quelli veramente beati di cui è detto: Abiterò in loro e con loro camminerò (2Cor 6,16) […]

È necessario che l’anima cresca e si dilati per poter contenere Dio. Ora, la sua larghezza corrisponde al suo amore, come dice l’Apostolo: Dilatatevi nella carità (2Cor 6,13). Infatti, poiché l’anima, essendo spirito, non ha affatto quantità, tuttavia la grazia le dona ciò che non ha la natura. Essa infatti cresce, ma spiritualmente; cresce non nella sostanza, ma nella virtù; cresce anche nella gloria; cresce, infine, e progredisce fino a formare l’uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (cfr. Ef 4,13); cresce anche come tempio santo del Signore. La quantità di ciascuna anima corrisponde alla misura della sua carità in modo tale che è grande quando ha una grande carità, piccola quando ne ha poca, se non ne ha affatto è nulla, come dice Paolo: Se non ho la carità, non sono niente (ICor 13,12).

(BERNARDO DI CHIARAVALLE, Discorsi sul Cantico 27,8-10, PL 183,918-919).

Preghiera

Signore Gesù, tu chiedi l’amore

come condizione

per l’inabitazione della Trinità,

l’amore che è adesione alla tua Parola.

Ma come possiamo amarti

se non siamo dentro la logica del tuo amore?

Se non sentiamo in noi il fuoco

di questo amore grande e misterioso

che supera ogni limite

e sa affrontare ogni avversità?

Noi non possiamo produrre tale amore,

possiamo solo accoglierlo come dono.

Aiutaci a saperci guardare dentro,

per scorgere in noi la presenza del tuo amore.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

V DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 14,21-27

 

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.   

 

Paolo e i suoi collaboratori sono presentati come missionari itineranti, che predicano la parola di Dio. Essi non prendono dimora stabile in nessuna comunità, ma vanno di paese in paese.

     Quando è necessario essi ritornano nelle comunità evangelizzate per «fortificare» (lett. confermare) nella fede i discepoli. «Confermare» è un termine che diventa tipico nel linguaggio missionario delle primitive comunità cristiane (cf. At 15,32-41; 16,5; Rom 1,11; 1 Ts 3,2.13). Il tema della conferma della fede si trova già nel Vangelo lucano: «confermare i fratelli» è la missione affidata da Gesù a Pietro (cf. Lc 22,32).

     Le tribolazioni sono la grande tentazione della fede per i discepoli. Le sofferenze possono portare alla disperazione e indurre a non avere più fiducia nell’avvento del regno di Dio e a rinunciare a lavorare per esso.

     Il regno di Dio è indicato qui come una realtà escatologica, nella quale si entra «attraverso molte tribolazioni». È presentato come realtà futura, nella quale i discepoli devono ancora entrare. Chiesa e regno non si identificano: essi sono nella Chiesa, ma non ancora nel Regno. Sono ancora nel regime della «fede» e della «speranza», che si possono perdere a causa delle tribolazioni…

     Paolo e Barnaba si preoccupano di dare una struttura stabile alla comunità e costituiscono degli «anziani», che le governino, mentre loro continuano ad andare in nuovi paesi a predicare la parola di Dio. Paolo e Barnaba stanno compiendo la missione fra i pagani, che numerosi hanno abbracciato la fede. Il giungere alla fede nel Signore è un dono gratuito di Dio, come essi riconoscono e dichiarano davanti alla comunità (cf. At 14,27).

 

Seconda lettura: Apocalisse 21,1-5 

 

Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.  Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».

 

 

La sezione dell’apocalisse che inizia col capitolo 21 e termina a 22,5, è l’ultimo grande affresco della profezia di Giovanni. Si tratta di una conclusione radiosa, conseguenza di un intervento diretto e creatore di Dio. I versetti che leggiamo oggi sono l’introduzione a questa sezione. Essi vanno letti non come una previsione del futuro, ma come una esortazione alla speranza e all’attesa dell’intervento definitivo di salvezza di Dio.

     Giovanni ha la visione di un cielo nuovo e una terra nuova. Si tratta di una novità dovuta all’intervento creatore di Dio, come lo era stato all’inizio, non solo di una trasformazione, infatti il cielo e la terra di prima «erano scomparsi». Il riferimento è ad Isaia (65,17; cf. 66,22). «Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra».

     La visione continua con quella della «Gerusalemme nuova». In Isaia Dio promette «farò di Gerusalemme una gioia del suo popolo, un gaudio». La salvezza escatologica della visione di Giovanni è universale e particolare al tempo stesso. Rispecchia il movimento creatore e salvatore di Dio che attraversa tutta la rivelazione biblica. Dio è creatore dell’universo e Padre di tutte le creature che popolano la terra, ma Dio al tempo stesso si sceglie un popolo, Israele, e una città, Gerusalemme, come possesso e dimora amati e riservati in modo particolare per sé.

     La nuova Gerusalemme è presentata nella visione «come una sposa adorna per il suo sposo» (cf. Is 52,1; 61,10).

     Nella terra e cielo nuovi Dio ha la sua dimora stabile. Questo fa la differenza con il cielo e la terra di prima dove Dio aveva dimora, ma nascosta «dalla tenda». Solo in visione e da parte di alcuni scelti da lui per delle missioni particolari, come Mosé, ci poteva essere un contatto per così dire, più diretto. La dimora definitiva di Dio fra gli uomini sarà lo svelamento di quella stessa presenza di Dio nella tenda in mezzo o alla guida del suo popolo in questo mondo che deve passare. La dimora, in greco skené, ha le stesse consonanti della parola ebraica skekinà, che indica l’immanenza di Dio che sta insieme al suo popolo e condivide, se così si può dire, la sua stessa vita tanto da andare in esilio con lui.

     Il segno della dimora definitiva di Dio col suo popolo e l’umanità “giusta” sarà l’assenza di ogni sofferenza, morte, lutto, dolore (cf. Is 35,10; 65,19; Ger 31,16).

 

Vangelo: Giovanni 13,31-33a.34-3 

 

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

 

 

Esegesi 

     Nei primi due versetti della pericope che leggiamo oggi Gesù parla della glorificazione del «Figlio dell’uomo» ormai avvenuta e annuncia che Dio è glorificato in lui.

     Giovanni collega il discorso della glorificazione di Gesù con il dono dello Spirito. In 7,39 afferma che non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. I credenti ricevono lo Spirito del Signore glorificato, e solo dopo questo dono «si ricordano» (12,16) e capiscono le parole di Gesù.

     La glorificazione del Figlio è opera del Padre, al quale appartiene la gloria. I segni miracolosi compiuti da Gesù presentano questo movimento dinamico: essi avvengono a gloria di Dio e le persone che vi assistono lodano il Padre, Dio di Israele (cf. Mt 9,8; 15,31; Mc 2,12;). Gesù insiste su questa dinamica intrinseca alla glorificazione del Padre, che a sua volta glorifica il Figlio e che è glorificato attraverso il Figlio (Gv 8,54). C’è un intreccio inestricabile fra le due glorificazioni, ma il termine ultimo è sempre il Padre. «Padre glorifica il tuo nome» (Gv 12,28). «Padre è giunta l’ora, glorifica il Figlio, perché il Figlio glorifichi te» (17,1).

     Per Giovanni la glorificazione di Gesù è strettamente legata alla passione. Egli dice infatti all’annuncio della passione: «È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23). Gesù si sottomette a passione per amore, in obbedienza al Padre. Egli dà l’esempio dell’amore più grande: «dare la vita». «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Questa è la misura dell’amore che i discepoli debbono avere gli uni verso gli altri.

     «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati». Gesù propone sé stesso come esempio di adempimento in misura totale del comandamento grande di Lev 19,18: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Ne sottolinea l’attualità ai discepoli: «Vi do’ un comandamento nuovo», un comandamento che va messo in pratica sempre in forma nuova a seconda delle circostanze in cui una persona si trova. La novità per i discepoli è il dovere di imitare Gesù nel suo dono senza misura.

     Gesù si rivolge ai discepoli chiamandoli affettuosamente «figlioletti» (teknía). Questo termine ricorre solo qui nel vangelo di Giovanni, ma è un’espressione tipica della Prima Lettera a lui attribuita (1Gv 2,12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21), che ravvicina al genere letterario sapienziale dei Proverbi (cf. Pv 1,8; 2,1; 3,1; 4,1; 8,32): un padre-maestro si rivolge ai suoi discepoli-figli e con affetto e passione dà loro gli insegnamenti. Il diminutivo «figlioletti», anziché il più usuale «figli», indica l’interesse e l’amore di chi parla o scrive verso i destinatari del suo insegnamento.

 

L’immagine della domenica

 

 Amare i nemici

Ai nostri più accaniti oppositori noi rispondiamo così: faremo fronte alla vostra capacità di infliggere sofferenze, con la nostra capacità di sopportare le sofferenze. Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. Metteteci in prigione e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli e noi vi ameremo ancora. Ma siamo convinti che vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Gesù ha eternamente ragione. La storia è piena delle ossa di popoli che rifiutarono di ascoltarlo.

(Martin Luther King)

Spiaggia di Fregene (litorale laziale) – Italia – 2011

 

 

 Meditazione 

La pericope evangelica che la liturgia propone nella quinta domenica di Pasqua dell’anno C’ è, come sempre, tolta dal suo contesto biblico per ‘rivivere’ in un nuovo contesto che è quello liturgico. Senza contraddire il contesto biblico, cerchiamo di far risuonare questo testo di Giovanni all’interno della celebrazione pasquale che la Chiesa vive nei Cinquanta giorni, i quali costituiscono un unico grande giorno di festa.

Nella pagina degli Atti degli Apostoli (prima lettura) troviamo la narrazione della missione di Paolo e Barnaba, in particolare di come essi cercarono di dare solidità e struttura alle comunità da loro fondate, istituendo in ogni Chiesa alcuni anziani. Quello che ci viene qui narrato è dunque uno sforzo di evangelizzazione, accompagnato dalla preoccupazione di organizzare anche in modo ‘istituzionale’ le comunità locali — e tuttavia si afferma che quando i due apostoli ritornarono ad Antiochia, la comunità dalla quale erano partiti, «riferirono tutto ciò che Dio aveva operato per mezzo loro» (At 14,27). Ecco un aspetto pasquale al quale la Chiesa sempre si deve convertire: imparare a vedere sempre, nella sua vita, la presenza dell’azione di Dio.

Il brano tratto dal libro dell’Apocalisse (seconda lettura) ci può aiutare a cogliere il contesto pasquale sullo sfondo del quale interpretare le parole di Gesù che troviamo nel vangelo. 

Ecco: faccio nuove tutte le cose!

L’Apocalisse riprende un’immagine molto bella, già usata in precedenza per parlare della fine della storia (cfr. Ap 7,17): Dio che asciuga ogni lacrima dal volto dell’umanità. E aggiunge qui un elenco di situazioni concrete che alla fine e nel fine della storia non ci saranno: «Non vi sarà più morte né lutto e grida e dolore» (Ap 21,5). Le lacrime che saranno asciugate non sono quelle dei grandi eventi della storia, ma quelle dei lutti e delle tribolazioni che ogni uomo e ogni donna hanno vissuto nella loro concreta esistenza.

Nel fine e nella fine della storia, nel disegno di Dio, queste realtà non ci sono più. Dio non le ha mai volute e alla fine della storia le cancella, perché il suo desiderio originario alla fine non può che vincere contro ogni ‘nemico’. Il brano termina con un’affermazione che ci proietta nel testo evangelico: «Ecco: faccio nuove tutte le cose». La storia conoscerà una svolta, ma tale svolta è opera di Dio. A partire da questo annuncio, spostiamo la nostra attenzione sul brano evangelico, per contemplare come, dove e quando quest’azione di Dio trova conferma, quando la Parola di Dio si dimostra degna di fede/fedele e veritiera (cfr. Ap 21,5).

Anche il testo del Vangelo parla di una ‘cosa nuova’, un comandamento nuovo, che Gesù dona ai suoi discepoli. In realtà non si tratta di una novità dal punto di vista del contenuto: il comando dell’amore è già presente nell’Antico Testamento sia in riferimento a Dio (Dt 6,5), sia in riferimento al prossimo (Lv 19,18.34). La novità sta nel ‘come’. Si tratta di un comando, ‘amatevi’, che interessa l’avvenire, fondato sopra un fatto avvenuto nel passato: ‘come io ho amato voi’. L’amore dei discepoli è possibile perché sono stati preceduti dall’amore di Gesù: «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4,19). In Gv 15,9 Gesù descriverà così qual è l’amore con il quale egli ha amato i discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». È in questo amore, con il quale il Padre ha amato Gesù e che Gesù a sua volta ha indirizzato verso i suoi discepoli, che i discepoli stessi devono ‘rimanere’.

La novità di questo comandamento, allora, è la novità della Pasqua, nella quale Dio crea qualcosa di nuovo proprio in Gesù, primogenito dell’umanità e terra nuova che l’Apocalisse canta con stupore. Anche se collocato in un discorso di Gesù ambientato nella cena che ha preceduto la passione e quindi la Pasqua, questo testo, come ogni testo dei vangeli, viene trasfigurato dalla luce pasquale. Ma ci dice anche qualcosa di più circa la ‘novità’ che è stata resa possibile dalla Pasqua di Gesù e che ‘oggi’ la Chiesa può celebrare nel suo cammino nella storia dell’umanità.

Gloria, sequela, amore

Nel brano si susseguono tre temi molto significativi — la gloria, la sequela, il comandamento dell’amore — che corrispondono nel testo a suddivisioni ben riconoscibili, e anche a una scansione temporale ben precisa.

La gloria. Nell’Antico Testamento la ‘gloria’ — termine che in ebraico indica la ‘pesantezza’, la ‘consistenza’ — è il manifestarsi di Dio nella storia. La gloria è la presenza di Dio visibile nella storia dell’umanità. Nel testo di Giovanni si parla del Padre che è glorificato in Gesù e di Gesù che è glorificato da parte del Padre. In Gesù, nella sua Pasqua, continua dunque il medesimo ‘stile’ del Dio dell’Esodo, un Dio che agisce nella storia in favore del suo popolo e dell’umanità. Questo primo tema fa riferimento al tempo della Pasqua di Gesù.

La sequela. Il secondo tema è quello del seguire il Signore. Su esso sembra che ci sia incomprensione tra il maestro e i suoi (cfr. 13,36-38). Gesù afferma che ora i discepoli non lo possono seguire dove egli va, sulla sua via (Gv 13,33.36) e il v. 36 è ancora più chiaro: ora i discepoli non possono seguire Gesù. Lo potranno fare però in un secondo momento, dopo la sua Pasqua. Non possono amarsi vicendevolmente come Gesù li ha amati prima che egli li abbia amati fino alla fine (Gv 13,1). Devono accettare questo suo gesto estremo di amore per poter diventare capaci di essere veramente suoi discepoli e di seguirlo. Il tempo di cui si sta parlando è il presente dei discepoli, prima della Pasqua di Gesù.

Il comandamento dell’amore. Ora si capisce perché Gesù introduca a questo punto il tema del comandamento nuovo. Gesù indica qui la via che i discepoli devono percorrere per poterlo seguire, per andare dove lui va, cioè verso la Pasqua: è l’amore fino alla fine, a somiglianza del suo. Prima della Pasqua questo amore è ‘sconosciuto’ ai loro occhi e non sono in grado di percorrere quella via. Solo dopo, dopo la Pasqua di Gesù e il dono dello Spirito, potranno essere veramente discepoli.

La sequela non è frutto dell’impegno dei discepoli, ma è quella ‘cosa nuova’, quella via nel deserto che Dio ha aperto nella storia dell’umanità. Senza la strada aperta da Dio in Gesù, che è la via (Gv 14,6), non ci può essere sequela autentica. Allora questa parola di Gesù è situata in un ‘terzo tempo’, che viene dopo la sua Pasqua e il dono dello Spirito, e condurrà i discepoli alla verità tutta intera. È il tempo della Chiesa.

Preghiere e racconti 

La nostalgia dell’Eterno

Come le rondini che a metà agosto cominciano a venir prese dalla febbre migratoria e al crepuscolo con alte strida in gruppi ahimè sempre più piccoli si richiamano e si raccolgono sui fili, così anche noi, a un certo punto della nostra vita, possiamo sentire lo stimolo di prendere il volo.

Al di là del mare, un altro mondo ci chiama.

Non l’abbiamo mai visto, non abbiamo in mano un contratto che ci garantisca l’approdo, non sappiamo neppure se le nostre forze saranno sufficienti. Forse una notte, sfiniti, verremo inghiottiti dai flutti.

Eppure, partiamo lo stesso.

Come i piccoli rondinotti nati in Italia, già al primo volo intorno al nido hanno nostalgia dell’Africa, così noi, nelle parti più segrete del cuore, custodiamo sempre la nostalgia della voce dell’Eterno che ci chiama. 

(Susanna TAMARO, Un cuore pensante, Bompiani, Milano, 2015,127)

Affamati d’amore

Oggi non abbiamo più neppure il tempo per guardarci, per parlarci, per darci reciprocamente gioia, e ancor meno per essere ciò che i nostri figli si aspettano da noi, che un marito si aspetta dalla moglie e viceversa. E così siamo sempre meno in contatto gli uni con gli altri. Il mondo va in rovina per mancanza di dolcezza e di gentilezza. La gente è affamata d’amore, perché siamo tutti troppo indaffarati.

(Madre Teresa di Calcutta)

«Vi do un comandamento nuovo».

Poiché c’era da aspettarsi che i discepoli, sentendo tali discorsi e considerandosi abbandonati, si lasciassero prendere dalla disperazione, Gesù li consola, munendoli, per la loro difesa e protezione, della virtù che è alla radice di ogni bene, cioè della carità. È come se dicesse: «Vi rattristate perché io me ne vado? Ma se vi amerete l’un l’altro, sarete più forti». E perché non disse proprio così? Perché impartì loro un insegnamento molto più utile: «In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli». Con queste parole fece capire che la sua eletta schiera non avrebbe dovuto mai sciogliersi, dopo aver ricevuto da lui questo segno distintivo. Lui lo rese nuovo, con la maniera stessa in cui lo formulò. Difatti precisò: «Come io ho amato voi» […].

E, trascurando qualsiasi accenno ai miracoli che essi avrebbero compiuto, dice che sarebbero stati riconosciuti dalla loro carità. Sai perché? Perché la carità è il più grande segno che distingue i santi: essa è la prova sicura e infallibile di ogni santità. Soprattutto con la carità noi tutti conseguiamo la salvezza. In questo soprattutto egli afferma consistere l’essere suoi discepoli. Proprio a motivo della carità tutti vi loderanno, vedendo che imitate il mio amore. I pagani certamente non si commuovono tanto di fronte ai miracoli come di fronte alla vita virtuosa. E niente educa alla virtù come la carità. Essi infatti chiamarono spesso impostori gli operatori di miracoli, ma non possono mai trovare qualcosa da criticare in una vita integra.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul vangelo di Giovanni, 57,3s.).

Ama con umiltà e rispetto

La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui.

(Thomas Merton).

 «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (cfr. Mt 22,37-39).

 Comincio a sperimentare che un amore di Dio totale e incondizionato rende possibile un amore del prossimo visibilissimo, sollecito e attento. Ciò che spesso io definisco ‘amore del prossimo’ si dimostra troppo spesso un’attrazione sperimentale, parziale o provvisoria, di solito molto instabile e fuggevole. Ma se il mio obiettivo è l’amore di Dio, si può sviluppare anche un profondo amore per il prossimo. Altre due considerazioni possono spiegarlo meglio.

Prima di tutto, nell’amore di Dio scopro ‘me stesso’ in modo nuovo. In secondo luogo, non scopriremo solo noi stessi nella nostra individualità, ma scopriremo anche i nostri fratelli umani perché è la gloria stessa di Dio che si manifesta nel suo popolo in una ricca varietà di forme e di modi. L’unicità del prossimo non si riferisce a quelle qualità peculiari, irrepetibili da individuo a individuo, ma al fatto che l’eterna bellezza e l’eterno amore di Dio divengono visibili in quelle creature umane uniche, insostituibili, finite. È precisamente nella preziosità dell’individuo che si rifrange l’amore eterno di Dio, diventando la base per una comunità d’amore. Se scopriremo la nostra stessa unicità nell’amore di Dio e se potremo affermare che possiamo essere amati perché l’amore di Dio dimora in noi, potremo allora arrivare agli altri, in cui scopriremo una nuova ed unica manifestazione dello stesso amore, entrando in intima comunione con loro.

(H.J.M.NOUWEN, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista,  Brescia, 1998, 82s.).

Cogliere il mistero di Dio

Fratelli, non temete il peccato degli uomini, amate l’uomo anche nel suo peccato, perché questa immagine dell’amore di Dio è anche il culmine dell’amore sopra la terra. Amate tutta la creazione divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia. Amate ogni fogliuzza, ogni raggio di sole! Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa! Se amerai tutte le cose, coglierai in esse il mistero di Dio. Coltolo una volta, comincerai a conoscerlo senza posa ogni giorno di più e più profondamente. E finirai per amare tutto il mondo di un amore ormai totale e universale.

(Fedor Dostoevskij, da I fratelli Karamazov).

Cercare la verità…amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle confessioni di sant’Agostino.

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

 

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio Mazzi, Preghiere di un prete di strada).

 

L’amore basta all’amore

Quando l’amore ti chiama, seguilo,

anche se ha vie ripide e dure.

Quando dalle sue ali ne sarai avvolto,

abbandonati a lui;

anche se la sua lama potrà ferirti.

Quando ti parla, credigli,

anche se la sua voce potrà disperdere i tuoi sogni.

Perché più l’amore ti colpirà,

più tu maturerai.

Perché l’amore non deve dar nulla, se non se stesso,

né coglier nulla, se non da se stesso.

Perché amarsi l’un l’altro,

non è far dell’amore una prigione.

Perché l’amore non possiede, né deve essere posseduto.

Perché l’amore basta all’amore.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DI PASQUA C