Prima lettura: Genesi 18,1-10a
In quei giorni, il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono. Poi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?». Rispose: «È là nella tenda». Riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio».
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Il racconto intreccia due motivi ricorrenti nelle letterature: la visita di divinità agli uomini e la promessa di un figlio. Questi due filoni letterari che molto colpivano l’immaginazione popolare, specialmente legando al tema della vista divina premi o castighi, sono molto ben incorniciati dal tema dell’ospitalità.
Il problema più grande dal punto di vista teologico-esegetico è il modo in cui Dio si manifesta con questa alternanza tra uno e tre, singolare e plurale che attraversa tutto il racconto. Una soluzione potrebbe essere quella di considerare Dio come accompagnato da personaggi della corte celeste. Su questa pista ci porterebbe 18,22 in cui due dei componenti della visione partono verso Sodoma, mentre Abramo rimane davanti al Signore, e 19,1 in cui si dice che i due angeli arrivarono a Sodoma. La soluzione non può comunque essere definitiva e non si deve trascurare il problema di salvare la trascendenza divina dal momento che i tre personaggi arrivati da Abramo consumano cibo. Non resta che prendere atto della complessità del racconto sotto questo aspetto che non è comunque il più importante.
L’argomento centrale è senz’altro quello dell’accoglienza, dell’ospitalità. Il v. 1 colloca l’episodio vicino a Ebron, in una località che diventerà un celebre santuario. Va notato prima di tutto l’ora in cui i personaggi arrivano dal patriarca: è l’ora più calda, cioè l’ora in cui non si viaggia e dunque l’ora in cui non si aspetta nessuno. Il v. 2 presenta molto bene il modo in cui Abramo ha vissuto l’apparizione divina. Egli non ha visto nulla di straordinario, ma semplicemente tre uomini che stavano in piedi presso di lui. Abramo prende l’iniziativa di ospitarli senza che nulla gli venga domandato. Nei versetti successivi vengono descritti tutti i riti dell’ospitalità come viene osservata in oriente secondo un cordiale ceri-moniale. Nulla viene trascurato nonostante la sorpresa dell’arrivo. L’accoglienza è calorosa e abbondante come certifica il vitello tenero e buono di cui parla il v. 7. In quello successivo poi Abramo è ritratto in un altro squisito gesto di ospitalità: non mangia con gli ospiti, ma rimane in piedi presso di loro come segno di prontezza al servizio. Naturalmente come si usava allora le donne non compaiono al cospetto degli ospiti, tanto meno la moglie del padrone. Da parte di Abramo tutte le regole sono osservate, l’unico che agisce fuori dal galateo è proprio Dio. Egli non solo arriva in un orario che la cortesia sconsiglia, ma nel bel mezzo del pranzo domanda pure ad Abramo dove si trova sua moglie, argomento da non
toccare secondo i canoni allora vigenti. È un Dio veramente sorprendente oltre che misterioso il Dio che viene descritto in questa lettura. A questo Dio Abramo concede la sua accoglienza senza riserve. Sarà proprio questo atteggiamento di Abramo a far scoccare l’ora del mantenimento delle promesse da parte di Dio. Ripetutamente era stato assicurato ad Abramo che avrebbe avuto una discendenza (12,2.7; 13,15; 15,5; 17,5-6.8.15-19) ora è il tempo della realizzazione di quanto era stato annunciato. L’ospitalità senza riserve al Dio degli imprevisti segna il tempo dell’esaudimento.
Seconda lettura: Colossesi 1,24-28
Fratelli, sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.
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Colpisce immediatamente lo stridore tra gioia e sofferenza con il quale si apre il brano al v. 24. Le sofferenze di cui parla qui l’apostolo non sono generiche, si tratta di una situazione dolorosa specifica e ben motivata. Paolo si trova in carcere (4,10.18) e questo a motivo di Cristo e della predicazione del suo mistero (4,4). Il carcere è quindi conseguenza dell’apostolato di Paolo. Per questo egli può dichiarare di gioire; Paolo sta vivendo la beatitudine proclamata da Gesù (Lc 6,22-23) che prevede il destino dei suoi discepoli come futuro di rifiuto e persecuzione. Ma vi è un altro importante motivo da considerare per vedere come la sofferenza possa essere vissuta con gioia. Paolo offre la sua prigionia per i colossesi, sente che quanto soffre benefica effettivamente altri. La sua sofferenza diventa atto d’amore e quindi non può che recare gioia.
Il nodo più intricato del brano è certamente l’affermazione che Paolo «completa nella sua carne quello che manca ai patimenti di Cristo». L’apostolo non vuole neppure insinuare l’idea che al sacrificio di Cristo manchi qualcosa. Infatti si è guardato bene dall’usare il vocabolario che indica la morte redentiva di Gesù in modo specifico: morte, sangue, croce. Il termine impiegato da Paolo è più generale (thlypsis) che nel linguaggio apocalittico cristiano indica le sofferenze della fase finale che prelude alla manifestazione definitiva del Messia: Mc 13,19.24. Paolo sta esponendo qui un suo punto di vista sull’attività apostolica da lui svolta: l’annuncio del vangelo e le tribolazioni ad esso connesse segnano l’ultima fase della storia salvifica. Ancora di più non va dimenticato che Paolo in 1,19-20 aveva dichiarato la presenza in Cristo di ogni «pienezza» e l’efficacia assoluta della sua opera riconciliatrice. Il verbo impiegato dall’apostolo per dire «completare» (antanaplēroō) indica un’opera congiunta che viene portata avanti insieme, ciascuno per la sua parte. Anche qui si tratta di esporre in che modo Paolo concepisca l’apostolato. L’annuncio del vangelo non è opera solitaria, ma lavoro comune con Cristo stesso. In 2Cor 1,5 Paolo aveva già detto che le sofferenze dell’apostolato erano presenza delle sofferenze di Cristo in lui. Si potrebbe pertanto arrivare quasi ad affermare che parlando di «ciò che, dei patimenti di Cristo» non siamo nella linea di una carenza da perfezionare (i patimenti di Cristo che vengono colmati dalle sofferenze umane), viceversa siamo nella linea di una perfezione che viene partecipata, cioè le sofferenze umane sono partecipazione ai patimenti di Cristo già in sé perfetti ed efficaci.
Dopo aver ripreso alla fine del v. 24 l’idea del beneficio che le sofferenze apostoliche recano alla Chiesa, ora al v. 25 Paolo se ne dichiara «ministro». Il servizio che egli svolge è il compimento di una vocazione, idea assai radicata nella mente di Paolo e più volte ribadita (Gal 1,1; Rm 1,1, 1Cor 1,1). Egli è stato chiamato a realizzare, a dare pienezza alla parola di Dio che ha come contenuto un unico mistero. Il termine (mysterion) indica il piano salvifico di Dio che in Gesù viene «rivelato » cioè fatto conoscere attraverso la sua stessa realizzazione. Il momento è solenne. Le generazioni precedenti non hanno potuto beneficarne, ora invece persino i pagani ne sono partecipi. Il piano salvifico di Dio ha un raggio universale, non esclude nessuno. Anzi raggiunge gli ascoltatori della rivelazione in un modo particolarmente efficace: «Cristo in voi, speranza della gloria», v. 27. Il credente viene realmente coinvolto nel mistero salvifico che Cristo realizza e che diventa in lui caparra di salvezza eterna.
Con i vv. 25-29 Paolo fa una dichiarazione di scopo e di metodo sul suo lavoro apostolico. Lo scopo è quello di «rendere ogni uomo perfetto in Cristo» cioè configurarlo a lui in modo definitivo. Il metodo è quello di annunciare, ammonire, istituire, cioè accompagnare con fatica, costanza e sapienza il cammino di ogni credente verso la sua piena maturità.
Vangelo: Luca 10,38-42
In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
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Esegesi
La pericope che ci viene presentata oggi costituisce la conclusione del capitolo 10 ed è esclusivamente lucana. L’episodio si inserisce nell’appena cominciato viaggio verso Gerusalemme (9,51) e ne costituisce una tappa significativa in quanto propone una tematica particolarmente cara a Luca: la posizione della donna nella comunità cristiana.
Già in 8,1-3 l’evangelista aveva descritto il seguito femminile di Gesù, una notizia che può anche non stupire il lettore contemporaneo del vangelo, ma che certamente doveva suscitare meraviglia e disapprovazione tra i contemporanei di Gesù. La pericope che abbiamo a disposizione compie un altro passo decisivo per la questione femminile. La coppia di donne protagoniste del nostro brano è conosciuta anche dal vangelo di Giovanni. Nel capitolo 11 del suo scritto il quarto evangelista le nomina ripetutamente, ma in quella occasione esse hanno un ruolo preciso: sono le sorelle di Lazzaro (11,3); sono ancora pertanto decisamente subordinate ad una presenza maschile. Qui invece Lazzaro non viene ricordato. Il nome Marta, femminile dell’aramaico mar che significa «padrone-signore», e il verbo di cui è soggetto, che viene reso dalla Vulgata e dalla nostra versione italiana come se fosse effettivamente lei la padrona di casa, creano già un’atmosfera nuova in cui la donna è protagonista. La svolta avviene però con il v. 39 che introduce l’altra sorella e il suo atteggiamento veramente inedito. Per capire la novità di questa situazione si dovrebbe ricordare Gv 4,27 in cui i discepoli si meravigliano che Gesù stia discorrendo con una donna. Non viene neanche notato il fatto che sia samaritana, ma semplicemente «donna» e perciò stesso non degna di considerazione. Lo stesso stupore dei discepoli dovette essere avvertito dai lettori contemporanei del vangelo. Gesù sta qui sovvertendo una convenzione sociale del suo tempo, o meglio si sta mostrando libero verso di essa. Accetta di essere ospitato da donne e va oltre, ammettendo una di esse come uditrice della sua parola. La formula nell’opera lucana indica l’annuncio del messaggio specifico di Gesù: Lc 5,2; At 13,7.44; 19,10. Tra Maria e Gesù non è dunque in corso una conversione qualsiasi, tanto per intrattenere l’ospite in attesa che il pranzo sia servito. Le posizioni fisiche stesse dei due personaggi dicono che qui Gesù è ritratto come il maestro che insegna e Maria come la discepola che ascolta. Nell’ambiente rabbinico circolava l’opinione secondo cui, piuttosto che consegnare la Torà ad una donna, era meglio bruciarla. Come si vede, Gesù ha un atteggiamento diametralmente opposto. Maria è ammessa anche lei nel gruppo dei discepoli senza inferiorità alcuna.
Al v. 40 riaffiora la posizione conservatrice con l’intervento di Marta. Verrebbe quasi da paragonarla al fratello maggiore della parabola del Figliol prodigo (Lc 15,25-32). Quello non sa accettare un fratello riaccolto dal Padre nel suo perdono, Marta non capisce Maria accolta da Gesù come discepola e vorrebbe riportarla nel suo ruolo tradizionale: i servizi domestici. Forse Marta è anche la donna che non sa osare, che è restia di fronte alle novità portate da Gesù e preferisce la sicurezza dell’abitudine al gesto di fiduciosa apertura che Gesù porta.
I 41-42 possono essere letti da un punto di vista generale e da un punto di vista particolare. Sul piano generale Gesù farebbe notare a Marta che essa si occupa di tante cose trascurando l’essenziale della vita. Dal punto di vista particolare si tratterebbe semplicemente del pranzo da preparare. Marta vuole fare bella figura preparando diverse pietanze, mentre Gesù fa notare che in un clima così familiare basterebbe benissimo una portata sola, un piatto unico. I verbi di cui Marta è soggetto indicano comunque una forte inquietudine, sproporzionata allo scopo, sia che si scelga la prospettiva generale, sia che si preferisca quella particolare.
Non sfugga l’umorismo con cui Gesù conclude la conversazione. Infatti «la parte migliore» indica anche la porzione di cibo. La tavola non è ancora pronta e Maria si è già presa il boccone più buono. Ha fatto la sua scelta, una scelta indovinata e durevole: l’ascolto della parola di Gesù e la condizione nuova che ne consegue.
Tradizionalmente il brano viene letto per parlare del delicato equilibrio tra vita contemplativa e vita attiva e del primato della prima sulla seconda. Del resto la questione era molto sentita dalla comunità primitiva se pensiamo che un vocabolario assai affine a quello del nostro brano evangelico (kataleipein, diakonein) si trova in At 6,2 in cui gli apostoli stessi si trovano di fronte alla necessità di una scelta tra annuncio della parola e servizio alle mense.
Riprendendo il taglio che è stato dato al commento si dovrebbe dire che prima ancora della scelta tra vita contemplativa e vita attiva viene la scelta tra accettazione o rifiuto della parola di Gesù e delle liberanti novità che essa porta con sé. Alla base di tutto vi è certamente l’ascolto perché solo questo può portare ad equilibrate decisioni.
L’immagine della domenica
Lago di Piediluco (Umbria-Italia) – 29 giugno 2016
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Riposo e verità eterne
«Il tono di fondo della vita genuina e sana è contemplativo.
L’energia della volontà, dell’azione, della ricerca,
per quanto intensa possa diventare,
deve riposare sopra una profondità che è calma,
che s’affissa nelle immutabili verità eterne.
Questo è il sentire che ha le sue radici nell’eternità.
Essa ha la pace:
possiede quella serenità immune da tensioni che rappresenta la vittoria sopra la vita».
(Romano GUARDINI, Lo spirito della liturgia. I santi segni, Brescia, Morcelliana, 71996).
Meditazione
Ascoltiamo il racconto dell’ospitalità che Gesù riceve a Betania, nella casa dei suoi amici Lazzaro, Marta e Maria, dopo aver sostato, nella domenica precedente, sulla parabola del buon samaritano. «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37), aveva risposto Gesù al dottore della Legge che lo aveva interrogato su chi fosse il suo prossimo, invitandolo a imitare l’agire misericordioso e compassionevole del samaritano. Dopo il ‘fare la misericordia’ ora l’attenzione si sposta, con l’episodio di Betania, su un altro verbo fondamentale dell’esperienza credente, ‘ascoltare la parola di Dio’. Nella prossima domenica Gesù risponderà ai discepoli che gli chiederanno: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). In queste tre domeniche incontriamo così, inanellati uno dopo l’altro, tre atteggiamenti essenziali attraverso i quali si intesse la vita del discepolo di Gesù: fare la misericordia, ascoltare la parola di Dio, pregare. Sembra che Luca conosca bene il detto di Simeone il Giusto (il secondo dei Pirqè Avot, i detti dei Padri tramandati dal Talmud): «Il mondo poggia su tre colonne: lo studio della Torah, il culto, le opere di misericordia». Anche quando negli Atti degli Apostoli descriverà la comunità di Gerusalemme (cfr. At 2,42-47), modello esemplare di ogni comunità cristiana, tornerà a proporre queste tre fondamenta, ricordando che i discepoli erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli (l’ascolto della Parola), nella comunione dei beni (la misericordia), nella frazione del pane e nelle preghiere (la vita liturgica).
Con l’ospitalità di Betania, l’ascolto della Parola, viene posto al centro, tra il fare la misericordia e il pregare, come se costituisse il cuore della vita del cristiano, un cuore capace di plasmare nel modo giusto ed evangelico anche le altre due opere. Senza una disponibilità all’ascolto, l’agire misericordioso rischia di scadere a mera filantropia, o la preghiera stessa a un dire (sprecare!) molte parole a Dio, come fanno i pagani o gli ipocriti, senza tuttavia entrare nel segreto autentico della relazione con lui (cfr. Mt 6,5-8). Non possiamo inoltre dimenticare che poco prima, al capitolo nono, nella scena della Trasfigurazione, era risuonato l’imperativo del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (Lc 9,35). Nel vangelo di Luca, il primo personaggio ad accogliere e a obbedire a questo invito è proprio Maria di Betania (una donna!) che ascolta la parola di Gesù seduta ai suoi piedi, nel tipico atteggiamento del discepolo verso il proprio rabbi.
Tutti questi elementi, che possiamo raccogliere un po’ a introduzione del racconto di Betania, ci aiutano a mettere in luce l’importanza che, agli occhi di Luca e ancor prima di Gesù, assume l’atteggiamento discepolare di Maria. L’evangelista però non si limita a questa sottolineatura, si spinge più in là, fino a confrontare l’ascolto di Maria con l’atteggiamento dell’altra sorella, Marta, che invece era «distolta per i molti servizi» (v. 40). Questo modo di raccontare, inutile nasconderlo, ci crea qualche disagio e imbarazzo. Anche il comportamento di Marta, in effetti, è descritto con un bel verbo – diakonein, ‘servire’ – altro termine fondamentale dell’esperienza cristiana, che Gesù peraltro applica a se stesso per affermare di essere venuto non per essere servito, ma per servire. Come mai Luca sembra ora sva-lutare il servizio a vantaggio dell’ascolto? Il racconto è costruito con grande abilità narrativa e finezza spirituale. Anche l’attenzione ai suoi dettagli aiuta a comprenderlo bene, evitando i possibili fraintendimenti, in cui è facile scivolare.
La prima cosa da osservare è che all’inizio del racconto, nella casa di Betania, regnano grande pace e armonia. Gesù entra nella casa, entrambe le sorelle lo pongono al centro della loro premura, anche se in modo diverso, Maria ascoltandolo. Marta servendolo. Per entrambe al cuore della loro preoccupazione c’è Gesù e in lui stanno accogliendo, come meglio possono, il Signore (tre volte kyrios in greco). Fino a questo punto non è stato dato alcun giudizio di valore sull’atteggiamento dell’una o dell’altra, Gesù non loda Maria né rimprovera Marta. Improvvisamente, nell’armonia di questa casa accade qualcosa, scoppia
un piccolo dramma, raccontato nell’ultima parte dell’episodio (vv. 40-42). La difficoltà è creata da Marta e dalle sue parole: «Signore, non ti importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti» (v. 40). Ho sottolineato prima come entrambe le sorelle mettano al centro della loro attenzione Gesù, ma ora Marta sposta lo sguardo da Gesù a Maria e a ciò che sta facendo, anzi, non sta facendo, lasciandola sola a servire. Meglio ancora: più che Maria, Marta sta ponendo al centro se stessa e il fatto che venga lasciata sola a servire. Non a caso Luca introduce la sua protesta precisando che Marta «si fece avanti» (v. 40). Marta sopravanza e si pone al centro; nel suo punto di vista c’è questo slittamento, una sorta di capovolgimento della prospettiva per cui al centro non c’è più Gesù da accogliere, ma ciò che lei sta facendo per lui. Sembra di ascoltare nelle sue parole un tono di sorpresa un po’ irritata: «Non ti sei ancora accorto di tutto il lavoro che sto facendo per te? Di’ dunque a mia sorella che mi dia una mano!» Per comprendere meglio potremmo riscrivere il racconto immaginando che, anziché da Marta, l’obiezione fosse sollevata da Maria, che fosse lei a protestare: «Signore, non ti curi che mia sorella si preoccupi e si agiti di tante cose; dille dunque che venga accanto a me, a sedersi ai tuoi piedi per ascoltare la tua parola».Come non accoglie l’obiezione di Marta, probabilmente Gesù non avrebbe accolto neppure quella di Maria, o non l’avrebbe fatto se avesse significato l’assolutizzazione di un solo punto di vista: il proprio. Un modo per tornare a mettere al centro se stessi e il proprio atteggiamento.
Marta serve, ma soprattutto osserva se stessa, si guarda mentre sta servendo. L’ascolto della Parola ci aiuta a vincere questa tentazione, torna a farci mettere al centro della nostra vita la persona di Gesù e di conseguenza tutto ciò che unifica in lui la nostra esistenza. Marta si agita e si preoccupa, è divisa in se stessa; al contrario l’ascolto della parola di Dio dona armonia e pace, consentendoci, persino nella molteplicità dell’agire, di rimanere raccolti in noi stessi, unificati, non divisi, capaci di ricondurre tutto ciò che facciamo a quella sola cosa necessaria che è il Signore Gesù e la nostra comunione di vita con lui.
In secondo luogo, l’ascolto della Parola ci rende vigilanti su un altro rischio: Marta accoglie il Signore e vuole offrirgli il meglio di ciò che possiede, desidera che nella sua casa Gesù trovi tutto ciò di cui ha bisogno. È una donna generosa, ma lo è pur sempre con la generosità del ricco, di chi dà del suo, prendendolo da ciò che possiede o che è in grado di realizzare con le proprie mani. Viceversa, l’ascolto umile di Maria esprime bene l’atteggiamento del povero, di colui che riceve a mani aperte a cuore aperto. Maria ha compreso che questo è il modo di accogliere il Signore, di stare davanti a lui, senza pensare troppo alle cose da fare, da dire o da dare, prendendole dalle proprie ricchezze; davanti al Signore bisogna anzitutto rimanere come dei poveri, che hanno bisogno di ricevere, in una vera accoglienza, in un vero ascolto.
La prima lettura, tratta dal libro della Genesi, narra l’ospitalità che Abramo offre a quei tre personaggi misteriosi, tra i quali e presente Dio stesso che visita la sua tenda. Il racconto si conclude con la promessa della fecondità di Sara: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio» (Gen 18,10). Per la Bibbia l’ospitalità è sempre feconda, genera vita, in quanto partecipa della stessa fecondità pasquale tipica del modo di essere di Dio. Ospitare l’altro non solo nella propria tenda, ma nella propria vita, significa infatti essere disposti a morire un po’ a se stessi perché l’altro possa vivere in noi e attraverso di noi. Questa è la cosa necessaria che Marta deve riconoscere: non deve ascoltare se stessa e ciò che sta facendo; deve ascoltare il Signore; non deve porre al centro se stessa, ma diminuire perché il Signore possa crescere in lei. Questo morire a se stessi è sempre fecondo, perché ci consente di rinascere a quella vita nuova che il Signore ci dona, anche in questa eucaristia, nella quale ascoltiamo la sua Parola, ci nutriamo del suo pane di vita, accogliamo la sua Persona in noi come centro unificante di tutto ciò che siamo. Questa è la parte migliore di cui tutti noi abbiamo assoluta necessità.
Preghiere e racconti
Cerchiamo di possedere ciò che nessuno ci può togliere
Si è parlato della misericordia, ma questa virtù non ha un unico aspetto. Con l’esempio di Marta e di Maria ci viene presentata della prima l’instancabile dedizione nelle opere, della seconda la devota attenzione del cuore alla Parola di Dio. Se questo atteggiamento concorda con la fede, viene preferito alle opere stesse, come sta scritto: «Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,42). Cerchiamo anche noi di possedere ciò che nessuno ci può togliere, prestando un ascolto attento e non superficiale; infatti, perfino i semi della Parola celeste solitamente sono portati via se vengono seminati lungo la strada. Ti spinga, come Maria, il desiderio della sapienza; questa infatti è l’opera più grande, più perfetta e la sollecitudine per il ministero non ti distolga dal conoscere la Parola celeste. Non rimproverare e non ritenere che perdano tempo quelli che vedi dedicarsi alla sapienza; Salomone, quell’uomo di pace, la fece venire presso di sé (cfr. Sap 9,10). Però Marta non viene rimproverata per il suo lodevole servizio; Maria è preferita perché ha scelto per sé la parte migliore.
Gesù possiede in abbondanza molti doni e molti ne distribuisce.
Per questo Maria è più sapiente perché ha scelto quello che ha capito essere fondamentale. Del resto gli apostoli non ritennero che fosse la cosa migliore trascurare la Parola di Dio per servire alle mense (cfr. At 6,2). Ma tanto l’uno che l’altro sono compiti affidati dalla Sapienza; anche Stefano, infatti, che era stato scelto per il servizio, era colmo di sapienza (cfr. At 6,5). Perciò chi serve renda onore a chi insegna e chi insegna esorti e inciti chi serve. Uno solo è il corpo della chiesa, sebbene le membra siano differenti (cfr. 1Cor 12,12 ss.), e ciascuno ha bisogno dell’altro.
(AMBROGIO, Sul vangelo di Luca 7, 85-86, in Opera omnia di Sant’Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca 2, pp. 152-154).
Due tipi di preghiera
Per S. Teresa, dunque, non a tutti Dio concede la via contemplativa, qui da intendere appunto come la via dell’esperienza mistica; è una via che dipende dal puro dono.
Commentando il quadretto evangelico di Marta e Maria, ella applica le due figure ai due tipi di preghiera: Di S Marta non si dice che fosse contemplativa. Eppure non lascia di essere una gran Santa. Non vi basterebbe somigliare a questa donna felice che meritò tante volte di ospitare in casa sua nostro Signore Gesù Cristo, preparargli da mangiare, servirlo e mangiare lei stessa alla sua mensa? Se foste tutte assorte come Maddalena, più nessuno preparerebbe da mangiare all’Ospite divino. Orbene, immaginate che il nostro monastero sia come la casa di S. Marta, dove occorre attendere a ogni ufficio. Quelle che vanno per la via attiva non mormorino di quelle che si beano nella contemplazione, perché il Signore ne prenderebbe le difese, anche se non parlassero, dimentiche di sé e di ogni altra cosa come esse sono generalmente. Pensino che tra loro vi dev’essere pure qualcuno che prepari il cibo al Maestro, ed essa si ritenga fortunata di poterlo servire come Marta. Non dimentichino che la vera umiltà consiste nell’essere disposti ad accettare con gioia quanto il Signore vuole da noi, considerandoci indegni di esser chiamati suoi servi.
(Santa Teresa di Gesù, Cammino di perfezione, 17, 5-6).
Mi sento inutile
“Niente che appartiene a questo mondo è inutile agli occhi di Dio. Né una foglia che si stacca dall’albero, né un capello che cade dalla testa, né un insetto che viene ucciso perché fastidioso. Ogni creatura o cosa possiede una ragione d’essere.
“E ciò riguarda anche a te, giovane afflitto con le vesti stracciate. ‘Mi sento inutile’, hai detto. Ma la soluzione al tuo problema si trova da sempre nella tua anima.
“Ascoltala! Altrimenti rischierai di morire, pur continuando a vivere – a camminare, a dormire, a cercare di divertirti…
“Non tentare di mostrarti utile. Sforzati di essere te stesso: è sufficiente – e fa la differenza.
“Non cercare di anticipare gli insegnamenti della tua anima: segui la voce, senza fretta né indugi. Passo dopo passo, apprenderei i segreti della tua utilità. Ci si scopre utili sia partecipando a un’imponente battaglia che può cambiare il corso della storia, sia sorridendo a uno sconosciuto che si incontra per la strada.
“È persino possibile che con quel gesto spontaneo tu abbia salvato la vita a una persona, che magari si reputava inutile e stava meditando di uccidersi – finché un sorriso gli ha donato speranza e fiducia.
“Anche se ti concentrerai sul tuo passato e rivedrai i momenti nei quali hai sofferto e sudato e sorriso sotto il sole, non potrai mai sapere esattamente quando sei stato utile agli altri.
“Di certo, però, un’esistenza non può mai dirsi inutile. Ogni anima ha una ragione precisa per trovarsi in questo mondo.
“Coloro che fanno realmente del bene agli altri non cercano di mostrarsi utili, ma si impegnano per condurre una vita retta e interessante. […] Talvolta ti sembrerà un impegno vano, eppure …
“Eppure Dio – che vede tutto – utilizzerà il tuo esempio e la tua esperienza per migliorare il mondo. E, ogni giorno, ti regalerà nuove benedizioni.”
(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Milano, Bompiani, 2012, 48-49).
Racconto
“… un mercante, una volta, mandò il figlio ad apprendere il segreto della felicità dal più saggio di tutti gli uomini. Il ragazzo vagò per quaranta giorni nel deserto, finché giunse a un meraviglioso castello in cima a una montagna. Là viveva il Saggio che il ragazzo cercava.
Invece di trovare un sant’uomo, però, il nostro eroe entrò in una sala dove regnava un’attività frenetica: mercanti che entravano e uscivano, ovunque gruppetti che parlavano, una orchestrina che suonava dolci melodie. E c’era una tavola imbandita con i più deliziosi piatti di quella regione del mondo. Il Saggio parlava con tutti, e il ragazzo dovette attendere due ore prima che arrivasse il suo turno per essere ricevuto.
Il Saggio ascoltò attentamente il motivo della visita, ma disse al ragazzo che in quel momento non aveva tempo per spiegargli il segreto della felicità. Gli suggerì di fare un giro per il palazzo e di tornare dopo due ore.
Nel frattempo, voglio chiederti un favore, concluse il Saggio, consegnandogli un cucchiaino da tè su cui versò due gocce d’olio. Mentre cammini, porta questo cucchiaino senza versare l’olio.
Il ragazzo cominciò a salire e scendere le scalinate del palazzo, sempre tenendo gli occhi fissi sul cucchiaino. In capo a due ore, ritornò al cospetto del Saggio.
Allora, gli domandò questi, hai visto gli arazzi della Persia che si trovano nella mia sala da pranzo? Hai visto i giardini che il Maestro dei Giardinieri ha impiegato dieci anni a creare? Hai notato le belle pergamene della mia biblioteca?’
Il ragazzo, vergognandosi, confessò di non avere visto niente. La sua unica preoccupazione era stata quella di non versare le gocce d’olio che il Saggio gli aveva affidato.
Ebbene, allora torna indietro e guarda le meraviglie del mio mondo, disse il Saggio. Non puoi fidarti di un uomo se non conosci la sua casa.
Tranquillizzato, il ragazzo prese il cucchiaino e di nuovo si mise a passeggiare per il palazzo, questa volta osservando tutte le opere d’arte appese al soffitto e alle pareti. Notò i giardini, le montagne circostanti, la delicatezza dei fiori, la raffinatezza con cui ogni opera d’arte disposta al proprio posto.
Di ritorno al cospetto del Saggio, riferì particolareggiatamente su tutto quello che aveva visto.
Ma dove sono le due gocce d’olio che ti ho affidato? domandò il Saggio.
Guardando il cucchiaino, il ragazzo si accorse di averle versate.
Ebbene, questo è l’unico consiglio che ho da darti, concluse il più Saggio dei saggi.
Il segreto della felicità consiste nel guardare tutte le meraviglie del mondo senza dimenticare le due gocce d’olio nel cucchiaino.”
(Paulo Coelho)
Come posso fare esperienza di Dio nel mio quotidiano?
In questo nostro tempo gli uomini sono alla ricerca di una spiritualità che li aiuti a vivere la quotidianità. A tal fine ritengo sia importante porsi tre domande:
– da quale sorgente attingo la mia forza?
– come posso vivere, concretamente, la spiritualità nella quotidianità?
– come posso fare esperienza di Dio nel mio quotidiano?
È mia convinzione che l’ultima domanda sia quella decisiva. Ma procediamo con ordine, partendo dal dato iniziale: le persone sono alla ricerca di esperienze spirituali. Cerchiamo quindi di fornire delle risposte, partendo dalla prima domanda: da quali sorgenti attingo la mia forza? Spiritualità deriva da spiritus – soffio, alito d’aria, concetto impalpabile come appunto è lo spirito – e per il cristiano spiritualità significa vivere della sorgente dello Spirito Santo.
Per molti questo suona come un concetto astratto. Tuttavia, il modo di percepire se stessi nel quotidiano dipende dalla sorgente alla quale attingiamo. La fonte dello Spirito Santo è una fonte limpida, inestinguibile poiché divina. Spesso, nel nostro vivere quotidiano, attingiamo da fonti torbide. Una fra esse è rappresentata dalla pressione. L’essere sotto pressione, in vari modi.
Alcuni sono sotto pressione per dimostrare chissachè a qualcun altro; altri perché posseduti dal perfezionismo; altri ancora perché in tutte le azioni che compiono devono in qualche modo attribuirsi un voto ed un giudizio. Personalmente vedo molte persone continuamente sotto pressione, e per questo spossate. Esse attingono da fonti torbide: le torbide fonti del perfezionismo e dell’autovalorizzarsi o del dimostrare il proprio valore a qualcuno. Ci si nasconde dietro la scusa del lavoro – che non di rado causa aggressività – per evitare le critiche.
Eleviamo, in definitiva, queste fonti torbide a modelli di vita. Modelli di vita che abbiamo appreso sin dall’infanzia. Una signora aveva come modello di vita il pensare-sperare, non certo salutare: “speriamo che non si arrivi ad un diverbio, speriamo di riuscire a fare tutto quello che mi verrà richiesto, speriamo, speriamo…”. Questa non è speranza. Se svolgerò il mio lavoro, le mie attività con un simile approccio, ogni conflitto prosciugherà tutte le mie energie.
Un altro esempio, sempre tratto dalla quotidianità: ho conosciuto un’insegnante letteralmente esaurita perché aveva come modello di riferimento il dover dimostrare al padre – in qualità di sorella minore – che era in grado di fare – e quindi di essere – ciò che le due sorelle maggiori facevano. Di fronte a queste torbide fonti dovremmo scoprire in noi la sorgente dello Spirito Santo. Scoprire? Ma essa già scorre in noi!
Con il battesimo siamo stati aspersi, a dimostrazione che non ci prosciugheremo mai perché lo Spirito Santo scorrerà per sempre dentro di noi. Tuttavia, spesso siamo separati da questa fonte, non la percepiamo. In questo caso è di aiuto, nel bel mezzo della giornata, ricordarci che in noi non dimora unicamente la nostra forza, ma piuttosto la sorgente dello Spirito Santo. Se attingeremo da essa, questa produrrà cinque effetti:
1- la sorgente rinfresca. Essa mi dona nuova forza e nuove idee. La sorgente dello Spirito Santo mi libera dalla pressione di dover formulare, sempre e comunque, nuovi pensieri e di dover essere, sempre e comunque, creativo. In me vi è la fonte dell’intuizione. Essa mi dice ciò che ora, in questo momento, è giusto per me.
2- la sorgente guarisce. Sana le mie cicatrici, ferite, relazioni. In ognuno di noi vi è una sorgente che guarisce. Anziché concentrarci sulle nostre ferite, dovremmo relazionarci con la fonte guaritrice che è in noi e lasciar scorrere consapevolmente lo Spirito Santo attraverso le nostre cicatrici e le nostre ferite.
3- la sorgente dà forza. Infonde nuova forza al mio cammino. Mi libera dal sovraccarico, solleva la mia vita da ciò che è più faticoso. La vita diventa più leggera perché in me sarà presente un’altra forza.
4- la sorgente è feconda. Là dove scorre la sorgente feconda fiorisce qualcosa intorno a me. Molte sono le persone che lavorano tanto, ma dal loro lavoro cosa ne ricavano? Alcuni crollano nel momento in cui non lavorano più. Ma chi vive il quotidiano con tutti i suoi problemi attingendo dalla vera sorgente interiore è in grado di far fiorire qualcosa di buono attorno a sé. Questa sorgente porta un frutto duraturo.
5- la sorgente purifica. Essa purifica le emozioni e i turbamenti interiori. Spesso le nostre emozioni vengono offuscate dalle emozioni negative degli altri. Ci lasciamo condizionare e contagiare dall’insoddisfazione altrui. Allora esterniamo le nostre emozioni, contribuendo all’inquinamento emozionale dell’ambiente. In questo caso è opportuno purificare le emozioni, cercando di operare la quiete dentro di noi. La quiete ci purifica.
San Paolo descrive nove frutti dello Spirito Santo: “il frutto dello Spirito […] è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). Questi nove frutti si possono anche interpretare come concrete fonti dello Spirito Santo. Vi siete mai accorti che se lavoriamo con gioia e amore ci affatichiamo meno? La pace è una fonte importante. Molte persone consumano una quantità smisurata di energia perché tentano di soffocare ciò di cui non si vogliono rendere conto. L’energia che sprecano per soffocare gli aspetti che non sopportano di se stessi viene poi a mancare nel loro lavoro.
La benevolenza, ovvero l’animo accogliente verso gli altri, mi consentirà di avere un cuore aperto verso il prossimo. Chi ha una mentalità meschina consuma troppe energie in quanto si agita, si inquieta, si inalbera ogni volta che qualcosa o qualcuno non corrisponde ai suoi standard e, generalmente, persevera in questo suo atteggiamento negativo. La sorgente dello Spirito Santo si mostra anche nelle fonti umane che Dio ha dato a ognuno di noi. Riscopriamo queste fonti quando andiamo alla nostra infanzia, quando eravamo in grado di giocare ed impegnarci in varie attività per ore ed ore, senza stancarci.
Vi era chi, giocando, si costruiva un mondo tutto suo. Questo mondo, per lui, rappresentava la sua fonte. Fonte che per alcuni si manifesta nuovamente in età adulta. Faccio un esempio: per un Preside la fonte dalla quale attingeva era il costruire un suo mondo con i suoi colleghi ed alunni. Per un’altra persona la fonte stava nel piacere della natura ed ancor oggi, quando si immerge nella natura, entra nuovamente in contatto con la fonte che lo rigenera. Quando scopriamo il nostro vero essere – noi stessi – allora entriamo in contatto con la fonte interiore che è, appunto, in noi.
La filosofia degli stoici ha considerato il sè, definito autos, come il luogo sacro dell’uomo, il nocciolo più interno, che è l’essenza più vera che definisce l’uomo. La mistica cristiana ha ripreso queste idee stoiche e le ha sviluppate. Da un lato vi è l’idea che siamo completamente noi stessi. Spiritualità non significa esaudire – tramite la pratica della spiritualità – chissà quali aspettative ed adeguarsi in continuazione a ciò che dall’esterno ci si aspetta da noi. Provate a sperimentare questo: ripetete in ogni occasione – a colazione, al lavoro, con gli altri – “io sono me stesso”.
Scoprirete che spesso interpretate un ruolo ed agite secondo le aspettative altrui. Nel momento in cui sarete voi stessi sarete in grado di percepire dentro di voi una libertà interiore mai sperimentata. Voi non dovete mettervi alla prova. Voi potete semplicemente essere, essere ciò che siete. Questo vi libererà da ogni pressione, sia interna che esterna. Voi, semplicemente voi stessi. Voi vivete a partire dal vostro centro. Voi vivete l’autos. Voi siete autentici.
Veniamo ora al tema dei rituali in forma di spiritualità quotidiana. Cosa sono? Ogni spiritualità necessita di forme esteriori, altrimenti si esaurisce. Una forma quotidiana che ogni persona laica può praticare sono i rituali personali. Essi rappresentano i luoghi in cui possiamo entrare in contatto con noi stessi e con la nostra sorgente interiore. Sono salutari interruzioni della routine quotidiana in cui Dio può irrompere nella nostra vita. I rituali creano un momento sacro e mi portano a contatto con me stesso.
Desiderando iniziare la mia giornata con una meditazione, con un gesto o con una preghiera, ho l’impressione che io vivo anziché essere vissuto. I rituali mi mettono in contatto con il mio essere più intimo e profondo. Essi creano un momento sacro – ossia ciò che è nascosto al mondo – che appartiene solo a me e di cui nessuno, da fuori, può disporre. Nel momento sacro – che il rituale mi regala ogni giorno – posso respirare. Nessuno può comandarmi. Sono libero. Per gli antichi greci solo il sacro poteva curare. Per questo i rituali sono sempre un nostro momento sacro. Inoltre, i rituali chiudono una porta e ne aprono un’altra.
Molte persone, la sera, non chiudono le porte del proprio lavoro. Arrivano a casa, ma con la testa sono ancora al lavoro. Conseguentemente, non sono ricettive nei confronti della famiglia. È come se rimanessero in una sorta di corrente d’aria, con una porta aperta sul lavoro e l’altra sulla famiglia. Questo non fa bene all’anima. Dobbiamo chiudere le porte del lavoro per poterci dedicare alla vita che ci attende a casa. In questo modo potremo fare esperienza della famiglia in qualità di luogo di libertà, protezione, vicinanza e incontro. La famiglia non sarà quindi un’ulteriore peso da sommare a quello del lavoro.
Anzi, questo rituale ci spalancherà la porta su un momento di libertà in cui potremo essere veramente noi stessi. E questo sì che fa bene alla nostra anima. Ma dai rituali possiamo cogliere un ulteriore significato: essi aprono il cielo sulla nostra vita. Ci ricordano – nel mezzo della quotidianità – che Dio è l’unica, importante realtà della nostra esistenza. Ci aprono il cuore a ciò che è fondamentale, ovvero che siamo al servizio di Dio e che la nostra vita è nelle mani di Dio. I rituali sono l’intima rassicurazione che la nostra vita riuscirà, che Dio cammina con noi e che noi siamo sotto la sua benedizione.
Molti rituali sono rituali di benedizione. Un bel rituale – porto un esempio – è il seguente: al mattino alzo le mani per benedire. Lascio fluire la benedizione attraverso le mie mani verso i miei figli, verso le persone alle quali sono legato, verso i miei colleghi e la gente che incontro ogni giorno. Mi immagino che tutti vengano abbracciati dalla benedizione di Dio. Lascio quindi fluire la benedizione anche nei luoghi in cui vivo, sulla mia casa, sul posto di lavoro. In questo modo incontrerò, lungo la giornata, persone toccate dalla benedizione, entrerò in luoghi che saranno stati benedetti.
Gesù dice: “amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano.” (Lc 6, 27-28) Se benedico le persone con le quali ho avuto uno screzio, un conflitto, le incontrerò in modo più libero. La benedizione non aiuta soltanto gli altri: aiuta me stesso. La benedizione mi libera soprattutto dalla pressione di dover fare tutto in maniera precisa, impeccabile. Non dipenderà solo da me se ciò che decido e faccio condurrà ad un successo, ma, alla fine, dipenderà dalla benedizione di Dio.
I rituali – questo aspetto è ricco di calore – fanno casa, fanno luogo natio, fanno nido. Essi mi permettono – nel mezzo della frenesia indotta dalla quotidianità – di giungere al cuore di me stesso e a Dio. In Germania diciamo che si è a casa solo là dove abita il mistero. I rituali mostrano alla mia persona che in me abita Dio, il mistero di Dio. Quindi presso di me posso essere a casa. Ma i rituali danno anche un altro significato al concetto di casa. In questo nostro tempo contrassegnato dalla perdita di radici, i rituali mi permettono di entrare in contatto con le mie radici interiori.
Spesso io metto in pratica i rituali che hanno esercitato i miei genitori, i miei nonni e bisnonni. Le mie radici, appunto. Radici che affondano nei gesti rituali di benedizione di tutti i giorni, sino ad arrivare alle feste sante, al Natale, alla Pasqua. Facendo così, tenendo memoria – memoria viva – delle miei radici, partecipo al patrimonio di fede avuto in eredità e alla forza vitale che da esso scaturisce. Oggigiorno le persone si ammalano perché non hanno più radici.
Daniel Hell, uno psichiatra svizzero, ritiene che la depressione che oggi diventa sempre più imperante sia un grido di aiuto dell’anima nei confronti della perdita di radici da parte della nostra vita. Attraverso i rituali entriamo in contatto con le radici interiori e con la sorgente dello Spirito Santo che zampilla in noi e che non si esaurisce. In questo modo la nostra vita può portare frutto in quanto vita ricca di Dio. E quali vie possiamo trovare per fare esperienza di Dio nel quotidiano?
I laici di oggi non si accontentano di ascoltare la dottrina della Chiesa o di riflettere su Dio. Essi vogliono fare esperienza di Dio. Vogliono fare esperienze spirituali. Nell’esperienza spirituale non si tratta unicamente di sperimentare qualcosa di particolare di Dio, ma di fare anche, e sempre, una scoperta di se stessi. Fare esperienza di se stessi e fare esperienza di Dio procedono di pari passo. Quindi il mondo verso Dio passa sempre attraverso un sincero confronto con se stessi. La via spirituale verso la verità di me stesso, tuttavia, è diversa dalla via psicologica. Io osservo tutto quanto è in me, ma non lo analizzo.
Piuttosto lo porgo a Dio affinché la luce di Dio possa penetrare attraverso la mia anima e giungere sino al fondo. Dio non è il mago che fa scomparire i miei problemi, le mie paure, le mie sicurezze, la mia depressione. La guarigione sta nell’incontro con Dio. Davanti a Dio posso parlare con la mia paura, con la mia insicurezza e con la mia depressione. Sarà allora che questi miei sentimenti e criticità di cui vorrei liberarmi mi condurranno non solo dentro alla mia verità, al mio vero essere, ma, in ultimo, anche dentro a Dio. Le persone non vogliono solo sentir parlare di Dio, ma vogliono anche fare esperienza di Dio.
La domanda è: come posso incontrare Dio e fare esperienza di lui? Come posso avere accesso a Dio? Attraverso la tradizione spirituale ci vengono descritte diverse possibilità di accesso. Una è la via tramite la contemplazione. Per gli antichi greci la contemplazione era la via più importante verso Dio. La parola greca theos – Dio – deriva dal verbo theastai, che significa guardare come spettatore, contemplare. I greci sapevano che non possiamo osservare Dio in maniera diretta, ma che possiamo vedere le tracce di Dio. Noi contempliamo la bellezza di Dio nel creato, contempliamo il mistero dell?amore di Dio in un volto umano.
La mistica dei greci era una mistica della contemplazione. Per questa ragione per loro la liturgia era una rappresentazione sacra ed è anche per questo che noi oggi contempliamo il mistero di Gesù Cristo nei rituali della liturgia. Lo contempliamo nella trasformazione del pane e del vino, nelle immagini sacre delle icone. È tuttavia un osservare in maniera spirituale, un contemplare, diventando un tutt’uno con colui che è contemplato. La seconda via passa attraverso l’ascolto. Per i romani e per gli ebrei l’udito era il più importante dei sensi. È un senso legato alle emozioni: non sento e ascolto soltanto le parole, ma gli uomini, la persona.
La parola persona deriva da personare, cioè suonare attraverso. Quando un uomo parla, io riconosco la sua persona. Quando Dio parla, io riconosco il suo tu con cui si rivolge a me. Dio, per gli ebrei, ed in seguito per i cristiani – questo è ciò che ci ha trasmesso l’ebreo Paolo – è un Dio che ci parla e che si rivolge a noi in modo personale. Proprio per questo i primi monaci praticarono la meditazione intesa soprattutto come lectio divina delle Sacre Scritture: non leggo solo la parola di Dio, ma la lascio penetrare nel mio cuore. La parola di Dio deve essere gustata.
Tuttavia, non penso alla parola di Dio in sé, in quanto – riflettendoci – pongo una distanza nei confronti della Parola stessa. Si tratta invece di scoprire nella parola di Dio il cuore di Dio. Così diceva papa Gregorio Magno: “ed io dovrò far cadere nel mio cuore la parola di Dio, in modo tale da poterla sentire, toccare e assaporare.” Se questo è vero – ed è vero – cosa provo di fronte al Salmo 23, in cui si dice: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”? La parola di Dio è rivolta a me ed essa mi dice chi sono.
La domanda di fondo della filosofia è la seguente: quale è la vera realtà? La fenomenologia distingue tra l’essere esistente e l’essere reale, cioè la realtà. L’albero esiste. Esso diventa però reale solo quando lo guardo, quando con le parole descrivo il suo mistero. Troppe volte ci percepiamo in base alle parole che abbiamo sentito dire da altri sul nostro conto o che noi stessi ci diciamo. Ad esempio: “io non sono a posto, tu sei impossibile, nessuno ti può sopportare.” Queste parole riducono la nostra autostima. Esse coprono, nascondono la nostra vera identità. Meditare la parola di Dio significa quindi trovare la nostra vera identità.
Romano Guardini afferma che Dio comunica ad ogni uomo una password, che è solo di quella persona. Il nostro compito è quello di rendere questa parola – che per noi è unica e che Dio ha comunicato solo a noi e che parla di noi – percepibile e comprensibile in questo mondo. In questo modo vivrò la mia vera identità. La terza via conduce all’interiorità. Per fare esperienza di Dio la terza via porta verso l’interno: mi metto in ascolto dentro di me. In cosa mi imbatto quando mi ascolto? Inciampo solo nei miei pensieri, nei miei sentimenti, nella mia storia personale?
Sulla scia di Sant’Agostino e dei mistici del medioevo credo che, se mi pongo in ascolto dentro al mio cuore, alla fine mi imbatterò in Dio. Sotto la soglia dei miei sentimenti e dei miei pensieri vi è un luogo della quiete. I mistici parlano di fondo dell’anima. Là sul fondo della mia anima abita Dio. Oppure, come lo definisce Gesù: “Il Regno di Dio è in mezzo a noi” (Lc 17, 21). Posso descrivere in diversi modi questo luogo interiore.
Giovanni Tauler parla di fondo dell’anima, Caterina da Siena di cella interiore, Teresa d’Avila parla della stanza più remota del castello dell’anima. La filosofia stoica parla di autos, di santuario interiore dell’uomo, di luogo sacro che è dentro ad ogni uomo. In ogni uomo vi è un luogo del silenzio, all’interno del quale i pensieri, i sentimenti non hanno accesso, all’interno del quale non entrano soprattutto le aspettative e le pretese degli uomini, insieme alle loro sentenze e ai loro giudizi. Là, in quel luogo, io sono tutto me stesso. Là le mie paure e le mie preoccupazioni non possono entrare. Là nessuno mi può ferire. Là vive Dio in me.
E dove vive Dio in me e dove lui regna, io sono libero dal potere delle persone. Per i primi monaci lo scopo della preghiera era quello di spingersi sino al luogo interiore della quiete in cui abita Dio. Biblicamente parlando è il luogo in cui il regno di Dio è in noi. E là, dove il regno di Dio è in noi, facciamo esperienza di noi stessi in un modo nuovo. Diversi sono i modi per fare esperienza di noi in quel luogo. In tale luogo siamo liberi dal potere delle persone, dai loro giudizi e pregiudizi, dalle loro aspettative e pretese. Siamo liberi e completi. Nel luogo interiore gli altri non possono raggiungerci per ferirci.
Le parole che ci offendono riguardano solo il piano emozionale. Ma al fondo dell’anima non possono arrivare. Là il nostro nocciolo più profondo è intatto e completo. Là siamo sani, nonostante tutti i nostri difetti psichici. E là, dove il regno di Dio è in noi, siamo autentici. In questo luogo veniamo in contatto con il nostro vero essere. Là scopriamo l’immagine originaria che Dio si è fatto di noi.
E tutte le immagini che gli altri ci hanno applicato addosso e tutte quelle che noi stessi abbiamo sovrapposto alla nostra vera immagine – le immagini della nostra ambizione, delle nostre fantasie di grandezza e della nostra disistima – si dissolvono. Rimanendo ancora sui modi per praticare l’esperienza di noi nel luogo interiore soffermiamoci su come percepiamo noi stessi là dove Dio regna in noi, in modo puro e chiaro. Il nucleo più profondo non è infettato dal peccato. In quel luogo non hanno accesso i sensi di colpa e le autoaccuse. Ed infine, l’ultimo modo: in quel luogo dove alberga il mistero di Dio in noi, là siamo a casa.
Là siamo completamente presso di noi. Là giungiamo alla pace. In quel luogo, nel mezzo ed in mezzo alle quotidiane turbolenze, possiamo trovare riposo. Forse tutto ciò appare lontano dalle esperienze di tutti i giorni. Ma se vi ricorderete, durante il lavoro ed i quotidiani conflitti, che dentro di voi vi è questo luogo della quiete, allora vi percepirete – all’istante – in maniera diversa. I problemi si relativizzeranno. Avrete la sensazione che, nonostante la disponibilità del farsi carico delle persone e dei problemi, vi sarà sempre un luogo dentro di voi in cui il mondo non potrà entrare.
Questa è per me, per ognuno di noi, un’esperienza che guarisce e libera. Non mi sento più soffocato dalle aspettative degli uomini e dai conflitti che dovrei risolvere. In mezzo alla quotidianità posso respirare a pieni polmoni e sentirmi libero. Per questo – dal mio punto di vista – la via mistica è una via importante per la spiritualità del laico d’oggi. E per tutto ciò non vi è bisogno di un sacerdote. Ognuno di noi ha in sé questo luogo di quiete.
Ed in ogni momento possiamo entrare in contatto con questo nucleo interiore. Attraverso la meditazione posso giungere al fondo dell’anima. A volte, però, basta semplicemente ricordarsi ed immaginarsi che in me vi è un luogo interiore della quiete: il mio giorno ne verrà trasformato. Concludo dicendo che questi sono alcuni aspetti importanti per la spiritualità del laico d’oggi, ma ognuno troverà nella sua vita ulteriori aspetti. Reputo tuttavia questi tre campi decisivi:
– vivere la spiritualità nel quotidiano significa vivere attingendo dalla fonte interiore, cioè dalla sorgente dello Spirito Santo, anziché dalle torbide fonti che si esauriscono;
– la spiritualità ha bisogno di forme concrete: deve essere una spiritualità con i piedi per terra che trasforma il quotidiano; la via concreta passa attraverso i rituali. Ognuno di noi ha rituali personali: c’è quello che medita, l’altro che legge le Sacre Scritture, l’altro ancora sta in silenzio o fa un segno oppure evoca il ricordo del luogo interiore della quiete ogni volta che sente il suono delle campane;
– per il laico la terza via della spiritualità è la via mistica. Che non è una via al di fuori del mondo, ma significa piuttosto essere tutt’uno con noi stessi ed entrare in contatto con il luogo interiore della quiete, con quel luogo sacro nel quale noi siamo già intatti, autentici e liberi. Grazie a tutti.
Anselm Grün
Preghiera
Marta e Maria di Betania – l’azione e la contemplazione – si trovano pienamente integrate nel vero e incomparabile modello di vita santa: nella «Maria per eccellenza», la Madre del Signore. È soprattutto a lei che dobbiamo guardare per apprendere a stare alla presenza del Signore, a scegliere la «parte migliore» senza trascurare l’umile fatica del lavoro, il servizio premuroso ai fratelli, alle membra del corpo mistico di Cristo.
O Vergine Maria,
prima e incomparabile discepola del Verbo di Dio
che tu stessa hai generato e nutrito al tuo seno,
insegnaci a rimanere con te in religioso ascolto
affinché, cessato il rumore delle nostre parole,
e placata l’agitazione per le troppe cose
in cui ci disperdiamo,
cresca in noi, con la fede,
il desiderio dell’unica cosa necessaria:
ascoltare Gesù che ci rivela
l’amore salvifico del Padre.
Ottienici, o Madre,
un’anima profondamente contemplativa
anche nell’azione
perché sempre e dovunque
il nostro cuore indiviso
sappia stare alla presenza del Signore
e saziarsi di lui
Unico e Sommo Bene.
Amen.
(Anna Maria Canopi, da: Incontri con Gesù, Leumann, Elle Di Ci, 2009, 90).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.
PER L’APPROFONDIMENTO:
XVI DOMENICA TEMPO ORD (C)