VI DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 8,5-8.14-17

 In quei giorni, Filippo, sceso in una città della Samarìa, predicava loro il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. E vi fu grande gioia in quella città.

Frattanto gli apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samarìa aveva accolto la parola di Dio e inviarono a loro Pietro e Giovanni. Essi scesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo.

 

  • Lo Spirito Santo, di fatto, ci viene presentato come frutto della fede nell’annuncio evangelico in Samaria, ad opera del diacono Filippo secondo il racconto degli Atti.

         È un episodio molto importante, questo, perché ci fa vedere come il Vangelo sia destinato a tutti i popoli. Fin qui S. Luca ci aveva narrato qualcosa della diffusione del Vangelo in mezzo agli Ebrei: un passaggio intermedio è rappresentato dalla predicazione di Filippo ai Samaritani che, pur essendo divisi, avevano qualcosa in comune con gli Ebrei; più tardi avverrà il lancio missionario anche ai pagani, ad opera soprattutto di Paolo.

         Proprio per la novità del gesto compiuto dal diacono Filippo, che poteva comportare anche la nascita di certi problemi, avendo saputo la cosa, gli Apostoli da Gerusalemme «inviarono a loro Pietro e Giovanni» (At 8,14) per verificare la situazione e anche per completare l’opera dello stesso Filippo. Ed è precisamente a questo punto che si parla di una particolare discesa dello Spirito sopra quei primi credenti samaritani. Infatti i due Apostoli «pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo» (14,15-17).

         Dato che si dice che quei cristiani erano già stati «battezzati nel nome di Gesù», si dovrebbe pensare che il rito che compiono gli Apostoli con la loro preghiera e la «imposizione delle mani» sia qualcosa di corrispondente al sacramento della Cresima che, come sappiamo, è una specie di completamento, di «confermazione» vera e propria del Battesimo. Comunque, quello che è importante è la discesa dello Spirito sopra quei nuovi credenti, quasi a dire che si diventa cristiani solo con la «sigillazione» dello Spirito, che diventa così come l’anima che da forza e vitalità a chiunque crede in Cristo.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 3,15-18

Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.

 

  •  Se lo Spirito è come il «completatore» della salvezza, che guida i cristiani dall’interno, non si deve dimenticare però che egli è sempre «lo Spirito di Cristo», che è stato inviato proprio per completare la sua opera di salvezza. Perciò, come ci insegna il testo della lettera di Pietro, al centro rimane sempre Cristo che «è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito» (3,18). Dovremmo essere qui davanti ad una antica professione di fede, che ci rimanda al mistero pasquale: morte espiatrice di Cristo, «giusto» e innocente, e sua risurrezione dai morti, «per ricondurvi» al Padre.

         Tutto questo è grandioso, ma anche paradossale e difficile a credere.

    È per questo che i cristiani debbono non solo essere convinti della loro fede, ma anche capaci di comunicarla agli altri, «sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (v. 15). E tutto questo non con arroganza o senso di superiorità, ma «con dolcezza e rispetto», dimostrando con la propria «condotta» la forza trasformatrice del Vangelo (vv. 15-16). Questo potrà costare anche contraddizioni e sof-ferenza: ma è ancora il Vangelo che ci insegna che «è meglio soffrire operando il bene che facendo il male» (v. 17).

 

Vangelo: Giovanni 14,15-21

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.

Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

 

Esegesi 

    Il brano che stiamo commentando fa parte del più lungo «discorso d’addio», che Gesù rivolge ai suoi discepoli mentre sta per avviarsi, dal luogo dell’ultima cena, all’orto dell’agonia.  Sono parole di consolazione quelle che egli rivolge loro per predisporli agli eventi drammatici che seguiranno, e di cui essi non hanno piena consapevolezza: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio ed abbiate fede in me» (14,1). Ma sono anche parole «testamentarie», che esprimono le sue «volontà» circa i loro atteggiamenti futuri, il loro modo di rapportarsi a lui che, pur avviandosi alla morte, continuerà ad essere presente in mezzo a loro come il Risorto, «donatore» addirittura del suo «Spirito» di santità. Perciò la prima richiesta che egli fa agli apostoli, per continuare a tenere viva la sua memoria oltre la morte e dare testimonianza della sua risurrezione, è quella di vivere «nell’amore». E proprio sul tema dell’amore si apre e si chiude il brano di Vangelo oggi proposto alla nostra attenzione: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti… Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (14,15.21).

     Come si vede, l’amore di cui si parla è un amore a doppio senso, anzi triplice: è l’amore dei discepoli verso Cristo, anche dopo la sua morte! Anzi soprattutto dopo la sua morte, perché egli ritornerà a vita; e quella sarà una «vita» in gloria e in potenza: « Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete» (14,19). Proprio per questo l’amore dovrà essere più forte!

     A questo amore dei discepoli risponde dall’alto un duplice amore: ovviamente da parte di Cristo, che quei discepoli si è «scelti» lui stesso e non può non amarli; ma anche quello del Padre che ama tutto quello che ama il Figlio. Perciò siamo davanti a un amore infinito che avvolge il discepolo di Cristo!

     Però da lui si esige, come controparte, che dimostri il suo amore osservandone i «comandamenti»: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama» (v. 21). Può anche sembrare strano che in un discorso di «amore» si parli di «comandamenti» (in greco entolài): ma non lo è se si pensa, come interpretano non pochi esegeti, che con questa espressione Gesù rimanda in modo particolare ai «due comandamenti» che sono come la «sintesi» del suo insegnamento, e cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Basti qui ricordare quello che Gesù dirà tra non molto: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato» (15,12). Davanti all’amore immenso di Cristo si impone, di per sé, una «libera» volontà di risposta amorosa.

     E questo tanto più che, proprio in tale contesto, Gesù promette ai suoi di inviare lo Spirito Santo, che il testo greco chiama «Paraclito» (paràklētos), termine greco che può significare sia «consolatore» che «avvocato»: probabilmente l’Evangelista intende le due cose insieme.

     Comunque, di lui qui si enunciano due caratteristiche, come risulta dal testo: «io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi» (14,16-17). La prima è che lo Spirito è dato per «rimanere sempre con noi»: dunque non ci abbandonerà mai. Addirittura si dice che sarà «in noi» (v. 17): si parla dunque di una «inabitazione» dentro di noi, di modo che sia lui ad agire in noi e per mezzo di noi. In tal modo è chiaro che egli, il quale è il frutto dell’amore del Padre e del Figlio, ci darà la capacità di riamare Dio ed i fratelli, attuando così quel «comandamento» dell’amore di cui ci ha parlato Gesù.

     La seconda caratteristica è che egli è lo «Spirito della verità» (v. 17), che ci guiderà «alla verità tutta intera» (16.13). Ma la «verità» di cui qui si parla non è qualcosa di astratto, di puramente concettuale o cognitivo, quanto piuttosto la «rivelazione» che Dio ha fatto di se stesso donandoci il Cristo, che è afferrabile solo attraverso la fede: è per questo che «il mondo» incredulo non può né «riceverlo», né «conoscerlo». Solo mediante la fede in Cristo si ha accesso alla salvezza.

 

Meditazione 

     Prima di passare da questo mondo al Padre, Gesù promette ai suoi discepoli il dono dello Spirito, del Paraclito, ovvero dell’avvocato difensore che proteggerà i discepoli stessi nella lotta che dovranno sostenere in un mondo ostile (vangelo); questo Spirito guida la presenza cristiana nel mondo sulla via della mitezza e del rispetto degli «altri», i non credenti (II lettura) ed accompagna la predicazione degli apostoli che da vita a nuove comunità cristiane (I lettura).

    Dall’evento pasquale sgorga la speranza come responsabilità dei cristiani. Di essa i cristiani devono essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). «Sempre», dunque in ogni ambito e momento della vita; «a chiunque», dunque non a qualcuno sì e ad altri no, ma a tutti. Inoltre di essa i cristiani devono «rispondere», cioè divenire responsabili: è la testimonianza che solo loro possono dare al mondo. Chi chiede conto della speranza, ne chiede anche un racconto: nella storia i cristiani si collocano come narratori di speranza. Prima ancora che in rapporto agli uomini, la speranza è responsabilità del cristiano in rapporto a Dio, è risposta a Colui che l’ha chiamato alla fede e alla speranza: la «speranza della vocazione» (Ef 1,18) è la speranza dischiusa dalla chiamata divina in Cristo Gesù. La speranza cristiana come responsabilità si situa pertanto tra chiamata di Dio e domanda degli uomini: è responsabilità unica e duplice al tempo stesso, come il comando di amare Dio e il prossimo è duplice e unico al tempo stesso (Mt 22,34-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25-28).

    La nascita della Chiesa in Samaria procede dall’annuncio di Cristo («Filippo, sceso in una città della Samaria, predicava loro il Cristo»: At 8,5) e dalla discesa dello Spirito («Pietro e Giovanni …. imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo»: At 8,17). Il rapporto di collaborazione e fiducia tra Chiesa madre di Gerusalemme (At 8,14) e la nascente comunità in Samaria dice come la parola del vangelo e lo Spirito santo superano le barriere culturali e le separazioni etniche, le divisioni religiose e gli odi atavici: tra Giudei e Samaritani, infatti, non intercorrevano rapporti (Gv 4,9) a seguito di una storia ormai antica che protraeva nel tempo i suoi strascichi di incomunicabilità. I frutti della resurrezione si misurano anche in questa capacità di superare le rivalità antecedenti trovando unità e comunione in Cristo.

    Il vangelo presenta la promessa del dono dello Spirito da parte di Gesù, ma anche la promessa della sua venuta: «Ritornerò da voi» (lett: «verrò da voi»: Gv 14,18). La preghiera cristiana, che sempre avviene nello Spirito e in Cristo, sarà anche sempre invocazione dello Spirito, epiclesi, e invocazione della venuta gloriosa del Signore, Marana tha. Ovvero, avrà sempre una connotazione escatologica determinante. Il Cristo, inoltre, promette anche la sua intercessione, la sua preghiera al Padre per i discepoli («Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito»: Gv 14,16) e questa preghiera di Gesù è lo spazio al cui interno avviene ogni preghiera cristiana.

    Lo Spirito che Gesù promette sarà nel discepolo (Gv 14,17) diventando principio di vita interiore e interiorizzando in lui la presenza di Cristo. La sequenza di Pentecoste canta lo Spirito quale dulcis hospes animae (e anche consolator optime, dulce refrigerium). La dolcezza e la tenerezza che furono del Cristo, sono anche dello Spirito che spesso nella tradizione è stato evocato con immagini materne: «Lo Spirito è il seno in cui Dio è fecondo come una madre» (François-Xavier Durrwell). L’azione dello Spirito nel credente è quella di creare in lui una sorgente di vita per gli altri, anzi, di fare di lui uno spazio di vita per gli altri, capace di generare e dare vita. Lo Spirito, che è promessa e dono del Risorto, è anche tenerezza materna. E se esso insegna al cristiano a pregare, lo fa proprio come una madre: «Lo Spirito santo ci insegna a gridare “Abbà” comportandosi come una madre che insegna al proprio figlio a chiamare “papà” e ripete tale nome con lui finché lo porta alla consuetudine di chiamare il papa anche nel sonno» (Diadoco di Fotica

 

Immagine della Domenica


“Noi abbiamo suonato il flauto e voi non avete danzato”

Facci vivere la nostra vita,

non come un giuoco di scacchi dove tutto è calcolato,

non come una partita dove tutto è difficile,

non come un teorema che ci rompa il capo,

ma come una festa senza fine dove il tuo incontro si rinnova,

come un ballo, come una danza,

fra le braccia della tua grazia,

nella musica che riempie l’universo d’amore.

Signore, vieni ad invitarci.

(Madeleine Delbrêl).

 

Preghiere e racconti

Il Verbo sposo

Il Verbo sposo, che è entrato in me più di una volta, non mi ha mai dato alcun segno della sua irruzione, né mediante la voce, ne mediante un’immagine visibile, ne mediante un qualsiasi altro approccio sensibile. Nessun movimento da parte sua mi ha segnalato la sua venuta, nessuna sensazione mi ha mai avvertito che egli si fosse insinuato nei miei recessi interiori. Mi sono accorto della sua presenza da certi movimenti del mio cuore: la fuga dai vizi e la repressione delle mie voglie carnali mi hanno mostrato la potenza della sua virtù.

(Bernardo, Sermone sul Cantico dei cantici, 74,6)

 

«Ritornerò da voi» (Gv 14,3)

«Si può essere indotti a spiegare l’affermazione in questo modo: «Egli è ritornato, ma nel suo Spirito» cioè al suo posto è venuto il suo Spirito e la sua affermazione che egli è in mezzo con noi significherebbe allora semplicemente che il suo Spirito è in mezzo a noi. Certo, nessuno può negare questa verità così bella e consolante della venuta dello Spirito Santo. Ma perché è venuto? Per supplire all’assenza di Cristo o piuttosto per perfezionare la sua presenza? Incontestabilmente per renderlo presente. Lo Spirito di Dio non è venuto perché il Cristo non venga, ma viene piuttosto in modo tale che il Cristo possa venire nella sua venuta. Attraverso lo Spinto Santo noi siamo in comunione con il Padre e il Figlio. Lo Spirito Santo causa, provoca la fede, l’abitazione di Cristo nel cuore. Cosi io lo Spirito non prende il posto di Cristo nell’anima, ma assicura al Cristo questo posto».

(J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, VI, 10).

 

In comunione con Gesù

     In comunione con Gesù, siamo sotto l’influsso dello Spirito Santo e possiamo essere creativi, agire pienamente in modo nuovo nella lotta per il Regno, la città dell’amore. In Gesù e attraverso Gesù, possiamo affrontare le forze del male e della menzogna inscritte nei cuori e nei gruppi umani, forze che schiacciano la vita, che schiacciano i deboli e gli umili. Non siamo più noi che parliamo, ma lo Spirito Santo in noi. Non siamo più noi che viviamo, ma Gesù in noi. Gesù è venuto a far nuova ogni cosa. In comunione con lui nello Spirito Santo, anche noi possiamo far nuova ogni cosa e fare cose più grandi ancora di quelle fatte da Gesù (Gv 14).

In comunione con Gesù, le nostre azioni nascono dalla comunione e sono orientale verso la comunione. Anche le nostre parole sono chiamate a sgorgare dal silenzio della comunione per arrivare al silenzio dell’amore. Siamo chiamati a bere al cuore di Cristo per diventare fonti di vita per gli altri, per dare la nostra vita agli altri.

 (J. VANIER, Gesù, il dono dell’amore, Bologna 1994,168).

 

Starà in voi

«Se mi amate, osservate i miei comandamenti» (Gv 14,15). Poiché prima aveva detto: «Qualunque cosa chiederete, io la farò» (Gv 14,13) perché non credessero che bastasse chiedere, aggiunse: «se mi amate»; allora io la farò. Poiché era naturale che sentendolo dire: «Io vado al Padre» fossero turbati, dice: «Non è l’essere turbati che prova l’amore per me, ma l’obbedire a ciò che ho detto. Vi ho dato il comandamento di amarvi a vicenda perché facciate a vicenda quello che io ho fatto a voi. Questo è l’amore nell’obbedire a queste parole e nell’accordarsi alla persona amata». […] Che cosa vuol dire: «Pregherò il Padre?» Con esse mostra che è giunto il tempo della venuta dello Spirito. Dopo che egli, con il suo sacrificio, ebbe purificato gli uomini, allora si ebbe l’effusione dello Spirito santo. Perché non discese prima, mentre Gesù era ancora con loro? Perché allora il sacrificio non era stato ancora consumato, ma quando il peccato fu annientato e i discepoli, mandati in mezzo a pericoli, si preparavano alla lotta, c’era bisogno che venisse chi poteva confortarli. Perché lo Spirito non venne subito dopo la risurrezione? Perché essi, provando un più vivo desiderio, lo accogliessero con buone disposizioni. Finché Cristo era con loro, non erano nell’angoscia, ma una volta che egli se ne andò, rimasero privi di difesa, in preda di una grande paura e provarono un vivo desiderio di riceverlo. «E resterà con voi». Questo dimostra che non se ne andrà neppure alla fine del mondo. Ma perché sentendo parlare del Paraclito, non pensassero a un nuova incarnazione e non si aspettassero quindi di vederlo con gli occhi del corpo, precisa: «II mondo non può riceverlo perché non lo vede. Non starà dunque con voi come faccio io, ma abiterà nelle vostre stesse anime» (Gv 14,17). Questo significa: «Starà in voi». […] Dice: «Starà in voi», ma neppure così riesce a disperdere il loro scoraggiamento. Cercavano ancora la sua presenza e la sua compagnia. Per guarire la loro tristezza dice: «Non vi lascerò orfani. Tornerò da voi» (Gv 14,18). Non temete; non vi ho detto che vi manderò un altro Paraclito perché vi avrei lasciati soli fino alla fine; non vi ho detto: «Resterà con voi» nel senso che io non vi vedrò più. “Non vi lascerò orfani”».

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Giovanni, om. 75, PG 59,403-405).

 

Cari giovani: non abbiate paura di Cristo!

Benedetto XVI saluta i giovani e ricorda loro il monito di papa Wojtyla: “Spalancate le porte a Cristo!” e aggiunge: “Egli non toglie nulla, e dona tutto”.

E’ nel passaggio finale della sua omelia, pronunciata in occasione della cerimonia di inizio del suo pontificato, che Benedetto XVI guarda in modo speciale ai giovani, e lo fa sullo stile e con le parole di Giovanni Paolo II, proponendo ancora una volta al mondo la storica esortazione “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!” Un segno di continuità ma anche una scommessa a cui il successore di Pietro non vuole rinunciare.

“In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!” Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell’arbitrio. Ma non avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell’uomo, alla sua dignità, all’edificazione di una società giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani.

Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura – se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita. Amen”

 

La logica dell’amore

     Nella casa del Padre ci sono molti posti (Gv. 14,2) dice Gesù. In essa ogni figlio di Dio ha il suo posto unico. Devo allora abbandonare tutti i paragoni, tutte le rivalità e le competizioni ed arrendermi all’amore del Padre.

Ciò richiede un salto di fede perché ho poca esperienza di un amore che non si abbandoni a paragoni e non conosco ancora il potere salvifico di un tale amore. Dio mi spinge a raggiungere la sua casa. Nella luce di Dio io posso finalmente vedere il mio vicino come mio fratello, come colui che appartiene a Dio quanto appartengo io. Ma fuori dalla casa di Dio, fuori dalla sua logica di amore, fratelli e sorelle, mogli e mariti, genitori e figli, diventano rivali e perfino nemici; ognuno continuamente afflitto da gelosie, risentimenti, sospetti. Ma una siffatta situazione è solo fonte di dolore e di angoscia. In essa ogni cosa perde la sua spontaneità. Ogni cosa diventa sospetta, preoccupante, calcolata, e ci si abbandona a mille congetture. Non c’è più alcuna fiducia. C’è una via d’uscita? C’è uno sbocco dal risentimento verso il mio fratello, che nasce dal mio bisogno di essere amato? Sì, c’è.

Lasciarmi trovare da Dio Padre e sentirmi amato. Devo rivendicare a me stesso la mia condizione di figlio datami da Dio. Solo sentendomi unico, vedrò che l’amore di Dio non è esclusivo, ma comprende e sa mare, in modo unico e irripetibile, ciascun uomo. E anch’io farò lo stesso.

(J.H. Nouwen).

 

Scavare verso Dio

È da tempo che la sera è caduta

è da sere che il cielo è oscurato

è da cieli che la luce è partita

è da giorni che il ruscello è seccato.

Ecco questo uccello passare basso sotto la nube

bisogna partire e rientrare nel buio

non è più tempo di cantare nella strada

è troppo tardi per chiacchierare nel buio.

Gli alberi dormono come un corpo inerte,

la farfalla si affretta verso la sua rovina.

Solo, senza rimedio, bisogna chiudere gli occhi

e in fondo al buio scavare verso Dio.

(J.P. Dadelsen, Giona).


Preghiera

     Signore Gesù, noi crediamo che tu ci ami e desideriamo amarti: donaci lo Spirito di verità perché ci faccia comprendere e mettere in pratica tutte le tue parole di vita, quelle che hai attinto per noi dal cuore dell’eterno Padre. Tu sei sempre con noi e non ci lasci orfani: anche noi vogliamo rimanere con te. Sostieni e accresci in noi questo desiderio. Prega ancora per noi, presso il Padre, perché ci mandi l’«altro Consolatore», colui che ci difende dal maligno e ci fa ricordare quanto siamo amati in totale gratuità. Saremo così condotti alla verità tutta intera, alla dolcezza della comunione, alla sicurezza della pace e il mondo, vedendo, saprà: saprà che tu ami il Padre compiendo la sua volontà e che proprio questo amore salva il mondo. Amen.
 

Duccio di Buoninsegna, Maestà, cimasa: Apparizione agli Apostoli a porte chiuse, Museo dell’Opera Metropolitana, Siena.

© Su concessione dell’Opera della Metropolitana, autorizzazione n. 141/2014.

Gesù Risorto si fa prossimo ai suoi discepoli, li incontra, parla con loro, condivide con loro alcuni pasti. Egli non è un fantasma: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho» (Lc 24,38-39). Egli non è neppure il predicatore di Galilea redivivo, ma è il Crocifisso Risorto, tanto che Pietro dopo la Pentecoste potrà dire con forza: «Gesù di Nazareth…dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,22-24).
Colui che i discepoli avevano visto, udito e toccato (cf. 1Gv 1,1-3), il Maestro che avevano ascoltato e seguito e con il quale avevano condiviso la mensa, adesso, dopo la sua morte, si mostra «ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio» (At 1,3). Per questo Paolo può affermare: «Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così» (2Cor 5,16).

Nel riquadro della Maestà di Duccio di Buoninsegna Gesù Risorto appare vivo ai suoi discepoli riuniti nel cenacolo. Questi sono distribuiti dall’artista in due gruppi di cinque, tutti rivolti verso il Signore. È assente soltanto Tommaso. Del «luogo dove si trovavano i discepoli per paura dei giudei» (Gv 20,19) Duccio ci fa intravedere uno scorcio di architettura e soprattutto le sue porte ben chiuse.
I discepoli nel loro insieme indicano la Chiesa che si rallegra nell’udire la voce del suo Sposo e che da Lui riceve la missione di annunciare con la forza dello Spirito il vangelo della salvezza a tutte le nazioni. Ma «lo Spirito Santo viene a prezzo della “dipartita” di Cristo. Se tale “dipartita” ha causato la tristezza degli apostoli, e questa doveva raggiungere il suo culmine nella passione e nella morte del Venerdì Santo, a sua volta “questa afflizione si cambierà in gioia”. Cristo, infatti, inserirà nella sua “dipartita” redentrice la gloria della risurrezione e dell’ascensione al Padre.
 
Pertanto, la tristezza, attraverso la quale traspare la gioia, è la parte che tocca agli apostoli nel quadro della “dipartita” del loro Maestro, una dipartita “benefica”, perché grazie ad essa un altro “consolatore” sarebbe venuto.
A prezzo della croce, operatrice della redenzione, nella potenza di tutto il mistero pasquale di Gesù Cristo, lo Spirito Santo viene per rimanere sin dal giorno della Pentecoste con gli apostoli, per rimanere con la Chiesa e nella Chiesa e, mediante essa, nel mondo» (Giovanni Paolo II, Dominum et vivificantem 14).
Per i discepoli che erano stati scossi dagli eventi drammatici della passione di Gesù e dalla sua morte, si realizzano finalmente le parole di Gesù: «Vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,22).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

 

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO

VI DOMENICA DI PASQUA (A)

V DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 6,1-7

In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola».

Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani. E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.

 

  • Il brano presenta la vita della prima comunità cristiana che, crescendo per la predicazione degli apostoli e il buon esempio degli aderenti alla fede, comincia a presentare le prime difficoltà di carattere organizzativo. Sorge, infatti, un malcontento degli ellenisti contro gli ebrei.

     Gli ellenisti sono quegli ebrei che parlavano greco e leggevano la Bibbia in greco nelle riunioni sinagogali; erano provenienti dalla diaspora giudaica e avevano fissato la dimora a Gerusalemme; erano contrapposti agli Ebrei che parlavano e leggevano la Bibbia in aramaico. Il malcontento degli ellenisti nasce dal fatto che a causa del super-lavoro degli apostoli vengono da essi trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana di vitto e sussidi.

     I Dodici, che qui Luca nomina direttamente, convocano tutta la moltitudine dei credenti per affermare l’importanza e la priorità del loro compito di annunciatori della parola di Dio rispetto a quello delle mense, che poteva essere anche affidato ad altri. Gli Apostoli invitano la comunità a scegliere sette membri di cui però delineano le caratteristiche fondamentali: «buona fama» fra il popolo, «pieni di spirito e di sapienza».

     L’assemblea accoglie favorevolmente la proposta degli apostoli («piacque») e vengono scelti sette uomini. I loro nomi in greco fanno supporre che fossero preposti all’assistenza dei poveri di lingua greca. Gli unici di cui gli Atti parleranno in seguito sono Stefano (6,8-9,2) e Filippo (8,5-40 e 21,8) che avranno un ruolo importante nella diffusione del Vangelo, degli altri non si sanno ulteriori notizie.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 2,4-9

Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso».

Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo. Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.

 

  •  Nel brano in questione Cristo è presentato, con un’immagine tratta dall’Antico Testamento, come «pietra angolare» e i cristiani, in corrispondenza, come «pietre» che si edificano su quel fondamento. Cristo «pietra viva» è il Risorto che dalla morte è ritornato alla vita, e che, pur essendo stato scartato dagli uomini, è posto a fondamento dell’edificio spirituale che Dio voleva costruire e sul quale il Cristo vivente esercita il suo influsso energetico e vivificante.

     Solo in virtù di Cristo «pietra viva» e a partire dalla comunione con lui i cristiani sono «pietre vive» sovrapposte per costruire l’edificio spirituale. Essendo un edificio spirituale, la Chiesa non è solo ricolma dello Spirito, ma creata dallo Spirito. L’autore contrappone l’edificio materiale del tempio dell’Antico Testamento, e le offerte materiali che in esso si facevano, a quello spirituale che in Cristo i cristiani sono chiamati a compiere. Questo organismo costituito da Cristo e dai fedeli insieme, ha come scopo quello di offrire sacrifici spirituali, che consistono in tutta la vita cristiana vissuta e offerta a Dio.

     La funzione della pietra è duplice. Pietro ne chiarifica il senso mettendo insieme due brani dell’Antico Testamento tratti dal libro del profeta Isaia: Is 38,6 e Is 8,14. Per tutti coloro che credono, la pietra ha un valore positivo; per coloro che non credono alla Parola annunciata la pietra costituirà inciampo sulla loro strada. Lo scandalo si compie con la disobbedienza alla Parola proclamata che esige l’obbedienza, o comunque una scelta: il vangelo può essere accolto o respinto, ma non ascoltato con indifferenza! L’incredulità è disobbedienza: è una decisione dell’uomo che si chiude alla chiamata di Dio.

     I cristiani a cui si rivolge l’Apostolo hanno aderito alla fede, e chiamati dalle tenebre alla luce, dalla schiavitù del peccato alla grazia di una vita nuova, sono il nuovo popolo di Dio che riattua in sé le caratteristiche che erano dell’antico popolo: elezione, sacerdozio, santità, possesso da parte di Dio e testimonianza per altri popoli. Il vero Israele è la Chiesa, perciò ad essa sono riservate tutte le promesse fatte ad Israele.

 

Vangelo: Giovanni 14,1-12

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».  Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.

Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

 

Esegesi 

     Gesù invita i discepoli alla fiducia e li assicura sul fatto che sta andando a preparare loro un posto nel regno del Padre per tornare a prenderli e portarli con sé.

     Gesù apre il dialogo con i discepoli invitandoli a non turbarsi per la separazione dal loro Signore e Maestro perché la sua lontananza sarà temporanea. Per accettare tale assicurazione è necessario un atto di fede verso Dio e verso Gesù. Con questa fede si crede all’intima comunione tra il padre e il Figlio e allo stesso tempo anche alla grande accoglienza nella casa del Padre.

     La casa del Padre indica il luogo o meglio lo stato beato in cui si vive in unione con Dio. In essa dimora il figlio, il quale può preparare tanti posti per i suoi amici, perché in essa vi sono «molti posti». Egli si separa dai suoi amici per andare per primo alla casa del Padre con il fine di preparare loro il posto, poi tornerà per portarli con sé, affinché essi vivano dove egli è (14,3).

     Per giungere nella casa del Padre bisogna dunque passare per il Figlio. Egli, infatti, è la via che conduce al Padre (14,4-6). Il linguaggio enigmatico usato da Gesù suscita l’immediata reazione del discepolo Tommaso che, con la razionalità e la concretezza che lo caratterizzano, chiede chiarezza nei discorsi: vuole sapere dove egli vada, per conoscerne la via. Tommaso prende il termine via in senso materiale, mentre il Maestro lo intende in senso spirituale, quale mezzo per giungere a Dio. Per questo nella sua risposta Gesù proclama di essere la via per andare verso Dio. Solo per mezzo di Cristo, infatti, si può giungere al Padre. Nessuno infatti può arrivare a Dio con le sue forze, ne può servirsi di altri mediatori (14,6). Come nessuno può, andare verso Cristo se non gli è concesso da Dio (6,55), così nessuno può giungere a Dio senza la mediazione di Gesù (14,69). Gesù proclama inoltre di essere anche la Verità e la Vita. La locuzione autorivelativa «Io Sono» esprime la funzione divina di Gesù di essere il rivelatore. I sostantivi via, verità e vita sono applicati al Cristo per indicare le sue funzioni di mediatore e salvatore. Egli manifesta la vita e l’amore di Dio per l’umanità e comunica al mondo la salvezza.

     Gesù è l’unico che può condurre a Dio perché egli solo vive nel Padre e viceversa. Perciò chi conosce Gesù conosce il Padre e chi vede l’uno vede l’altro (14,7). Il linguaggio di Gesù risulta nuovamente enigmatico per i discepoli e provoca l’intervento di Filippo, il quale chiede a Gesù di mostrargli il Padre. Il discepolo, infatti, crede che il Padre sia altro da Gesù. Gesù risponde affermando che egli vive nel Padre e non nasconde la sua meraviglia per l’ignoranza di Filippo, che avrebbe dovuto conoscere la sua vera identità.

     Data l’immanenza del Figlio nel Padre, le opere del Figlio sono compiute dal Padre e per tale ragione debbono essere chiamate opere di Dio e del Padre. L’immanenza del Padre in Gesù può essere accettata solo per fede, perciò Gesù esorta i discepoli a credere in questa verità anche a motivo delle opere da lui compiute (14,11).

     Gesù continua per assicurare i discepoli che chi crede nella sua persona divina non solo compirà opere simili a quelle fatte da lui, ma ne farà maggiori. La motivazione di tale possibilità di compiere opere straordinarie, risiede nel prossimo ritorno di Gesù dal Padre, presso il quale egli esaudirà le promesse dei discepoli.

 

Meditazione 

     Il Cristo risorto, andato al Padre (vangelo), è il fondamento dell’edificio spirituale che è la Chiesa (II lettura): è in riferimento a lui, con la preghiera che guida il discernimento, che i credenti affrontano i problemi della comunità cristiana cercando di farlo regnare sulla vita della comunità (I lettura).

    Il Cristo che lascia i suoi discepoli e sale al Padre chiede loro in fede (Gv 14,1.10.11.12); la Chiesa fondata sul Crocifisso Risorto è l’insieme dei credenti chiamati a offrire sacrifici spirituali graditi a Dio (1Pt 2,5): il riferimento è certamente alla liturgia, ma più estesamente al culto nell’esistenza quotidiana, a fare del quotidiano il luogo dell’adorazione di Dio in cui il credente offre il proprio corpo in «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1); i problemi organizzativi della comunità, che rischierebbero di soffocare ciò che è essenziale nella Chiesa, devono essere risolti in modo da far sempre emergere il primato della Parola di Dio e il suo servizio. La predicazione stessa deve sempre essere innestata nella preghiera: «Di che utilità potrebbe mai essere una predicazione disgiunta dalla preghiera? In primo luogo viene la preghiera, e dopo la parola, come dicono gli Apostoli: “Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola” (At 6,4)» (Giovanni Crisostomo).

    Che il Cristo risorto sia pietra scartata dai costruttori, ma scelta da Dio e divenuta pietra angolare ( 1Pt 2,7), è importante per quanti si trovano a vivere «vite di scarto» (Zygmunt Bauman), a essere rigettati ai margini della società o del mondo o del loro gruppo o della Chiesa. Dio sceglie ciò che nel mondo è disprezzato e insignificante, sceglie «la spazzatura del mondo» (cfr. 1Cor 4,12) per confondere i costruttori mondani e le loro costruzioni che si reggono su criteri di efficienza e produttività, che richiedono conformismo e omologazione, che vogliono che le pietre sino morte e non vive. Una pietra viva, fedele eco del Crocifisso Risorto, è un ossimoro intollerabile per la razionalità mondana e abbisogna di essere scartata.

    Il vangelo presenta l’addio di Gesù ai suoi. L’addio è l’ultimo saluto che intercorre fra chi se ne va per sempre e chi resta. Ma l’addio, e più che mai l’addio pronunciato da Gesù, è anche una promessa: ad Deum. Con ad-Dio il futuro, proprio e degli altri, è posto in Dio. Gesù, che ha sempre vissuto le sue relazioni nell’ad-Dio, cioè davanti a Dio e per Dio, vi pone anche il suo futuro. Che è anche il futuro di chi è «suo», di chi «crede in lui» (cfr. Gv 14,12). Infatti, il Figlio è nel Padre e il Padre è nel Figlio (Gv 14,10), e il discepolo che rimane nel Figlio (Gv 15,1-7), rimane anche nel Padre ( 1Gv 2,24). Se così va inteso l’ad-Dio, allora ogni nostra relazione dovrebbe restare sotto il suo segno, cioè sotto il segno dell’apertura e dell’invocazione all’Altro che salva le relazioni con gli altri dai rischi dell’assolutismo, della tirannia, della violenza.

    Dopo aver annunciato la sua partenza, Gesù ha dato ai discepoli il comando dell’amore (Gv 13,33-34) e ora chiede loro di aver fede e di non essere turbati (Gv 14,1). Di fronte a un distacco si prova dolore per la persona che se ne va, ma anche smarrimento e ansia per il futuro proprio e della propria comunità che era legata vitalmente alla presenza che ora non è più. La dipartita di Gesù è crisi per la comunità dei suoi discepoli. E il turbamento del cuore non riguarda solo la sfera emotiva e dei sentimenti, ma indica anche la paralisi della volontà e della capacità di prendere decisioni, l’annebbiamento dell’intelligenza e del discernimento. Gesù, con le sue parole, sta facendo della sua dipartita e del vuoto che egli lascia un’occasione di rinascita dei suoi discepoli. Chiedendo fede, li spinge a trasformare la paura del nuovo e il terrore dell’abbandono nel coraggio di donarsi appoggiandosi sul Signore; promettendo che va a preparare un posto per loro, egli vive la sua partenza in relazione con chi resta e mostra che non li sta abbandonando, ma sta inaugurando una fase nuova e diversa di relazione con loro. Il distacco è in vista di una nuova accoglienza (Gv 14,2-3).

 

Immagine della Domenica

   


Il miracolo sempre rinnovato

 

Dio non morirà il giorno in cui non crederemo più

 in una divinità personale,

ma saremo noi a morire

 il giorno in cui la nostra vita

 non sarà più pervasa

dallo splendore del miracolo sempre rinnovato,

le cui fonti sono oltre ogni ragione.

(D. Hammarskjold)

 

Preghiere e racconti

 

«Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?»

Si leggono a volte pagine molte belle su dio, sui suoi attributi, sulla sua grandezza, sul suo mistero. Le si definirebbe volentieri mistiche, se non si temesse di sciupare questo termine. Ma se manca il nome di Gesù Cristo non si sfugge al dubbio. Ciò che dice l’autore, come lo sa? da dove lo ricava? I cristiani hanno ragione di diffidare delle affermazioni teologiche che non derivano dalla conoscenza di Cristo o che si svolgono senza un esplicito riferimento al Vangelo. Non bisogna stancarsi di ripetere la frase chiave che leggiamo in Giovanni: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?» (Gv 14,9). Essa significa che l’unità di Dio e dell’uomo in Gesù manifesta nel tempo l’unità eterna del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. La voce del Figlio è la voce del Padre. Ascoltare Gesù è ascoltare il Padre. L’immagine proposta da Urs von Balthasar è suggestiva. Egli afferma che il credente sente questa voce «come in stereofonia».

(Fr. Varillon, La sofferenza di Dio).

 

Camminando si fa il cammino

Tu che cammini, sono le tue tracce

il cammino e null’altro;

tu che cammini, non c’è cammino,

il cammino si fa camminando.

Camminando si fa il cammino

e volgendo indietro lo sguardo

si vede il cammino sul quale mai più

si ritornerà a camminare.

Tu che cammini, non c’è cammino,

tranne delle scie nel mare.

 (A. Machado)

 

Il cammino particolare 

      «Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un acceso diverso. È infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano. L’universalità di Dio consiste nella molteplicità infinita dei cammini che conducono a lui, ciascuno dei quali è riservato a un uomo».

(Martin BUBER, Il cammino dell’uomo, Edizione Qiqajon, 1990, Magnano (BI), 28)

 

Io sono… la vita

«Carissimi giovani, voi vi fate interpreti di una domanda, che spesso vi viene rivolta da tanti vostri amici: Come e dove possiamo incontrare questa vita, come e dove possiamo viverla? La risposta potrete trovarla da voi stessi, se cercherete di dimorare fedelmente nell’amore di Cristo (cfr. Gv 15,9). Voi sperimenterete allora direttamente la verità di quella sua parola: “Io sono… la vita” (Gv 14,6) e potrete recare a tutti questo gioioso annuncio di speranza. Egli vi ha costituiti suoi ambasciatori, primi evangelizzatori dei vostri coetanei».

(Giovanni Paolo II, Messaggio per la VIII GMG, 1993).

 

Il buio e la luce

È buio dentro di me,

ma presso di te c’è la luce;

sono solo, ma tu non mi abbandoni;

sono impaurito, ma presso di te c’è l’aiuto;

sono inquieto, ma presso di te c’è la pace;

in me c’è amarezza, ma presso di te c’è la pazienza;

io non comprendo le tue vie, ma la mia via tu la conosci.

(Dietrich Bonhoeffer)

 

Mi chiamate Redentore

Mi chiamate Redentore

e non vi fate redimere.

Mi chiamate Luce

e non mi vedete.

Mi chiamate Via

e non mi seguite.

Mi chiamate Vita

e non mi desiderate.

Mi chiamate Maestro

e non mi credete.

Mi chiamate Sapienza

e non m’interrogate.

Mi chiamate Signore

e non mi servite.

Mi chiamate Onnipotente

e non vi fidate di me.

Se un giorno non vi riconosco

non vi meravigliate.

(Iscrizione nel duomo di Lubecca).

 

L’amore è ciò che conta

Chi ha superato la paura della morte, non ha ancora vinto tutti gli altri timori. Alcuni non temono la morte, ma hanno paura dei piccoli mali della vita. Alcuni non temono la morte, ma temono la morte delle persone care. Chi cerca la Verità, deve vincere tutti questi timori e altri ancora: bisogna essere pronti a sacrificare tutto per la Verità. La verità non si può sacrificare per nessuna ragione. La verità è come un grande albero, che più lo si coltiva, più da frutti. Colui che cerca la verità dovrebbe essere più umile della polvere. Se conoscessimo la verità intera, che bisogno ci sarebbe di cercarla? Possedere la conoscenza perfetta della verità è possedere Dio. Poiché la verità è Dio. Dal momento che non conosciamo la verità totale, dobbiamo sentirci impegnati in una ricerca incessante, e questo è il più grande privilegio e il più grande dovere dell’uomo. Dio-verità va incontro a quelli che lo cercano. Sono un umile cercatore della verità, e in questa ricerca ripongo la massima fiducia nei miei compagni per poter conoscere i miei errori. Sono fedele soltanto alla verità e non devo ubbidienza a nessuno salvo che alla verità. Tutta la verità, non semplicemente le idee vere, ma i visi autentici, i dipinti o le canzoni autentiche sono sommamente belli. Vorrete sapere quali siano le caratteristiche di un uomo che desideri realizzare la Verità che è Dio. Deve essere completamente libero dall’ira e dalla lussuria, dall’avidità e dall’attaccamento, dall’orgoglio e dal timore. Voi ed io siamo una cosa sola. Non posso farvi del male senza ferirmi. Io sono il servo di musulmani, cristiani, persi, ebrei, come lo sono degli indù. E un servo non ha bisogno di prestigio, ma di amore. L’amore è il rovescio della moneta, il cui diritto è la verità.

(Mahatma Gandhi).

 

Ho cercato la verità, amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle Confessioni di sant’Agostino.

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio MAZZI, Preghiere di un prete di strada).  

 

Saremo anche noi dove è Cristo

Colmi di fiducia, volgiamoci senza timore verso il nostro redentore Gesù, volgiamoci senza timore verso l’assemblea dei patriarchi, partiamo per andare senza timore presso il nostro padre Abramo quando sarà giunto il giorno per noi fissato; senza timore volgiamoci all’assemblea dei santi e alla adunanza dei giusti. Andremo presso i nostri padri, andremo presso i nostri maestri nella fede perché, anche se mancano le opere, ci soccorra la fede e sia conservata la nostra eredità. Andremo dove il santo Abramo apre il suo seno per accogliere i poveri così come ha accolto anche Lazzaro. In quel seno riposano coloro che in questo mondo sopportarono gravi e penose fatiche. Padre [Abramo], ancora una volta tendi le tue mani per accogliere il povero, apri il tuo grembo, allarga il tuo seno per accoglierne di più perché moltissimi sono quelli che credono nel Signore. […] Il Signore sarà la luce di tutti e la luce vera che illumina ogni uomo (cfr. Gv 1,9) risplenderà su tutti. Andremo là dove ai suoi poveri servi il Signore Gesù ha preparato le dimore, per essere anche noi dove è Lui; così ha voluto. Ascoltalo quando dice quali sono queste dimore: «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore» (Gv 14,2), e ascoltalo quando manifesta la sua volontà: «Vengo di nuovo e vi chiamo a me, perché dove sono io siate anche voi» (Gv 14,3). Ma tu affermi che Gesù parlava soltanto ai suoi discepoli perché ad essi soltanto avrebbe promesso molte dimore; perciò le preparava solamente per i suoi undici discepoli. E che ne è allora di quel detto che da tutte le parti del mondo verranno e riposeranno nel regno di Dio? (cfr. Mt 8,11). Perché dubitiamo della realizzazione della volontà divina? Il volere di Cristo è già operante. Cristo mostrò anche la via, mostrò anche il luogo, dicendo: «E dove io vado, voi lo sapete e conoscete la mia via» (Gv 14,4). Il luogo è presso il Padre, la via è Cristo, così come lui stesso dice: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). Entriamo dunque per questa via, restiamo saldi nella verità, seguiamo la vita. La via è quella che conduce, la verità quella che da saldezza, la vita è quella che è data per mezzo suo. E perché conoscessimo la sua vera volontà, aggiunse: «Padre, quelli che tu mi hai dato, voglio che essi pure siano con me dove sono io, in modo che vedano la mia gloria» (Gv 17,24).

(AMBROGIO, Il bene della morte 12,52-54, in Opera omnia di sant’Ambrogio, pp. 200-204).

 

Butto la rete

Signore, la mia sola sicurezza sei tu, come il mare che ho davanti e nel quale butto la rete della mia vita. Anche se finora non ho pescato nulla, anche se a volte non ne ho la voglia, io so, Signore, che se avrò la forza di buttare continuamente questa rete, troverò il senso della verità.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto  Pensieri e lettre spirituali, Ed. San Paolo)

 

Il dubbio, la verità e Cristo

Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiani e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.

(F. Dostoevskij)

 

Via, verità e vita

Noi ti seguiamo, Signore Gesù, ma tu chiamaci, perché ti possiamo seguire. Nessuno potrà salire senza di te. Tu sei la via, la verità, la vita, la possibilità a fede, il premio. Accogli i tuoi: tu sei la via. Confermali: tu sei la verità. Ravvivali: tu sei la vita.

Ammettici a quel bene che Davide desiderava vedere, abitando nella casa del Signore, quando si chiedeva: «Chi ci mostrerà il bene? e diceva: «Io credo che vedrò i beni del Signore nella terra dei viventi»: i beni si trovano là dove c’è la vita eterna, la vita senza colpa.

Aprici il cuore a quello che è veramente il bene, il tuo bene divino, «in cui noi siamo, viviamo e ci muoviamo». Noi ci muoviamo, se camminiamo sulla via; esistiamo, se rimaniamo nella verità; viviamo, se siamo nella vita. Mostraci il bene inalterabile, unico, immutabile, nel quale possiamo essere eterni e conoscere ogni bene. In quel bene si trova la pace serena, la luce immortale, la grazia perenne, la santa eredità delle anime, la tranquillità senza turbamento, non destinata a perire ma sottratta alla morte: là dove non vi sono lacrime, e non dimora il pianto – può esservi pianto dove non c’è peccato – dove i tuoi santi sono liberati dagli errori e dalle inquietudini, dal timore e dall’ansia, dalle cupidigie da tutte le sozzure e da ogni affanno corporale, dove si estende la terra dei viventi.

(AMBROGIO, De bono mortis, XII, 55).

 

Preghiera

Signore Gesù, maestro buono, il nostro cuore è spesso turbato per tutto il male che c’è nel mondo e per le nostre stesse debolezze, per i tradimenti e i rinnegamenti di cui ci vediamo capaci. Aumenta la nostra fede in te e nel Padre che ci hai rivelato. Tu sei la via: fa’ che ti seguiamo! Tu sei la verità: fa’ che ti conosciamo! Tu sei la vita: fa’ che viviamo in te per vedere il Padre e glorificare il tuo santo nome davanti a tutti gli uomini.
 

Raffaello, Cristo benedicente, Brescia, Pinacoteca Civica Tosio Martinengo, 1505.

© Su concessioneArchivio fotografico Civici musei d’Arte e Storia di Brescia.

Stringendosi a Cristo, «pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio», anche i suoi discepoli vengono «impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale» (1Pt 2,4-5). I credenti costituiscono quel corpo il cui Capo è il Signore Gesù risorto. Questi è la via, la verità e la vita, colui che ha rivelato il volto di Dio. Chi vede lui vede il Padre poiché Dio nessuno lo ha mai visto, ma il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha fatto rivelato (cf. Gv 1,18). La sua missione è quella di condurre gli uomini alla comunione con il Padre suo, rendendoli partecipi della sua stessa vita divina.
Ecco perché nell’Orazione sulle Offerte della liturgia del giorno la Chiesa si rivolge a Dio che nello scambio dei doni fa partecipare i fedeli alla comunione con sé, unico e sommo bene, e che ha preparato per quelli che credono in lui un posto nel regno dei cieli. Sin da adesso, tuttavia, a coloro che gli fanno posto nella loro vita attraverso la fede, è offerta la speranza di essere accolti nella Gerusalemme del cielo poiché la via eterna consiste nella conoscenza dell’unico vero Dio, e di colui che Egli ha inviato, il Signore Gesù Cristo (cf. Gv 17,3).

Gesù risorto è in mezzo alla comunità dei discepoli che sperimentano la sua presenza salvifica. Egli era morto e ora vive per sempre (cf. Ap 1,18), ed ha promesso: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Soltanto unita a Cristo la Chiesa può continuare a compiere le opere e la missione del Risorto. Solamente in Lui può essere edificata «per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio» (1Pt 2,5).
Raffaello Sanzio ci ha lasciato una tavola di piccole dimensioni, realizzata per uso devozionale nel 1505 e oggi conservata nella Pinacoteca Civica Tosio Martinengo di Brescia, la cui superficie è occupata quasi per intero dalla figura frontale di Cristo.

Gesù Risorto è dipinto di tre quarti, quasi nudo; ha un torso virile, ricoperto soltanto di un mantello rosso che scende dalla sua spalla destra. Ha il braccio destro alzato in segno di benedizione mentre il sinistro lo tiene appoggiato al ventre quasi a indicare con la mano la ferita ancora sanguinante del costato. Sono bene in evidenza anche le ferite delle mani così come risalta il rosso del sangue che fuoriesce dalla corona di spine che Gesù porta ancora sul capo. Il suo volto è sereno, ma anche profondamente sofferente. Egli è il Crocifisso Risorto!
È colui che è penetrato negli abissi della morte e che continua a portare sulla sua carne le offese della morte. Perfino lo sfondo del quadro contribuisce a intensificare questa sensazione: la risurrezione porta in sé la memoria della morte e della passione, e ciò che si è compiuto nel Capo attende di compiersi perfettamente nelle sue membra e nel mondo intero che continua purtroppo a gemere e a soffrire nelle doglie del parto aspettando la piena rivelazione dei figli di Dio (cf. Rm 8,19-22).
E poiché «Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo» (B. Pascal, Pensieri 553).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA DI PASQUA (A)

IV DOMENICA DI PASQUA

 Prima lettura: Atti 2,14.36-41

[Nel giorno di Pentecoste,] Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò così: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso». All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». E Pietro disse loro: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro». Con molte altre parole rendeva testimonianza e li esortava: «Salvatevi da questa generazione perversa!». Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone.

 

  • Questo è un brano del discorso che Pietro ha fatto il giorno di Pentecoste. Egli parlando agli Ebrei usa alcuni testi importanti dell’Antico Testamento per interpretarli alla luce di Gesù Cristo. Davanti alla folla Pietro annuncia il Vangelo, la Buona Notizia che può cambiare la loro vita: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (v. 36). L’annuncio di Pietro non era facile da accogliere dal popolo ebraico: il Messia promesso dai profeti e da loro atteso come un liberatore era in realtà un uomo crocifisso come un malfattore. Non solo: è lui il Signore, l’Adonai, il Dio del Sinai. Ma Pietro ha ricevuto in quel giorno lo stesso spirito di Cristo risorto e può annunciare con sicurezza, che Gesù è il Signore, e ora ha potere su qualsiasi debolezza dell’uomo.

     La Parola è ascoltata dalla folla, e dall’ascolto sboccia la fede che porta a domandare: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». La risposta è: «Convertitevi». Convertirsi significa cambiare mentalità, abbandonare le proprie sicurezze derivate dalla legge e rivolgersi a Cristo, l’autore della vita: «ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati» (v. 38). Essere battezzati significa essere immersi in Cristo, essere uniti strettamente a lui, partecipando alla sua sorte: alla sua morte e alla sua risurrezione.                                  

     Questo però avviene mediante il perdono dei peccati, i quali tengono l’uomo schiavo della propria autosufficienza, e con il dono dello Spirito Santo, che distingue il battesimo di Gesù da quello di Giovanni.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 2,20b-25

 Carissimi, se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio,  perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia.

Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime.

 

  •  Anche in questa lettura risuona la Buona Notizia, il Vangelo di Pietro.

Qui egli presenta il cristiano, che ha ascoltato la parola, vi ha creduto, si è convertito al Signore, è stato battezzato, ma ora vive in una società che non sopporta la sua presenza. Il cristiano con il battesimo ha ricevuto la natura stessa di Cristo, e ora ne può seguire le orme (v. 2). La strada è già stata tracciata: è quella della croce, dell’amore al nemico, come quella di Gesù che «oltraggiato non rispondeva con oltraggi» (v. 23). È lo spirito del

Servo sofferente profetizzato da Is 53, che «portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché non vivendo più per il peccato vivessimo per la giustizia» (v. 24).

     Versando il sangue sull’altare della croce, Cristo ha espiato i nostri peccati e li ha demoliti. Ora è possibile quindi vivere con rettitudine morale come è stabilito da Dio. Se prima gli uomini erano un gregge senza pastore, ora si realizza quanto anticipato profetizzato da Ez 34,16: «Io stesso, dice il Signore, andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata; avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia». La Chiesa perseguitata è invitata da Pietro a guardare con fiducia a Gesù Cristo come al vero pastore e al guardiano fedele (v. 25).

 

Vangelo: Giovanni 10,1-10

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

 

Esegesi

    Gesù si trova ancora a Gerusalemme per la festa delle Capanne.

Nell’ultimo giorno della festa aveva svelato la sua identità nel luogo sacro, il tempio: «Prima che Abramo fosse Io sono» (8,58). Aveva poi guarito il cieco nato per manifestare le opere di Dio (c. 9). Ora si dichiara il «Buon Pastore», che accoglie nella sua Chiesa i vari ciechi che hanno ricuperato la vista credendo in lui e facendosi battezzare, e che per questo sono scacciati dalla sinagoga.

     Le due parole fondamentali di questa parabola sono «recinto» e «porta». I recinti delle pecore erano fatti di un muricciolo dotato di una porta stretta, che dava la possibilità ai pastori di contare le pecore, che di notte venivano da loro affidate al custode. Al mattino seguente il custode apriva loro la porta del recinto ed essi chiamavano le loro pecore. Queste conoscevano solo la voce del loro pastore e seguivano solo lui, non gli estranei. Mentre uscivano il pastore le contava perché poteva accadere che durante la notte i banditi avessero scavalcato il recinto facendo razzia delle pecore.

     Nella Bibbia, però, la parola «recinto» non viene usata mai per indicare un luogo destinato agli animali, ma lo spazio dove, durante l’Esodo, si trovava la Tenda del Convegno. Più tardi il termine indicava i cortili del tempio. Gesù quindi si sta riferendo alle istituzioni di Israele, che nella Legge hanno la loro massima espressione.

     Per i farisei la legge era un luogo dove si poteva entrare e basta: era un luogo chiuso. Le pecore, l’intero popolo d’Israele, dovevano entrare solo in questo recinto, sottostando alle loro interpretazioni della legge, che generalmente erano molto gravose. Questo recinto per Gesù ha una «porta», dalla quale egli chiama le sue pecore una per una facendole uscire. Altre pecore che si trovano in quel recinto non conoscono la sua voce o non la vogliono ascoltare. Le sue pecore invece lo seguono, Gesù rivela inoltre di essere la «porta» non del recinto, ma del tempio di Dio. Nessuno può entrare nella casa di Dio senza passare per Gesù. Lui è l’unico che può condurre alla salvezza le pecore. Chi sta in lui sperimenta la libertà: «entrerà e uscirà e troverà pascolo» (v. 9). Solo lui è in grado di donare la vita eterna. Nessun altro invece ha il potere di donare la vita.

 

Meditazione

     La quarta domenica di Pasqua contempla il Risorto quale pastore della chiesa. Il pastore indica al gregge la via da percorrere e il Cristo-Pastore indica alla chiesa la via che essa deve seguire. Via che, secondo la prima lettura, si chiama conversione.«Convertitevi» (Metanoésate: At 2,38), risponde Pietro alle folle di Gerusalemme che gli chiedevano: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2,37). L’attività pastorale degli apostoli suscita un itinerario che, a partire dall’ascolto della parola predicata e dalla fede, si dipana in alcune tappe: conversione; battesimo; remissione dei peccati; effusione dello Spirito. Tutto questo conduce all’aggregazione alla comunità cristiana (At 2,41). La seconda lettura mostra il modello di questo cammino di salvezza: Cristo. Il Cristo che ha sofferto la passione e la morte lascia ai suoi seguaci un tracciato affinché seguano le sue orme (1 Pt 2,21). Così essi, come pecore prima smarrite, possono tornare al loro pastore e custode (1 Pt 2,25). Il vangelo ribadisce che Cristo è la porta attraverso cui deve passare il cammino del discepolo: si tratta di un cammino spirituale di ascolto, sequela e conoscenza del Signore.

    La rivelazione di Gesù quale pastore diviene anche giudizio di chi è ladro, brigante, estraneo. Se il pastore Gesù è venuto per dare la vita e perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza, ladri e briganti invece vengono per «rubare, sacrificare (CEI: uccidere) e far perire» (Gv 10,10). Di costoro Gesù dice che «sono venuti prima di me», ma questo non va inteso in senso cronologico, quasi che si riferisse ai personaggi della prima alleanza. Ignazio di Antiochia ha compreso bene: «Cristo è la porta del Padre, attraverso la quale entrano Abramo, Isacco e Giacobbe, i profeti, gli apostoli e la chiesa» (Ai Filadelfiesi IX, 1). Si tratta invece dei falsi messia che si presentano agli uomini avanzando la pretesa di essere dei salvatori: quand’anche venissero dopo (cronologicamente) rispetto a Gesù, essi rientrerebbero nel novero degli usurpatori qui intravisti. Il criterio discriminante che dice l’autenticità della missione è nel sottrarre per sé o nel donare, nel portare morte o nel portare vita. In particolare viene condannato il sacrificare: ovvero, il togliere vita in nome di Dio, il servirsi delle persone per fini religiosi fino ad annientarle, l’usare il nome di Dio e la religione per fare violenza, il togliere la libertà alle persone dando forma nuova agli antichi sacrifici umani.

Ladro e brigante è chi si erge a padrone del gregge considerando «sue» le persone che appartengono a Cristo. Il Sal 100 recita: «Riconoscete che il Signore è Dio, è lui che ci ha fatto e non noi, noi siamo suo popolo e gregge del suo pascolo» (Sal 100,3). Non noi, ma tu, Signore; non io, ma tu, Signore. Questa confessione della nostra radicale povertà – non io, ma tu -, è anche la condizione della preghiera, il movimento della fede e dell’amore che nasce dalla rivelazione che Gesù, il Cristo crocifisso e risorto, è il pastore delle pecore.     Gesù si autodefinisce porta delle pecore, cioè per le pecore, non porta del recinto. Il termine «recinto» è espresso in greco dal vocabolo aule che si riferisce normalmente non a un ovile, ma al vestibolo davanti al tabernacolo o al Tempio (Es 27,9; 2Cr 6,13; 11,16; Ap 11,12). Ovvero, la porta che immette nella comunione con Dio non è il tempio di Gerusalemme, ma il Cristo morto e risorto. Se Cristo è la porta che conduce alla salvezza (Gv 10,9) e se la porta fa parte dell’edificio a cui permette l’accesso, Gesù è al tempo stesso il mediatore della salvezza e la salvezza stessa. Gesù è la Via verso il Padre, ma è anche la Vita (Gv 14,6): in Gesù troviamo la vita del Padre. Il pastore «fa uscire» le sue pecore (10,3: Vulgata: educit). 

Il pastore immette in un cammino di esodo, dunque di liberazione. Compito del pastore è educare alla libertà. Egli chiama per nome ciascuna delle sue pecore e le educa conducendole a vivere in nome proprio. L’educazione è il luogo dell’assunzione della responsabilità nei confronti di chi viene dopo di noi; è uno degli aspetti del ministero.

 

Immagine della Domenica

 

Moral de Hornuez (Segovia)  – 2006

 

 

Cantico spirituale

 

L’Amato le montagne,

le boschive valli solitarie,

le isole inesplorate,

i fiumi gorgoglianti,

il sibilo dei venti innamorati,

la quiete della notte

vicina allo spuntar dell’aurora,

musica silenziosa,

solitudin sonora,

cena che ristora e innamora.

(Giovanni della Croce, Cantico spirituale, strofe 13-14)

 

Preghiere e racconti

L’arte paleocristiana che fiorisce nelle catacombe si radica nel mondo ebraico che rifiuta l’immagine, ma si sviluppa nell’ambiente romano fortemente figurativo. In questo clima l’esigenza espressiva del cristianesimo si risolve nell’uso dei simboli, immagini che esprimono le realtà spirituali, tratte sovente del mondo ellenistico romano, ma interpretate in senso cristiano. Tra questi il BUON PASTORE, immagine frequente nel repertorio mitologico artistico romano, auspicio di pace per i defunti. Entrato nel simbolismo cristiano venne molto utilizzato nella pittura dei cubicoli, nei sarcofagi e anche nelle epigrafi, segno dell’anima portata nella pace, da Cristo pastore puro. Divenne presto l’immagine del Buon Pastore (o “Bel Pastore” secondo l’originale greco) che va in cerca della pecorella smarrita, usata da Gesù stesso nella parabola (Lc 15,3-7; Gv 10,11-16) per esprimere il suo amore di Salvatore.

 (Catacomba di Priscilla – Buon Pastore sec.II-in.III).

 

Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni

Cari fratelli e sorelle,in questa quarta Domenica di Pasqua, detta “del Buon Pastore”, si celebra la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che quest’anno ha per tema: “La testimonianza suscita vocazioni”, tema “strettamente legato alla vita e alla missione dei sacerdoti e dei consacrati” (Messaggio per la XLVII G. M. di preghiera per le vocazioni, 13 novembre 2009). La prima forma di testimonianza che suscita vocazioni è la preghiera (cfr ibid.), come ci mostra l’esempio di santa Monica che, supplicando Dio con umiltà ed insistenza, ottenne la grazia di veder diventare cristiano suo figlio Agostino, il quale scrive: “Senza incertezze credo e affermo che per le sue preghiere Dio mi ha concesso l’intenzione di non preporre, non volere, non pensare, non amare altro che il raggiungimento della verità” (De Ordine II, 20, 52, CCL 29, 136). Invito, pertanto, i genitori a pregare, perché il cuore dei figli si apra all’ascolto del Buon Pastore, e “ogni più piccolo germe di vocazione … diventi albero rigoglioso, carico di frutti per il bene della Chiesa e dell’intera umanità” (Messaggio cit.). Come possiamo ascoltare la voce del Signore e riconoscerlo? Nella predicazione degli Apostoli e dei loro successori: in essa risuona la voce di Cristo, che chiama alla comunione con Dio e alla pienezza della vita, come leggiamo oggi nel Vangelo di san Giovanni: “Le mie pecore ascoltano la mia voce ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano” (Gv 10,27-28).

(Benedetto XVI, Le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana del tempo pasquale, REGINA CÆLI, 25-04-2010).

 

Preghiera per le vocazioni sacerdotali

Signore Gesù, guida e pastore del tuo popolo,

tu hai chiamato nella Chiesa

San Giovanni Maria Vianney,

curato d’Ars, come tuo servo.

Sii benedetto per la santità della sua vita

e l’ammirabile fecondità del suo ministero.

Con la sua perseveranza

egli ha superato tutti gli ostacoli

nel cammino del sacerdozio.

Prete autentico,

attingeva dalla Celebrazione Eucaristica

e dall’adorazione silenziosa

l’ardore della sua carità pastorale

e la vitalità del suo zelo apostolico.

Per sua intercessione:

Tocca il cuore dei giovani

perché trovino nel suo esempio di vita

lo slancio per seguirti con lo stesso coraggio,

senza guardare indietro.

Rinnova il cuore dei preti

perché si donino con fervore e profondità

e sappiano fondare l’unità delle loro comunità

sull’Eucaristia, il perdono e l’amore reciproco.

Fortifica le famiglie cristiane

perché sostengano quei figli che tu hai chiamato.

Anche oggi, Signore, manda operai alla tua messe,

perché sia accolta la sfida evangelica del nostro tempo.

Siano numerosi i giovani che sanno fare

della loro vita un «ti amo» a servizio dei fratelli,

proprio come San Giovanni Maria Vianney.

Ascoltaci, o Signore, Pastore per l’eternità. Amen.

(Mons. Guy Bagnard, vescovo di Belley-Ars).

 

La nostra incapacità di ascoltare la buona novella di Dio

Ritengo che uno dei motivi per cui molti di noi non assimilano realmente questo messaggio di incondizionato amore divino, sia che ci soffermiamo eccessivamente su noi e sui nostri errori. Ci domandiamo senza sosta: chi sono perché il Signore mi ami? E invece dovremmo chiederci: chi sei mio Dio, per amarmi così tanto? Il Signore sa ed accetta il fatto che gli uomini sbaglino, perché tale è la condizione umana, ma dentro di noi c’è qualcosa che, come Simon Pietro, continua a protestare: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore. Sono certo che non mi vuoi Vicino” (cfr. Lc 5,8).

La Parola di Dio ci ricorda che Dio ha inviato suo Figlio nel mondo non per condannare ma per amarci sottraendoci all’egoismo e dandoci la pienezza della vita (cfr. Gv 3,16-17). La Parola di Dio ci assicura che Gesù viene come ambasciatore del Padre, come Medico Divino, proprio perché siamo distrutti, contorti e malati. Gesù viene come Buon Pastore proprio perché gli esseri umani si perdono; viene a cercarci perché ci vuole con lui, perché vuole stringerci fra le sue braccia e festeggiare la gioia di averci trovato e di averci nuovamente accanto a lui.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 52-53).

 

Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo

«Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore» (10,14s). In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto. La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore. La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre. I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù. Allora potremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro. Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.

Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo. Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione empirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo. L’uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio. Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.

La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comunione della conoscenza e dell’amore di Dio. Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinitario.

L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre. «La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità.

Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre. Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».

(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).

 

Il Signore è il mio pastore

     La Chiesa parla a Cristo: «II Signore mi conduce al pascolo e nulla mi mancherà» [Sal 22 (23), 1 ss.], il Signore Gesù Cristo è il mio pastore e nulla mi mancherà. «Mi ha posto nel luogo del pascolo», nel luogo dove inizia il pascolo mi ha condotto alla fede, qui mi ha posto per darmi nutrimento. «Presso acque di refrigerio mi ha allevato». Mi ha allevato con l’acqua del battesimo, in cui sono ristorati quanti hanno perduto l’integrità e le forze. Ha convertito la mia anima. Mi ha guidato su sentieri di giustizia a motivo del suo nome». Mi ha guidato negli stretti sentieri della sua giustizia che pochi percorrono e non a motivo dei miei meriti, ma a motivo del suo nome. «Infatti anche se camminassi in mezzo all’ombra della morte», cioè anche quando cammino in mezzo a questa vita, che è ombra di morte, «non temerò il male, perché tu sei con me», non temerò il male perché tu, grazie alla fede, abiti nel mio cuore, e ora sei con me affinché, dopo l’ombra della morte, io sia con te. «La tua verga e il tuo bastone, proprio loro mi hanno consolato». I tuoi insegnamenti sono come verga per il gregge delle pecore e come bastone per i figli ormai grandi che da una vita animale crescono fino a quella spirituale; non mi hanno rattristato, anzi da essi sono stato consolato perché tu ti ricordi di me. «Hai preparato una tavola dinanzi a me, di fronte a coloro che mi perseguitano». Dopo la verga con la quale io, piccolo e ancora animale ero condotto ai pascoli con il gregge, dopo quella verga, quando ho cominciato ad essere sotto il bastone, hai preparato una tavola davanti a me affinché io non sia più nutrito come un bambino con il latte, ma prenda il cibo come un adulto, reso saldo dinanzi a quelli che mi fanno soffrire. «Hai effuso olio sul mio capo», hai allietato la mia mente con la gioia spirituale. «E il tuo calice inebriante quanto è eccellente!», e il tuo calice che da l’oblio delle vanità passate, quanto è eccellente! «E la tua misericordia mi accompagnerà tutti i giorni della mia vita», cioè per quanto a lungo vivrò in questa vita mortale non tua, ma mia. «E affinché abiti nella casa del Signore per la lunghezza dei giorni», mi accompagnerà non soltanto qui, ma fino a quando abiterò nella casa del Signore in eterno.

(AGOSTINO DI IPPONA, Esposizione sul salmo 22, Opere di sant’Agostino XXV, pp. 312-314).

 

Il prete piccolo e grande

Un prete dev’essere contemporaneamente piccolo e grande,

nobile di spirito come di sangue reale,

semplice e naturale come di ceppo contadino,

una sorgente di santificazione,

un peccatore che Dio ha perdonato,

un servitore per i timidi e i deboli,

che non s’abbassa davanti ai potenti ma si curva davanti ai poveri,

discepolo del suo Signore,

capo del suo gregge,

un mendicante dalle mani largamente aperte,

una madre per confortare i malati,

con la saggezza dell’età e la fiducia d’un bambino,

teso verso l’alto,

i piedi sulla terra,

fatto per la gioia,

esperto del soffrire,

lontano da ogni invidia,

lungimirante,

che parla con franchezza,

un amico della pace,

un nemico dell’inerzia,

fedele per sempre…

Così differente da me!

     (Anonimo).

 

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta                                            

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau)

 

Preghiera

Gesù, pastore e pascolo dei tuoi fedeli,

guida sicura e sentiero di vita,

tu che conosci tutti per nome e ci chiami ogni giorno a uno a uno,

rendici capaci di riconoscere la tua voce,

di sentire il calore della tua presenza che ci avvolge,

anche quando la strada è angusta, impraticabile,

e la notte profonda, interminabile.

Seguendoti senza resistenze e senza paure,

giungeremo ai prati verdeggianti,

alle fresche sorgenti della tua dimora,

dove tu ci farai bere e riposare.


 

«Io sono il buon pastore», proclama Gesù nel vangelo di Giovanni, e aggiunge: «Il buon pastore offre la vita per le pecore» (Gv 10,11). Parlando di sé in questi termini Egli richiama quanto di più ricco può essere trovato in molte pagine dell’Antico Testamento e in particolare nel Libro del profeta Ezechiele dove leggiamo: «Perché dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura…Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo…Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata…le pascerò con giustizia» (Ez 34, 11.15-16). Inoltre: «Voi, mie pecore, siete il gregge del mio pascolo e io sono il vostro Dio» (Ez 34, 31). Anche Geremia utilizza un’immagine simile (cf. Ger 23,3), mentre Isaia scrive: «Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri» (Is 40,11). Jahvè è riconosciuto, pertanto, come il pastore del suo popolo: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla», scrive infatti il Salmista (Sal 23,1); e ancora: «Tu, pastore di Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge» (Sal 80,2).
L’immagine del pastore, così cara al cuore del popolo dell’alleanza, serve a definire la missione di salvezza che il Padre ha affidato al suo Figlio il quale è venuto nel mondo per offrire la propria vita per le sue pecore. Egli si prende cura del suo gregge, lo difende dai lupi e dai nemici e lo conduce al pascolo. Gesù compie tutto ciò non per dovere o per forza, ma per amore, poiché egli offre la vita da sé e non per costrizione (cf. Gv 10,18), e soprattutto perché «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). «L’ascolto della fede avviene secondo la forma di conoscenza propria dell’amore: è un ascolto personale, che distingue la voce e riconosce quella del Buon Pastore (cf. Gv 10,3-5); un ascolto che richiede la sequela, come accade con i primi discepoli che, “sentendolo parlare così, seguirono Gesù” (Gv 1,37)» (Papa Francesco, Lumen fidei 30).
Per queste ragioni sin dall’antichità la Chiesa ha attribuito una grande importanza alla figura del Buon Pastore che porta sulle sue spalle la pecora ritrovata (cf. Lc 15,1-7), tanto da dipingerla o scolpirla nei luoghi di culto e di sepoltura dei cristiani. Lo sguardo rivolto al Buon Pastore per la Chiesa vuol dire non solo riconoscere in Gesù la piena realizzazione delle promesse e delle immagini dell’Antico Testamento, ma anche nutrire la speranza della salvezza definitiva nella Gerusalemme celeste dove tutti i redenti dal suo sangue, liberati dalla corruzione e dalla morte, saranno finalmente radunati per formare un solo gregge sotto la guida di un solo pastore (cf. Gv 10,16).
Significa, infine, che la Chiesa radica la sua missione ad gentes nella medesima missione di Cristo il quale dice: «Ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre» (Gv 10,16).
Il Mausoleo funebre di Galla Placidia costruito a Ravenna nel V sec. è tanto piccolo nelle dimensioni quanto prezioso nelle decorazioni musive. La lunetta di ingresso, in particolare, è occupata dalla raffigurazione del Buon Pastore, un giovane imberbe, elegante negli abiti e soprattutto nella posa, seduto su uno sperone di roccia. Con la mano sinistra sorregge la croce e con il braccio destro si protende verso una delle pecore che lo circondano accarezzandola delicatamente con la mano. Lo sguardo del pastore sembra fissare un luogo lontano che va al di là dell’orizzonte e sfugge alla vista dell’osservatore. Probabilmente è rivolto a quelle pecore che non sono di quell’ovile, ma che egli vuole condurre all’unico pascolo. La scena si svolge in una vegetazione ricca e verdeggiante che trasmette un forte senso di pace e di armonia. Le pecore sono tutte rivolte verso il loro pastore del quale riconoscono la voce.
La Chiesa, da parte sua, attenta alla parola di salvezza, invoca il Signore con la preghiera: «Buon Pastore, vero pane,
o Gesù, pietà di noi:
nutrici e difendici,
portaci ai beni eterni
nella terra dei viventi. Tu che tutto sai e puoi, che ci nutri sulla terra,
conduci i tuoi fratelli
alla tavola del cielo
nella gioia dei tuoi santi» (Sequenza Lauda Sion Salvatorem). 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

IV DOMENICA DI PASQUA

III DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 2,14.22-33

[Nel giorno di Pentecoste,] Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò così:

«Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nàzaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua, come voi sapete bene –, consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso.

Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. Dice infatti Davide a suo riguardo: “Contemplavo sempre il Signore innanzi a me; egli sta alla mia destra, perché io non vacilli. Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua, e anche la mia carne riposerà nella speranza, perché tu non abbandonerai la mia vita negli inferi né permetterai che il tuo Santo subisca la corruzione. Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza”.

Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e il suo sepolcro è ancora oggi fra noi. Ma poiché era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò: “questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne subì la corruzione”. Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire».

 

 

  • Nella prima lettura di oggi leggiamo la parte centrale del lungo discorso di Pietro pronunciato a Gerusalemme la mattina di Pentecoste, che abbiamo iniziato domenica scorsa e termineremo nella prossima. Nella prima parte Pietro ha messo in relazione il dono delle lingue con l’effusione dello Spirito appena avvenuta, ed è ricorso alle Scritture pro-fetiche per accreditare il suo discorso e far capire che gli avvenimenti di cui egli e i suoi ascoltatori erano testimoni riguardavano i «tempi ultimi», vale a dire i tempi della presenza di Dio in maniera forte e definitiva. Ora cerca di chiarire lo stretto rapporto del dono dello Spirito con la vita, la morte e la risurrezione di Gesù.

     La vicenda dell’uomo Gesù si è svolta completamente nel segno di una particolare vicinanza di Dio. Egli infatti è «uomo accreditato da Dio» e ciò è dimostrato «per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi» (At 2,22; cf. Lc 24,19). «Come voi ben sapete»: gli ascoltatori di Pietro sono a conoscenza della vicenda terrena di Gesù.

     Pietro fa un rapido accenno alla morte di Gesù per sottolineare che Dio è presente anche in questo momento, come lo era stato nella sua vita, dato che Gesù è consegnato agli uomini per essere ucciso secondo «il prestabilito disegno e la prescienza di Dio» (At 2,23; cf. IPt 1,20). Siamo qui messi di fronte a un profondo e sconcertante mistero. Come possiamo pensare Dio che ingloba nel «suo prestabilito disegno» la morte e addirittura la morte di croce del giusto «accreditato presso di lui»?

     Pietro non indugia su questo, come pure accenna soltanto alla colpa degli uomini che l’hanno ucciso «per mano degli empi». Egli passa ad annunciare la gloria della risurrezione. Gli accenni alla vita e alla morte sono stati fatti per sottolineare che è lo stesso Gesù di Nazareth che è vissuto e morto in mezzo agli ascoltatori, colui che «Dio ha risuscitato» (At 2.24, cf 3 15; 13, 32.34; 17,31) Si tratta dell’annuncio centrale del discorso dell’ Apostolo, il Kerigma, sul quale si fonda il cristianesimo.

     Pietro a questo punto ricorre alla Scrittura per dare credito alle sue parole, come aveva fatto per illustrare la grandezza del dono dello Spirito.

     La lunga citazione del Salmo (At 2, 25-28; Sal 16.8-11) ci mostra la Risurrezione di Gesù come motivo di speranza e estrema fiducia in Dio. Il Salmista, infatti, proclama la sua speranza durante un pericolo mortale.

     Egli ha nella preghiera l’esperienza mistica della vicinanza di Dio per cui pur nella condizione precaria in cui ancora si trova può proclamare: «Contemplavo sempre il Signore innanzi a me; poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli» (At 2,25, Sal 16,8). La speranza si basa su una capacità interiore di percepire la presenza divina. Questo da gioia e rinnova la speranza, anzi da la certezza che Dio non abbandonerà alla morte il suo «santo» (chasid in ebraico, il fedele all’alleanza divina che mette in pratica la Torà).

     Pietro, dopo la citazione, si rivolge in modo familiare ai suoi ascoltatori, che chiama «fratelli» e spiega che le parole del Salmo non vanno attribuite alla persona di Davide, ma alla luce degli avvenimenti che hanno coinvolto Gesù di Nazareth possono essere riletti come riferiti al Cristo «questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide corruzione» (At 2.27, Sal 16,10). Per Gesù la presenza di Dio e la certezza della sua vicinanza dopo la morte è diventata realtà nella risurrezione, ma per i fedeli che contemplano le grandi opere di Dio rimane una speranza e il Salmo aiuta a guardare alla risurrezione come opera del Dio che è vicino anche a ciascuno di noi.

     In conclusione Pietro riassume l’annuncio che più gli preme di trasmettere: «Questo Gesù, Dio l’ha risuscitato e noi ne siamo testimoni, innalzato pertanto alla destra (alcuni manoscritti hanno «dalla destra») di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33).

 

Seconda lettura: 1 Pietro 1,17-21

Carissimi, se chiamate Padre colui che, senza fare preferenze, giudica ciascuno secondo le proprie opere, comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri. Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi; e voi per opera sua credete in Dio, che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, in modo che la vostra fede e la vostra speranza siano rivolte a Dio.

 

  • I versetti della lettera attribuita a Pietro sono stati scelti come commento al discorso dell’apostolo della prima lettura. L’uomo Gesù accreditato da Dio con segni e prodigi e risuscitato dai morti è il Cristo «predestinato già prima della fondazione del mondo» (1Pt 1.21; cf At 2,23). Si approfondisce quindi il mistero di Gesù nei suoi rapporti con Dio Padre. Attraverso Gesù conosciamo il Padre, lo preghiamo e sappiamo che Egli è giudice «che senza riguardi personali giudica ciascuno secondo le sue opere» (1Pt 1,17). Dio giudica con obiettività, è quindi giudice giusto come ci avverte il Deuteronomio (10,17): «Il Signore vostro Dio è il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli da pane e vestito».

     Il comportamento cristiano deve essere improntato al «timore» di Dio. Timore che biblicamente è la faccia speculare dell’amore, un amore filiale che comporta rispetto e obbedienza.

     Su questa terra siamo orientati verso Dio e dobbiamo vivere questa vita come un pellegrinaggio, che si concluderà solo nel mondo avvenire, quando saremo definitivamente con Dio. Qui sulla terra siamo sempre «come forestieri» (Lv 25,23; cf. Sal 39 (38), 13: 119 (118), 19. 54; Eb 11,13).

     I versetti 18-19 propongono due metafore per presentare la liberazione dal male degli esseri umani Quella del riscatto dello schiavo e quella sacrificale. Dio in Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del peccato, analogamente a quanto ha compiuto per il suo popolo Israele, liberandolo dalla schiavitù dell’Egitto. In Gesù però «la mano potente di Dio» sembra si sia nascosta nell’impotenza di una morte vergognosa. Siamo di nuovo di fronte al mistero dell’operare di Dio e dobbiamo fare grande attenzione di non ridurre la redenzione operata da Cristo ad atto dovuto per placare la giustizia divina. Lo scritto apostolico vuole dirci che la redenzione è opera grande e assolutamente divina, il paragone con il riscatto è fatto proprio per sottolineare la grandezza del dono e al tempo stesso la povertà estrema degli esseri umani che non possono vantare nessun merito di fronte a Dio se non quello di essere stati tanto amati gratuitamente da lui.

 

Vangelo: Luca 24,13-35

Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo.

Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto».

Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.

Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro.

Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».

Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

 

Esegesi

    L’episodio dell’apparizione di Gesù ai discepoli in cammino è appena accennato da Marco (16,12-13), Luca, invece lo narra con molti particolari: precisa anche il nome del villaggio, a cui sono diretti, Emmaus, e la distanza da Gerusalemme, circa sette miglia. Essi stanno parlando degli avvenimenti che riguardano Gesù. Senza preavviso. Gesù stesso si mette al loro fianco ed entra nei loro discorsi.

     Essi non lo riconoscono, come la Maddalena (cf. Gv 20,14). I loro occhi ne sono ancora incapaci (Lc 24,16). Il Risorto si può riconoscere come tale solo con gli occhi della fede, che è un dono dello Spirito.

     Il loro interrogarsi e discutere degli avvenimenti è un atteggiamento premiato da Gesù, che li guida ad adoperare le Scritture per cercare il senso teologico profondo degli avvenimenti stessi.

     Gesù compie un esercizio di interpretazione tipico dei maestri ebrei: le Scritture vanno continuamente rilette e scrutate per trovarne delle nuove interpretazioni, che non elidano le precedenti, ma le arricchiscano. Uno dei metodi adoperati dai maestri è proprio quello adottato da Gesù, vale a dire accostare tanti versetti presi dai diversi libri formando così

una «collana» (hariz) di testi: «Cominciando da Mosè» (Torà, Pentateuco) e da tutti i profeti (quelli che noi chiamiamo libri storici e profetici) spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27).

     La Parola così si apre (dianoigo, Lc 24,32) aprendo la mente e il cuore: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32).

     Il riconoscimento del Risorto da parte dei due discepoli non avviene, però, attraverso la spiegazione delle Scritture, ma nel gesto dello spezzare il pane. Le Scritture non forniscono delle dimostrazioni. Il riconoscere il Risorto è un dono di fede dello Spirito, non il frutto di una dimostrazione: anche la comprensione delle Scritture necessita dello stesso dono.

     Una volta riconosciuto il Risorto, scatta l’impegno di annunciarlo. I discepoli da Emmaus ritornano di corsa a Gerusalemme per far partecipi gli altri della loro gioiosa scoperta.

 

Meditazione 

     L’annuncio pasquale risuona in modo diverso nei testi biblici odierni: nel resoconto scettico dei due di Emmaus («Egli è vivente»: Lc 24,23), nell’annuncio vigoroso della predicazione di Pietro («Questo Gesù Dio l’ha risuscitato»: At 2,32), nella comunicazione di fede che Pietro indirizza alle comunità destinatarie della sua prima lettera («Dio l’ha risuscitato dai morti»: 1Pt 1,21).

    Il Risorto manifesta la sua presenza negli apostoli che sono divenuti suoi testimoni e che annunciandolo lo rendono presente tra gli uomini (At 2,32); nella fede e nella speranza che abitano i credenti (1Pt 1,21); nella riunione comunitaria e liturgica degli Undici a Gerusalemme (Le 24,33-35); nella Parola spiegata e nel Pane condiviso (Lc 24,25-32).

     Il tema del cammino è presente nelle tre letture. La resurrezione di Cristo è profetizzata dal mutamento attuato da Dio del cammino di morte del fedele in cammino di vita (Salmo 16 citato in At 2,25-28); la fede nel Cristo risorto nasce nei due di Emmaus durante un cammino che non è solo geografico, ma spirituale e che attraversa la disillusione e il dubbio, il vuoto e lo scetticismo (vangelo); la fede nel Cristo risorto da origine a un tipo di presenza cristiana nel mondo descritta come paroikía, cammino nel timore e nella speranza, cammino come in terra straniera (II lettura).

    Per i due di Emmaus l’incontro con il Risorto segna il passaggio dalla de-missione alla missione e diviene la storia di una ricreazione. Le loro orecchie ascoltano la spiegazione della Scrittura, il loro cuore viene rianimato e scaldato, i loro occhi si aprono, la loro parola ritrova capacità di comunicazione e di comunione, le loro persone ridiventano capaci di relazione: insistono perché Gesù, che prima avevano trattato con sufficienza, si fermi con loro e sieda a tavola con loro. Essi ritrovano il coraggio della relazione e della speranza. E trovano la forza di ritornare alla comunità che avevano abbandonato. Sì, a volte è difficile rimanere nella chiesa e la tentazione dell’abbandono si può far sentire, per i più svariati motivi. Ma il motivo unico che rende vivibile la chiesa è la fede nel Risorto: grazie ad essa è possibile non solo perseverare, ma fare della perseveranza un’esperienza di resurrezione, una partecipazione spirituale alla vita del Risorto. La chiesa, pur con le sue povertà e i suoi peccati, è il corpo di Cristo, il reale luogo della fraternità che impedisce la riduzione della fede a docetismo o a gnosi.

    La presenza del Risorto è invisibile e silenziosa. Essa si rende visibile nel volto di uno straniero, di un pellegrino che diviene improvvisato compagno di strada, e parla attraverso le parole della Scrittura. La Bibbia e l’altro uomo, la Parola di Dio contenuta nelle Scritture e il volto dell’altro, soprattutto dello straniero e del povero, sono luoghi per eccellenza in cui la presenza del Risorto può incontrarci ricordandoci il comando evangelico: ama Dio e il tuo prossimo.

    Il forestiero sconosciuto diventa il portatore della rivelazione. Lo straniero incontrato da Cleopa e dall’altro discepolo anonimo non viene riconosciuto e deve scontrarsi con la loro diffidenza e sufficienza, salvo rivelarsi poi l’inviato di Dio. Il riconoscimento dello straniero passa attraverso un lavoro di memoria che restituisce i due discepoli alla loro storia. Più che sconosciuto, era non-riconosciuto. Riconosciutolo, non lo vedono più, ma sono rinviati a se stessi e possono riannodare i fili della loro storia e ricompattare la loro comunità. Lo straniero che ci visita, che incrocia i nostri cammini, incontra spesso, analogamente, la nostra diffidenza, il nostro senso di superiorità, la nostra paura, il nostro odio. Ma in verità, noi lo temiamo perché ci conduce al confronto con noi stessi. Lo straniero fa di noi degli stranieri: lui è straniero per me e io sono straniero per lui. Egli rivela, personalizzandola con la sua diversità evidente, una dimensione nascosta, e temibile, di me. Riconoscere lui (senza appropriarsi di lui) significa anche riconoscere noi stessi (senza disappropriarci di noi). Allora l’incontro può divenire apparizione.

 

Immagine della Domenica

 

Camminando si fa il cammino

Tu che cammini, sono le tue tracce

il cammino e null’altro;

tu che cammini, non c’è cammino,

il cammino si fa camminando.

Camminando si fa il cammino

e volgendo indietro lo sguardo

si vede il cammino sul quale mai più

si ritornerà a camminare.

Tu che cammini, non c’è cammino,

tranne delle scie nel mare.

(A. Machado)

 

Preghiere e racconti

 

A Emmaus per guardare negli occhi il Viandante

Abu Gosh – identificata al tempo dei Crociati come il villaggio di Emmaus – era l’ultima tappa del nostro pellegrinaggio in Terra Santa. Salimmo dapprima in alto sulla collina, dove dal giardino a terrazza delle Suore di Maria, Arca dell’Alleanza, avremmo potuto ammirare ancora una volta Gerusalemme, netta fra le colline all’orizzonte, solenne nelle sue sagome di pietra, immersa nella sua ineguagliabile luce dorata. In quel posto gli “ozevanim” – gli Ebrei costretti a lasciare la Città Santa – solevano piangere e strapparsi le vesti, per esprimere il senso di lacerazione e perfino di bestemmia provato nel separarsi da Sion. La nostalgia prendeva anche il nostro cuore. Dalla collina scendemmo alla Chiesa crociata, purissima nelle sue linee gotiche. Un’antica iscrizione marmorea all’esterno della Cripta riportava il nome della “X Legio Fretensis”, la legione romana di occupazione ai tempi del cristianesimo nascente. La Comunità monastica, col suo canto in latino, ebraico e francese, rendeva quel luogo una sorta di sigillo orante del dialogo necessario fra le fedi e le culture. Lo splendore del giardino, inondato dal sole dell’estate, che esaltava i colori e bruciava nell’aria i profumi, rendendoli quasi tocchi d’incenso, sembrò ancor più illuminarsi alla luce del racconto: era la narrazione del giorno della storia che avrei voluto vivere, “il primo giorno della settimana” dopo i dolorosi e misteriosi eventi di quella Pasqua singolare. In quel giorno, anonimo agli occhi delle cronache, due discepoli del Nazareno erano in cammino verso quel villaggio, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre discutevano, lo Straniero si avvicinò e prese a camminare accanto a loro. I loro occhi erano però impediti nel riconoscerlo. Fu lui a rompere il ghiaccio. «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?», chiese. Si fermarono, col volto che tradiva la profonda tristezza del cuore: essi lo avevano amato, avevano creduto in lui, giocando la loro vita nella decisione di seguirlo. Ed ora tutto era finito, nel modo più doloroso, certamente il più scandaloso per loro: morto appeso al palo della vergogna, il Rabbi che li aveva incantati, il loro Maestro, pareva essere stato smentito dai fatti. Quel suo grido sulla Croce aveva fatto risuonare assordante il silenzio del Padre, di cui pure tanto aveva parlato: «Elì, Elì, lemà sabactàni?» – «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». L’amore non può perdonare la morte: perciò il loro cuore era triste, perché la morte pareva aver inghiottito il loro Signore, e con lui ogni loro speranza, per sempre.

Uno dei due – si chiamava Clèopa – rispose allo Straniero con una battuta, fra il lamentoso e l’ironico: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Lo Straniero sembrò far più caso al dolore, che all’ironia, e domandò col tono che scioglie le labbra e fa venir fuori la pena nascosta: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse colui che avrebbe liberato Israele; invece, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Solo alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Le parole erano uscite dalla bocca di Clèopa come un fiume in piena. Il suo compagno (chi era? io? tu?) era rimasto in silenzio, del tutto partecipe, come se l’altro avesse saputo esprimere perfettamente il tumulto del suo cuore. Lo Straniero ebbe una reazione singolare. Senza mezzi termini apostrofò i due: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Da pii figli d’Israele, i due erano abituati a far memoria della straordinaria storia d’amore fra il Dio unico e il popolo eletto, rivivendola ogni volta con partecipazione intensa, in ogni tappa. Mai però il loro cuore si era acceso così all’ascolto di qualcuno. Fra lo stupore e il timore cominciò a farsi strada in loro una domanda: perché le parole di quello Straniero prendevano così la loro anima? Non aveva qualcosa in comune quella voce con quella del Profeta di Galilea, in cui avevano creduto? Possibile che fosse lui? La sua morte era fuori discussione. Ma profezie enigmatiche non erano mancate nella sua predicazione: «Distruggete questo tempio – aveva ad esempio detto una volta – e in tre giorni lo farò risorgere». Chiunque fosse quell’uomo, era bello ascoltarlo e il cuore si struggeva alle sue parole. Era come una tenebra che andava rischiarandosi, come quella della notte prossima alla luce dell’aurora.

Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andar oltre. Perderlo proprio ora appariva loro inaccettabile. Che chiarisse l’enigma. O, almeno, che il balsamo della sua parola continuasse ancora per un po’ a scendere sulle ferite del loro cuore. Fu per questo che insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Per un curioso paradosso quelle parole, mentre descrivevano l’esteriore calare della notte nei tramonti infuocati sulle alture della Giudea, evocavano ai due le tenebre scese dentro di loro, l’assenza di futuro che era seguita al rantolo del Profeta abbandonato sulle braccia della Croce. Forse perciò egli cedette alla richiesta con remissività, quasi per un atto di tenerezza compassionevole ed entrò per rimanere con loro. La locanda era semplice, una delle tante disposte ad accogliere i viandanti per il ristoro del cibo e del riposo sulle strade polverose della terra d’Israele al termine del giorno. Una volta a tavola, lo Straniero prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Era il gesto del capofamiglia nella cena pasquale. Era il gesto che Lui aveva compiuto per loro la sera di quell’ultima cena. Ed ora a compierlo era quello che avevano pensato fosse solo uno Straniero. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero: «Non ci ardeva forse il cuore in petto mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Ma egli sparì dalla loro vista. Non aveva detto alla donna, andata al sepolcro il mattino del giorno dopo il sabato: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre»? Non aveva promesso ai discepoli di precederli in Galilea? E al profeta Elia sul monte il Signore non era passato accanto fugace, come una “voce del silenzio”?

Storditi com’erano dall’emozione, cominciarono a ridirsi l’uno all’altro ciò che avevano vissuto con lui lungo la strada: al racconto si sovrapponevano le domande. Come avevano potuto non capire? Quelle parole, quella voce, la luce sulle Scritture… Perché non l’avevano riconosciuto subito? La tristezza a volte fa brutti scherzi, e ancor più la paura e la diffidenza verso l’altro. Ma ora la luce era così grande che – pur essendo notte, e perciò sconsigliabile il viaggio – decisero di partire senza indugio per far ritorno a Gerusalemme. Il tempo volò, tanto che quando giunsero era mattino e trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, mentre dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narrarono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. Da allora la loro vita fu cambiata per sempre. E con la loro lo fu la vita del mondo. Nulla sarebbe più stato lo stesso. Il fatto che Dio avesse fatto sua la morte e che così l’avesse vinta era la notizia più sconvolgente della storia, quella che avrebbe dato a tutti la speranza della vita. Perciò avrei voluto essere lì quel giorno, come il compagno di Cléopa: a quello Straniero fattosi compagno del cammino, come tanti altri nel tempo, più di me e meglio di me, ho dato la mia fede e la vita. Anche a me è accaduto che le sue parole facessero ardere il cuore. Perciò, anche per me tutto è cambiato allora. Nella locanda di Emmaus si sono aperti anche i miei occhi: e quel giorno qualunque è diventato per me, come per tanti, il giorno più importante della storia, il giorno dell’incontro che ti dà luce per vivere e per morire e la speranza di vincere la morte in te e in tutti, per sempre. È il giorno che ha illuminato la vita dei santi, da Paolo ad Agostino, da Francesco a Tommaso, da Domenico a Ignazio di Loyola, da Alfonso de’ Liguori a Madre Teresa di Calcutta, fino agli innumerevoli, nascosti profeti della carità, che nelle situazioni più difficili danno la vita per chi manca di tutto, o agli innamorati servitori del Vangelo, che lo ascoltano per vivere di esso ed annunciarlo fino agli estremi confini della terra… Un’incontro, quello di Emmaus, che le cronache non riportano, ma che la testimonianza di fede dell’evangelista Luca alla fine del suo Vangelo ha saputo trasmetterci con freschezza singolare, tanto che il cuore di chi crede vi si può riconoscere, fino a identificarsi con l’innominato compagno di Clèopa, fino a percepire quel tramonto, vissuto un giorno di duemila anni fa, in una locanda sulle alture della Giudea, come l’alba del nuovo inizio di tutto, per tutti…

(Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, in Il Sole 24 Ore (23 agosto 2009).

 

Non andare via, Signore

 Signore, se la porta del mio cuore dovesse restare chiusa un giorno,

abbattila ed entra, non andare via.

Se le corde del mio cuore, non dovessero cantare il tuo nome un giorno,

ti prego aspetta, non andare via.

Se non dovessi svegliarmi al tuo richiamo un giorno,

svegliami con la tua pena… non andare via.

Se un altro sul tuo trono io dovessi porre un giorno,

tu, mio Signore eterno, non andare via.

(Rabindranath Tagore).

 

Da chi andremo?

«Da chi altri andremo, Signore?

Solo Tu hai parole di vita»,

eppur sempre la strada porta a fuggire dal monte del sangue.

Il sepolcro ha pesante la pietra

e il tuo fianco è squarciato per sempre:

come dunque possiamo capire il mistero, se tu non lo sveli?

Mentre il sole già volge al declino,

sii ancora il viandante che spiegale Scritture

e ci dona il ristoro con il pane spezzato in silenzio.

Cuore e mente illumina ancora

perché vedano sempre il tuo volto

e comprendano come il tuo amore

ci raggiunge e ci spinge più al largo.

A te, Cristo, risorto e vivente, dolce amico che mai abbandoni

con il Padre e lo Spirito santo

noi cantiamo la gloria per sempre.

(Inno di D.M. Turoldo, Neanche Dio può stare solo, Piemme, Casale Monferrato 1991, pp. 107-108).

 

Resta con noi, Signore

Resta con noi, Signore Gesù, perché senza di te il nostro cammino rimarrebbe immerso nella notte. Resta con noi, Signore Gesù, per condurci sulle vie della speranza che non muore, per nutrirci con il pane dei forti che è la tua parola.

Resta con noi sino all’ultima sera, quando chiusi i nostri occhi, li riapriremo davanti al tuo volto trasfigurato dalla gloria e ci troveremo tra le braccia del Padre nel regno del divino splendore.

Su questa strada sempre pellegrini – peso di solitudine nel cuore – vienici incontro tu, il Vivente tra i morti, e spezzaci il pane dell’amore. Su questa lunga strada dove, al tramonto, si stendono le nostre ombre, accendi, o Viandante avvolto di mistero, il vivido bivacco della tua parola e sapremo dal suo bruciante ardore che più viva, più forte la nostra Speranza è risorta.

Sì, apri la nostra mente a comprendere la Parola che sola può dissipare i dubbi che ancora sorgono nel nostro cuore. Quante volte anche noi, incapaci di riconoscerti, ti abbiamo rinnegato! Ma tu, il Giusto, con mite patire ti sei fatto vittima di espiazione per i nostri peccati. Ora non lasciarci esitanti e turbati: la tua presenza infonda in noi la pace, il tuo spirito rischiari il nostro sguardo e ci renda gioiosi testimoni del tuo amore.

Accogliete Cristo per essere da lui accolti

Fratelli carissimi, avete sentito che il Signore apparve lungo il cammino a due discepoli che non ancora credevano, ma che tuttavia parlavano di lui, ma non mostrò loro un aspetto per il quale fosse possibile riconoscerlo. Il Signore agì dunque all’esterno mostrandosi agli occhi del corpo in accordo con quando accadeva loro nell’intimo, agli occhi dell’anima. Essi infatti nell’intimo amavano e dubitavano e, d’altro lato, il Signore all’esterno era presente, ma non mostrava la sua identità. Stette con loro che parlavano di lui, ma poiché dubitavano, nascose l’aspetto in base al quale avrebbero potuto riconoscerlo. Parlò con loro, rimproverò l’ostinazione della loro mente, svelò i misteri della Scrittura che si riferivano a lui e, tuttavia, poiché nei loro cuori era ancora un pellegrino rispetto alla loro fede, finse di andare più lontano. […] Dovevano essere messi alla prova per vedere se, sebbene non fossero ancora pronti ad amarlo come Dio, erano in grado di amarlo come pellegrino. Ma poiché questi due discepoli con i quali camminava la Verità non potevano sottrarsi alla carità, gli offrirono accoglienza come a un pellegrino. Perché diciamo «gli offrirono» dal momento che sta scritto: «Lo costrinsero» (Lc 24,29)? Da questo esempio si ricava che i pellegrini non devono essere soltanto invitati, ma attirati all’ospitalità. I due discepoli preparano la mensa, offrono i cibi e allo spezzare del pane riconoscono quel Dio che non avevano riconosciuto quando spiegava le Scritture. Veniamo illuminati non tanto ascoltando i precetti, ma mettendoli in pratica. Non sono stati illuminati dunque nell’ascoltare i precetti di Dio, ma lo sono stati nel metterli in pratica poiché sta scritto: «Non quelli che ascoltano la Legge sono giusti al cospetto di Dio, ma quelli che la mettono in pratica saranno giustificati» (Rm 2,13). Chi dunque vuole comprendere ciò che ha ascoltato si affretti a mettere in pratica quello che già è riuscito a capire. Vedi, il Signore non fu riconosciuto mentre parlava, accettò di essere riconosciuto mentre mangiava. Perciò, fratelli carissimi, amate l’ospitalità, amate le opere di carità. Per questo Paolo dice: «Si pratichi fra voi la carità fraterna e non vogliate dimenticare l’ospitalità. Grazie ad essa alcuni furono graditi avendo accolto come ospiti degli angeli» (Eb 13,1-2). E Pietro scrive: «Siate ospitali gli uni verso gli altri, senza mormorare» (1Pt 4,9). E la Verità stessa dice: «Sono stato forestiero e mi avete accolto» (Mt 25,35). […] Accogliete Cristo alla vostra mensa per poter essere da lui accolti nel banchetto eterno. Offrite ora ospitalità a Cristo pellegrino, affinché nel giorno del giudizio non siate stranieri e ignoti a Lui, ma vi accolga fra i suoi nel Regno, con l’aiuto di chi vive e regna, Dio nei secoli dei secoli.

Amen.

(GREGORIO MAGNO, Omelie sui vangeli 23,1-2, in Opere di Gregorio Magno, pp. 294-296).

 

Preghiera

Signore Gesù, grazie perché ti sei fatto riconoscere nello spezzare il pane. Mentre stiamo correndo verso Gerusalemme e il fiato quasi ci manca per l’ansia di arrivare presto, il cuore ci batte forte per un motivo ben più profondo.
Dovremmo essere tristi, perché non sei più con noi. Eppure ci sentiamo felici. La nostra gioia e il nostro ritorno frettoloso a Gerusalemme, lasciando il pasto a metà sulla tavola, esprimono la certezza che tu ormai sei con noi.
Ci hai incrociati poche ore fa su questa stessa strada, stanchi e delusi. Non ci hai abbandonati a noi stessi e alla nostra disperazione. Ci hai smosso l’animo con i tuoi rimproveri. Ma soprattutto sei entrato dentro di noi. Ci hai svelato il segreto di Dio su di te, nascosto nelle pagine della Scrittura. Hai camminato con noi, come un amico paziente. Hai suggellato l’amicizia spezzando con noi il pane, hai acceso il nostro cuore perché riconoscessimo in te il Messia, il Salvatore di tutti.
Quando, sul far della sera, tu accennasti a proseguire il tuo cammino oltre Emmaus, noi ti pregammo di restare.
Ti rivolgeremo questa preghiera, spontanea e appassionata, infinite altre volte nella sera del nostro smarrimento, del nostro dolore, del nostro immenso desiderio di te. Ma ora comprendiamo che essa non raggiunge la verità ultima del nostro rapporto con te. Per questo non sappiamo diventare la tua presenza accanto ai fratelli.
Per questo, o Signore Gesù, ora ti chiediamo di aiutarci a restare sempre con te, ad aderire alla tua persona con tutto l’ardore del nostro cuore, ad assumerci con gioia la missione che tu ci affidi: continuare la tua presenza, essere vangelo della tua risurrezione.
Signore, Gerusalemme è ormai vicina. Abbiamo capito che essa non è più la città delle speranze fallite, della tomba desolante. Essa è la città della Cena, della Croce, della Pasqua, della suprema fedeltà dell’amore di Dio per l’uomo, della nuova fraternità. Da essa muoveremo lungo le strade di tutto il mondo per essere autentici “Testimoni del Risorto”. Amen»

(Carlo Maria Martini, Partenza da Emmaus, Centro Ambrosiano di Documentazione e Studi Religiosi, Milano, 1983, pagg. 8-9).

 

Preghiera

Resta con noi, Signore Gesù, perché senza di te il nostro cammino rimarrebbe immerso nella notte. Resta con noi, Signore Gesù, per condurci sulle vie della speranza che non muore, per nutrirci con il pane dei forti che è la tua parola.

Resta con noi sino all’ultima sera, quando chiusi i nostri occhi, li riapriremo davanti al tuo volto trasfigurato dalla gloria e ci troveremo tra le braccia del Padre nel regno del divino splendore.

 

III Domenica di Pasqua   

 

Pontormo (Carucci, Jacopo detto 1494-1556), Cena in Emmaus,Firenze, Galleria degli Uffizi.

© 2014. Foto Scala Firenze – Su concessione Ministero Beni e Attività Culturali.

«”Rimani con noi, Signore, perché si fa sera” (cf. Lc 24,29). Fu questo l’invito accorato che i due discepoli, incamminati verso Emmaus la sera stessa del giorno della risurrezione, rivolsero al Viandante che si era ad essi unito lungo il cammino. Carichi di tristi pensieri, non immaginavano che quello sconosciuto fosse proprio il loro Maestro, ormai risorto. Sperimentavano tuttavia un intimo “ardore”, mentre Egli parlava con loro “spiegando” le Scritture. La luce della Parola scioglieva la durezza del loro cuore e “apriva loro gli occhi”. Tra le ombre del giorno in declino e l’oscurità che incombeva nell’animo, quel Viandante era un raggio di luce che risvegliava la speranza ed apriva i loro animi al desiderio della luce piena. “Rimani con noi”, supplicarono. Ed egli accettò. Di lì a poco, il volto di Gesù sarebbe scomparso, ma il Maestro sarebbe “rimasto” sotto i veli del “pane spezzato”, davanti al quale i loro occhi si erano aperti» (Giovanni Paolo II, Mane nobiscum Domine 1).
Jacopo Carucci, più noto come il Pontormo, con il suo stile artistico inconfondibile colloca l’episodio evangelico in un tempo che appare come sospeso. Il gesto benedicente di Gesù, posto frontalmente al centro del dipinto che presenta uno sfondo scuro e profondo, attira immediatamente l’attenzione dello sguardo. Al realismo degli oggetti e del pane posti sulla tavola fa da contrappunto l’atmosfera che caratterizza l’intero dipinto. I discepoli non hanno ancora riconosciuto nel viandante che aveva percorso con loro un tratto di strada Gesù Risorto.
L’artista raffigura invece proprio l’istante in cui Gesù sta per spezzare il pane e in cui si aprirono loro gli occhi e riconobbero il Signore. L’apparizione miracolosa di Gesù incontra perciò i gesti ordinari dei personaggi implicati nella scena. I due discepoli sono seduti su semplici sgabelli di legno ed hanno i piedi nudi. Uno di loro è intento a versare del vino in un calice di vetro, l’altro si accinge a tagliare il pezzo di pane che ha in mano. Sono presenti anche altri personaggi, alcuni monaci certosini, che assistono alla scena che avviene sotto lo sguardo divino, poiché nello spezzare il pane la luce soprannaturale della verità raggiunge i discepoli.
 
Il verismo voluto dall’artista incontra la solenne e raffinata gestualità del Cristo che fissa l’osservatore e lo coinvolge nella sua azione, rendendo contemporaneo a tutte le generazioni cristiane l’evento salvifico e chiamando a raccolta, attorno a quella mensa, anche i discepoli delle future generazioni.
Ancora oggi la Chiesa prega perché nella fractio panis possa riconoscere il Cristo crocifisso e risorto che apre il cuore dei suoi discepoli all’intelligenza delle Scritture e si rivela ai suoi nell’atto dello spezzare il pane (cf. Preghiera Colletta). Tra le prove, le tribolazioni e le persecuzioni della storia la Chiesa fa esperienza dell’incontro con il Risorto che riconosce lungo il cammino che condivide con l’umanità intera e, confortata dalla sua presenza, si rivolge al suo Signore nella preghiera: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno già volge al declino» (
Lc 24,29
).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA III DOMENICA DI PASQUA (A)

PASQUA DI RISURREZIONE

Prima lettura: Atti 10,34a.37-43

In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui.  E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.

E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».

 

Il discorso in casa di Cornelio è l’ultimo dei discorsi cristologici di Pietro nel libro degli Atti (cf. 2,12-36; 3.11-26; 4,8-22).

    La catechesi su Gesù è ancora sulle sue linee essenziali: «consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret», cioè investito dello Spirito di Dio (battesimo) e insignito di particolari poteri taumaturgici Gesù si era presentato a Israele. Partendo dalla Galilea aveva percorso «tutta la Giudea».

    L’opera di Gesù è riassunta da pochi verbi; qualcuno di meno di quelli di Mt 4,23: «passò» per le contrade della Palestina, «beneficando» e «risanando» gli uomini dalle possessioni diaboliche ovvero dalle loro malattie. Sono omessi i due verbi di Matteo «predicava» e «insegnava nelle loro sinagoghe».

    Ma il suo agire dimostrava che «Dio era con lui», in altre parole era l’«Emmanuele» predetto dal profeta Isaia (7,14), traduceva con i fatti la bontà di Dio in mezzo agli uomini.

     Gesù ha svolto la sua missione davanti a tutto il popolo poiché davanti a tutti ha parlato e compiuto i suoi prodigi, ma per quanto riguarda il prodigio conclusivo e dimostrativo della sua missione, la risurrezione dai morti, ha voluto un gruppo scelto di testimoni con i quali si è a lungo trattenuto, dando sufficienti prove della realtà del suo nuovo stato di vita.

     Gli apostoli sono quelli che possono attestare la sopravvivenza di Gesù dopo che i nemici l’avevano messo in croce. Essi l’hanno visto prima di morire e l’hanno rivisto vivo dopo la morte; possono perciò assicurare che è risorto, che non è rimasto nella tomba.

     La sorte di Gesù si è rovesciata; egli è stato giudicato e condannato, ma dalla risurrezione è diventato lui il giudice di tutti, di quanti sono attualmente vivi e di quelli che sono già morti. Tutti si sono confrontati o saranno chiamati a confrontarsi con lui per ricevere il premio o la condanna delle loro buone o cattive azioni. Se si vuole evitare un incontro spiacevole con lui occorre credere, cioè ripercorrere la strada che egli ha percorso.

     Pietro sta parlando in casa di Cornelio, un ufficiale romano, e ad ascoltarlo sono i suoi familiari, alcuni «congiunti e amici intimi» (10,14), tutta gente che non faceva parte del popolo della promessa, quindi della salvezza, ma si trattava di una discriminazione che con Gesù era destinata a cadere.

     L’apostolo l’aveva già intravisto nella visione avuta a Joppe (10,9-15) e compreso meglio dal racconto di Cornelio (10,30-35); ora ne ha una conferma dal cielo mentre gli è dato costatare che lo Spirito di Dio sta discendendo su coloro che l’ascoltavano, per la maggior parte incirconcisi.

     Era la Pentecoste dei gentili che richiamava quella sui rappresentanti d’Israele che era già avvenuta (At 2,1-12).

 

Seconda lettura: Colossesi 3,1-4

Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria. 

 

2  La comunità di Colossi è alle prese con i primi confronti o le prime contaminazioni con la cultura del mondo circostante, giudaico e greco.

     I giudei dell’Asia minore, alla pari dei greci, parlano di potenze cosmiche intermedie tra Dio e gli uomini, di signorie, potestà, dominazioni. Per l’autore esse possono rimanere solo che siano subordinate all’unico Signore, Cristo (1,15-20; 2,9-15).

     Gesù ha affrancato l’uomo da qualsiasi giogo, come lo ha reso libero da rituali inutili, da «feste, noviluni, sabati», «cibi e bevande» (2,8,16-17).

     Il cristiano è chiamato a ripercorrere il cammino di Cristo, un’esperienza di morte e di vita, di mortificazione e di risurrezione. Si tratta di morire agli «elementi di questo mondo», di finire con tutte quelle pratiche, astinenze imposte in nome di un’«affettata», falsa «religiosità, umiltà e austerità riguardo al corpo» (2,23).

     Il cristiano è un uomo nuovo e il suo mondo non è tanto di quaggiù, quanto del cielo, di lassù. Nel battesimo egli è disceso nel fonte e risalendo ha lasciato nell’acqua la sua vecchia appartenenza con tutte le sue inclinazioni peccaminose e ha assunto l’immagine del Cristo glorioso.

     Egli vive ancora sulla terra ma è un essere di un altro mondo, per questo deve assumere comportamenti degni della sua nuova condizione. Occorre «cercare» e «pensare alle cose di lassù», ciò che è consono con il mondo e il modo di vivere del Cristo risorto.

     L’autore non specifica quali sono le cose di lassù e quali quelle della terra, ma lo dice subito dopo quando chiede di «mortificare quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi» che designa con il termine «vizi». E aggiunge: «Voi deponeste tutte queste cose, ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene» (3,5-8). Tutte azioni che appartenevano, è detto sinteticamente, all’«uomo vecchio» in contrapposizione al l’«uomo nuovo che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore» (3,9-10).

     I comportamenti dell’uomo nuovo che si avvicina a quello celeste sono invece caratterizzati da «sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Al di sopra di tutto vi è poi la carità che è il vincolo di perfezione» (3,12-14).

     La vita cristiana è sempre un preludio di quella celeste che è segnata dal Cristo glorificato. Allora verrà sublimata anche quella di coloro che credono in lui.

     La vita terrestre si spiega solo alla luce della sua apoteosi celeste.

 

Vangelo: Giovanni 20,1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.  Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».

Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.  Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.  Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

 

Esegesi 

    Gli evangelisti sinottici parlano delle donne che si recano al sepolcro di buon mattino per compiere i riti sul cadavere di Gesù; Giovanni incentra l’attenzione su una donna particolare: Maria di Magdala. Ella trova la pietra rimossa e ne deduce che il corpo è stato trafugato e corre ad avvertire Pietro e il discepolo prediletto, che la tradizione identifica con l’evangelista Giovanni.

     Questi si portano immediatamente al sepolcro, al quale giunge per primo il discepolo più giovane. Egli da uno sguardo fugace all’interno, vede le bende abbandonate, ma, per deferenza verso il più anziano, non entra e lo aspetta sulla soglia. Pietro entra nella cella mortuaria e vede le bende e il sudario «avvolto» a parte. Il vangelo di Giovanni non parla delle sue reazioni. Luca (24,12) dice che tornò indietro pieno di stupore (thaumazo in greco, verbo che indica grande perplessità).

     «Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8). Che cosa vide? non è il vedere di Tommaso (Gv 21,29), ma il vedere interiore. Egli di fronte al sepolcro vuoto non pensa, come la Maddalena, che hanno trafugato il cadavere o non sospende il giudizio come Pietro, ma crede sulla Parola di Gesù, a sua volta fondata sulla tradizione delle Scritture ebraiche. Il frutto della comprensione delle Scritture è il credere; non, però, un frutto «automatico», ma dono dello Spirito, che raggiunge le persone in modo misterioso ed è accolto da ciascuno in maniera diversa. Anche la Maddalena e Pietro avevano avuto comunanza con Gesù e conoscevano le Scritture, ma a loro non basta ancora per credere dinanzi al sepolcro vuoto. Essi «non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20,9).

 

Meditazione 

    L’annotazione temporale di Gv 20,1, con cui inizia il testo evangelico proclamato nel giorno di Pasqua, ci offre un simbolico aggancio con la veglia notturna in cui abbiamo ripercorso il cammino della storia della salvezza per giungere a contemplare il volto del Cristo risorto. L’annuncio pasquale è risuonato in tutta la sua straordinaria forza e ha squarciato le tenebre: «Cristo è risorto dai morti – così canta il tropario della liturgia bizantina – e con la morte ha calpestato la morte, donando la vita a coloro che giacevano nei sepolcri». Ora siamo anche noi nel «primo giorno della settimana» e come credenti siamo chiamati ad entrare nel dinamismo di questo giorno che segna il passaggio dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce: «la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo… – canta il salmo 117 – Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo».

     La liturgia della Parola di questo giorno richiama con forza la nostra realtà di testimoni del Risorto: la Pasqua di Cristo, quel giorno mirabile che solo il Signore ha potuto fare, diventa il ritmo del nostro tempo. Camminare così nella esistenza quotidiana è veramente passare dalla morte alla vita, è fare Pasqua ogni giorno e vivere sempre radicati sul terreno della nostra fede. Potremmo allora cogliere nelle tre letture altrettante modalità che caratterizzano la testimonianza del discepolo di Cristo in rapporto alla fede pasquale: una testimonianza che diventa annuncio (At 10,37-43), una testimonianza che si trasforma in attesa (Col 3,1-4) e una testimonianza che si nutre di fede (Gv 20,1-9).

     La testimonianza che Pietro offre nella casa del pagano Cornelio è mediata da una parola proclamata, gridata, da un annuncio: «questa è la Parola che egli ha inviato ai figli di Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti» (At 10,36). La parola inviata e l’evangelo della pace hanno un volto: Gesù. E Pietro concentra la sua attenzione sul racconto di Gesù, un vangelo in miniatura in cui vengono scandite le tappe essenziali della vicenda terrena di Gesù di Nazaret, «il quale passò beneficando e risanando… perché Dio era con lui» (v. 38). Il nucleo centrale di questo evangelo è scandito da tre verbi che rivelano la dinamica del mistero pasquale (il centro del kerigma proclamato dalla comunità apostolica): «lo uccisero appendendolo ad una croce, ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che si manifestasse… a testimoni prescelti da Dio, a noi…» (vv. 39-41). L’incontro personale con il Risorto (che Pietro caratterizza attraverso una comunione di mensa: «abbiamo mangiato e bevuto con lui», v. 41) dona autorevolezza alla testimonianza e questa diventa il fondamento dell’annuncio: «ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio» (v. 42). Si diventa annunciatori del Risorto e della sua signoria sulla storia, della vita nuova che egli comunica, solo perché si è testimoni di Lui.

     Ma nella vita quotidiana del credente, la testimonianza del Risorto acquista una paradossale profondità: si trasforma in quella luminosa promessa espressa con la parola di Paolo in Col 3,3-4: «…voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria». Commentando questo versetto, D. Bonhoeffer dice: «Vicinissimo a noi, là dove, nel suo maestoso nascondimento, Dio è tutto in tutto, dove il Figlio siede alla destra del Padre, là, il miracolo dei miracoli, si trova preparata la nostra vera vita. La nostra vita è nascosta con Cristo in Dio: sì, noi viviamo già come a casa nostra, al cuore stesso del nostro esilio». Paolo indica così al credente in quale direzione deve orientare la propria esistenza, la propria ricerca, in quale luogo deve fissare lo sguardo del proprio cuore: «se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù… rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (vv. 1-2). Noi sappiamo che il nostro sguardo si lascia catturare e trascinare verso il basso: ed è proprio lì che noi incontriamo i tanti luoghi di morte che riempiono i nostri occhi e il nostro cuore di tristezza. E alla fine, procedere con gli occhi bassi vuol dire camminare senza

direzione. È necessaria una meta su cui fissare lo sguardo. E Paolo ci dice che questa meta è in alto, verso un luogo simbolico, lì «dove è Cristo seduto alla destra di Dio» (v. 1), lì dove il Signore Gesù ci ha preparato un posto, nella casa del Padre. Cercare le cose di lassù vuol dire desiderare questo luogo di comunione, sentirlo come la nostra vera casa, dove siamo figli liberi e amati.

     Il testo di Gv 20,1-9 ci presenta tre modi di reagire di fronte a un segno misterioso: la tomba vuota. In modi differenti ci offrono una testimonianza che precede l’incontro con il Risorto, una testimonianza che si radica sulla fede. Maria di Magdala è la prima che si avvicina al sepolcro «quando era ancora buio» (v. 1 ). È la prima che ha il coraggio di lasciarsi provocare da una realtà che conserva ancora tutta la dimensione dell’assurdo e dello scandalo. Maria è stata ai piedi della croce; ha resistito di fronte allo spettacolo della croce, ha sopportato il silenzio della morte (cfr. 19,25). È ancora buio attorno a lei: c’è ancora pau-ra e angoscia, fallimento e incomprensione. È ancora buio dentro di lei: c’è solitudine e smarrimento. Ma Maria ha un desiderio: cercare il suo Maestro (cfr. 20,13.16). E chi cerca ama. E anche se il suo amore deve maturare nell’incontro con un volto inatteso e nuovo, diverso da quello che lei vorrebbe vedere e trattenere, tuttavia è vero amore: si sente coinvolta completamente da esso, sente che la sua vita è vuota senza la presenza di Cristo. Pietro è il credente la cui fede è continuamente chiamata a compiere salti di qualità, a percorrere vie nuove; e per questo a volte fatica scontrandosi con la propria debolezza e la pro-pria presunzione. Nel suo cuore c’è la ferita bruciante del rinnegamento: non ha saputo vegliare un’ora sola con Gesù, non ha sopportato la vista dello scandalo della croce. Ma nel suo cuore c’è come una nostalgia: c’è il ricordo di quel giorno in cui, avendo avuto la possibilità di abbandonare il suo maestro, non l’ha fatto; anzi ha detto «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,69). Ma, soprattutto, nel cuore di Pietro c’è il ricordo della fiducia che Gesù ha posto in lui: lo ha fatto testimone in mezzo ai fratelli, nonostante tutto! E dopo il rinnegamento, con il suo sguardo di perdono, Gesù rinnoverà questa fiducia (cfr. 21,15-19). E ora Pietro corre con questi pensieri, con questa fede e questi dubbi, con queste paure ed esitazioni. E forse per questo non riesce a correre forte: la sua corsa non è incerta, sa dove andare e sa cosa vuole vedere; ma questa corsa è appesantita, affaticata. Ha bisogno di incontrare nuovamente quello sguardo dal quale aveva avuto inizio il suo cammino e con il quale verrà nuovamente confermato nella sua fede. Ed infine, il discepolo amato. È colui che sa vedere e per questo crede. La sua corsa è veloce; è la corsa di chi ha lo sguardo interiore penetrante, di chi intuisce una novità, di chi si lascia abitare dal mistero. Prima ancora di incontrare il Risorto, alla vista delle bende e del sudario, il suo sguardo va oltre: supera l’abisso dell’assenza, afferma, nel vuoto della tomba, che Cristo ha vinto ciò che appartiene al tempo, sa decifrare il linguaggio dei segni, scopre una misteriosa presenza. E per que-sto diventa il testimone nella lunga attesa perché, con il suo sguardo che va oltre, potrà indicare ai discepoli questa presenza finché il Cristo ritorni (cfr. 21,22).

     Maria, colei che ama; Pietro, il credente; il discepolo amato, colui che vede e vigila: tre modi diversi di camminare incontro al Risorto e di testimoniarlo nella fede. Ma tutti uniti da un unico desiderio: quello dell’incontro. E capaci di lasciarsi coinvolgere da questo incontro, capaci di essere testimoni della risurrezione; perché capaci di lasciare convertire la loro vita dal Risorto. Non ogni esistenza è liberata dalla morte, sottratta dalla vanità, ma soltanto quella che ripercorre il cammino tracciato dal Crocefisso e Risorto; solo una vita donata conduce alla risurrezione. Una vita gelosamente trattenuta non vince la morte, ma va incontro a una seconda morte. A Pasqua si celebra la vittoria di un preciso modo di vivere: di colui che ama il Risorto, di colui che crede nel Risorto, di colui che sa vedere oltre, nella luce del Risorto

 

Immagine della Domenica

Moral de Hornuez (Segovia) – Pasqua 2016

 


Pasqua

«Un forte vento toglierà la pietra

anche al nostro sepolcro.

Il futuro è già presente

e viene incontro,

luce adorna come fiori le piaghe,

‘resurrezione’ ha nome il nostro giorno».

(David M. Turoldo)

 

Preghiere e racconti

 

La lavanda dei piedi

In una breve e improvvisata omelia, il Santo Padre ha parlato del gesto di Gesù di lavare i piedi come un’eredità a noi trasmessa. Francesco ha ricordato che “Lui è Dio e si è fatto servo, servitore nostro e questa è l’eredità” e ha spiegato che “anche voi dovete essere servitori nell’amore”.

Il Papa ha ricordato che Gesù compie questo gesto di lavare i piedi, “che è simbolico, lo fanno gli schiavi, i servi ai commensali”. Gesù, ha aggiunto, “compie un lavoro, un servizio da schiavo, da servo. Questo lo lascia come eredità tra noi”. Per questo, ha osservato, “dobbiamo essere servitori gli uni degli altri”.

Francesco ha aggiunto che, in questo giorno, in cui la Chiesa commemora l’Ultima Cena, “fa anche, nella cerimonia, questo gesto di lavare i piedi, che ci ricorda che noi dobbiamo essere servi gli uni degli altri”.

In conclusione, il Santo Padre ha spiegato che avrebbe poi fatto quel gesto ma ha invitato tutti a pensare nel proprio cuore agli altri, “all’amore che Gesù ci dice dobbiamo avere per gli altri e pensare anche a come possiamo servire meglio le altre persone, perché così ha voluto Gesù per noi”.

 (Papa Francesco, La lavanda dei piedi è un’eredità che Gesù ci trasmette, 17 Aprile 2014)

 

La Pasqua secondo Papa Francesco

– “Colui che esisteva prima che Abramo fosse nato, che volle diventare vicino nel cammino con noi, il Buon Samaritano che ci sceglie sconfitti dalla vita e dalla nostra labile libertà, che morì e fu sepolto, e il suo sepolcro sigillato, è risorto e vive per sempre”.

Sono queste le parole, pronunciate dall’allora arcivescovo di Buenos Aires durante l’omelia di Pasqua del 2000, con le quali si apre l’editoriale dell’ultimo numero de La Civiltà Cattolica.

Un po’ come è stato fatto per lo scorso Natale, la celebre rivista dei gesuiti ha raccolto alcune parole che il Card. Bergoglio ha pronunciato in occasione delle feste pasquali. Queste espressioni sono diventate poi “parole-chiave” del pontificato del Papa “venuto dalla fine del mondo”.

Una prima riflessione si svolge sulla pietra che ostruiva l’ingresso del sepolcro. Nel pensiero del Card. Bergoglio, questa pietra rappresenta il fallimento delle attese, delle speranze di ogni singolo uomo e di tutti gli uomini. Si tratta di un ostacolo che sembra insormontabile e che induce l’uomo a chiedersi chi potrà mai rimuoverlo.

La riflessione del futuro pontefice si sofferma poi sul grido di Gesù sulla croce e sul terremoto. Secondo Bergoglio, l’ultimo grido di Gesù ha permesso al centurione di fare la sua professione di fede, ad alcuni di manifestare il proprio affetto verso Gesù in un momento così doloroso: è come se, anche in mezzo al massimo del male, ci potesse essere ancora spazio per un barlume di bene.

Per quanto riguarda il terremoto, i vangeli ci parlano di due eventi di questo genere: il primo avvenuto durante la morte di Gesù, il secondo dopo la sua resurrezione: esso è allo stesso tempo angoscia per il dramma dell’esistenza e scuotimento profondo dell’essere umano quando accoglie in se stesso il mistero della morte e resurrezione.

Un altro elemento su cui l’arcivescovo di Buenos Aires si è soffermato è il movimento. L’evento della resurrezione mette tutti in moto: i vangeli ci mostrano un andirivieni “verso il” e “dal” sepolcro. Dunque non si tratta di contemplare un evento distante nel tempo, perché questo avvenimento “non è relegato ad una storia lontana che è accaduta duemila anni fa…, è una realtà che continua a darsi ogni volta che ci mettiamo in cammino verso Dio e ci lasciamo da Lui incontrare”.

La formazione gesuita del Card. Bergoglio lo ha portato a fare un’analisi introspettiva dei protagonisti dei brani della resurrezione. Egli in particolare si è soffermato davanti alla paura delle donne davanti alla tomba vuota: “Si tratta di quella paura istintiva ad ogni speranza di felicità e di vita, la paura che non sia vero quello che sto vivendo o quello che mi dicono, la paura della gioia che ci è donata da una effusione di gratitudine”.

(La Pasqua secondo Papa Francesco, Un editoriale di “La Civiltà Cattolica” raccoglie alcune parole pronunciate dal card. Bergoglio durante le feste pasquali).

 

Quel seme di Risurrezione che si scorge in un sorriso

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro.

Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte (…).

Maria di Magdala, in quell’ora tra il buio e la luce, tra la notte e il giorno, quando le cose non si vedono ma supplisce il cuore, va’ sola, e non ha paura. Come la sposa del Cantico: lungo la notte cerco l’amato del mio cuore. L’alba di Pasqua è piena di coloro che più forte hanno fatto l’esperienza dell’amore di Gesù: Maria di Magdala, il discepolo amato, Pietro, le donne.

Il primo segno è così umile: non un’apparizione gloriosa, ma un sepolcro vuoto nel fresco dell’alba. È poco e non è facile da capire. E Maria non capisce, corre da Pietro non per annunciare la risurrezione del Maestro ma per denunciare una manovra dei nemici, un ulteriore dolore: hanno portato via il Signore. Non abbiamo più neanche un corpo su cui piangere.

Tutti corrono in quel primo mattino: Maria, Pietro, Giovanni… Non si corre così per una perdita o per un lutto. Ma perché spunta qualcosa di immenso, fa capolino, urge il parto di una cosa enorme, confusa e grandiosa. Arrivano al sepolcro e li aiuta un altro piccolo segno: i teli posati, il sudario avvolto con cura. Se qualcuno avesse portato via il corpo, non l’avrebbe liberato dai teli o dal sudario. È stato altro a liberare la carne e la bellezza di Gesù dal velo oscuro della morte.

La nostra fede inizia da un corpo assente. Nella storia umana manca un corpo per chiudere in pareggio il conto delle vittime, manca un corpo alla contabilità della morte. I suoi conti sono in perdita. E questo apre una breccia, uno spazio di rivolta, un tuffo oltre la vita uccisa: la morte non vincerà per sempre. Anche se adesso sembra vincente: il male del mondo mi fa dubitare della Pasqua, è troppo; il terrorismo, il cancro, la corruzione, il moltiplicarsi di muri, barriere e naufragi; bambini che non hanno cibo, acqua, casa, amore; la finanza padrona dell’uomo mi fanno dubitare.

Ma poi vedo immense energie di bene, donne e uomini che trasmettono vita e la custodiscono con divino amore; vedo giovani forti prendersi cura dei deboli; anziani creatori di giustizia e di bellezza; gente onesta fin nelle piccole cose; vedo occhi di luce e sorrisi più belli di quanto la vita non lo permetta. Questi uomini e queste donne sono nati il mattino di Pasqua, hanno dentro il seme di Pasqua, il cromosoma del Risorto.

Perché Cristo non è semplicemente il Risorto. Egli è la Risurrezione stessa, è l’azione, l’atto, la linfa continua del risorgere, che fa ripartire da capo la vita, la conduce di inizio in inizio, trascinandola in alto con sé: forza ascensionale del cosmo verso più luminosa vita. E non riposerà finché non sia spezzata la tomba dell’ultima anima, e le sue forze non arrivino a far fiorire «l’ultimo ramo della creazione» (M. Luzi).

 

Per il mattino di Pasqua

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Andrò in giro per le strade

zuffolando, così,

fino a che gli altri dicano: è pazzo!

E mi fermerò soprattutto coi bambini

a giocare in periferia,

e poi lascerò un fiore                                    

ad ogni finestra dei poveri

e saluterò chiunque incontrerò per via

inchinandomi fino a terra.

E poi suonerò con le mie mani

le campane sulla torre

a più riprese

finché non sarò esausto.

E a chiunque venga

– anche al ricco – dirò:

siedi pure alla mia mensa

(anche il ricco è un povero uomo).

E dirò a tutti:

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

II

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Tutto è suo dono

eccetto il nostro peccato.

Ecco, gli darò un’icona

dove lui – bambino – guarda

agli occhi di sua madre:

così dimenticherà ogni cosa.

Gli raccoglierò dal prato

una goccia di rugiada

– è già primavera

ancora primavera

una cosa insperata

non meritata

una cosa che non ha parole;

e poi gli dirò d’indovinare

se sia una lacrima

o una perla di sole

o una goccia di rugiada.

E dirò alla gente:

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

III

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Non credo più neppure alle mie lacrime,

queste gioie sono tutte povere:

metterò un garofano rosso sul balcone

canterò una canzone

tutta per lui solo.

Andrò nel bosco questa notte

e abbraccerò gli alberi

e starò in ascolto dell’usignolo,

quell’usignolo che canta sempre solo

da mezzanotte all’alba.

E poi andrò a lavarmi nel fiume

e all’alba passerò sulle porte

di tutti i miei fratelli

e dirò a ogni casa: «pace!»

e poi cospargerò la terra

d’acqua benedetta in direzione

dei quattro punti dell’universo,

poi non lascerò mai morire

la lampada dell’altare

e ogni domenica mi vestirò di bianco.

IV

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

E non piangerò più

non piangerò più inutilmente;

dirò solo: avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso

poi non dirò più niente.

(D. M. TUROLDO, O sensi miei…, Milano, Rizzoli, 1993).

 

Il giorno di Pasqua

Restiamocene tranquilli, a occhi chiusi, un istante prima che si levi l’alba del giorno della Risurrezione. È ancora notte fonda, ma già in due o tre case di Gerusalemme c’è qualcuno in movimento. Lumi che si accendono, donne frettolose che si pettinano e vestono. Il Sabato è finito, ed una stella incomparabile, approfittando di tutto quel firmamento che sta abdicando attorno a lei, irradia il volto della nostra prima domenica. Il gallo del calzolaio si prepara ad accettare la sfida che gli è stata lanciata dal compagno dell’altra sponda del Cedron. Non è più la Pasqua degli Ebrei: è la Pasqua dei cristiani! Guardate, ascoltate! Nel silenzio ebraico, all’incrocio di tre strade, avviene un incontro di donne velate che si interrogano sottovoce: «Chi toglierà per noi la pietra dal sepolcro?». Chi la toglierà? Il profumo che esse portano con loro si incarica di rispondere! E così la speranza irresistibile che è nel loro cuore, e l’emanazione di ingredienti mistici nel cuor della notte, preparati dalle mani stesse dell’aurora. Secoli riuniti, santa composizione, la cui dilatazione progressiva come ha poco fa vinto il sonno, così ora si mette in marcia per trionfare della morte! Degli altri avvenimenti di quell’immensa mattina, l’eco smarrita e incoerente dei quattro Vangeli fa ancora risuonare, ad ogni nuova primavera, tutte le chiese della cristianità.

(P. CLAUDEL, Credo in Dio, Torino, SEI, 1964).

 

Sulle tracce di Gesù

II punto cruciale di questo cammino sta nel riconoscere che il Gesù risorto, che compie i desideri dell’uomo, è ancora il Gesù crocifisso, che ha affidato al Padre il compimento dei propri desideri. Ha uniformato la propria volontà alla volontà del Padre. Ha accettato di perdere la propria vita sulla croce, per compiere la missione di proclamare all’uomo peccatore e separato da Dio che il Padre non lo abbandona al fallimento, non lo rifiuta anche se è rifiutato; anzi gli dona il proprio Figlio, per mostrare che neppure il peccato impedisce a Dio di amare l’uomo e di attirarlo a sé in un gesto di perdono, che vince il peccato e la morte.

Tutto questo è implicitamente contenuto nel grido del discepolo prediletto, che rompe il silenzio del mattino: «E il Signore» (Gv 21,7). Questa espressione, infatti, rievoca le professioni di fede della Chiesa primitiva. Gesù, che si è umiliato nella morte, in obbedienza al Padre e per amore degli uomini, è stato glorificato dal Padre ed è stato proclamato Signore, cioè colui che reca pienamente in sé la forza d’amore e di salvezza che è propria di Dio stesso.

Gesù manifesta la sua capacità e volontà di comunicare agli uomini l’amore salvifico del Padre anche attraverso un gesto simbolico. Egli mangia con i discepoli.

L’umile, quotidiano gesto del mangiare è ricco di potenzialità espressive. Può prestarsi a esprimere la comunicazione di beni sempre più grandi e misteriosi, che approfondiscono il bene fisico del cibo e il bene psicologico della conversazione, scambiati durante il pasto comune.

Gesù assume questo gesto umano e lo carica di prodigiose potenzialità. Il pasto descritto nel cap. 21 di Giovanni non risulta essere un convito propriamente eucaristico. Rievoca però il convito di Jahvè col popolo degli ultimi tempi, annunciato nell’Antico Testamento. Si ricollega ai conviti messianici fatti da Gesù con i discepoli o con le folle. Allude all’ultima cena o ad altri conviti di Gesù risorto, che hanno caratteri più propriamente e chiaramente eucaristici e comportano quindi il trapasso del generico simbolismo conviviale nella reale comunione col Signore, che si rende presente trasformando il pane e il vino nella vita e misteriosa realtà del corpo donato e del sangue versato.

(C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, 258-259).

 

Cantiamo: Alleluia!

Bisogna che «questo corpo corruttibile» – non un altro – «si rivesta di incorruttibilità, e questo corpo mortale» – non un altro – «si rivesta di immortalità. Allora s’avvererà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria». Cantiamo: Alleluia! «Allora si avvererà la parola della Scrittura», parola di gente non più in lotta, ma in trionfo: «La morte è stata inghiottita nella vittoria». Cantiamo: Alleluia! «Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Cantiamo: Alleluia! (cfr. 1Cor 15,53-55). […] Cantiamo «Alleluia» anche adesso, sebbene in mezzo a pericoli e a prove che ci provengono sia dagli altri sia da noi stessi. Dice l’Apostolo: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze» (1Cor 10,13). Anche adesso, dunque, cantiamo «Alleluia». L’uomo resta ancora preda del peccato, ma Dio è fedele. E non si dice che Dio non permetterà che siate tentati, ma: «Non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze; al contrario, insieme con la tentazione, vi farà trovare una via d’uscita perché possiate reggere». Sei in balìa della tentazione, ma Dio ti farà trovare una via per uscirne e non perire nella tentazione. […]

Oh! Felice alleluia quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena sicurezza, senza alcun avversario! Lassù non ci saranno nemici, non si temerà la perdita degli amici. Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente tribolata, là da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speranza, lassù nella realtà; qui in via, lassù in patria. Cantiamo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere la gioia del riposo, ma per procurarci un sollievo nella fatica. Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia. Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, nella retta fede, in una vita buona.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 256,2-3, NBA XXXII/2, pp. 816-818).

 

Pasqua è…

Credere che anche i ladroni possono andare in Paradiso. Dico ladroni perché mi pare che aggiungere “buoni” sia pleonastico.

È credere che in tre giorni possono accadere cose che non sono accadute in trenta secoli.

È credere che i soldi non comprano mai nessuno e se  lo comprano è per distruggerlo.

È credere che anche gli amici veri possono tradire altri amici veri. La causa: troppa sicurezza nel reputarsi “veri”.

È accettare di iscrivere il dolore dentro la storia della nostra vita, accettarlo come compagno. C’è un dolore che annulla l’uomo e c’è un dolore che annulla gli errori dell’uomo.

È uscire dalla metropoli e percorrere i sentieri oltre le mura: sentieri di silenzio, faticosi, scoscesi, puliti, stretti.

È credersi Giuda e Pietro, cireneo e soldato, Pilato e Maddalena, sepolcro e giardino, terremoto e sindone, legno e sangue, mors e alleluja.

È smettere di farsi parola per incominciare a farsi pane, vino, mensa, cenacolo, fuoco, amore.

È incontrarsi con il giardiniere e scoprirlo Cristo; incontrarsi con un viandante e scoprirlo Cristo; incontrarsi con i vecchi compagni e scoprirli Cristo; incontrarsi con i pescatori e …mangiare con Cristo.

È asciguarsi il volto pieno di lacrime e …meravigliarsi che dalle lacrime possano nascere …le risurrezioni.

(Antonio Mazzi).

 

Andate presto, andate a dire…

Voi che l’avete intuito per grazia

correte su tutte le piazze

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che la notte è passata.

Andate a dire che per tutto c’è un senso.

Andate a dire che l’inverno è fecondo.

Andate a dire che il sangue è un lavacro.

Andate a dire che il pianto è rugiada.

Andate a dire che ogni stilla è una stella.

Andate a dire: le piaghe risanano.

Andate a dire: per aspera ad astra.

Andate a dire: per crucem ad lucem.

Voi, che lo avete intuito per grazia,

correte di porta in porta

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che il deserto fiorisce.

Andate a dire che l’Amore ha ormai vinto.

Andate a dire che la gioia non è sogno.

Andate a dire che la festa è già pronta.

Andate a dire che il bello è anche vero.

Andate a dire che è a portata di mano.

Andate a dire che è qui, Pasqua nostra.

Andate a dire che la storia ha uno sbocco.

Andate a dire: liberate, lottate.

Andate a dire che ogni impegno è un culto.

Voi, che lo avete intuito per grazia,

correte, correte per tutta la terra

a svelare il grande segreto di Dio.

Andate a dire che ogni croce è un trono.

Andate a dire che ogni tomba è una culla.

Andate a dire che il dolore è salvezza.

Andate a dire che il povero è in testa.

Andate a dire che il mondo ha un futuro.

Andate a dire che il cosmo è un tempio.

Andate a dire che ogni bimbo sorride.

Andate a dire che è possibile l’uomo.

Andate a dire, voi tribolati.

Andate a dire, voi torturati.

Andate a dire, voi ammalati.

Andate a dire, voi perseguitati.

Andate a dire, voi prostrati.

Andate a dire, voi disperati.

Andate a dire, comunque sofferenti.

Andate a dire, offerenti-sorridenti.

Andate a dire su tutte le piazze.

Andate a dire di porta in porta.

Andate a dire in fondo alle strade.

Andate a dire per tutta la terra.

Andate a dire gridandolo agli astri.

Andate a dire che la gioia ha un volto.

Proprio quello sfigurato dalla morte.

Proprio quello trasfigurato nella Pasqua.

Oggi, proprio ora, qui andate a dire.

Andate a dire.

Ed è subito pace.

Perché è subito Pasqua.

(Sabino Palumbieri, Via Paschalis, Elledici, 2000, pp. 28-29)

 

Quelli che fanno suonare le campane

Qualche mese fa, concludendo la visita pastorale in una parrocchia della mia diocesi, l’ultimo giorno andai in una scuola materna. C’erano tantissimi bambini di tre o quattro anni che si affollavano stupiti intorno a me: non mi conoscevano, mi vedevano come un personaggio esotico. La maestra chiese: “Bambini, sapete chi è il vescovo?”. Tutti diedero delle risposte. Uno disse: “E’ quello che porta il cappello lungo in testa”; un altro, chissà per quale associazione di immagini, disse una cosa bellissima che a me piacque tanto: “il Vescovo è quello che fa suonare le campane”. Forse mi aveva visto in processione, al suo paese, in qualche festa accompagnata dal tripudio delle campane. Il vescovo come colui che fa suonare le campane: è una definizione bellissima, forse poco teologica ma profondamente umana. Sarebbe bello che i vostri fedeli, i vostri amici, coloro che vi conoscono, potessero dare di voi una definizione così. Sarebbe bello che la gente dicesse di tutti noi che siamo “quelli che fanno suonare le campane”: le campane della gioia di Pasqua, le campane della speranza.

(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).

 

I macigni rotolati

Ricorrerò alla suggestione del macigno che la mattina di Pasqua le donne, giunte nell’orto, videro rimosso dal sepolcro. Ognuno di noi ha il suo macigno. Una pietra enorme, messa all’imboccatura dell’anima, che non lascia filtrare l’ossigeno, che opprime in una morsa di gelo, che blocca ogni lama di luce, che impedisce la comunicazione con l’altro. E’ il macigno della solitudine, della miseria, della malattia, dell’odio, della disperazione, del peccato. Siamo tombe alienate. Ognuna col suo sigillo di morte. Pasqua, allora, sia per tutti il rotolare del macigno, la fine degli incubi, l’inizio della luce, la primavera di rapporti nuovi, e se ognuno di noi, uscito dal suo sepolcro, si adopererà per rimuovere il macigno del sepolcro accanto, si ripeterà finalmente il miracolo del terremoto che contrassegnò la prima Pasqua di cristo. Pasqua è la festa dei macigni rotolati. E’ la festa del terremoto.

(Don Tonino Bello, Parabole e metafore).

 

L’affidamento dell’uomo a Dio               

Nella Pasqua Gesù, da un lato, rivela il mistero dell’amore di Dio per l’uomo; dall’altro, celebra e attua nel modo umanamente più perfetto l’amore, l’obbedienza, l’affidamento dell’uomo a Dio. L’aspetto singolare, eccezionale, unico del sacrificio pasquale è che la rivelazione e la celebrazione – attuazione sono una sola cosa, così come nell’essere di Gesù, Dio e l’uomo, pur rimanendo distinti, diventano una sola cosa.

La Pasqua di Gesù, proprio perché è quella manifestazione-celebrazione dell’amore di Dio ora descritta, tende a raggiungere ogni uomo, sia per manifestargli l’amore di Dio, per annunciargli che il suo peccato è perdonato, per dargli speranza di vita e di gioia oltre la sofferenza e la morte, sia per attrarre ogni uomo nello stesso movimento di celebrazione del mistero, di adorazione di Dio, di conformazione alla volontà del Padre che ha animato tutta la vita di Gesù suggellata nella Pasqua.

L’eucaristia è appunto la modalità istituita da Gesù nell’ultima cena per attuare questa intrinseca intenzione salvifica della Pasqua.  

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol. II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94).

 

Auguri di Pasqua

Fa’ di me, Signore, un arcobaleno di bene,

di speranza e di pace.

Un arcobaleno che per nessun motivo

annunci ingannevoli bontà,

speranze vane e false immagini di pace.

Un arcobaleno sospeso da Te nel cielo,

che annunci il tuo amore di Padre,

la risurrezione del tuo Figlio,

la meravigliosa azione del tuo Spirito Santo.

(H. Camera).  


 

Bonanno Pisano, Pie donne al sepolcro, Porta del Duomo, Pisa.

© Su gentile concessione dell’Opera della Primaziale Pisana Beni Culturali – Patrimonio storico artistico, Pisa.

«“Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione e vana anche la nostra fede” (1Cor 15,14). La risurrezione costituisce anzitutto la conferma di tutto ciò che Cristo stesso ha fatto e insegnato» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 651).
Tale evento avviene secondo le Scritture, realizza la speranza del mondo e determina un inizio qualitativamente nuovo della storia. È inoltre il frutto di un intervento potente di Dio il quale non abbandona la vita del giusto nella tomba e non permette che il suo santo veda la corruzione, ma gli indica il sentiero della vita perché possa avere gioia piena nella sua presenza, dolcezza senza fine alla sua destra (cf.
Sal 16,10-11). L’azione di Dio inaugura un tempo nuovo e un nuovo ordine di cose che pone in crisi il passato: «Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17b).
Nella risurrezione di Gesù ha avuto infatti inizio la risurrezione escatologica di coloro che appartengono a Cristo perché “aspersi del suo sangue” e perché “rinati dall’acqua e dallo Spirito”, finché ciò che avvenuto nel Capo si realizzi pienamente in tutte le sue membra. Gesù del resto aveva detto: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà» (
Gv 11,25), che vuol dire: «La comunione con Gesù è già ora risurrezione; dove si è stabilita la comunione con lui, è varcato qui e adesso il confine della morte…Ovunque l’uomo entri nell’Io del Cristo, egli è già entrato nello spazio della vita definitiva» (J. Ratzinger).
Ce lo ricorda Sant’Ambrogio il quale nella sua Spiegazione del Simbolo scrive: «Credi che risorgerà anche la carne! Infatti perché fu necessario che Cristo s’incarnasse? Perché fu necessario che Cristo salisse sulla croce? Perché fu necessario che Cristo soggiacesse alla morte, ricevesse la sepoltura e risorgesse, se non per la tua risurrezione? Tutto questo mistero è quello della tua risurrezione. Se Cristo non è risorto, la nostra fede è vana. Ma siccome è risorto, la nostra fede è saldamente fondata». Gli fa eco S. Agostino: «Ha guarito te dalla morte eterna là dove si è degnato di morire in senso temporale. Ed è morto, oppure in Lui è morta la morte? Che morte è, quella che uccide la morte?» (Commento al Vangelo di Giovanni 3,3).
 
Nel riquadro bronzeo della Porta di San Ranieri posta nel braccio meridionale del transetto della cattedrale di Pisa, Bonanno Pisano alla fine del XII sec. ha incastonato la scena della risurrezione di Cristo tra la formella della sua Discesa al Limbo e quella della sua Ascensione al cielo.
L’artista non ha tuttavia presentato Cristo risorto, né l’evento stesso della risurrezione, nascosto agli occhi degli uomini e custodito dal buio di quella notte “veramente beata” che sola meritò di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi (Preconio pasquale). Ciò che vediamo è invece l’edicola del sepolcro che sovrasta il sepolcro stesso sul quale è seduto un angelo che annuncia alle donne che giungono da sinistra la risurrezione del Signore: «Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto» (
Mt 28,5-7).
Sotto il sepolcro le guardie ancora stordite sono assopite in un sonno profondo, simbolo della morte che è stata “ingoiata per la vittoria” (cf.
1Cor 15,54
). Risuonano come non mai nel cuore della Chiesa, in questo giorno di luce, le parole della Sequenza pasquale: «Dimmi, Maria, cos’hai visto per via? Ho visto morire la morte. Ho visto il Signore risorto».

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

PASQUA DI RISURREZIONE

DOMENICA DELLE PALME

Prima lettura: Isaia 50,4-7

  Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso.

 

  • Dopo la gioiosa processione iniziale, con le palme benedette, questa prima lettura introduce la partecipazione alle sofferenze e ai sentimenti di Cristo, nella passione. È la parte iniziale del terzo carme di Isaia sul «Servo sofferente», una «confessione», sul tipo «di alcune composizioni di Geremia e dei Salmi di lamento individuale».

         Dapprima il Servo ricorda, in modo appassionato, la missione ricevuta di sostenere gli sfiduciati, quali erano i rimpatriati dall’esilio babilonese, alla fine del VI secolo a.C., in mezzo a tante difficoltà e ostilità. Poi proclama come l’ha vissuta, grazie ai doni del Signore di una lingua e di un orecchio «da iniziati», cioè degli introdotti e pienamente dediti all’ascolto e alla proclamazione della parola di Dio. Ciò implica un impegno profondo e costante anche suo. Anzi, ha richiesto la più dura testimonianza della vita, per le persecuzioni, espresse col piegare il dorso ai flagellatori, e per le umiliazioni subite, che si possono prendere alla lettera, fatte di insulti, sputi in faccia e depilazioni infamanti.

         Di fronte a tutto questo, il Servo riafferma i suoi più profondi sentimenti. Non si tira indietro, ma affronta con coraggio le prove. È sicuro che Dio lo assiste, per questo non ha confusioni e incertezze, ma rende la faccia dura e impavida come roccia.

         La lettura si ferma qui, forse per restare a quanto è più consono ai sentimenti di Cristo nella passione che segue. Nei versetti che completano il carme, il Servo sfida pure gli avversari sulla giustezza delle sue posizioni ed è sicuro che saranno confusi da Dio e logorati come veste intaccata dalle tarme. Non sono sentimenti teneri ma neppure estranei a Cristo. Forse i cristiani d’oggi dovrebbero riscoprire il modo e il coraggio di ripeterli.

 

Seconda lettura: Filippesi 2,6-11

Cristo Gesù,
pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.

Parola di Dio

 

  • La lettera ai Filippesi indirizzata alla prima comunità cristiana fondata da Paolo in Europa, ha in quest’inno cristologico il perno del suo messaggio, carico di stimoli per la vita cristiana di tutti e di sempre. L’apostolo si trova in catene (Fil 1,7.14), fortemente impegnato a vivere il mistero di Cristo morto e risorto, che va predicando. Brama di «cono-scere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti». Dai Filippesi ha accettato più volte aiuti materiali come partecipazione della sua tribolazione (Fil 4,14-16) e li ringrazia. Ma molto di più desidera che siano partecipi della sua adesione a Cristo, da «cittadini degni del vangelo» (Fil 1,27) e da cristiani che vivono in comunione (Fil 2,1-4). Per questo è inscindibile dal brano odierno l’invito che lo introduce: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5). Esso vale anche per noi, oggi, proprio come cittadini e come cristiani.

         Può darsi che Paolo stesso sia l’autore di questa composizione ritmata. Ma più probabilmente l’ha presa dalla liturgia preesistente e l’ha adattata ai suoi intendimenti. È chiaro lo schema in due parti simmetriche, una discendente nella kènosys e l’altra ascendente nella esaltazione.

         Con la kènosys, svuotamento (vv. 6-8), Cristo scende dal trono più alto all’abisso più profondo, per gradini vertiginosi. Al contrario di Adamo, presuntuoso di essere come Dio, egli passa dalla reale «uguaglianza con Dio» alla «condizione di servo»; quindi da regnante supremo a servo obbediente; in una obbedienza non ordinaria, ma fino alla morte; e una morte non qualunque, ma in croce, come si usava per gli schiavi e per i delinquenti peggiori…

         Con la esaltazione (vv. 9-11), Dio gli fa risalire tutti i gradini. Vi sono coinvolte tutte le creature ed è conseguente, anzi intrinseca, all’annientamento. A Cristo da, anzitutto un Nome, cioè una realtà e missione al di sopra di ogni altro; quindi sottomette a lui tutti gli esseri buoni e cattivi, nei cieli, sulla terra e sotto terra; e, nel riconoscimento della signoria universale di lui, da ad ogni persona la possibilità di ritrovare e di vivere la gloria della paternità divina.

         Di seguito, Paolo indica ai Filippesi alcune conseguenze pratiche da tirare, che valgono anche per noi se le attualizziamo, rapportandole alla vita nella società e nella Chiesa di oggi.

 

Vangelo:Matteo 26,14-27,66

 In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti e disse: P “Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?”. C E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnarlo. Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: P “Dove vuoi che ti prepariamo, per mangiare la Pasqua?”. C Ed egli rispose: + “Andate in città, da un tale, e ditegli: Il Maestro ti manda a dire: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”. C I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua.

Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici. Mentre mangiavano disse: + “In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà”. C Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: P “Sono forse io, Signore?”. C Ed egli rispose: + “Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”. C Giuda, il traditore, disse: P “Rabbi, sono forse io?”. C Gli rispose: + “Tu l’hai detto”.

C Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: + “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”. C Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: + “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”. C E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Allora Gesù disse loro: + “Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte. Sta scritto infatti: ‘‘Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge’’, ma dopo la mia risurrezione, vi precederò in Galilea”. C E Pietro gli disse: P “Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai”. C Gli disse Gesù: + “In verità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. C E Pietro gli rispose: P “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. C Lo stesso dissero tutti gli altri discepoli.

Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsemani, e disse ai discepoli: + “Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare”. C E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. Disse loro: + “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”. C E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: + “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!”. C Poi tornò dai discepoli e li trovò che dormivano. E disse a Pietro: + “Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”. C E di nuovo, allontanatosi, pregava dicendo: + “Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà”. C E tornato di nuovo trovò i suoi che dormivano, perché gli occhi loro si erano appesantiti. E lasciatili, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: + “Dormite ormai e riposate! Ecco, è giunta l’ora nella quale il Figlio dell’uomo sarà consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce si avvicina”.  C Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro questo segnale dicendo: P “Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!”. C E subito si avvicinò a Gesù e disse: P “Salve, Rabbi!”. C E lo baciò. E Gesù gli disse: + “Amico, per questo sei qui!”. C Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. Ed ecco, uno di quelli che erano con Gesù, messa mano alla spada, la estrasse e colpì il servo del sommo sacerdote, staccandogli un orecchio. Allora Gesù gli disse: + “Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?”. C In quello stesso momento Gesù disse alla folla: + “Siete usciti come contro un brigante, con spade e bastoni, per catturarmi. Ogni giorno stavo seduto nel tempio ad insegnare, e non mi avete arrestato. Ma tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti”. C Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono.

Or quelli che avevano arrestato Gesù, lo condussero dal sommo sacerdote Caifa, presso il quale già si erano riuniti gli scribi e gli anziani. Pietro intanto lo aveva seguito da lontano fino al palazzo del sommo sacerdote; ed entrato anche lui, si pose a sedere tra i servi, per vedere la conclusione.

I sommi sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano qualche falsa testimonianza contro Gesù, per condannarlo a morte; ma non riuscirono a trovarne alcuna, pur essendosi fatti avanti molti falsi testimoni. Finalmente se ne presentarono due, che affermarono: P “Costui ha dichiarato: Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni”. C Alzatosi il sommo sacerdote gli disse: P “Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?”. C Ma Gesù taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: P “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. + “Tu l’hai detto, C gli rispose Gesù, + anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete ‘‘il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo’’”.

C Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: P “Ha bestemmiato! Perché abbiamo ancora bisogno di testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia; che ve ne pare?”. C E quelli risposero: P “È reo di morte!”. C Allora gli sputarono in faccia e lo schiaffeggiarono; altri lo bastonavano, dicendo: P “Indovina, Cristo! Chi è che ti ha percosso?”.  C Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una serva gli si avvicinò e disse: P “Anche tu eri con Gesù, il Galileo!”. C Ed egli negò davanti a tutti: P “Non capisco che cosa tu voglia dire”. C Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: P “Costui era con Gesù, il Nazareno”. C Ma egli negò di nuovo giurando: P “Non conosco quell’uomo”. C Dopo un poco, i presenti gli si accostarono e dissero a Pietro: P “Certo anche tu sei di quelli; la tua parlata ti tradisce!”. C Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: P “Non conosco quell’uomo!”. C E subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò delle parole dette da Gesù: “Prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. E uscito all’aperto, pianse amaramente.

Venuto il mattino, tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù, per farlo morire. Poi, messolo in catene, lo condussero e consegnarono al governatore Pilato.

Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: P “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”. C Ma quelli dissero: P “Che ci riguarda? Veditela tu!”. C Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi. Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: P “Non è lecito metterlo nel tesoro, perché è prezzo di sangue”. C E, tenuto consiglio, comprarono con esso il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu denominato “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi. Allora si adempì quanto era stato detto dal profeta Geremia: “E presero trenta denari d’argento, il prezzo del venduto, che i figli di Israele avevano mercanteggiato, e li diedero per il Campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore”. Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore l’interrogò dicendo: P “Sei tu il re dei Giudei?”. C Gesù rispose: + “Tu lo dici”. C E mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani, non rispondeva nulla.

Allora Pilato gli disse: P “Non senti quante cose attestano contro di te?”. C Ma Gesù non gli rispose neanche una parola, con grande meraviglia del governatore. Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Mentre quindi si trovavano riuniti, Pilato disse loro: P “Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo? ”. C Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia.

Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: P “Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua”. C Ma i sommi sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a richiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò: P “Chi dei due volete che vi rilasci?”. C Quelli risposero: P “Barabba!”. C Disse loro Pilato: P “Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?”. C Tutti gli risposero: P “Sia crocifisso!”. C Ed egli aggiunse: P “Ma che male ha fatto?”. C Essi allora urlarono: P “Sia crocifisso!”.

C Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell’acqua, si lavò le mani davanti alla folla dicendo: P “Non sono responsabile di questo sangue; vedetevela voi!”. C E tutto il popolo rispose: P “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”. C Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso. Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano: P “Salve, re dei Giudei!”. C E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello, gli fecero indossare i suoi vestiti e lo portarono via per crocifiggerlo. Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prender su la croce di lui. Giunti a un luogo detto Golgota, che significa luogo del cranio, gli diedero da bere vino mescolato con fiele; ma egli, assaggiatolo, non ne volle bere. Dopo averlo quindi crocifisso, si spartirono le sue vesti tirandole a sorte. E sedutisi, gli facevano la guardia. Al di sopra del suo capo, posero la motivazione scritta della sua condanna: “Questi è Gesù, il re dei Giudei”. Insieme con lui furono crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra.

E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: P “Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!”. C Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: P “Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!”. C Anche i ladroni crocifissi con lui lo oltraggiavano allo stesso modo. Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: + “Elì, Elì, lemà sabactani?”, C che significa: + “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. C Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: P “Costui chiama Elia”. C E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere. Gli altri dicevano: P “Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!”. C E Gesù, emesso un alto grido, spirò. Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: P “Davvero costui era Figlio di Dio!”. C C’erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra costoro Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo.

Venuta la sera giunse un uomo ricco di Arimatea, chiamato Giuseppe, il quale era diventato anche lui discepolo di Gesù. Egli andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Allora Pilato ordinò che gli fosse consegnato. Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò. Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Magdala e l’altra Maria.

Il giorno dopo, che era quello successivo alla Parasceve, si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei, dicendo: P “Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse mentre era vivo: Dopo tre giorni risorgerò. Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!”. C Pilato disse loro: P “Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete”. C Ed essi andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia.

 

Esegesi 

     Matteo scrive il Vangelo per i cristiani provenienti dal giudaismo, quando, dopo le prime conversioni in massa, molti stavano tirandosi indietro e la sinagoga prendeva le distanze dalla Chiesa, mentre cresceva l’afflusso dei pagani. Egli fa trasparire questa situazione fin dall’inizio (Mt 1-2), quando presenta Gesù di Nazaret, figlio di Abramo e di David, generato dallo Spirito Santo, nato a Betlemme secondo le Scritture, cercato dai magi pagani, mentre Erode, tiranno sanguinario e geloso, trama per farlo morire, complici i sacerdoti e gli scribi, intimoriti e plagiati. Nel racconto della passione torna a mettere in evidenza gli atteggiamenti di rifiuto e di scoperta di Gesù fino al suo trionfo nella risurrezione e all’invio dei discepoli in missione a tutte le genti.

Gesù, mentre è tradito, si dona totalmente (Mt 26,14-30).

     Il racconto incomincia con il tradimento di Giuda, indicato col verbo «consegnare» (paradidomi), lo stesso adoperato da Gesù, all’inizio del capitolo, per annunciare ai discepoli che il Figlio dell’uomo «sarà consegnato» per essere crocifisso, dopo due giorni, in coincidenza con la Pasqua ebraica. Il passivo usato da lui ha per soggetto Dio, il Padre, e vuol dire che «sarà donato» come supremo atto di amore. Giuda invece pretende di disporre lui del Maestro e vuol dire che è in grado di «tradirlo». Due modi opposti di vivere la stessa realtà, che si ripetono spesso.

     Gesù però, oltre che prevedere tutto, sa mantenersi nella piena prospettiva del dono e domina perfettamente gli eventi malgrado la cattiveria degli avversari e la debolezza dei discepoli. Mentre celebra la Pasqua ebraica, infatti, smaschera e deplora il tradimento, ma soprattutto istituisce l’Eucaristia, anticipando e rendendo perenne il dono di sé stesso sulla croce.

La forza di Gesù e il sostegno ai discepoli (Mt 26,31-56)

     Con i fatti del Getsemani, Gesù si avvia al dono supremo di sé e cerca di rendere coscienti i discepoli della crisi che stanno per affrontare, preannunciando a Pietro la fragilità della sua presunzione, sia pure ben intenzionata. Poi fa vedere dove lui trova la forza e dove anche loro possono trovarla: «Vegliate e pregate». Vegliare per far fronte alla crisi e per il sostegno reciproco. Pregare il Padre con totale disponibilità: «Però non come voglio io, ma come vuoi tu!».                                       

     Il contrasto tra dono e tradimento incentrati sulla sua persona, rende Gesù triste fino alla morte. Ma lo accetta e lo affronta con fermezza: «Ecco, è giunta l’ora nella quale il Figlio dell’uomo sarà consegnato (dal Padre nell’amore)… Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce si avvicina». Apre il cuore allo stesso traditore: «Amico, per questo sei qui!», cioè per qualcosa che rinnega il rapporto da amico. Poi ferma la violenza inconsueta dei discepoli e dice ingiusta e vile quella degli avversari. Il rimorso portò successivamente Giuda a ributtare il prezzo del tradimento ai carnefici (Mt 27,3-10).

Il Figlio di Dio condannato dal Sinedrio (Mt 26,57-75)

     Riunito in casa del sommo sacerdote, il Sinedrio più che un processo fa un confronto con Gesù sui principali capi d’accusa. Avviene di notte, perciò invalido, e i sinedriti sono immersi nella notte del pregiudizio e dell’odio, peggio che i sommi sacerdoti e gli scribi interrogati da Erode all’arrivo dei magi (Mt 2). Cercano false testimonianze sul suo insegnamento, col dichiarato proposito di metterlo a morte. Caifa è ipocrita nel chiedere a Gesù di replicare a due che concordano sulla sua affermazione di poter distruggere il tempio e riedificarlo in tre giorni: lui stesso è convinto che i falsi testimoni non bastano su un’affermazione così carica di significato religioso e di profonda verità. Passa quindi a una supplica solenne: «Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo il Figlio di Dio» (Mt 26,63). Ma è ancora teatrale e ipocrita. Infatti rifiuta subito la risposta affermativa che Gesù, prima silenzioso, si sente in dovere di dare all’autorità. Concerta l’accusa di bestemmia meritevole di morte e scatena il disprezzo con sputi e percosse.

     Sullo sfondo di questo processo religioso, Matteo riferisce le negazioni di Pietro, che sono il venire meno delle doverose testimonianze a favore e che hanno per cause, oggi come ieri, non solo l’odio e la prepotenza dei nemici, ma anche la propria paura, fragilità e convenienza.

          L’innocente Gesù giudicato dallo sprezzante e opportunista Pilato (Mt 27,1-26)

     Per dare legalità al processo notturno, i membri del Sinedrio lo ripetono sommariamente appena fattosi giorno e «consegnano» Gesù a Pilato, pagano e invasore. Anche la loro è una «consegna» tradimento di Gesù e insieme di se stessi, della propria dignità e autonomia di somme autorità ebraiche. Un sussulto di dignità lo ha il traditore del quale Matteo riporta a questo punto il pentimento. Ma Giuda è sopraffatto dalla disperazione.

     Anche quello del governatore non è un processo, ma un palleggio sprezzante e furbesco delle responsabilità. Chiede a Gesù se è «il re dei Giudei», ben lontano però da quello che intendevano i magi con questa espressione (cf. Mt 2,2). Egli vede tutto nell’ottica politico-militare di Roma. Non da quindi peso alla risposta affermativa di Gesù e passa allo sporco gioco politico di proporre il baratto con il sedizioso Barabba. Uno spiraglio sul mistero che ha davanti gli viene dalla moglie, turbata in sogno su «quel giusto», qualcosa di simile al richiamo della stella per i magi. Ma Pilato da libero corso, alla furia omicida degli avversari e «consegna» loro Gesù perché sia crocifisso. Si proclama innocente, col gesto teatrale di lavarsi le mani e nello stesso tempo lo fa flagellare per confermare la licenza di ucciderlo.

Il re da burla è davvero Figlio di Dio! (Mt 27,27-54)

     L’esecuzione capitale scatena nella plebaglia un rigurgito dei sentimenti dei giudici perversi. I soldati di Pilato in crudele ossequio alla scritta da lui voluta sopra la croce come motivo della condanna, scherniscono Gesù con un abbigliamento da re da burla, con la corona di spine e con gli sputi. I passanti ebrei e in particolare i membri del Sinedrio lo prendono in giro come riformatore religioso, operatore di miracoli e Messia, «Figlio di Dio».

     Sembra la fine di tutto, il trionfo dei malvagi e l’abbandono di Dio Gesù stesso sperimenta nella sua umanità quest’abisso e grida la sua supplica al Padre. Ma è il crollo di un certo mondo e l’inizio di uno nuovo. Matteo lo fa notare, inserendo a questo punto dei particolari straordinari: buio su tutta la terra, terremoto, velo del tempio squarciato, apparizioni di morti. E mostra una primizia del riconoscimento dei pagani dicendo che, non solo il centurione, ma anche quelli che erano con lui esclamano: «Davvero costui era Figlio di Dio!».

L’attesa della risurrezione (Mt 27,55-66)

     I discepoli sembrano aver dimenticato il ripetuto annunzio della risurrezione al terzo giorno (Mt 16,21; 17,23;20,19). Hanno però nella loro esperienza e nel loro cuore le premesse per accoglierla. Matteo, come gli altri Sinottici, ricorda in primo luogo le donne, che fino all’estremo vogliono continuare la sequela e il servizio di Gesù incominciato dalla Galilea. In particolare Maria di Magdala e l’altra Maria rimangono presso il sepolcro anche quando tutti se ne sono andati. Sono le stesse che, appena passato il sabato, ritornano e hanno il primo annuncio della risurrezione (Mt 28,1-7) e sono incaricate di richiamare i discepoli sui loro passi. Giuseppe d’Arimatea per intanto si limita al pietoso atto della sepoltura.

     Coloro invece che l’hanno fatto assassinare ricordano la profezia di Gesù. La qualificano una impostura e si preoccupano che i discepoli non cerchino di spacciarla per verità, trafugando il cadavere. Avvertono Pilato, sigillano la pietra tombale e pongono le guardie. Matteo aggiungerà, più avanti, che dopo aver escluso pregiudizialmente la risurrezione, ricorreranno meschinamente al pagamento di falsi testimoni per continuare a negarla. Ma nulla, se non la malafede, può fermare la potenza di Cristo risorto.

 

Meditazione 

      L’obbedienza a Dio consente al Servo (I lettura) e a Gesù (vangelo e II lettura) di sostenere la dolorosa sottomissione agli uomini e alla loro violenza. La fede del servo Gesù appare così fedeltà radicale a Dio e solidarietà con gli uomini che riscatta il male con il bene. Il racconto di Matteo è anzitutto cristologico: Gesù è al centro della narrazione come figura ieratica che domina gli eventi con autorevolezza di Signore. Si preannuncia la theologia gloriae del racconto giovanneo. Il Cristo della passione di Matteo è più simile al Cristo maestoso dei mosaici bizantini che al Gesù kenotico della narrazione di Marco. Egli domina gli eventi: lo mostra l’introduzione all’intero racconto (il «titolo» della passione matteana: Mt 26,1-2). Gesù sa ciò cui va incontro e lo dice: alla luce di questa conoscenza vengono ridimensionati gli sforzi di Giuda e i complotti dei suoi avversari per arrestarlo. In verità, ciò che nella passione si compie è il disegno di Dio manifestato nelle Scritture: la corrispondenza tra particolari anche banali e testi scritturistici diviene per Matteo occasione di mostrare che la passione ha un fondamento metastorico, è il compimento drammatico della storia di Dio con l’umanità. L’autorevolezza incomparabile di Gesù è dovuta alla sua conoscenza e accettazione della volontà divina, in altre parole, alla sua obbedienza alle Scritture (cfr. l’annotazione solo matteana di 26,53-54). Sempre attento al compimento delle Scritture, Matteo lo è ancor più nel racconto culminante del vangelo (cfr. le inserzioni matteane di 26,15; 27,9-10; 27,43). La signoria che Gesù mostra (in particolare con cui interviene per dare il senso degli eventi, per ammonire e correggere: 26,1-2.52-54) si accompagna alla sua obbedienza: egli è il Servo del Signore (cfr. Mt 26,28 che riprende Is 53,12), il Giusto (27,19), cioè colui che non persegue la propria volontà, ma compie quella del Padre. Gesù è il Figlio di Dio (27,54), espressione che non indica un’identità di natura, ma una totale comunione di volere e di agire.

     La dimensione ecclesiale della passione di Matteo traspare da una presentazione dei fatti illuminati dalla fede nel Risorto; questa passione è «un racconto destinato a un’assemblea di credenti» (X. Léon-Dufour). La comunità a cui è rivolto il vangelo di Matteo, bisognosa di essere rafforzata nella fede e incoraggiata nelle ostilità, appare, nella sua povertà e piccolezza, destinataria di quel Regno di Dio (21,43) che è un tema di fondo del primo vangelo. Comunità ormai aperta ai non ebrei, essa vede nell’intervento divino (in sogno) alla moglie di Pilato, una pagana, un’antecedente dell’apertura universalistica che connoterà la comunità cristiana. La passione di Gesù è anche giudizio su Israele, soprattutto sui suoi capi religiosi, i sacerdoti e gli anziani (27,20): l’espressione in bocca a tutto il popolo è presente solo in Matteo, «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (27,25), non è formula di automaledizione, ma solo di assunzione di responsabilità giuridica, e nel contesto del racconto, è quanto desiderato da Pilato che si è deresponsabilizzato nei confronti del destino di Gesù (27,24). L’espressione «sopra i nostri figli» è un’amplificazione retorica che non può per nulla significare una maledizione che si deve perpetuare nella storia sul popolo d’Israele: Matteo non è tanto interessato a individuare chi sia più colpevole di fronte alla morte di Gesù, ma a mostrare che Gesù è il solo Giusto.

     Infine, la morte in croce di Gesù è narrata da Matteo in maniera teologica, non cronachistica: i segni teofanici che la accompagnano (27,51-53: terremoto, aprirsi dei sepolcri, resurrezione dei santi morti, loro ingresso nella città santa, ecc.) anticipano ciò che avverrà alla fine del mondo. Così Matteo dice che la morte di Gesù costituisce l’evento culminante e decisivo della storia: è già il compimento della storia. Questo testo, solamente matteano, parla della resurrezione di Gesù al momento stesso della sua morte (27,53), e mostra che la narrazione della passione è rivelazione di un mistero, il mistero della storia di salvezza

 

Immagine della Domenica  

 

 

PROLOGO

I miei giorni camminano, davanti ai Tuoi, e danno loro un senso.

Essi Ti hanno strappato, Tua dimora eterna, facendoTi,

 il primogenito dei perduti.

Tu ora non sei, che un nostro fratello,

 sofferto in Te, ogni nostro dolore.

Noi ti sentiamo vicino, nel Tuo lamento,

 e nel Tuo pianto, sulla fossa di Lazzaro.

Ora la nostra carne non Ti abbandona,

sei un Dio che si consuma, in noi. Un Dio, che muore.

(D. M. TUROLDO, O sensi miei. Milano Rizzoli 1993, 80).

 

Preghiere e racconti

Settimana Santa

Questa settimana incomincia con la processione festosa con i rami di ulivo: tutto il popolo accoglie Gesù. I bambini, i ragazzi cantano, lodano Gesù.

Ma questa settimana va avanti nel mistero della morte di Gesù e della sua risurrezione. Abbiamo ascoltato la Passione del Signore. Ci farà bene farci soltanto una domanda: chi sono io? Chi sono io, davanti al mio Signore? Chi sono io, davanti a Gesù che entra in festa in Gerusalemme? Sono capace di esprimere la mia gioia, di lodarlo? O prendo distanza? Chi sono io, davanti a Gesù che soffre?

Abbiamo sentito tanti nomi, tanti nomi. Il gruppo dei dirigenti, alcuni sacerdoti, alcuni farisei, alcuni maestri della legge, che avevano deciso di ucciderlo. Aspettavano l’opportunità di prenderlo. Sono io come uno di loro?

Abbiamo sentito anche un altro nome: Giuda. 30 monete. Sono io come Giuda? Abbiamo sentito altri nomi: i discepoli che non capivano niente, che si addormentavano mentre il Signore soffriva. La mia vita è addormentata? O sono come i discepoli, che non capivano che cosa fosse tradire Gesù? Come quell’altro discepolo che voleva risolvere tutto con la spada: sono io come loro? Sono io come Giuda, che fa finta di amare e bacia il Maestro per consegnarlo, per tradirlo? Sono io, traditore? Sono io come quei dirigenti che di fretta fanno il tribunale e cercano falsi testimoni: sono io come loro? E quando faccio queste cose, se le faccio, credo che con questo salvo il popolo?

Sono io come Pilato? Quando vedo che la situazione è difficile, mi lavo le mani e non so assumere la mia responsabilità e lascio condannare  o condanno io  le persone?

Sono io come quella folla che non sapeva bene se era in una riunione religiosa, in un giudizio o in un circo, e sceglie Barabba? Per loro è lo stesso: era più divertente, per umiliare Gesù.

Sono io come i soldati che colpiscono il Signore, Gli sputano addosso, lo insultano, si divertono con l’umiliazione del Signore?

Sono io come il Cireneo che tornava dal lavoro, affaticato, ma ha avuto la buona volontà di aiutare il Signore a portare la croce?

Sono io come quelli che passavano davanti alla Croce e si facevano beffe di Gesù: “Era tanto coraggioso! Scenda dalla croce, a noi crederemo in Lui!”. Farsi beffe di Gesù…

Sono io come quelle donne coraggiose, e come la Mamma di Gesù, che erano lì, soffrivano in silenzio?

Sono io come Giuseppe, il discepolo nascosto, che porta il corpo di Gesù con amore, per dargli sepoltura?

Sono io come le due Marie che rimangono davanti al Sepolcro piangendo, pregando?

Sono io come quei capi che il giorno seguente sono andati da Pilato per dire: “Guarda che questo diceva che sarebbe risuscitato. Che non venga un altro inganno!”, e bloccano la vita, bloccano il sepolcro per difendere la dottrina, perché la vita non venga fuori?

Dov’è il mio cuore? A quale di queste persone io assomiglio? Che questa domanda ci accompagni durante tutta la settimana.

(OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO, 13 aprile 2014)

 

Come vivere la settimana Santa

La benedizione delle palme, da cui questa domenica prende il nome, e la processione che ne è seguita vogliono evocare l’ingresso in Gerusalemme di Gesù e la folla che gli va incontro festosa e acclamante.

Forse la nostra processione appare un po’ povera rispetto a ciò che dovrebbe rievocare. L’importante, tuttavia, non è prendere in mano le palme e gli ulivi e compiere qualche pas-so, ma esprimere la volontà di iniziare un cammino. Questa scena infatti, che vorrebbe essere di entusiasmo, non ha valore in sé: assume piuttosto il suo significato nell’insieme degli eventi successivi che culmineranno nella morte e nella risurrezione di Gesù. Contiene perciò una domanda che è anche un invito: vuoi tu muovere i passi entrando con Gesù a Gerusalemme fino al calvario? Vuoi vedere dove finiscono i passi del tuo Dio, vuoi essere con lui là dove lui è? Solo così sarà tua la gioia di Pasqua.

Entriamo dunque con la domenica delle Palme nella Settimana santa, chiamata anche “autentica” o “grande”. Grande perché, come dice san Giovanni Crisostomo, «in essa si sono verificati per noi beni infallibili: si è conclusa la lunga guerra, è stata estinta la morte, cancellata la maledizione, rimossa ogni barriera, soppressa la schiavitù del peccato. In essa il Dio della pace ha pacificato ogni cosa, sia in cielo che in terra».

Sarà dunque una settimana nella quale pregheremo in particolare per la pace a Gerusalemme e ci interrogheremo pure sulle condizioni profonde per attuare una reale pace a Gerusalemme e nel resto del mondo.

La liturgia odierna è quindi un preludio alla Pasqua del Signore. L’entrata in Gerusalemme dà il via all’ora storica di Cristo, l’ora verso la quale tende tutta la sua vita, l’ora che è al centro della storia del mondo. Gesù stesso lo dirà poco dopo ai greci che, avendo saputo della sua presenza in città, chiedono di vederlo: «È venuta l’ora in cui sarà glorificato il Figlio dell’uomo» (Gv 12,23). Gloria che risplenderà quando dalla croce attirerà tutti a sé.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 159-160).

 

Lo splendore della pace

Alla fine del Vangelo per la benedizione delle palme udiamo l’acclamazione con cui i pellegrini salutano Gesù alle porte di Gerusalemme. È la parola dal Salmo 118 (117), che originariamente i sacerdoti proclamavano dalla Città Santa ai pellegrini, ma che, nel frattempo, era diventata espressione della speranza messianica: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Sal 118[117],26; Lc 19,38). I pellegrini vedono in Gesù l’Atteso, che viene nel nome del Signore, anzi, secondo il Vangelo di san Luca, inseriscono ancora una parola: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore”. E proseguono con un’acclamazione che ricorda il messaggio degli Angeli a Natale, ma lo modifica in una maniera che fa riflettere. Gli Angeli avevano parlato della gloria di Dio nel più alto dei cieli e della pace in terra per gli uomini della benevolenza divina. I pellegrini all’ingresso della Città Santa dicono: “Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!”.

Sanno troppo bene che in terra non c’è pace. E sanno che il luogo della pace è il cielo – sanno che fa parte dell’essenza del cielo di essere luogo di pace. Così questa acclamazione è espressione di una profonda pena e, insieme, è preghiera di speranza: Colui che viene nel nome del Signore porti sulla terra ciò che è nei cieli. La sua regalità diventi la regalità di Dio, presenza del cielo sulla terra. La Chiesa, prima della consacrazione eucaristica, canta la parola del Salmo con cui Gesù venne salutato prima del suo ingresso nella Città Santa: essa saluta Gesù come il Re che, venendo da Dio, nel nome di Dio entra in mezzo a noi. Anche oggi questo saluto gioioso è sempre supplica e speranza.

Preghiamo il Signore affinché porti a noi il cielo: la gloria di Dio e la pace degli uomini. Intendiamo tale saluto nello spirito della domanda del Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra!”. Sappiamo che il cielo è cielo, luogo della gloria e della pace, perché lì regna totalmente la volontà di Dio. E sappiamo che la terra non è cielo fin quando in essa non si realizza la volontà di Dio. Salutiamo quindi Gesù che viene dal cielo e lo preghiamo di aiutarci a conoscere e a fare la volontà di Dio. Che la regalità di Dio entri nel mondo e così esso sia colmato con lo splendore della pace. Amen.

(Dalla Omelia di BENEDETTO XVI nella CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE, 28.03.2010).

 

Osanna nel più alto dei cieli!

Dopo la risurrezione di Lazzaro, morto da quattro giorni, il Signore trovò un asinello che era stato preparato dai discepoli, come racconta l’evangelista Matteo (cfr. Mt 21,1-11), montò su di esso ed entrò in Gerusalemme secondo la profezia di Zaccaria, che aveva predetto: «Non temere, figlia di Sion! Ecco, giunge a te il tuo re, re di giustizia e di salvezza; mite cavalca il piccolo di un’asina» (Zc 9,9). Attraverso queste parole il profeta voleva indicare che Cristo è il re profetizzato, l’unico vero re di Israele. Il tuo re — dice – non mette paura a quelli che lo vedono, non è duro né malvagio, non conduce con sé soldati armati di scudo o guardie del corpo, né una quantità di fanti e di cavalieri, superbo, pronto a riscuotere imposte e tasse, a imporre schiavitù e servitù ignobili e dannose, ma sue insegne, invece, sono l’umiltà, la povertà, la sobrietà. Montato su un asino, infatti, faceva il suo ingresso senza ostentare alcuno sfarzo mondano. Per questo egli è il solo re giusto, che salva nella giustizia, mansueto perché la mansuetudine è l’attributo che più gli è proprio. Ed è lo stesso Signore che dice di sé: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mm,29). Colui dunque che risuscitò Lazzaro dai morti, re montato su un asino, entrava allora in Gerusalemme e subito tutta la gente, bambini, uomini, adulti e vecchi, stesero per terra i loro mantelli e, presi dei rami di palma, simbolo di vittoria, gli andavano incontro come all’autore della vita e al vincitore della morte, gli si prostravano davanti, lo scortavano e non solo all’esterno, ma anche dentro il recinto del tempio, e a una sola voce cantavano: «Osanna al figlio di David! Osanna nel più alto dei cieli!» (Mt 21,9). «Osanna» è un inno che si eleva a Dio; infatti tradotto significa: «Salvaci, Signore!»; e la parte che segue «nell’alto dei cieli» significa che l’inno è cantato non solo sulla terra, non solo dagli uomini, ma anche nell’alto dei cieli dagli angeli del cielo.

(GREGORIO PALAMAS, Omelie 15, PC 151,184B-185).

 

La processione e la passione

Molti furono stupiti della sua gloria, simile a quella di un trionfatore vittorioso, nel momento in cui entrava in Gerusalemme, ma poco dopo, nel momento in cui affrontava la passione, il suo volto era privo di gloria e umiliato. […] Se dunque si considera a un tempo la processione di quest’oggi e la passione, Gesù appare sublime e glorioso da una parte e umiliato e sofferente dall’altra. La processione fa pensare all’onore riservato ai re; la Passione mostra la punizione riservata al ladrone. Qui lo circondano gloria e onore, là «non ha né  forma né bellezza» (Is 53,2). Qui è la gioia degli uomini e il vanto del popolo, «là l’obbrobrio degli uomini, l’oggetto di disprezzo del popolo» (Sal 21 [22], 7). Qui lo si acclama: «Osanna al figlio di David! Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore» (Mc 11,10); là lo si proclama degno di morte e lo si deride perché si è fatto re di Israele. Qui gli si va incontro con rami di palma; là con le loro mani lo percuotono sul volto e gli colpiscono la testa con una canna. Qui è colmo di lodi; là è saziato di insulti. Qui, a gara, si ricopre la sua via con vesti altrui; là è spogliato delle proprie vesti. Qui è accolto a Gerusalemme come il re giusto e il Salvatore (cfr. Zc 9,9) ; là è scacciato da Gerusalemme come un criminale e un impostore. Qui siede sopra un asino, avvolto di onore; là è appeso al legno della croce, straziato dalle verghe, coperto di piaghe, abbandonato dai suoi. […] Fratelli, se vogliamo seguire la nostra guida senza vacillare tanto nei momenti felici che in quelli avversi, contempliamolo avvolto di onore nella processione delle Palme, sottoposto agli oltraggi e alle sofferenze nella passione, ma in tale mutamento di circostanze non mutò i suoi pensieri. […] Signore Gesù, tutti ti benedicano, tu gioia e salvezza di tutti, sia che ti vedano seduto sull’asino, sia che ti vedano sospeso al legno della croce. Vedendoti regnare sul trono ti lodino nei secoli dei secoli. A te lode e onore per tutti i secoli dei secoli.

(GUERRICO D’IGNY, Terzo discorso sulle Palme 2.5, SC 202, pp. 188-192.198-200).

 

Preghiera

Il tuo volto, Signore Gesù,

è il volto del Dio dell’umiltà che ci ama fino a spogliarsi,

fino a rendersi povero in mezzo a noi.

Il tuo volto è il volto del nostro dolore,

della nostra solitudine, della nostra angoscia,

della nostra morte che tu hai voluto assumere perché non fossimo più soli e disperati.                                     

Fa’ che impariamo a riconoscere questa sconcertante rivelazione della tua onnipotenza, l’onnipotenza di chi ama fino a condividere la sofferenza,

fino a lasciarsi crocifiggere per nostro amore.

Insegnaci che cosa significa amare come tu ci ami,

per accettare in silenzio di partecipare al tuo mistero di passione e morte

e gustare con te e in te la gioia della vittoria piena e totale sulla divisione,

sul peccato e sulla morte.
 

Giotto, Cristo entra in Gerusalemme, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni.

© Su gentile concessione del Comune di Padova – Assessorato alla Cultura.

Con la celebrazione della Domenica delle Palme e della Passione del Signore la Chiesa viene introdotta nei riti della Settimana Santa. L’ingresso di Gesù a Gerusalemme, infatti, è simile a un “portale” che immette nel cuore dell’anno liturgico. Sono ancora oggi toccanti le riflessioni proposte da Giovanni Paolo II il 30 marzo del 1980: «Fra la volontà del Padre, che lo ha mandato, e la volontà del Figlio permane una profonda unione piena di amore: un bacio interiore di pace e di redenzione. In questo bacio, in questo abbandono senza limiti, Gesù Cristo, che è di natura divina, spoglia se stesso e assume la condizione di servo, umiliando se stesso (cf. Fil 2,6-8).
E permane in questo abbassamento, in questa spoliazione del suo fulgore esterno, della sua divinità e della sua umanità, piena di grazia e di verità. Egli, Figlio dell’uomo, va, con questo annientamento e spoliazione, verso gli eventi che si compiranno, quando il suo abbassamento, la spoliazione, l’annientamento rivestiranno precise forme esteriori…
Tale è quell’ingresso “interiore” di Gesù in Gerusalemme, che si compie nella sua anima alla soglia della Settimana Santa. Al suo ingresso nella città santa la folla acclama Gesù quale messia che viene a portare a compimento la promessa della benedizione divina. In lui sono benedette tutte le stirpi della terra e tutti i popoli lo dicono beato (cf.
Gen 18,18; Sal 72,17). In lui, osannato come il figlio di Davide e benedetto come Messia che viene nel nome del Signore, la benedizione promessa ai padri raggiunge finalmente l’antico popolo dell’alleanza e tutte le genti chiamate alla salvezza.

L’affresco della Cappella degli Scrovegni riesce a esprimere la ricchezza di queste verità salvifiche. Giotto raffigura alla sinistra del riquadro Cristo benedicente, ricoperto di una tunica rossa, colto di profilo, che cavalca un asino dipinto con grande realismo e con un’attenzione eccezionale ai particolari, mentre si appresta a fare il suo ingresso solenne a Gerusalemme di cui si vede soltanto la porta d’accesso tra due possenti ed eleganti torrioni.
Gesù è seguito dai suoi apostoli ed è accolto da una folla festante che stende ai suoi piedi dei mantelli o agita rami di ulivo e palme proclamando: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!» (Lc 19,38). La scena si svolge su uno sfondo azzurro lapislazzuli segnato da alcuni alberelli sui quali nel frattempo si sono arrampicati dei curiosi personaggi intenti a strappare dalle loro fronde alcuni ramoscelli.
Il tutto contribuisce a dare all’affresco il senso di un movimento che ha la sua massima espressione nel procedere di Cristo. Questi, come leggiamo nel vangelo lucano, «mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9,51).
Per questa ragione nella Colletta della liturgia del giorno la Chiesa prega affinché Dio conceda ai credenti di avere sempre presente il grande insegnamento della passione di Cristo per partecipare alla gloria della sua risurrezione. «Corriamo anche noi insieme a Colui che si affretta verso la passione – esorta i credenti Andrea di Creta -, e imitiamo coloro che gli andarono incontro…per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre persone».

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

VERSIONE SCARICABILE:

 9 aprile Domenica Palme

 

PER APPROFONDIRE:
Sett. santa vangelo PALME (A)

Sett. santa DOMENICA DELLE PALME (A)

V DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Ezechiele 37,12-14

 Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio.

 

  • I tre versetti del capitolo 37 di Ezechiele, che la liturgia fa leggere oggi danno ad Israele, come segno della restaurazione della terra promessa e del ritorno in essa di tutto il popolo, la risurrezione dei morti. Non si tratta della risurrezione finale, ma del segno della potenza di Dio che ama il suo popolo e, dopo i castighi, gli invia una esaltante promessa di salvezza. «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele» (Ez 37,12). Il Signore si rivolge ad Israele con l’appellativo «popolo mio» ripetuto due volte in due versetti consecutivi.

         Dio ha scelto per sua libera volontà Israele e lo ha fatto proprio; i profeti lo ricordano ad Israele in esilio e sottolineano tutto l’amore paterno che Dio ha per lui. Egli castiga perché Israele si ravveda, ma egli è sempre il Dio misericordioso e consolatore, che ha scelto Sion fin dalla creazione del mondo: «Ti ho nascosto sotto l’ombra delle mie ali, quando ho disteso i cieli e fondato la terra, e ho detto a Sion: “Tu sei il mio popolo” (Is 51,16). Dio stesso si incarica di rinnovare dall’interno ogni membro del suo popolo, perché segua i suoi comandi e non incorra più nell’infedeltà: «Darò loro un cuore nuovo ed uno spirito nuovo metterò dentro di loro…perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e li mettano in pratica, saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio» (Ez 11,20; cf. 14,11; 34,30; 36,28; 37,23.27).

         Anche Geremia insiste sull’appartenenza di Israele a Dio, che si fa carico di riportarlo nella terra che ha promesso ai padri: «Io poserò lo sguardo sopra di loro per il loro bene li ricondurrò in questo paese, li ristabilirò fermamente e non li demolirò; li pianterò e non li sradicherò mai più. Darò loro un cuore capace di conoscermi, perché io sono il Signore; essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, se torneranno a me con tutto il cuore» (Ger 24,6-7).

                Dio è fedele nonostante le infedeltà del popolo e concede la grazia del ravvedimento (in ebraico teshuvà).

 

Seconda lettura: Romani 8,8-11

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.
Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.

 

  • Paolo nella prima sezione del capitolo 8 della lettera ai Romani presenta la vita nello Spirito che inabita nei cristiani come la vera ed unica vita, contrapposta a quella della carne, che è vita solo apparente, ma in realtà è morte. Egli con «carne», non intende i corpi mortali, ma i vizi e il peccato, che allontanano da Dio, unica fonte di vita. «Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio» (Rm 8,8). «Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi» (Rm 8,9; cf. 1Cor 3,16; 1Gv 3,24). La caratteristica propria dei cristiani è essere fatti simili a Cristo dallo Spirito. Non appartiene a Cristo chi non ha il suo stesso Spirito, mentre «se uno è in Cristo è una creatura nuova» (2Cor 5,17).

         Paolo di sé dichiara: «Sono stato crocefisso col Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me», e spiega che non si tratta di uscire dalla condizione mortale, ma di vivere nella fede: «Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato ed ha dato se stesso per me». (Gal 2,20; cf. Fil 1.21; Rm 8,2).

         Lo Spirito che risuscitò il Cristo è la caparra della risurrezione dei cristiani diventati mediante lo Spirito figli di Dio a somiglianza del Cristo (Rm 8,11.16).

 

Vangelo:Giovanni 11,1-45

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».

Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.

Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

 

 

Esegesi 

     Il racconto della risurrezione di Lazzaro si può considerare una vera e propria introduzione alla storia della passione, che si concluderà con la risurrezione dello stesso Gesù. La narrazione inizia con la presentazione dei protagonisti: Lazzaro, forma grecizzata di El-Azar, Dio presta aiuto, le sorelle Maria e Marta (Gv 12.1-8; Mt 26,6-13; Mc 14,3-9). Maria è presentata come «quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli» (Gv 11,2); il verbo è al passato, ma in realtà il gesto è narrato nel capitolo successivo (Gv 12,1-8; cf. Mt 26,6-13) e ambientato nel festoso banchetto dopo la risurrezione di Lazzaro; il gesto di Maria è da Gesù messo in relazione alla sua sepoltura (Gv 12,7). Non bisogna fare confusione fra Maria sorella di Lazzaro e la peccatrice nominata in Lc 10,36ss. Tale identificazione non è conosciuta dai padri prima di Gregorio Magno, ed è smentita dagli esegeti contemporanei. Lazzaro si ammala seriamente e le sorelle lo segnalano a Gesù, senza richiedere esplicitamente il suo intervento, come fa la madre di Gesù che segnala la mancanza di vino alle nozze di Cana senza aggiungere altro (Gv 2,3). Va da sé che Gesù, data la familiarità con queste persone, capisce anche quello che esse tacciono per discrezione. Gesù commenta la notizia dicendo che non è una malattia per la morte, ma per la gloria di Dio e la glorificazione del Figlio (Gv 11,4; cf. 9,3). Nel Vangelo di Giovanni la glorificazione del Figlio è l’evento pasquale (cf. Gv 3,14:8,28; 12,16-23; 13,31-32; 17,5) e la risurrezione di Lazzaro ne è un’anticipazione. Gesù si trattiene ancora due giorni nel luogo dove si trovava. Poi con grande risolutezza invita i discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!» (Gv 11,7). Egli sa che là si deve compiere la sua missione e con coraggio la vuole portare a termine. Anche Luca ci presenta un Gesù risoluto mentre intraprende il suo ultimo viaggio a Gerusalemme, è un Gesù che «indurisce la sua faccia», vale a dire richiama tutto il suo coraggio, prima di affrontare con decisione il cammino verso la passione (cf. Lc 9,51). I discepoli, appena Gesù ha espresso la volontà di andare in Giudea, gli ricordano timorosi che là era stato minacciato di morte (Gv 11,8). Gesù risponde con una parabola (Gv 11, 9-10) per rinfrancare i discepoli, che restano tuttavia tentennanti e, appena Gesù dice che Lazzaro si è addormentato ed egli vuole andare a riscuoterlo dal sonno, non vogliono capire e avanzano l’obiezione che se si è addormentato guarirà. Essi vogliono dissuadere Gesù dall’andare in Giudea e non colgono il secondo senso delle parole di Gesù, che si riferisce al sonno della morte. Allora Gesù dichiara apertamente che Lazzaro è morto ed è un bene che egli non era presente, perché ora essi avranno maggiore fede in lui. Poi rinnova l’invito a partire alla volta della Giudea. Fra i discepoli timorosi si distingue Tommaso (chiamato Didimo, che significa gemello) che, risoluto esorta i suoi compagni a condividere la stessa sorte di Gesù (Gv 11,16).

     All’arrivo di Gesù a Betania Lazzaro è sepolto da quattro giorni (Gv 11,18) e molte persone si sono radunate in casa di Marta e Maria per partecipare al loro lutto (Gv 11,19). Marta appena sente dell’arrivo di Gesù gli va subito incontro, mentre Maria rimane in casa (Gv 11,20). Questo particolare fa venire in mente l’episodio narrato da Luca 10,38-42; probabilmente entrambi gli evangelisti avevano dei ricordi molto vivi della stessa famiglia e in particolare delle due sorelle. La conversazione di Gesù con Marta introduce le motivazioni teologiche della rivelazione di Gesù che si presenta come «risurrezione e vita». Infatti la professione di fede di Marta nella risurrezione finale (Gv 11,24, cf. Dn 12,1-3; 2Mac 7,22-24,12,44) viene attualizzata da Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25). È una ripresa più esplicitamente riferita alla sua persona di quanto aveva già detto: «In verità in verità vi dico: viene l’ora ed è ora in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e coloro che l’avranno ascoltata vivranno» (Gv 5,25).

     Alla domanda di Gesù «Credi questo?». Marta risponde con la bellissima professione di fede simile a quella di Simon Pietro: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo » (Gv 11,27, cf. Mt 16,16). Marta allora va a chiamare Maria che esce in fretta anche lei per incontrarlo. La seguono i suoi ospiti, che credono che sia uscita per andare al sepolcro (Gv 11, 28-31). Gesù al vedere Maria e gli altri piangere è turbato (tarasso) e piange (dakryo) (Gv 11,33.35). Il pianto e il turbamento di Gesù di fronte alla morte di Lazzaro anticipano il turbamento di fronte alla propria morte: «ora la mia anima è turbata (tarasso) e che devo dire … padre salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono venuto a quest’ora» (Gv 12,27).

     Al sepolcro c’è un’altra conversazione con Marta che obietta alla richiesta di Gesù di aprire il sepolcro; ella non ha ancora capito fino in fondo le parole di Gesù. Appena tolta la pietra Gesù innalza con la piena fiducia di essere esaudito una preghiera di ringraziamento al Padre e lo fa a voce alta, perché gli astanti odano e credano, poi a «gran voce» esclama: «Lazzaro vieni fuori!» e Lazzaro ubbidisce (Gv 11,41-44).

 

Meditazione 

      Il passaggio dalla morte alla vita, centro del messaggio di questa domenica, prelude, soprattutto con l’episodio della resurrezione di Lazzaro, all’evento pasquale la cui celebrazione si fa sempre più vicina. La resurrezione appare come evento storico: la morte in cui giacciono i figli d’Israele è la situazione di esilio a Babilonia da cui essi risorgeranno ritornando in terra d’Israele (I lettura); appare come evento spirituale che caratterizza il credente che, lasciandosi guidare dallo Spirito di Dio, passa dalla vita nella carne, cioè nell’egoismo e nel peccato, alla vita in Cristo (II lettura); appare come evento personale e corporeo che conduce Lazzaro a uscire dalla tomba all’udire la parola di Gesù (vangelo). I testi sottolineano anche tre dimensioni della morte: se solo la morte di Lazzaro è fisica, la morte spirituale di chi vive nella chiusura egocentrica e la morte simbolica del popolo deportato non sono meno drammatiche e reali.

     La morte comunitaria di cui parla Ezechiele è situazione di morte della speranza: «La nostra speranza è svanita, siamo perduti» (Ez 37,11). Anche noi, nelle vicende relazionali (un’amicizia, un amore, un matrimonio), comunitarie ed ecclesiali che viviamo, possiamo sperimentare la morte della speranza, l’assenza di futuro. Tuttavia, la nascita della fede nella resurrezione e della speranza pasquale avviene attraverso la morte di altre speranze. Lo Spirito creatore è anche lo Spirito che dona vita e suscita speranza là dove regna la morte.

     Per Paolo l’uomo che vive «nella carne», nell’autosufficienza egoistica, fa del proprio cuore la propria tomba e si trova nella morte spirituale. Ma lo Spirito di resurrezione che forza l’impenetrabilità della morte e fa uscire dai sepolcri, può penetrare le chiusure individualistiche e, ponendo la dimora nel cuore umano e inabitando in esso, può immettere l’uomo in una vita nuova.

     Il brano evangelico è una pedagogia verso la fede in Cristo che è la resurrezione e la vita. Il dialogo tra Gesù e Marta è incentrato sul credere: «Chi crede in me, anche se muore vivrà» (Gv 11,25); «Credi questo?» (11,26); «Sì, o Signore, io credo» (11,27). Di fronte all’insicurezza e alla precarietà che la prospettiva della morte ingenera nelle nostre vite («a causa della morte, noi, gli uomini, siamo come città senza mura»: Epicuro), noi siamo tentati di costruirci baluardi, difese e barriere che ci proteggano da essa. Siamo indotti dalla paura a un atteggiamento difensivo. E così facciamo anche della vita una morte, una schiavitù («gli uomini sono schiavi per tutta la vita a causa della paura della morte»: Eb 2,15): cercando di difenderci dalla morte, in realtà ci allontaniamo dalla vita. Gesù, invece, chiedendo fede, affidamento, chiede di entrare nel suo atteggiamento di fronte alla morte («Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato»: Gv 11,42), atteggiamento che, mentre assume la morte e soffre per colui che è morto, fa anche della morte una vita, vivifica la morte. La fede è il luogo della resurrezione. La fede di Gesù è dunque un magistero perché noi impariamo a credere: «L’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano» (Gv 11,42). Proclama un’omelia dello Pseudo Ippolito: «Avendo tu visto l’opera divina del Signore Gesù, non dubitare più della resurrezione! Lazzaro sia per te come uno specchio: contemplando te stesso in lui, credi nel risveglio».

     Se la fede è il luogo della resurrezione, l’amore ne è la forza: Gesù amava molto Lazzaro (11,5) e questo amore si fece visibile nel suo pianto dirotto (11,35-36). L’amore integra la morte nella vita e trova il senso di quest’ultima nel dono: dare la vita diviene un dare vita. Aver fede in Gesù che è resurrezione e vita significa fare dell’amore un luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita.

     La fede e l’amore si manifestano nella parola con cui Gesù resuscita Lazzaro: lo scandalo e la follia di chiamare chi è morto e giace nel sepolcro è possibile grazie alla fede nel Dio che resuscita i morti e all’amore, all’umanissimo amore che legava Gesù a Lazzaro. La potenza di resurrezione della parola di Gesù è tutta nella fede e nell’amore che la abitano.

 

Immagine della Domenica   

 

 

Il dono della vita

La gioia mi prende e mi riempie tutto, mi fa girare la testa come un buon bicchiere di vino. La gioia di sapere che io esisto per esistere, che io ho un valore, che vivo per vivere e non per morire, questa certezza mi riempie di gratitudine. Mi spinge a lottare anche per chi non ha forza, per chi è indifeso e senza libertà, per chi si sente inutile, per chi non ne ha voglia. La gioia di vivere non mi fa sentire la stanchezza; è bello, è meraviglioso lottare sapendo che la vita non finisce con la morte; questa lotta è un modo per dire grazie. E la gioia è più grande se si trasmette questo senso di eternità a quelli che non credono.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 9-10)

  

Preghiere e racconti

 

L’amico dietro la pietra

Forse nel libro del Padre questo miracolo non era scritto. Egli non era stato mandato sulla terra per gli amici: i malati che guarisce, i morti che risuscita sono estranei; gente mai vista o quasi, lebbrosi dal volto irriconoscibile, salme ignote entro bare già coperte. Ai suoi non può regalar molto, al più un paio d’idre di vino, il carico di due barche da pesca. A se stesso nulla può regalare: forse per questo è bello pensare ch’egli abbia indugiato quei giorni sul Giordano.

«Io sono anche un uomo, Padre, e Lazzaro mi è più caro d’ogni altra cosa perché egli è il mio amico, la poca dolcezza di questo viaggio amaro che tu hai voluto. Se io corro a Betania, tu, lo so, darai potenza alle mie mani e lui sorgerà dal sepolcro, ma quel miracolo io lo farei per me solo, per queste poche giornate che mi rimangono, giacché la morte è troppo fredda senza un fuoco presso cui aspettarla. Scrivi quest’altro miracolo nel tuo libro, ma fa’ che a te, non a me io lo doni: quell’uomo che io amo rendimelo sconosciuto, cancella dalla mia memoria le dolci sere, fallo uguale a tutti questi altri di cui non so il nome, che non mi sono amici, ma solamente fratelli».

Il Padre ha risposto di sì, perché lui e il Padre sono una cosa sola. Dunque Lazzaro risorgerà. C’è solo questa remora di scostare la pietra, qualche istante appena e poi Marta e Maria risusciteranno anche loro alla gioia, quando quel fantoccio stecchito tornerà a essere il fratello e le sue braccia appena slegate dalle bende stringeranno contro il petto le loro teste indolenzite di pianto. Perché piange, allora? Signore, noi siamo felici, Lazzaro già respira sotto il sudario, era vero come tu dicevi, egli era solo assopito… 

(Luigi Santucci)

 

Quello che sarebbe accaduto nel Maestro era già realizzato nel servo

«Il Signore aveva resuscitato la figlia del capo della sinagoga, Giairo, ma quando era morta da poco (cfr. Mc 5,21-43). […] Aveva resuscitato anche il figlio unico di una vedova, ma fermando il corteo funebre, prima che fosse sepolto, in modo da evitare la corruzione e prevenire il fetore, per restituire la vita al morto prima che fosse interamente caduto in potere della morte (cfr. Lc 7,11-17). Ma per ciò che riguarda Lazzaro tutto quello che accade è eccezionale; la sua morte e la sua risurrezione non hanno niente in comune con le altre di cui si è detto. Qui è dispiegata tutta la potenza della morte ed è manifestato tutto lo splendore della risurrezione. Oso dire che Lazzaro avrebbe sottratto tutto il mistero della resurrezione del Signore se fosse ritornato dagli inferi il terzo giorno, poiché Cristo ritornò il terzo giorno come Signore, Lazzaro è richiamato alla vita il quarto giorno come servo. Ma per provare quanto abbiamo detto, soffermiamoci su alcuni passaggi della lettura. Le sue sorelle andarono a dire al Signore: “Signore, colui che tu ami è malato” (Gv 11,3). Con queste parole toccano i suoi affetti, fanno appello all’amore, smuovono la carità, cercano di superare il tragico momento con l’amicizia. Ma Cristo al quale interessa di più vincere la morte che allontanare la malattia, per il quale amare non è far uscire dal letto, ma ricondurre dagli inferi, preparò per l’amato non una medicina per la sua malattia, ma la gloria della risurrezione. Quando seppe che Lazzaro era malato, rimase due giorni nello stesso luogo (Gv 11,6). Vedete come lascia campo libero alla morte, concede opportunità alla morte, permette che avvenga la decomposizione, non ostacola ne la putrefazione ne il fetore. Accetta che gli inferi si impadroniscano di Lazzaro, che lo trascinino a sé, che l’abbiano prigioniero; agisce in modo tale che tutta la speranza umana sia perduta e che tutta la violenza della disperazione terrena si scateni perché ciò che opera è divino e non umano. Resta nel medesimo luogo ad aspettare la morte di Lazzaro fino a che egli stesso possa annunciarla e dichiarare che andrà da lui. Dice infatti: Lazzaro è morto e io ne gioisco (Gv 11,14). È questo l’amore? Cristo gioiva perché la tristezza della morte si sarebbe trasformata ben presto nella gioia della resurrezione. E io ne gioisco per voi: perché per voi? Perché nella morte e nella risurrezione di Lazzaro era rappresentata in figura la morte e la risurrezione del Signore e quello che sarebbe accaduto nel Maestro era già realizzato nel servo […] Era necessaria la morte di Lazzaro, affinché la fede dei discepoli, sepolta con Lazzaro, resuscitasse con lui».

(PIETRO CRISOLOGO, Discorsi 63, CCL 24 A, pp. 373-376).

 

Desiderio di eternità

Mancano solo due settimane alla Pasqua, e le Letture bibliche di questa domenica parlano tutte della risurrezione. Non ancora di quella di Gesù, che irromperà come una novità assoluta, ma della nostra risurrezione, quella a cui noi aspiriamo e che proprio Cristo ci ha donato, risorgendo dai morti. In effetti, la morte rappresenta per noi come un muro che ci impedisce di vedere oltre; eppure il nostro cuore si protende al di là di questo muro, e anche se non possiamo conoscere quello che esso nasconde, tuttavia lo pensiamo, lo immaginiamo, esprimendo con simboli il nostro desiderio di eternità.

Al popolo ebraico, in esilio lontano dalla terra d’Israele, il profeta Ezechiele annuncia che Dio aprirà i sepolcri dei deportati e li farà ritornare nella loro terra, per riposarvi in pace (cfr Ez 37,12-14). Questa aspirazione ancestrale dell’uomo ad essere sepolto insieme con i suoi padri è anelito ad una “patria” che lo accolga al termine delle fatiche terrene. Questa concezione non contiene ancora l’idea di una risurrezione personale dalla morte, che compare solo verso la fine dell’Antico Testamento, e ancora al tempo di Gesù non era accolta da tutti i Giudei. Del resto, anche tra i cristiani, la fede nella risurrezione e nella vita eterna si accompagna non raramente a tanti dubbi, a tanta confusione, perché si tratta pur sempre di una realtà che oltrepassa i limiti della nostra ragione, e richiede un atto di fede. Nel Vangelo di oggi – la risurrezione di Lazzaro – noi ascoltiamo la voce della fede dalla bocca di Marta, la sorella di Lazzaro. A Gesù che le dice: “Tuo fratello risorgerà”, ella risponde: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno” (Gv 11,23-24). Ma Gesù replica: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11,25-26). Ecco la vera novità, che irrompe e supera ogni barriera! Cristo abbatte il muro della morte, in Lui abita tutta la pienezza di Dio, che è vita, vita eterna. Per questo la morte non ha avuto potere su di Lui; e la risurrezione di Lazzaro è segno del suo pieno dominio sulla morte fisica, che davanti a Dio è come un sonno (cfr Gv 11,11).Ma c’è un’altra morte, che è costata a Cristo la più dura lotta, addirittura il prezzo della croce: è la morte spirituale, il peccato, che minaccia di rovinare l’esistenza di ogni uomo. Per vincere questa morte Cristo è morto, e la sua Risurrezione non è il ritorno alla vita precedente, ma l’apertura di una realtà nuova, una “nuova terra”, finalmente ricongiunta con il Cielo di Dio. Per questo san Paolo scrive: “Se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8,11). Cari fratelli, rivolgiamoci alla Vergine Maria, che già partecipa di questa Risurrezione, perché ci aiuti a dire con fede: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio” (Gv 11,27), a scoprire veramente che Lui è la nostra salvezza.

(Le parole del Papa Benedetto XVI alla recita dell’Angelus, 10-04-2011).

 

La vita eterna – che cos’è?

     «Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo.

Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine –  questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile.

     È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: “È vero che la morte non faceva  parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio […] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non illumina la grazia”. Già prima Ambrogio aveva detto: “Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza…”».

(BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, 24-25).

 

Il seme delle domande

Dio mio, sono venuto con il seme delle domande!

Le seminai e non fiorirono.

Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte,

ma il vento non le sfoglia!

Dio mio, sono Lazzaro!

Piena d’aurora, la mia tomba

dà al mio carro neri puledri.

Dio mio, resterò senza domanda e con risposta

vedendo i rami muoversi!

(F. Garcia Lorca)

 

Io sono la risurrezione

Trovare una nuova vita attraverso la sofferenza e la morte: è questo il cuore della buona notizia. Gesù ha vissuto questa via di liberazione prima di noi e ne ha fatto il grande segno. Gli esseri umani hanno sempre la smania di vedere segni: eventi meravigliosi, straordinari, sensazionali che li possano distrarre un poco dalla dura realtà… Ci piacerebbe vedere qualcosa di meraviglioso, di eccezionale, che interrompa la vita ordinaria di tutti i giorni. In questo modo, anche se per un solo momento, possiamo giocare a nascondino. Ma a coloro che dicono: «Signore… vorremmo che tu ci facessi vedere un segno», Gesù risponde: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra».

Da tutto questo, si può vedere quale sia il segno autentico: non un miracolo sensazionale ma la sofferenza, la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù. Il grande segno, che può essere compreso solo da coloro che sono disposti a seguire Gesù, è il segno di Giona, il quale volle anche lui fuggire dalla realtà, ma fu richiamato indietro da Dio perché adempisse il suo arduo compito fino in fondo. Guardare la sofferenza e la morte dritto in faccia e attraversarle con la speranza di una nuova vita data da Dio: è questo il segno di Gesù e di ogni essere umano che desidera vivere una vita spirituale a sua imitazione. È il segno della croce: il segno della sofferenza e della morte, ma anche della speranza di un totale rinnovamento.

(H.J.M. Nouwen, Lettere a un giovane, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 117).

 

L’amore di Dio è più forte della morte

Anche se Gesù ha contrastato direttamente l’inclinazione umana a evitare la sofferenza e la morte, i suoi discepoli si resero conto che era meglio vivere la verità con occhi aperti che non vivere la loro vita nell’illusione.

La sofferenza e la morte appartengono alla via stretta di Gesù. Gesù non le glorifica, né le dichiara belle, buone o qualcosa da desiderare. Gesù non chiama all’eroismo o al sacrificio suicida. No, Gesù ci invita a guardare la realtà della nostra esistenza, e ci rivela che questa dura realtà è la strada da percorrere per arrivare a una nuova vita. Il nucleo del messaggio di Gesù è che la gioia e la pace non si possono mai raggiungere aggirando la sofferenza e la morte, ma soltanto affrontandole con coraggio.

Potremmo dire che in realtà, non abbiamo alcuna possibilità di scelta. Chi, infatti, sfugge alla sofferenza e alla morte? Eppure c’è ancora una scelta.

Possiamo negare la realtà della vita, o possiamo affrontarla. Se la affrontiamo non da disperati, ma con gli occhi di Gesù, scopriamo che dove meno ce l’aspettiamo, è nascosto qualcosa che sostiene una promessa più forte della morte stessa. Gesù ha vissuto la sua vita con la sicurezza che l’amore di Dio è più forte della morte e che la morte non ha, quindi, l’ultima parola. Egli ci invita ad affrontare la realtà dolorosa della nostra esistenza con la stessa fiducia. La Quaresima è soprattutto questo.

(H.J.M. Nouwen, Preghiere dal silenzio, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 118).

Ezechiele 37, 12-14; Romani 8, 8-11; Giovanni 11, 1-45

 

La risurrezione del cuore

Le storie del Vangelo non sono scritte solo per essere lette, ma anche per essere rivissute. La storia di Lazzaro è stata scritta per dirci questo: c’è una risurrezione del corpo e c’è una risurrezione del cuore; se la risurrezione del corpo avverrà “nell’ultimo giorno”, quella del cuore avviene, o può avvenire, ogni giorno.

Questo è il significato della risurrezione di Lazzaro che la liturgia ha voluto evidenziare con la scelta della prima lettura di Ezechiele sulle ossa aride. Il profeta ha una visione: vede un’immensa distesa di ossa rinsecchite e capisce che esse rappresentano il morale del popolo che è a terra. La gente va dicendo: “La nostra speranza è svanita, noi siamo perduti”. Ad essi è rivolta la promessa di Dio: “Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe…Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. Anche in questo caso non si tratta della risurrezione finale dei corpi, ma della risurrezione attuale dei cuori alla speranza. Quei cadaveri, si dice, si rianimarono, si misero in piedi ed erano “un esercito grande, sterminato”. Era il popolo d’Israele che tornava a sperare dopo l’esilio.

Da tutto questo deduciamo una cosa che conosciamo anche per esperienza: che si può essere morti, anche prima di…morire, mentre siamo ancora in questa vita. E non parlo solo della morte dell’anima a causa del peccato; parlo anche di quello stato di totale assenza di energia, di speranza, di voglia di lottare e di vivere che non si può chiamare con nome più indicato che questo: morte del cuore.

A tutti quelli che per le ragioni più diverse (matrimonio fallito, tradimento del coniuge, traviamento o malattia di un figlio, rovesci finanziari, crisi depressive, incapacità di uscire dall’alcolismo, dalla droga) si trovano in questa situazione, la storia di Lazzaro dovrebbe arrivare come il suono di campane il mattino di Pasqua.

Chi può darci questa risurrezione del cuore? Per certi mali, sappiamo bene che non c’è rimedio umano che tenga. Le parole di incoraggiamento lasciano il terreno che trovano. Anche in casa di Marta e Maria c’erano dei “giudei venuti per consolarle”, ma la loro presenza non aveva cambiato nulla. Bisogna “mandare a chiamare Gesù”, come fecero le sorelle di Lazzaro. Invocarlo come fanno le persone sepolte sotto una valanga o sotto le macerie di un terremoto che richiamano con i loro gemiti l’attenzione dei soccorritori.

Spesso le persone che si trovano in questa situazione non sono in grado di fare niente, neppure di pregare. Sono come Lazzaro nella tomba. Bisogna che altri facciano qualcosa per loro. Sulla bocca di Gesù troviamo una volta questo comando rivolto ai suoi discepoli: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti” (Mt 10,8). Cosa intendeva dire Gesù: che dobbiamo risuscitare fisicamente dei morti? Se fosse così, nella storia si contano sulle dita i santi che hanno messo in pratica quel comando di Gesù. No, Gesù intendeva anche e soprattutto i morti nel cuore, i morti spirituali. Parlando del figliol prodigo, il padre dice: “Egli era morto ed è tornato in vita” (Lc 15, 32). E non si trattava certo di morte fisica, se era tornato a casa.

Quel comando: “Risuscitate i morti” è rivolto dunque a tutti i discepoli di Cristo. Anche a noi! Tra le opere di misericordia che abbiamo imparato da bambini, ce n’era che diceva: “seppellire i morti”; adesso sappiamo che c’è anche quella di “risuscitare i morti”.

 

 

Preghiera

Tu hai parole di vita eterna,

tu sei cibo e bevanda,

tu sei la via, la verità e la vita.

Sei la luce che splende nelle tenebre,

la lampada sul candelabro, la casa sul monte.

Sei la perfetta icona di Dio.

Io grazie a te posso vedere il Padre celeste,

e con te posso trovare la strada per giungere a lui.

Sii il mio Signore, il mio Salvatore, il mio Redentore.

la mia Guida, il mio Consolatore, il mio Conforto,

la mia Speranza, la mia Gioia, la mia Pace.

A te voglio dare tutto ciò che sono.

Fa’ che io ti dia tutto,

tutto ciò che ho, penso, faccio e sento.

È tutto tuo, o Signore.

Ti prego, accettalo e rendilo completamento tuo.

Amen.
 

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, 1609.
© Su concessione della Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali e Identità siciliana – Dipartimento Beni Culturali e Identità siciliana – Museo interdisciplinare regionale di Messina.

«Per la sua fede nel sole afferma san Giustino Martire non si è mai visto nessuno pronto a morire».
Consapevoli dell’orizzonte grande che la fede apriva loro, i cristiani chiamarono Cristo il vero sole, “i cui raggi donano la vita”. A Marta, che piange per la morte del fratello Lazzaro, Gesù dice: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?” (Gv 11,40). Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta».
È quanto scrive papa Francesco all’inizio dell’enciclica Lumen fidei. Così come Gesù rispondendo a Tommaso dirà di sé: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), anche nel dialogo con Marta, la sorella di Lazzaro di Betania, afferma: «Io sono la risurrezione e la vita […] chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,25-26). Gesù, infatti, è il Verbo nel quale «era la vita» (Gv 1,4), venuto nel mondo perché coloro che credono in  lui abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (cf. Gv 10,10). S. Agostino, riprendendo il testo giovanneo: «Chi crede in me anche se è morto vivrà, e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno» (Gv 11,25-26), si chiede: «Che vuol dire questo? “Chi crede in me, anche se è morto” come è morto Lazzaro, “vivrà”, perché egli non è Dio dei morti ma dei viventi. Così rispose ai Giudei, riferendosi ai patriarchi morti da tanto tempo, cioè ad Abramo, Isacco e Giacobbe: Io sono il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe; non sono Dio dei morti ma dei viventi: essi infatti sono tutti vivi (Mt 22,32; Lc 20,37-38). Credi dunque, e anche se sei morto, vivrai; se non credi, sei morto anche se vivi» (Commento al Vangelo di Giovanni 49). È proprio il dono della vita che Gesù partecipa all’amico Lazzaro che si era addormentato e che Egli era venuto a svegliare (cf. Gv 11,11).
Caravaggio ha tradotto in pittura l’episodio evangelico dipingendo a Messina, tra il 1608 e il 1609, una tela di notevoli dimensioni destinata alla Chiesa dei Padri Crociferi.
La scena è animata e mossa da un grande stupore che esprimono tutti i personaggi nell’istante in cui il corpo irrigidito di Lazzaro riprende vita, risvegliandosi dal sonno profondo della morte.
 
Il suo corpo nudo, liberato dalle bende, semicoperto da un lenzuolo, teso in forma di croce, è raggiunto dalla luce soprannaturale che si riflette anche sui volti smarriti dei personaggi che affollano il dipinto. All’estremità sinistra della tela è posta la figura solenne e composta di Gesù con il braccio destro alzato mentre la sua mano è rivolta verso il morto il quale ha già udito le parole: «Vieni fuori!» (Gv 11,43). Sciolto dalle bende e liberato dal sudario, Lazzaro riprende vita. Il suo capo è amorevolmente sostenuto dalle sorelle Maria e Marta. Quest’ultima aveva detto a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora io so che qualunque cosa chiederai a Dio, Egli te la concederà» (Gv 11,21-22). Adesso vede realizzato il suo desiderio e il suo atto di fede in Cristo, vita e risurrezione, trova risposta. Il tutto si consuma in una scenografia che si materializza in un ampio sfondo scuro che sembra incombere sulle figure disposte lungo uno stesso piano, uno spazio vuoto e impenetrabile che viene come squarciato dalla luce divina.
Caravaggio organizza la scena in modo teatrale. La proporzione tra le figure e l’altezza della tela aumenta la percezione del sacro e del mistero che avvolge e sconvolge gli uomini quasi sopraffatti dalla sua rivelazione. Il gioco di luce e di ombra sottolinea ancora di più l’evento pasquale che si sta compiendo quale anticipo dell’esodo da questo mondo al Padre che Gesù avrebbe realizzato da lì a breve a Gerusalemme. Ormai la morte, di cui anche le ossa e il teschio posti in primo piano, è stata sconfitta e fa spazio alla vita.
Nell’uomo raffigurato con le mani giunte e posto dietro l’indice di Cristo, rivolto proprio verso la fonte di luce, quasi alla ricerca della grazia, molti hanno letto l’autoritratto dello stesso Caravaggio. Nel suo volto smarrito ogni uomo che ricerca la verità può riconoscere se stesso.
Ogni credente, infatti, è chiamato ad abbandonare le tenebre della morte e del peccato per lasciarsi raggiungere dalla luce vivificante di Cristo.

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» (2014).

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messagge-ro, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. Bergoglio – Papa Francesco, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA DI QUARESIMA (A)

IV DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: 1 Samuele 16,1.4.6-7.10-13

 In quei giorni, il Signore disse a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re». Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato.

Quando fu entrato, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!». Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore».  Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto.  Disse il Signore: «Alzati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi.

 

  • Se la domanda centrale del Vangelo di oggi è: «Chi è Gesù?», questo brano di 1Samuele ne preannuncia già la risposta. Egli è il discendente di Davide, il germoglio che spunta dal tronco di Iesse, su cui, secondo Isaia, si posa lo Spirito del Signore (Is 11,2).

         Sappiamo che l’istituzione della regalità fu molto contrastata in Israele, perché sembrava contrapporsi alla fede del popolo eletto in JHWH come unico re e guida, che l’aveva liberato dalla schiavitù d’Egitto.

         Dio non si lascia condizionare dalle apparenze. Per la scelta di Saul erano state importanti alcune qualità: era «alto e bello; non c’era nessuno più bello di lui tra gli Israeliti; superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo» (1Sam 9,2). Davide invece era il più piccolo di otto fratelli. Dio sceglie la piccolezza, per fare cose grandi, «perché nessuno», dirà poi Paolo, «possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,28).

 

Seconda lettura: Efesini 5,8-14

 Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità.

Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto in segreto [da coloro che disobbediscono a Dio] è vergognoso perfino parlare, mentre tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce. Per questo è detto: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà».

 

  • Il brano della lettera proposto dalla liturgia è preso dalla sua seconda parte parenetica, che segue la prima parte dottrinale interamente centrata sulla polarità Cristo-capo e chiesa suo corpo. Paolo propone un progetto di vita cristiana, conseguente all’inserimento del credente nel corpo di Cristo, che è la Chiesa. È all’uomo nuovo, la cui vita è fondata in Cristo risorto, che sono rivolte le parole di questa esortazione. E verso questo uomo nuovo, mentre usciva rinnovato dalle acque del battesimo, si dirigevano le parole di un inno battesimale citate da Paolo: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà» (v. 14). Il passaggio dall’incoscienza del sonno allo stato di veglia indica la trasformazione che il sacramento produce.

         Questo uomo nuovo ora è in grado non solo di dissociarsi dalle opere infruttuose delle tenebre, ma anche di smascherarle, perché ha discernimento, essendo illuminato dalla luce di Cristo, e a condannarle apertamente, perché è un uomo liberato dalla sua morte e risurrezione.

 

Vangelo: Giovanni 9,1-41

 In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e lavati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».

Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco?

Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio

e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».

Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio!

Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».

 

Esegesi

     Questo è il sesto miracolo narrato da Giovanni e appartiene al cosiddetto «libro dei segni» (Gv 1-12). La domanda che l’evangelista pone alla sua comunità e ai suoi avversari, i giudei della sinagoga della fine del primo secolo, è questa: «Chi è Gesù». Il contesto in cui avviene il miracolo è la festa ebraica delle Capanne, che cadeva tra la fine di settembre e la prima metà di ottobre. Era una festa in cui venivano richiamati i motivi dell’acqua e della luce. Siamo probabilmente nell’anno 29.

     L’episodio inizia con una domanda dei discepoli: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Nella risposta data da Gesù troviamo che non c’è consequenzialità tra malattia e peccato. Nella malattia, come sarà poi nella croce di Gesù, si manifesterà la gloria di Dio. Si tratta di un cieco nato, che mai aveva visto la luce, la cui vita era ristretta nel chiedere l’elemosina: dipendeva esclusivamente dalla compassione del prossimo. Gesù non gli da un’elemosina più abbondante del solito. Inizialmente sembra fare qualcosa di offensivo alla cecità del povero uomo: gli spalma sugli occhi del fango (anticamente si attribuiva alla saliva soprattutto se mescolata con la terra, una virtù terapeutica). Il cieco si sente sporco ed è costretto dai fatti e dalla parole di Gesù a scendere a lavarsi alla piscina di Siloe. Si lavò e riebbe la vista.

     Entrano allora in scena i farisei che negano risolutamente il miracolo, perché Gesù facendo del fango in giorno di sabato aveva violato il comando divino del riposo, dunque non poteva venire da Dio. Il comportamento poi dei genitori appare reticente, ma esprime bene la tensione tra i cristiani e la sinagoga alla fine del secolo I. Negli anni 80 d.C. si decretò infatti la scomunica per i giudeo-cristiani.

     Il guarito, scacciato dalla sinagoga e accolto da Gesù, lo riconosce come Figlio dell’uomo, cioè giudice escatologico del mondo e come Signore, cioè come Figlio di Dio. Gesù non gli restituisce solo la luce degli occhi ma anche quella della fede. I farisei, invece, sicuri di possedere la verità rifiutano di vedere fuori di sé per non porre in dubbio le proprie certezze. Nella loro scelta consapevole di scegliere le tenebre anziché la luce, si attua il giudizio di Dio, che li esclude dalla salvezza.

 

Meditazione 

     Al centro della quarta domenica di Quaresima vi è il tema dell’illuminazione, del passaggio dalle tenebre alla luce espresso nel vangelo dal racconto della guarigione dell’uomo cieco dalla nascita che acquista il senso di una pedagogia verso la fede cristologica. Nella seconda lettura il tema riveste valenza battesimale ed è colto nelle sue implicazioni etiche: l’illuminazione battesimale impegna a una vita di conversione («Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce»: Ef 5,8). In parallelo con questo annuncio la prima lettura presenta l’unzione regale di David da parte di Samuele: il gesto e le parole del profeta che consacrano il messia rinviano alle parole e ai gesti di Gesù, «luce del mondo» (Gv 9,5), che dona luce a chi è nelle tenebre con gesti e parole che evocano la dinamica sacramentale.

    Le tre letture pongono il problema del discernimento. Si tratta del difficile discernimento di Samuele per scegliere colui che Dio ha eletto tra i figli di Iesse. Per discernere occorre guardare come Dio stesso guarda, nella coscienza che se «l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1 Sam 16,7), o, come recita l’antica versione siriaca: «l’uomo guarda con gli occhi, il Signore guarda con il cuore». Nella seconda lettura il discernimento è richiesto al battezzato che, nella situazione in cui è «luce nel Signore», è chiamato a discernere ciò che è gradito a Dio (Ef 5,10-11). Il brano evangelico si apre con il diverso sguardo di Gesù e dei discepoli su un cieco, e prosegue con il percorso che porta il cieco guarito a discernere la vera qualità di Gesù e a confessare la fede in lui, mentre altri protagonisti dell’episodio si chiudono a tale discernimento e restano nella cecità spirituale (cfr. Gv 9,39-41).

    Nel vangelo, Gesù e i discepoli incontrano un uomo cieco, ma lo guardano con occhi molto diversi. Accecati da un assioma teologico che lega in modo automatico la malattia al peccato i discepoli vedono in lui un peccatore, mentre Gesù vede nella malattia di quell’uomo l’occasione del manifestarsi dell’azione di Dio. Stessa persona, sguardo diametralmente opposto. Chi vediamo vedendo un malato? Che cosa vediamo nella sofferenza dell’altro? Lo sguardo colpevolizzante dei discepoli si oppone allo sguardo di solidarietà di Gesù.

     Il testo si presenta come una iniziazione in cui l’uomo che era cieco ottiene la vista e giunge alla conoscenza dell’identità profonda di Gesù, una conoscenza che è anche una co-nascenza, una rinascita, la nascita a una vita completamente rinnovata dall’incontro con Gesù ed espressa dalla lapidaria confessione di fede: «Io credo, Signore» (Gv 9,38).

    Il gesto terapeutico attuato da Gesù sul cieco quando ha impastato del fango e l’ha spalmato sugli occhi dell’uomo (Gv 9,7), ricorda il gesto con cui Dio ha creato Adamo plasmandolo con polvere del suolo (Gen 2,7). La ri-creazione non ha nulla di magico o spiritualistico, ma ha una valenza umanissima e conduce colui che era solo oggetto di parole e giudizi altrui a divenire soggetto, ad assumere la propria vita, a prendere la parola e a rivendicare la propria identità: «Sono io» (Gv 9,9). Quel «sono io» è essenziale per poter giungere a proclamare nella libertà e con convinzione: «Io credo!». Divenire credenti non esime dal divenire uomini. Anzi, lo esige.

    Di fronte al cieco guarito una prima reazione è quella dei conoscenti che pongono domande, interrogano, ma non si interrogano, non pongono mai in questione se stessi e così restano alla superficie dell’evento (vv. 8-12). Vi è poi l’atteggiamento dei genitori che per paura non vanno oltre una banale e distaccata constatazione del fatto (vv. 18-23). Vi è il sapere teologico dei farisei, un sapere autosufficiente e impermeabile che diviene ottusità portandoli ad accusare Gesù (vv. 13-17) e lo stesso cieco guarito di essere peccatori (vv. 24-34) pur di non lasciarsi interpellare dall’evento straordinario. Chi è cieco e chi vede? Questa la domanda che il testo suscita. E questa la risposta: vede chi sa vedere la propria cecità e aprirsi all’azione sanante e illuminante di Cristo.

 

Immagine della Domenica

 
 

Bocciolo immenso di luce 

Magnifico e multicolore, crei la luce coi tuoi occhi divini. La terra è cieca quando tu scompari, bel sole, raggiante splendore. Tu attraversi i cieli splendida luce dal luminoso candore… Tu ti svegli in bellezza, sparviero del mattino, altissimo, inaccessibile, bocciolo immenso che si schiude sull’oceano, apportatore di luce, distruttore di oscurità.

(Inno egizio)

      

Preghiere e racconti

 

Domenica «Laetare»

L’itinerario quaresimale che stiamo vivendo è un particolare tempo di grazia, durante il quale possiamo sperimentare il dono della benevolenza del Signore nei nostri confronti. La liturgia di questa domenica, denominata “Laetare”, invita a rallegrarci, a gioire, così come proclama l’antifona d’ingresso della celebrazione eucaristica: “Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione” (cfr Is 66,10-11). Qual è la ragione profonda di questa gioia? Ce lo dice il Vangelo odierno, nel quale Gesù guarisce un uomo cieco dalla nascita. La domanda che il Signore Gesù rivolge a colui che era stato cieco costituisce il culmine del racconto: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?” (Gv 9,35). Quell’uomo riconosce il segno operato da Gesù e passa dalla luce degli occhi alla luce della fede: “Credo, Signore!” (Gv 9,38). È da evidenziare come una persona semplice e sincera, in modo graduale, compie un cammino di fede: in un primo momento incontra Gesù come un “uomo” tra gli altri, poi lo considera un “profeta”, infine i suoi occhi si aprono e lo proclama “Signore”. In opposizione alla fede del cieco guarito vi è l’indurimento del cuore dei farisei che non vogliono accettare il miracolo, perché si rifiutano di accogliere Gesù come il Messia. La folla, invece, si sofferma a discutere sull’accaduto e resta distante e indifferente. Gli stessi genitori del cieco sono vinti dalla paura del giudizio degli altri. E noi, quale atteggiamento assumiamo di fronte a Gesù? Anche noi a causa del peccato di Adamo siamo nati “ciechi”, ma nel fonte battesimale siamo stati illuminati dalla grazia di Cristo. Il peccato aveva ferito l’umanità destinandola all’oscurità della morte, ma in Cristo risplende la novità della vita e la meta alla quale siamo chiamati. In Lui, rinvigoriti dallo Spirito Santo, riceviamo la forza per vincere il male e operare il bene. Infatti la vita cristiana è una continua conformazione a Cristo, immagine dell’uomo nuovo, per giungere alla piena comunione con Dio. Il Signore Gesù è “la luce del mondo” (Gv 8,12), perché in Lui “risplende la conoscenza della gloria di Dio” (2 Cor 4,6) che continua a rivelare nella complessa trama della storia quale sia il senso dell’esistenza umana. Nel rito del Battesimo, la consegna della candela, accesa al grande cero pasquale simbolo di Cristo Risorto, è un segno che aiuta a cogliere ciò che avviene nel Sacramento. Quando la nostra vita si lascia illuminare dal mistero di Cristo, sperimenta la gioia di essere liberata da tutto ciò che ne minaccia la piena realizzazione. In questi giorni che ci preparano alla Pasqua ravviviamo in noi il dono ricevuto nel Battesimo, quella fiamma che a volte rischia di essere soffocata. Alimentiamola con la preghiera e la carità verso il prossimo.

(LE PAROLE DEL PAPA BENEDETTO XVI ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 03.04.2011).

 

«Io sono la luce del mondo»

Nostro Signore ha detto: «Io sono la luce del mondo» […]. «Abbandona la tua luce che è in verità una tenebra, di fronte alla mia luce, ed è a me contraria; poiché Io sono la vera Luce, voglio darti, al posto delle tue tenebre, la mia luce eterna, affinché sia tua come mia; e con la mia luce ti darò il mio essere, la mia vita, la mia beatitudine e la mia gioia» […].

È da notare il modo e la via per giungere alla vera luce. È una vera rinunzia dell’uomo a se stesso e una pura, profonda ed esclusiva intenzione di amare Dio e non ciò che è proprio: desiderare unicamente l’onore e la gloria di Dio e riferire immediatamente a Dio tutte le cose, da qualunque parte provengano, e a lui riportarle senza alcun rigiro e mediazione; questa è la vera e retta via. Egli è la vera Luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Questa luce risplende nelle tenebre ma le tenebre non ricevettero la luce. Questa luce non la riceve nessuno, tranne i poveri in spirito e della propria volontà. Carissimi figli, mettete in opera tutto ciò che potete fare, spiritualmente e naturalmente, perché questa vera luce risplenda in voi e possiate gustarla. Chiedete agli amici di Dio che vi aiutino; attaccatevi a coloro che aderiscono a Dio, affinché vi attirino con loro a Dio.

Che ciò tocchi a tutti noi. Ci aiuti in ciò l’amabile Dio. Amen.

(GIOVANNI TAULERO, Sermone dal Vangelo di Giovanni per il lunedì prima della vigilia delle Palme, in Il fondo dell’anima, Casale Monf. 1997, 102-108, passim).

 

Il cieco nato

In questo luogo elevato del corpo, l’anima si sveglia

ecco il cieco nato che mi meraviglia

II giardino chiuso davanti a lui si è aperto

un ritmo nuovo si impone all’universo

Ristabiliamo gli esseri e le cose

nel loro candore nativo Propongo

che camminiamo insieme sulle acque

che abbiamo l’ardire degli uccelli

che il nostro soffio sposando la terra

accenda un fuoco nuovo nelle nostre arterie

Non c’è nulla da temere Tutto è bello Aspetto

l’eternità promessa per l’istante

l’immensità appresa nei miei limiti

So il peso del mondo Gravito

attorno all’asse dove mi voleva la sorte

Sono appena nato Mi cerco ancora

ma sono al mio posto sovrano

Di un mondo nuovo di cui ho preso le redini.

(L. Wouters)

 

Camminare verso la luce

Il Vangelo odierno ci presenta l’episodio dell’uomo cieco dalla nascita, al quale Gesù dona la vista. Il lungo racconto si apre con un cieco che comincia a vedere e si chiude – è curioso questo – con dei presunti vedenti che continuano a rimanere ciechi nell’anima. Il miracolo è narrato da Giovanni in appena due versetti, perché l’evangelista vuole attirare l’attenzione non sul miracolo in sé, ma su quello che succede dopo, sulle discussioni che suscita; anche sulle chiacchiere, tante volte un’opera buona, un’opera di carità suscita chiacchiere e discussioni, perché ci sono alcuni che non vogliono vedere la verità. L’evangelista Giovanni vuol attirare l’attenzione su questo che accade anche ai nostri giorni quando si fa un’opera buona. Il cieco guarito viene prima interrogato dalla folla stupita – hanno visto il miracolo e lo interrogano -, poi dai dottori della legge; e questi interrogano anche i suoi genitori. Alla fine il cieco guarito approda alla fede, e questa è la grazia più grande che gli viene fatta da Gesù: non solo di vedere, ma di conoscere Lui, vedere Lui come «la luce del mondo» (Gv 9,5).

Mentre il cieco si avvicina gradualmente alla luce, i dottori della legge al contrario sprofondano sempre più nella loro cecità interiore. Chiusi nella loro presunzione, credono di avere già la luce; per questo non si aprono alla verità di Gesù. Essi fanno di tutto per negare l’evidenza. Mettono in dubbio l’identità dell’uomo guarito; poi negano l’azione di Dio nella guarigione, prendendo come scusa che Dio non agisce di sabato; giungono persino a dubitare che quell’uomo fosse nato cieco. La loro chiusura alla luce diventa aggressiva e sfocia nell’espulsione dal tempio dell’uomo guarito.

Il cammino del cieco invece è un percorso a tappe, che parte dalla conoscenza del nome di Gesù. Non conosce altro di Lui; infatti dice: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi» (v. 11). A seguito delle incalzanti domande dei dottori della legge, lo considera dapprima un profeta (v. 17) e poi un uomo vicino a Dio (v. 31). Dopo che è stato allontanato dal tempio, escluso dalla società, Gesù lo trova di nuovo e gli “apre gli occhi” per la seconda volta, rivelandogli la propria identità: «Io sono il Messia», così gli dice. A questo punto colui che era stato cieco esclama: «Credo, Signore!» (v. 38), e si prostra davanti a Gesù. Questo è un brano del Vangelo che fa vedere il dramma della cecità interiore di tanta gente, anche la nostra perché noi alcune volte abbiamo momenti di cecità interiore.

La nostra vita a volte è simile a quella del cieco che si è aperto alla luce, che si è aperto a Dio, che si è aperto alla sua grazia. A volte purtroppo è un po’ come quella dei dottori della legge: dall’alto del nostro orgoglio giudichiamo gli altri, e perfino il Signore! Oggi, siamo invitati ad aprirci alla luce di Cristo per portare frutto nella nostra vita, per eliminare i comportamenti che non sono cristiani; tutti noi siamo cristiani, ma tutti noi, tutti, alcune volte abbiamo comportamenti non cristiani, comportamenti che sono peccati. Dobbiamo pentirci di questo, eliminare questi comportamenti per camminare decisamente sulla via della santità. Essa ha la sua origine nel Battesimo. Anche noi infatti siamo stati “illuminati” da Cristo nel Battesimo, affinché, come ci ricorda san Paolo, possiamo comportarci come «figli della luce» (Ef 5,8), con umiltà, pazienza, misericordia. Questi dottori della legge non avevano né umiltà, né pazienza, né misericordia!

Io vi suggerisco, oggi, quando tornate a casa, prendete il Vangelo di Giovanni e leggete questo brano del capitolo 9. Vi farà bene, perché così vedrete questa strada dalla cecità alla luce e l’altra strada cattiva verso una più profonda cecità. Domandiamoci come è il nostro cuore? Ho un cuore aperto o un cuore chiuso? Aperto o chiuso verso Dio? Aperto o chiuso verso il prossimo? Sempre abbiamo in noi qualche chiusura nata dal peccato, dagli sbagli, dagli errori. Non dobbiamo avere paura! Apriamoci alla luce del Signore, Lui ci aspetta sempre per farci vedere meglio, per darci più luce, per perdonarci. Non dimentichiamo questo! Alla Vergine Maria affidiamo il cammino quaresimale, perché anche noi, come il cieco guarito, con la grazia di Cristo possiamo “venire alla luce”, andare più avanti verso la luce e rinascere a una vita nuova.

(PAPA FRANCESCO, Angelus, IV Domenica di Quaresima, 30 marzo 2014).

 

L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore (1 Sam 16,7)

La secolarità è il modo di essere dipendenti dalle reazioni del nostro ambiente. L’io secolare, il falso-io, è quello fabbricato – come dice Thomas Merton – dalle costrizioni sociali. ‘Costrittivo’ è certamente il migliore aggettivo per dire il falso io. Esso indica la necessità di continua e crescente affermazione. Chi sono io? Sono uno che piace, è lodato, ammirato, o che non piace, è odiato, disprezzato… La costrizione si manifesta nell’inconscia paura di fallire e nell’ossessivo desiderio di impedirlo, accumulando sempre di più le stesse cose: più lavoro, più denaro, più amici.

Queste costrizioni stanno alla base di due dei principali nemici della vita spirituale: la collera e la cupidigia. Esse sono il lato interiore della vita secolare, i frutti acidi delle nostre dipendenze dal mondo.

(J.M. Nouwen, La via del cuore, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 93).

 

Primavera

Un giorno, un uomo non vedente stava seduto sui gradini di un edificio con un cappello ai suoi piedi ed un cartello recante la scritta: “Sono cieco, aiutatemi per favore”. Un pubblicitario che passeggiava lì vicino si fermò e notò che aveva solo pochi centesimi nel suo cappello. Si chinò e versò altre monete. Poi, senza chiedere il permesso dell’uomo, prese il cartello, lo girò e scrisse un’altra frase. Quello stesso pomeriggio il pubblicitario tornò dal non vedente e notò che il suo cappello era pieno di monete e banconote. Il non vedente riconobbe il passo dell’uomo: chiese se non fosse stato lui ad aver riscritto il suo cartello e cosa avesse scritto. Il pubblicitario rispose “Niente che non fosse vero – ho solo scritto il tuo cartello in maniera diversa”, sorrise e andò via. Il non vedente non seppe mai che sul suo cartello c’era scritto: “Oggi è primavera…ed io non la posso vedere”.

 

«Io credo, Signore!»

Eccoci, Signore Gesù, radiosa luce della gloria del Padre, ai tuoi piedi come ciechi ignari della loro infermità.

Guardaci, figlio di Davide, come hai guardato i tuoi, oppressi dal sonno, nella luce del Tabor.

Svegliaci, Signore Gesù, vero sole che mai tramonta, illuminaci e noi saremo raggianti.

Curaci, Signore Gesù con il tocco lieve del dito di Dio e con la Parola che apre occhi e cuore alla luce.

Mandaci, Signore Gesù, alla piscina perenne del lavacro di vita nuova.

Donaci tua Madre, Signore Gesù, la brocca d’oro per attingere acqua viva dalla fonte perenne del tuo cuore trafitto per noi sulla croce.

Custodiscici premuroso, Gesù, nella prova della fede che non risparmia nessuno, perché non ha risparmiato nemmeno Te, il Signore.

Rivelati, Signore Gesù, luce gioiosa dell’eterno giorno, mettendo sulle nostre labbra il grido del cieco sanato: «Io credo, Signore!».

 

Miracolo del cieco nato

Finché vivi sulla terra sei come uno con gli occhi bendati. Solo per la fede, sotto l’influsso del mio Spirito, puoi essere sensibile alla mia presenza, alla mia voce, al mio amore. Agisci come se mi vedessi, bello, affettuoso, amorevole come sono, eppure così mal compreso, così isolato e trascurato da molti esseri ai quali ho tanto donato e tanto sono disposto a perdonare. Ho un così grande rispetto delle vostre persone! Non voglio rovinare nulla. Per questo sono tanto paziente, pur essendo attento e sensibile al più piccolo gesto d’amore e di attenzione.

(G. Courtois, Quando il Maestro parla al cuore).

 

Settimana Santa

Signore Gesù Cristo, nell’oscurità della morte

Tu hai fatto che sorgesse una luce;

nell’abisso della solitudine più profonda

abita ormai per sempre la protezione potente

del tuo amore;

in mezzo al tuo nascondimento

possiamo cantare l’Alleluia dei salvati.

Concedici l’umile semplicità della fede,

che non si lascia fuorviare

quando tu chiami nelle ore del buio, dell’abbandono,

quando tutto sembra apparire problematico;

concedi in questo tempo nel quale attorno a te si combatte una lotta mortale,

luce sufficiente per non perderti;

luce sufficiente perché noi possiamo darne

a quanti ne hanno ancora più bisogno.

Fai brillare il mistero della tua gioia pasquale,

come aurora del mattino, nei nostri giorni,

concedici di poter essere veramente uomini pasquali

in mezzo al sabato della storia.

Concedici che attraverso i giorni luminosi ed oscuri

di questo tempo

possiamo sempre con animo lieto

trovarci in cammino verso la Tua gloria futura.

Amen

(J. Ratzinger).

 

Finché sono nel mondo, sono luce di questo mondo

Quanto sono sciocchi quei giudei che chiedono: «È lui che ha peccato o i suoi genitori?» (Gv 9,2) riconducendo le infermità del corpo alla responsabilità delle colpe. E perciò il Signore dice: «Non ha peccato né lui né i suoi genitori, ma ciò è accaduto perché in lui si manifestassero le opere di Dio» (Gv 9,3). Spetta infatti al Creatore, che è autore della natura, ridare forma a ciò che mancava alla natura. Perciò aggiunse: «Finché sono nel mondo, sono luce di questo mondo» ( Gv 9,5), cioè tutti quelli che sono ciechi possono vedere se mi chiedono la luce.

Accostatevi anche voi e ricevete la luce per poter vedere. […] Quanto al fatto che il Signore fece del fango e lo spalmò sugli occhi del cieco, che altro significa se non che si comportò così perché tu comprendessi che egli restituì la salute a quell’uomo spalmando del fango come aveva formato l’uomo dal fango e che la carne del nostro fango riceve la luce della vita eterna mediante i sacramenti del battesimo? Va’ anche tu alla piscina di Siloe, cioè a colui che è stato inviato dal Padre, come trovi scritto: «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha inviato» (Gv 7,16). Cristo ti lavi perché tu possa vedere. Vieni al battesimo, ormai il tempo è vicino. Vieni subito per poter dire anche tu: «Sono andato, mi sono lavato e ho cominciato a vedere» (Gv 9,11), per poter dire, come disse costui dopo che gli fu ridata la vista: «La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13,12). La cecità era notte. Era notte quando Giuda prese il boccone da Gesù e in lui entrò Satana. Era notte per Giuda dentro il quale vi era il diavolo. Era giorno per Giovanni che riposava sul petto di Gesù (cfr. Gv 13,21-30). Era giorno anche per Pietro quando vedeva la luce di Cristo sul monte (cfr. Mt 17,1-8); per gli altri era notte, ma per Pietro era giorno. Ma anche per Pietro era notte quando negava Cristo; il gallo cantò ed egli si mise a piangere (cfr. Mt 26,74-75) per emendare il suo errore. Infatti, ormai il giorno era vicino.

(AMBROGIO, Lettere 67,3.6-7, Opera omnia di sant’Ambrogio, pp. 190-192).

 

Chi aprirà i nostri occhi?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente chiusi

per evitare di vedere

la miseria agitarsi alla nostra porta?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente tappati

per evitare di guardare

faccia a faccia

il prossimo

che ci viene incontro?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente velati

per evitare di essere abbagliati

dalla presenza di Cristo

con il suo vangelo esigente?

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere lo Spirito di Dio

all’opera sui molteplici cantieri

dove l’umanità si rinnova?

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere il seme

che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata?

 

Preghiera

Dio onnipotente

la tua eterna parola è la vera luce

che illumina ogni uomo.

Guarisci la cecità dei nostri cuori,

perché possiamo discernere

che cosa è giusto

e amarti sinceramente.

(H.J.M. Nouwen, Preghiere dal silenzio, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 95)



Il cieco nato, p. affreschi bizantino-campani, 1072-1078, Basilica di San Michele Sant’Angelo in Formis (CE).

© Su concessione di don Francesco Duonnolo.

La Basilica benedettina di San Michele Arcangelo, costruita a Sant’Angelo in Formis nell’XI sec., è impreziosita da affreschi per molti versi unici in cui sono stati fusi insieme lo stile bizantino e quello campano-cassinese. Il ciclo pittorico presenta una forte impronta cristologica e risponde a un preciso programma iconografico che più artisti hanno provveduto a realizzare.
Alle storie dell’Antico Testamento corrispondono quelle del Nuovo e in particolare le scene riguardanti i miracoli compiuti da Gesù durante il suo ministero pubblico. Il riquadro in cui è affrescato l’episodio della guarigione del cieco nato alla piscina di Siloe è suddiviso in due fotogrammi senza soluzione di continuità: da una parte troviamo Gesù seguito da due discepoli mentre con la mano destra tocca gli occhi del cieco appoggiato a un bastone. Gesù, “via, verità e vita”, “rivelatore del Padre”, “Sapienza eterna di Dio” e suo “esegeta”, tiene nella mano sinistra un rotolo e si protende verso il cieco perché possa ricevere il dono della luce della verità divina: Dio, infatti, nessuno lo ha mai visto, ma proprio il Figlio unigenito, che è Dio e che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (cf. Gv 1,18). Gesù è la luce del mondo, quella luce che brilla nelle tenebre (cf. Gv 1,5), chi segue lui non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita (cf. Gv 8,12).
Nella seconda parte della scena il cieco è presentato da solo mentre si lava alla piscina di Siloe raffigurata come una sorta di vasca battesimale su cui viene riversata dell’acqua viva da una sorgente posta in alto. Il significato della scena in cui si illustra l’itinerario battesimale di chi è chiamato a seguire Cristo sembra essere chiaro: il cieco è simbolo di chi è nel peccato e l’acqua rimanda al battesimo che è il sacramento che libera dalle tenebre del peccato e dell’ignoranza e rigenera a vita nuova rivelando la verità del vangelo e della salvezza.
«Ecco quindi il significato immediato del miracolo operato da Gesù: Egli è veramente Dio, il quale come può immediatamente dare la vista ad un cieco, così tanto più può dare la vista all’anima, può aprire gli occhi interiori perché conoscano le Verità supreme che riguardano la natura di Dio e il destino dell’uomo. Perciò la guarigione fisica del cieco, che è causa poi della sua fede, diventa un simbolo della conversione spirituale» (Giovanni Paolo II, 29-3-1981).

Lungo il cammino della Quaresima che conduce alla celebrazione della Pasqua di risurrezione, il credente è chiamato a riscoprire il proprio battesimo, a fare ritorno alla sorgente della luce e della vita nuova, tenendo bene in mente l’esortazione dell’apostolo: «Un tempo eravate tenebra ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce» (Ef 5,8). Vivere come “figli della luce” vuol dire non partecipare alle «opere infruttuose delle tenebre» (Ef 5,11) e cercare quanto è gradito al Signore (cf. Ef 5,10). Nella figura del cieco nato l’umanità intera riconosce se stessa nella sua ricerca della luce e della verità, come ci ricorda tra S. Agostino: «L’illuminazione del cieco è molto significativa. Il cieco nato rappresenta il genere umano, che fu colto dalla cecità nel primo uomo quando peccò. Come la cecità ebbe origine dall’infedeltà, così l’illuminazione nasce dalla fede» (Commento al Vangelo di Giovanni, 44).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» (2014).

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messagge-ro, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

IV DOMENICA DI QUARESIMA

III DOMENICA DI QUARESIMA

 Prima lettura: Esodo 17,3-7

In quei giorni, il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?».  Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!».  Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà». Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?».

 

  • Il brano presenta la comunità israelitica nel deserto in cammino verso la terra promessa. Una marcia ardua, estenuante, per scarsità di cibo e penuria di acqua. Certo Dio aveva dato segni strepitosi della sua presenza e assistenza sia in Egitto che nel deserto (cap. 16: la manna e le quaglie); si poteva sempre sperare in un suo soccorso, ma l’uomo è a volte più sensibile che intelligente, più diffidente che credente e tali si mostrano gli israeliti alla constatazione di non avere acqua da bere.

         La protesta contro Mosè, e quindi contro il Signore, è spontanea e immediata; ma anche la risposta di Dio è pronta e chiara. L’acqua non è fatta sgorgare dal terreno come sempre avviene, ma dal cuore della pietra, dalla roccia, perciò è un’acqua, più che miracolosa, misteriosa. L’autore ha voluto raccogliere il favore occasionale e tutti gli altri benefici che Israele ha ricevuto dal suo Dio, che il salmista chiama ripetutamente «mia fortezza, mia liberazione, mia rupe in cui trovo riparo, mio scudo e baluardo, mia potente salvezza» (Sl 18,3; cf. Sl 94,1).

         L’acqua in questo contesto è la bevanda essenziale dell’uomo senza la quale non riesce a sopravvivere, ma è anche il simbolo della grazia divina, della protezione che egli accorda agli uomini, al suo popolo, senza la quale la continuità nel bene non si realizza.

         L’uomo deve poggiare bene i piedi sulla terra ferma per sentirsi sicuro, ma il credente sa di appoggiarsi su basi ancor più solide, la fede in Dio. Per lo spirito la fede è come l’acqua per il corpo. Senza l’una o l’altra tutta la vita si spegne.

         Il problema non è l’acqua, ma se Dio è ancora al centro della propria vita (v. 7).

 

Seconda lettura: Romani 5,1-2.5-8

Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

 

  • Paolo rassicura i cristiani di Roma che la loro salvezza conseguita attraverso il vangelo (1,16) non può essere più messa in dubbio o in pericolo. È il tema o la tesi di tutto lo scritto. La dimostrazione procede negativamente (né i pagani, né i giudei sono sulla via giusta: 1,18-3,20) e positivamente (3,21-31: ci si salva tramite la fede nella redenzione operata da Cristo). Il tutto è illustrato biblicamente con il richiamo alla giustificazione di Abramo, conseguita solo attraverso la fede (4,1-25).

         Il discorso del capitolo V è ripreso da capo per approfondimenti e sviluppi. Sono presentati i benefici della salvezza (5,1-11) e dichiarati sconfitti per sempre i suoi tradizionali nemici: il «peccato», la «morte», la «legge» (5,12-7,25).

         Il brano 5,1-11 si può ritenere centrale nella tematica della lettera. Esso elenca i benefici della salvezza cristiana, presenta lo «stato» dell’uomo nuovo rigenerato dalla fede in Cristo, che è adesione mentale a particolari verità, ma soprattutto conformità operativa a quanto Gesù ha fatto (cf. At 1,1; Lc 24,19).

         Paolo però da grande teologo dà molto peso alle basi teoriche della salvezza cristiana. Egli suppone con la comune tradizione biblica che l’uomo è un peccatore fin dalla nascita, quindi in disgrazia con Dio, per cui come prima cosa deve dimostrare che l’inimicizia con l’Altissimo è stata cancellata e che l’uomo ora si trova «in pace con Dio» (5,1).

         Questa riconciliazione è avvenuta in virtù dell’«azione redentiva» di Cristo che Dio ha costituito «strumento di espiazione» dei peccati dell’umanità di tutti tempi fino al momento presente (3,23-26).

         La morte di croce è il sacrificio di una nuova alleanza, cioè di una nuova, amichevole intesa tra Dio e gli uomini. Salvarsi è inserirsi nel processo che porta dal peccato alla comunione con Dio; è credere al valore propiziatorio della morte di Cristo e riceverne così i «frutti». È riconoscere che Dio è di nuovo amico dell’uomo, grazie all’immolazione che Gesù ha fatto della sua vita, per ristabilire l’ordine turbato dal peccato. Accettando questa impostazione, il credente ritrova la sicurezza, perciò la felicità, la gioia di sentirsi salvo, cioè in pace con la propria coscienza e con Dio. Ancor più egli si sente come inondato dall’amore di Dio che ha compiuto opere così insolite, il sacrificio dei figlio, per ridare la felicità all’uomo.

         Paolo è un dottore, bisognoso quindi di sistemazioni dottrinali, di concezioni logiche; forse per questo ha cercato di dare alla salvezza cristiana una spiegazione teorica più che storica.

         È certamente vero che l’uomo può diventare, diventa peccatore, ma si libera dal suo stato di colpa non tanto guardando alla morte di croce subita da Gesù Cristo o appropriandosi i suoi «meriti», di cui i vangeli non parlano, ma convertendosi dalla propria condotta iniqua verso le vie della giustizia e della santità. Non conta tanto pensare bene, quanto fare il bene.

         La fede non è avere idee esatte su Cristo o su Dio o sulla missione compiuta da Gesù, ma prendere sulle proprie spalle la sua stessa croce e portarla coraggiosamente per le stesse ragioni per cui l’ha portata lui, sostenere i diritti degli uomini, poveri, ammalati, sofferenti, peccatori, oltre che quelli di Dio. Solo vivendo e lottando per questa causa per cui egli è morto, ossia si è lasciato uccidere, l’uomo può dirsi un vero cristiano e trovarsi inondato da serenità e pace, perché la carità di Dio abita veramente in lui, perché è pervaso dall’amore per i fanciulli.

 

Vangelo:Giovanni 4,5-42

 In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani.  Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».  Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».  Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcun gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

 

Esegesi 

Il vangelo di Giovanni appare una comune narrazione, mentre in realtà è una trattazione teologico-apologetica.

     L’opera si apre con una duplice presentazione di Gesù: Logos incarnato (1,1-18) e Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (1,29). Dopo queste premesse Gesù apre la sua missione in Galilea, a Cana (2,1-12), quindi riparte ufficialmente da Gerusalemme, dal tempio (2,14-24). Da qui inizia ad avvicinare la gente: i giudei (Nicodemo: 3,1-21), i samaritani (4,1-42), i pagani (il funzionario regio: 4, 46-54).

     La donna che Gesù incontra al pozzo di Sicar è un individuo, ma più ancora una comunità, anch’essa palestinese, quindi di origine ebraica, ma che aveva subito contaminazione razziali e religiose da quando gli assiri avevano distrutto il regno del nord (722 a.C.), deportando gli abitanti e trapiantando sul posto colonie di pagani. Per di più risentiva dello scisma proclamato da Geroboamo a nome delle tribù del nord dal regno del sud o di Giuda (1Re 12,25-32). Per queste ragioni, ricorda la donna a Gesù, i giudei e i samaritani non familiarizzavano. Di fatti essi si attenevano solo o soprattutto al Pentateuco e non frequentavano il tempio di Gerusalemme, ma celebravano le loro liturgie sul Garizim.

     Gesù ha un messaggio per tutti i figli d’Israele, quindi anche per i samaritani. Intanto egli era un galileo, quindi in partenza non trovava disagio a incontrarsi con esponenti samaritani. Il difficile era far pervenire ad essi le sue proposte: la necessità di recedere dalle loro convinzioni e tradizioni. In tutti i modi, anche i samaritani rientrano nella cerchia dei suoi destinatari, per questo «deve» passare attraverso il loro territorio.

     L’incontro con la donna, simbolo della popolazione samaritana, avviene presso il pozzo di Giacobbe. Entrambi sono di fronte alla sorgente con lo stesso scopo: dissetarsi. Gesù è un missionario che passa da un villaggio all’altro; nessuna meraviglia che si stanchi e abbia sete. Ma l’acqua del pozzo diventa il pretesto di un’ampia discussione storico-teologica, ebraico-cristiana.

     La donna si sente interpellata («dammi da bere») ma sente anche offrirsi un’acqua diversa, «viva», capace di estinguere ben altra sete. Come il corpo, anche la mente, il cuore, possono trovarsi riarsi, addirittura inariditi, quindi nella necessità di venire rianimati, rivivificati.

     Il dialogo si protrae per varie battute. La donna mette in risalto la grandezza del patriarca Giacobbe; Gesù non la smentisce. È il punto in cui le loro radici si incontrano. Solo fa osservare che l’acqua materiale non basta a calmare tutte le esigenze, i bisogni dell’uomo. Egli conosce un’altra acqua, che egli è in grado di offrire a chi gliene fa richiesta, che veramente estingue ogni sete. Nel seguito del vangelo Giovanni presenta Gesù e invita gli uditori ad accostarsi a lui e bere l’acqua che egli offriva. «Chi ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva scorreranno dal suo seno. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui» (7,37-38). In parole più semplici, Gesù propone alla donna e a tutti gli ascoltatori il suo messaggio di pace e di amore.

            La samaritana forse comincia a sospettare qualche secondo senso delle parole di Gesù, ma invece di chiedere opportune dilucidazioni cerca di evadere intavolando altri discorsi. Gesù la blocca una prima (4,17-18), una seconda (4,19-20), una terza volta. Ella si è accorta di essere entrata in una controversia troppo ardua; più che pensare a risolverla, subito ritiene che sia, meglio aspettare il messia che deve venire a rendere ragione di tutto. Vuoi fuggire ma Gesù le si pone davanti e la ferma con le parole: «Sono io, che parlo con te» (v. 26).                               

     L’evangelista non parla del processo di conversione che si è verificato nell’interlocutrice di Gesù; la mostra non solo convertita ma già apostola di Cristo (vv. 28-29). L’«anfora» con cui ella era venuta ad attingere l’acqua, rimane lì abbandonata; segno che il dono di Giacobbe non era così indispensabile soprattutto per chi ha ormai conosciuto e sperimentato l’acqua viva offerta dal Cristo.

     La conversione dei samaritani è immediata e entusiasta. E se la donna è stata il tramite della loro adesione al messia, la loro fede però non si basa sul suo racconto, su quanto ella dice, ma su quello che essi stessi hanno visto.

     In questa grande pagina piena di luce profetica l’unica ombra che offusca il quadro è il ridimensionamento della parte e della funzione della donna nella conversione dei suoi connazionali. I suoi discorsi sul messia sono ritenuti chiacchiere più che annunzi. Il termine lalian che l’evangelista adopera è intenzionale; denota «loquacità» quasi pettegolezzo; tutt’altro che ministero apostolico!

 

Meditazione 

      Dopo la sintetica visione della storia di salvezza attraverso la memoria di Adamo e di Abramo nelle prime letture delle prime due domeniche di Quaresima del ciclo «A», le tre domeniche successive, con le immagini rispettivamente dell’acqua, della luce e della vita, presentano una tematica sacramentale legata all’iniziazione cristiana.

    Il dono dell’acqua nel deserto che placa la sete del popolo durante il cammino esodico è segno della sollecitudine di Dio (I lettura); nel vangelo la simbolica dell’acqua evoca l’azione dello Spirito e della Parola, cioè il dono di Dio (Gv 4,10) che apre la donna ad accogliere il dono della fede; il dono dello Spirito è segno dell’amore divino versato nel cuore dell’uomo (II lettura).

    Il vangelo interpella il credente sulla sete, sul desiderio che lo abita. E suggerisce che la nostra sete profonda è sete di incontro e di relazione. L’incontro tra Gesù e la samaritana inizia dall’atto con cui Gesù osa il suo bisogno di fronte a lei: «Dammi da bere» (Gv 4,7). L’incontro necessita del coraggio di chi si fa mendicante presentandosi all’altro nella propria povertà. La donna cerca di attingere acqua e Gesù le chiede di dargli da bere. Interrogando la domanda che Gesù le rivolge, la donna stessa giungerà a domandare: «Signore, dammi di quest’acqua» (Gv 4,15). Questa povertà condivisa diviene la base dell’incontro in verità. E ciò che disseta appare proprio l’incontro: in effetti, secondo il racconto, la donna non attingerà dal pozzo e Gesù non berrà l’acqua.

     L’incontro prende l’avvio da una pessima base di partenza: l’inimicizia categoriale. Di fronte, inizialmente, non vi sono due volti, due nomi, due biografie, due sofferenze, ma due categorie: un giudeo e una samaritana ( «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?»: Gv 4,9).

    Il coraggio del dialogo, dell’interporre una parola tra sé e la donna, consente l’inizio del cammino che condurrà all’incontro e che guiderà la donna alla fede. Lo stupore della donna («Come mai?») è il primissimo segno di un cammino della donna verso Gesù, ma che sarà anche verso se stessa, sarà cammino interiore, sarà coraggio di affrontare la propria verità profonda. «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice…» (Gv 4,10). Nessuno è solo appartenenza etnica o professione religiosa. Dalla polarità aggressiva e ostile «noi»-«voi» (Gv 4,20), occorre passare al coinvolgente «io»-«tu». Gesù arriverà a dirsi e a darsi con le parole: «Sono io, che parlo con te» (Gv 4,26). Gesù vince quelle barriere identitarie che gli uomini erigono e che, quando si sedimentano, diventano, da un lato, una seconda pelle, una sorta di identità aggiunta e, dall’altro, la lente (deformante) con cui guardiamo gli altri oggettivandoli nelle nostre definizioni e imprigionandoli nelle nostre categorie, identità non è un dato fisso, ma avviene e diviene nell’incontro con l’altro.       Momento importante nell’itinerario dell’incontro è quello in cui Gesù invita la donna a passare dalla domanda che lui le ha posto alla domanda che lui stesso è (Gv 4,10). Il vero dialogo non impone, ma suscita e accresce l’interesse reciproco. E si nutre di domande sempre nuove piuttosto che di risposte nette e definitive. Il testo presenta una pedagogia verso la fede in cui la donna riconosce Gesù come profeta (v. 19) e messia (vv. 25-26.29) e quindi diventa apostola, annunciatrice di Gesù salvatore del mondo (vv. 28-30.39-42). La donna diviene credente ed evangelizzatrice. Ma il cammino del riconoscimento di Gesù quale Signore implica un contemporaneo cammino di conoscenza di sé in cui anche gli aspetti moralmente più problematici, quelli che normalmente una persona ha difficoltà a confessare a se stessa, sono riconosciuti. Solo così l’incontro avviene nella verità. Culmine di questo incontro nella verità è il momento in cui la donna riceve da Gesù il racconto di tutto ciò che lei ha fatto (v. 29). Il racconto che lei nascondeva per vergogna a se stessa, le è ora fatto da un altro che la accoglie e non la giudica, e così la conduce ad accettarsi e a conoscersi davanti a Gesù.

 

Immagine della Domenica


 

BERE ALLA SORGENTE

Scende dalla sorgente

l’acqua che sgorga dalla terra

per dare la vita,

irrigare, fecondare, dissetare.

Scende dalla sorgente

la parola del Dio vivente

per annunciare la salvezza

e seminare in noi la giustizia e la pace.

Scende dalla sorgente

la presenza dell’amico

per accompagnarci sempre e condividere

le nostre gioie e le nostre tristezze.

Scende dalla sorgente

la mia fiducia nel Dio di Gesù

per amare e impegnarmi

vicino a coloro che soffrono.

Scende dalla sorgente

la vita possibile

la ridonata

malgrado tutti gli ostacoli.

È là, vicinissima, la sorgente.

Un imperativo: Vieni!

 

Preghiere e racconti

L’acqua della Vita

«Come la cerva assetata cerca un corso d’acqua, anch’io vado in cerca di te, mio Dio.

Di te ho sete, o Dio vivente» (cf Sal 42).

In questa icona composita vediamo Mosè nel deserto: egli ha lasciato a valle il popolo assetato per salire sul monte a chiedere a Dio l’acqua che rigenera. La mano del Padre lo benedice e gli assicura che non abbandonerà il popolo che ha fatto uscire dall’Egitto. L’Amore misericordioso di Dio lo protegge e lo guida nel cammino verso la Terra Promessa. Dall’acqua viva che scaturisce dalla roccia emerge un «pesce» che è simbolo di Gesù Cristo.

Nell’altra parte dell’icona, la donna samaritana va al pozzo per dissetarsi: lì incontra Gesù che l’aspetta e che le offre l’acqua che toglie la sete in eterno.

Nella composizione è la stessa acqua del deserto che lambisce il pozzo di Giacobbe e alla quale noi oggi possiamo attingere per la pienezza della nostra vita.

Anche il gregge si disseta alla medesima acqua che salva. Sulla roccia c’è un libro aperto da leggere e le chiavi per entrare nella casa del Padre: il Libro dei Vangeli allude alla predicazione dell’apostolo Paolo, mentre le chiavi del Regno ci ricordano l’apostolo Pietro e la sua professione di fede a Cesarea.

 

Bere l’acqua della roccia

è dissetarsi alla sorgente

del tuo amore puro…

Non sono i beni terreni

a estinguere la sete.

Tu,

Signore mio,

mio Cristo,

sei il Bene

che l’anima mia desidera,

acqua viva,

cascata di gioia,

sete

appagata da un Amore

a lungo sognato.

 

Percorri tutta la Scrittura in cerca di pozzi

I patriarchi hanno avuto i loro pozzi: certamente Abramo e Isacco ma penso anche Giacobbe. Parti da questi pozzi, percorri tutta la Scrittura in cerca di pozzi e arriva ai Vangeli. Troverai quello accanto al quale nostro Signore si riposava dopo le fatiche del viaggio, quando giunse una donna samaritana ad attingervi acqua Allora egli spiega quali sono le virtù del pozzo – o dei pozzi- nelle Scritture e, comparando le diverse acque, rivela i segreti del mistero divino. Si dice, infatti, che se uno beve delle acque fornite dal pozzo terrestre avrà ancora sete, ma in chi avrà bevuto delle acque date da Gesù scaturirà una «sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». In un altro passo del Vangelo, non si tratta più di sorgente o di pozzi, ma di qualcosa di più importante. Dice la Scrittura: «Chi crede in me… fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Vedi quindi: colui che crede in lui possiede ben più di sorgenti, di fiumi; possiede sorgenti e fiumi che non alleviano questa vita mortale, ma procurano quella eterna.

(Origene, Omelia sui pozzi di Giacobbe, in Dodicesima omelia sul libro dei Numeri).

 

Venite a vedere quest’uomo

Dicendole il fatto suo, gli altri non facevano che schiacciare la donna samaritana. Gesù, dicendole ciò che ha fatto, la solleva. Dicendole il male che ha fatto, la libera da esso, lo separa da lei. Glielo prende e lo getta lontano da lei nell’oceano del perdono di Dio. Invece del fardello pesante del suo peccato, ecco il fardello leggero del perdono del suo peccato. Strano fardello, che la sostiene, la fa correre verso la gente del villaggio. Dimentica persino la brocca! La brocca può aspettare! Tutto può aspettare, eccetto la predicazione, la diffusione della notizia: Venite a vedere! venite a vedere quest’uomo che mi ha detto tutto ciò che ho fatto! Non sarebbe il Cristo!

(Th. Riebel, Le trombe di Gerico).

 

La primavera si annuncia

A metà Quaresima, ho preso coscienza che la Pasqua sta venendo di nuovo: i giorni sono diventati più lunghi, la neve si sta ritirando, il sole porta nuovo calore e si sente il canto di un uccello.

Ieri, durante le preghiere della sera, un gatto stava miagolando! È vero: la primavera si annuncia. E stasera, o Signore, ho ascoltato le parole che hai detto alla Samaritana: «Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». Che parole! Meritano molte ore, molti giorni e settimane di riflessione.

Le porterò con me nella mia preparazione alla Pasqua. L’acqua che tu dai diventa sorgente che zampilla. Quindi, o Signore, non devo essere avaro con i tuoi doni. Posso liberamente lasciare che l’acqua sgorghi da dentro me e che chiunque lo desideri ne beva. Forse addirittura vedrò questa sorgente in me quando gli altri verranno a essa per estinguere la loro sete.

(H.J.M. NOUWEN, Preghiere dal silenzio, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 70-71).

 

I veri conoscitori e adoratori di Dio si riconoscono dalle mani

Ci sono mani violente che stringono la verità di Dio, indurita come fosse una pietra, e sono pronte a scagliartela in faccia, come hanno tentato di fare con Gesù. Sono le mani degli integralisti, dei fondamentalisti, degli intolleranti, dei fanatici, di tutti coloro che sequestrano Dio dentro le loro piccole chiese, dentro le loro strutture religiose, dentro l’orgoglio di poter dire come i Giudei:”Noi sappiamo”, mentre non sanno che quanto più parlano di Dio, tanto più lo fanno odiare. E ci sono altre mani che esprimono la più pura teologia: sono mani che pregano, che stringono altre mani, che accarezzano volti di amici, che compiono gesti di pietà su chi soffre, che chiudono con immensa tenerezza gli occhi di chi muore. E’ attraverso questi gesti che si rivela la verità più profonda su Dio. Vogliamo conoscere il nostro rapporto con Dio? Soffermiamoci qualche volta a osservare le nostre mani per vedere di che cosa sono capaci. La vera teologia non ha la freddezza dei concetti che possono diventare pietre in mani altrettanto fredde, ma ha il calore delle mani che si aprono nel gesto di ricevere e di donare amicizia.

(Luigi Pozzoli, L’acqua che io vi darò).

 

La vecchia fontana

La vecchia fontana del villaggio, tronco secolare di larice, scavato, trasportato e sistemato a “corvé”, era un po’ il cuore ed il centro del villaggio. Là andavano tutti: ad attingere acqua, le mucche a bere, le donne a lavare. “Vado all’acqua”, diceva il bambino ed aveva la scusa per andare a giocare. “Vado a prendere un secchio d’acqua”, ripetevano i giovani per poter godere di un fugace incontro d’amore. “Mi occorre acqua”, si diceva il vecchietto desideroso di un saluto o di un incontro. A volte, perché no? Alla fontana, nascevano tentazioni ed occasioni di… lavare i panni propri e altrui, perché, si sa, nel villaggio, tutto è di tutti. Ora? L’acqua giunge nelle case; la fontana sembra soffrirne, la terra s’accumula sul fondo, qua e là il tronco comincia a marcire, l’acqua si copre di muschio verdastro. Poche sono le mucche che vanno ad abbeverarsi mattina e sera, la vecchia fontana però, come sempre, ancora ripete a tutti, col suo canto continuo: dona, dona ciò che puoi e che hai, con perseveranza, con generosità, senza far distinzioni e donalo soprattutto con gioia e serenità. D’estate come d’inverno, al mattino come alla sera, dona e canta!

(Gianfranco Bini, Lassù gli ultimi, Champorcher, 2001).

 

Sorgente

La sorgente che sgorga dal profondo

della roccia sulla montagna

non si secca mai.

Ma noi camminiamo

a malavoglia,

e ci lamentiamo per la sete.

Cammina, se vuoi bere.

Il pozzo è vicino alla strada,

ma qui attingerà per noi

l’acqua che ci toglie     

la fatica e la sete?    

Di’ che vuoi bere.   

Gesù ci aspetta     

sulla montagna.     

Una donna ci accoglie  

al bordo del pozzo.    

E beviamo alla sorgente  

di acqua viva,        

attingiamo nel profondo

della vita.

Felicità che ristora.

 

La Samaritana (Gv 4, 5-23)

La sete terrestre è inevitabile, ma è anche relativamente facile da estinguere. Resta all’esterno dell’uomo, un semplice segno di altri tipi di sete che dormono nella sua profondità. Come la Samaritana, l’uomo li ignora finche Gesù in persona non viene a risvegliarli.

Spesso, è sufficiente il semplice incontro con lui per renderli più profondi e ravvivarli ancora e, allo stesso tempo, per soddisfarli. Egli è al contempo la nostra sete ed il suo sollievo.

L’incontro con Cristo Gesù ha un qualcosa di definitivo, di eterno. Egli tocca il nostro desiderio profondo, che non esce mai indenne da questo contatto. Gesù accoglie tutti i nostri desideri e al tempo stesso li esaudisce.

(A. Louf, Beata debolezza, Anno A).

 

Lo spirito, l’acqua e il sangue

Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua (Ger 2,13). Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza (Is 12,3). Nell’ultimo giorno il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui (Gv 7 37.39).  Uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua (Gv 19,34).

Tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi (1Gv 5,7-8).

 

È per te che Gesù si è stancato nel viaggio

«Gesù, dunque, stanco per il viaggio, sedeva sul pozzo. Era circa l’ora sesta» (Gv 4,6). Cominciano i misteri. Non invano si stanca Gesù, non invano si affatica la forza di Dio; non invano si stanca colui che, quando siamo affaticati, ci dona sollievo. Non invano si affatica il Signore: quando è lontano, ci sentiamo affaticati, quando è vicino ci sentiamo confermati. Gesù è stanco, stanco del viaggio e siede, siede vicino al pozzo ed è l’ora sesta quando, stanco, si mette a sedere. Tutto ciò vuoi suggerirci qualcosa, vuoi rivelarci qualcosa, richiama la nostra attenzione, ci invita a bussare. Ci apra lui stesso, a noi e a voi, quello stesso che si è degnato di esortarci dicendo: «Bussate e vi sarà aperto» (Mt 7,7). È per te che Gesù si è stancato nel viaggio. Troviamo Gesù pieno di forza e lo vediamo debole; Gesù è forte ed è debole, forte perché «in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio» ( Gv 1,1 ). Vuoi vedere com’è forte il Figlio di Dio? «Tutto è stato fatto per mezzo di lui e niente è stato fatto senza di lui» (Gv 1,3) e tutto senza fatica. Che cosa dunque è più forte di lui che ha fatto tutte le cose senza fatica? Vuoi conoscere la sua debolezza? «Il Verbo si è fatto carne e abitò fra di noi» (Gv 1,14). La forza di Cristo ti ha creato, la debolezza di Cristo ti ha ricreato. La forza di Cristo fece sì che esistesse ciò che non era, la debolezza di Cristo fece sì che non si perdesse ciò che era. Ci ha creati con la sua forza, ci ha cercato con la sua debolezza. Con la sua debolezza nutre i deboli come la gallina i suoi pulcini. Ad essa lui stesso si è paragonato: «Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli sotto le ali, come la gallina i suoi pulcini, e tu non hai voluto!» (Mt 23,37). […] Stanco per il cammino che altro significa se non affaticato nella carne? Gesù è debole nella carne ma tu non essere debole; sii forte nella sua debolezza perché «la debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1, 25).

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 15,6-7, in Opere di sant’Agostino XXXIV, pp. 350-352).

 

Il pozzo

Tu solo conosci il mio passo

sulle strade dell’uomo

io so che tu sei qui.

Lungo i giorni grinzosi

tu mi accompagni:

la tua luce improvvisa

alla svolta della montagna

e ogni sera del tempo

la tua ombra fedele

sull’orlo

del pozzo dove mi aspetti.

(J. Vuaillat, Cammini).

 

Preghiera

Aspettaci, Signore, al pozzo del convegno,

nell’ora provvidenziale che scocca per ognuno.

Presentati e parlaci per primo,

tu mendicante ricco dell’unica acqua viva.

Distoglici, pian piano, da tanti desideri,

da tanti amori effimeri che ancora ci trattengono.

Sciogli l’indifferenza, i pregiudizi, i dubbi e le paure, libera la fede.

Scava in noi il vuoto, riempilo di desiderio.

Fa’ emergere la sete, attraici con il tuo dono.

Dilata il nostro cuore, infiammane l’attesa.

Da’ nome a quella sete che dentro ci brucia,

senza che sappiamo chiamarla con il suo vero nome.

Riportaci in noi stessi,

nel centro più segreto dove nessun altro giunge.

Tra le dure pietre dell’orgoglio,

il fango dei compromessi,

la sabbia dei rimandi,

scava tu stesso un varco al tuo Santo Spirito.

 

Tintoretto (Robusti, Iacopo 1518-1594), Cristo al pozzo della samaritana, Firenze, Galleria degli Uffizi.

© 2014. Foto Scala Firenze – Su concessione Ministero Beni e Attività Culturali.
 

Il dipinto del Tintoretto si concentra sulla sola figura del Cristo, appoggiato con il gomito sinistro al pozzo e proteso verso la figura della donna di Samaria la quale però non compare nel dipinto. La posizione di Cristo, l’espressione del suo volto e il suo sguardo rivelano che l’instante raffigurato dall’artista veneziano è quello in cui Gesù si rivolge alla donna per chiederle dell’acqua. Ogni osservatore può identificarsi con la donna del vangelo e riconoscersi come interlocutore del dialogo salvifico poiché «se c’è una sete fisica dell’acqua indispensabile per vivere su questa terra, vi è nell’uomo anche una sete spirituale che solo Dio può colmare. Questo traspare chiaramente dal dialogo tra Gesù e la donna venuta ad attingere acqua al pozzo di Giacobbe».

Lo diceva Benedetto XVI nel febbraio del 2008, e continuava: «Tutto inizia dalla domanda di Gesù: “Dammi da bere” (cf. Gv 4,5-7). Sembra a prima vista una semplice richiesta di un po’ d’acqua, in un mezzogiorno assolato. In realtà, con questa domanda rivolta per di più a una donna samaritana Gesù avvia nella sua interlocutrice un cammino interiore che fa emergere in lei il desiderio di qualcosa di più profondo». È vero, come scrive Sant’Agostino, che «Colui che domandava da bere, aveva sete della fede di quella donna» (Commento al Vangelo di Giovanni  XV,11).
Il vangelo ci introduce in un itinerario che ci porta a scoprire, in compagnia della donna di Samaria, l’acqua viva che estingue la sete per sempre. Lungo questo cammino che coinvolge tutti i credenti si realizza il passaggio da una fede personale alla fede testimoniale, tanto che la stessa Samaritana diviene testimone di Gesù il quale le aveva rivelato la sua identità messianica dicendole: «Sono io che ti parlo» (4,26). Dal dialogo e dall’ascolto della sua parola prende vita la conoscenza di Gesù. La fede, infatti, nasce dall’ascolto, e la fede della donna del vangelo è generata nell’incontro con Colui che le si è fatto incontro. Così come è avvenuto per la Samaritana al pozzo di Giacobbe, nel medesimo modo per ogni uomo chiamato alla fede, nel fonte battesimale ha inizio il cammino che conduce alla vita. È ancora Agostino che scrive: «Così era Gesù, debole e stanco per il cammino. Il suo cammino è la carne che per noi ha assunto. Perché, come potrebbe muoversi colui che è dovunque e che da nessuna parte è assente?
Se va, se viene, se viene a noi, è perché ha assunto la forma della carne visibile. Poiché dunque si è degnato di venire a noi apparendo in forma di servo per la carne assunta, questa stessa carne assunta è il suo cammino. Perciò stanco per il cammino, che altro significa se non affaticato nella carne?

Gesù è debole nella carne, ma tu non devi essere debole; dalla debolezza di lui devi attingere la forza, perché la debolezza di Dio è più forte degli uomini (1Cor 1,25)» (Commento al Vangelo di Giovanni XV,7). La sua debolezza è la forza della Chiesa della quale la Samaritana è figura, così come lo è, in definitiva, dell’umanità intera nella sua inarrestabile ricerca della verità.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» (2014).

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messagge-ro, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

III DOMENICA DI QUARESIMA

II DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Genesi 12,1-4

In quei giorni, il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.

 

 

  • Una richiesta di ascolto che si fa coraggiosa accoglienza è formulata anche nella prima lettura che narra la vocazione di Abramo.

         La costruzione del brano segue lo schema: comando, promessa, esecuzione. Dio è il soggetto del primo verbo e rimane idealmente il soggetto di tutta la storia della salvezza che segue. Il discorso di Dio incomincia con un imperativo che esige da Abramo una radicale rottura con tutti i legami naturali, quello del paese, della parentela più larga e quello della famiglia. Abramo deve abbandonare ogni cosa e affidarsi esclusivamente alla guida di Dio. Deve ascoltare lui solo.

         La richiesta di Dio è esigente ma non invita ad un salto nel vuoto. Nelle frasi che seguono ritorna non meno di cinque volte la radice «benedire». Se Dio esige molto; è pure capace di assicurare un benessere che investe la persona di Abramo e tutta la sua discendenza. Abramo appare fin dall’inizio il modello esemplare di tutti coloro che accolgono la parola divina. Egli sarà il capostipite del popolo ebraico che lo chiama «nostro padre», ma sarà additato come modello di fede anche ai cristiani (cf. Paolo in Rm 4). Anche il Corano, il libro sacro dell’islam, tributerà un grande onore al patriarca.

         La frase finale «Abramo partì (letteralmente: si mise in viaggio)» è più efficace di qualsiasi descrizione psicologica e nella sua grandiosa semplicità ci rivela meglio di ogni altra cosa la portata di questo avvenimento. Abramo fa suo il progetto divino e si sottomette a quella parola dura ma capace di assicurare vita e prosperità. L’ascolto si fa obbedienza e l’obbedienza è premessa di ricca benedizione.

 

Seconda lettura: 2Timoteo 1,8b-10

 Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.

 

 

  • L’ascolto va fatto a Dio (prima lettura e Vangelo) e a coloro che lo rappresentano. In questa lettera che costituisce quasi il suo testamento spirituale, Paolo non manca di dare preziose indicazioni al suo fedele collaboratore Timoteo.

         Il minuscolo brano è composto da un’esortazione iniziale e da un mini trattato teologico che fonda e giustifica tale esortazione.

         L’inizio raccomanda: «Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo». Senza mimetizzare il duro lavoro apostolico, Paolo parla apertamente della sofferenza procurata dall’annuncio del Vangelo. Le resistenze e le ostilità di vario genere non devono scoraggiare o bloccare Timoteo, corroborato sia dall’esempio di Paolo, sia, soprattutto, dalla forza che viene da Dio stesso.

         Vale la pena di impegnarsi totalmente per il Vangelo perché esso è annuncio ed esperienza di salvezza. Lo dice tutto il resto del brano, presentando corpose linee teologiche. La salvezza viene da Dio, è suo dono e non nostro merito. Tale salvezza o grazia giunge a noi per mezzo di Cristo Gesù, chiamato «salvatore nostro». La sua opera consiste soprattutto nel mistero pasquale, richiamato nella frase finale.

         Se Timoteo ascolta Paolo e lavora indefessamente per portare il Vangelo che è Cristo stesso, allora la salvezza si può impiantare nella vita degli uomini e determinare un nuovo corso della loro esistenza.

 

Vangelo:Matteo 17,1-9

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

 

Esegesi 

     Dopo il brillante superamento della tentazione di domenica scorsa siamo immersi nella gloriosa scena di oggi. La trasfigurazione è un tripudio di luce durante il cammino verso la croce. La quaresima ci chiama a rinnovare il nostro impegno cristiano, assicurandoci la possibilità della vittoria e, di più ancora, della gloria. Condizione: seguire Gesù, come ci raccomanda, anzi comanda, la voce divina: «Ascoltatelo».

     Il nostro episodio è collocato tra il primo e il secondo annuncio della passione-risurrezione di Gesù. Poiché Marco e Luca, al pari di Matteo seguono la stessa sequenza, si deve dedurre l’importanza e la necessità di questo ordine. La trasfigurazione di Gesù sul monte non è quindi un episodio isolato, ma prende significato nel contesto del mistero pasquale.

     La scansione dell’episodio segue un chiaro tracciato. Si parte da una premessa storico-geografica (v. 1) e si passa poi al tentativo di esprimere con immagini qualcosa dell’evento (v. 2). La sua straordinarietà è anche affidata alla presenza di due autorevoli testimoni quali Mosè ed Elia (v. 3), alla frase maldestra di Pietro che non riesce a percepire bene il senso di quanto sta vivendo (v. 4) e alla nube luminosa, segno di un grande intervento di Dio. La sua voce sta come cuore e vertice di tutto il brano, indicando in Gesù colui che i discepoli devono seguire incondizionatamente (v. 5). Raggiunto l’apice con la parola divina, ecco la reazione umana fatta di prostrazione a terra e di timore reverenziale (v. 6), cui segue la parola rassicurante di Gesù (v. 7) e quindi il ritorno alla normalità (v. 8). Il comando di non divulgare l’accaduto prima della risurrezione di Gesù (v. 9) sta a indicare che l’episodio prende intelligibilità solo alla luce del mistero pasquale: un’ulteriore conferma che i due annunci di passione-risurrezione, incorniciando il brano, ne sono già una prima chiave interpretativa.

     Il gruppo degli apostoli, normalmente compatto, conosce eccezionalmente una drastica riduzione nell’episodio odierno che mette in scena solo tre testimoni: Pietro, Giacomo e Giovanni. La scelta si radica nell’imperscrutabile volontà di Gesù. Si possono fare solo dei timidi tentativi per intuire qualcosa di quella volontà. La presenza di Pietro è scontata, data la sua nuova responsabilità (cf. poco prima in 16,13-19). Meno comprensibile la presenza dei due fratelli Giovanni e Giacomo, scelti forse, perché il primo è il discepolo prediletto e l’altro colui che testimonierà per primo la fedeltà a Cristo con il martirio nell’anno 44 (cf. At 12,1-2). In ogni caso, i tre sono gli stessi che qualche tempo più tardi saranno chiamati a condividere un’altra esperienza con Gesù, quella della sua agonia nell’orto degli Olivi. La presenza degli stessi testimoni crea una correlazione tra i due episodi, l’uno di gloria e l’altro di sofferenza.

     La trasfigurazione

     La trasfigurazione avviene in un contesto di lontananza dalla vita ordinaria. Il testo parla di Gesù che conduce i tre in disparte e su un alto monte. È un momento di astrazione dalla vita quotidiana per far tacere le voci rumorose dell’affannoso vivere per calarsi nel silenzio che favorisce l’incontro con Dio. Già il profeta Osea suggeriva questo fruttuoso ritiro: «La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16).

     In generale, il monte è luogo abituale di incontro con Dio. Anche Mosè era salito sul monte per ascoltare la volontà divina, codificata nelle Dieci Parole (cf. Es 19,20). È sulla montagna che si incontra Dio. In tutte le religioni, le divinità hanno la loro abitazione sulla montagna che è il luogo dove cielo e terra s’incontrano.                           

     Il monte della trasfigurazione è stato identificato dal IV secolo – e forse già prima da Origene – con il Tabor, che in realtà non raggiunge i seicento metri sul livello del mare. La sua posizione nella grande pianura di Esdrelon lo rende, nella mappa geografica palestinese, «un alto monte». Inoltre «alto» ha più valore teologico che geografico: esprime allontanamento dal vivere abituale e lo sforzo di ascesa per raggiungere la vetta.

     L’evento di cui essi furono privilegiati testimoni viene chiamato trasfigurazione. Con questo termine si vuole dire che Gesù si presenta diverso transfigurato, cioè al di là (trans) dell’aspetto abituale. È la presentazione del Gesù profondo, quello che normalmente non si conosce. Nell’impossibilità di esprimere a parole il fascio eterogeneo di fatti, sensazioni, emozioni e sentimenti di quanto accaduto, l’evangelista si rifugia nelle immagini: il volto di Gesù diventa splendente come il sole e le sue vesti candide come la luce. La luce, simbolo della presenza divina, investe sia il volto sia le vesti, cioè tutta la realtà di Gesù, dentro e fuori. Si vuol dire che ai tre è concesso di assistere a una manifestazione divina. Sul monte è già paradiso, sul monte è già eternità.

     Mosè ed Elia

     Tutto parla al superlativo, anche la presenza di due autorevoli personaggi quali Mosè ed Elia. La legge ebraica esigeva che un fatto fosse comprovato dall’attestazione di due testimoni (cf. Dt 19,15): ecco il primo significato della presenza dei due.                                                          

     Di più, essi sono visti come il simbolo dell’Antico Testamento, i rappresentanti della legge e dei profeti, i due precursori o testimoni dell’alleanza. Si aggiunga pure che di essi si attendeva il ritorno. Mosè aveva promesso al suo popolo: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me: a lui darete ascolto» (Dt 18,15). Di Elia aveva profetizzato Malachia: «Ecco io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (Mal 3,23). Il rabbino Jochanan ben Zaccai avrebbe detto: «Dio disse a Mosè: quando invierò il profeta Elia, voi due verrete insieme».

     La loro presenza conferisce autorità all’uomo Gesù che, immerso nella luce divina, si qualifica agli occhi dei discepoli come una persona di eccezionale valore. I due testimoniano che la storia è giunta alla sua grande svolta, perché è arrivato il tempo promesso e da tanto atteso, il tempo del Messia.

     L’intervento di Pietro

     A questo punto Pietro è l’unico che riesce a verbalizzare i propri sentimenti ed esce con l’espressione: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Le sue parole portano il marchio della spontaneità, ma anche quello della istintività e della irriflessione.

     È una reazione maldestra, inconsulta, tipica dell’uomo che sembra generoso nel pensare agli altri, ma che in realtà pensa egoisticamente a se stesso e al gruppetto. Pensa esclusivamente all’ora presente che intende trattenere in forma stabile ed esclusiva. Secondo il profeta Osea, l’abitazione sotto le tende è un segno della visita che Dio compie alla fine del tempo per abitare per sempre con il suo popolo (cf. Os 12,10). Pietro pensa che la fine del tempo sia lì, sul monte, e che conviene inaugurare il cielo sulla terra. Le sue sono le parole dell’uomo che vorrebbe eternare quell’attimo per goderlo per sempre.

     Pietro esprime un sentimento umanamente condivisibile. Tutti vorrebbero dimenticare un passato gravato di difficoltà e ignorare un futuro carico di incognite, per assaporare unicamente un presente gratificante.

     Anche se comprensibile e in parte giustificabile, il desiderio di Pietro rimane interiormente bacato, perché vorrebbe snaturare la finalità dell’esperienza. La sua rimane una risposta impropria perché non ha ancora ascoltato, volendo rispondere prima di capire il senso profondo dell’avvenimento. La trasfigurazione è un fatto divino e si comprende solo se Dio ne offre la chiave. Per questo occorre prima ascoltare Dio, e solo in seguito sarà possibile dare una risposta adeguata e corretta.

     La testimonianza di Dio

     La scena, già grandiosa, raggiunge il suo apice con la presenza e la parola di Dio. La nuvola luminosa è la forma sensibile con la quale Dio si rivela. Opaca e risplendente allo stesso tempo, essa manifesta Dio presente senza rivelarne il mistero. È la nube che guida il popolo nel deserto (cf Es 13,21), è dalla nube che Dio parla a Mosè (cf. Es 24,18), è ancora la nube che riempie il tempio al momento della sua consacrazione (cf. 1Re 8,10). Oltre a essere elemento della presenza di Dio, la nuvola coinvolge i tre discepoli che entrano quindi nel mistero di Dio, proprio come Maria, anch’essa partecipe del divino (cf. Lc 1,35).

     Grazie a questo coinvolgimento, i tre discepoli sono in grado di ascoltare la voce divina: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». Già al momento del battesimo (cf 317) la voce divina era intervenuta a proclamare Gesù il «Figlio Prediletto». Ora, la sorprendente novità sta nell’imperativo «ascoltatelo» che designa Gesù soprattutto come il profeta che tutti dovevano ascoltare (cf. Dt 18,15).

     Inserito nel contesto dei due annunci di passione-risurrezione e poco prima di iniziare il cammino verso Gerusalemme, questo «ascoltatelo» del Padre ha la forza propulsiva di un impegno che non può essere disatteso. È come se dicesse: «Ascoltate lui e solo lui». L’ascolto si fa obbedienza (come suggerisce anche la parola italiana ‘obbedienza’ da ob+audio=ascoltare) e quindi sequela. I discepoli sono sollecitati a riporre in Gesù una fiducia incondizionata e a seguirlo. L’ascolto-sequela deve portare i discepoli dove Gesù va, senza tentennamenti e senza resistenze.

     Dopo l’ascolto di Dio, dovrebbe venire la risposta. Solo ora è legittima e fruttuosa. II cadere a terra bocconi e il timore reverenziale dei discepoli costituiscono una prima e ancora istintiva risposta: l’uomo davanti Dio si mette in adorazione. A questo punto Pietro e i suoi amici non sono chiamati a dare una risposta verbale, bensì una risposta esistenziale: smettere di voler modificare il programma messianico impedendo a Gesù la sofferenza (cf. 16,22) e riprendere il cammino, anche se duro, per stare insieme a quel Gesù che ora hanno contemplato per un attimo nel fulgore della sua divinità e soprattutto nella sua intima relazione con il Padre.

     Poi tutto ritorna nella normalità. Spariscono Mosè ed Elia, non si vede più la nube luminosa, né si intende la voce di Dio. Rimane solo Gesù. Solo lui ora conta. Ricchi dell’esperienza avuta ed edotti dall’insegnamento divino, gli apostoli devono capire che la loro vera risposta sarà di seguire Cristo, ovunque egli vada, qualunque strada egli vorrà prendere, perché solo in lui si realizza l’Antico Testamento rappresentato da Mosè e Elia, solo lui è la piena e vivente espressione dell’amore del Padre. Stare con lui significa realizzare la storia, compiere il progetto divino, raggiungere la piena vittoria.

     La consegna del silenzio

     Può sembrare inopportuno il divieto impartito da Gesù agli apostoli di non fare parola della loro esaltante esperienza. Come è possibile non partecipare ad altri un’esperienza che ha permesso di abbracciare cielo e terra? Per quanto difficile a mantenersi, l’impegno al silenzio era saggio. Raccontare l’avvenimento della trasfigurazione, esponeva la persona di Gesù a pericolosi fraintendimenti. C’era poi da dubitare che gli altri sarebbero arrivati a percepire il mistero che si nascondeva dietro le apparenze di un uomo come gli altri.

     La comprensione del Cristo trasfigurato si pone nella linea delle apparizioni del Risorto. Solo quando i discepoli saranno inviati al mondo a testimoniare la sua risurrezione, potranno parlare della trasfigurazione, divenuta allora una forza controllabile e comprensibile. Per il momento se ne devono servire in esclusiva, come un prezioso viatico che li accompagna nel tempo duro che li aspetta. È un momento di sovrabbondanza spirituale che dovrà alimentarli nei momenti di carestia, quando la tentazione, lo scoraggiamento e l’incognita sopravverranno per demolire la fiducia in Gesù e scoraggiarne la sequela.

     Ecco perché l’episodio si colloca tra i due annunci di passione-risurrezione e la sua comunicazione è autorizzata solo dopo la Pasqua. Fuori da questo suo alveo teologico, resterebbe un miracolo difficilmente inquadrabile nella logica del Vangelo.

 

Meditazione 

      La storia di salvezza, che inizia con la vocazione di Abramo (I lettura), trova in Gesù il suo punto culminante, come attestano Mosè ed Elia sul monte della trasfigurazione (vangelo), e prosegue nei tempi della chiesa con la vocazione santa dischiusa dall’evangelo di Gesù Cristo (II lettura). L’ obbedienza di Abramo apre la via al compiersi della promessa di Dio di fare di lui una benedizione per tutte le genti (I lettura); alla trasfigurazione la voce divina chiede obbedienza a Gesù, il Figlio: «Ascoltate lui!» (vangelo); l’evento pasquale è grazia che chiede obbedienza al credente e lo rende testimone (II lettura).

     Al cuore dell’episodio della trasfigurazione vi è la voce dalla nube che comanda l’ascolto di Gesù (Mt 17,5). La reazione dei discepoli alle parole celesti lega ascolto e timore: «all’udire ciò, i discepoli […] furono presi da grande timore» (Mt 17,6). Vi è qui l’eco del passo di Dt 4,32-33 che dice: «Dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra vi fu mai cosa grande come questa, che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco e sia rimasto vivo?». Oggi, l’espressione che parla di «ascolto della parola di Dio» è in bocca a tutti e rischia la banalizzazione: ascoltare la parola di Dio è esperienza temibile che non coincide con la lettura e l’ascolto di pagine bibliche e non può essere confusa con segni dei tempi individuati per via sociologica più che mediante discernimento spirituale. Ascoltare la parola di Dio significa scoprire la presenza di Dio e accoglierla in noi, ma si tratta di una presenza irriducibile all’ordine della rappresentazione, della percezione e della conoscenza. È una presenza altra, è luce. È la presenza luminosa che abita Gesù. E che raggiunge i discepoli grazie alla voce di Dio che, attraverso le Scritture, proclama l’identità messianica di Gesù («Questi è il mio figlio»: Sal 2,7), servo («In lui mi sono compiaciuto»: Is 42,1) e profeta («Ascoltatelo!»: Dt 18,15). L’ascolto della parola di Dio è temibile anche perché conduce al cambiamento, alla conversione, a mutare vita facendo della parola ascoltata il centro rinnovato e innovatore della propria esistenza. L’ascolto della parola di Dio è temibile perché provoca una crisi, un esodo (come avviene per Abramo: Gen 12,1-4), un uscire dalla casa delle certezze e delle abitudini per iniziare un cammino non sorretto da umane sicurezze.

     L’esperienza della trasfigurazione di Gesù coinvolge anche i sensi dei discepoli: essi ascoltano, vedono, sono toccati da Gesù (Mt 17,7: «toccandoli», notazione solo di Matteo). Il corpo è il soggetto dell’esperienza spirituale e i sensi corporei intervengono in essa. Consentendoci di aprirci all’alterità, di metterci in contatto con il mondo, essi svolgono una funzione incoativamente spirituale. E la trasfigurazione ci suggerisce di ritrovare l’unità della spiritualità cristiana uscendo dai dualismi che spesso l’hanno segnata: interiore-esteriore, sensi-spirito, corpo-anima, sensibilità-interiorità… La separazione tra corpo e spirito o la loro confusione conducono alla morte dell’uno e dell’altro e soprattutto fanno sparire l’autentica esperienza spirituale, che è esperienza di tutto l’uomo. Il credente ordina i suoi sensi con la fede, li innesta in Cristo, li allena alla preghiera, li lascia guidare dallo Spirito santo e così la sua esperienza di Dio sarà integrale. Come lo fu per Agostino nell’incontro che cambiò la sua esistenza: «Mi chiamasti e il tuo grido lacerò la mia sordità; balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza e io respirai e anelo verso di te; gustai e ho fame e sete; mi toccasti e arsi dal desiderio della tua pace» (Confessioni X,27,38). Non siamo di fronte a esperienze mistiche riservate a pochi eletti, ma all’esperienza di fede ordinaria del credente che ascoltando la parola di Dio attraverso la Scrittura vede nella fede il volto di Cristo, tocca la sua presenza che gli si offre, gusta la consolazione dello Spirito, piange di compunzione, respira il respiro di Dio, ovvero, giunge a vivere la sua quotidiana esistenza, che è esistenza nel corpo, sotto la luce trasfigurante della grazia.

 

Immagine della Domenica

 

CAMMINO DI SANTIAGO – 2016

 


CAMMINO

Tu non sei la nube

ma la luce che essa nasconde

Tu non sei la parola

ma il silenzio in cui essa nasce

Tu non sei il silenzio

ma oltre ogni silenzio

Tu non sei la montagna

ma la sua eco rida la Tua voce

Tu non sei da nessuna parte al mondo

ma il cuore del mondo è TE.

(J. Vuaillat, Cammino)

 

Preghiere e racconti

 

La Trasfigurazione

L’icona della Trasfigurazione ci rimanda al tema della divinizzazione dell’uomo, tanto caro alla tradizione dell’Oriente cristiano.

I colori usati emanano e rivelano la luce taborica. Questa immagine manifesta lo splendore divino e rispecchia il principio per cui un’icona non si guarda, ma si contempla. Anticamente, questa era la prima icona che un allievo iconografo scriveva per apprendere il segreto della sua missione: penetrare nel Mistero di Dio e dischiudere gli occhi alla sua luce, al fine di rendere gli altri partecipi di questa grazia.

Nell’episodio della Trasfigurazione Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li porta sopra il monte alto dove Dio si fa conoscere dall’uomo. Al centro dell’icona Gesù risplende, è avvolto in vesti candide ed è circondato da una nube luminosa. Egli benedice i discepoli e li introduce nell’esodo pasquale che compirà a Gerusalemme. In basso, quasi alle falde del monte, gli apostoli, costretti al suolo e incapaci di sostenere il bagliore della divinità, sono estasiati e turbati spettatori della Gloria di Dio.

Lo splendore e la magnificenza di Gesù ci rendono consapevoli della nostra meschinità e dell’infinita distanza che ci separa da Lui; possiamo, però, essere fiduciosi e sereni: la sua luce accompagna i nostri passi mentre scendiamo dal monte e riprendiamo il quotidiano cammino. L’evento della Trasfigurazione, custodito e meditato in cuore, ci aiuterà ad affrontare le difficoltà della strada: la Gloria che gli apostoli hanno visto è la meta bellissima che ci attende!

Lasciare che il mio cuore

si sciolga

alla dolce tua presenza,

contemplare il tuo volto

e perdermi…

La tua bellezza mi trasfiguri

la tua luce mi invada

il tuo amore mi trasformi

così potrò percorrere le strade

della terra

irradiando Te.

Così sarà meno duro vivere

nell’attesa di essere con te

per sempre.

 

«Gesù solo»

«[…] La Trasfigurazione ci ricorda che le gioie seminate da Dio nella vita non sono punti di arrivo, ma sono luci che Egli ci dona nel pellegrinaggio terreno, perché “Gesù solo” sia la nostra Legge e la sua Parola sia il criterio che guida la nostra esistenza […].

(Benedetto XVI, Introduzione all’Angelus, 28.02.2010).

 

Ancora e sempre sul monte di luce

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D. M. Turoldo)

 

Il Tabor e il Getsemani

Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità. Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore. Laggiù amore e dolore si fondono.                                                    

Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta. La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2). La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44). La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani. Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia,1980,140).

 

L’immagine tra luce e ombra

La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione. Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili. Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata. La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce. Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte. Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata. L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti. Tutto il resto deve essere svelato e illuminato. Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si     scorgono più le ombre. […] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa. La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile. I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.

I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori. Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato. Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini. Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore. L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati. È piuttosto essa a illuminare. La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori. L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie. Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.

L’immagine è tra la luce e l’ombra. E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra. In ogni caso la rivelazione non è il riflettore. La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo. I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce. È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.

La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.

(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E. AFFINATI et al., Saper sperare. Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).

 

Li condusse sulla montagna

«Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,1-2). Gesù li condusse sulla montagna per mostrare loro la gloria della sua divinità, far loro conoscere che egli era il Redentore di Israele, come aveva mostrato attraverso i suoi profeti, e infine per prevenire ogni scandalo alla vista delle sofferenze liberamente accettate che stava per subire per noi nella sua natura umana. Lo conoscevano, infatti, come uomo, ma ignoravano che fosse Dio; lo conoscevano come figlio di Maria, un uomo che viveva con loro nel mondo, ma sulla montagna fece loro conoscere che egli era il Figlio di Dio, Dio stesso. L’avevano visto mangiare e bere, faticare e riposarsi, assopirsi e dormire, provare paura fino sudare, cose tutte che non sembravano affatto in armonia con la sua natura divina e che parevano convenienti soltanto alla sua umanità. Ecco perché li condusse sulla montagna, affinché il Padre lo chiamasse suo Figlio e mostrasse loro che era veramente suo Figlio e che era Dio. Li condusse sulla montagna e mostrò loro la sua regalità prima di soffrire, la sua potenza prima di morire, la sua gloria prima di essere oltraggiato, il suo onore prima di subire l’ignominia. Così, quando sarebbe stato preso e crocifisso dai giudei, i suoi apostoli avrebbero compreso che non si era lasciato prendere per debolezza, ma di buon grado, per libera scelta al fine di salvare il mondo. Li condusse sul monte e mostrò loro, prima della sua risurrezione, la gloria della sua divinità. Così, quando sarebbe risorto dai morti nella gloria della sua divinità, i suoi discepoli avrebbero riconosciuto che non riceveva questa gloria a ricompensa della sua sofferenza, come se ne avesse bisogno, ma che essa era sua da prima dei secoli, con il Padre e presso il Padre, come lui stesso disse quando si avvicinò l’ora della sua passione volontaria: «Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17,5).

(EFREM IL SIRO, Omelia sulla trasfigurazione, Opera omnia quae exstant graece II, Roma 1743, pp. 41-43).

 

Preghiera

O Padre, che ci chiami ad ascoltare il tuo amato Figlio,

nutri la nostra fede con la tua parola

e purifica gli occhi del nostro spirito

perché possiamo godere la visione della tua gloria.

Tu che riveli il tuo volto a chi Ti cerca con cuore sincero,

rinsalda la nostra fede nel mistero della croce

e donaci un cuore docile,

perché nell’adesione amorosa alla tua volontà

seguiamo come discepoli il Cristo tuo Figlio.

 

 

II Domenica di Quaresima   

Trasfigurazione, S. Apollinare in Classe, mosaico catino absidale, Ravenna, sec.VI.

© Su concessione Ministero Beni e Attività Culturali.

Nella prima parte dell’itinerario quaresimale la Chiesa indica ai credenti l’esito ultimo del loro cammino di conversione a Dio: essere trasfigurati a immagine di Cristo Risorto, splendore del Padre, immagine perfetta del Dio invisibile (cf. Col 1,15). L’episodio evangelico della trasfigurazione di Gesù sul monte occupa l’intero catino absidale della Basilica di Sant’Apollinare in Classe costruita nella Ravenna imperiale del VI sec., ed è reso su un piano ricco di rimandi simbolici.
Innanzitutto nel mosaico sono ben visibili tre settori: la parte superiore, dimora di Dio, è avvolta di una luce dorata squarciata da alcune “lame” di azzurro. La mano di Dio spunta tra le nubi e indica il Figlio eletto, qui raffigurato attraverso il segno della croce gemmata inscritta in un cerchio stellato. La mano divina rimanda all’invito evangelico: “Ascoltatelo!” rivolto da Dio ai tre discepoli che avevano seguito Gesù sul monte. All’incrocio dei due bracci della croce è raffigurato il volto di Cristo mentre alle estremità dell’asse orizzontale sono riportate le lettere dell’alfabeto greco Alfa e Omega. La croce emerge dal centro di un magnifico cielo in cui è possibile distinguere novantanove stelle, simbolo della totalità dell’umanità e del cosmo. Ai lati del cerchio stellato sono raffigurati Mosè ed Elia, ovvero la Legge e i Profeti.
Un secondo settore del mosaico è immerso nel verde intenso di pascoli ricchi e vivaci che ospitano il vescovo di Ravenna Sant’Apollinare il quale sul modello del Buon Pastore è attorniato dal suo gregge e alza le mani al cielo in atteggiamento orante e di intercessione. Nella parte intermedia, infine, gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, sono presentati come tre agnelli rivolti verso la croce gloriosa. Il segno della croce gemmata richiama quanto leggiamo nel terzo vangelo in cui viene detto che Gesù discorreva con Mosè ed Elia della sua dipartita, ovvero del suo esodo da questo mondo al Padre che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme (cf
. Lc 9,31).
Nella croce si realizza la congiunzione del cielo e della terra, il passaggio dal tempo all’eternità, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita. Cristo innalzato da terra attira tutti a sé (cf.
Gv 12,32) e li consegna al Padre suo nell’attesa che la Chiesa tutta, ancora sofferente per le persecuzioni, possa essere resa pienamente partecipe della stessa gloria del suo Capo.
 
La scena rimanda a ciò che si svolge proprio sotto il mosaico nell’istante in cui la comunità dei credenti si raduna attorno al proprio pastore per la preghiera comune e per la celebrazione dei divini misteri, affinché tutti siano «trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore»
(2Cor 3,18).
La comunità dei credenti ancora in cammino verso la Gerusalemme celeste si identifica pertanto con quel gregge e sperimenta sin da adesso, per la partecipazione ai sacri misteri, la comunione con coloro che già godono della piena beatitudine. Seppure soggetta ai gravami di un mondo ancora segnato dalla corruzione e dalla morte, intravede fin d’ora il suo destino e il destino di tutte le cose nella trasfigurazione di Cristo nel quale sono giunti i tempi ultimi ed è realmente anticipata la trasformazione del mondo in attesa della piena rivelazione dei figli di Dio (cf.
Rm 8,21).
Risuonano ancora adesso le parole pronunciate da Giovanni Paolo II per la festa della Trasfigurazione del 2002: «”Il suo volto brillò come il sole” (
Mt 17,2). Il volto di Cristo è volto di luce che squarcia l’oscurità della morte: è annuncio e pegno della nostra gloria, poiché è il volto del Crocifisso Risorto. In esso, la Chiesa, sua Sposa, contempla il suo tesoro e la sua gloria».

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» (2014).

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. Bergoglio – Papa Francesco, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER APPROFONDIRE:

II DOMENICA DI QUARESIMA (A)