XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Sapienza 12,13.16-19

Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto. La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti. Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono. Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. Con  tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona  speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento.

 

 

  • Questo brano della Sapienza ci orienta a vedere anche l’elemento negativo della zizzania nell’orizzonte positivo della misericordia di Dio, che si specifica qui come sua «indulgenza». In questo libro, il più recente degli scritti dell’AT, si rievoca la storia dell’esodo e della conquista del Canaan, ma rileggendo, a distanza di tempo, gli antichi racconti bellici in chiave più «pacifista». In questo cambio di atteggiamento si osserva l’influsso culturale dell’ellenismo cosmopolita e fin troppo aperto alle diverse tradizioni religiose. L’autore, forzando a senso unico l’antico racconto delle spietate battaglie di Giosuè, le interpreta come un atto di indulgenza di Dio verso i cananei, che non vennero distrutti tutti imme-diatamente ma con una certa gradualità: «anche con loro, perché uomini, fosti indulgente, mandando loro le vespe come avanguardia del tuo esercito, perché li distruggessero a poco a poco… colpendoli a poco a poco, lasciavi posto al pentimento, sebbene tu non ignorassi che la loro razza era perversa» (Sap 12,8.10). Su questo esempio immediatamente precedente si basa poi la considerazione di carattere generale contenuta nella pericope liturgica, che culmina nella bella confessione di fede «ci governi con molta indulgenza» (v. 18b). E subito dopo, nel v. seguente, si sottolinea il doppio fine pedagogico di questa indulgenza divina. In primo luogo, c’è in vista l’educazione dello stesso popolo di Dio che deve imparare ad «amare gli uomini» (lett. «ad essere fìlanthropos); ma in secondo luogo c’è pure l’intenzione di provocare al pentimento (metanoia) lo stesso popolo cananeo del quale si sono ricordati prima i vizi, che rendevano impura la terra santa (Sap 12,3-6.11).

 

Seconda lettura: Romani 8,26-27

 Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.

 

 

  • Paolo parla qui della condizione dei cristiani, che pur godendo ancora soltanto degli inizi della redenzione, hanno tuttavia in sé il dono dello Spirito, che rende i credenti capaci di adeguare i loro desideri ai disegni di Dio. Il dono dello Spirito è il vero inizio del regno di Dio nel cuore degli uomini, di cui i credenti costituiscono una parte che anticipa il suo allargamento al resto dell’umanità. Noi stessi, come credenti, siamo consapevoli della nostra debolezza, che viene soccorsa sì dallo Spirito, ma solo attraverso i suoi «gemiti», che segnalano una situazione non ancora soddisfacente né pervenuta al suo compimento. Così ci ritroviamo nella prospettiva dell’attesa e della pazienza propria del brano evangelico.

 

Vangelo: Matteo 13,24-43

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”». Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo». Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

 

 

Esegesi

 

     Questo brano evangelico è aperto e chiuso dalla parabola del grano e della zizzania, prima con la sua esposizione, e poi con la sua spiegazione aggiunta alla fine. In tutto possiamo distinguervi cinque parti.

     1) Il grano e la zizzania (vv. 24-30)

     Ancora una volta, come abbiamo visto per la parabola del seminatore domenica scorsa, si deve fare attenzione a quale sia il particolare più saliente attorno a cui ruota tutta la parabola. Dobbiamo escludere che si voglia mettere sullo stesso piano, a parità d’importanza, il grano e la zizzania. Questo secondo elemento negativo ha un valore secondario, in quanto serve solo a far emergere una circostanza che consiglia di attendere sino al tempo della mietitura per raggiungere in forma ottimale il fine desiderato di riporre il raccolto nel granaio. La presenza della zizzania non può ostacolare la maturazione del grano seminato nel campo.

     Questa parabola è esclusiva di Mt. Il termine zizzania (plur. da zizanion) da cui deriva l’italiano «zizzania», è noto nella grecità solo dal Vangelo di Matteo, che lo usa soltanto in questa parabola. Si traduce anche con «loglio» ed è simile alla spiga di grano finché questa è verde. Usando lo stesso simbolo, Gesù dirà ancora in 15,13: «Ogni pianta che non è stata piantata dal Padre mio celeste sarà sradicata». Da parte sua Paolo inviterà a rimettersi al futuro giudizio del Signore: «Non vogliate giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio» (1Cor 4,5).

     2) Il granello di senape (vv. 31-32)

     A differenza della parabola precedente, che ci potrebbe fuorviare nel dare un peso eccessivo all’aspetto negativo che può ostacolare lo sviluppo del regno di Dio nel cuore dell’umanità, questa del granello di senape presenta soltanto l’aspetto positivo di questa realtà misteriosa. Bisogna soltanto sottolineare che il dinamismo di questa crescita non è autonomo da Dio, ma dipende sempre dalla sua grazia, che lui lascia agire in modo discreto ed imprevedibile al centro della storia.

     3) Il lievito (v. 33)

     Questa parabola, anche se si passa dall’attività agricola all’ambiente domestico, è simile alla precedente, in quanto si parla ancora dello sviluppo del regno di Dio, che permea gradualmente la pasta dell’umanità. Ma tenendo conto che una parabola evidenzia solo un aspetto del regno di Dio, forse vale la pena di sottolineare più l’aspetto della profonda penetrazione di questo dono nella storia che non la progressione quasi scontata e naturale del suo avanzamento. Il dono di Dio deve essere sempre rinnovato, e dobbiamo avere la consapevolezza di ricominciare ogni giorno daccapo nell’accoglierlo di nuovo, senza troppe illusioni sul nostro passato che ce ne possa garantire il possesso. Che la senape diventi un grande albero è un’espressione iperbolica che rientra nello stile parabolico, mentre il riferimento agli uccelli si riferisce alla visione di Dan 4,9, dove essi rappresentano i popoli sottomessi dell’impero di Nabucodònosor. Ma qui l’immagine ha un carattere più familiare, e non politico, in quanto indica l’accoglienza generosa di cui anche i piccoli possono dar prova.

     4) Perché Gesù parla in parabole (vv. 34-35)

     La motivazione data qui sull’uso del discorso parabolico sembra diversa da quella, negativa, fornita sopra, nei vv. 13-15 (vedi: domenica XV). Anche se ci si rapporta ancora alla folla, in quanto distinta dai discepoli, il ricorso alle parabole non è più per nascondere la rivelazione del regno di Dio di fronte agli estranei, ma per manifestarla anche a loro, oltre che ai discepoli. Infatti si cita il Sal 78,2, dove questo passo introduce una rievocazione della storia nazionale rivolta ad Israele, invitato a saper trarre le dovute lezioni dal suo passato. Il testo del passo è un po’ trasformato, per passare da un orizzonte nazionale a quello più universale indicato con la «fondazione del mondo». In realtà gli elementi naturali che costituiscono l’ordinamento del mondo si prestano a servire, attraverso le immagini utilizzate nelle parabole, come veicolo di una verità superiore, qual è il regno di Dio rivelato da Gesù.

     5) Spiegazione della parabola della zizzania (vv. 36-43)

     Un esame attento di Mt 13 ci rivela un testo non omogeneo che ha avuto una sua lunga gestazione nella tradizione orale e poi nella stessa redazione di ogni evangelista. Ancora una volta, come abbiamo visto per l’altro caso della spiegazione della parabola del seminatore (vedi: domenica XV), ci troviamo di fronte ad una composizione della comunità cristiana, che attualizza per se stessa la parabola di Gesù, forzando un po’ il suo significato iniziale per adattarle alle sue condizioni più recenti. Ora si vuole raccomandare di avere pazienza con il miscuglio di buoni e cattivi che si trova a convivere nella stessa comunità cristiana o anche, per la comunità di Matteo, con i problemi derivanti dalla coesistenza della Chiesa con Israele. Così l’accento si sposta, dalla certezza dell’esito finale che sarà per volere di Dio, certamente positivo, all’esortazione morale di vivere con pazienza e indulgenza le difficoltà della vita presente.

 

Meditazione

     La mitezza di Dio nel suo agire con gli uomini (prima lettura), mitezza narrata dal padrone del campo nella parabola della zizzania (vangelo), costituisce un elemento unificante prima lettura e vangelo.

     Costitutiva dell’agire di Dio, la mitezza è essenziale anche agli uomini e all’agire ecclesiale. Essa non appare tanto come debolezza o impotenza, ma come volontà e capacità di dominare la propria forza, di governarla, di addomesticarla, di orientarla. La mitezza di Dio appare come pazienza, attesa dei tempi dell’uomo, fiducia accordata all’uomo: «Dopo i peccati, tu concedi il pentimento» (Sap 12,19). La mitezza appare ancora come non esclusione, non estirpazione, capacità di non dare giudizi ultimativi e senza scampo, ma come capacità di convivere con il negativo (parabola della zizzania). La mitezza, come capacità di mettere limiti alla propria forza, appare metodo di convivenza che si oppone alla logica della società tecnologica che ha come fine il proprio accrescimento e autopotenziamento e che ritiene ammissibile e perfino doveroso tutto ciò che è tecnicamente fattibile.

     La parabola della zizzania ha una dimensione ecclesiologica. La chiesa di Matteo è un corpus mixtum, nel senso che vi fanno parte dei cristiani provenienti dal giudaismo e dal paganesimo, ma anche nel senso che in essa vi sono forti e deboli, semplici e istruiti, persone maggiormente sante e altri che più facilmente cadono preda del peccato e del vizio. E questa, in verità, è la realtà di ogni comunità cristiana. Come già del gruppo dei Do-dici riunito attorno a Gesù. Così, la chiesa appare una scuola di pazienza e un’occasione di esercizio della mitezza.

     Gesù proclama «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,35), e nel far questo enuncia il necessario scandalo che resterà fino alla fine del mondo: la presenza della zizzania accanto e in mezzo al buon grano; la presenza della divisione e dell’inimicizia che traversa il campo che è il mondo, ma che traversa anche le chiese, le comunità cristiane, e il cuore di ogni uomo. E accanto a questo c’è anche lo scandalo della pazienza di Dio che lascia che il male cresca insieme al bene, che l’empio prosperi accanto al giusto. Gesù non strappa la zizzania, non recide il fico improduttivo (Lc 13,8-9), non caccia Giuda dal gruppo dei Dodici, anzi, egli si inchina, si prostra davanti a colui che si è fatto suo nemico personale, si fa suo servo lavandogli i piedi, non interviene trattenendolo dal suo peccato, ma lo lascia fare, continuando a chiamarlo amico. Ed ecco che le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, cioè il segreto della storia umana agli occhi di Dio, diviene rivelazione nella croce di Cristo. Scandalo del male nella storia e scandalo della pazienza di Dio si sintetizzano nell’ingiusta morte di croce del Figlio di Dio. Ecco il mistero del Regno, le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo: la croce divina, quella croce che l’apologeta Giustino vedeva già inscritta nella creazione.

     L’annuncio del giudizio, presente nella spiegazione della parabola della zizzania (Mt 13,39-43), è ancorato su una predicazione che proclama la misericordia e propugna una prassi ecclesiale quotidiana di pazienza verso i peccatori. L’orizzonte del giudizio escatologico, che incombe sul singolo credente e sulla chiesa nel suo insieme, è ciò che consente al cristiano e alla chiesa di mettere in pratica nell’oggi la pazienza che il vangelo richiede. E di lottare contro la tentazione dell’impazienza di anticipare il giudizio già nell’oggi. L’impazienza consiste nel presumere di sapere già oggi chi è il cattivo e chi il buono, qual è il grano e quale la zizzania (piante che si assomigliano molto), e nel pretendere di eliminare questa per lasciare solo quello.

     Le parabole del grano di senape e del lievito (Mt 13,31-33) presentano lo sviluppo vitale straordinario che sgorga da un seme minuscolo seminato per terra (e per gli antichi il seme seminato muore) e da un po’ di lievito che, nascosto nella pasta, la fa fermentare tutta. Siamo di fronte al mistero pasquale, al mistero della morte feconda di Cristo.

 

Immagine della domenica


 

CAMMINANDO

L’amico assaporava e riassaporava di gusto questo concetto: “Niente di più bello che trovare camminando ciò che unicamente camminando si cerca”. E telefonando a sua moglie, insegnante di lettere, glielo ripeteva in latino: “Nihil mihi jucundius quam deambulando invenire quod eundo quaero”.

 

Preghiere e racconti

 

La parabola del grano di senape e la Chiesa

«La tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri. E questo non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio […] vale sempre la parabola del grano di senape (cfr. Mc 4, 31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. […] Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale. Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».

(J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione, in Divinarum Rerum Notitia. Studi in onore del Card. Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).

 

Il piccolo seme di senape

«…quando il piccolo seme ruzzolò dalle mani del vecchio contadino in mezzo ai grossi grani di frumento echeggiò tra le zolle una risata impercettibile. Chissà com’era capitato lì quel semino ridicolo! Neppure le vecchie erbe del fossato lo conoscevano. L’avena, già alta, propalò al vento il suo parere: “Divento gialla se ne uscirà una fogliolina sola”.

Il piccolo seme si sentì avvilito da quelle voci di disprezzo, che il vento sparpagliava dappertutto; ma non si rattrappì, né si rassegnò ad essere soltanto un piccolo seme nero per sempre. Qualcosa doveva esser pure capace di fare! Sognò di crescere alto fino a sovrastare anche il granoturco…”Chissà se l’avena diventerà gialla per davvero”, pensò. Voleva riuscirci a tutti i costi! Lasciò che i grossi semi di frumento si crogiolassero pigramente a deriderlo; egli affondò subito le radici nel terreno umido e succoso… Fu un inverno faticosissimo per lui. Venne l’estate ed i viandanti additavano meravigliati una pianta alta e vasta, dominante sulla distesa del grano.

Passò anche il Signore, la vide, indovinò l’enorme fatica del piccolo seme nell’inverno e volle premiare con una sua parola la sua fiducia in se stesso: “Guardate il seme di senape, è il più piccolo dei semi, eppure cresce come un albero, sì che i passeri si abbandonano sicuri sui rami robusti”. E il piccolo seme, là sotto, moriva di gioia».

 

Vigiliamo e siamo sobri

Il Signore dichiara apertamente di essere il seminatore del buon seme, che in questo mondo, come in un campo, non smette di seminare nei cuori degli uomini la parola di Dio come un buon seme affinché ciascuno di noi, in proporzione al seme seminato in se stesso da Dio, produca frutti celesti e spirituali.

Ma egli insegna anche che il nemico, il diavolo per soffocare in noi il seme di Dio vi semina sopra la zizzania della cattiveria e dell’ingiustizia. Dice infatti: «Mentre gli uomini dormivano, venne il nemico e seminò la zizzania in mezzo al grano e se ne andò» (Mt 13,25). Il Signore mostra che il diavolo semina la zizzania sugli uomini che dormono, cioè su quelli che per negligenza, oppressi dalla loro infedeltà come dal sonno dell’inerzia, dormono sui divini precetti. Di costoro l’Apostolo dice: «Quelli che dormono, infatti, dormono di notte e quelli che sono ebbri sono ebbri di notte. Noi invece evitiamo di dormire come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (1Ts 5,7.6). Le vergini stolte, di cui leggiamo nel vangelo, erano sicuramente oppresse dal sonno dell’inerzia e dell’infedeltà; non avevano preso l’olio nei loro vasi e non poterono dunque andare incontro allo sposo (cfr. Mt 25,1-12). Perciò è somma preoccupazione di questo nemico del genere umano, del diavolo, seminare la zizzania sopra il buon grano. Ma chi, scacciato da sé il sonno dell’infedeltà sarà sempre e fedelmente vigilante per il Signore, non potrà essere sorpreso da tale seminatore notturno.

(CROMAZIO DI AQUILEIA, Commento a Matteo 51,1, Scrittori dell’area santambrosiana, pp. 324).

 

Sotto ogni cuore c’è il volto e il cuore di Dio Amore

“Ci impegniamo non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo. Per amare anche quello che non possiamo accettare, anche quello che non è amabile, anche quello che pare rifiutarsi all’amore, perché dietro ogni volto e sotto ogni cuore c’è il volto e il cuore di Dio Amore “.

(P. MAZZOLARI).

 

La Chiesa, mescolanza di forti e di infermi, di buoni e di cattivi

Tale è quindi la composizione della Chiesa, mescolanza di forti e di infermi, di buoni e di cattivi, di peccatori ipocriti e di peccatori scandalosi: l’unità della Chiesa contiene tutto e approfitta di tutto. I fedeli vedono negli uni tutto ciò che si deve imitare e in tutti gli altri ciò che si deve superare con coraggio, riprendere con energia, sopportare con pazienza, aiutare con carità, ascoltare con condiscendenza, guardare con tremore. E coloro che restano in piedi e coloro che cadono servono allo stesso modo alla Chiesa: i suoi fedeli vedono in questi ultimi l’esempio della loro vigliaccheria e negli altri la convinzione, sono da tutto stupiti, da tutto edificati., da tutto confusi, da tutto incoraggiati, sia dai colpi della grazia sia dai colpi del rigore e della giustizia.

 (J.B. Bossuet, Lettere a una signorina di Metz)

 

Il peccatore e il santo

Il peccatore e il santo sono due giunti essenziali, complementari reciprocamente complementari, che agiscono l’uno sull’altro e la cui articolazione costituisce tutto il segreto del cristianesimo.         

(Ch. Péguy, Un nuovo teologo: Fernand Laudet)

 

Il peccato della Chiesa

Capita spesso di imbattersi in cristiani i quali pensano che le espressioni anti-evangeliche presenti nella loro Chiesa siano da addebitare in gran parte all’istituzione, sotto tutte le sue forme. Pensano quindi che, per liberare il carisma e la santità del popolo cristiano, se ne dovrebbe continuamente diffidare. Anzi, probabilmente si dovrebbe proclamare la morte della Chiesa-istituzionale, così come si è proclamata la morte di Dio nell’ateismo purificatore…

      Ma sarebbe troppo facile fare dell’istituzione abusiva o poco adeguata il capro espiatorio del peccato del corpo ecclesiale, popolo di peccatori. Il peccato della Chiesa si radica spesso nella mancanza di alta tensione mistica ed evangelica. Essenzialmente, nella mancanza di fede, nella mancanza di passione per l’avventura della santità secondo le beatitudini evangeliche… Potranno contestare il peccato della Chiesa solo i cristiani che la desiderano santa e hanno già fatto una qualche esperienza di una Chiesa più fedele al vangelo, in forza del loro personale impegno mistico e missionario; coloro che soffrono nel loro essere cristiani a causa delle malformazioni del Corpo con il quale sono solidali.

(P.A. Liégé, La Chiesa di fronte al suo peccato)

 

L’erbaccia del male

L’erbaccia del male,

dice Dio,

vedo bene che prolifera!

Il suo vigore vi spaventa?

Non abbiate più paura:

io mandato mio figlio.

Ma non sperate che strappi,

né che bruci:

ad ogni giorno la sua pena.

Lo mando a seminarvi

il buon grano;

lavorate per portare frutto.

Quanto ai rovi,

al loglio?

Quanto al male?

Abbiate pazienza:

io sono lento all’ira!».

(A. Haquin – R. Lejeune, Venga il tuo regno)

 

La pazienza

La pazienza è l’arte di vivere l’incompiutezza e la parzialità. La pazienza è necessaria per chi vive nella storia l’attesa del Regno: essa si declina come pazienza nei confronti di Dio, della chiesa e di se stessi. Nei confronti di Dio, perché Dio non ha ancora adempiuto, per sempre e per tutti, le promesse di guarigione dei ciechi e degli zoppi, dei muti e dei sordi, le promesse di salvezza dal male, dal peccato, dalla morte; nei confronti della chiesa, perché la comunità cristiana spesso si mostra inadempiente rispetto alle esigenze evangeliche; nei confronti nostri, perché scopriamo in noi inadeguatezze e difformità rispetto alla nostra vocazione. La pazienza è «forza nei confronti di se stessi» (Tommaso d’Aquino), capacità di non lasciarsi andare all’abbattimento, alla tristezza, alla disperazione. E questo grazie al fatto che la pazienza è sguardo in grande (makrothymía) sulla realtà, su Dio, sulla chiesa, su noi stessi. La pazienza è grandezza d’animo e si concretizza nell’amore: «l’amore pazienta» (1 Cor 13,4).

 

Preghiera

Signore Gesù, tu che sei buono, semini pieno giorno nel campo della Chiesa, in ciascuno di noi, amore, pace e gioia. Ma poi, il nemico, il tenebroso, viene a seminare la zizzania: pensieri, desideri, sentimenti ostili, tradimenti segreti che fanno scendere la notte anche nel nostro cuore. Donaci lo Spirito di vigilanza per non lasciarvi invadere dal maligno; rendici forti e umili per sostenere ogni tentazione e per riprendere dopo i nostri cedimenti. Fa’ che non pretendiamo dagli altri una perfezione che noi stessi non abbiamo; donaci occhi che sappiano vedere nel campo oltre la zizzania anche il buon grano; donaci un cuore che sappia amare come te nell’umile pazienza, senza stancarsi mai. 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 55,10-11

Così dice il Signore: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».

 

  • L’ottimismo soggiacente a questa immagine della terra resa fertile dalla pioggia e dalla neve, è in sintonia con l’interpretazione positiva della parabola del seminatore proposta nel Vangelo. Questi due versi così pieni di speranza, chiudono il messaggio salvifico del Secondo Isaia (Is cc. 40-45) immediatamente prima della conclusione contenuta nei vv. 12-13 seguenti. Tutto il discorso di questo profeta, che annuncia e prepara la fine imminente dell’esilio babilonese (587-538 a.C.), fa un uso abbondante di immagini legate alla vegetazione, proiettata per contrasto nello scenario desolato del deserto che separa Babilonia dalla Palestina. Il deserto si deve riempire di piante e di corsi d’acqua (cf 41,18-19), per alleggerire i disagi degli esuli che, come in un nuovo esodo, fanno ritorno in patria.

         Ma l’immagine usata nel nostro piccolo brano, ha ormai dimenticato le sperdute distese del deserto, per far riferimento al piccolo pezzo di terra coltivato della Palestina, che ha bisogno della pioggia e della neve perché il contadino che l’ha prima seminato possa vedere coronati i suoi sforzi. L’efficacia di questa irrigazione naturale per il raccolto è qui l’immagine della stessa parola di Dio che, scendendo dall’alto come promessa di salvezza, è stata annunciata dal profeta ad un popolo sfiduciato ed incredulo. In una visione di fede, la natura tutta, come la storia, è subordinata alla volontà di Dio, che le ordina alla salvezza dell’uomo.

         Il tema della vegetazione viene ripreso, con toni ancora più lirici, nel salmo responsoriale (Sal 65,10-14), che ci riporta un inno di ringraziamento per il raccolto che è stato abbondante grazie alle piogge che il Signore ha mandato nella terra. Egli ha benedetto ogni fase dei lavori agricoli a partire dal momento in cui tracciavano i solchi con l’aratro. Ma anche i pascoli hanno fruito della sua benedizione. Ora nella terra d’Israele «tutto canta e grida di gioia» (v. 14).

 

 

Seconda lettura: Romani 8,18-23

Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per  entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.  Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.

 

  • È dalla X Domenica che leggiamo brani della Lettera ai Romani, la quale ci accompagnerà fino alla XXIV Domenica: essa ci presenta in compendio tutta la storia della salvezza secondo la più tipica visione di S. Paolo. Il brano di oggi, che tratta del compimento escatologico della salvezza, crea un forte contrasto con il senso di gioiosa compiutezza che si riscontra nel Salmo responsoriale. Non siamo più a goderci i frutti del raccolto della terra, ma ad attendere il rivestirsi di gloria dell’intera creazione, che geme e soffre nelle doglie del parto. Perciò ci troviamo in una condizione di caducità e di gemito.

         Questo aspetto negativo è ricordato solo in funzione della speranza della compiutezza della nostra salvezza, che comprende pure la redenzione del nostro corpo, e perciò la liberazione da tutti i disagi legati alla nostra condizione corporale. La nostra redenzione si è compiuta ancora, in uno stadio germinale, con il dono dello Spirito.

 

Vangelo: Matteo 13,1-23

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti». Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.  Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”. Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

 

Esegesi 

     Il c. 13 del Vangelo di Matteo raccoglie sette parabole sul mistero del regno dei cieli. È  un insegnamento che Gesù offre a una folla innumerevole, pur nella consapevolezza che pochi lo accoglieranno: le prime reazioni alla sua missione lo lasciano già presagire. La domanda che pongono i discepoli (v. 10) e la risposta di Gesù (vv. 11-17) ribadiscono ulteriormente il significato di questa parabola che apre la serie. Attraverso le immagini del seme e del terreno, infatti, è rappresentata la vicenda della parola di Dio, che come un seme ha un immenso potenziale di vita, ma può svilupparlo solo a misura dell’accoglienza che riceve. La forma parabolica somiglia all’involucro coriaceo di certi semi: protegge il significato dell’insegnamento di Gesù, perché «a colui che non ha» il desiderio sincero di comprendere e convertirsi sia «tolto anche quello che ha»: l’ascolto disimpegnato, l’interesse superficiale di un momento (vv. 10-13). Eppure Dio, nella sua gratuità, supera l’ostinazione che indurisce il cuore dell’uomo: il seminatore della parabola getta ovunque la sua semente, senza risparmio e senza calcolo; la «parola del Regno» (v. 19) va comunque annunziata (vv. 3s. e 14s.) e proposta alla collaborazione di ciascuno. E questa incomincia con un ascolto attento, intenso, disponibile alla Parola, così che essa possa penetrare profondamente nel cuore e risanarlo (v. 15b). Il centro dell’essere umano, infatti, può essere malato: durezza, superficialità, molteplicità di interessi egoistici sono i mali messi in luce dall’immagine dei terreni in cui il seme non potrà svilupparsi (vv. 19-22). Ma quando

la Parola è accolta da un cuore buono, giungerà sicuramente ad effetto e porterà il suo frutto di grazia, in misura variabile a seconda della corrispondenza di ciascuno al dono di Dio (v. 23).

 

Meditazione 

     Che sia paragonata alla pioggia e alla neve che fecondano la terra e consentono ai semi di fruttificare (prima lettura) o al seme seminato dal seminatore che da frutto in proporzioni diverse (vangelo), la parola di Dio manifesta un’efficacia che non è assolutamente dell’ordine della magia, ma che richiede la sinergia dell’uomo.

     Il testo di Is 55,10-11 afferma che la parola uscita dalla bocca di Dio non ritornerà al Signore «senza effetto». Vi è un iter della parola di Dio che è compiuto quando essa, dopo essere stata pronunciata da Dio, ritorna a Dio. Ed essa vi ritorna in forma di lode e ringraziamento, di supplica e invocazione, di preghiera personale e comunitaria, di orazione e di liturgia. Non a caso la preghiera dei Salmi, risposta umana alla parola di Dio, è inglobata dal Canone biblico nella Scrittura che contiene e trasmette la parola di Dio. Analogamente al dinamismo dell’incarnazione, la parola di Dio ritorna a Dio in forma di parola umana, avendo suscitato una parola umana. La parola di Dio è davvero tale quando è ascoltata e celebrata, quando è riconosciuta e diviene fonte di dialogo. Concretamente, la parola di Dio, che è anche storia ed evento, una volta riconosciuta e discreta nella realtà, suscita una risposta orante a Dio. La preghiera e la liturgia compiono la parola di Dio.

     La parabola del seminatore (Mt 13,3-9) diviene, nella spiegazione (Mt 13,18-23), un insegnamento sull’ascolto, sulla responsabilità umana che la parola di Dio suscita. E l’ascolto della parola di Dio appare come un lavoro, una vera e propria ascesi.

     I tre tipi di terreno in cui il seme resta infruttuoso, mentre rivelano ostacoli e resistenze che l’ascolto della parola incontra nel cuore umano, indicano anche delle disposizioni spirituali che aiutano la parola a radicarsi e a fruttificare. Sono gli elementi fondamentali dell’ascesi dell’ascolto.

     L’interiorizzazione. Il seme seminato lungo la strada e mangiato dagli uccelli prima ancora che possa germogliare simboleggia l’ascolto superficiale, cioè senza interiorizzazione, assunzione ed elaborazione profonda della parola stessa. Senza questo lavoro interiore la parola non può diventare principio vitale che guida l’uomo nel suo vivere (Mt 13,4.19).

     La perseveranza. Il seme caduto su terreni petrosi denuncia un tipo di ascolto infruttuoso perché non accompagnato dalla necessaria perseveranza. È rivelativo di «colui che ascolta la parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha radice in se stesso ed è in-costante; venendo una tribolazione o persecuzione a causa della parola, subito si scandalizza». Matteo dice che quest’uomo è próskairos, cioè «uomo di un momento», incapace di far divenire storia la sua fede, di sottoporre la fede alla prova del tempo. Essendo senza radice, egli non sa resistere nelle difficoltà e nelle persecuzioni che la parola stessa provoca (Mt 13,5.20-21).

     La lotta spirituale. Il seme seminato tra le spine e rimasto soffocato rinvia all’uomo che, pur avendo ascoltato la parola, rimane sedotto da altre parole, dalle tentazioni mondane, dalla ricchezza, dai «piaceri della vita» (come aggiunge Lc 8,14). Insomma è colui che non sa porre in atto la necessaria lotta interiore e spirituale per trattenere la parola, per combattere i pensieri e le tentazioni, e così si lascia distrarre e sedurre dagli idoli (Mt 13,7.22).

     Le resistenze alla parola di Dio sono le resistenze alla conversione (Mt 13,15), alla fatica del cuore che, per accogliere la parola, deve lasciarsi purificare dalla parola stessa. Noi temiamo la purificazione e lo spogliamento prodotti in noi dall’accoglienza del seme della parola, così come i terreni non profondi, sassosi, o infestati dai rovi (Mc 4,1-9.13-20) non accolgono la semente perché per farlo dovrebbero lasciarsi dissodare dai sassi, ripulire dai rovi, arare e sarchiare (cfr. Is 5,1-7).

     L’ascolto della parola di Dio avviene sempre all’interno della dinamica pasquale, nel quadro di una morte e di una resurrezione. Non a caso, l’antica esegesi cristiana vedeva nel seme caduto sulla terra buona e che porta frutto nella misura del cento i martiri, cioè coloro che lasciano dispiegare pienamente in sé il dinamismo pasquale.

 

Immagine della domenica


 

¡CAMINA!

“Si no puedes volar, corre;

si no puedes correr, camina;

si no puedes caminar, arrástrate.

Pero hagas lo que hagas,

tienes que seguir hacia adelante”.

(Martin Luther King)

 

Preghiere e racconti

 

Qualche seme germoglierà e illuminerà il cammino

“Un contadino si diresse verso i campi per seminare. Ma accadde che rovesciò una parte delle sementi lungo il cammino, e subito arrivarono gli uccelli a banchettare.

Poi, per l’accanimento della sfortuna, un’altra parte fu versata in una pietraia: germogliò quasi subito, perché c’era soltanto un velo di terra sopra i sassi. Quando il sole divenne cocente, le piccole gemme seccarono, poiché non avevano radici.

Un’altra parte ancora scivolò tra i rovi e, crescendo, fu soffocata dalla malerba, che gli impedì di produrre alcunché.

L’ultima semente fu sparsa su una terra grassa e feconda. Attecchì e diede molti frutti – e un seme ne produsse trenta, un altro sessanta e un altro ancora cento.

Ecco perché dovete spargere le vostre sementi in tutti i luoghi nei quali vi troverete a passare : qualche seme germoglierà e illuminerà il cammino delle generazioni a venire.”

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Bompiani, Milano, 2012, 175)

 

Perché occorre seminare in se stessi

Uno di questi grandi maestri anonimi, però, è stato per me un vicino di casa, Pinot […] Aveva un bellissimo orto in un terreno che in seguito dovette cedere per fare spazio alla costruzione della cantina sociale del paese: Pinot ogni mattina scendeva nell’orto a lavorare per poi tornare a casa verso le undici con ortaggi e verdure che servivano per il pranzo e la cena. […] Quell’uomo semplice e buono mi ripeteva sempre: «Ricordati che per fare un orto ci vuole acqua, letame, ma soprattutto una ciuènda! » Sì, per l’orto non basta che ci siano gli elementi che fanno crescere una pianta, ci vuole anche la ciuènda, la recinzione fatta di canne – più tardi sostituite dalla rete metallica – e di pali che protegge l’appezzamento di terra dagli animali che minacciano di devastarlo: cani, conigli, a volte il cinghiale, più raramente anche altre persone attratte dall’idea di poter raccogliere senza aver seminato. Così, alla fine dell’inverno e anche ogni volta che si apriva qualche varco, aiutavo Pinot a riparare la ciuènda e più che i segreti della coltivazione degli ortaggi imparavo una lezione di vita perché l’orto è una grande metafora della vita spirituale: anche la nostra vita interiore abbisogna di essere coltivata e lavorata, richiede semine, irrigazioni, cure continue e necessita di essere protetta, difesa da intromissioni indebite. L’orto, come lo spazio interiore della nostra vita, è luogo di lavoro e di delizia, luogo di semina e di raccolto, luogo di attesa e di soddisfazione. Solo così, nell’attesa paziente e operosa, nella custodia attenta, potrà dare frutti a suo tempo.

Mi sono quindi appassionato molto presto all’orto, soprattutto alle piante aromatiche: prezzemolo, basilico, borragine, erba cipollina, menta, timo, maggiorana, rosmarino… Piantavo talmente tante piante di rosmarino, che Pinot si lamentava, perché sottraevano terreno agli ortaggi: «Basta rosmarini, quelli non si mangiano!».           

Io però ero già allora affascinato e sedotto dai profumi e dagli aromi che emanano da quelle pianticelle: umili erbe che, utilizzate con discernimento e sapienza, sanno rendere gloriose con la loro gratuità le pietanze più sostanziose. Così, a quattordici anni chiesi in dono a mio padre di affittare per me un fazzoletto di terra dove potessi avere il «mio» orto. Venni esaudito e da allora non sono mai riuscito a vivere senza accudirne uno: arrivato a Bose per iniziare una vita monastica, ho subito avviato un orto – che ora altri conducono, ricavandone frutti meravigliosi in ogni stagione -, e anche oggi continuo a tenere un orticello vicino alla mia cella, interamente dedicato alle erbe aromatiche. Non riusci-rei a vivere senza quest’orto che non solo da gusto ai cibi, ma mi insaporisce l’anima. […]      Sono momenti in cui ripenso sovente con gratitudine a Pinot, che mi insegnò tramite l’orto ad avere un sano rapporto con le «cose»: non mi spiegava solo a piantare, seminare, far crescere, ma mi aiutava anche a capire perché occorre seminare in se stessi, coltivare se stessi, far crescere se stessi e attendere i frutti.

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008, 94-96).

 

Il seme e il frutto

Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra

nel grembo materno

e aspetta devotamente: esso comincia a lottare,

un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole

cresce, diventa grande e forte

abbraccia con la corona verde delle sue foglie

finché tutto intero splende al sole

diventa gemma e fiorisce un fiore.

E nella fioritura, seme dopo seme,

c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.

E tu pianti nuovamente i mille semi,

e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.

Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli

abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro

guida verso casa i pensieri e pensa:

tutto ciò era nel primo seme.

(Christian Morgenstern).

 

L’importante e’ seminare

Semina, semina:

l’importante è seminare

-poco, molto, tutto-

il grano della speranza.

Semina il tuo sorriso

perché splenda intorno a te.

Semina le tue energie per affrontare le battaglie della vita.

Semina il tuo coraggio per risollevare quello altrui.

Semina il tuo entusiasmo,

la tua fede

il tuo amore.

Semina le più piccole cose,

il nonnulla.

Semina e abbi fiducia:

ogni chicco arricchirà

un piccolo angolo della terra

(Ottaviano Menato).

 

Il piccolo seme piantato in un suolo fertile

La fecondità della nostra piccola vita, una volta riconosciuta e vissuta come la vita di colui che è Amato, va oltre qualunque cosa si possa immaginare. Uno dei più grandi atti di fede è credere che i pochi anni che viviamo su questa terra sono come un piccolo seme piantato in un suolo molto fertile.

Perché questo seme porti frutto, deve morire. Noi spesso vediamo o sentiamo solo l’aspetto finale della morte, ma il raccolto sarà abbondante anche se noi non ne siamo i mietitori.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 101)

 

Il seminatore uscì a seminare

Ecco, il seminatore uscì a seminare (Mt 13,3). Per qual motivo uscì? Per distruggere la terra piena di spine? Per punire gli agricoltori? No, affatto; uscì per coltivare la terra, per prendersi cura di essa e seminare la parola della fede […]. Il Signore diceva questa parabola per mostrare che dispensava a tutti la sua parola con generosità. Come infatti il seminatore non distingue il terreno sottostante, ma getta semplicemente il seme senza fare distinzioni, così anche lui non distingue tra il ricco e il povero, tra il sapiente e l’ignorante, tra chi è negligente e chi è pieno di zelo, tra chi è coraggioso e chi è vile, ma parla a tutti e compie quanto dipende da lui, sebbene preveda ciò che accadrà.

Così si comporta in modo che si possa dire: «Che cosa dovevo fare che non abbia fatto?» (Is 5,4). I profeti parlano del popolo come di una vigna: «Il mio amato possedeva una vigna» (Is 5,1 ) e: «Ha divelto una vite dall’Egitto» (Sal 79 [80], 9). Gesù invece ricorre al paragone della semina […]. Ma da cosa deriva, dimmi, che sia andata perduta la maggior parte della semina?

Non a causa di colui che gettava il seme, ma della terra che l’accoglieva, cioè di colui che non presta ascolto. E perché non dice che parte l’accolsero i negligenti, e andò perduta; parte i ricchi e la soffocarono; parte gli sciocchi e l’hanno abbandonata? Perché non vuole colpirli severamente per non gettarli nella disperazione, ma lascia la riprovazione alla coscienza degli ascoltatori. Questo non si è verificato soltanto per la semina, ma anche per la rete, poiché anch’essa portò molte cose inutili. Dice questa parabola per preparare i discepoli e ammonirli a non scoraggiarsi anche se la maggior parte di quelli che accolgono la parola si perdono. E difatti questo accadde anche al Signore; colui che certamente sapeva in anticipo che questo sarebbe accaduto, non si astenne dal seminare. Ma, si potrebbe osservare, come può essere ragionevole seminare sulle spine, sul terreno sassoso, sulla strada? Nel caso dei semi e della terra non sarebbe ragionevole; nel caso invece delle anime e degli insegnamenti questo merita lode. A ragione il contadino potrebbe essere rimproverato di comportarsi così perché non è possibile che il terreno sassoso diventi terra, né che la strada non sia più strada, né che le spine non siano spine, ma nel caso degli esseri dotati di ragione non è così. È possibile infatti che il terreno sassoso si trasformi e divenga terra fertile e che la strada non sia più calpestata e non sia esposta a tutti i passanti, ma diventi terreno pingue e che le spine siano eliminate e i semi abbiano la massima libertà di crescere. Se non fosse possibile, il Signore non seminerebbe. Se non in tutti è avvenuto il cambiamento, non è stato a causa del seminatore, ma a causa di quelli che non hanno voluto cambiare, perché egli ha fatto quanto era in lui e se quelli hanno abbandonato la sua opera, non è responsabile colui che ha mostrato tale bontà nei confronti degli uomini.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, om. 44,2-3, PG 57,467-468).

 

Risonanza della tua Parola

La tua Parola, o Dio,

è lampada ai miei passi

luce alla mia strada.

(Sal 118,105)

La tua Parola

hai detto

è lampada ai miei passi

e luce al mio sentiero.

Il seme caduto in buon terreno

significa colui che ode la parola

e l’accoglie

ed essa dà frutto.

(Mt 13,23)

La tua Parola

hai detto

è seme che fruttifica

quando il cuore è un terreno

libero e buono.

Come pioggia o neve

che scendendo dal cielo

non vi fanno ritorno senza aver irrorato

e fecondato la terra,

tale è la mia Parola.

(Is 55,10)

La tua Parola

hai detto

è come pioggia o neve

che irrora e fa

germogliare

e non ritorna al Padre

senza compiere quello

per cui fu mandata.

Viva è la Parola di Dio

ed efficace, più tagliente

d’una spada a due tagli.

(Eb 4,12)

La tua Parola

hai detto

è spada affilata

che penetra nel profondo

e lacera per guarire.

Ecco, verranno giorni,

 dice il Signore Dio

in cui manderò la fame nel paese

non fame di pane, né sete di acqua

ma d’ascoltare la Parola del Signore.

(Am 8,11)

La tua Parola

hai detto

molto più dell’acqua disseta,

molto più del pane sfama.

Canto è diventato per me

la tua Parola

mentre vado pellegrinando (Sal 118,54).

La tua Parola

hai detto

è canto per il cuore

lungo la strada

del mio pellegrinare.

La tua Parola

io l’ho capito,

Signore

è il cuore dell’essere

e la sua rivelazione.

Fa’ ch’io diventi

povera e vuota

per accoglierla,

pura e silenziosa

per darne RISONANZA.

(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).

 

Qui potest capere, capiat

Guardate, guardate Dio che attraversa la terra come un seminatore e prende il suo cuore a due mani e lo getta su tutta la superficie della terra!… Si direbbe che per lo più egli getta ad occhi chiusi, a caso e al vento, questa semente che gonfia il suo grembiule. Qui potest capere, capiat. Qui habet aures audiendi, audiat. C’è la pietra, c’è il terreno indurito dal passaggio dei passanti; ci sono i rovi e le altre erbacce, ci sono gli uccelli del cielo, ci sono le intemperie! Pazienza! Ma c’è anche la buona terra e quell’orecchio nella profondità del nostro essere che è un utero, quell’interesse, quell’appropriazzione, quella conservazione.

(P. Claudel, Io credo in Te).

 

Io ti saluto, Parola

Io ti conosco, Parola,

così pazientemente costruita,

con i tuoi archetti

più tenaci delle nostre voci.

Io ti saluto, Parola,

liberata dall’essere detta,

che ci trae fuori da noi stessi

come cervo fuori dalle selve.

Io ti circondo, Parola,

ti voglio preda e docile;

tu maturi blu e libera

e mi inventi a tua volta.

Se, geloso della tua cima,

io ti salgo, Parola,

la mia ombra provvisoria

si annulla a ogni svolta.

(A. Chedid, Controcanto).

 

Il seme delle domande

Dio mio, sono venuto con il seme delle domande!

Le seminai e non fiorirono.

Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte,

ma il vento non le sfoglia!

Dio mio, sono Lazzaro!

Piena d’aurora, la mia tomba

dà al mio carro neri puledri.

Dio mio, resterò senza domanda e con risposta

vedendo i rami muoversi!

(F. Garcia Lorca)

  

Piccolo seme

Ho imparato

che non muore

chi lascia dietro di sé

un seme

se c’è qualcuno a custodire

il piccolo seme verde

e a crescerlo nel cuore

sotto un dolore di neve

e a lasciarlo crescere ancora

nel sole senza tramonto dell’amore

finché diventa

un albero grande che da ombra e frutti

e altri semi.

Signore, vorrei lasciargli

un piccolo seme verde

e vorrei, Signore, lasciargli la neve e il sole.

(Preghiere di Mamma e Papa, Gribaudi, Torino, 1989).

 

Preghiera

Perché la tua parola, o Signore, non cada ai bordi del cammino

e Satana la sradichi dai nostri cuori,

noi ti preghiamo.

Perché la tua parola, o Signore, non cada sul suolo indurito

e l’incostanza ci vinca alla prima tentazione,

noi ti preghiamo.

Perché la tua parola, o Signore, non cada in mezzo alle

spine e gli affanni e le ricchezze ci seducano,

noi ti preghiamo.

Perché la tua parola, o Signore, cada in un cuore che sa ascoltare

e produca in noi frutti abbondanti,

noi ti preghiamo.

Perché la tua parola, o Signore, cada in un cuore che sa conservare e meditare

e ci renda esecutori obbedienti della tua volontà, noi ti preghiamo.

(COMUNITA’ ECUMENICA DI BOSE, Davanti a  Dio, Torino, Gribaudi, 1977). 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO  

​XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

lettura: Zaccaria 9,9-10

Così dice il Signore: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra»

 

 

  • Il testo profetico che stiamo leggendo, riflette la situazione della comunità giudaica dopo l’esilio, sotto la dominazione straniera, all’epoca delle campagne di Alessandro Magno. Il profeta vuole rispondere alla domanda angosciante del popolo: Chi governa il mondo? Alessandro o il Signore che abita in Sion?

         Il Signore invierà in Gerusalemme un re messianico, che si presenterà non come il grande re macedone, ma in modo umile, vincendo non con le armi della violenza e mediante il gioco delle alleanze politiche. Anche il popolo messianico, se vuole realmente avere la vittoria, deve rinunciare alla violenza, alla vendetta delle armi: l’arco di guerra sarà spezzato.

         Per questo la città di Gerusalemme è invitata alla gioia. Presto arriverà questo re liberatore, che stabilirà la giustizia e la salvezza. Cavalcherà un asino pacifico: non userà quindi la forza militare come gli altri re. Con la sua parola annunzierà la «pace» universale. Il suo dominio pacifico sarà fondato sulla non-violenza

 

Seconda lettura: Romani 8,9.11-13

Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.  E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete.

 

 

  • La «carne» per Paolo non indica qui il corpo, o la sessualità dell’uomo, ma il modo di vivere dominato dall’egoismo e dal peccato. È lo stato di un uomo che, schiavo delle proprie paure di morire, non riesce a donarsi a nessun altro se non a se stesso. Essere sotto il dominio dello «spirito», significa invece un’esistenza suscitata e guidata dallo Spirito Santo.

         Il cristiano appartiene a Cristo perché ha il suo Spirito, cioè ha fatto l’esperienza di essere morto e risorto con lui. Riproduce in sé gli stessi atteggiamenti del Servo del Signore che non ha resistito al male.

         Ora egli può non vivere più nella carne, cioè costretto continuamente a difendersi, perché accerchiato dalle paure di perdere la propria vita donandosi agli altri. Può invece vivere nello Spirito, cioè fare le opere dello Spirito, che sono quelle dell’amore gratuito perfino ai nemici.

 

Vangelo: Matteo 11,25-30

 In quel tempo Gesù disse:  «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

 

 

Esegesi

     Dopo aver rimproverato severamente le città sulla riva del lago di Genesaret, per non aver accolto la buona notizia del Regno di Dio, Gesù osserva che attorno a lui c’è della gente che lo ascolta. Sono i piccoli: gente senza parola, gli oppressi e gli affaticati, obbligati a portare pesi insopportabili, un cumulo di precetti che impediscono un libero incontro con Dio. E Gesù benedice Dio che rivela i segreti della sua sapienza proprio a questi piccoli.

     Il brano inizia con una lode al Padre, l’unico che ha saldamente in mano le sorti del cielo e della terrà, eppure si china dolcemente verso il povero e l’umile. Gesù esprime la sua gioia perché vede che questo si sta realizzando nei suoi discepoli che lo seguono e l’ascoltano. Dio ha distrutto così la sapienza dei sapienti e ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti.

     Ma come avviene questa rivelazione? Per mezzo di Gesù Cristo, la sapienza personificata. A lui il Padre ha dato tutto (cf. Dn 7,13-14). Solo lui, il Figlio, può comunicare la conoscenza del Padre.

     E guardando le folle stanche e sfiduciate, senza pastore, Gesù le invita a cercare in lui il vero riposo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro». Invece della legge dei farisei egli offre loro le parole del «Discorso della montagna» (Mt 5-7). Agli occhi umani questo sembrerebbe una beffa. Ma solo per chi non ha lo spirito del Figlio, che è mite e umile di cuore. Gesù, che sta per incominciare una lotta contro le forze del male che lo porteranno alla morte violenta in croce, affronta questa battaglia con lo spirito mite dell’agnello. Questo stesso spirito egli dona ai poveri e ai deboli che lo seguono.

 

Meditazione

     La prima lettura presenta una figura messianica connotata dalla canawah, che è piccolezza e umiltà. Il re di cui parla Zaccaria è un curvato, un obbediente; secondo la versione greca dei LXX è un mite, come Gesù nel testo evangelico. E tanto nel re di Zaccaria quanto nel messia Gesù, la connotazione di umiltà e mitezza non si esaurisce sul piano morale, ma è elemento rivelativo dell’essere e dell’agire di Dio. Matteo presenta Gesù come figura di rivelazione e di iniziazione alla rivelazione: mentre, con la sua umiltà, rivela l’umiltà di Dio, Gesù si propone anche come fonte di umiltà per i suoi discepoli.

     Nel testo evangelico, il versetto 25 inizia affermando che Gesù, «rispondendo» o «prendendo la parola», disse… Gesù reagisce con la preghiera («Ti rendo lode, Padre») a quanto narrato precedentemente: nel capitolo undicesimo emerge la constatazione dello scarso interesse suscitato dalla persona, dalla predicazione e dalle opere di Gesù (cfr. Mt 11,1-24). Gesù integra nella preghiera l’insuccesso, mette tutto davanti al Padre e conferma il suo «sì», il suo «amen», la sua decisione irrevocabile di adesione a Lui. Il suo «sì» al Padre non è condizionato dal successo della sua missione, ma è un’adesione radicale che anche situazioni sfavorevoli o contraddittorie non intaccano.

     La preghiera di Gesù ringrazia il Padre non tanto per l’azione di nascondimento nei confronti di alcuni, quanto per l’azione di rivelazione nei confronti di altri. L’adesione di alcuni, definiti piccoli e semplici, che, credendo alla parola e alle opere compiute da Gesù, hanno colto in lui la rivelazione del Padre, diviene svelamento e giudizio del cuore di altri, la cui sapienza intellettuale e dotta si rivela inconsistente davanti alla semplicità dei piccoli: «Grande è la misericordia di Dio: egli rivela i suoi segreti agli umili» (Sir 3,20 secondo il testo ebraico).

     Le parole di Gesù nei vv. 28-29 abbozzano un vero e proprio itinerario di sequela del discepolo. Abbiamo anzitutto la chiamata: «Venite a me»; quindi la necessaria rinuncia alla volontà propria per obbedire alla volontà del Signore («prendete il mio giogo»). Per «volontà propria» non si intende la libera determinazione dell’uomo, ma la sua volontà egocentrica, autoreferenziale, «carnale». Quindi c’è l’attitudine discepolare, l’obbedienza del discepolo al suo maestro e Signore («Imparate da me») e infine il riposo, la pienezza di vita trovata nel Signore («troverete ristoro per la vostra vita»).

     Il «giogo» di Gesù non designa dettami religiosi o comandi da eseguire, ma una relazione, un legame, onorando così l’etimologia della parola (l’indoeuropeo yug, cfr. anche il sanscrito yoga) che designa l’azione di «riunire», «mettere insieme». Il giogo di Gesù leggero e soave è in continuità con il comando biblico di amare e con l’idea che colui che ama fa con gioia la volontà dell’amato. Anche l’atto di comandare l’amore, assurdo se posto in bocca a un terzo, è pienamente sensato se posto in bocca all’amante. L’amante può dire «Amami!», l’amante può chiedere amore.

     Gesù promette riposo a chi assume il suo giogo (cfr. Mt 11,29). Un’esistenza credente che sia perennemente stressata dagli impegni pastorali e si configuri come frenetica attività che non conosce sosta e riposo, dimentica quell’affidamento a Cristo che è fonte di riposo nella fatica e di consolazione nelle contraddizioni. E che plasma il volto del credente non a immagine e somiglianza di manager iperattivi e sempre nervosi, ma del Cristo mite e umile, paziente e benevolo.

     Al tempo stesso, un giogo resta un giogo e nulla toglie la fatica di portarlo. Amare è un lavoro impegnativo e la sequela Christi comporta sforzo e fatica. Di fronte alla tentazione diffusa di eliminare dal vivere ciò che è faticoso e comporta sofferenza in nome dell’idolatria del «tutto, subito e senza sforzo», occorre ribadire che non si danno grandi realizzazioni umane e spirituali senza fatica, dedizione, sacrificio. Né possiamo dimenticare che il giogo dell’obbedienza portato da Gesù durante tutta la sua vita è divenuto, alla fine della sua vita, un portare la croce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine della domenica

 

 

 

 

 
 

RIETI – 2017

 

 

 

 

 

 


VACANZE

Agli studenti di San Giovanni quando andavano in vacanze estive, dava questo consiglio: «Approfittate le vostre vacanze, godetevi il vostro viaggio, prendete delle note, osservate, confrontate. Tutto deve essere fatto con moderazione e non superi alle risorse. C’è chi può viaggiare solo nella fantasia, con l’aiuto di qualche buon libro, c’è chi non bisogna contare i soldi. Andate via … Un viaggio ben fatto, piccolo o grande, valgono la pena di un recesso o di un altro premio.  Il contatto con il grande spettacolo della bellezza abbellisce l’anima»

(LÉON DEHON, Discorso sullo studio della geografia, 31 luglio 1886, citato da A. DUCAMP, Le Père Dehon e son Oeuvre, 696).

 

Racconti e preghiere

 

 

Beati i miti

 Il nostro campo è invaso dall’ingiustizia. Tutte le risposte del mondo all’ingiustizia sono violenza attiva o consentita. Opporvi la dolcezza del Cristo è scandalo.

 Chi può misurare il coraggio richiesto a coloro che accettassero questo scandalo della mitezza? Ma c’è scandalo più grande ed autentico, questo dello scandalo dei cristiani che hanno lasciato a un Gandhi la responsabilità di levare nel mondo una massa di uomini che si affidavano alla forza incoercibile di quella mitezza?

 E tuttavia, ancora una volta, non c’è scelta. Il Cristo “mite ed umile di cuore” è un fatto. Non possiamo né rettificarlo né adattarlo.

(Madeleine DELBRÊL, Noi delle strade, Gribaudi, 2008, Milano, 123).

 

Zelo e umiltà

«Occorre che vi sia l’insieme di zelo e di umiltà, del riconoscimento cioè dei propri limiti. Da una parte lo zelo: se veramente incontriamo Cristo sempre di nuovo, non possiamo tenercelo per noi stessi. […] Ma questo zelo, per non diventare vuoto e logorante per noi, deve collegarsi con l’umiltà, con la moderazione, con l’accettazione dei nostri limiti. E poco oltre aggiungeva che il nostro dev’esser anche tempo di interiorità. Infatti, potremo servire gli altri, potremo donare solo se personalmente anche riceviamo, se cioè noi stessi non ci svuotiamo. Da quest’esperienza di interiorità potremo ricevere in dono sempre di nuovo un grande arricchimento. Solo così potremo trasmettere agli uomini «più di quello che è nostro, vale a dire: la presenza del Signore».

(Benedetto XVI, Discorso ai sacerdoti e ai diaconi permanenti della Baviera, il 14 settembre 2006).

 

Preghiera di un pagliaccio

Padre, sono un fallito, però ti amo.

Sono vari anni che sto nelle tue mani, presto verrà il giorno in cui volerò da te…

La mia bisaccia è vuota, i miei fiori appassiti e scoloriti, solo il mio cuore è intatto.

Mi spaventa la mia povertà però mi consola la tua tenerezza.

Sono davanti a te come una brocca rotta, però con la mia stessa creta puoi farne un’altra come ti piace…

Signore, cosa ti dirò quando mi chiederai conto?

Ti dirò che la mia vita, umanamente, è stata un fallimento, che ho volato molto basso.

Signore, accetta l’offerta di questa sera…

La mia vita, come un flauto, è piena di buchi…

ma prendila nelle tue mani divine.

Che la tua musica passi attraverso me e sollevi i miei fratelli, gli uomini, che sia per loro ritmo e melodia, che accompagni il loro camminare, allegria semplice dei loro passi stanchi…

(Manoscritto spagnolo).

 

L’amicizia

“L’amicizia possiede le medesime peculiarità dell’acqua di un fiume: può aggirare gli ostacoli, superare le rocce, adattarsi a valli e monti, trasformarsi in un lago per colmare una conca e proseguire il suo cammino.

Così come il fiume non dimentica che la sua meta è il mare, l’amicizia non scorda che la sua unica ragion d’essere è dimostrare l’amore verso gli altri.”

 

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Bompiani, Milano, 2012, 104-105).

 

Essere bambini

Mentre la beata Umiliana giaceva nel suo letto, dentro la sua cella, chiusa nella torre, ecco un bambino di quattro anni o poco meno, dal volto bellissimo. Giocava con impegno proprio nella sua cella davanti a lei. Quando lo vide provò una grande gioia e rivolgendogli la parola disse: O amore dolcissimo, o carissimo bambino, non sai fare altro che giocare? E il bambino con il suo sguardo tranquillo le rispose: Che altro volete che faccia? E la benedetta Umiliana umilmente disse: Voglio invece che tu mi dica qualcosa di bello su Dio. E il bambino disse: Credi che sia bene che uno parli di se stesso? E con queste parole disparve.

(fra’ Vito da Cortona)

 

Mite e umile di cuore

Cristo è ancor oggi per noi un maestro mite e colmo d’amore per gli uomini che continua a prendersi cura della nostra salvezza. Lo dichiara apertamente nei vangeli come abbiamo appena letto: «Venite, imparate da me perché sono mite e umile di cuore» (Mt 11,28-29). Quant’è grande la condiscendenza di colui che ci ha fatto! La creatura non abbia timore! Venite, imparate da me. Il Signore è venuto a consolare i suoi servi che erano caduti. Ecco come si comporta Cristo: si mostra pieno di compassione; sebbene il peccatore dovesse essere punito, sebbene la stirpe di quelli che provocavano la sua ira dovesse essere annientata, egli rivolge parole di pace ai colpevoli. «Venite, imparate da me, perché sono mite e umile di cuore» (ibidem).

      Dio è umile, l’uomo orgoglioso. Il giudice è clemente, il colpevole superbo. Le parole dell’artefice sono umili, quelle dell’argilla sembrano quelle di un re. […] Venite, osservate la sua ineffabile bontà. Chi non amerà il Signore che non colpisce? Chi non ammirerà il giudice che supplica a favore del colpevole? La semplicità delle sue parole ti stupisce. «Io sono il Creatore e amo la mia opera. Io sono l’artista e ho cura di ciò che ho plasmato. Se volessi ricorrere alla mia autorità, non libererei l’umanità caduta; se non curassi la sua malattia incurabile con farmaci appropriati, non guarirebbe; se non la confortassi, morirebbe; se mi limitassi a minacciarla, perirebbe. Per questo motivo pongo su di lei che giace a terra l’unguento della bontà. Mi piego su di lei pieno di compassione per rialzarla dalla sua caduta. Chi sta in piedi non può rialzare da terra chi è caduto se non si china a tendergli la mano. «Venite, imparate da me perché sono mite e umile di cuore». Non dico parole vane vi ho mostrato le mie opere; il «perché sono mite e umile di cuore» vedilo da ciò che sono diventato. Guarda la forma, pensa alla dignità e venera la mia condiscendenza a causa tua. Pensa da dove sono venuto, dove mi trovo a conversare con te. Il cielo è il mio trono e io sto a parlare con te. Nell’alto sono glorificato e nella mia paziente bontà non mi adiro «perché sono mite e umile di cuore».

(PSEUDO-GIOVANNI CRISOSTOMO, Basso martire, in PG 50,721-722)

 

Il segreto di un bambino

Non si può amare un bambino per la sua abilità e per ciò che fa, in quanto egli non può ancora nulla, non fa ancora assolutamente nulla di utile; non si può amare un bambino per il fatto che possiede o dovrebbe mostrare qualcosa di speciale;  al contrario, egli non ha ancora nulla di proprio, se lo si vuole amare, gli si deve voler bene per se stesso. Questo è tutto il segreto di un bambino, che ci costringe con il semplice suo esserci ad amarlo e vive dell’essere amato gratuitamente. In questo, ossia nel fatto di pensare così di noi stessi, starebbe la nostra redenzione; nell’avere, una buona volta, il coraggio di vivere gratis e di avere fiducia in noi stessi, di sentirci legittimati semplicemente per il fatto di esistere.

(E. DREWERMANN, Psicologia del profondo e esegesi, I, 505 s.)

In mitezza e umiltà

«Essi però non comprendevano quelle parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni» (Mc 9,32). Tale ignoranza da parte dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza della loro mente, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore. Questi uomini che vive-vano ancora secondo la carne ed erano ignari del mistero della croce, si rifiutavano di credere che colui che essi avevano riconosciuto quale Dio vero sarebbe morto ed essendo abituati a sentirlo parlare in parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, cercavano di attribuire un senso figurato anche a quello che diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione. «E giunsero a Cafarnao. Entrati in casa chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?”. Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande» (Mc 9,33-34). Sembra che la discussione tra i discepoli a proposito del primo posto fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che qui era stato affidato loro qualcosa di segreto. Ma già da prima erano convinti, come racconta Matteo (cfr. Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del Regno dei cieli, e che la chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome. Ne concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri o che Pietro era superiore a tutti. Il Signore, vedendo i pensieri dei discepoli, cerca di correggere il loro desiderio di gloria col freno dell’umiltà e fa loro intendere che non si deve cercare di essere primi; così, dapprima li esorta con il semplice comandamento dell’umiltà e, subito dopo, li ammaestra con l’esempio dell’innocenza del bambino. Dicendo infatti: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,37) […] li esorta, a motivo della loro malizia, a essere anche loro come bambini, cioè a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia e la devozione senza ira. Prendendo poi in braccio il bambino, indica che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili e che, quando avranno messo in pratica il suo comandamento: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), solo allora potranno gloriarsi.

(BEDA IL VENERABILE, Commento al vangelo di Marco, CCL 120.n. 551).

 

Preghiera

A volte, Signore, la piccolezza del mio essere creatura mi appare inadeguata e insufficiente a contenere i miei più grandi desideri. E faccio di tutto per rompere quelli che avverto come limiti al mio bisogno di espandermi, di ‘sentirmi grande’: essere più degli altri, ricevere più degli altri, contare più degli altri.

Tu vieni incontro a questo prepotente bisogno di emergere e mi proponi di metterlo a servizio dell’amore, facendomi l’ultimo di tutti, il servo di tutti, il più pacifico, il più mite, il più misericordioso, accogliente verso tutti…

Manda dall’altro il tuo Spirito di sapienza, perché faccia della mia vita un’opera di pace.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

XIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 2 Re 4,8-11-16a

Un giorno Eliseo passava per Sunem,  ove c’era un’illustre donna, che lo trattenne a mangiare. In seguito, tutte le volte che passava, si fermava a mangiare da lei.
Ella disse al marito: «Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi. Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare».
Un giorno che passò di lì, si ritirò nella stanza superiore e si coricò. Eliseo [disse a Giezi, suo servo]: «Che cosa si può fare per lei?».  Giezi disse: «Purtroppo lei non ha un figlio e suo marito è vecchio». Eliseo disse: «Chiamala!». La chiamò; ella si fermò sulla porta. Allora disse: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia».

 

 I versetti riportati nella prima lettura sono stati tratti dal ciclo di Eliseo, che ricalca da vicino quello di Elia. Essi ci propongono un esempio di ospitalità generosa da parte di una ricca donna di Sunem. Il profeta era stato da lei mentre passava dal suo paese. La donna, per ospitarlo meglio si fa costruire una stanza al primo piano di sopra, che arreda in modo che Eliseo possa starci tranquillo e comodo. Il motivo per cui si preoccupa di ospitarlo al meglio che le è possibile è quello che egli è «un uomo di Dio, un santo» (2 Re 2,9).

La donna agisce per rispetto all’inviato da Dio, non per tornaconto. Nei versetti 12-13, che sono stati omessi nella lettura, la donna rifiuta i favori che Eliseo le propone. Il profeta però, si sente in dovere di ricompensarla di tanta generosità e su consiglio del servo Giezi, che faceva da intermediario nei suoi rapporti con la donna, le promette la fecondità. Il dono di un figlio alla donna sterile è ricorrente nella Bibbia a partire dal figlio di Sara e Abramo, Isacco, concepito in tarda età per dono di Dio e annunciato in un contesto di ospitalità (cf Gn 18.1-10)

 

Seconda lettura: Romani 6,3-4.8-11

 Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?

Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.

Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.

 

Il cristiano con il battesimo è unito a Gesù Cristo morto e risorto. Paolo esprime questa verità con l’immagine del rito battesimale dell’immersione. Immerso nell’acqua, il catecumeno partecipa alla morte e alla sepoltura di Gesù: ciò segna per lui la fine di quella solidarietà nel peccato che accomuna tutti gli uomini (cfr. Rm 5,12.15).

Gesù non è soltanto morto, ma è stato risuscitato dal Padre, che in lui ha manifestato definitivamente il suo amore salvatore. I battezzati, uniti a Gesù risorto, nella fede vivono già la ‘vita nuova’ e definitiva (v. 4b.8-9). Gesù ha condiviso la medesima nostra natura umana: ha subito la morte, ma risorgendo ha sconfitto per sempre la morte e il peccato. Anche la natura umana in Cristo vive ora la piena comunione con Dio (v. 10). I cristiani, essendo intimamente uniti a Cristo Gesù, devono coerentemente abbandonare ogni comportamento peccaminoso e vivere per Dio (v. 11).

 

Vangelo: Matteo 10,37-42

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.

Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.

Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

 

Esegesi

          I primi due versetti della pericope del Vangelo di Matteo (10,37-39), che leggiamo oggi, riassumono le richieste radicali del comportamento del discepolo che vuole seguire Gesù. Sia pure in forma attenuata rispetto a Luca (14,26), che ha l’espressione a prima vista ancora più urtante: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, i figli, i fratelli, le sorelle ed anche la propria vita, non può essere mio discepolo», anche Matteo esprime chiaramente che la scelta per Gesù deve essere primaria e assoluta.

Si tratta della radicalità richiesta dal precetto dell’amore di Dio che si deve amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente (Dt 6,5; cf Mt 22,37; Mc 12,30; Lc 10,27). A Dio bisogna affidarsi completamente e seguire la sua volontà, come ha fatto Gesù stesso. Il discepolo deve imitare il maestro e seguire Gesù «via» (Gv 14,6) che conduce al Padre.

Per ben tre volte in questi due versetti è ripetuta la formula «non è degno di me»: solo chi fa una scelta radicale per Dio, come Gesù stesso ne ha dato l’esempio, può dirsi suo vero discepolo.

«Chi avrà trovato la sua vita, la perderà e chi l’avrà perduto la sua vita per me, la ritroverà (Mt 10,39; cf 16,26; Mc 8,35; Lc 9,24; Gv 12,25).

Questo versetto ci indica che non si deve buttare la propria vita con disprezzo, ma se si è data la vita per Gesù, vale a dire per amore di Dio, la si ritrova. Come Dio ha accettato la vita di Gesù, spesa per la giustizia a favore di tutti gli esseri umani fino al punto di accettare la passione e la morte in croce, e lo ha risuscitato, così farà col discepolo, che spende la sua vita per Gesù, vale a dire vive come ha vissuto Gesù.

Teniamo presente, per non cadere nell’aberrazione di disprezzare la nostra vita e quella degli altri, che il sacrificio richiesto da Gesù comporta una promessa di vita e che l’amore di Dio per il quale si deve fare una scelta radicale è strettamente legato all’amore del prossimo, come Gesù stesso ci ha mostrato in tutta la sua vita.

I versetti 40-42 riportano tre insegnamenti di Gesù sul dovere dell’accoglienza. «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». Queste parole identificano il mandato con il mandante, per cui chi accoglie il discepolo accoglie Gesù e quindi Dio Padre che ha mandato Gesù.

Matteo pone l’accento sull’accoglienza della persona del discepolo come tale e non sul suo insegnamento, come fa Luca (10,16): «Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me e chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato».

Paolo da come un esempio di accoglienza — secondo questo insegnamento di Gesù — quella data dai Galati nei suoi riguardi: «mi avete accolto come un angelo di Dio, come Gesù Cristo» (Gal 4,14).

La sentenza del versetto 41 promette a chi accoglie un profeta o un giusto la stessa ricompensa del profeta e del giusto. Si arriva così all’ultimo versetto della pericope che loda anche un gesto semplice come «dare un bicchiere di acqua», ma non a una persona in vita come poteva essere un profeta o un giusto stimato da tutti, ma a «uno di questi piccoli», quindi a un discepolo senza nessuna carica o distinzione (cf Mc 10,41).

Nella comunità di coloro che si proclamano discepoli di Gesù bisogna dare un esempio chiaro di uguaglianza di tutti i membri, ciascuno deve mettersi a servizio degli altri, non fare distinzione di persone. Nella comunità cristiana, anticipo e segno del regno di Dio deve manifestarsi il capovolgimento dei rapporti rispetto alle convenzioni delle società umane «i primi saranno ultimi e gli ultimi saranno i primi» (cf. Mt 19,30).

 

Meditazione

                    Nel nostro tempo, in molti ambiti della vita personale e sociale, facciamo l’esperienza di come sia difficile accogliere ‘l’altro’: lo straniero o anche il vicino di casa; l’anziano genitore o il figlio concepito; il malato cronico o terminale, chi semplicemente fa scelte differenti dalle nostre. Avvertiamo che accogliere è correre un rischio: quello di rinunciare a qualcosa di nostro in favore dell’altro; e ci spaventiamo. E poi, l’altro che uso farà dell’accoglienza che gli offro?

          Eppure, correre il rischio può significare una scoperta: quella dell’amore che cresce. L’altro non è primariamente uno sconosciuto da cui difendersi, è piuttosto un mistero di ricchezze da scoprire. Il Signore ci ricorda che nella persona che accogliamo è percepibile la sua stessa presenza. Rinunciare ad un po’ di spazio e ad un po’ di tempo, allargare i legami affettivi per abbracciare nuove amicizie, condividere quello che siamo, che sappiamo, che abbiamo non è deprivazione, ma condizione di fecondità.

          Logica assurda secondo le esigenze stringenti di una rigida contabilità dare/avere. Logica di un amore che ha donato la propria vita per far vivere tutti: l’amore del signore Gesù. È la logica che ogni battezzato fa propria. Qual è la mia?

 

Immagine della Domenica

 
 

LE VACANZE

Nel Salmo 46 il Signore esorta i credenti a vedere le meraviglie che opera per gli uomini, a contemplare il giorno in cui farà cessare le guerre e poi impartisce loro un comando: “Fermatevi e sappiate che io sono Dio”. La Vulgata fedelmente traduce: “Vacate et videte quoniam ego sum Deus”. “Vacate”, cioè fermatevi, da cui l’italiano “vacanza”.

Sì, le vacanze sono giorni in cui ci si ferma, si lascia il proprio lavoro, si abbandonano i riti quotidiani, si parte dal luogo abituale per dimorare in un luogo diverso, più o meno lontano, un luogo “altro”, al mare, in montagna, in collina, visitando città. Questo Salmo mi ha suggerito che in vacanza, una volta che ci si è veramente fermati per vivere quiete e silenzio, si possono vedere le opere di Dio, ci si può esercitare a contemplarle.

Il rischio, infatti, è quello di vivere le vacanze freneticamente, inventandosi mille cose da fare pur di non fermarsi, di non ascoltare il silenzio, di non cogliersi come creatura che vive e respira in mezzo a tante altre co-creature sulla terra: una terra che a volte si congiunge al mare, una terra sopra la quale si stende il cielo, tenebroso di notte, solare di giorno. Le vacanze, dunque, non sono forse il momento di pensare semplicemente alla terra, al mare, al cielo? Non solo il tempo per cercare di cogliere queste tre dimensioni che costituiscono il nostro quotidiano, ma che nel quotidiano ci sfuggono?

La terra: spazio su cui siamo buttati uscendo dal grembo di nostra madre, crosta dura sulla quale impariamo a camminare prima di capirne la realtà di sfera che gira attorno al sole; terra che scopriamo soprattutto nell’adolescenza e nella giovinezza, dopo averla assaggiata e toccata nell’infanzia; terra che con la maturità sentiamo di poter chiamare madre; terra che richiede tempo per essere conosciuta, gustata e, di conseguenza, amata.

Dobbiamo percorrerla, lavorarla, guardarla con il desiderio di chi attende da lei i frutti, occorre contemplarla nella sua vegetazione e nei suoi deserti, scrutarla e a poco a poco abitarla e renderla abitabile per noi, occorre essere convinti della necessità di amarla come noi stessi e, per questo, di lasciarla più bella di come l’abbiamo ricevuta.

In vacanza, specie in montagna e in collina, ci sono sempre occasioni per vederla e contemplarla, anche se sovente fremiamo per la bruttezza dovuta alla nostra voglia di sfruttarla e di abbrutirla con costruzioni indegne dell’uomo prima ancora che della terra. C’è sempre un albero che chiede di essere guardato, c’è sempre un orizzonte che desta emozioni, c’è sempre una pietra che fedele, immobile al suo posto, ci parla. E vedere i colori della terra arata – penso alle crete senesi… – non ci fa forse gridare alla terra “madre mia!”, liberandoci persino dalla paura di essere un giorno da lei accolti per sempre?

Se poi si va al mare, si incontra questa pianura blu srotolata davanti a noi che ci invita a solcarla, ad andare oltre, a navigare verso terre sconosciute: il mare non chiede di essere abitato ma attraversato. Per me, se c’è un luogo di contemplazione, è la spiaggia, spiaggia che cerco silenziosa, selvaggia, così da comprendere meglio quel continuo baciarsi tra terra e mare, quel bacio che è scambio di sabbia e di acqua… Il mare è tremendo, suscita anche paura, eppure non cessa di invitarci a sfidarlo, anche su una piccola barca che corre incontro alle onde…

Amo il mare nel sole cocente d’estate e nella tenue luce dell’inverno. È sempre lui, il mare, che sembra narrarci con il suo mormorio di acqua quel che è solo gemito e grido verso la terra e il cielo. In riva al mare sono portato a pensare: anche il libro che leggo riparandomi dai raggi del sole mi sembra più eloquente, più capace di farmi sognare.

E infine, sopra alla terra e al mare, ecco il cielo: di giorno abbaglia, ma al mattino, soprattutto all’aurora e all’alba sembra vivere, nel mutare del colore e nel crescere della luminosità. È l’ora in cui il cielo chiede di essere osservato, quando a poco a poco si spengono le stelle e all’orizzonte si affaccia la luce. Quanti però a quell’ora preferiscono dormire, perdendosi così lo spettacolo del cielo che si veste di luce per il giorno che inizia… Dalla mia bisaccia, in quest’alba in cui sto scrivendo, traggo pensieri di pace anche per costoro e per tutti i lettori in vacanza.

(Enzo Bianchi)

 

Preghiere e Racconti

 

Tutto è così familiare

Mio Dio, mi dai dei tesori da custodire, fa’ che li custodisca e li amministri bene. […] Mi piace aver contatto con le persone. Mi sembra che la mia intensa partecipazione porti alla luce la loro parte migliore e più profonda, le persone si aprono davanti a me, ognuna è come una storia, raccontatami dalla vita stessa. E i miei occhi incantati non hanno che da leggere. […] Sono ammalata, non ci posso far niente. Più tardi raccoglierò tutte le lacrime e le paure, laggiù. In fondo lo faccio già in questo letto.

Forse è per questo che ho la febbre e il capogiro? Non voglio essere il cronista di orrori. E neanche di fatti sensazionali. Ancora stamattina ho detto a Jopie: eppure arrivo sempre alla stessa conclusione: la vita è bella. E credo in Dio. E voglio stare proprio in mezzo ai cosiddetti ‘orrori’ e dire ugualmente che la vita è bella. E ora eccomi coricata in un angolino con febbre e capogiro, e non posso far nulla. Poco fa mi sono svegliata con la gola secca, ho afferrato il mio bicchiere ed ero così riconoscente per quel sorso d’acqua, ho pensato: se solo potessi andare in giro fra quelle migliaia di uomini ammassati laggiù e potessi offrire un sorso d’acqua ad alcuni di loro. Ogni volta mi dico: su, non è poi così grave, sta’ tranquilla, non è così grave, sta’ tranquilla.

Quando capitava che una donna o un bambino affamato si mettessero a piangere dietro uno dei nostri tavoli di registrazione, mi mettevo dietro di loro, quasi a proteggerli, le mie braccia incrociate sul petto, sorridevo un pochino e dentro di me dicevo a quell’esserino rannicchiato e smarrito: tutte queste cose non sono poi così gravi, non sono proprio gravi. Rimanevo là e c’ero, si poteva far altro? A volte mi sedevo vicino a qualcuno, passavo un braccio intorno a una spalla, non dicevo molto e guardavo le persone in faccia. Nulla mi era nuovo, non una di quelle espressioni di dolore umano. Tutto mi pareva così familiare, come se sapessi e avessi già vissuto ogni cosa. E alla fine di ogni giornata mi dicevo sempre: voglio tanto bene agli uomini (E. HILLESUM, Diario 1941-1943, Milano 19925, 232s.).

 

L’accoglienza

Gesù si esprime qui in modo radicale, senza paura di essere frainteso, di perdere consensi. Usando un modo di parlare tipicamente semitico, Gesù ci mette di fronte a un’alternativa radicale, costringendoci a dichiarare quali sono le nostre priorità.

Si esprime in termini antitetici: «amare di più, amare più di me», che non vanno presi alla lettera, ma compresi nel loro significato. Quali sono le cose, le persone, le realtà veramente fondamentali della nostra vita? Non solo quelle che dichiariamo a parole, bensì quelle che veramente dentro di noi riteniamo essere degli assoluti? La relazione con il Signore non può essere una delle tante, accanto al giusto, doveroso, amore che dobbiamo avere nei confronti di padre, madre, figli, figlie, ecc.

L’amore per Gesù, la relazione con Lui è quella fondamentale, che ci permette poi di vivere tutte le altre in modo corretto, assegnando a ogni persona il giusto posto nella nostra vita.

Gesù inoltre ci invita ad accogliere non solo quelli della nostra cerchia, i parenti stretti e gli amici, ma anche i profeti, i giusti, e i piccoli, che sono qui i missionari itineranti del Vangelo. Si crea così una famiglia allargata, una fraternità più ampia, centrata sulla relazione con Gesù. Accogliere il profeta non è facile, perché la sua parola può creare divisione, non perché cerchi la rissa, ma perché spesso smaschera le ipocrisie, le viltà, i compromessi presenti in ogni vita, e li giudica alla luce della parola. Questa è la sua vocazione, questo il servizio che egli rende al Vangelo, e noi dobbiamo accoglierlo come un dono, non come un guastafeste.

Ciò è possibile se i rapporti tra gli uomini, all’interno della comunità cristiana, saranno gestiti obbedendo alle parole di Gesù.

Così avvenne già nella storia del profeta Eliseo e della donna di Sunem, la quale ricevette un dono insperato, un figlio, proprio a seguito dell’accoglienza da lei riservata al profeta. La vita accolta fiorisce, a sua volta, in vita, un’esperienza accessibile anche a noi oggi.

 

Infinitamente amabile

Ti amo, mio Dio,

e il mio unico desiderio

è di amarti fino all’ultimo respiro della mia vita.

Ti amo, Dio infinitamente amabile,

e preferisco morire amandoti,

piuttosto che vivere

un solo istante senza amarti.

Ti amo, Signore,

e l’unica grazia che ti chiedo

è di amarti eternamente.

Mio Dio, fammi la grazia

di morire amandoti

e sapendo che ti amo.

Mio Dio, a misura

che mi avvicino alla mia fine,

fammi la grazia

di aumentare il mio amore

e di perfezionarlo.

 (Curato d’Ars, Scritti scelti)

 

Preghiera quotidiana

Rendici degni, Signore, di servire i nostri fratelli

in tutto il mondo che vivono e muoiono in povertà e fame.

Dà loro quest’oggi, attraverso le nostre mani,

il loro pane quotidiano, e, con il nostro amore comprensivo,

dà pace e gioia.

Signore, fa di me un canale della tua pace

così che dove c’è odio, io possa portare amore;

che dove c’è ingiustizia io possa portare lo spirito del perdono;

che dove c’è discordia io possa portare armonia;

che dove c’è errore, io possa portare verità;

che dove c’è dubbio io possa portare fede;

che dove c’è disperazione io possa portare speranza;

che dove ci sono ombre io possa portare luce;

che dove c’è tristezza io possa portare gioia.

Signore fa che io possa piuttosto cercare

di confortare invece di essere confortato;

di capire invece di essere capito;

di amare invece di essere amato;

perché è col dimenticare se stessi che si trova;

è col perdonare che si è perdonati;

è col morire che ci si sveglia alla vita eterna. Amen.

(Preghiera dei collaboratori di Madre Teresa)

 

L’ambiente più sano

Un poeta dell’anima, il libanese Kahlil Gibran, morto a New York nel 1931, inneggia all’esigenza di accogliere gli latri così come sono con questo racconto:

“Nel parco di un manicomio incontrai un giovane con il volto pallido, trasognato, ma bello. Sedetti accanto a lui e gli chiesi: -Perché sei qui?-  Mi rivolse lo sguardo e poi rispose: ‘E’ una domanda poco opportuna, la tua; comunque ti spiegherò. Mio padre voleva fare di me una copia di se stesso e così mio zio. Mia madre vedeva in me l’immagine del suo illustre genitore. Mia sorella mi esibiva suo marito, marinaio, quale modello perfetto da imitare, mentre mio fratello riteneva che dovessi essere identico a lui, bravissimo atleta…E anche i miei insegnanti: il dottore in filosofia, il maestro di musica e colui che mi insegnava letteratura erano ben decisi nel desiderare e volere che io fossi uno specchio della loro vita…Per questo sono qui. Trovo l’ambiente più sano. Qui, almeno, posso essere me stesso…'”.

 

Accogliere l’immagine di Dio

[II Signore] dice: «Chiunque accoglierà questo fanciullo in mio nome, accoglie me. E chi accoglie me, accoglie colui che mi ha inviato» (Lc 9,48). Infatti chi accoglie l’imitatore di Cristo, accoglie Cristo, e chi accoglie l’immagine di Dio, accoglie Dio. Ma siccome noi non potevamo vedere l’immagine di Dio, l’incarnazione del Verbo ce l’ha resa presente, affinché ci fosse avvicinata la divinità che è al di sopra di noi (AMBROGIO DI MILANO, Commento al vangelo di Luca, Roma 19682, 22).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

SS. PIETRO E PAOLO

 Prima lettura: Atti 12,1-11

In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, fece arrestare anche Pietro. Erano quelli i giorni degli Azzimi. Lo fece catturare e lo gettò in carcere, consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo la Pasqua. Mentre Pietro dunque era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. In quella notte, quando Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro, piantonato da due soldati e legato con due catene, stava dormendo, mentre davanti alle porte le sentinelle custodivano il carcere. Ed ecco, gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: «Alzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani. L’angelo gli disse: «Mettiti la cintura e légati i sandali». E così fece. L’angelo disse: «Metti il mantello e seguimi!». Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si rendeva conto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva invece di avere una visione. Essi oltrepassarono il primo posto di guardia e il secondo e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città; la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si allontanò da lui.  Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva».

 

L’ultima comparsa di Pietro negli Atti l’abbiamo in 15,7-11, dove si dimostra persona equilibrata e responsabile che cerca di mediare fra due opposte posizioni, a proposito delle condizioni da imporre ai pagani convertiti. Egli è la figura dominante del racconto proprio fino a questo cap. 12, per cedere dopo il ruolo di protagonista a Paolo. L’episodio in esso contenuto, dell’arresto di Pietro e della sua liberazione, si estende fino al v. 19 (la pericope liturgica finisce con il v. 11), e risulta particolarmente colorito per la sua ambientazione, tra la notte e il giorno, nella città di Gerusalemme:

     «Pietro uscì e prese a seguirlo […]10Essi oltrepassarono il primo posto di guardia e il secondo e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città; la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada […]12 Dopo aver riflettuto, si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni detto anche Marco, dove si trovava un buon numero di persone raccolte in preghiera.

     13Appena ebbe bussato alla porta esterna, una fanciulla di nome Rode si avvicinò per sentire chi era. 14Riconosciuta la voce di Pietro, per la gioia non aprì la porta, ma corse ad annunziare che fuori c’era Pietro».

     Ma le cose più importanti sono, naturalmente, altre: la liberazione prodigiosa che indica come è il Signore a garantire il cammino inarrestabile del Vangelo nel mondo e, poi, la vicinanza della comunità attorno al suo apostolo: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva» (v. 11); «Mentre Pietro dunque era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui» (v. 5).

     «Egli allora, fatto segno con la mano di tacere, narrò come il Signore lo aveva tratto fuori del carcere, e aggiunse: “Riferite questo a Giacomo e ai fratelli”» (v. 17). In questo caso Giacomo, considerato come il capo dei giudeocristiani di Gerusalemme e che guiderà questa chiesa dopo la partenza di Pietro, era parente di Gesù, ed è distinto da Giacomo apostolo, fratello di Giovanni, già messo a morte da Erode (v. 2). L’episodio degli stessi Atti letto nella vigilia (At 3,1 -10) presenta un altro momento importante della vicenda di Pietro che dice: «Non possiedo ne argento ne oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù, il Nazareno, cammina!» (v. 6).

 

Seconda lettura: 2 Timoteo 4,6-8.17-18 

Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.  Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

La lettura dedicata a Paolo riguarda una retrospettiva sulla sua vita passata, prossima alla fine, che gli consente di farne un bilancio davanti a Dio. Nel v. 6 l’immagine della libagione, che nei sacrifici comportava l’uso di vino, acqua e olio (Es 29,40; Nm 28,7), secondo il testo greco non riguarda «il sangue», parola supplita impropriamente nella versione italiana, perché la metafora si applica anche alla morte naturale e non implica per sé una morte cruenta nel martirio.

Veramente la vita di Paolo è stata una battaglia e una corsa per il Vangelo. Ciononostante, egli non si considera in una posizione speciale di fronte a Dio, ma accomunato con gli altri credenti «che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (v. 8b). Giustamente la missione di Paolo viene caratterizzata dal fatto che è stata indirizzata in maniera intenzionale a «tutte le genti» (v. 17). Lo stesso concetto è messo a fuoco nell’appassionato brano autobiografico proposto nella vigilia (Gal 1,11-20) dove si parla dei «pagani», ma si usa in greco anche ethnē (v. 16). Anche qui si ribadisce il dono della rivelazione ricevuta direttamente da Dio (vv. 15-16), analogamente a quanto sottolineato nel macarismo rivolto a Pietro in Mt 16,17. E proprio nello stesso contesto si trova l’eco del conflitto di Paolo con Pietro, i due apostoli associati nell’odierna festività. «[…] visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi — poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani… Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto» (Gal 2,7-11).

 

Vangelo:Matteo 16,13-19

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono. Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

 

Esegesi

     Questo brano evangelico qualificato come il vangelo del «primato», è stato visto nel corso della tradizione da diverse angolazioni, imperniate ora sull’accentuazione e ora sulla contestazione del primato di Pietro che perdura nel ministero petrino del Papa. Noi lo vogliamo ora ricordare per la sua portata ecclesiologica ed ecclesiale, cioè in senso dottrinale e in senso spirituale.

     a) Il contesto

     Nello schema di Mc, seguito da Mt, ci troviamo alla conclusione del ministero pubblico di Gesù in Galilea. D’ora in poi diventa dominante il tema della sua prossima morte a Gerusalemme, sottolineato dai tre annunzi della passione che scandiscono la seconda parte del vangelo; il primo di essi segue immediatamente nei vv. 21-23. La scena si colloca a Cesarea di Filippo che si trova a 50 km a nord del lago di Genezaret, al confine con il territorio pagano. Ora Gesù, non è seguito più dalla folla, ma si trova solo con i suoi discepoli, con i quali tenta un bilancio della predicazione svolta finora, chiedendo quello che su di lui pensa la gente.

     Quindi, alla domanda su cosa ne pensano loro, solo Pietro prende la parola.

     b) Confronto con i Sinottici

     Nella risposta di Pietro, Mt è il più completo («Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»), mentre Mc 8,29b («Tu sei il Cristo» e Lc 9,20b «Il Cristo di Dio») sono più semplici. Ma dopo questa confessione di fede, solo Mt contiene la lunga risposta di Gesù dei vv. 17-19, che, dal punto di vista formale, presentano tre strofe di tre righe ciascuna, di cui le ultime due sono costruite con un parallelismo di tipo antinomico.

     e) Il macarismo (v. 17)

     «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli ». Non si hanno altri esempi di macarismi diretti in seconda persona, se non in Dt 33,29a: «Te beato, Israele! Chi è come te, popolo salvato dal Signore? Egli è lo scudo della tua difesa e la spada del tuo trionfo». Anche qui, come nel v. 17 si mette in evidenza il dono di Dio e non un merito umano. Pietro deve ad una rivelazione del Padre la capacità di cogliere nella fede la vera identità di Gesù. La carne e il sangue, l’uomo lasciato a se stesso, non può giungere alla fede.

     d) L’immagine della pietra/roccia (v. 18)

     «E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa». Colui che poco prima è stato identificato come Simone, e ora chiamato Pietro, un nome che consente il passaggio all’immagine della «pietra» che serve a qualificare la funzione che lui è chiamato a svolgere nell’edificio della Chiesa.

     Come in italiano, anche in greco il passaggio dal maschile Pietro (gr. petros) al femminile pietra (gr. petra) non permette di notare la ripetizione della stessa parola aramaica kepha’ (pietra, roccia) che si deve presupporre in entrambi i casi, cosa che rende più evidente un gioco di parola  che deve essere stato intenzionale. Il simbolo della roccia come solido fondamento per la costruzione della casa è richiamato alla fine del discorso della montagna: «Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia» (Mt 7,24s).

     e) L’immagine delle chiavi (v. 19)

     «A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Se l’immagine delle chiavi è coerente con quella precedente dell’edificio, nel quale ci deve essere pure un’entrata, non è altrettanto ovvio il passaggio dalle chiavi all’idea di legare e sciogliere, giacche esse rimandano piuttosto alle azioni di entrare ed uscire. Sembra perciò più logico vedere qui sovrapposte due immagini parallele di tipo diverso: le chiavi servono per fare entrare (cf. Is 22,22b: «se egli apre, nessuno chiuderà: se egli chiude, nessuno potrà aprire»), mentre l’azione del legare o sciogliere riguarda un giudizio di tipo dottrinale o disciplinare che sarà ratificato nei cieli.                                               

     Vale ora la pena rileggere alla luce del nostro brano altri passi che parlano di Pietro o del ministero degli Apostoli nel cui quadro anche quello che gli è più specifico trova una sua coerente collocazione.

     j) Gli altri evangelisti su Pietro

     Giovanni riporta una variante della vocazione di Pietro e della sua professione di fede: «Egli (Andrea) incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: ‘Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)’ e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: ‘Tu sei Simone, figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (gr. kêphas) (che vuol dire Pietro)» (Gv 1,41s); si notino le differenze tra Mc 1,16-18, Mt 4,16-20 e Lc 5,11.

     «E (Gesù) continuò: “Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio”. Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene?”. Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”» (Gv 6,65-69).

     Luca ci riporta questa particolare confidenza fatta da Gesù a Pietro nell’ultima cena: «“Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come grano: ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”. E Pietro gli disse: “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte”.

     Gli rispose: “Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi”». (Lc 22,31-34).

     g) Gli altri Apostoli (in Mt)

     «Quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti, esclamando: “Tu sei veramente il Figlio di Dio!”» (Mt 14,33): è questa una confessione di fede uguale a quella che si incontrerà in Mt 16,16. La missione fondamentale degli Apostoli riguarda la disciplina all’interno della comunità (Mt 18,18) e, soprattutto, la predicazione: «In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo» (18,18); «E Gesù, avvicinatesi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra.

     Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”» (28,18-20). Con queste parole finali del Risorto la missione degli Apostoli e quella di Pietro ricevono la loro suprema legittimazione e il loro perenne fondamento. Ed è proprio in una apparizione del Risorto che si colloca il rinnovato conferimento del primato a Pietro, letto nella messa della vigilia, che pure allude alla fine alla sua fedeltà fino al martirio (Gv 21,15-19; v. 19).

    

Meditazione

     Al cuore della celebrazione odierna vi è la memoria di Pietro e Paolo. Il pescatore di Galilea reso pescatore di uomini e il fariseo zelante della Legge, il persecutore dei cristiani, conquistato da Gesù Cristo e reso apostolo delle genti; Pietro, il primo del gruppo dei Dodici e Paolo, che di quel gruppo non ha fatto parte e non ha conosciuto Gesù storicamente, ma è stato reso apostolo per volontà del Signore; Pietro, l’apostolo dei circoncisi, e Paolo, l’apostolo degli incirconcisi. Vie differenti, vite diverse, itinerari distanti, personalità entrate in conflitto tra di loro (cfr. Gal 2,11 ss.), eppure, in Cristo, entrambi affratellati a tal punto che i loro cammini esistenziali hanno trovato in Roma il luogo del martirio. Un unico cammino di obbedienza al Cristo Signore conduce entrambi, nelle differenze che li caratterizzano, a dare la vita per il Signore.

     Se il vangelo è centrato sulla figura di Pietro e sul suo mandato ecclesiale, la prima e la seconda lettura riguardano momenti dell’esperienza della sofferenza apostolica di Pietro (At 12: l’incarcerazione di Pietro) e di Paolo (2Tm 4: prossimità alla morte di Paolo).

     La prima lettura presenta un frangente particolarmente critico della giovane comunità cristiana di Gerusalemme. Giacomo è stato decapitato; Pietro incarcerato: chi sosterrà la comunità? Di fronte alle persecuzioni che si abbattono sui suoi capi, la comunità prega. Una particella greca con valenza avversativa (At 12,5: « ma una preghiera… » ) dice che la preghiera è la forma con cui la comunità cristiana vive la sua lotta contro i potenti del mondo che scatenano persecuzioni e violenze. Con la preghiera la comunità rimane vicina a Pietro in carcere e intercede per lui, «combatte con e per lui» (come afferma l’insegnamento paolino sulla preghiera: cfr. Rm 15,30; Col 4,12), manifesta la sua obiezione nei confronti della prepotenza dei potenti, persevera nella fede e non si piega agli eventi avversi.

     Nella seconda lettura Paolo, al termine della sua esistenza, in prossimità ormai del traguardo, guarda la sua vita come a ritroso, a partire dal momento finale che sa vicino: e la considerazione che più colpisce è che egli constata di aver conservato la fede (2Tm 4,7). Gesù, in un momento critico del proprio cammino esistenziale, aveva pregato per Pietro, perché la sua fede non venisse meno (Lc 22,32). Paolo, al termine della sua vita, con umile fierezza e senso di gratitudine, riconosce di aver conservato la fede. Al termine di una vita spesa per l’evangelizzazione, la missione, la predicazione della parola, il servizio del vangelo, la fondazione e l’organizzazione di comunità cristiane, Paolo ricorda il suo essere ancora un credente. A dire che la fede non può mai essere data per scontata, anche per gli uomini di chiesa. Forse la grande fatica apostolica è proprio questa: conservare la fede.

     Pietro viene proclamato beato da Gesù perché la confessione di fede in lui quale Messia e Figlio di Dio è frutto di rivelazione del Padre (Mt 16,17), così come Paolo affermerà che è per rivelazione di Dio che egli ha conosciuto l’evangelo e il Figlio Gesù Cristo (Gal 1,12.16). Sia Pietro che Paolo rientrano fra quei piccoli a cui la conoscenza delle cose di Dio, ed essenzialmente la conoscenza di Gesù, in cui si sintetizza il tutto di Dio, viene consegnata per rivelazione, per dono divino (Mt 11,25-27). È la conoscenza pneumatica di Gesù, la relazione con lui, l’amore per lui, sono il cardine attorno a cui ruota il ministero di Pietro e di Paolo.

     Alla confessione di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), risponde la parola di Gesù: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa» (Mt 16,18). Pietro sa bene (come anche Paolo: 1Cor 3,11) che non vi è altra pietra di fondamento dell’edificio della chiesa al di fuori del Cristo risorto (1Pt 2,4 ss.). Ma attraverso le immagini della roccia, delle chiavi e del potere di sciogliere e legare, Pietro è stabilito come il necessario punto di autorità e di comunione nella chiesa. Non la sua persona (il sangue e la carne) da stabilità alla chiesa, ma la sua fede che rinvia a Colui che è il Signore della chiesa.

 

Preghiere e racconti

 

Conferma i tuoi fratelli

     Il nostro Salvatore e Signore disse a Pietro: «Simone, Simone, ecco che Satana ha ottenuto di vagliarvi come grano e io ho pregato per te affinché non venga meno la tua fede; ma tu, una volta ritornato a me, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32). È come se dicesse: «Io ti sostengo quando vacilli e così anche tu sii un appoggio per quelli dei tuoi fratelli che sono turbati e accorda loro un po’ della protezione di cui godi. Non spingere quelli che stanno per scivolare, ma nel pericolo rialzali. Io consento che tu inciampi, ma non ti lascio cadere affinché tu mi aiuti a tenere in piedi quelli che vacillano. Così Pietro, questa grande colonna, ha sostenuto tutti quelli che vacillavano e ha impedito loro di crollare; li ha rialzati, li ha resi più saldi e, incaricato di pascolare il gregge di Dio, accettava di essere insultato a causa del gregge e, sotto i colpi, gioiva. Uscendo dal sinedrio malvagio gioiva con il suo compagno perché aveva meritato di essere maltrattato per il nome del Signore (cfr. At 5,41). Gettato in prigione, era contento e tutto felice. Quando, sotto Nerone, fu condannato a morire sulla croce per il Crocifisso, pregava i carnefici di non inchiodarlo nello stesso modo del Signore, ma nel senso contrario, per timore, sembra, che il subire la croce nello stesso modo producesse un’uguale venerazione da parte degli ignoranti. Per questo supplicò che lo si inchiodasse con le mani in basso e i piedi in alto. Aveva imparato, infatti, a scegliere l’ultimo posto, non soltanto nell’onore, ma anche nella vergogna. E se avesse potuto morire dieci volte, cinquanta volte, lo avrebbe accettato volentieri perché ardeva del desiderio di Dio. Anche il divino Paolo esclamava la stessa cosa; talora diceva: «Ogni giorno rischio la morte, come è vero che voi siete il mio vanto in Cristo Gesù» (1Cor 15,31), e tal’altra: «Sono crocifisso con Cristo; non sono più io che vivo è Cristo che vive in me» (Gal 2,20).

(TEODORETO DI CIRO, Sulla divina carità 12-13, SC 257, pp. 290-292).

 

Il fascino di Paolo 

Vorremmo in questo breve spazio far risaltare una figura di altissimo rilievo nel Nuovo Testamento, quella di Paolo, l’apostolo per eccellenza al quale sono attribuite dal Canone 13 lettere. San Girolamo, il grande traduttore e interprete della Bibbia, non aveva esitato a scrivere che Paolo «non si preoccupava più di tanto delle parole, una volta che aveva messo al sicuro il significato».

E, secoli dopo, un altro grande studioso delle Scritture, Erasmo da Rotterdam, morto nel 1536, ribadiva che, «se si suda a spiegare le idee di poeti e oratori, con questo scrittore (Paolo) si suda ancor più a capire cosa voglia e a che cosa miri». Il suo effettivamente è un linguaggio strano, travolto dall’irrompere del suo pensiero e della sua passione: egli impedisce che l’incandescenza del messaggio da comunicare si raggeli negli stampi freddi dello stile e delle regole, insomma di un bel testo.

Ma proprio questa ribellione diventa la ragione del fascino che l’apostolo ha sempre esercitato coi suoi scritti, a partire dal vescovo e grande oratore francese Bossuet che in un panegirico del 1659 esaltava «colui che non lusinga le orecchie ma colpisce diritto al cuore», mentre un altro francese, il romanziere Victor Hugo nel suo William Shakespeare (1864) inseriva Paolo tra i genii, «santo per la Chiesa, grande per l’umanità, colui al quale il futuro è apparso: nulla è superbo come questo volto stupito dalla vittoria della luce».

Conquistato dall’apostolo e dai suoi scritti era stato anche Pier Paolo Pasolini che nel 1968 aveva pensato di dedicargli un film del quale è rimasto solo un abbozzo di sceneggiatura, pubblicato postumo nel 1977 col titolo San Paolo (ed. Einaudi). Il notissimo scrittore e regista pensava di trasporre la vicenda e il messaggio dell’apostolo ai nostri giorni, sostituendo le antiche capitali del potere e della cultura visitate da Paolo con New York, Londra, Parigi, Roma e la Germania. Scriveva, infatti, Pasolini:

«Paolo è qui, oggi, tra noi. Egli demolisce rivoluzionariamente, con la semplice forza del suo messaggio religioso, un tipo di società fondata sulla violenza di classe, l’imperialismo, lo schiavismo».

Certo, quella parola disadorna, «senza sublimità di discorso o di sapienza», come Paolo stesso confessava ai Corinzi (I Cor 2,1), ha incrinato tante strutture e tanti luoghi comuni del potere e della cultura imperiale romana. Ma la forza, la passione, l’entusiasmo del suo “messaggio religioso” erano nell’amore per Gesù Cristo. Un amore che gli fa dettare le pagine più intense e splendide. Per questo è del tutto insufficiente e fuorviante la definizione di «Lenin del cristianesimo» che gli riserverà una persona pur acuta e sincera come Antonio Gramsci. Per capire Paolo è necessario prendere in mano e leggere quelle sue lettere che – come diceva il nostro grande poeta Mario Luzi – s’insediano «nell’inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza».

(G. Ravasi).

 

Mi ami tu?

Ecco che il Signore, dopo la sua resurrezione, appare di nuovo ai suoi discepoli. Interroga l’apostolo Pietro e spinge a confessare per tre volte il proprio amore colui che aveva rinnegato tre volte per timore. Cristo è risorto secondo la carne, Pietro secondo lo spirito. Mentre Cristo moriva soffrendo, Pietro moriva rinnegando. Il Signore Cristo resuscita dai morti e nel suo amore resuscita Pietro. Ha interrogato l’amore di colui che lo confessava e gli ha affidato le sue pecore. […] Il Signore Cristo volendo mostrarci in che modo gli uomini debbano provare che lo amano, lo rivela chiaramente: va amato nelle pecore che ci sono affidate. Mi ami tu? Ti amo. Pasci le mie pecore. E questo una volta, due volte, tre volte. Pietro non dice altro se non che lo ama. Il Signore non gli domanda altro se non se lo ama.

A Pietro che gli risponde non affida altro se non le sue pecore. Amiamoci a vicenda e ameremo Cristo. Cristo, infatti, eternamente Dio, è nato uomo nel tempo. E apparso agli uomini come uomo e figlio dell’uomo. Essendo Dio nell’uomo, opera molti miracoli. Ha molto sofferto, in quanto uomo, da parte degli uomini, ma è risorto dopo la morte perché era Dio nell’uomo. Ha passato sulla terra quaranta giorni come un uomo con gli uomini. Poi, sotto i loro occhi, è asceso al cielo come Dio nell’uomo e si è assise alla destra del Padre. Tutto questo lo crediamo, non lo vediamo. Ci è stato ordinato di amare Cristo Signore che noi non vediamo e tutti noi proclamiamo: «Io amo Cristo». Ma se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi? (I Gv 4,20). Amando le pecore, mostra di amare il pastore, perché le pecore sono membra del Pastore.

(AGOSTINO, Discorso Morin Guelferbytanus 16, PLS 2,579-580).

 

Preghiera a Gesù Buon Pastore

O Gesù buon Pastore,

nei santi apostoli Pietro e Paolo

hai dato alla tua Chiesa

due modelli di Pastori

secondo il tuo cuore.

Fa’ che, sul loro esempio

e confortati

dalla loro testimonianza,

impariamo ad amare

e servire i fratelli

con gioia e gratuità.

O santi apostoli Pietro e Paolo

intercede per noi,

affinché possiamo vivere

in comunione nelle diversità dei doni e dei ministeri.

Amen!

(dagli scritti di don Alberiore)

 

Preghiera al canto del gallo

O eterno creatore di ogni cosa,

tu che governi la notte e il giorno

e stabilisci il momento del tempo

di alleviare le angosce.

Già si sente l’annunciatore del giorno,

della profonda notte vigile,

luce notturna per i viandanti,

che separa la notte dalla notte.

Risvegliato da lui Lucifero,

libera il cielo dalle tenebre,

per lui ogni schiera di coloro che errano,

abbandona le strade del male.

Per lui il marinaio si rinvigorisce

e si placano i flutti del mare,

per lui anche la pietra della chiesa

al suo canto lava il peccato.

Alziamoci perciò subito,

il gallo sveglia chi ancora giace,

e richiama gli assonnati,

il gallo rimprovera quelli che si rifiutano.

Quando canta il gallo ritorna la speranza,

la salute viene restituita agli infermi,

viene riposta l’arma del bandito,

a coloro che cadono ritorna la fede.

O Gesù, salvaguarda chi vacilla,

corrige, e correggici col tuo sguardo,

se ci guardi annulli le colpe:

il peccato si dissolve nel pianto.

Tu luce illumina i sensi

dissipa il torpore dell’animo,

la nostra voce invochi te per primo,

e rivolgiamo a Te le nostre preghiere.

(Ambrogio di Milano)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.   

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

SS. PIETRO E PAOLO

XII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Geremia 20,10-13

Sentivo la calunnia di molti: «Terrore all’intorno! Denunciatelo! Sì, lo denunceremo». Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta». Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere; arrossiranno perché non avranno successo, sarà una vergogna eterna e incancellabile. Signore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa! Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.

 

 

  • La pericope fa parte delle cosiddette «confessioni di Geremia», brani considerati un tempo autobiografici, ma di redazione probabilmente post-esilica. Chi parla in queste composizioni è un «io» liturgico, mediatore cultuale tra la nazione e Dio: il tormento che vi si esprime è non tanto individuale, quanto collettivo, di tutto il popolo. Nella quinta confessione (Ger 20,7-18) i vv. 10-13 sono forse dovuti a un secondo redattore, e separano il grido di disperazione (vv. 7-9) dal lamento (vv. 14-18).

        Il tema generale è la persecuzione a causa della parola, che colpisce il profeta come figura esemplare di tutta la comunità dei pii giudei.

        v. 10 — La folla (molti, rabbîm) cospira contro il profeta e ne spia le debolezze per sopraffarlo. Tra la folla sono anche gli «amici», o piuttosto dei presunti amici: la stessa comunità si rivolta contro il giusto.

        v. 11 — Il giusto gode tuttavia della protezione del Signore, che sta al suo fianco come una guardia del corpo (gibbôr). Lo schema seguito è quello delle lamentazioni dei Salmi, in cui all’esposizione del caso e al lamento (vv. 7-9, la persecuzione) segue la soluzione liberatoria e il rendimento di grazie (vv. 10-13).

        v. 12 — La preghiera esprime la fiducia del giusto nel Signore, che conosce e scruta in profondità il suo animo. Viene invocata non tanto la «vendetta», quanto la «liberazione» data dalla vittoria sui nemici, gli empi: è il senso della radice naqam riferita a Dio.

        v. 13 — Il versetto conclude la prima parte della «confessione» con un invito alla lode, che esprime la certezza di essere esauditi.

        Gli elementi tipici della lamentazione fanno pensare non tanto a un discorso di Geremia in prima persona, quanto a una interpretazione della sua storia personale nei termini di una opposizione tra pii ed empi, dove al profeta si sostituisce la figura emblematica del «giusto» e del «povero». Un primo nucleo è probabilmente costituito dall’esperienza di Geremia, rielaborata dal redattore deuteronomistico durante l’esilio, radicalizzata poi nella redazione finale post-esilica nel quadro del conflitto tra pii ed empi.

     

Seconda lettura: Romani 5,12-15

Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato.

Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.

Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti.

 

 

  • La lettera ai Romani espone la triplice liberazione — dalla morte, dal peccato e dalla legge — conseguenza della giustificazione tramite Gesù Cristo. Il rapporto tra il peccato e la morte, e la vittoria della vita in Cristo, vengono spiegati in Rm 5,12-21 attraverso il confronto tra Adamo e Gesù, e tra uno e molti/tutti. Il versetto centrale del brano, cuore del ragionamento di Paolo, è il 17, che afferma con forza la sovrabbondanza della grazia rispetto al dominio della morte.

        I versetti 12-14 presentano la situazione di fatto: il peccato, e attraverso il peccato la morte, è entrato nel mondo, perché tutti hanno peccato, a somiglianza di Adamo (v. 12). Pur non essendo imputabile finché non c’era la Legge, il peccato era tuttavia nel mondo (v. 13), e la morte dominò anche su quelli che non avevano peccato.

        La «trasgressione» (paràbosis) di Adamo è riferita al precetto; il «peccato» (amartia, al singolare) è un atteggiamento negativo di fondo nei confronti della grazia, la rottura del rapporto personale di amicizia con Dio, qualcosa di più della semplice disobbedienza. Non è tanto una realtà ontologica, ereditata da Adamo (come ha dimostrato S. Lyonnet,

    l’interpretazione tradizionale di Agostino si basava sulla traduzione errata della Vulgata: «efhô pantes èmarton» reso con «in quo omnes peccaverunt», cioè «tutti hanno peccato in Adamo» invece che «dato il fatto che tutti hanno peccato»). Si tratta piuttosto della condizione comune di peccaminosità che Paolo rileva come un dato di fatto, la situazione cioè in cui tutti si trovano e di cui Adamo è il primo esponente, «immagine» o «tipo» di Colui che doveva venire.

        Dal v. 15 si sviluppa la tipologia tra Adamo e Cristo, non come semplice parallelo ma come superamento e sovrabbondanza. Uno solo, Adamo, il primo ad avere disobbedito, è modello dei molti che hanno peccato, sia prima che dopo la Legge di Mosè; uno solo, Cristo, è veicolo della grazia sovrabbondante che si riversa sui molti, ben superiore («molto di più») che in Adamo. Ciò che preme qui a Paolo non è la dottrina del peccato originale, ma l’unicità di Gesù Cristo e della sua opera salvifica, la sovrabbondanza della grazia che ribalta il giudizio di condanna e vince il peccato e la morte.

 

Vangelo: Matteo 10,26-33

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli:  «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.  E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo.  Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

 

Esegesi

    Il capitolo 10 di Matteo è dedicato al secondo dei cinque grandi discorsi che costituiscono i pilastri portanti di questo Vangelo. È il cosiddetto «discorso della missione», che a partire dalla vocazione dei dodici apostoli indica le direttive fondamentali per la formazione e la missione della Chiesa delle origini. Si tratta di una raccolta di insegnamenti di

Gesù, forse pronunciati in occasioni diverse, e qui ordinati a costituire un vero e proprio programma di evangelizzazione.

    La persecuzione preannunciata da Gesù è già in atto quando si compie la stesura scritta del Vangelo che la tradizione attribuisce all’apostolo Matteo. L’insegnamento qui espresso fa i conti quindi con una realtà fatta di pericoli, lotte, contrapposizioni violente, e tende a rafforzare il coraggio dei testimoni con un messaggio di speranza e di fiducia.

    vv. 26-27— «Non abbiate paura» è un ritornello ricorrente (v. 26; 28;31). La persecuzione non deve indurre i testimoni al silenzio, al contrario: quello che ora, prima della sua glorificazione, Gesù insegna loro nelle tenebre (il cosiddetto «segreto messianico») dovrà essere proclamato apertamente a gran voce, gridato sui tetti. Il cristianesimo non è una religione esoterica e iniziatica; non ci sono verità segrete o nascoste, riservate a pochi eletti. La manifestazione del Figlio dell’uomo, nella pienezza dei tempi, è una rivelazione universale che deve essere portata a conoscenza di tutti. Si sente qui l’eco della polemica contro le correnti gnostiche che tendevano ad avvicinare il cristianesimo ai culti misterici.

    vv. 28-31 — I persecutori non hanno in realtà alcun potere sui cristiani: essi uccidono il corpo, ma non l’anima. Il nemico non è chi detiene la forza della spada; il nemico vero è il peccato, che allontana dalla comunione con il Cristo. Non si tratta di una forma di dualismo che sottovaluti la vita corporea e naturale a favore di uno spiritualismo disincarnato, ma di una scala di valori che va rispettata perché vi sia una vita armonica. Il peccato fa perire l’anima e il corpo nella Geenna; il Padre protegge, con l’anima, anche il corpo: conta perfino i capelli del nostro capo e non lascia cadere neppure un passero. Coloro che confidano nel Padre non hanno quindi nulla da temere.

    vv. 32-33 — La testimonianza resa dai cristiani deve essere coraggiosa e sincera: una scelta di vita, senza tentennamenti né compromessi. «Riconoscere» Gesù davanti agli uomini vuol dire confessare apertamente la fede, nonostante la persecuzione; «essere riconosciuti» da lui davanti al Padre che è nei cieli significa essere accolti nella gloria del suo regno.

 

Meditazione

    La fede è un’attiva lotta contro la paura: è così per il profeta Geremia e per i discepoli di Gesù. Le fede esige coraggio. Gesù esorta i discepoli a «non temere» chi può perseguitarli, chi osteggia la loro testimonianza e la loro predicazione. Gesù chiede loro di compiere un esodo dalla paura. O meglio, molto realisticamente, Gesù indica la via non tanto dell’eliminazione della paura, ma del suo addomesticamento, del suo ri-orientamento, dell’elaborazione della paura di eventuali nemici in timore del Signore. Per il discepolo, come per il profeta, la paura viene vinta dalla fiducia nel Signore, dalla coscienza della sua vicinanza (Ger 20,11), dalla fede nel suo amore che si fa carico dei minimi dettagli della nostra vita (Mt 10,30).

    I discepoli, inviati da Gesù «come pecore in mezzo ai lupi» (Mt 10,16), nella loro missione incontreranno persecuzioni, ostacoli, inimicizie. E saranno tentati di divenire preda della paura. Ma potranno trovare motivo di coraggio e di forza nella relazione con il Signore, nella certezza di fede che, proprio mentre sono perseguitati a motivo della fede, essi sono sulle tracce del loro Signore (Mt 10,22-25). E potranno attingere motivi di fiducia dall’insegnamento che Gesù ha loro impartito nel segreto, nell’intimità, condividendo con loro la sapienza del proprio cuore (Mt 10,26-27). Solo la parola del Maestro che rimane nel cuore è motivo di forza e di coraggio per il credente il quale manifesta la sua qualità discepolare proprio al cuore della sua attività missionaria.

    Le parole del Signore sembrano voler tener vivo nei discepoli il ricordo della sua vicinanza, della sua cura, del suo amore per loro. Solo così essi potranno nutrire fiducia anche nelle tribolazioni e vincere la paura con l’amore. Perché infatti è così importante per il discepolo non aver paura di chi gli può nuocere? Non solo perché avendo paura si vive in dipendenza da coloro che ci vogliono fare del male e si accresce il loro potere su di noi, ma soprattutto perché, se si ha paura dell’altro, ci si impedisce di amarlo. L’inviato del Signore, temendo colui che lo perseguita, si sottrae alla testimonianza del Cristo che può cambiare la realtà dell’altro, il suo odio, amandolo. Come annunciare la buona notizia del van-gelo se ho paura dell’altro? Come predicare la conversione, se mi mostro paralizzato dalla paura? Come può una chiesa che si nutre di paura e di diffidenza nei confronti del mondo, annunciare al mondo la gioiosa notizia della salvezza? Il vangelo chiede ai cri-stiani e alle chiese nella storia di creare rapporti di prossimità e di fiducia anche con i nemici, anche con chi è apertamente ostile.

    Comandando ai discepoli di «annunciare dalle terrazze » ciò che egli ha detto, insegnato e consegnato loro nel nascondimento (Mt 10,27), Gesù chiede ai cristiani e alle chiese il coraggio della parola, la parresia, la franchezza e l’audacia dell’annuncio evangelico. Ciò che si oppone alla parresia è la paura che intacca la libertà del cristiano e lo porta a muoversi e ad agire obbedendo a logiche di convenienza, a logiche ‘politiche’, a dire e a non dire a seconda delle circostanze, a usare le parole in modo camaleontico. Il rischio terribile per il cristiano è quello di vergognarsi del vangelo (cfr. Rm 1,16): «Chi si sarà vergognato di me e delle mie parole… anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo» (Mc 8,38).

    Dice il passo di Mt 10,29: «Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro (lett. «senza il Padre vostro»)». Dietrich Bonhoeffer ha scritto, commentando queste parole: «Certamente, non tutto quello che accade è semplicemente “volontà di Dio”. Ma alla fine comunque nulla accade “senza che Dio lo voglia” (Mt 10,29); attraverso ogni evento cioè, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio». Questa fiducia nella presenza di Dio anche nel non-di-vino, nell’enigmatico, nelle sofferenze sopportate per il vangelo, dice la sua paternità fedele nei nostri confronti e sconfigge la paura. Aiuta a non scoraggiarsi nelle inevitabili tribolazioni.

 

Immagine della Domenica 


 

LA NAVE 

Se vuoi costruire una nave non chiamare la gente che procuri il legno,

che prepari gli attrezzi necessari,

non organizzare il lavoro;

prima invece, sveglia negli uomini la nostalgia

del mare lontano e sconfinato. 

Appena si sarà svegliata in loro questa sete,

gli uomini si metteranno subito al lavoro per costruire la nave.  

(A. de Saint-Exupèry)

 

Preghiere e Racconti

Libertà di spirito

«In questo nostro secolo vari scrittori hanno trattato l’argomento della libertà spirituale. Posso citarti Dietrich Bonhoeffer nel suo libro Lettere e scritti dalla prigione; Etty Hillesum in Etty: Diario 1941 – 1943; Titus Brandsma, nelle sue Lettere da un carcere olandese. Tutti costoro, proprio in mezzo alle forme più spaventose di oppressione e violenza, hanno scoperto in se stessi un luogo dove nessuno aveva potere su di loro, dove erano totalmente liberi. Sebbene molto diversi tra loro, essi avevano in comune una consapevolezza della libertà spirituale che permetteva loro di rimanere sempre indipendenti senza lasciarsi manipolare da nessuno. Fu grazie a questa libertà che, in larga misura, superarono perfino la paura della morte. Sapevano nell’intimo del cuore che coloro che potevano distruggere il loro corpo non avrebbero mai potuto privarli della loro libertà. Gesù stesso intendeva parlare di questa libertà quando disse ai suoi discepoli: «Non temete quelli che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima» (Mt 10,28).

Ciò che io personalmente trovo così affascinante è il fatto che questa libertà spirituale sia qualcosa di completamente diverso da una libertà spiritualizzata. La libertà che ci è offerta da Gesù non implica che gli oppressori possono continuare a opprimere, che i poveri devono restare poveri e gli affamati devono restare affamati, dato che, in campo spirituale, siamo liberi. Una vera libertà spirituale che tocchi il cuore del nostro essere in tutta la sua umanità dev’essere efficace in ogni campo: fisico, psichico, sociale e, in senso globale, terrestre. Dev’essere visibile in ogni luogo, ma il nucleo di questa libertà spirituale non dipende dal modo in cui si manifesta. Una persona malata, mentalmente handicappata od oppressa può sempre essere spiritualmente libera, anche se la sua libertà spesso non può manifestarsi in ogni settore della vita.

Sono diventato consapevole di questa realtà visitando il Nicaragua. In un piccolo villaggio, Jalapa, parlai con alcune donne i cui mariti o figli erano stati brutalmente assassinati dai cosiddetti Contras. Quelle donne sapevano fin troppo bene che i Contras erano sostenuti dagli Stati Uniti, eppure non davano segno di odio o di vendetta. Ricordavano anzi le parole di Gesù in croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34), ed erano pronte, come Gesù, a pregare Dio di perdonare i loro nemici.

Stando con esse sentii quanto fosse profonda la loro libertà spirituale. In mezzo a tanta violenza, nessuno era riuscito a privarle di quella libertà. Il loro cuore era rimasto libero, e le sofferenze indicibili non avevano fiaccato il loro spirito. Per me fu un’esperienza indimenticabile».

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 20-22).

 

Non temete quelli che uccidono il corpo

Siano rese grazie al chicco di grano che ha voluto morire e moltiplicarsi (cfr. Gv 12,25)! Siano rese grazie all’unico Figlio di Dio, il Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo che si è degnato di subire la nostra morte per farci degni della sua vita. […] Quel grano era solo, ma aveva in sé una così grande fecondità da diventare una moltitudine. Quanti sono i chicchi di grano che hanno imitato la sua passione e per i quali noi esultiamo quando celebriamo la nascita al cielo dei martiri. Molte infatti sono le sue membra, unite sotto un unico capo che è lo stesso nostro Salvatore nel vincolo della carità e della pace. Lo sapete perché ne avete udito parlare molte volte. Le molte membra sono un solo uomo e il più delle volte la voce come di un solo uomo che si sente nei salmi è la loro. Uno grida a nome di tutti, perché tutti nell’unico Cristo formano un solo uomo. Ascoltiamo dunque perché i martiri hanno sofferto e perché hanno corso pericoli tra le grandi tempeste dell’odio di questo mondo. Hanno corso pericoli non tanto per quanto riguarda il corpo che prima o poi dovevano abbandonare, ma per quanto riguarda la fede stessa. Se fossero venuti meno, nel caso che avessero ceduto dinanzi alle terribili sofferenze delle persecuzioni o dinanzi all’amore per questa vita, avrebbero perduto ciò che Dio aveva loro promesso. Egli toglieva loro ogni timore non solo con la parola, ma anche con l’esempio; con la parola dicendo: «E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima» (Mt 10,28); con l’esempio mettendo in pratica egli stesso ciò che ordinava con la parola. […] Volle fare di se stesso la medicina per i malati. I martiri, dunque, hanno sofferto e se non fosse stato sempre accanto a loro colui che diceva: «Ecco, io sono con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28,20), certamente sarebbero venuti meno. […] Nessun servo di Dio è esonerato dalla persecuzione ed è vero ciò che dice l’Apostolo: «Tutti quelli che vogliono vivere nella fede in Cristo patiranno persecuzioni» (2Tm3,12).

(AGOSTINO DI IPPONA, Esposizione sul salmo 69,1-2, NBA XXVI, pp. 696-698).

 

Non un capello del vostro capo può cadere

[Parla Gesù:] Bisogna che vi attendiate la persecuzione. Se mi imitate predicando il vangelo e seguendo la verità, le persecuzioni che mi hanno senza sosta circondato vi attendono: bisognerà riceverle con gioia, come dei tratti preziosi di somiglianza con me, come una imitazione del vostro Beneamato… sopportarle con calma, sapendo che se vi capitano, le permetto io e che non vi colpiranno che nella misura in cui lo permetterò io, senza il cui permesso non un capello del vostro capo può cadere… accettarle in conformità alla volontà di Dio, dando il benvenuto a tutto ciò che capita. Soffrirle con coraggio offrendo a Dio le vostre sofferenze come un sacrificio, soffrirle pregando per i vostri persecutori poiché sono figli di Dio e io stesso vi ho dato l’esempio di pregare per tutti gli uomini: per i persecutori e i nemici.

(CH. DE FOUCAULD, All’ultimo posto. Ritiri in terra santa (1897-1900), Roma, 1974, 40s., passim).

 

Beati voi!

«La croce di Madre Teresa è stato il primo segno cristiano visto alla televisione di stato, almeno dal 1967», dichiarò un rifugiato albanese al suo arrivo in Italia nel 1990. La croce di cui parlava era quella croce nera che Madre Teresa portava sopra il suo sari bianco.

Se a partire dal 1944 il regime marxista aveva perseguitato i credenti (cattolici, ortodossi e musulmani), la situazione doveva peggiorare nel 1967. Fu allora che la sua Albania si dichiarò ufficialmente come la sola nazione atea sulla faccia della terra. La religione fu attaccata in modo molto duro. Il modo in cui venivano trattati i cattolici ricordava le persecuzioni degli imperatori romani più crudeli. Nella nostra era moderna la chiesa era ridotta come ai tempi delle catacombe.

Fatto davvero sorprendente, mentre gli albanesi non avevano il diritto di pronunciare pubblicamente il nome di Gesù, Madre Teresa andava per il mondo con quello stesso nome di Gesù sulle labbra prodigando le sue opere di misericordia. A un parroco che si trovava in prigione fu chiesto da parte di un detenuto di battezzargli il figlio, in segreto. Quando le autorità scoprirono questa disobbedienza, il prete fu condannato a morte. Fu uno dei sessanta preti che morirono impiccati, fucilati o annientati dalla durezza dei campi di lavoro. La persecuzione, come sappiamo, ha da allora infierito sul cristianesimo. Coloro che sono soggetti alla persecuzione sono chiamati ‘beati’ perché sono i difensori della giustizia e la insegnano.

La promessa che accompagna questa beatitudine è stupefacente: nientemeno che possedere il regno dei cieli. Signore Gesù, noi sappiamo che per imitarti dobbiamo operare per il bene di tutti. Ci hai detto che avremmo sofferto facendo i nostri umili sforzi per gli altri contro l’oppressione, contro la degradazione, contro la guerra. Ogni giorno incontriamo l’opposizione, la contraddizione. Aiutaci ad accettare le nostre piccole sofferenze, perché conosciamo il loro valore di redenzione. Trasforma la nostra tristezza in gioia, mentre ci sforziamo di compiere la tua volontà.

(E. EGAN – K. EGAN, Madre Teresa e le Beatitudini, Broscia 2000, 129-131).

 

Il vero testimone

Ma che cosa significa testimoniare? Che cosa dobbiamo testimoniare? Poiché la testimonianza è di Cristo, ciò che la tua vita deve esprimere è il riferimento a Lui, l’orientamento costante e fedele a Lui. L’ideale della testimonianza non è semplice “coerenza” con certi principi, se questa richiama solo alla tua bravura personale, alla tua correttezza, alla tua onestà. Questi valori, e molti altri,  sono validi parzialmente, ma sono veri fino in fondo e possono essere vissuti davvero solo nel riferimento ad un Altro. Solo allora correttezza e bravura diventano testimonianza di Cristo, e tu sei non soltanto una “brava persona” ma anche un vero “testimone”. Ciò è importante anche per un altro aspetto: l’inevitabile presenza del male nella nostra vita, un male che è incoerenza e controtestimonianza.

Anche qui l’ideale è rendere presente un altro, che è più grande del nostro male, ed è origine del nostro bene, e continuamente ci perdona e ci rinnova.

Se aspettassimo ad essere pienamente coerenti per testimoniare, non cominceremmo mai. Il cuore della testimonianza cristiana è, dunque, la Persona di Cristo: Lo annunciamo, perché una Persona ed una storia si indicano e si raccontano; Lo annunciamo, perché sia chiaro che è Lui il centro e l’origine di quanto cerchiamo di vivere. Lo annunciamo, perché possa affascinare altri come ha affascinato noi.

(A. Maggiolini, Regola di vita cristiana per i giovani).

 

Fammi testimone del tuo vangelo, Signore!

Dammi coraggio per non negare di conoscerti, quando i colleghi ridono parlando di te come di un mito e dei tuoi seguaci come di gente alienata.

Dammi forza per non spaventarmi, quando mi accorgo che essere coerente con il tuo insegnamento può significare essere un perdente e trovare sbarrate molte strade nella società.

Dammi la gioia di sapermi con te, quando resto isolato dagli amici che ritengono una perdita di tempo la preghiera e l’eucaristia.

Dammi la fortezza per superare ogni rispetto umano, per non vergognarmi del vangelo, quando essergli fedele comporta il sentirmi “diverso” dalla grande folla che fa opinione e costume.

Fammi, o Signore, testimone del tuo amore!

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004-

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998. 

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

Liturgia. Anno A. CD, Leumann (To), Elle Di Ci, 2004. 

– A. PRONZATO, Il vangelo in casa, Gribaudi, 1994.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

XII DOMENICA TEMPO ORDINARIO (A)

SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO

Prima lettura: Deuteronomio 8,2-3.14-16

Mosè parlò al popolo dicendo: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».

 

Come si vede, siamo davanti al «mistero», che la nostra ragione può solo adorare, se accetta di essere illuminata dalla fede. Per chi crede, poi, la cosa non è per niente impossibile, perché la «parola» di Dio non solo è verace, ma onnipotente, cioè capace di creare eventi o situazioni imprevedibili, o addirittura umanamente impossibili.

     È a questa onnipotenza della «parola» che rimanda il testo del Deuteronomio, il quale ricorda l’episodio della manna (cf. Es 16), per ammonire gli Israeliti ed esortarli ad avere fiducia in Dio. Infatti, nonostante le loro «mormorazioni» durante l’aspro pellegrinaggio nel deserto, egli li ha provveduti di quel cibo misterioso che è appunto la «manna».

     Se ha fatto questo, può fare tante altre cose, anche più grandiose e mirabili, come è l’Eucaristia, in qualche maniera comparabile con la manna, in quanto Gesù la presenta proprio come «cibo» per alimentare la vita spirituale del nuovo popolo di Dio, peregrinante anch’esso nell’aspro deserto della storia, e talvolta tentato di non dar credito al suo Signore. Proprio in certe situazioni di difficoltà e di angustia, sia fisica che spirituale, conviene ricordarsi di quanto ci dice il deuteronomista: Dio «ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3).

     E proprio «dalla bocca» di Gesù sono uscite quelle parole che ci hanno detto l’incredibile: e cioè che proprio lui, nel suo corpo e nel suo sangue, è il «cibo» di cui soprattutto abbiamo estremo bisogno. Il pane quotidiano è importante, e dobbiamo ogni giorno chiederlo al Signore; molto più importante, però, è nutrirsi del corpo di Cristo, che si è definito come il «pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6,51).

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 10,16-17

Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?  Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

 

2  L’idea del «pane» rimanda anche alla «convivialità», in cui gli uomini nutrendosi si scoprono amici, uniti gli uni agli altri, assisi come sono alla stessa mensa. Orbene, nella comunità di Corinto, proprio in occasione della celebrazione eucaristica, riaffioravano divisioni e rivalità che turbavano la pacifica convivenza di quei cristiani (cf. 1Cor 1,11-17; 10,17-2 2).

     È proprio per contrastare tali atteggiamenti divisionistici che Paolo insegna invece, che l’Eucaristia è segno e strumento nello stesso tempo di «comunione» e di coesione fra tutti i membri della comunità. Ecco il testo brevissimo, ma teologicamente altrettanto ricchissimo: «Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?  Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,16-17).

     È evidente che qui Paolo fa riferimento agli elementi che costituiscono l’Eucaristia, cioè il pane e il vino («calice»), che Gesù con la sua «benedizione» ha trasformato nel suo corpo e nel suo sangue, come l’Apostolo riferirà poco dopo nella stessa lettera (11,23-31).

     Orbene, proprio perché i cristiani di Corinto si nutrono del corpo e del sangue del Signore, sono tutti compaginati in singolare «comunione» con lui. Ed è proprio partendo dal Cristo, «condiviso» nell’Eucaristia, più che dalla buona volontà degli uomini, che questi possono diventare un «corpo solo» anche fra di loro.

     Bellissimo il commento di S. Giovanni Crisostomo a questo brano: «L’Eucaristia si chiama ed è veramente comunione (Koinonía) perché per essa noi veniamo uniti a Cristo e partecipiamo alla sua carne e alla sua divinità; essa è comunione anche perché, per suo mezzo, siamo uniti gli uni agli altri. Appunto perché partecipiamo a un solo pane, diventiamo tutti un solo corpo di Cristo, un solo sangue e membri gli uni degli altri, essendo stati fatti concorporei di Cristo».

 

Vangelo: Giovanni 6,51-58

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

 

Esegesi 

    È l’ultima parte del così detto «discorso eucaristico», che Gesù pronunciò, dopo la moltiplicazione dei pani, «nella sinagoga di Cafarnao» (Gv 6,59). Ed è anche la parte conclusiva in cui in maniera svelata, non più simbolica ed enigmatica come avviene nei versetti precedenti, Gesù dichiara non solo di essere «il pane della vita», presignificato dalla «manna» mangiata dai padri nel deserto (Gv 6,48-50), da accettare mediante la fede, ma addirittura, «realisticamente» da essere mangiato e triturato per la nostra «sussistenza» spirituale. È quanto leggiamo proprio all’inizio del brano evangelico odierno: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (6.51).

     Sono soprattutto le ultime parole a suscitare scandalo, perché sembrano assurde e impossibili: «il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». A questo punto la metafora del «pane» non è più tale; essa diventa crudo e scandalizzante realismo, come dimostra la immediata reazione dei Giudei: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (v. 52).

     Ma Gesù non è che ammorbidisca la espressione, anzi la esaspera aggiungendo un ulteriore motivo di scandalo, e cioè il fatto di «bere» il suo sangue, cosa rigorosamente proibita per degli Ebrei: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (vv. 53-55). Non è simbolico il parlare di Gesù: la sua «carne» donata è «vero cibo»; il suo «sangue» versato è «vera bevanda».

     Ciò che rende grandi e strabilianti queste parole non è solo il realismo a cui esse rimandano, ma soprattutto il risultato che esse producono. Anzi i risultati sono almeno due: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (v. 54). Mangiando e bevendo il corpo e il sangue del Signore si ha: 1) «la vita eterna», che in Giovanni significa l’assunzione a partecipare della «vita» stessa di Dio; 2) a tale «vita eterna» partecipa il nostro stesso corpo con la «risurrezione» finale: «Ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

     È chiaro che, parlando in tal modo, Gesù non può voler dire che nell’Eucaristia abbiamo a che fare con il suo corpo morto per noi sulla Croce: adesso però egli, che fu morto, è tornato alla vita mediante la risurrezione. Perciò partecipando all’Eucaristia, noi partecipiamo alla totalità del suo «mistero» salvifico, proprio come diciamo nella celebrazione eucaristica dopo la consacrazione: «Annunciamo la tua morte, o Signore; proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta».

     Tutto questo presuppone però che l’Eucaristia diventi «vita», non solo «eterna», futura cioè, ma anche vita «presente»: vale a dire che dia senso e dimensione sacrale al nostro vivere quotidiano. È quanto afferma Gesù quando dichiara: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me» (v. 57). È estremamente interessante questo paragone: come Cristo è intimamente legato con il Padre e «vive» di questa strettissima relazione con lui, così il credente che mangia del corpo di Cristo, vive già, nel presente, della vita stessa di Dio mediante questa fusione, vorrei dire quasi fisica, con il Figlio. «È questo il vertice del discorso sul pane di vita: l’alleanza che Dio ha promesso è realizzata in Gesù Cristo» (J. DUPONT).

 

Meditazione

     Dio nutre il suo popolo; Dio dona il cibo alle sue creature. Questa l’affermazione che attraversa le tre letture. Nel deserto Dio ha nutrito il suo popolo con la manna (prima lettura); Gesù è il pane donato da Dio per la vita del mondo (vangelo); l’unico pane che significa Cristo nutre la comunità cristiana e la fa partecipare all’unica vita del suo Signore (seconda lettura).

     Il cibo che viene da Dio e che consente al popolo di sostenersi nel pellegrinaggio nel deserto, nel faticoso esodo verso la terra promessa (prima lettura), è il pane del popolo pellegrinante verso il Regno, è il pane che ha una valenza escatologica; è il pane che dona unità alla comunità costituendola come unico corpo (seconda lettura), radicandola nel dono di Dio e nel suo amore, e dunque ha una valenza ecclesiologica; è il pane vivo che assume il volto e il corpo di Cristo, che riveste le fattezze della sua vita e della sua umanità, della sua carne e del suo sangue (vangelo), e in quanto tale, esso ha una valenza cristologica.

     Le parole di Gesù: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» ( Gv 6,51 ) non vanno immediatamente intese in senso eucaristico e in riferimento al pane eucaristico. Queste parole indicano Gesù come colui che rivela il Padre e che può dare la vita al mondo con la sua stessa vita, con l’interpretazione della vita umana che egli ha mostrato all’umanità nella sua concreta esistenza. Il «mangiare me» (Gv 6,57), il «mangiare la mia carne e bere il mio sangue» (Gv 6,53.54.56) rinviano il discepolo all’operazione spirituale di assimilare nella propria vita la vita di Cristo. Di questa operazione fa parte la fede, il credere, fa parte l’ascolto della parola delle Scritture, fa parte la prassi, il fare concretamente la volontà del Padre. Non vi fa parte solo la manducazione eucaristica.

     La vita umana di Gesù (la sua carne e il suo sangue), come testimoniata nei vangeli, è il cibo di cui ogni credente è chiamato a nutrirsi affinché la vita di Gesù viva concretamente in lui. La chiesa è il luogo in cui la concreta umanità di ogni credente (la sua carne e il suo sangue) è chiamata a conformarsi all’umanità di Gesù, alla sua vita. Affinché sia vero che una sola vita, un’unica vita lega il Signore e il suo discepolo. Lì la chiesa si ma-nifesta come luogo dell’alleanza tra il Signore e il credente.

     La vita eterna promessa a chi assimila la sua vita (Gv 6,51.54.58), in realtà inizia già qui e ora per il credente. Si tratta di integrare la morte nella vita facendo della vita un atto di

donazione di sé, un atto di amore sulle tracce di Gesù (Gv 13,34). Come atto di amore è quello per cui Gesù si dona come cibo e bevanda agli uomini. Come atto di amore è la morte di Gesù, amore che è all’origine della resurrezione e della promessa della vita per sempre con il Signore nel Regno.

     Nell’affermazione che Gesù è il pane che non proviene dalla terra ma discende dal cielo e che è destinato ad essere mangiato per dare vita agli uomini, si cela il mistero e lo scandalo dello scambio e della comunicazione: per dare vita occorre perdere vita. Ma la vita che perdo in me, la vedo fiorire nell’altro. Per donare agli uomini la vita di Dio, il Figlio di Dio entra nella vita umana, diviene partecipe della carne e del sangue (cfr. Eb 2,14) e invita l’uomo allo scambio, alla relazione, alla partecipazione, alla comunione. Invita l’uomo a mangiare la sua carne e il suo sangue, cioè lo invita e lo abilita a partecipare alla sua vita.

     Vita di Dio e vita dell’uomo si incontrano nell’amore, nell’agape, cibo che veramente nutre l’uomo e realtà che costituisce la vita di Dio: «Dio è amore» (1Gv 4,8.16). L’eucaristia è il sacramento della carità, dell’agape, in cui il dono di Dio agli uomini è la piena narrazione del suo amore per loro e la fonte del loro amarsi come Cristo li ha amati. La comunità che nasce dall’eucaristia è costituita dall’insieme dei «donanti», dei «capaci di dono» perché essi stessi «destinatari di dono», in un circuito di donazione che ha la sua origine nell’alto, da Dio; è formata da «coloro che amano» («Amatevi gli uni gli altri»: Gv 13,34) in quanto essi stessi «amati» («come io ho amato voi»: Gv 13,34).

 

IMMAGINE DELLA DOMENICA 

 

 

LA POTENZA DEL REGNO

Il seminatore non avrebbe gettato il seme se non fosse stato sicuro che, malgrado tutti gli ostacoli, quei chicchi di grano esposti a tanti rischi avrebbero finito per produrre una buona messe. Dal momento che Gesù è uscito a seminare, dal momento che ha donato la propria vita con tanta generosità nonostante le opposizioni, significa che ha in sé un’energia capace di venire a capo di tutte le resistenze: la potenza del regno di Dio”.

(Jacques Guillet, Gesù di fronte alla sua vita e alla sua morte)

Campi di grano (Moral de Hornuez) – 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Preghiere e racconti

 

«Amen»

«Se voi siete il corpo e le membra di Cristo, il vostro mistero è deposto sulla tavola del Signore: voi ricevete il vostro proprio mistero!

Voi rispondete “Amen” a ciò che voi siete, e con la vostra risposta sottoscrivete. Sentite dire: “Corpus Christi ” e rispondete: “Amen!”.

Siate dunque membra del corpo di Cristo, affinché il vostro “Amen” sia vero».

(AGOSTINO, Sermo 272, in PL 38, 1247).

 

«La messa è finita, andate in pace!»

Al termine della Messa il prete ci congeda con la formula: “La Messa è finita, andate in pace!”. Sono sempre tentato di correggere: andate, perché la Messa non è finita, non finisce mai. Questo infatti è un inizio, non una conclusione. Il sacerdote non vuol dire:   “Bravi, avete fatto il vostro dovere, potete andare tranquilli”; al contrario, è come se dicesse: “Adesso tocca a voi, è il vostro momento”. Dunque non un segnale di “riposo”, ma di “partenza” per una missione. Significa “agganciarsi” alla vita quotidiana. Ci si alza dalla mensa eucaristica e si attacca a lavorare, a costruire il Regno.

(Alessandro Pronzato).

 

“Signor parroco, signor parroco…”

Un parroco aveva preparato con tanta cura la festa del Corpus Domini. Pienamente soddisfatto, iniziò con grande solennità e raccoglimento la processione. Durante il tragitto, però, ripetutamente il chierichetto a fianco a lui gli tirò la veste: “Signor parroco, Signor parroco…”. Parole che il parroco ogni volta mise subito a tacere. Arrivato in chiesa, pose l’ostensorio sull’altare e solo lì si accorse… che mancava l’ostia.

 

Il Dio nell’ostensorio

Cantavano le donne lungo il muro inchiodato

quando ti vidi, Dio forte, vivo nel Sacramento,

palpitante e nudo come un bambino che corre

inseguito da sette torelli capitali.

Vivo eri, Dio mio, nell’ostensorio.

Trafitto dal tuo Padre con ago di fuoco.

O Forma consacrata, vertice dei fiori,

dove tutti gli angoli prendono luci fisse,

dove numero e bocca costruiscono un presente

corpo di luce umana con muscoli di farina!

O Forma limitata per esprimere concreta

moltitudine di luci e clamore ascoltato!

O neve circondata da timpani di musica !

O fiamma crepitante sopra tutte le vene!

(F. García Lorca)

 

La contemplazione eucaristica

La forma per eccellenza di contemplazione eucaristica si ha nell’adorazione silenziosa davanti al Santissimo.

Si può, certo, contemplare Gesù Eucaristia anche da lontano, nel tabernacolo della propria mente (San Francesco era solito dire: “Quando non ascolto la Messa, adoro il corpo di Cristo nella preghiera, allo stesso modo con cui lo adoro durante la celebrazione eucaristica”). Tuttavia, la contemplazione fatta alla presenza reale di Cristo… Stando calmi e silenziosi, e possibilmente a lungo, davanti a Gesù Eucaristia, si percepiscono i suoi desideri su di noi, si depongono i nostri progetti per far posto a quelli di Cristo. La luce di Dio penetra a poco a poco nel cuore. E lo risana.

(Padre Raniero Cantalamessa).

 

Il giorno della carità

«Se l’Eucaristia è e deve essere il cuore della domenica, quest’ultima non può non essere il “giorno della carità”. Non può non esserlo, perché l’Eucaristia, nella sua più profonda verità, è il “sacramento della carità” […].

In quanto “giorno della carità”, la domenica deve potersi presentare nel segno della “unione fraterna” e della “comunione” nella Chiesa. È questo un aspetto essenziale di quell’amore che l’Eucaristia genera, promuove e alimenta»

(Mi sarete testimoni, 50-52).

 

In Te e per Te non saremo che una cosa sola.

Signore, non vengo a riceverti,

ma a chiederti di accogliermi in Te.

Non sei Tu che ti nascondi in me:

sono io che voglio scomparire in Te.

Ti ho portato il mio cuore

per poter amare nel tuo amore.

Ti ho portato il mio spirito,

per poter pensare alla tua luce.

I miei occhi…. per poter vedere come vedi Tu.

Le mie labbra…. per parlare e sorridere nel nome tuo.

Le mie mani…. perché in me tu possa soccorrere tutti.

Ti dono il mio essere perché continui la tua Incarnazione.

Noi non veniamo a riceverti per portarti via separatamente:

veniamo insieme per consegnarci a Te insieme.

Veniamo diversi: ripartiremo uniti nel tuo amore.

Veniamo a te con le nostre discordie e divisioni:

e saremo uniti nella tua Carità.

Veniamo a Te da tutti i punti dell’orizzonte sociale:

ripartiremo per costruire lo stesso Regno.

Veniamo molteplici:

in Te e per Te non saremo che una cosa sola.

(Anonimo).

 

L’Eucaristia meta di un lungo cammino

Non è facile mettere l’Eucaristia al centro! Non è facile accogliere il messaggio del sacramento dell’Eucaristia nella sua forza.

I testi del Nuovo Testamento alludono spesso all’incomprensione che essa incontra in coloro cui essa è destinata. Il primo documento neotestamentario sull’Eucaristia denuncia la maniera scorretta con cui essa veniva celebrata dai cristiani di Corinto. Luca racconta come durante l’Ultima Cena i discepoli discutessero chi fosse tra loro il più grande. Nel capitolo 6 di Giovanni si incontra l’incomprensione da parte degli ascoltatori di Gesù: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”.

Nell’Eucaristia l’amore di Dio si manifesta nelle sue forme più pure e sconvolgenti ed incontra un uomo che è spaesato dinanzi a cose immensamente più grandi di lui.

L’Eucaristia è la meta di un lungo cammino. Confessare umilmente le nostre lacune o anche semplicemente le nostre incertezze e difficoltà, è il primo passo da compiere per riscoprire l’inesauribile ricchezza di questo mistero.      

(Card. Carlo Maria Martini).

 

«Il Corpus Domini»

Perché c’è tanta fame nel mondo? Perché tantissimi bambini devono morire di fame, mentre altri sono soffocati dall’abbondanza? Perché il povero Lazzaro deve continuare ad aspettarsi invano le briciole del ricco gaudente, senza poter varcare la soglia della sua casa? Certamente non perché la terra non sia in grado di produrre pane per tutti. Nei Paesi dell’Occidente si offrono indennizzi per la distruzione dei frutti della terra, allo scopo di sostenere il livello dei prezzi, mentre altrove c’è chi patisce la fame. La mente umana sembra più abile nell’escogitare sempre nuovi mezzi di distruzione, invece che nuove strade per la vita. È più ingegnosa nel far arrivare in ogni angolo del mondo le armi per la guerra, piuttosto che portarvi il pane. Perché accade tutto questo? Perché le nostre anime sono malnutrite, i nostri cuori sono accecati e induriti. Il mondo è nel disordine perché il nostro cuore è nel disordine, perché gli manca l’amore, perciò non sa indicare alla ragione le vie della giustizia.

Riflettendo su tutto questo, comprendiamo le parole con cui Gesù obietta a Satana, che lo invita a trasformare le pietre in pane: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Perché ci sia pane per tutti, deve prima essere nutrito il cuore dell’uomo.

Perché ci sia giustizia tra gli uomini, deve prima germogliare la giustizia nei cuori, ma essa non si sviluppa senza Dio e senza il nutrimento vitale della sua Parola. Questa Parola si è fatta carne, è diventata persona umana, affinché noi potessimo accoglierla e farla nostro nutrimento. Poiché l’uomo è troppo piccolo, incapace di raggiungere Dio, Dio stesso si è fatto piccolo per noi, così che possiamo ricevere amore dal suo amore e il mondo diventi il suo regno. Questo significa la festa del Corpus Domini. Il Signore che si è fatto carne, il Signore che è diventato pane, noi lo portiamo per le vie delle nostre città e dei nostri paesi. Lo immergiamo nella quotidianità della nostra vita, le nostre strade diventano le sue strade. Egli non deve restare rinchiuso nei tabernacoli discosto da noi, ma in mezzo a noi, nella vita d’ogni giorno. Deve camminare dove noi camminiamo, deve vivere dove noi viviamo. Il nostro mondo, le nostre esistenze devono diventare il suo tempio. Il Corpus Domini ci fa capire cosa significa fare la comunione: ospitarlo, riceverlo con tutto il nostro essere. Non si può mangiare il corpo del Signore come un qualsiasi pezzo di pane. Occorre aprirsi a lui con tutta la propria vita, con tutto il cuore: «Ecco, io sto alla porta e busso», dice il Signore nell’Apocalisse. «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui e lui con me» (3,20).

Il Corpus Domini vuole rendere percepibile questo bussare del Signore anche alla nostra sordità inferiore. Egli bussa forte alla porta della nostra vita d’ogni giorno e dice: «Aprimi! Fammi entrare! Comincia a vivere di me!». Questo non può valere soltanto un attimo, come di sfuggita, durante la santa Messa, e poi di nuovo come prima. È un’esperienza che attraversa tutti i tempi e tutti i luoghi. «Aprimi!», dice il Signore. «Come io mi sono aperto per te. Aprimi il mondo, perché io possa entrarvi, e possa così rischiarare la tua mente intorpidita, vincere la durezza del tuo cuore. Fammi entrare! Io per te mi sono lasciato squarciare il cuore». Il Signore dice questo a ciascuno di noi, lo dice alla nostra comunità nel suo insieme: fatemi entrare nella vostra vita, nel vostro mondo. Vivete di me, per essere veramente vivi. Ma vivere significa anche e sempre: donare ad altri. II Corpus Domini è un invito rivolto a noi dal Signore, ma è anche un grido che noi indirizziamo a lui. Tutta la festa è una grande preghiera: facci dono di Te! Dá a noi il vero pane! Arriviamo così a comprendere meglio il Padre nostro, la preghiera per eccellenza. La quarta invocazione, quella per il pane, funge come da collegamento fra le tre invocazioni che riguardano il regno di Dio e le ultime tre che riguardano le nostre necessità. Che cosa chiediamo? Naturalmente il pane per oggi. È la preghiera dei discepoli, che non hanno capitali da parte, ma vivono della quotidiana bontà del Signore: perciò si mantengono in dialogo costante con lui, volgono a lui il loro sguardo, confidano soltanto in lui. E la preghiera di chi non vuole accumulare ricchezze, di chi non cerca una sicurezza mondana, ma si accontenta del necessario per avere tempo da dedicare alle cose veramente importanti. È la preghiera dei semplici, degli umili, di coloro che amano e vivono la povertà nello Spirito Santo.

Ma nella domanda del pane c’è un’altra profondità, il termine greco epioúsios, che noi traduciamo con “quotidiano”, non compare da nessun’altra parte, ma è tipico ed esclusivo del Padre nostro. Per quanto gli esperti discutano ancora sul suo significato, molto probabilmente vuole anche dire: dacci il pane di domani, cioè il pane del mondo a venire. In realtà, soltanto l’Eucaristia può essere la risposta a ciò che questa misteriosa parola, epioúsios, vuole indicare: il pane del mondo futuro, che già oggi ci è dato, affinché già oggi il mondo futuro abbia inizio in mezzo a noi.

Alla luce di quest’invocazione, la preghiera perché venga il regno di Dio e perché la terra diventi come il cielo assume grande concretezza: con l’Eucaristia il cielo viene sulla terra, il domani di Dio si compie già oggi e introduce nel mondo di oggi il mondo di domani.

Ma qui è come sintetizzata anche la richiesta di essere liberati da tutti i mali, dai nostri debiti, dal pericolo della tentazione: dammi questo pane, perché il mio cuore si mantenga vigile, perché possa resistere al male, perché sappia distinguere il bene e il male, perché impari a perdonare e sia forte nella tentazione. Soltanto allora il nostro mondo comincerà a essere veramente umano: se il mondo futuro diventa già in qualche misura l’oggi, se il mondo comincia già oggi a diventare divino. Con la richiesta del pane andiamo incontro al domani di Dio, alla trasformazione del mondo. Nell’Eucaristia ci viene incontro il domani di Dio, il suo Regno già oggi comincia tra di noi. E non dimentichiamo, infine, che tutte le invocazioni del Padre nostro sono espresse col “noi”: nessuno può dire “Padre mio” se non Cristo, il Figlio. Perciò noi, se davvero vogliamo pregare nel modo giusto, dobbiamo farlo con gli altri e per gli altri, uscendo da noi stessi, aprendoci.

Tutto questo è significato da quel “camminare insieme col Signore” che è, per così dire il segno distintivo della festa del Corpus Domini.

Dopo che Gesù ebbe terminato il suo discorso eucaristico nella sinagoga di Cafarnao, molti discepoli lo abbandonarono: era qualcosa di troppo impegnativo, di troppo misterioso. Le loro attese erano più che altro rivolte a una liberazione politica, tutto il resto sapeva ben poco di concretezza. Non è forse così anche oggi? Quante persone, nel corso degli ultimi cent’anni, se ne sono andate perché a loro avviso Gesù non era abbastanza “pratico”. Quello che poi, da parte loro, sono riusciti a realizzare è sotto gli occhi di tutti. E se il Signore oggi ci domandasse: «Volete andarvene anche voi?». In questa festa del Corpus Domini, insieme con Simon Pietro, noi con tutto il cuore vogliamo rispondergli: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68ss.).

(J. RATZINGER [Benedetto XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-109).

 

Preghiera a Gesù nel Tabernacolo

O Dio nascosto nella prigione del tabernacolo! con gioia vengo accanto a voi ogni sera per ringraziarvi dei favori che mi avete concesso e per implorare perdono delle mancanze commesse durante questo giorno che si è dileguato come un sogno.

Gesù, come sarei felice se fossi stata interamente fedele! Ma spesso la sera sono triste perché sento che avrei potuto corrispondere meglio alle vostre grazie. Se fossi stata più unita a voi, più caritatevole con le consorelle, più umile e più mortificata, avrei meno pena ad intrattenermi con voi nell’orazione. Tuttavia, o mio Dio, ben lungi dallo scoraggiarmi alla vista delle mie miserie, vengo a voi con fiducia, ricordando che “Non quelli che stanno bene hanno bisogno del medico, ma i malati”. Vi supplico perciò di guarirmi, di perdonarmi, ed io, Signore, mi ricorderò che l’anima alla quale più avete perdonato, deve amarvi più delle altre. Vi offro tutti i battiti del cuore come altrettanti atti d’amore e di riparazione e li unisco ai vostri meriti infiniti. Vi scongiuro, sposo mio divino, di essere voi stesso il riparatore della mia anima, di agire in me senza tener conto delle mie resistenze; in una parola: non voglio più avere altra volontà che la vostra. E domani, con il soccorso della vostra grazia, ricomincerò una vita nuova.

Dopo essere venuta così ogni sera ai piedi del vostro altare, arriverò infine all’ultima sera della mia vita; allora comincerà per me il giorno senza tramonto dell’eternità, in cui mi riposerò sul vostro Cuore divino dalle lotte dell’esilio. Così sia!

(Preghiera composta da S. Teresa di Lisieux, il 16 luglio 1895, per Sr. Marta di Gesù).  

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO (A)

SANTISSIMA TRINITA’

Prima lettura: Esodo 34,4-6.8-9

In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano. Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».  Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».

 

  • Dio è il mistero che gli uomini non sono riusciti a dipanare; nemmeno i profeti. L’autore dell’Esodo vi si prova una prima volta narrando l’esperienza di Mosè sul Sinai, ma la risposta è enigmatica. La frase: «Sono colui che sono» per quanto espressiva («Sono colui che esiste, che fa esistere», spiegano gli esperti), da l’impressione che l’interpellato voglia nascondersi dietro un gioco di parole, rifiuti di rivelare il suo nome, far conoscere la sua identità.

         Ma il libro dell’Esodo è la raccolta di differenti tradizioni. Se la prima (3,4-13) è chiamata elohistica, la successiva si può definire sacerdotale (6,1-8; 19,5-6). Qui il nome di Dio è quello ormai abituale: «Il Signore». Esso sta a indicare la supremazia, sovranità assoluta sugli uomini e sulle cose.

         Al termine del libro è narrata un’altra teofania in cui il «volto» (panim) di Dio rimane ancora nascosto dalla «nube», ma egli fa’ trapelare o meglio svela apertamente il suo animo, le disposizioni che sono alla base dei suoi comportamenti. L’autore, questa volta il jahvista, registra anche i movimenti che il Signore compie: «scese», «si fermò là presso di lui», gli parla. Nonostante che sia il Signore non parla dall’alto, ma si abbassa fino al livello dell’uomo e gli apre il suo cuore con una sbalorditiva confessione. Egli non è il terribile JHWH che non fa accostare il suo servo e chiede di togliersi i calzari ai piedi prima di avanzare verso di lui (3,5), ma un Signore benevolo, pronto a capire e a perdonare le debolezze dell’uomo.

         La coreografia, l’accompagnamento della nube luminosa, la ripetizione del nome poteva far pensare a manifestazione di un potente dignitario, ma le parole rivelano tutto il contrario. «Dio (è) misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà». Una designazione insolita della divinità, fatta su misura d’uomo si potrebbe aggiungere, quella che lo aiuta a vivere, a realizzarsi nonostante le sue incapacità, i suoi limiti, i suoi difetti, le sue imperfezioni. L’uomo rischia sempre di essere schiacciato dalle sue inadempienze, dalle colpe che accumula quotidianamente, dai debiti con se stesso e con gli altri.

         La precisazione «lento all’ira» sembra far supporre che nonostante tutto Dio qualche volta potrebbe sentirsi spinto a usare il rigore (la «giustizia») verso i trasgressori della sua legge, ma sa contenersi. Il redattore finale del testo però ritiene opportuno correggere con una nota aggiuntiva questa versione che Dio sta dando di sé, ricordando appunto che «castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (v. 7), ma è una distorsione del messaggio originario e centrale del passo, quello che Mosè stesso ribadisce (vv. 8-9). Egli sa che Israele è un popolo di peccatori, meriterebbe di essere cancellato dalla storia (Es 32,19), ma ciò nonostante crede di poter fare appello alla misericordia di Dio per ottenere comprensione e perdono. Però invece di ergersi davanti al Signore con protervia o arroganza occorre riconoscere umilmente, con la testa a terra, le proprie colpe e ritrovare così la sua amicizia, sentirsi ancora sua eredità, ovvero la particolare «proprietà» tra tutti i popoli della terra (19,5).

 

Seconda lettura: 2 Corinzi 13,11-13

Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano. La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.

 

  •  La 2Cor è lo scritto di Paolo che sembra aver subito delle vicissitudini letterarie. Potrebbe essere una raccolta di differenti missive dell’apostolo alla comunità egea, che ha inglobato anche qualche riflessione del redattore o compilatore del testo finale. Tale è forse il brano 13,11-13. Ad ogni modo il v. 13 non racchiude una delle abituali formule di congedo ricorrente nelle lettere paoline (cf. Gv 6,18; Rom 15,33; Fil 4,23).

         Il passo 13,11-13 è un’esortazione a vivere in armonia e in pace, si intende con Dio e con i propri simili. Per una comunità così animata e si può aggiungere litigiosa com’era quella di Corinto il richiamo alla concordia era sempre il più opportuno. Anche il tono perentorio ne sottolinea l’urgenza.

         I cristiani di Corinto non sono ancora «perfetti» perché secondo Paolo la misura da raggiungere è quella di Cristo (cf. Ef 4,13) e Gesù ha additato come meta il comportamento del padre che riesce a trattare bene tutti, anche quelli che non lo meritano (Mt 5,48). Il modello a cui occorre guardare e avvicinarsi è troppo alto per poter pensare di averlo una volta raggiunto.

         L’uomo è sempre un essere imperfetto, ma il suo agire può migliorare costantemente, salire verso un grado sempre più elevato del precedente. Il giovane aspirante aveva «osservato tutti i comandamenti», ma Gesù gli fa comprendere che tutti si potevano osservare in un modo più completo (Mt 19,16-21).

         C’è un unico modo di vivere la propria fede, amando l’uomo nel modo che sa fare Dio e che Gesù ha segnalato e realizzato fino al prezzo della vita.

         La piccola esortazione si chiude con un grande augurio. L’apostolo invoca sulla comunità i riflessi dell’agape (amore) di Dio e della grazia (charis) di Cristo unitamente, alla comunione (koinonia) dello Spirito Santo. Un saluto che la nuova liturgia ha recuperato e riproposto solennemente all’inizio della celebrazione eucaristica.   

         Ai tessalonicesi Paolo augura «la grazia del Signore Gesù Cristo» (1Ts 5,28; 2Ts 3,18), ma, in quest’epilogo della 2Cor si fa riferimento anche all’amore di Dio che in Gesù Cristo ha avuto la sua piena attuazione e continua a espandersi sugli uomini tramite l’azione santificatrice dello Spirito. Dio non è qui chiamato «padre» e nemmeno Gesù è definito «figlio», ma si parla egualmente come di «tre» punti di riferimento a cui il credente è invitato a tenersi in contatto. Dati insufficienti per proporre tout court la dottrina trinitaria, ma possono essere e sono stati di fatto una base valida per arrivarvi.

 

Vangelo: Giovanni 3,16-18

 In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».

 

Esegesi 

    Il vangelo di Giovanni come si sa, è una composizione teologica; cerca di illustrare la persona e la missione di Gesù più che richiamare episodi concreti della sua vita.

     Gesù, che i giudei conoscevano come «il figlio di Giuseppe» (Gv 1,45), è invece la Parola di Dio incarnata nella storia (Gv 1,13), l’Agnello che toglie i peccati del mondo (1,29),  il Cristo (1,42), ma sotto questa veste non era stato accettato dai suoi familiari, dai concittadini e dai connazionali (1,5;2,12;2,24;7,5).

     Nicodemo apre una serie di interlocutori evangelici; lo segue la donna di Samaria e l’ufficiale regio (4,1-54). Egli avrebbe dovuto comprendere subito le parole di Gesù e accettarle, invece si perde in banali obiezioni e alla fine scompare come in incognito, senza aver fatto comprendere la sua risposta. I giudei non hanno accolto il loro messia e anche i migliori spiriti sono rimasti perplessi alla predicazione di Gesù come ora della Chiesa. Le proposte di Gesù erano innovatrici; toccavano l’alleanza (2,1-11), il culto (2,13-23), soprattutto il modo di vivere (conversione), lasciandosi investire interiormente dalla forza rigeneratrice dello Spirito di Dio (3,1-8). Il credente infatti non è chi pensa o parla come Cristo o come Dio, ma chi agisce nel modo in cui essi operano, cercando innanzitutto il bene dell’altro.

     Lo Spirito è la carità di Dio, la sua Volontà di aiutare e beneficare il mondo («cosmo»), in particolare l’uomo. Questa è la buona notizia che i profeti, la Bibbia rivolgono agli uditori e lettori, e Gesù e il vangelo ripetono ai propri ascoltatori. Bisogna mettere in partenza un punto fermo per spiegare ciò che accade nel tempo e ad esso far riferimento con la mente e il cuore, il pensiero e le azioni, per sentirsi tranquilli.

     Il vangelo odierno riparte da questa certezza basilare: la carità o agape di Dio verso il mondo, la creazione e le creature. La missione profetica di Gesù, quella che l’evangelista sta ricordando ai suoi lettori, a Nicodemo, ossia ai giudei, è far conoscere la maniera concreta con cui Dio ha «ultimamente» manifesto il suo amore verso il mondo e gli uomini. Tramite un «dono» senza eguali, quale è la dignità del Figlio unico loro inviato.

     La storia di Gesù è quella di un martire che accetta di morire più che rinunciare al mandato ricevuto; che accetta l’impopolarità, il rigetto, la condanna per liberare i propri simili dall’illegalità e dall’oppressione, dal fanatismo e dalla superstizione. La sua sorte appare contraddittoria: apparentemente è un vinto in realtà è un vincitore. È stato «elevato» su un patibolo, ma da qui è salito al cielo, nella gloria del Padre; ha perso la vita terrena ma ha acquisto quella «eterna» (3,14-15).

     Il testo 3,16-18 è strettamente collegato con i due versetti che precedono e con i due che seguono. Parte dalla vicenda di Gesù di Nazaret (1,42-47) termina nel Cristo della gloria, esaltato cioè alla destra di Dio. La fede del cristiano è dar credito all’esperienza di Gesù, riconoscerla come venuta e voluta da Dio e conformarvi la propria. Anche per il cristiano la vita si consegue attraverso la morte, che è il presupposto non della fine ma della risurrezione o del passaggio nel mondo di Dio. Il seguace di Cristo è colui che si è lasciato prendere dalla carità di Dio, investire cioè dalle radiazioni del suo Spirito; in altre parole si lascia guidare dalla legge dell’amore e non dai sentimenti opposti che vengono dal Maligno (cf. 1 Gv 3,13). Per queste ragioni non è più nella morte e non va soggetto ad alcuna condanna.

     Dio è solo amore e può compiere solo operazioni benefiche verso l’uomo e il mondo; tale è il figlio che è della stessa identità del padre e che nella sua esistenza è passato facendo del bene a tutti e guarendo gli uomini dalle loro infermità (cf. At 10,38). Il «giudizio» cioè la discriminazione tra chi crede e si salva chi non crede e si danna non è compiuta da Dio, né dal Cristo, ma dall’uomo stesso che accetta o rifiuta la proposta di Dio (la Parola) realizzatasi nella testimonianza di Gesù, l’unica «strada» che bisogna percorrere per arrivare al padre (Gv 14,6). «Come ho fatto io dovete fare anche voi», raccomanda Gesù ai suoi nel corso dell’ultima cena (13,15).

     L’uomo per salvarsi deve uscire dalle «tenebre» e passare nella zona della luce cioè della verità e del bene. Il giudizio di approvazione e di condanna non è il pronunciamento, la sentenza di un tribunale eretto davanti all’uomo, ma proviene dal suo intimo; dalla sintonia o dal disaccordo con il suo «io» migliore.

     Il Cristo risorto (3,14-15) vive in un mondo nuovo di cui nessuno, che è ancora sulla terra, può conoscere, ma vi si avvicina, e un giorno vi entrerà a far parte solo chi si lascia irradiare dalla carità di Dio che ha avuto la sua più alta illustrazione nella testimonianza di Gesù, il suo unigenito.

 

Meditazione 

     Le tre letture bibliche orientano l’odierna celebrazione della Trinità divina verso la contemplazione del Dio estroverso, del Dio che si comunica all’uomo, del Dio il cui amore è per il mondo, insomma del Deus pro nobis. Del resto, il dogma trinitario non è altro che «lo sforzo ostinato di andare sino in fondo all’affermazione giovannea per cui “Dio è amore” (1Gv 4,8)» (Rémi Brague).

     Dopo il peccato del vitello d’oro, Dio si manifesta una seconda volta ai figli d’Israele scendendo sul Sinai per comunicare loro il suo Nome che lo rivela quale compassionevole e misericordioso, capace di grazia e di perdono. È il Dio condiscendente, che scende per raggiungere l’uomo nel suo peccato (prima lettura). Il vangelo presenta il Dio che ama a tal punto il mondo, l’umanità, da donare il suo Figlio per la salvezza del mondo. Il figlio unico è tutta la vita di un padre, è ciò che egli più ama di tutto ciò che ama: il Dio che dona il Figlio è il Dio mosso da amore folle. Vi è un eccesso nell’amare di Dio e questo eccesso è il Figlio Gesù Cristo. La benedizione presente nella seconda lettura vuole stabilire la presenza di Dio nella comunità dei cristiani di Corinto. Questi sono pertanto esortati ad accogliere e a lasciar operare tra di loro la grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito santo.

     Sempre la presenza di Dio necessita di una mediazione umana per essere colta come presenza di benedizione e di amore. Mosè, innocente del peccato commesso dai figli d’Israele si mette liberamente nel novero dei peccatori («perdona la nostra colpa e il nostro peccato»: Es 34,9) per intercedere presso Dio a favore del popolo. Gesù narra con la prassi della sua vita e con la sua auto-donazione l’amore folle di Dio per gli uomini. Pao-lo, con il suo ministero e la sua paternità apostolica, cerca di fare della comunità di Corinto una dimora del «Dio dell’amore e della pace» (2Cor 13,11).

     L’azione del Dio trinitario è perdono (prima lettura), amore (vangelo), comunione (seconda lettura) e può essere esperita grazie alla fede (vangelo).

     «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito» (Gv 3,16). Letteralmente, questo è l’inizio del nostro testo evangelico. Che sottolinea la modalità dell’amore di Dio, modalità che rinvia a quanto detto nei versetti precedenti che parlano della necessità dell’innalzamento del Figlio dell’uomo (Gv 3,14-15) fondandola sulla continuità con il gesto di Mosè che innalzò il serpente nel deserto affinché chiunque lo guardasse, avesse vita. C’è dunque un così, una modalità, una forma dell’amore di Dio che è anzitutto fedeltà. Fedeltà di Dio al popolo con cui si è legato in alleanza, alla storia condotta con il popolo, al suo Nome in cui la misura della misericordia sovrasta di gran lunga la misura del giudizio (Es 34,6-7). Si tratta di fedeltà a colui che è infedele e di amore per colui che non vi corrisponde: la fedeltà e l’amore di Dio diventano la sua responsabilità nei confronti degli uomini peccatori. Solo così l’amore di Dio è davvero per il mondo, per l’umanità tutta, per ogni uomo. E solo così il suo amore, unilaterale e incondizionato, non condanna, ma salva.

     Così Dio amò. La forma verbale del verbo amare rinvia a un evento storico preciso: la morte in croce di Gesù (cfr. Rm 5,8). L’amore di Dio manifestato sulla croce assume la forma dello scandalo, dell’eccesso che, nella sua unilateralità e smisuratezza, sconvolge i parametri umani di reciprocità, corrispondenza e contraccambio dell’amore. Il dono sovrabbondante insito nell’evento della croce è il perdono di Dio, l’amore che Dio già pre-dispone per colui che pecca e che peccherà.

            Così Dio amò. Il Dio che ama è anche il Dio che soffre. Donare il Figlio è mettere a rischio la propria paternità pur di non rinunciare a cercare comunione con gli uomini. Il Dio trinitario è il Dio che non sta senza l’uomo. E l’uomo, situandosi per fede in Cristo e lasciandosi guidare dallo Spirito abita l’agape, l’amore, e così conosce la comunione con Dio. Con il Dio che è amore. L’agape, infatti, è il cuore della vita trinitaria.


Immagine della Domenica


NON LASCIARLO TROPPO ATTENDERE!

“Tu che hai guardato, tu che hai ascoltato, non pensare:

questo risale alla notte dei tempi!

Adamo, sei tu. La sua creazione, il mistero della tua vita.

Tra Dio e te, nessun altro gioco d’amore, nessun altro dramma!

Ciò che segue: non una storia compiuta per sempre,

un’avventura vissuta una volta per tutte, ma una lunga ricerca,

contemporanea alla tua vita, che continua, di giorno e di notte.

Non ieri, ma oggi. Penetrato dal suo pensiero su di te entra nel tempo di Dio.

Questo Dio, il tuo Dio, in pena per te, il cui Volto è così poco desiderato,

non lasciarlo troppo attendere!”

(Daniel ANGE, Dalla Trinità all’Eucaristia. L’Icona della Trinità di Rublëv, Ancora, Milano 1999)

 

Preghiere e racconti

Si racconta che un giorno S. Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità. Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia vide un bambino che faceva una cosa molto strana aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino andava al mare prendeva l acqua e la versava nel fosso. E così di seguito. E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede Che cos è che stai facendo E il ragazzo Voglio mettere tutta l acqua del mare in questo fosso S. Agostino sentendo ciò rispose Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare. Ma come puoi pensare di riuscirci Il mare è immenso e il fosso è piccolo. E poi con questo cucchiaino non basta la tua vita E il ragazzo che era un angelo mandato da Dio gli rispose E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l infinito mistero di Dio Agostino capì che Dio è un grande mistero. E capì che il Padre il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.

 

La famiglia, icona della Trinità

Il Signore benedica tutti i vostri progetti, miei cari fratelli. Il Signore vi dia la gioia di vivere anche l’esperienza parrocchiale in termini di famiglia. Prendiamo come modello la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito che si amano, in cui la luce gira dall’uno all’altro, l’amore, la vita, il sangue è sempre lo stesso rigeneratore dal Padre al Figlio allo Spirito, e si vogliono bene.

Il Padre il Figlio e lo Spirito hanno spezzato questo circuito un giorno e hanno voluto inserire pure noi, fratelli di Gesù. Tutti quanti noi.

Quindi invece che tre lampade, ci siamo tutti quanti noi in questo circuito per cui e la parrocchia e le vostre famiglie prendano a modello la Santissima Trinità.

Difatti la vostra famiglia dovrebbe essere l’icona della Trinità. La parrocchia, la chiesa dovrebbe essere l’icona della Trinità.

Signore, fammi finire di parlare, ma soprattutto configgi nella mente di tutti questi miei fratelli il bisogno di vivere questa esperienza grande, unica che adesso stiamo sperimentando in modo frammentario, diviso, doloroso, quello della comunione, perché la comunione reca dolore anche, tant’è che quando si spezza, tu ne soffri.

Quando si rompe un’amicizia, si piange. Quando si rompe una famiglia, ci sono i segni della distruzione.

La comunione adesso è dolorosa, è costosa, è faticosa anche quella più bella, anche quella fra madre e figlio; è contaminata dalla sofferenza. Un giorno, Signore, questa comunione la vivremo in pienezza. Saremo tutt’uno con te.

Ti preghiamo, Signore, su questa terra così arida, fa’ che tutti noi possiamo già spargere la semente di quella comunione irreversibile, che un giorno vivremo con te.

(Don Tonino Bello)

 

O mio Dio, Trinità che adoro

Aiutami a dimenticarmi interamente, per stabilirmi in te, immobile e tranquilla come se l’anima mia già fosse nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace ne farmi uscire da te, o mio Immutabile; ma ogni istante mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero! Pacifica l’anima mia; fanne il tuo cielo, la tua dimora prediletta e luogo del tuo riposo. Che, qui, io non ti lasci mai solo; ma tutta io vi sia,  ben desta nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice.          

O amato mio Cristo, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne! […]. Ma sento tutta la mia impotenza; e ti prego di rivestirmi di te, di immedesimare la mia anima a tutti i movimenti dell’anima tua, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che una irradiazione della tua Vita vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima a ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e starmene sotto il tuo grande splendore. O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione.

O Fuoco consumatore, Spirito d’amore, discendi in me, perché faccia dell’anima mia quasi una incarnazione del Verbo! Che io gli sia prolungamento di umanità in cui egli possa rinnovare tutto il suo mistero. E tu, o Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura, coprila della tua ombra, non vedere in essa che il Diletto nel quale hai posto le tue compiacenze.

O miei ‘Tre’, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra Luce l’abisso delle vostre grandezze.

(ELISABETTA DELLA TRINITÀ, Scritti spirituali di Elisabetta della Trinità, Brescia 1961, 73s.).

 

Dio è amore

Al nonno, professore universitario, che cercava di trasmettergli il concetto che “Dio è onnisciente, onnipotente, non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, insomma è tutto!” il nipotino di cinque anni rivolge a bruciapelo questa domanda inaspettata: “ma senti un po’ nonno, se Dio è tutto perché ha fatto il mondo?

Quando mi raccontarono il fatto rimasi sbalordito, ero appena uscito dalla lettura di due testi, il primo di un fisico, premio Nobel, Steve Weinberg che chiudeva il suo libro sull’origine dell’universo con una frase più o meno simile: quanto più l’universo ci diventa noto, tanto più non riusciamo a spiegarcene il perché, ci resta incomprensibile. Il secondo libro era di un teologo, Hans Urs von Balthasar, il quale affermava che: il mondo rimane per noi incomprensibile non soltanto se Dio non c’è, ma anche se Dio c’è e non è Amore.

La domanda “se Dio è tutto perché ha creato il mondo?” può avere una sola risposta: perché Dio è Amore.

 

Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito

La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.

Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui. Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose. Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito. Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6]. Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio. A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6). Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.

(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp. 88-90)

 

Oggi è la Domenica della Santissima Trinità

La luce del tempo pasquale e della Pentecoste rinnova ogni anno in noi la gioia e lo stupore della fede: riconosciamo che Dio non è qualcosa di vago, il nostro Dio non è un Dio “spray”, è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: «Dio è amore». Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi. Gesù cammina con noi nella strada della vita.

La Santissima Trinità non è il prodotto di ragionamenti umani; è il volto con cui Dio stesso si è rivelato, non dall’alto di una cattedra, ma camminando con l’umanità. E’ proprio Gesù che ci ha rivelato il Padre e che ci ha promesso lo Spirito Santo. Dio ha camminato con il suo popolo nella storia del popolo d’Israele e Gesù ha camminato sempre con noi e ci ha promesso lo Spirito Santo che è fuoco, che ci insegna tutto quello che noi non sappiamo, che dentro di noi ci guida, ci dà delle buone idee e delle buone ispirazioni.

Oggi lodiamo Dio non per un particolare mistero, ma per Lui stesso, «per la sua gloria immensa», come dice l’inno liturgico. Lo lodiamo e lo ringraziamo perché è Amore, e perché ci chiama ad entrare nell’abbraccio della sua comunione, che è la vita eterna.

Affidiamo la nostra lode alle mani della Vergine Maria. Lei, la più umile tra le creature, grazie a Cristo è già arrivata alla meta del pellegrinaggio terreno: è già nella gloria della Trinità. Per questo Maria nostra Madre, la Madonna, risplende per noi come segno di sicura speranza. E’ la Madre della speranza; nel nostro cammino, nella nostra strada, Lei è la Madre della speranza. E’ la Madre anche che ci consola, la Madre della consolazione e la Madre che ci accompagna nel cammino. Adesso preghiamo la Madonna tutti insieme, a nostra Madre che ci accompagna nel cammino.

(PAPA FRANCESCO, Angelus, Piazza San Pietro, Solennità della Santissima Trinità, Domenica, 26 maggio 2013).

 

Preghiera

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

 

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D.M. Turoldo).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

SANTISSIMA TRINITÀ

PENTECOSTE

Prima lettura: Atti 2,1-11

 Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano  stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei?

E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi,  Elamìti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

  • Il celebre racconto lucano della Pentecoste ha una certa “drammaticità”, con la quale s’intende conferire il giusto rilievo all’importanza del fatto. In primo luogo, occorre notare che, ormai, la festa di Pentecoste stava volgendo al termine, essendo iniziata, com’era prassi nella liturgia ebraica, nel pomeriggio del giorno precedente. L’accaduto, dunque, si è verificato al mattino, come dirà poi Pietro, per giustificare il fatto che, quelli che sembravano ubriachi, non lo erano affatto perché non avevano bevuto, essendo le nove (cf. la diceria dell’ubriachezza degli apostoli al v. 13 e la risposta di Pietro al v. 15), quando mancavano ancora poche ore per la conclusione della festa. I discepoli, raccolti in un unico luogo, furono testimoni e destinatari di un evento teofanico, i cui elementi letterari sono facilmente riconoscibili: il rumore forte, che viene dall’alto, e il fuoco, in forma di lingue: «Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro» (vv. 2-3).

         L’effetto della discesa dello Spirito fu subito avvertibile dai pellegrini presenti alla festa, come testimonia il v. 4: «e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi». Il lungo elenco di nazionalità riportato dall’autore degli Atti fa capire l’ampiezza della partecipazione a feste come Pentecoste (in ebraico Shavuot), Pasqua (Pesach) e Capanne (Sukkot). Bisogna, però, ricordare che si trattava di Giudei, provenienti dalla diaspora o che, vissuti in diaspora, erano ritornati a vivere a Gerusalemme (v. 5: «Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo»). Sono essi i primi popoli destinatari dell’annuncio della novità di Cristo risorto. A costoro i discepoli propongono un annuncio nella loro propria lingua, come il testo stesso afferma più volte, sia nel già citato v. 5, nel v. 6 («A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua »), nell’8 («E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?») e nell’11 («li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio »).

         Il particolare ora messo in rilievo non è da trascurare: l’evento della discesa dello Spirito sui discepoli significa che questi ultimi vengono spinti a proseguire la missione di Gesù, rivolgendola a tutte le nazioni, poiché la comunità dei credenti dovrà imparare ad annunciare il Vangelo nelle lingue di ogni popolo che si trova sulla faccia della terra.

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 12,3b-7.12-13

Fratelli, nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune.

Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.

 

  •  Lo Spirito, con la sua azione, invade ogni aspetto della vita del credente in Cristo e della Chiesa. Com’è possibile, infatti, professare la fede e avvicinarsi al sublime mistero della conoscenza di Cristo se manca lo Spirito? D’altronde, l’apostolo con chiarezza lo afferma: «nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (12,3b). Alla stessa stregua, com’è possibile immaginare la vita della Chiesa senza lo Spirito, il quale ne anima l’esistenza e la missione nel mondo con la molteplicità dei carismi e delle operazioni? La solennità di Pentecoste, dunque, impone una riflessione, oltre che sull’opera dello Spirito Santo nel mondo, anche sulla sua presenza discreta, efficace e sorprendente.

         Abituati come siamo a considerare quasi esclusivamente gli aspetti organizzativi, con programmazioni e piani pastorali di breve, medio e lungo periodo, probabilmente dimentichiamo che, da parte sua, lo Spirito Santo, nella propria sovrana libertà, ha già tracciato delle linee di progettualità, elargendo doni e suscitando ministeri per il bene del popolo di Dio. Tali doni e carismi, però, hanno come prima finalità quella di creare l’unità del popolo che Dio si è acquistato con il sangue di suo Figlio: «Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (12,12-13). Il progetto dello Spirito, dunque, è formare e consolidare il corpo di Cristo che è la Chiesa, alla quale apparteniamo in virtù del Battesimo. E quel Dio, presso il quale non ci sono preferenze, desidera che in quest’unico corpo vi sia radunata l’intera umanità, senza distinzioni di razza e nazionalità, lingua o cultura. In quell’unico corpo, inoltre, è consentito ai credenti di abbeverarsi allo Spirito attraverso la vita sacramentale, la quale ne irrobustisce e rinvigorisce le forze, cosicché essi possano affrontare le quotidiane insidie del maligno e far vincere la concordia, la misericordia e l’unità.

 

Vangelo:Giovanni 20,19-23

 La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.  Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

 

Esegesi 

     Nel capitolo 20, come sappiamo, il Vangelo di Giovanni racconta gli avvenimenti del giorno della Pasqua. Chi vide il Signore risorto per prima e parlò con lui fu Maria Maddalena presso il sepolcro (vv. 14-17), la quale, poi, andò a riferire agli altri discepoli quanto le era accaduto (v. 18). Soltanto a sera Gesù apparve ai discepoli riuniti, come concordemente afferma, oltre a Giovanni, anche Luca (cf. 24,36-43). Infatti, i due racconti presentano diversi punti in comune: a sera Gesù appare in mezzo ai discepoli; egli saluta dicendo: «Pace a voi!»; Gesù mostra le ferite sul suo corpo per facilitare il riconoscimento da parte dei discepoli. Giovanni, inoltre, in poche battute riferisce il mandato missionario e l’effusione dello Spirito, mentre Luca parla più ampiamente della missione (cf. 24,44-48) e fa soltanto annunciare a Gesù il prossimo invio dello Spirito (cf. 24,49).

     Dopo questo raffronto, che conferma una certa e ben nota vicinanza tra gli evangelisti Giovanni e Luca, ritorniamo all’esame del brano. Dobbiamo subito notare la situazione di “miseria” in cui versavano i discepoli. Costoro erano in un luogo (non specificato dal racconto evangelico), con le porte sbarrate per paura dei Giudei: ciò fa pensare che essi, oltre a motivi di prudenza (temevano di essere arrestati o di essere accusati di aver rubato il corpo di Gesù?), non si attendevano altro da quella giornata, in cui non era ancora certo se dovessero nutrire speranze o, al contrario, aspettare il momento opportuno per fuggire da Gerusalemme. Ci possiamo chiedere che effetto abbiano avuto le visite al sepolcro vuoto da parte di Pietro e del discepolo prediletto e la testimonianza di Maria Maddalena, tuttavia la sorpresa di vedersi apparire Gesù dovette essere grande.

     L’apparizione di Gesù è indicata dal verbo «venne», molto probabilmente per sottolineare che, nonostante le porte ben chiuse, egli era nella possibilità di entrare in quel luogo. Il saluto «Pace a voi!», inoltre, va considerato non quale semplice augurio, o addirittura come normale saluto, poiché esprime una realtà di fatto: davvero la pace è con loro, dal momento che, con la presenza di Gesù, ormai risorto, ciò che costituiva una semplice promessa diventa ora una concreta realtà. Il «Pace a voi!» viene ripetuto al v. 21, forse perché Gesù vuole ulteriormente rassicurare i discepoli, dopo aver mostrato loro le mani e il costato.

     Subito dopo, segue il comando missionario: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». In Giovanni si segnala molto esplicitamente che il motivo fondante della missione nasce dall’iniziativa del Padre, il quale ha mandato sulla terra il Figlio, che a sua volta invia i discepoli, proseguendo questa catena. A tal proposito, si deve confrontare questa frase con il testo di Gv 17,18: «Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io mando loro nel mondo».

     Infine, l’ultimo momento del racconto è rappresentato dalla cosiddetta insufflazione. In Gv 20,22-23 troviamo scritto che Gesù, «Detto questo, soffiò (in greco enefásesen) e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». L’unico motivo per cui ci siamo permessi di segnalare l’espressione «soffiò» in greco è dovuto al fatto che anche nella versione greca dell’Antico Testamento (che gli scrittori del NT generalmente usano), in Gn 2,7, leggiamo lo stesso verbo: «allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò (enefásesen) nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente». L’evangelista intenzionalmente adopera il medesimo verbo, perché stabilisce una relazione tra lo spirito, che diede la vita all’uomo creato da Dio traendolo  dalla polvere, e lo Spirito Santo, che conferisce ai discepoli la potestà di “restituire la vita” con l’eccezionale dono della remissione dei peccati a vantaggio della comunità dei credenti.

     Il passaggio dalla morte alla vita rappresenta una vera specialità dello Spirito. Un altro testo di riferimento si trova in Ez 37,9, nella versione greca, dove, usando lo stesso verbo dei brani precedenti (benché in una forma grammaticale diversa), pure è scritto che lo Spirito soffia, affinché venga restituita la vita ai morti: «Egli aggiunse: “Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia (emfáseson) su questi morti, perché rivivano”». E che lo Spirito dia la vita e la risurrezione ben lo esprime Paolo, che rapporta la risurrezione di Cristo alla nostra: «E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11).

 

Meditazione 

      Il dono dello Spirito celebrato a Pentecoste è intravisto dai testi biblici odierni come linguaggio della comunità cristiana che riesce a comunicare ad extra le opere di Dio (I lettura), come principio ordinatore che regola i doni e i ministeri all’interno della comunità secondo il principio dell’«utilità comune» (1Cor 12,7; II lettura), come forza escatologica che stabilisce la pace nella comunità e consente ai discepoli di rimettere i peccati (vangelo).

    Lo Spirito crea relazione e innesta in Cristo le relazioni intraecclesiali, interecclesiali e missionarie. Esso guida ciascuno e tutti nella comunità ad assumere i modi e i pensieri di Cristo in vista dell’edificazione dell’unico corpo: la chiesa.

    Il vangelo stabilisce un nesso tra Spirito santo e remissione dei peccati. Il Risorto mostra ai discepoli le ferite delle mani e del costato e dona la pace e lo Spirito santo. Perdonare è donare attraverso le ferite ricevute, è fare del male subito l’occasione di un gesto di amore, è creare pace con una sovrabbondanza di amore che vince l’odio e la violenza sofferti. Il Risorto ha vinto in se stesso, nella sua persona, con l’amore, il male patito e, manifestando ai discepoli la continuità del suo amore nei loro confronti, comunica loro anche la via per partecipare alla sua vita di Risorto: vincere il male con il bene, rispondere alla cattiveria con la dolcezza, far prevalere la grazia sulla vendetta e sulla rivalsa. Prima di essere capacità di perdono nei confronti di altri, lo Spirito insegna al credente a riconoscere il male che abita in lui e a vincerlo con il bene e l’amore. Del resto, come potrebbe stabilire la pace fuori di sé chi non ha stabilito la pace in se stesso? Come potrebbe amare il nemico esterno chi non ha cominciato a far prevalere l’amore sui nemici interiori e sull’odio di sé?

    Frutto dello Spirito, il perdono è evento escatologico prima che etico. Tuttavia, il dinamismo umano del perdono è lungo e faticoso. Per perdonare occorre rinunciare alla volontà di vendicarsi; riconoscere che si soffre per il male subito e che tale male ci ha privati realmente di qualcosa; condividere con qualcuno il racconto del male subito; dare il nome a ciò che si è perso per poterne fare il lutto; dare alla collera il diritto di esprimersi; perdonare a se stessi (soprattutto il male subito da persone amate o vicine suscita pesanti sensi di colpa che rischiano di imprigionare per tutta la vita); comprendere l’offensore, cioè guardarlo come un fratello che il male ha allontanato da me; trovare un senso al male ricevuto; sapersi perdonati da Dio in Cristo. Questo cammino il credente lo vive aprendosi alle energie dello Spirito che fanno regnare Cristo in lui e nei suoi rapporti.

     Lo Spirito è dono e promessa: le due cose a un tempo. Come dono esso è verificabile nella vita del credente e della chiesa nei frutti di carità, pace, benevolenza, pazienza, mitezza; come promessa esso apre il futuro, suscita la speranza, da una direzione di cammino. Nel nostro testo, lo Spirito è dono e impegno: dono del Risorto che impegna nella missione i discepoli. Missione che, avendo al suo cuore la remissione dei peccati, è essenzialmente far sperare, dare una forma vivibile al tempo degli uomini, dischiudere orizzonti di senso narrando il perdono di Dio.

          Lo Spirito, in quanto dono di Dio, dona al credente e alla chiesa la forma Christi. Come il Risorto dona lo Spirito attraverso il suo corpo, corpo ferito e risorto, così lo Spirito, accolto dai discepoli, vivifica il loro corpo psicofisico (paralizzato dalla paura) e il corpo ecclesiale che essi formano (immobilizzato nella chiusura). Il Figlio, inviato dal Padre, ha donato agli uomini il volto e l’umanità di Dio, e ora dona loro il respiro, il soffio di Dio grazie a cui essi potranno donare al mondo, con i loro corpi, le loro vite e le relazioni che vivranno, la narrazione del volto di Cristo. Narrazione che nel donare il perdono trova il suo momento più alto. Non a giudicare o a condannare è chiamata la chiesa ma a narrare la grande opera del Dio che ha risuscitato Gesù dai morti: la remissione dei peccati, il perdono.

 


Spirito di Dio,

che agli inizi della creazione

ti libravi sugli abissi dell’universo

e trasformavi in sorriso di bellezza

il grande sbadiglio delle cose,

scendi ancora sulla terra

e donale il brivido dei cominciamenti.

Questo mondo che invecchia,

sfioralo con l’ala della tua gloria.

(Don Tonino Bello).

 

Preghiere e racconti 

Come si può parlare dello Spirito Santo?

Se non era facile parlare ai contemporanei di Dio, ancora più difficile è stato parlare loro del Figlio di Dio. Ma come si deve parlare dello Spirito santo di Dio, che non si può concepire né rappresentare e, certamente, neppure dipingere?

Nella storia dell’arte occidentale c’è un pittore, al quale più che ad altri si attribuisce un anelito di spiritualizzazione. Molti dei suoi dipinti sono pervasi di un’inquietudine estatica. Lo spazio da lui dipinto è spesso più accennato simbolicamente che reale; domina la verticale, il movimento ascensionale; le sue figure sembrano stirate artificialmente, allungate in maniera innaturale; il gioco delle ombre e delle luci è altamente drammatico; i contorni sfumano. La bellezza è qui in larga misura smaterializzata – anche a prescindere dagli occhi espressivi di molte figure.

Questo pittore proviene dall’arte greco-bizantina, tuttavia a Venezia e a Roma, presso i grandi maestri Tiziano, Bassano e Tintoretto, si era appropriato delle acquisizioni del rinascimento e del manierismo. E tutto questo coniugava con la religiosità popolare mistica della Spagna, lui che non era spagnolo e che tuttavia era più spagnolo degli spagnoli: Domenikos Theotokópoulos di Creta detto El Greco (1541-1614), non soltanto pittore, ma anche scultore, architetto e teorico dell’arte.

Nel suo ultimo periodo creativo questo artista molto raffinato, prossimo ai settant’anni e sempre più assistito dal figlio nei suoi lavori, aveva provato a rappresentare un oggetto che, rispetto al Natale, al Venerdì santo o alla Pasqua, è infinitamente meno presente nella pittura occidentale: la Pentecoste, la festa dell’effusione dello Spirito santo. In questo dipinto che tende verso l’alto – ora al Prado di Madrid -, in uno scenario surreale su sfondo grigioverde, si vede un gruppo di persone, dominato dallo Spirito e composto da due donne e da una dozzina di uomini. Essi sono in preda a un’appassionata eccitazione, evidente dai volti e dai gesti: alcuni protendono le mani verso l’alto, altri allungano il collo e altri ancora guardano in estatico rapimento. In alto ci sono dieci figure, quasi come in un dipinto greco-bizantino, tutte alla stessa altezza, dietro le quali, in posizione obliqua, altre figure Si piegano in atteggiamento di sorpresa. Le loro vesti, dai colori molto intensi – verde, azzurro, giallo, rosso e colori terrei -, ricevono luce dall’alto. Sopra ciascuna delle figure fluttua una piccola abbagliante lingua di fuoco, che rende le figure rappresentate ancor più profilate, mosse ed estatiche. Un dipinto altamente drammatico di un’audacia quasi espressionistica, e tuttavia concentrato, smaterializzato, spiritualizzato.

E lo Spirito stesso, lo Spirito santo? Eccolo lassù in alto, in uno splendore divino, che illumina l’oscurità dello spazio. Rappresentato mediante quel simbolo che a partire dal battesimo di Gesù viene usato molto presto anche per le raffigurazioni della Pentecoste: il simbolo della colomba. Fin nell’alto medioevo esso rimane quello prevalente e viene ripreso a partire dal secolo XVI/XVII, appunto nel tempo di El Greco.

«Ma nella teologia non si parla continuamente – con riferimento ad alcune affermazioni del vangelo di Giovanni – dello Spirito santo come di una persona (il “Consolatore”)? E non compare perciò, per lo meno nell’arte medievale, in figura spesso direttamente umana?»

In effetti, nell’arte medievale lo Spirito viene spesso rappresentato, insieme a Dio e al suo Figlio, come la terza di tre figure umane uguali – tre angeli o dèi. O proprio all’opposto: a partire dal secolo XIII fino al rinascimento italiano la trinità di Padre, Figlio e Spirito veniva spesso dipinta perfino come un’unica figura con tre teste o tre volti (Tri-kephalos) – una divinità sotto tre modalità, dunque. Ma entrambi – triteismo o modalismo – non sono oggi ugualmente inaccettabili per l’uomo contemporaneo?

Ma si ascolti e ci si stupisca: le due rappresentazioni sono state vietate dai papi: già Urbano VIII vietava nel 1628 queste immagini troppo umane della Trinità, e a partire dall’illuminato Benedetto XIV (1745) lo Spirito santo può essere rappresentato soltanto nella figura della colomba, decisione ribadita ancora nel nostro secolo, nel 1928, dal Sanctum Officium, dall’autorità dell’Inquisizione romana, ora denominata Congregazione della fede. Ciò induce ad affrontare l’interrogativo fondamentale.

 

Che cosa significa Spinto santo?

Come si sono immaginati gli uomini dell’antico tempo biblico lo «Spirito» e l’agire invisibile di Dio? Percepibile e tuttavia non percepibile, invisibile e tuttavia potente, di vitale importanza come l’aria che si respira, carico di energia come il vento, la tempesta, questo è lo Spirito. Tutte le lingue conoscono una parola per indicare ciò, e la diversità del genere in cui lo collocano dimostra che lo spirito non è così facilmente determinabile: spiritus in latino è maschile (come anche «lo» spirito in italiano), ruah invece in ebraico è femminile, mentre il greco conosce il neutro pneuma.

Lo spirito, quindi, è in ogni caso una realtà totalmente diversa da una persona umana. La «ruah»: secondo l’inizio del racconto della creazione è quello «scroscio» o «tempesta» di Dio che aleggia sopra le acque. E il «pneuma»: sta, anche secondo il Nuovo Testamento, in opposizione alla carne», alla realtà creata, transeunte, ed è la potenza e la forza viva che promana da Dio. Lo Spirito è quindi quella forza e potenza di Dio che opera creando o anche distruggendo, come vita o come giudizio, che opera sia nella creazione sia nella storia, in Israele come anche, in seguito, nelle comunità cristiane. Secondo la Bibbia, questa potenza può raggiungere l’uomo con forza o con levità, può indurre in estasi singole persone o anche interi gruppi, come appunto quello raffigurato nel quadro di El Greco. Lo Spirito opera nei grandi uomini e nelle grandi donne, in Mosè e nei «giudici» d’Israele, nei guerrieri, nei cantori e nei re, nei profeti e nelle profetesse, ma anche – come nel nostro quadro – negli apostoli e nelle discepole. Il centro nel quadro è chiaramente rappresentato da Maria madre di Gesù in veste rossa, verso la quale si piega la giovane Maria di Magdala.

Ma in che senso questo Spirito è lo Spirito santo? Lo Spirito è «santo» in quanto viene distinto dallo spirito non santo dell’uomo e del suo mondo e deve essere visto come lo Spirito dell’unico Dio santo. Lo Spirito santo è lo Spirito di Dio. Neppure nel Nuovo Testamento lo Spirito santo è – come spesso nella storia delle religioni – un qualche fluido magico, sostanziato, misteriosamente soprannaturale, di natura dinamica («qualcosa» di spirituale) o un essere magico di tipo animistico (un fantasma o uno spettro). Anche nel Nuovo Testamento lo Spirito santo non è che Dio stesso.  Dio stesso, in quanto egli è vicino agli uomini e al mondo, anzi egli diventa loro intimo in quanto potenza che afferra, ma non è afferrabile, in quanto forza che vivifica, ma anche giudica, in quanto grazia che dona, ma non è a disposizione dell’uomo.

C’è però una domanda: proprio il simbolo della colomba (in origine uccello messaggero delle dee dell’amore nell’antico Oriente), che ha a sua volta soppiantato la rappresentazione antropomorfica dello Spirito santo, non evoca associazioni antropomorfiche?  Risposta: in ogni caso questo simbolo dell’elemento materno-femminile, del dono della vita, dell’amore e della pace – entrato nel racconto del battesimo di Gesù forse passando attraverso l’antica tradizione ebraica della sapienza (Filone) -, sottolinea la dimensione femminile in Dio, che è tanto importante quanto quella maschile, perché in Dio stesso, ribadiamolo ancora una volta, la differenziazione sessuale è inclusa e insieme viene superata. Va però ammesso che la maggior parte dei fraintendimenti sullo Spirito santo provengono dal fatto che lo si è staccato da Dio e reso autonomo alla stregua di una figura mitologica. Comunque proprio il concilio di Costantinopoli del 381, al quale dobbiamo l’estensione allo Spirito santo della professione di fede, originariamente cristologica, del concilio di Nicea del 325, afferma esplicitamente: lo Spirito è della medesima natura del Padre e del Figlio.

In nessun caso, dunque, si può concepire lo Spirito santo come un terzo, come una realtà tra Dio e l’uomo. No, con la parola Spirito è intesa la vicinanza personale di Dio stesso agli uomini, altrettanto poco separabile da Dio quanto il raggio dal sole. Se dunque ci si chiede come il Dio invisibile e inafferrabile sia vicino, presente ai credenti, alla comunità di fede, la risposta del Nuovo Testamento suona concorde: Dio è vicino a noi uomini nello Spirito; è presente nello Spirito, mediante lo Spirito, anzi, come Spirito. E se ci si chiede come Gesù Cristo, elevato e accolto presso Dio, sia vicino ai credenti e alla comunità di fede, la risposta, secondo Paolo, suona: Gesù è diventato uno «Spirito vivificatore» (1 Cr 15, 45). Anzi, «il Signore (Il Kyrios, quindi Gesù, il glorificato) è lo Spirito» (2Cor 3,17). Ciò significa che lo Spirito di Dio ora è anche lo Spirito del Glorificato presso Dio, così che ora il Signore elevato presso Dio è nel modo di esistere e agire dello Spirito. Ora perciò egli può essere mediante lo Spirito, nello Spirito, in quanto Spirito. L’incontro di Dio, del Kyrios e dello Spirito con i credenti è in realtà un unico e medesimo incontro. Ma si noti bene: Dio e il suo Cristo non sono presenti soltanto attraverso il ricordo soggettivo dell’uomo o attraverso la fede. Essi sono presenti piuttosto in virtù della realtà spirituale, dell’attività di Dio e di Gesù Cristo stesso, che vengono incontro all’uomo.

 

Credere nello Spirito Santo

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Dio, significa per me ammettere fiduciosamente che Dio stesso può farsi presente nel mio intimo, che egli come potenza e forza di grazia può diventare il signore del mio intimo ambivalente, del mio cuore spesso così insondabile. E, ciò che qui è per me particolarmente importante: lo Spirito di Dio non è uno spirito di schiavitù. Egli è comunque lo Spirito di Gesù Cristo, che è lo Spirito di libertà. Questo Spirito di libertà promanava già dalle parole e dalle azioni del Nazareno. Il suo Spirito è ora definitivamente lo Spirito di Dio, da quando il Crocifisso è stato glorificato da Dio e vive e regna nel modo di essere di Dio, nello Spirito di Dio. Perciò a piena ragione Paolo può dire: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Cor 3,17). E con ciò non s’intende soltanto una libertà dalla colpa, dalla legge e dalla morte, ma anche una libertà per l’agire, per una vita nella gratitudine, nella speranza e nella gioia (…).

Questo Spirito di libertà, in quanto Spirito del futuro, mi spinge in avanti: non nell’aldilà della consolazione, ma nel presente della prova.

E poiché so che lo Spirito santo è lo Spirito di Gesù Cristo, io ho anche un criterio concreto per saggiare e discernere gli spiriti. Dello Spirito di Dio non si può più abusare come di una forza divina oscura, senza nome e facilmente equivocabile. No, lo Spirito di Dio è con tutta chiarezza lo Spirito di Gesù Cristo. E ciò significa in modo del tutto concreto che né una gerarchia né una teologia e neppure un fanatismo che vogliano richiamarsi allo «Spirito santo» oltre Gesù, possono requisire lo Spirito di Gesù Cristo. Qui hanno i loro limiti ogni ministero, ogni obbedienza, ogni partecipazione alla vita della teologia, della chiesa e della società.

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Gesù Cristo significa per me, anche di fronte ai molti movimenti carismatici e pneumatici: che lo Spirito non è mai una mia propria possibilità, ma è sempre forza, potenza, dono di Dio, da ricevere con fiducia incondizionata. Egli quindi non è un non santo spirito del tempo, della chiesa, del ministero o dell’entusiasmo; egli è sempre il santo Spirito di Dio, che soffia dove e quando vuole, e non si lascia catturare da nessuno: come giustificazione di un potere assoluto di insegnamento e di governo, di infondate leggi dogmatiche della fede o anche di un fanatismo religioso e di una falsa sicurezza della fede. No, nessuno – né vescovo né professore, né parroco né laico – «possiede» lo Spirito, ma ognuno può invocare di continuo: «Vieni, santo Spirito».

Ma, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io posso, con buone ragioni, credere non certo nella chiesa, ma nello Spirito di Dio e di Gesù Cristo anche in questa chiesa, che è composta da uomini fallibili come lo sono anch’io. E, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io sono preservato dalla tentazione di staccarmi, rassegnato o cinico, dalla chiesa. Poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito io, nonostante tutto, posso dire in buona coscienza: credo la santa chiesa. Credo sanctam ecclesiam.

(H. KUNG, Credo). 

 

La Chiesa ha bisogno…

La Chiesa ha bisogno della sua perenne pentecoste. Ha bisogno di fuoco nel cuore, di parole sulle labbra, di profezia nello sguardo. La Chiesa ha bisogno d’essere tempio dello Spirito Santo, di totale purezza, di vita interiore. La Chiesa ha bisogno di risentire salire dal profondo della sua intimità personale, quasi un pianto, una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante cioè dello Spirito Santo, che a noi si sostituisce e prega in noi e  per noi «con gemiti ineffabili», e che interpreta il discorso che noi da soli non sapremmo rivolgere a Dio. La Chiesa ha bisogno di riacquistare la sete, il gusto, la certezza della sua verità e di ascoltare con inviolabile silenzio e con docile disponibilità la voce, il colloquio parlante nell’assorbimento contemplativo dello Spirito, il quale insegna «ogni verità».

E poi ha bisogno la Chiesa di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà, l’onda dell’amore che si chiama carità e che è diffusa nei nostri cuori proprio «dallo Spirito Santo che ci è stato dato». Tutta penetrata di fede, la Chiesa ha bisogno di sperimentare l’urgenza, l’ardore, lo zelo di questa carità; ha bisogno di testimonianza, di apostolato. Avete ascoltato, voi uomini vivi, voi giovani, voi anime consacrate, voi fratelli nel sacerdozio? Di questo ha bisogno la Chiesa. Ha bisogno dello Spirito Santo in noi, in ciascuno di noi, e in noi tutti insieme, in noi Chiesa. Sì, è dello Spirito Santo che, soprattutto oggi, ha bisogno la Chiesa. Dite dunque e sempre tutti a lui: «Vieni!»

(PAOLO VI, Discorso del 29 novembre 1972).

 

Omelia di Papa Francesco pronunciata per la Santa Messa di sabato 24 maggio 2014 presso l’International Stadium di Amman: 

  

Nel Vangelo abbiamo ascoltato la promessa di Gesù ai discepoli: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,16). Il primo Paraclito è Gesù stesso; l’«altro» è lo Spirito Santo. Qui ci troviamo non lontano dal luogo in cui lo Spirito Santo discese con potenza su Gesù di Nazareth, dopo che Giovanni lo ebbe battezzato nel fiume Giordano (cfr Mt 3,16), e oggi mi recherò li. Dunque il Vangelo di questa domenica, e anche questo luogo nel quale grazie a Dio mi trovo pellegrino, ci invitano a meditare sullo Spirito Santo, su ciò che Egli compie in Cristo e in noi, e che possiamo riassumere in questo modo: lo Spirito compie tre azioni: prepara, unge e invia.

 

Nel momento del battesimo, lo Spirito si posa su Gesù per prepararlo alla sua missione di salvezza; missione caratterizzata dallo stile del Servo umile e mite, pronto alla condivisione e alla donazione totale di sé. Ma lo Spirito Santo, presente fin dall’inizio della storia della salvezza, aveva già operato in Gesù nel momento del suo concepimento nel grembo verginale di Maria di Nazareth, realizzando l’evento mirabile dell’Incarnazione: “lo Spirito Santo ti colmerà, ti adombrerà – dice l’Angelo a Maria – e tu partorirai un Figlio al quale porrai nome Gesù” (cfr Lc 1,35).

 

In seguito, lo Spirito Santo aveva agito in Simeone e Anna nel giorno della presentazione di Gesù al Tempio (cfr Lc 2,22). Entrambi in attesa del Messia; entrambi ispirati dallo Spirito Santo, Simeone ed Anna alla vista del Bambino intuiscono che è proprio l’Atteso da tutto il popolo. Nell’atteggiamento profetico dei due vegliardi si esprime la gioia dell’incontro con il Redentore e si attua in certo senso una preparazione dell’incontro tra il Messia e il popolo.

 

I diversi interventi dello Spirito Santo fanno parte di un’azione armonica, di un unico progetto divino d’amore. La missione dello Spirito Santo, infatti, è di generare armonia – Egli stesso è armonia – e di operare la pace nei differenti contesti e tra i soggetti diversi. La diversità di persone e di pensiero non deve provocare rifiuto e ostacoli, perché la varietà è sempre arricchimento. Pertanto, oggi, invochiamo con cuore ardente lo Spirito Santo, chiedendogli di preparare la strada della pace e dell’unità.

 

In secondo luogo, lo Spirito Santo unge. Ha unto interiormente Gesù, e unge i discepoli, perché abbiano gli stessi sentimenti di Gesù e possano così assumere nella loro vita atteggiamenti che favoriscono la pace e la comunione. Con l’unzione dello Spirito, la nostra umanità viene segnata dalla santità di Gesù Cristo e ci rende capaci di amare i fratelli con lo stesso amore con cui Dio ci ama. Pertanto, è necessario porre gesti di umiltà, di fratellanza, di perdono, di riconciliazione. Questi gesti sono premessa e condizione per una pace vera, solida e duratura.

 

Chiediamo al Padre di ungerci affinché diventiamo pienamente suoi figli, sempre più conformi a Cristo, per sentirci tutti fratelli e così allontanare da noi rancori e divisioni e poter amarci fraternamente. È quanto ci ha chiesto Gesù nel Vangelo: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito, perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,15-16).

 

E infine lo Spirito Santo invia. Gesù è l’Inviato, pieno dello Spirito del Padre. Unti dallo stesso Spirito, anche noi siamo inviati come messaggeri e testimoni di pace. Quanto bisogno ha il mondo di noi come messaggeri di pace, come testimoni di pace! E’ una necessità che ha il mondo. Anche il mondo ci chiede di fare questo: portare la pace, testimoniare la pace!

 

La pace non si può comperare, non si vende. La pace è un dono da ricercare pazientemente e costruire “artigianalmente” mediante piccoli e grandi gesti che coinvolgono la nostra vita quotidiana. Il cammino della pace si consolida se riconosciamo che tutti abbiamo lo stesso sangue e facciamo parte del genere umano; se non dimentichiamo di avere un unico Padre nel cielo e di essere tutti suoi figli, fatti a sua immagine e somiglianza.

 

In questo spirito abbraccio tutti voi: il Patriarca, i fratelli Vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate, i fedeli laici, i tanti bambini che oggi ricevono la Prima Comunione e i loro familiari. Il mio cuore si rivolge anche ai numerosi rifugiati cristiani; anche tutti noi, con il nostro cuore, rivolgiamoci a loro, ai numerosi rifugiati cristiani provenienti dalla Palestina, dalla Siria e dall’Iraq: portate alle vostre famiglie e comunità il mio saluto e la mia vicinanza.

 

Cari amici, cari fratelli, lo Spirito Santo è disceso su Gesù presso il Giordano e ha dato avvio alla sua opera di redenzione per liberare il mondo dal peccato e dalla morte. A Lui chiediamo di preparare i nostri cuori all’incontro con i fratelli al di là delle differenze di idee, lingua, cultura, religione; di ungere tutto il nostro essere con l’olio della sua misericordia che guarisce le ferite degli errori, delle incomprensioni, delle controversie; la grazia di inviarci con umiltà e mitezza nei sentieri impegnativi ma fecondi della ricerca della pace. Amen!

 

Si compie ciò che era prefigurato in quei giorni

Fratelli, è iniziato un giorno di grazia, in cui la santa chiesa risplende agli occhi dei fedeli e riscalda i loro cuori. Celebriamo questo giorno in cui il Signore Gesù Cristo, dopo la sua risurrezione, glorificato dalla sua ascensione, inviò lo Spirito santo. Sta scritto nell’evangelo: «Se uno ha sete, venga a me e beva; chi crede in me, dal suo seno fluirà acqua viva» e l’evangelista prosegue: «Diceva questo dello Spirito santo che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in lui. Infatti non era stato ancora dato loro lo Spirito perché Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7,37-39). Gesù, risorto dai morti e asceso al cielo, doveva ancora inviare lo Spirito santo che aveva promesso. Così avvenne. Il Signore, dopo essere risorto dai morti, passò quaranta giorni con i suoi discepoli, poi ascese al cielo e il cinquantesimo giorno, che oggi celebriamo, inviò lo Spirito santo come sta scritto: «Venne all’improvviso un rombo dal cielo, come di vento che si abbatte gagliardo e apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,1-4). Quel vento purificava i cuori dalla paglia carnale, quel fuoco consumava il fieno degli antichi desideri cattivi, quelle lingue con cui parlavano quelli che erano colmi di Spirito santo prefiguravano la chiesa che sarebbe stata presente nelle lingue di tutte le genti. Come infatti dopo il diluvio gli uomini superbi e malvagi edificarono contro il Signore una torre altissima per cui il genere umano meritò di essere diviso in lingue diverse così che ogni popolo parlava la propria lingua senza essere compreso dagli altri (cfr. Gen 11,1-9), così l’umile fervore dei fedeli riportò all’unità della chiesa la diversità di quelle lingue perché ciò che la discordia aveva diviso fosse radunato dalla carità e le membra disperse del genere umano, quali membra di un solo corpo, venissero riunite, ben compaginate, a Cristo, loro unico capo, e si fondessero nell’unità del santo corpo mediante il fuoco dell’amore. […] Voi, fratelli miei, membra del corpo di Cristo, germogli di unità, figli della pace, trascorrete questa festa nella gioia, celebratela senza timore. In voi si compie infatti ciò che era prefigurato in quei giorni, quando venne lo Spirito santo poiché come allora chi riceveva lo Spirito santo, pure essendo una sola persona, parlava in tutte le lingue, così anche ora la chiesa, una tra tutti i popoli, parla tutte le lingue e voi, costituiti in tale unità, possedete lo Spirito santo.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 271,1 Opere di sant’Agostino XXXII/2, pp. 1038-1040).

 

Cinquanta giorni dopo la Pasqua, celebriamo la solennità della Pentecoste, in cui ricordiamo la manifestazione della potenza dello Spirito Santo, il quale  come vento e come fuoco  scese sugli Apostoli radunati nel Cenacolo e li rese capaci di predicare con coraggio il Vangelo a tutte le genti (cfr At 2,1-13). Il mistero della Pentecoste, che giustamente noi identifichiamo con quell’evento, vero “battesimo” della Chiesa, non si esaurisce però in esso.

La Chiesa infatti vive costantemente della effusione dello Spirito Santo, senza il quale essa esaurirebbe le proprie forze, come una barca a vela a cui venisse a mancare il vento. La Pentecoste si rinnova in modo particolare in alcuni momenti forti, a livello sia locale sia universale, sia in piccole assemblee che in grandi convocazioni. I Concili, ad esempio, hanno avuto sessioni gratificate da speciali effusioni dello Spirito Santo, e tra questi vi è certamente il Concilio Ecumenico Vaticano II.

Possiamo ricordare anche il celebre incontro dei movimenti ecclesiali con il Venerabile Giovanni Paolo II, qui in Piazza San Pietro, proprio nella Pentecoste del 1998. Ma la Chiesa conosce innumerevoli “pentecoste” che vivificano le comunità locali: pensiamo alle Liturgie, in particolare a quelle vissute in momenti speciali per la vita della comunità, nelle quali la forza di Dio si è percepita in modo evidente infondendo negli animi gioia ed entusiasmo. Pensiamo a tanti convegni di preghiera, in cui i giovani sentono chiaramente la chiamata di Dio a radicare la loro vita nel suo amore, anche consacrandosi interamente a Lui.

Non c’è dunque Chiesa senza Pentecoste. E vorrei aggiungere: non c’è Pentecoste senza la Vergine Maria. Così è stato all’inizio, nel Cenacolo, dove i discepoli “erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la Madre di Gesù, e ai fratelli di lui”  come ci riferisce il libro degli Atti degli Apostoli (1,14).

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita del Regina caeli, 23.05.2010).

Vieni, o Spirito del cielo

Vieni, o Spirito del cielo,

manda un raggio di tua luce,

manda il fuoco creatore.

 

Misterioso cuor del mondo,

o bellezza salvatrice,

vieni dono della vita.

 

Tu sei il vento sugli abissi,

tu il respiro al primo Adamo,

ornamento a tutto il cielo.

 

Vieni, luce della luce,

delle cose tu rivela

la segreta loro essenza.

 

Concezione germinale

della terra e di ogni uomo,

gloria intatta della Vergine…

 

O tu Dio in Dio amore,

tu la luce del mistero,

tu la vita di ogni vita.

 

(David Maria Turoldo)  

 

 

 

 

 

Pentecoste, particolare dei mosaici, Duomo di Monreale.

© Su gentile concessione della Fabbriceria del Duomo di Monreale.


«O luce beatissima, invadi nell’intimo il cuore dei tuoi fedeli».
È con questa invocazione sulle labbra e nel cuore che la Chiesa celebra il mistero della Pentecoste cinquanta giorni dopo la Pasqua. Una volta compiuta l’opera che il Padre aveva affidato a Cristo, prima che il giorno di Pentecoste giungesse alla fine, fu inviato alla Chiesa lo Spirito Santo, dono del Risorto, per santificarla e perché i credenti avessero accesso alla vita divina. È lo Spirito del Padre e del Figlio che dà la vita, quale sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna (cf. Gv 4,14), Dono per eccellenza che il Padre fa agli uomini per richiamarli dalla morte alla vita (cf. Gv 7,38) e così custodirli fino al giorno della risurrezione finale in comunione con Cristo. Essi sono perciò resi partecipi, anche con i loro corpi mortali (cf. Rm 8,10), della medesima gloria del corpo risorto di Cristo.
Con l’effusione dello Spirito preannunciata dai profeti e realizzata dal Risorto, viene dunque inaugurato il tempo della Chiesa in cui il Paraclito conduce alla “verità tutta intera”, interiorizza il mistero di Cisto, lo rende presente per i credenti di ogni luogo e di ogni tempo, guida e sostiene la Chiesa nella sua missione di annuncio e di testimonianza del vangelo. Se è vero che «lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato», tuttavia «fu nel giorno della Pentecoste che egli discese sui discepoli, per rimanere con loro in eterno, e la Chiesa apparve pubblicamente di fronte alla moltitudine, ed ebbe inizio mediante la predicazione e la diffusione del Vangelo in mezzo ai pagani» (Ad Gentes 4).

Tra i suggestivi mosaici che ricoprono quasi per intero la superfice della Cattedrale di Monreale, la scena della Pentecoste è posta nel complesso dell’illustrazione musiva delle apparizioni del Risorto ai suoi discepoli. Questi sono come disposti in semicerchio attorno a una mensa ideale. Da una semisfera posta in alto, simbolo del divino, si dipartono dodici raggi luminosi con delle fiammelle che raggiungono gli apostoli i quali danno vita a un unico e indivisibile disegno, poiché una sola è la rete che li unisce tra di essi e che li congiunge a Dio. Colpisce l’essenzialità della scena nella quale si nota immediatamente non solo l’assenza di ogni architettura e di ogni riferimento a un possibile luogo fisico ben preciso, ma soprattutto l’assenza della Madre del Signore. In realtà Maria è il simbolo più forte e l’immagine più pura della Chiesa ricolma di Spirito Santo.
Questa verità risalta maggiormente se si prende in considerazione il fatto che «nell’economia della grazia, attuata sotto l’azione dello Spirito Santo, c’è una singolare corrispondenza tra il momento dell’incarnazione del Verbo e quello della nascita della Chiesa. La persona che unisce questi due momenti è Maria: Maria a Nazareth e Maria nel cenacolo di Gerusalemme. In entrambi i casi la sua presenza discreta, ma essenziale, indica la via della “nascita dallo Spirito”. Così colei che è presente nel mistero di Cristo come madre, diventa – per volontà del Figlio e per opera dello Spirito Santo – presente nel mistero della Chiesa.

Anche nella Chiesa continua ad essere una presenza materna». Lo scrive Giovanni Paolo II al n. 24 della Redemptoris Mater. Gli fa eco Benedetto XVI il quale nella Spe salvi si rivolge a Maria con una preghiera con la quale il popolo di Dio in cammino verso la Gerusalemme celeste, rigenerato dall’acqua e dallo Spirito, può concludere il tempo pasquale: «Presso la croce, in base alla parola stessa di Gesù, tu eri diventata madre dei credenti. In questa fede, che anche nel buio del Sabato Santo era certezza della speranza, sei andata incontro al mattino di Pasqua.
La gioia della risurrezione ha toccato il tuo cuore e ti ha unito in modo nuovo ai discepoli, destinati a diventare famiglia di Gesù mediante la fede. Così tu fosti in mezzo alla comunità dei credenti, che nei giorni dopo l’Ascensione pregavano unanimemente per il dono dello Spirito Santo (cf. At 1,14) e lo ricevettero nel giorno di Pentecoste» (n. 50).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO

PASQUA PENTECOSTE

ASCENSIONE DEL SIGNORE

 Prima lettura: Atti 1,1-11

 Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

 

  • La pericope è l’inizio del libro degli Atti degli Apostoli. Nel vangelo Luca ha narrato gli avvenimenti e gli insegnamenti di Gesù nel tempo della sua vita mortale; negli Atti degli Apostoli l’autore mostra ancora la vita di Gesù, ma di Gesù risorto, vita che si attua nella comunità, nella Chiesa. Il brano è composto dal prologo, dalla notizia di quaranta giorni,

    dalla promessa dello Spirito e dalla ascensione del Signore.

         Prologo: «Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo» (At 1,1-2).

         Questo prologo sintetizza il contenuto del vangelo, mostrando come il secondo libro del medesimo autore, Luca, non è altro che la seconda parte di un’opera unica il cui contenuto è Gesù Cristo. Oltre alla menzione di tutto quello che Gesù fece e insegnò che compendia l’attività del Signore, viene ricordata la scelta degli apostoli operata dal Signore in Spirito Santo. La frase finale: fu assunto in cielo compendia il racconto finale del vangelo (Lc 26,51). L’ascensione al cielo pone fine al grande itinerario di Gesù.

         I quaranta giorni: «Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio» (At 1,3).

         La cifra quaranta nel simbolismo numerico biblico rappresenta il periodo di iniziazione nell’insegnamento del Signore risorto e insieme il tempo delle apparizioni che serve a fondare la predicazione e testimonianza apostolica.

         La promessa dello Spirito Santo: «Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (At 1,4-8).

         La promessa dello Spirito Santo è data in questo testo due volte; nella prima lo Spirito Santo è connesso con il battesimo distinguendo il sacramento cristiano dal rito di Giovanni; nella seconda lo Spirito Santo è connesso con la forza che sarà infusa ai discepoli per la testimonianza da rendere a Gesù. La promessa dello Spirito si realizzerà presto nella festa di Pentecoste; da allora in poi lo Spirito sarà il grande protagonista della Chiesa descritta nel libro degli Atti degli Apostoli. Lo Spirito è la presenza del Signore risorto nella sua comunità credente.

         L’ascensione di Gesù al cielo: «Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,9-11).

         Il modo di descrizione del mistero dell’ascesa di Gesù al cielo è, come quello della sua risurrezione, sobrio ed essenziale. È presente l’elemento caratteristico delle teofanie, la nuvola che in questo episodio sottrae Gesù alla vista dei suoi. Il corpo glorioso di Gesù non appartiene più a questa terra ove regnano ancora la morte e la corruzione. Asceso al cielo Gesù entra con la sua umanità completa al possesso della gloria divina che gli è propria. Nell’ascensione di Gesù l’annuncio degli angeli assicura i credenti del suo ritorno finale. Tra l’ascensione e il ritorno si svolge il tempo dello Spirito e il tempo della Chiesa durante il quale il Signore è sommamente attivo a favore dei credenti in lui.

 

Seconda lettura: Efesini 1,17-23

Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore. Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.

 

  •  Il testo si trova all’inizio dell’epistola agli Efesini dopo che nel prologo è stato espresso il mistero della salvezza sotto forma di inno di benedizione, viene il nostro passo che è una preghiera per l’illuminazione dei cristiani. Il tema del brano è la situazione gloriosa di Gesù risorto e asceso al cielo, assise alla destra di Dio, costituito Signore di tutto l’uni-verso.

         Il brano inizia con la preghiera dell’apostolo che si può definire nella sua globalità come una domanda di illuminazione nel senso di penetrazione della luce della fede per l’intelligenza del mistero centrale della salvezza, cioè del disegno di Dio per la nostra sorte salvifica. Tutto in questa preghiera tende alla «conoscenza». Vi è il tema della gloria di Dio, di cui Dio è Padre, cioè autore, causa, origine, largitore alle creature; il tema della sapienza e della rivelazione, il tema della illuminazione e della comprensione, tutti questi concetti hanno come oggetto la speranza, la vocazione, l’eredità di Dio, la sua potenza, l’efficacia della sua forza.

         Questo dispiegarsi salvifico della potenza di Dio si sintetizza e si concentra in Cristo. Il mistero di Cristo viene espresso nei suoi aspetti di morte, risurrezione, di ascensione e sessione alla destra di Dio e signoria universale. È l’affermazione del primato di Cristo su tutto il creato e sulla Chiesa, perché tutto è stato sottomesso a lui ed egli è capo della Chiesa.

         Il tema e la contemplazione di Cristo capo della Chiesa per la sua supremazia di influsso totale e il tema della Chiesa corpo di Cristo sono qui uniti: capo e corpo; Cristo e Chiesa formano il Cristo totale. Il primato di Gesù risorto è assoluto e senza limiti. Ogni uomo e ogni creatura è sotto di lui e in questo mistero si realizza pienamente il piano divino di ricapitolare in Cristo tutte le cose; quelle del cielo e quelle della terra, il piano divino che investe non soltanto gli uomini ma tutti gli esseri creati, dagli angeli fino alle creature materiali rese partecipi della gloria di Dio attraverso il primato e la signoria di Cristo. La visione salvifica e cristologica è cosmica universale.

 

Vangelo: Matteo 28,16-20

 In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.  Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». 

 

Esegesi 

    Il brano conclude il racconto delle apparizioni di Gesù risorto ed è il termine dell’intero vangelo di Matteo. Esso descrive la missione universale di Gesù, la missione da lui affidata agli apostoli, la promessa di esistenza fino alla fine del tempo.

     Il potere universale di Gesù risorto: «In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”» (Mt 28,16-18).

     Colui che parla è il Signore risorto e glorioso. Anche nel tempo della sua vita mortale Gesù aveva ricevuto dal Padre ogni potere; il potere di compiere miracoli, il potere di parlare con autorità, il potere di perdonare i peccati, il potere di cacciare i demoni, il potere della conoscenza di tutti i misteri del Regno. Ma prima della sua risurrezione Gesù era soggetto a limiti; alla fame, alla sete, al sonno, alla stanchezza, all’indigenza e infine alla sofferenza e alla morte; la sua stessa missione si era limitata alle pecore perdute della casa di Israele. Ora Gesù è risorto, ogni limitazione è scomparsa, egli afferma di avere ricevuto il potere totale assoluto universale; tutto il potere su tutte le cose; colui che gli ha dato tale potere è il Padre. In virtù di tale potere universale egli affida ora la missione universale ai suoi discepoli.

     La missione: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20a).

     In queste parole è espressa anzitutto l’universalità della missione; essa si rivolge a tutte le nazioni, a differenza del tempo della vita mortale di Gesù in cui aveva detto ai dodici inviandoli: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani, rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 10,5-6), ora l’invio è universale.

     Il compito della missione è triplice: fare discepoli, battezzare, fare osservare i comandamenti; è l’ufficio dottrinale profetico, sacramentale santificante, pastorale di governo. Si esprime così la totalità dell’esistenza apostolica che consiste nel predicare, nel battezzare, dare i sacramenti, nel guidare e dirigere la comunità credente affinché raggiunga la salvezza finale. Alla totalità della vita apostolica corrisponde la totalità della vita cristiana che consiste nel credere alla predicazione, nel ricevere il battesimo e i sacramenti, nell’osservare i comandamenti e così giungere alla vita eterna.

     La promessa dell’assistenza di Gesù: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28.20b).

     La formula: Io sono con voi (oppure: Io sono con te) pronunciata da Dio significa nella sacra Scrittura la garanzia del successo nel compito affidato a qualcuno; Dio dice questa parola a Mosè (Es 3,12) comunicandogli la buona riuscita nel liberare Israele dall’Egitto e ripete questa frase ad altri personaggi a cui dà mandato di compiere una impresa. Nel nostro testo Gesù si appropria la parola divina rivelando così la sua dignità divina e con essa assicura il buon esito nella missione data ai suoi. La promessa di Gesù significa in concreto che sempre, fino alla fine del tempo vi saranno predicatori del vangelo, vi saranno ministri del battesimo e dei sacramenti, vi saranno guide della comunità credente, e corrispondentemente sempre vi saranno ascoltatori della predicazione che crederanno, fedeli che riceveranno i sacramenti, credenti battezzati che osserveranno i comandamenti. È l’indefettibilità della chiesa fino alla fine del mondo.

     Sono queste le ultime parole del vangelo di Matteo, il quale non racconta l’ascensione di Gesù, come avviene al termine del vangelo di Marco e di quello di Luca.

     La pienezza della potestà divina di Gesù è ciò che nella sua ascensione al cielo viene disvelato nel segno; la formula trinitaria che sta al centro della missione ottiene anch’essa una sensibile manifestazione nell’ascendere e sedersi alla destra del Padre. La promessa della presenza del Signore con i suoi fino alla fine del mondo indica la natura trasformante del mistero dell’ascensione; essa consente un nuovo tipo di presenza del Signore glorificato; assiso in cielo alla destra del Padre egli intercede per i credenti in lui, per i battezzati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, per coloro che osservano i suoi comandamenti, per i suoi predicatori, per i suoi ministri, i pastori del popolo cristiano; la sua efficace intercessione che avrà come effetto l’invio dello Spirito Santo è la sua nuova presenza non visibile, come la presenza corporale durante il tempo della vita mortale, ma è assai più efficace.

     Gesù salito al cielo è presente alla sua Chiesa in quanto è sommamente attivo in tutti attraverso lo Spirito Santo.

 

Meditazione 

     Gesù, che «fu assunto in cielo» (At 1,11), che il Padre «fece sedere alla sua destra nei cieli» (Ef l, 20) e che da Dio ha ricevuto «ogni potere in cielo e sulla terra » (Mt 28,18), fa della sua assenza fisica una presenza invisibile, una compagnia nei confronti dei suoi discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). L’esito del dono della vita per i suoi amici, gli uomini, è l’essere con loro per sempre, in modo misterioso, ma reale.

    «Là dove ci ha preceduto la gloria del capo, è chiamata altresì la speranza del corpo», afferma Leone Magno a proposito dell’ascensione (Sermo 73,4). E la seconda lettura parla espressamente della speranza dischiusa dalla vocazione cristiana, dal Cristo risorto e asceso al cielo (Ef 1,18); speranza escatologica, ma che inserisce pienamente nella storia i cristiani chiamandoli alla testimonianza in forza dello Spirito santo (I lettura); speranza retta dalla vicinanza e dalla compagnia del Risorto nei confronti dei discepoli che si vedono così sostenuti nel loro impegno quotidiano di servizio al vangelo (vangelo).

     Il vuoto lasciato dall’ascensione di Gesù deve essere colmato dalla testimonianza (At 1,8) e dall’insegnamento (Mt 28,20) dei discepoli. Le due cose sono distinte, ma anche strettamente connesse. Insegnare significa fare segno (in-signare), dare simboli e chiavi ermeneutiche della realtà. Insegnante credibile è colui che vive in prima persona ciò che insegna e che vive di ciò che insegna. O almeno, cerca di farlo. La figura di maestro che il vangelo costruisce, sulla scia di Gesù di Nazaret che è al tempo stesso maestro e insegnamento, è anche quella di un testimone: non si può insegnare l’evangelo senza viverne. L’evangelo, infatti, è il comando lasciato dal Signore ai suoi: «insegnando […] tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20).

    Il mandato di insegnare e fare discepole le genti è un compito generante e significa educare alla fede, trasmettere la fede, esercitare un compito di paternità che introduca l’uomo alla relazione con Dio. Questo il compito della Chiesa nella storia «fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Compito che la Chiesa può assolvere se si affida alla promessa del Risorto: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Queste parole non sono una garanzia, ma una promessa: e ad una promessa si fa credito, ci si affida, senza altre garanzie che l’affidabilità di colui che ha parlato. Il quale, promettendo, ha promesso se stesso, la sua presenza. Inoltre, quelle parole «Io sono con voi» devono essere lasciate in bocca al Signore: sono completamente stravolte se poste sulla bocca di uomini che dicono: «Dio è con noi». Questa non è più la promessa di un Altro a cui ci si affida ogni giorno con umiltà, timore e tremore, ma affermazione umana che fonda una pratica violenta e impositiva, arrogante e aggressiva.

    Le parole «Io sono con voi» stanno nello spazio della fede e della speranza, le parole «Dio è con noi» stanno nello spazio della certezza e del sapere (e nascondono illusione e menzogna): se le prime aprono il futuro (e lo aprono indefinitivamente: «fino alla fine del mondo»), le seconde lo chiudono irrimediabilmente. Trasmettere la fede è dunque anche donare speranza.

    La promessa solenne del Risorto evoca la formula di alleanza per cui Dio si lega al popolo ( «Io sarò il vostro Dio»), e soprattutto evoca la presenza di Dio in mezzo al popolo, nel Tempio. Quelle parole fondano dunque la comunità cristiana come luogo della presenza santa di Dio, come tempio, ma tempio di corpi e di relazioni. La promessa «Io sono con voi» impegna il «voi» a perseverare, a rimanere nella carità fraterna, nei legami reciproci, e a far regnare su di essi il Nome di Dio («Io sono») rivelato dal volto di Gesù di Nazaret. La presenza del Signore viene sperimentata come dono grazie alla fedeltà dei credenti. A sua volta, la faticosa fedeltà quotidiana («tutti i giorni») dei credenti è sostenuta dalla speranza suscitata dalla promessa: «Con la tua promessa mi hai fatto sperare» (Quoniam promisisti, me sperare fecisti: Agostino, Enarr. In Ps. 118,15,1).

 

IMMAGINE DELLA DOMENICA

 

OSTIA (ROMA) – 2016


Il cielo

Osservate più spesso le stelle.

Quando avrete un peso nell’animo,

guardate le stelle o l’azzurro del cielo.

Quando vi sentirete tristi,

quando vi offenderanno,…

intrattenetevi… col cielo.

Allora la vostra anima troverà la quiete.

 

(N. Valentini – L. Žák [a cura], Pavel A. Florenskij. Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, Milano, 2000, p. 418).

 

Preghiere e racconti

L’Ascensione del Signore

È il nascondimento di Gesù il giorno dell’Ascensione che ha reso possibile la vita e la testimonianza della Chiesa da venti secoli. La sua assenza non solo ha permesso l’esistenza della Scrittura, che ci trasmette il suo messaggio, ma genera ancor oggi quella Scrittura viva, quella Scrittura imprevedibile che tracciano, giorno dopo giorno, i discepoli di Gesù sparsi su tutte le strade del mondo. Quel Gesù che noi amiamo senza averlo visto, quel Gesù che popola le nostre solitudini e abita le nostre comunioni, ci sfugge sempre ogni qualvolta cerchiamo di afferrarlo. Egli è davanti a noi, oltre i personaggi nei quali vogliamo rinchiuderlo. Ed è giusto che sia così, perché possederlo una volta per tutte secondo il suo volto storico, dogmatico, culturale, politico, sarebbe già non ricercare più la sua bruciante assenza.

(Cl. Geffré, Uno spazio per Dio).

 

L’eterno quotidiano

Degli occhi delle lingue dei volti

che annunciano a tutti i secoli

Io sono fino alla fine del tempo

l’asse del cielo la ruota del vento

l’albero della vita le cui radici

di corpi cinerei fanno un sol corpo

L’Alleluia che si radica

fra i denti murati dei morti

così forte che l’inferno non esamina

quest’Alleluia mi rianima

Io non posso più reprimerti

mia graminacea mia figlia folle

mio seme alato fatto parola

mia eternità neonata

mia gioia danzante a pie zoppo

fra le mie ossa sparse

Basta un papavero

uscito da me fuori dalla tomba

per farmene uscire

e per celebrare

il Risorto che mi rende

il mio filo d’alba il mio fiore nei denti

il dono di vivere nella gloria

dell’eterno quotidiano

La fede rinata ogni mattina

Di un’inconcepibile vittoria.

(P. Emmanuel, Evangeliario)

 

La porta del cielo

Un antico racconto degli ebrei della diaspora così dice: «Cercavo una terra, assai bella, dove non mancano il pane e il lavoro: la terra del cielo. Cercavo una terra, una terra assai bella, dove non sono dolore e miseria, la terra del cielo.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, sono andato a bussare, pregando e piangendo alla porta del cielo…

Una voce mi ha detto, da dietro la porta: “Vattene, vattene perché io mi sono nascosto nella povera gente.

Cercando questa terra, questa terra assai bella, con la povera gente, abbiamo trovato la porta del cielo».

 

«Rimanete saldi nella fede»

«Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso  col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

 

Il cielo

Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione.

(Joseph Ratzinger/BENEDETTO XVI, Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).

 

Angeli smemorati

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito. Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore. Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria. E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore. Se solo si guardassero “dentro”.

 

L’ascensione di Gesù e la nostra ascensione

Quando nel rito liturgico dell’eucaristia siamo invitati a «innalzare i nostri cuori», rispondiamo: «Sono rivolti al Signore», a quel Signore che è asceso in alto, a colui che non è più qui, ma che è risorto, è apparso agli apostoli ed è scomparso dalla vista. Sempre, ma specialmente in questo giorno nel quale commemoriamo la sua risurrezione e la sua ascensione, noi siamo spinti ad ascendere in spirito come il Salvatore, che ha vinto la morte e ha aperto il regno del cielo a tutti i credenti.

Molti uomini però non ascoltano il richiamo della liturgia; essi sono impediti, anzi posseduti, assorbiti dal mondo, e non possono elevarsi perché non hanno ali. La preghiera e il digiuno sono stati definiti le ali dell’anima, e quelli che non pregano e non digiunano, non possono seguire il Cristo. Non possono innalzare a lui i cuori. Non hanno il tesoro in alto, ma il loro tesoro, il loro cuore e le loro facoltà sono sulla terra; la terra è la loro eredità e non il cielo. […] Al contrario le anime sante prendono una via diversa; esse sono risorte con Cristo e sono come persone salite su una montagna e ora si riposano sulla cima. Tutto è rumore e frastuono, nebbia e tenebra ai suoi piedi; ma sulla vetta tutto è così calmo, cosi tranquillo e sereno, così puro e chiaro, così luminoso e celeste che per loro è come se il tumulto della valle non risuonasse al di sotto, e le ombre e le tenebre non ci fossero.

(John Henry Newman)

 

Già ora con Cristo nei cieli

Oggi il Signore nostro Gesù Cristo è asceso al cielo; salga con lui il nostro cuore. Ascoltiamo l’Apostolo che dice: «Se siete risorti con Cristo, gustate le cose di lassù, dove è Cristo seduto alla destra di Dio; cercate le cose di lassù e non quelle della terra» (Col 3,1-2). Come infatti egli è asceso al cielo ma non si è allontanato da noi, così anche noi siamo già lassù con lui, sebbene non sia stato ancora realizzato nel nostro corpo quanto ci è stato promesso. Egli è già stato esaltato sopra i cieli, tuttavia sulla terra patisce le stesse sofferenze che proviamo noi sue membra. Di ciò ha reso testimonianza quando ha gridato dall’alto: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4), e: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25,35). Perché anche noi qui sulla terra non operiamo in modo tale da riposare già ora con lui nei cieli mediante la fede, la speranza e la carità che ci uniscono a lui? Cristo è nei cieli ed è anche con noi, noi siamo sulla terra e siamo anche con lui. Egli lo può fare per la divinità, la potenza e l’amore che possiede; noi, anche se non possiamo farlo per la divinità come lui, tuttavia lo possiamo fare con l’amore, però in lui. Cristo non ha abbandonato il cielo quando ne è disceso per venire fino a noi, ne si è allontanato da noi quando è asceso di nuovo al cielo. Che egli fosse in cielo mentre era anche qui sulla terra lo afferma lui stesso: «Nessuno – dice – è asceso al cielo se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo che è in cielo» (Gv 3,13). Non ha detto: «Il Figlio dell’uomo che sarà in cielo», ma: «Il Figlio dell’uomo che è in cielo». Che Cristo rimanga con noi anche quando è in cielo, ce lo ha promesso prima di salirvi, dicendo: «Ecco, io sono con voi fino alla fine dei secoli» (Mt 28,20). I nostri nomi sono lassù, perché egli ha detto: «Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nel cielo» (Lc 10,20).

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 263/A, Opere di Sant’Agostino XXXII/2, p. 904).

 

Preghiera

Noi, viandanti sulle strade del mondo, sospiriamo a rivestire quell’abito di luce intramontabile che tu stesso, Signore Gesù, nel tuo amore hai preparato per noi. Fa’ che nulla vada perduto di quanto, per grazia, hai riversato come dono nelle nostre povere mani. La forza del tuo Spirito plasmi in noi l’uomo nuovo rivestito di mitezza e di umiltà. Ti preghiamo di non lasciarci sordi alle tue parole di vita, perché se non seguiamo te e non ci affidiamo alla potenza del tuo nome, nessun altro potrà salvarci. Il tuo Spirito frantumi tutti gli idoli che ancora ci trattengono e ostacolano il nostro cammino. Nulla e nessuno su questa terra possa imprigionare il nostro cuore! Fa’ che volgendo lo sguardo a te e al tuo regno, acquistiamo occhi per vedere ovunque i prodigi del tuo amore.

 

Beato Angelico (1387-1455), Armadio degli Argenti – p. (Ascensione), Firenze, Museo di S. Marco.

© 2014. Foto Scala Firenze – Su concessione Ministero Beni e Attività Culturali.

 
«Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà: Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria» (1Tm 3,16).
Il mistero celebrato dalla Chiesa quaranta giorni dopo la Pasqua trova la sua sintesi nella preghiera Colletta della liturgia del giorno: «…nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro Capo, nella gloria». Trova il suo compendio anche nel Prefazio della festa: «Mediatore tra Dio e gli uomini,
giudice del mondo e Signore dell’universo,
non si è separato dalla nostra condizione umana,
ma ci ha preceduti nella dimora eterna,
per darci la serena fiducia 
che dove è lui, Capo e primogenito,

saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria».

Gesù, infatti, è entrato nel santuario del cielo affinché “la gloria del Capo” potesse diventare “la gloria del corpo” (S. Leone Magno, Sermo I de Ascensione Domini). Egli è per sempre al suo posto quale «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). Ciò significa che la natura umana per mezzo di Lui e in Lui è per sempre con Dio, è per sempre in Dio. Il Signore Risorto, inoltre, intercede per noi presso il Padre quale loro avvocato (cf. Eb 7,25) poiché «non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui…Ora invece una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso» (Eb 9,24-26).
Nel riquadro dell’Armadio degli Argenti dipinto dal Beato Angelico in pieno ‘400, l’evento salvifico è come raccolto in uno spazio ridottissimo occupato quasi per intero dai discepoli riuniti in cerchio insieme a Maria posta al centro della scena. Essi fissano il cielo nel quale è penetrato Cristo risorto del quale è visibile però soltanto la parte inferiore della tunica avvolta da una nube che lo “sottrae al loro sguardo” (cf. At 1,9).
Gesù è accolto in una sfera di luce dorata che taglia quasi per intero il cielo azzurro che sovrasta un paesaggio essenziale e scarno, arricchito soltanto dalla presenza discreta di alcuni alberelli che conferiscono alla scena un certo realismo. Un angelo sulla destra rivolge ai discepoli le parole: «“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?
Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”» (At 1,11).
Gesù ha raggiunto il cielo ed è per sempre nella gloria del Padre suo. Si è assiso alla destra dell’Altissimo, ma è anche presente tra i suoi discepoli ai quali aveva già promesso che sarebbe stato con loro sino alla consumazione del mondo (cf. Mt 28,20). «Il paradiso non è ormai più un luogo da sempre esistito…bensì il paradiso si apre in Gesù stesso: esso è legato alla sua persona…Cristo è egli stesso il paradiso, la luce, l’acqua fresca, la pace sicura, cui tendono le aspettative e le speranze degli uomini» (J. Ratzinger).
Il mistero dell’ascensione è pertanto la celebrazione dell’opera di riconciliazione che Dio ha realizzato in Cristo. In lui, infatti, e in particolare nel suo mistero di morte e risurrezione, è stata fatta pace tra il cielo e la terra ed è stata riaperta la via che conduce a Dio.
Nel suo cammino verso la Gerusalemme celeste il credente affronta le prove e le tribolazioni della storia ben sapendo che «niente giova all’uomo se guadagna il mondo intero ma perde se stesso. Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo» (Gaudium et Spes 39).
  

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

 

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

ASCENSIONE