Lectio – Anno B
Prima lettura: Isaia 50,5-9a
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole? |
- I «Carmi del servo di JHWH» riflettono l’esperienza dell’esilio, di cui sembrano raccogliere la lezione: il valore redentivo della prova, delle afflizioni, del dolore.
Già qualche profeta (per es. Geremia) aveva svolto una missione contrassegnata da sofferenze e persecuzioni, ora l’intera nazione, dispersa e disorientata, sta sopportando prove e disagi di ogni genere. Invece di ribellarsi o di reagire insensatamente contro Dio, era più saggio prendere dal Signore il «castigo» e prepararsi a ricevere, se a lui piace, il perdono e la riabilitazione.
Il «Servo di JHWH» non è un individuo né una pura idealizzazione. È il simbolo dell’Israele migliore, di quelli che erano in grado innanzitutto di mettersi in ascolto di quanto era in procinto di dire Iddio al suo popolo. Non è facile dialogare con lui nella disgrazia. Nella circostanza si è portati a chiudersi in se stessi o a imprecare, ma il Servo reagisce e ascolta ciò che gli dice il Signore.
Forse quando l’autore compone i «Carmi» l’esilio era anche passato, ma la situazione è quella precedente; gli uomini sono ancora sotto l’abbattimento, la stanchezza morale e fisica. La sfiducia può prendere anche il profeta, chiamato a rincuorare i fratelli, ma pensa il Signore a tenerlo sveglio.
Il servo è un personaggio e più ancora una personificazione. In lui tutta la nazione rievoca le sofferenze e le umiliazioni subite nella deportazione e che continuano nella restaurazione poiché sono ancora sotto un dominatore. I colpi dei flagelli, lo strappo della barba sono i segni del dileggio morale e fisico a cui gli uomini sono sottoposti. Ma Israele nella sua afflizione ha un consolatore a cui fare affidamento: è JHWH. Il suo Dio è l’unico Signore, viene ripetuto nello Shema. Egli è ora a suo fianco anche in questo estremo frangente e lo aiuterà.
Le prove possono fiaccare, ma sapute accettare dalla mano del Signore, irrobustiscono la fede, rendono più saldo il rapporto con Dio. Se JHWH è vicino, dalla parte delle vittime c’è sempre una speranza che la nazione possa sopravvivere. «Chi di voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo» (v. 10). È il senso di tutto il carme.
Seconda lettura: Giacomo 2,14-18
A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». |
- L’identità del credente è segnata non tanto dalle parole, ma dalle buone azioni che gli vengono suggerite dalla sua fede in Cristo. Non basta ripetere ciò che Gesù ha detto e aderirvi interiormente per essere salvi, ma occorre far propria la sua esperienza.
Non si può dire che sia un comportamento cristiano il discriminare negli incontri comunitari un fratello dall’altro, privilegiare il ricco e umiliare il povero. «Avvilire l’indigente» non è agire come Dio agisce, né come Gesù ha esortato a fare. Il credere non serve a nulla se non è suffragato dalle opere che la fede propone. Sarebbe come il dire a degli ignudi e a degli affamati «riscaldatevi e saziatevi» senza dargli né una veste, né un pane.
La dottrina su Dio sarà sempre utile a instaurare rettamente i propri comportamenti quotidiani, ma se questi non vengono influenzati, modificati, riordinati dalla fede, non vengono conformati alla proposta di Dio (comandamenti) e alla testimonianza di Cristo, in altre parole, se non hanno nessuna risonanza pratica nella vita, servono ad aumentare la responsabilità e la condanna del credente.
Se la fede non rifluisce nei comportamenti, non agisce nella vita, è «morta» (v. 17). È come non averla.
Il v. 18 è misterioso. Sembra farsi avanti un interlocutore fittizio che contesta la tesi dell’inutilità della fede senza le opere (2,14). Certo la fede può precedere le opere e trovarsi anche senza di esse, ma alla fine rimane sempre vero che sono le opere a darle conferma. Talmente che se uno ha solo la fede senza le opere, la sua realtà può rimanere sempre insicura, mentre in chi compie la volontà di Dio, cerca di ripercorrere la testimonianza di Cristo anche se non ha fede esplicita, cioè non sa esattamente e senza colpa chi egli è, è egualmente un implicito credente. Le opere danno un’identità sicura, le parole da sole danno un’identità sempre dubbia.
Vangelo: Marco 8,27-35
In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà». |
Esegesi
Il brano di Mc 8,27-35 segna una svolta radicale nel vangelo di Marco. Chiude il ministero galilaico accompagnato da una solenne autorevole manifestazione di Gesù, che non è consentito capire e della quale non è neppure lecito parlare. Gesù preferisce passare in silenzio se non proprio in incognito. Fa tutti i suoi pronunciamenti, compie grandi prodigi che suscitano entusiasmo nella folla: 1,27 («che è questo?») 4,12 («Non abbiamo mai visto nulla di simile»), 4,47 («Chi è dunque costui?») 7,37 («Stupivano») e nello stesso tempo reazioni negative presso gli scribi e farisei: 2,7 («Perché costui fa queste cose? Bestemmia»), 3,36 («Ha uno spirito immondo»), 3,6 («tengono consiglio per farlo perire»). L’agire di Gesù sorprende anche le autorità che parlano per bocca di Erode Antipa, il tetrarca della Gallica (6,14).
Gesù non solo non scopre il suo «segreto» ma proibisce a coloro che possono averlo intuito di parlarne. Tali sono gli ordini impartiti ai demoni (1,34; 3,12) e ai miracolati (1,44; 5,19; 5,43; 6.45; 7.36). L’evangelista afferma che a «quelli che erano attorno a lui», spiegava «in disparte» ogni cosa (4,38), ma il mistero rimaneva nascosto anche a loro.
La tensione che domina la prima parte del vangelo di Marco si chiude con l’interrogatorio di Cesarea di Filippo, fuori della Galilea. Infatti dopo la guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26) la comitiva si incammina verso «i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo», la capitale della Traconitide a due giorni di viaggio dal Lago di Tiberiade. È una meta reale e simbolica. L’evangelista vuole sottolineare che la prima manifestazione di Gesù avviene in terra pagana.
La tradizione evangelica ricorda una confessione messianica di Pietro. Giovanni la colloca dopo il discorso sul pane della vita (6,68-69), i sinottici a Cesarea di Filippo. La ricostruzione della scena è più didattica che storica; deve appurare chi è Gesù. Ed è lui che ha proposto e quindi voluto questa «rivelazione». In genere i maestri sono interpellati dagli alunni; qui è Gesù che pone non le domande, ma la domanda che serpeggia in tutto il vangelo. E proprio per non introdurre exabrupto nella questione comincia da un’interrogazione sull’opinione della folla che serve solo a richiamare l’attenzione sulla vera risposta che viene dai discepoli («Ma voi, chi dite»).
Alla luce del linguaggio veterotestamentario, cioè delle profezie messianiche dell’Antico Testamento, Gesù non poteva essere che una figura profetica, del tipo di Giovanni Battista o di Elia del quale si attendeva per di più il «ritorno» all’aprirsi dell’era escatologica (cf. Mal 3,23-24; Mt 11,14). Ma in tutti i modi le categorie dell’A.T. non sono idonee per spiegare chi è Gesù. Occorre una risposta che venga dall’esperienza di coloro che lo hanno conosciuto, che sono stati a suo fianco, alla sua scuola. Ed essi hanno capito che il loro maestro è più che un profeta, «è il Cristo». L’espressione «il Cristo», quando l’evangelista scrive, è la stessa che la Chiesa adopera per designare Gesù di Nazaret che è pur sempre un «grande profeta» (cf. Lc 7,16), ma anche il «messo» di Dio per eccellenza, il messia. In altre parole è il personaggio promesso per la fine dei tempi; allo scopo di imprimere alla storia della salvezza l’orientazione voluta dal creatore. Egli è colui che avrebbe ristabilito tutte le cose. Quindi era il fiduciario e il plenipotenziario di Dio; il salvatore, il «redentore», verrà aggiunto più tardi nella predicazione cristiana.
Se l’espressione si limitasse alle intenzioni di Pietro forse il significato sarebbe stato più ristretto e supererebbe di poco l’espressione «figlio di David» (10,47-48) o «restauratore del regno davidico» (11,18), ma l’evangelista ripete più la fede della Chiesa che quella del primo apostolo. Essa sarà ribadita poco dopo nella «confessione» di Gesù davanti al Sinedrio (14,61).
Ormai i discepoli conoscono colui a cui hanno dato la parola, di cui si sono messi al seguito, ma Gesù ha altre cose da aggiungere alla confessione dell’apostolo per questo è costretto a chiedere ancora di «non parlare» su tale dichiarazione (v. 30). E la «parola» nuova, inattesa da dire è quasi più importante della prima perché ne costituisce il presupposto (v. 32).
Se pertanto la «confessione» chiude la prima parte del vangelo, la dichiarazione di Gesù apre la seconda, quella riguardante la «croce» e il «cammino» che porta verso di essa, in concreto verso Gerusalemme, il Golgota, e del «cammino» che si impone a quanti sono al seguito di colui che, pur essendo «il Cristo», è finito sul patibolo.
I versetti 8,27.30 sono veramente al centro di tutto il vangelo. Gesù adesso non ha più veli nel parlare, non è sfuggente, né misterioso. Annunzia «apertamente» (parresiai) «la parola» (ton logon). Il testo è chiamato abitualmente la prima profezia della passione e della risurrezione, ma nell’attuale versione si è verificata una contaminazione tra i racconti del tragico avvenimento e la dichiarazione di Gesù al riguardo. Alcuni particolari sono passati da un quadro all’altro senza creare confusione, ma dando alla profezia più il colore di una narrazione che di un oracolo.
L’essenziale dell’avvertimento di Gesù è che il Cristo, ma è chiamato più vagamente «il figlio dell’uomo», una designazione che richiama Dn 7,14, deve «molto patire» ed «essere rigettato». In altre parole, il messia non sarà accolto dal suo popolo, fino a condannarlo a morte, ma la morte non sarà la sua fine bensì l’inizio della sua vittoria (risurrezione). «Dopo tre giorni» è un’espressione ebraica per dire «dopo breve tempo», dopo «un corto intervallo».
Il comportamento di Pietro, i «rimproveri» che fa a Gesù, sono verosimilmente storici, ma sono anche emblematici, esprimono non tanto il pensiero dell’apostolo, ma di ogni benpensante, di qualsiasi uomo che stenta sempre a capire come l’affermazione del bene, della verità abbia condizionamenti così irrazionali a cui non c’è alternativa. Si può accettare o rifiutare, non cambiare.
La terza parte della pericope, vv. 34-35, è un’esplicitazione della seconda. Il vangelo (logos) della croce non riguarda solo Gesù, ma tutti i suoi discepoli, indistintamente. A tal proposito è convocata, non si sa da dove, anche «la folla» (ochlos). Se il programma del cristiano è quello di «seguire Gesù» (opiso mou elthein; akolouthein) si tratta di un cammino che non può arrestarsi a metà strada. Non può escludere la «croce» come non ha potuto escluderla Gesù. Per arrivare a ciò bisogna cominciare dalla dimenticanza di se stessi, dalla abnegazione. Occorre la forza d’animo, il coraggio di non prendere troppo in considerazione i propri interessi, i propri beni, la stessa vita. «Rinnegare» significa anche riconoscere i propri limiti. E non si tratta di farne un’offerta a Dio, ma ai propri simili ai quali si è in grado di accordare una più larga, generosa collaborazione.
La «croce» che si è esortati a prendere fa prevedere che il prezzo della sequela di Cristo può equivalere alla perdita della vita, ma può non arrivare a questi estremi. Se la croce è il simbolo di qualsiasi sofferenza può designare ogni rinunzia che si impone al credente per tener fede ai suoi impegni.
La massima conclusiva ribadisce (v. 35) in termini parenetici il messaggio di tutto il discorso tenuto da Gesù ai suoi. Il seguire Cristo non è un consiglio qualsiasi che può lasciare indifferenti l’ascoltatore. La «vita» (psyche) di cui parla Gesù non è né la semplice vita spirituale (anima), né la sola vita fisica (corporea). È l’una e l’altra insieme, cioè l’intera esistenza che comincia nel tempo e si protrae nell’eternità. Non solo non è indifferente il credere e il non credere, ma da esso dipende la felicità nel tempo e oltre il tempo.
Meditazione
La pagina evangelica di questa domenica occupa un posto cruciale nel racconto di Marco. La professione di fede di Pietro, con il successivo «primo annunzio della passione», è infatti collocata al centro del libro e segna una svolta decisiva nel ministero di Gesù. D’ora innanzi il suo cammino prenderà una nuova ‘piega’, una nuova direzione, dirigendosi decisamente verso il luogo del compimento del suo pellegrinaggio terreno. Da Cesarea di Filippo (all’estremo nord del territorio palestinese) Gesù inizia il suo ultimo viaggio verso Gerusalemme, in una marcia di avvicinamento che proseguirà a ritmo incalzante, senza ripensamenti e senza incertezze, fino allo scontro definitivo con i suoi avversari (la prima lettura ci presenta, in parallelo, la misteriosa figura del «servo del Signore» che con coraggio e determinazione va per la sua strada, noncurante delle minacce e dell’opposizione violenta, ma confidando solo nell’assistenza di Dio).
«E per strada interrogava i suoi discepoli» (v. 27). Il Gesù di Marco è uno che interroga spesso, che fa sempre molte domande. I discepoli sono continuamente sollecitati a riflettere sul senso della loro esistenza, sulle ragioni della loro sequela e, soprattutto, sul mistero della persona che hanno davanti. «Ma voi, chi dite che io sia?» (v. 29a). È questa la domanda che, più di ogni altra, interessa a Gesù. La gente può dire tante cose, anche giuste e pertinenti, ma l’identità di Gesù non la si può ‘afferrare’ da lontano: solo una frequentazione assidua e quotidiana, solo una prossimità vitale può mettere nelle condizioni di accedere a una conoscenza non superficiale di lui. Si percepisce bene qui tutta l’attesa di Gesù per la risposta dei suoi discepoli. Ed ecco irrompere sulla scena Pietro che, facendosi il portavoce del gruppo, dà la sua bella risposta, chiara e sintetica: «Tu sei il Cristo» (v. 29b). È la prima volta che Pietro prende personalmente la parola nel vangelo di Marco e possiamo dire che lo fa in modo più che appropriato (non sappiamo come sia arrivato a formulare questa stupenda professione di fede; forse l’esperienza dello ‘stare con Gesù’ per lungo tempo avrà sortito qualche buon effetto…). Dal canto suo, Gesù non commenta la risposta di Pietro, anche se, in qualche modo, sembra approvarla. Gli preme solo che, per il momento, essa non venga divulgata: «E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno» (v. 30).
Gesù comincia allora a impartire il suo insegnamento, un insegnamento di capitale importanza poiché, per la prima volta, verte sulla sua sorte di passione e risurrezione. Egli è sì «il Cristo», ma i tratti che lo contraddistinguono sono alquanto inattesi e, comunque, assai diversi da quelli immaginati dai suoi discepoli. In una progressione impressionante, quattro verbi scandiscono il destino di sofferenza e di gloria che attende il «Figlio dell’uomo»: soffrire molto, essere rifiutato, venire ucciso, risorgere (v. 31). Nel momento stesso in cui i discepoli credono finalmente di aver compreso qualcosa intorno al loro singolare Maestro, ecco che si vedono ‘scaricare’ addosso parole scioccanti e incomprensibili: un Messia che deve passare per la sofferenza e la morte (senza dimenticare l’aspetto del rifiuto, della «riprovazione», non meno scandaloso). È questa necessità che i discepoli proprio non riescono a ‘digerire’: perché «deve»? Non potrebbe passare per un’altra via il destino del ‘loro’ Messia? Ed è proprio attorno a questo punto fatidico che esplode fortissimo il contrasto tra Gesù e i suoi. Ancora una volta è Pietro a farsi avanti, reagendo in modo deciso e disapprovando senza mezzi termini le parole di Gesù (addirittura si mette «a rimproverarlo»). Ma Gesù, con altrettanta energia, «rimprovera» Pietro bollando il suo atteggiamento come ‘satanico’ (v. 33). In nessun altro passo del vangelo è riportato un dissenso e uno scontro così violento tra i due! Pietro sembra trovarsi sotto l’influsso di uno ‘spirito cattivo’, tanto che Gesù si comporta con lui come un indemoniato (il verbo qui usato per indicare il «rimprovero» di Gesù, epitimá, è lo stesso generalmente adoperato per le scene di espulsione degli spiriti impuri: cfr. 1,25; 3,12; 9,25). Colui che aveva appena chiamato Gesù «il Cristo», si vede ora apostrofare con un titolo terribile e durissimo: «Satana»! Chi non pensa «secondo Dio», chi non riesce a sentire e a vedere le ‘cose’ di Dio lasciandosi guidare soltanto dai suoi istinti carnali, dai suoi desideri puramente umani, da tutto ciò, appunto, che è «secondo gli uomini», non può far altro che il gioco di Satana, il gioco dell’avversario di Dio per antonomasia. Invece di seguire Gesù, di lasciarsi condurre da lui sulla via di Dio, Pietro si mette davanti, ostacolando il cammino di Gesù e frapponendosi tra lui e il Padre suo (proprio come cercava di fare il Tentatore nel deserto!). Ma subito Gesù, in tono perentorio, ricolloca Pietro al posto che gli spetta: «Va’ dietro a me!». Così Pietro è di nuovo invitato a obbedire a quella voce udita al tempo della sua prima chiamata lungo il mare di Galilea quando, insieme a suo fratello Andrea, si sentì dire: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (1,17). Il posto del discepolo è sempre «dietro» – come rimarca ancora una volta Gesù nei due detti conclusivi (vv. 34-35) -; ma non solo: se non si osservano alcune condizioni basilari non si può, neanche lontanamente, cercare di seguire Gesù, di conoscerlo, di aderire a lui. Si tratta di imparare a dire di «no» a se stessi per dire di «sì» a un altro; si tratta di entrare nella logica paradossale del vangelo che implica il percorrere la via della croce, la stessa seguita da Gesù; si tratta, in ultima istanza, di spossessarsi persino della propria vita per riceverla nuova e ‘salvata’ dalle mani di Dio.
Immagine della domenica
Lagos de Covadonga (Asturias) – 2021
«Una ligera niebla,
un cielo pálido
y muchos deseos».
(Ivo Andric)
Preghiere e racconti
La rinuncia a se stessi
Quando una situazione umana ci chiede una totale rinuncia a noi stessi, istintivamente cerchiamo il compromesso o semplicemente imbocchiamo la strada della fuga, ci accomuniamo agli apostoli, che anch’essi sono fuggiti di fronte al realismo della Passione di Gesù. A tanti livelli e su tanti piani dobbiamo cercare di smascherare le forme di fuga che caratterizzano il nostro preteso “servizio agli altri”. Quante volte a livello della famiglia, ci lasciamo andare alla ricerca soltanto della gratificazione dell’affermazione di noi stessi e non accettiamo le persone che ci sono vicine così come sono nella loro realtà, le vorremmo sempre diverse e ci arrovelliamo? Quante volte nell’ambito professionale ci lasciamo trascinare solo dall’interesse e non cerchiamo di rendere un servizio fino in fondo, servizio che ci chiede di uscire da noi stessi di prendere parte in qualche modo alla croce e di partecipare alla sua forza rivelatrice? Quante volte di fronte alle richieste che i nostri fratelli avanzano, noi manifestiamo disagio, stizza, rifiuto: tante realtà semplici della nostra vita quotidiana in cui Gesù dalla croce ci chiede di operare una profonda conversione, di metterci davvero in ginocchio davanti alla croce per coglierne il realismo e la fedeltà che cambiano la vita..
Innanzitutto, si rimane colpiti dal fatto che, nel Vangelo di Marco, la descrizione dei miracoli compiuti da Cristo sfuma, fino a scomparire del tutto, quanto più ci si avvicina alla Croce: è qui, dove Gesù non salva se stesso, che anche i miracoli muoiono. Se i miracoli sono i segni tangibili della potenza di Dio, la Croce ci dice in modo chiaro che questa potenza si manifesta soprattutto nell’amore e nel dono che Cristo fa di sé. Per Marco, il vero discepolo è colui che sa riconoscere il Figlio di Dio inchiodato sulla croce per la nostra salvezza (15,39).
«La croce è diventata la suprema cattedra per la rivelazione della sua nascosta e imprevedibile identità; il volto dell’amore che si dona e che salva l’uomo condividendone in tutto la condizione, escluso il peccato (Ebrei 4,15). La Chiesa non lo dovrà mai dimenticare: sarà questa la sua strada a servizio dell’amore e della rivelazione di Dio agli uomini» (CVMC 14).
Porta ogni giorno la croce del Signore
Se anche tu fossi
così sottile e sapiente
da possedere ogni scienza
e interpretare ogni lingua
e scrutare i segreti del cielo,
di tutto ciò non potresti gloriarti,
perché un dèmone, da solo,
seppe delle cose celesti,
e ora sa delle terrene,
più di tutti gli uomini.
E se anche tu fossi il più bello
e il più ricco tra tutti gli uomini
e facessi cose mirabili,
come mettere in fuga i dèmoni,
tutto ciò non ti appartiene,
e non puoi affatto gloriartene.
Solo delle nostre infermità,
di questo solo possiamo gloriarci,
portando ogni giorno
la santa croce del nostro Signore Gesù Cristo.
(San Francesco D’Assisi)
Quale atteggiamento davanti alla sofferenza e alla morte?
La croce non è solo un bell’oggetto artistico per decorare i salotti e i ristoranti di Friburgo, ma è anche il segno della trasformazione più radicale nel nostro modo di pensare, sentire e vivere. La morte di Gesù in croce ha cambiato tutto. Qual è la reazione umana più spontanea davanti alla sofferenza e alla morte?
Per conto mio, sarei portato istintivamente a impedire, evitare, negare, fuggire, star lontano e ignorare il soffrire e il morire. È una reazione che indica che queste due realtà non si accordano col nostro programma di vita. Per la maggior parte della gente, sono proprio questi i due nemici principali della vita. Ci sembra davvero ingiusto che esistano, e ci sentiamo obbligati a cercare in un modo o nell’altro di tenerli sotto controllo come meglio possiamo; se poi non ci riusciamo subito, vuol dire che ci sforzeremo di fare meglio un’altra volta.
Ci sono dei malati che capiscono ben poco la loro malattia, e spesso muoiono senza mai aver pensato sul serio alla morte. L’anno scorso un mio amico morì di cancro. Sei mesi prima di morire era già evidente che non gli restava molto da vivere. Gli facevano tante iniezioni, fleboclisi e cose del genere che si aveva l’impressione che lo si volesse tenere in vita a ogni costo. Non voglio dire che si facesse male a cercare di guarirlo: voglio dire piuttosto che s’impiegava tanto tempo a tenerlo in vita che non ne restava più per prepararlo alla morte.
Il risultato logico di questa situazione è che ci curiamo ben poco dei defunti. Non facciamo molto per ricordarli, cioè per associarli alla nostra vita interiore.
Ben diverso era l’atteggiamento di Gesù verso la sofferenza e la morte. Egli infatti guardava queste realtà bene in faccia e a occhi aperti. Anzi, la sua vita intera fu una consapevole preparazione alla morte. Gesù non esalta la sofferenza e la morte come cose che dobbiamo desiderare, ma ne parla come di cose che non dobbiamo rigettare, evitare o ignorare.
(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 26-29).
La domanda che ci interroga nel profondo: voi chi dite che io sia?
In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (…).
Gesù interroga i suoi, quasi in un sondaggio d’opinione: La gente chi dice che io sia? E l’opinione della gente è bella e incompleta: Dicono che sei un profeta, uno dei più grandi! Ma Gesù non è semplicemente un profeta del passato che ritorna, fosse pure il più grande di tutti. Bisogna cercare ancora: Ma voi, chi dite che io sia?
Non chiede una definizione astratta, ma il coinvolgimento personale di ciascuno: “ma voi…”. Come dicesse: non voglio cose per sentito dire, ma una esperienza di vita: che cosa ti è successo, quando mi hai incontrato? E qui ognuno è chiamato a dare la sua risposta. Ognuno dovrebbe chiudere tutti i libri e i catechismi, e aprire la vita.
Gesù insegnava con le domande, con esse educava alla fede, fin dalle sue prime parole: che cosa cercate? (Gv 1,38). Le domande, parole così umane, che aprono sentieri e non chiudono in recinti, parole di bambini, forse le nostre prime parole, sono la bocca assetata e affamata attraverso cui le nostre vite esprimono desideri, respirano, mangiano, baciano.
Ma voi chi dite che io sia? Gesù stimolava la mente delle persone per spingerle a camminare dentro di sé e a trasformare la loro vita. Era un maestro dell’esistenza, e voleva che i suoi fossero pensatori e poeti della vita. Pietro risponde: Tu sei il Cristo. E qui c’è il punto di svolta del racconto: ordinò loro di non parlare di lui ad alcuno. Perché ancora non hanno visto la cosa decisiva. Infatti: cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Volete sapere davvero qualcosa di me e di voi? Vi do un appuntamento: un uomo in croce. Prima ancora, l’appuntamento di Cristo sarà un altro: uno che si china a lavare i piedi ai suoi. Chi è il Cristo? Il mio “lavapiedi”. In ginocchio davanti a me. Le sue mani sui miei piedi. Davvero, come a Pietro, ci viene da dire: ma un messia non può fare così.
E Lui: sono come lo schiavo che ti aspetta, e al tuo ritorno ti lava i piedi. Ha ragione Paolo: il cristianesimo è scandalo e follia. Adesso capiamo chi è Gesù: è bacio a chi lo tradisce; non spezza nessuno, spezza se stesso; non versa il sangue di nessuno, versa il proprio sangue. E poi l’appuntamento di Pasqua. Quando ci cattura tutti dentro il suo risorgere, trascinandoci in alto.
Tu, cosa dici di me? Faccio anch’io la mia professione di fede, con le parole più belle che ho: tu sei stato l’affare migliore della mia vita. Sei per me quello che la primavera è per i fiori, quello che il vento è per l’aquilone. Sei venuto e hai fatto risplendere la vita. Impossibile amarti e non tentare di assomigliarti, in te mutato / come seme in fiore. (G. Centore).
(Ermes Ronchi)
“E voi, ciascuno di voi, chi dite che io sia?”
È facilissimo dare a Gesù un’identità secondo i nostri desideri ed è anche facile giungere a dire chi lui è, ma è molto più difficile accettare che sia lui a spiegare e a dire la propria identità. Il brano evangelico di questa domenica vuole proprio interrogarci sulla nostra fede-adesione conoscitiva a Gesù. Ascoltiamolo dunque.
Gesù nel suo ministero, con la sua parola autorevole, con il suo comportamento e con le azioni di liberazione dal male che compiva, destava domande sulla sua identità: “Che è mai questo?” (Mc 1,27); “Chi è mai costui?” (Mc 4,41); “Da dove gli vengono queste cose? E che tipo di sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria?” (Mc 6,2-3).
Vi erano giudizi su di lui: veniva definito bestemmiatore (cf. Mc 2,7), “pazzo, fuori di sé” (Mc 3,21), posseduto dal demonio (cf. Mc 3,22). Vi erano, infine, anche urla di demoni che, scacciati da Gesù, gli gridavano: “Tu sei il Santo di Dio” (Mc 1,24), “il Figlio del Dio Altissimo” (Mc 5,7).
Sono dunque i demoni che sanno esprimere la vera identità di Gesù, con la loro conoscenza sovrumana, mentre gli uomini non sanno o sanno poco. Al massimo arrivano a pensare che sia un profeta mandato da Dio (cf. Mc 6,15), perché compie i segni di Elia e di Eliseo, perché parla come gli antichi profeti, con la loro franchezza e autorevolezza, dovuta al fatto che dice quello che pensa e che vive, senza ipocrisie e senza vantare autorità acquisite per qualità sacerdotale o professionale.
Queste si acquisivano per appartenenza a una discendenza o per aver frequentato una scuola rabbinica, come quelle di Gerusalemme o di Tiberiade. Ma Gesù non può vantare nulla di tutto ciò: dunque, chi è in verità?
Egli approfitta di un viaggio insieme alla sua comunità fuori della terra santa, in una regione sirofenicia e pagana, alle pendici dell’Hermon, presso le sorgenti del Giordano, per chiedere ai discepoli la loro opinione su di lui. È Gesù stesso a interrogarli, nei dintorni di Cesarea di Filippo (la città che porta il nome di Cesare, il potente dominatore di questo mondo!), innanzitutto chiedendo che cosa la gente dice di lui.
Essi lo sanno, perché quanti non osavano avvicinare Gesù potevano parlare con loro, manifestando opinioni sul loro rabbi. I discepoli, in risposta, riferiscono a Gesù l’opinione più diffusa: la gente pensa che egli sia un uomo autorevole, un profeta, così simile al Battista suo maestro ucciso da Erode (cf. Mc 6,17-29), al punto da pensare che quest’ultimo fosse risuscitato dai morti (cr. Mc 6,16); oppure lo paragonano a Elia, il profeta degli ultimi tempi. In ogni caso, è percepito come un profeta.
Gesù però non si ferma a questa prima domanda, e pone loro quella seria e decisiva: “E voi, ciascuno di voi, chi dite che io sia?”. Questa domanda esige che i discepoli si chiedano se anche loro seguono l’opinione comune, ciò che quasi tutti pensano, oppure se hanno un proprio pensiero. Certamente tra i discepoli gli stessi Dodici non la pensavano tutti allo stesso modo.
Per Marco è però importante la dichiarazione di Pietro, colui che tra i Dodici teneva il primo posto. È lui – e non a nome di tutti, o come portavoce, ma personalmente – a proclamare: “Tu sei il Cristo, il Messia!”. Pietro dice che Gesù è più di un profeta, è l’inviato di Dio, unto dal Signore per stabilire il regno di Dio. Quella di Pietro è una vera confessione di fede, nella sua espressione teologica, perché Gesù è veramente il Cristo, il Messia (come appare fin dal primo versetto del vangelo secondo Marco), e questo sarà il suo titolo più importante per i giudei, per Israele.
E tuttavia l’evangelista non mette in bocca a Gesù parole che confermino tale confessione, che dicano un “amen” un “sì” a Pietro (come invece in Mt 16,17-19). Nel vangelo più antico questa confessione è accolta da Gesù nel silenzio e con l’imposizione del silenzio, perché era vera, ma poteva essere insufficiente, dunque doveva essere messa alla prova.
Ed è ciò che puntualmente avviene subito dopo. Non appena Pietro ha confessato la sua fede di giudeo credente, in attesa del compimento della promessa di Dio, ecco che Gesù può iniziare un insegnamento nuovo rispetto a quello della tradizione. Per questo “incominciò” (érxato) a dire che egli, Messia sì, ma – come amava definirsi – Figlio dell’uomo, “doveva soffrire molte cose, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”.
Ecco l’insegnamento nuovo e scandaloso, ma fatto apertamente da Gesù. E allora Pietro che, insieme agli altri Undici, stava dietro a lui (opíso autoû), secondo l’usanza dei discepoli nei confronti del loro rabbi, accelera il passo, gli si pone davanti, lo precede e lo rimprovera. Per Pietro è impossibile un Messia che non trionfi, che non sia vittorioso sui nemici, un Messia rigettato dalle autorità legittime della comunità dei credenti di Israele, un Messia che subisca una morte violenta. E poi, cosa significa questo rialzarsi il terzo giorno?
Gesù allora può solo rispondergli: “Passa dietro a me (opíso mou), alla mia sequela, al tuo posto di discepolo”, e lo definisce “Satana”, cioè oppositore, avversario: a Pietro viene dato il nome del demonio! È facile dire a Gesù che egli è il Cristo, il Messia, ma è impossibile accettare un “Messia al contrario”, un Messia sofferente sconfitto; si tratta davvero di un insegnamento nuovo, e Pietro non è pronto ad accoglierlo…
Mosè era morto “sulla bocca di Dio” (Dt 34,5), Elia era stato da Dio assunto in cielo (cf. 2Re 2,1-18), e invece proprio il Messia deve subire violenza, condanna, rifiuto? Non può essere, pensa Pietro… E invece è così – dice Gesù – e in effetti così è stato.
Un abisso separa il piano, la volontà di Dio dai pensieri degli umani (cf. Is 55,8-9), anche dai nostri, dai miei! In verità è tanto facile acclamare Gesù come Cristo, cantarlo e invocarlo; ma accettarne la fine ignominiosa, il fallimento della missione, è scandalo, inciampo, è quasi impossibile per le nostre attese religiose.
E poi, al pensiero che dietro a un tale Messia, maestro e profeta si è coinvolti nella sua vicenda, allora siamo presi da paura e preferiamo non credere, non conoscere la vera identità di Gesù. E così siamo cristiani non del Vangelo, ma del campanile; cristiani culturalmente, non perché seguiamo Gesù; cristiani pii e devoti, ma lontani dall’ombra della croce.
(Enzo Bianchi)
Rinnega se stesso chi ama se stesso
Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […]
«Rinneghi se stesso».
In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.
Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.
(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).
La segnaletica del Calvario
Sulle grandi arterie, oltre alle frecce giganti collocate agl’incroci, ce ne sono altre, più piccole, che indicano snodi secondari. Ora, per noi che corriamo distratti sulle corsie preferenziali di un cristianesimo troppo accomodante e troppo poco coerente, quali sono le frecce stradali che invitano a imboccare l’unica carreggiata credibile, quella che conduce sulla vetta del Golgota? Ve ne indico tre.
La freccia dell’accoglienza. E una deviazione difficile, ma che porta diritto al cuore del Crocifisso. Accogliere il fratello come un dono, con tutti i suoi bagagli, compreso il bagaglio più difficile da far passare alla dogana del nostro egoismo: la sua carta d’identità! Sì, perché non ci vuole molto ad accettare il prossimo senza nome, o senza contorni, o senza fisionomia. Ma occorre una gran fatica per accettare quello che abita di fronte a casa mia. Il cristianesimo è la religione dei nomi propri, dei volti concreti, del prossimo in carne e ossa con cui confrontarsi, non delle astrazioni volontaristiche.
La freccia della riconciliazione. Ci indica il cavalcavia sul quale sono fermi, a fare autostop, i nostri nemici. E noi dobbiamo assolutamente frenare. Per dare un passaggio al fratello che abbiamo ostracizzato dai nostri affetti. Per stringere la mano alla gente con cui abbiamo rotto il dialogo. Per porgere aiuto al prossimo col quale abbiamo categoricamente deciso di archiviare ogni tipo di rapporto. E sulla rampa del perdono che vengono collaudati il motore e la carrozzeria della nostra esistenza cristiana.
La freccia della comunione. Al Golgota si va in corteo, come ci andò Gesù. Non da soli. Pregando, lottando, soffrendo con gli altri. Non con arrampicate solitarie, ma solidarizzando con gli altri che, proprio per avanzare insieme, si danno delle norme, dei progetti, delle regole precise, a cui bisogna sottostare da parte di tutti. Se no, si rompe il tessuto di una comunione che, una volta lacerata, richiederà tempi lunghi per pazienti ricuciture.
(Don Tonino Bello)
Canto alla croce
Ama la croce, luce e pace,
e per essa, ormai,
Cristo sia il tuo signore!
Tracciala su di te con la mano:
essa ti tiene e tu la tieni
con tutto il tuo essere.
Il cuore in croce, la croce nel cuore,
liberato da ogni bruttura,
calmo e sereno;
che ben forte la croce amatissima
dalle tue labbra sia proclamata:
lodata senza fine.
Nel riposo, nella fatica,
quando ridi e quando piangi,
conserva ben stretta
– quando vai, quando vieni,
nelle gioie, nei dolori –
la croce nel cuore!
(San Bonaventura)
Il dubbio, la verità e Cristo
Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiani e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.
(F. Dostoevskij)
Preghiera
Concedimi, Gesù benignissimo, la tua grazia,
la quale sia con me e con me lavori e con me sino alla fine perseveri.
Dammi di desiderare e volere solo quello che è a te più accetto e più caramente piace a te.
Fa’ che la tua volontà sia la mia, e la mia volontà segua sempre la tua e concordi con essa a perfezione.
Che io abbia un unico volere e non volere con te; e che possa volere o non volere se non ciò che tu vuoi o non vuoi.
Dammi di morire a tutte le cose che sono nel mondo, e per te d’essere sprezzato e ignorato in questa vita.
Dammi sopra ogni cosa desiderata, di riposare in te e pacificare in te il mio cuore.
Te, vera pace del cuore, solo riposo, fuor di te ogni cosa è dura e inquieta.
In questa pace – cioè in te solo, sommo, eterno bene – dormirò e riposerò. Così sia.
(L’imitazione di Cristo, III, 15).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Serrano
PER L’APPROFONDIMENTO: