La Chiesa che conversa con gli uomini del suo tempo

«La Chiesa italiana attraversa diversi e non semplici problemi ma credo anche che vanti una prerogativa importante: è una Chiesa ricca di spiritualità e di carità per i poveri. E penso che è da qui che dobbiamo ripartire». In questo esordio di una lunga chiacchierata, che in un pomeriggio di fine estate ci ha concesso il neo presidente della Conferenza episcopale italiana, c’è non solo la sintesi estrema del suo programma di lavoro ma anche i tratti principali della personalità del cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi: una decisa positività che è figlia della sua curiosità intellettuale e della speranza cristiana.

Cominciamo dal Sinodo: si può dire che la partecipazione e i risultati della fase dell’ascolto diocesano siano stati inferiori alle aspettative? In un Sinodo chiamato a discutere di sinodalità, cioè dell’essere Chiesa, spesso è prevalso tra i laici un atteggiamento ancora delegante e tra i preti una qualche diffusa diffidenza.

Sì, è vero. Ma penso anche che proprio questa fatica del cammino sinodale sia paradossalmente segno della necessità e urgenza della prassi sinodale. Perché ci si mette in cammino quando se ne avverte l’esigenza, quella di Cristo che non aspetta, chiama e invia. Questo appuntamento avviene in un momento particolare nella vita della Chiesa e del mondo, cioè nello scorcio finale (si spera) di una pandemia che ha sconvolto le nostre vite, ha cambiato le nostre abitudini, anche religiose, ha svuotato le chiese, ha inciso profondamente sul nostro sentimento religioso, sul nostro essere comunità, e financo sul nostro modo di pregare. Non scordiamoci che nelle nostre intenzioni iniziali questo cammino prevedeva anche dei compagni di viaggio esterni al nostro mondo abituale; non il solito 5 per cento ma quel 95 per cento che ci guarda ma non cammina con noi, e il tempo recente che abbiamo vissuto non c’è stato certo d’aiuto nel progetto. Dobbiamo ripartire da due domande: perché camminare e perché camminare insieme ad altri compagni di viaggio. E questo richiede una grande passione. L’immagine biblica di riferimento è Matteo, 9, 35: «Gesù percorreva tutte le città e i villaggi insegnando nelle loro sinagoghe e predicando il Vangelo del Regno, […] e vedendo le folle ne ebbe compassione perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore», e manda due a due i suoi; e Dio sa quanta stanchezza e sfinitezza c’è ora nel mondo. Anche oggi Dio ci chiama e ci manda. Non giudica, non rimprovera: manda noi! E se aspettiamo, quella sofferenza non incontra la gioia e la luce del Vangelo! Perché “camminare insieme” non è un dibattere insieme, ma aderire alla chiamata, cioè alla vocazione missionaria della Chiesa. La missione però non è un evento dimostrativo per poi accontentarci di rintanarci nelle trincee di sempre. È costitutiva dell’essere discepoli di Gesù. Capire le domande che ci vengono incessantemente dal mondo ci aiuta a vivere la compassione di Gesù, che è partecipazione interiore, condivisione. La pandemia (e con la pandemia della guerra) ci ha investito di tanta sofferenza: la scoperta della vulnerabilità e finitudine umana, le domande sull’Oltre da noi hanno incontrato quella che viene chiamata la “depressione escatologica”, l’incapacità del mondo di pensare e di parlare del futuro. Dobbiamo sì camminare insieme, ma guardando con lo sguardo di Gesù alle stanchezze e fragilità. Saper guardare e interpretare le doglie della creazione, che sono non solo la pandemia, ma anche la guerra, la rovina dell’ambiente, il degradare delle relazioni interpersonali e sociali. Non per lamentarci ma per cogliere quanto c’è comunque di generativo nelle sofferenze dell’oggi.

La passività delegante dei laici è comunque figlia di un’educazione religiosa lacunosa da parte del clero in tema di sinodalità. E spesso i preti hanno interpretato la sinodalità come una cessione di loro prerogative. Viene da pensare che la crisi della Chiesa, più che da imputare alla “secolarizzazione montante” abbia un’origine endemica.

Sono molto d’accordo sulla necessità di non continuare ad agitare la secolarizzazione come causa di tutti i nostri mali. Non è un giorno che viviamo ormai in un ambiente secolarizzato; il tema è semmai quello di saper accogliere le domande che oggi ci pone l’uomo secolarizzato, l’uomo “psicologizzato”, l’uomo che ha subito profonde e rapide mutazioni antropologiche. Molti di noi continuano a coltivare qualche nostalgia della “cristianità”, anche perché sono cresciuti e formati – religiosamente e civilmente – nell’idea di cristianità. Così rischiamo sempre di tornare a una logica di controllo, di numeri, di presenze, di rapporti di forza. Benedetto XVI parlava profeticamente di una “minoranza creativa” e Papa Francesco sviluppa ulteriormente parlando con tutti, facendoci capire che tutti ci appartengono. Sicuramente parte della Chiesa fa fatica a seguire questa prospettiva, perché resiste un’autocoscienza ideologizzata ed esclusiva. Basti pensare all’autocoscienza di una comunità parrocchiale, che spesso appare confusa, fragilizzata, se non – per usare un termine oggi un po’ abusato – autoreferenziale. Per questo penso che il Sinodo sia una straordinaria opportunità affinché la Chiesa recuperi una forte passione, come Papa Francesco, a parlare a tutti. In realtà non si tratta di innovare radicalmente lo stile ecclesiale, ma semplicemente mettere in pratica e declinare le intuizioni che sessant’anni fa già propose il Concilio Vaticano II . Malgrado le turbolenze post conciliari da un lato e le chiusure preconcette di quegli anni, oggi possiamo trarre efficacemente dai testi dei padri conciliari il giusto percorso da camminare insieme.

Rimaniamo sul tema dell’ascolto che lei ha giustamente posto come questione centrale del camminare insieme. Le domande da ascoltare sono tuttavia molto diverse dal passato. Dai tempi del Concilio a oggi è intervenuto un cambiamento epocale, che non è solo culturale, non è solo la globalizzazione, la digitalizzazione o la psicologizzazione delle relazioni. Ma è il cambiamento antropologico. L’essere umano non si sottrae all’evoluzione. L’uomo e la donna di oggi sono molto diversi da quelli su cui abbiamo costruito buona parte del pensiero teologico. Ontologicamente, se si può dire, diversi.

Questa è una questione importantissima che dobbiamo urgentemente affrontare. Senza rimpianti per il passato e senza fughe in avanti. Dobbiamo allora con coraggio comprendere l’antropologia, i cambiamenti già intervenuti e quelli che una rapidità vanno prospettandosi. E poi, con altrettanto coraggio, porci la domanda sul perché la bellezza umana dell’essere cristiani non attrae e quella sul “che fare?”. Tanti si sentono giudicati e non amati, così non facciamo né l’uno né l’altro. L’interferenza di questi cambiamenti con la sfera della morale fin qui proposta è evidente. Si pensi per esempio a come le scoperte delle neuroscienze incidono sulla nostra tradizionale idea di volere, e di libero arbitrio. O pensate alle questioni riguardanti i generi e la loro fluidità. Temi sui quali fatichiamo perché ci troviamo innanzi non più un’alterità di pensiero, una contrapposizione, ma un comune sentire, e una conseguente pratica. È saltata completamente l’idea del limite, l’idea che non ti evolvi se non moltiplicando le esperienze, sperimentando tutto e cambiando a piacimento le interpretazioni del reale. Lo stesso vale per le modifiche antropologiche derivate all’uomo digitale. Ma non possiamo certo limitarci a una sfilza di “no”. Dobbiamo piuttosto impegnarci a costruire il profilo attuale del cristiano, cioè dell’uomo evangelico, che è quello di sempre ma che deve parlare all’uomo di oggi. E poi non dimentichiamo che Dio è sempre più intimo a noi stessi. E non solo ci conosce ma ci insegna a conoscerci. Meglio di così!

Il nostro sistema di pensiero, filosofico e teologico, difetta spesso di una certa “fissità” del concetto di uomo. E di donna. Che invece sono esseri sempre dinamici, in continua evoluzione.

Assolutamente sì. Non c’è dubbio. Pensate per esempio a quanta porzione delle nostre capacità intellettive – a cominciare dalla memoria – sono state già trasferite nei devices elettronici, che ormai sono delle protesi dell’umano. È certo che anche questo cambia, e cambierà profondamente l’essere umano per come lo conosciamo. Il tema, sicuramente non facile, è di chiederci cosa può ancora oggi suggerire l’antropologia cristiana al mutato e mutante uomo di oggi. Per esempio: prevale oggi un concetto di benessere che alla resa dei conti non sembra fornire una felicità duratura, piuttosto un effetto narcotizzante. E lo stesso può dirsi per la costante sospinta all’esaltazione dell’“io”, che è funzionale ai consumi e non alla buona vita. O alla medicalizzazione costante che è esorcizzazione della fragilità dell’umano. Il cristiano è un uomo felice. Papa Francesco ce lo ricorda con insistenza, proprio perché è il primo modo di parlare del Vangelo. Ed è un uomo comunitario, fa parte di una famiglia e non un’isola o una monade che sperimenta tutto e non resta con nessuno.

In effetti, come osservava il cardinale Martini, abbiamo medicalizzato i due momenti più importanti della vita, inizio e fine. Si nasce e si muore in ospedale.

Sicuramente c’è una rimozione della vulnerabilità. Questo potrebbe voler dire che per l’uomo di oggi la vita bella è così com’è, hic et nunc: è questa, punto e basta, a volte con amaro fatalismo, a volte con arroganza prometeica e un po’ incosciente. Il cristiano, differentemente, vede e si rende conto della sofferenza che agita tutta l’esperienza umana, dall’inizio alla fine, la sua e quella degli altri e la interpreta, la elabora in compassione e fraternità. Il cristiano è colui che, accogliendola, trasforma quella realtà, quella sofferenza, in una richiesta. Papa Benedetto aveva dato un nome alle conseguenze di questo compiacimento dell’esistente: desertificazione spirituale. Ai tempi del Concilio si era espressa una convinzione, che era anche una speranza, che l’uomo si fosse finalmente reso consapevole dei propri limiti, che rifiutava la sopraffazione, l’odio, la guerra, e quindi preparava a un futuro migliore. Pensate al discorso di Giovanni XXIII sui profeti di sventura dell’11 ottobre 1962 all’apertura del Concilio, in cui li tacciava di non comprendere l’anelito irrevocabile di pace che saliva dagli uomini. Oggi dopo sessant’anni ci ritroviamo di nuovo tutti molto sofferenti, circondati da dinamiche che Papa Francesco non esita a chiamare da “terza guerra mondiale”; stiamo sperimentando di nuovo i veleni della violenza, della sopraffazione, dell’odio. Anche tra fratelli. Anche nella Chiesa. Prevalgono disillusione e disincanto. Il mondo digitalizzato e individualizzato alimentano le polarizzazioni. Manca invece l’unica risposta possibile: la compassione, cioè una lettura esistenziale ed esperienziale che aiuti, ci aiuti a ritrovarci.

Il cambio al vertice della Cei è stato anche un’occasione di verifica dello stato di salute della Chiesa italiana.

Devo dirvi che sono contento che questo passaggio tra il cardinale Bassetti e me coincida con il cammino sinodale. In qualche modo la verifica che richiamate è il Sinodo. Perché è un guardarsi, un capirsi non come un circolo chiuso ma come popolo. Che vuol dire essere cristiano oggi? Cosa mi chiede la Chiesa di essere? Non sono domande a cui possiamo rispondere in privato, garantiti da un facile spiritualismo alla moda. Perché ha ragione Papa Francesco: i due pericoli sempre incombenti sono gnosticismo e pelagianesimo, che relegano la religione nella dimensione individuale. Il cammino insieme invece può creare molta autocoscienza delle difficoltà, degli errori, dei limiti, aiutarci a capire che sono delle opportunità, delle potenzialità per la comunicazione del Vangelo. Ecco, per questo dobbiamo individuare quali sono oggi le vere priorità della Chiesa italiana, per non correre dietro a falsi problemi o a temi che oscillano sul confine dell’autoreferenzialità. Il documento di sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo va preso come un punto di partenza, che richiede ancora molto lavoro nel senso della specificazione, di comporre la pluralità delle idee per superare quel disincanto che dicevamo prima. Non basta solo esortare alla conversione ma cambiare camminando.

Ancora sulla Chiesa italiana: alcuni dati statistici, circa i matrimoni civili o la frequenza sacramentaria, sembrerebbero dire che si allarga anche in campo ecclesiale una forbice tra Nord e Sud.

Mah, la forbice c’è sempre stata, e la forza della secolarizzazione della società italiana mi sembra pervasiva in ogni dove, anche se le forme in cui si manifesta sono poi abbastanza diverse nelle diverse regioni del Paese. Però, lasciatemi dire, se è vera l’immagine della desertificazione spirituale, ci deve essere anche l’acqua. Il deserto in quanto tale esprime la sete, il bisogno – e la ricerca – dell’acqua. Se c’è il deserto significa anche che c’è una nuova ricerca di acqua. Dobbiamo guardare alla sete, non lamentarci del deserto. Soddisfare questa sete significa spiegare, e ancor più mostrare, com’è vivere da cristiani oggi. Perché ne vale la pena, e dona più soddisfazioni del protagonismo digitalizzato imperante o dell’essere meri spettatori di un mondo nel quale è sempre più difficile relazionarsi. C’è un’agiografia francescana che racconta della prima predicazione di san Francesco nella mia diocesi, esattamente ottocento anni fa, e dice come san Francesco non sembrava che predicasse perché in realtà conversava in un dialogo aperto coi bolognesi. Questo è il modello della nostra presenza nel mondo; esserci, parlare al cuore, tessere relazioni e fare sentire la presenza di Cristo.

Eppure la Chiesa italiana, per dirla con Giuseppe De Rita, ha un problema di “postura”. Come anche voi scrivete nel documento di sintesi del percorso sinodale, di fronte ai tanti temi su cui è chiamata a dire la sua – povertà, cultura dello scarto, pace, giustizia sociale, lavoro, giovani ed educazione – appare come afona, balbettante. Come si fa allora a conversare?

Abbiamo fatto la nostra scelta di conversare e quindi innanzitutto abbiamo deciso di ascoltare. Abbiamo impegnato questi due anni all’ascolto. Gli esiti certamente sono controversi, probabilmente perché noi preti siamo più abituati a rispondere che a domandare, più propensi a definire, circoscrivere, dare certezze, spiegare chi siamo, a parlare sopra che ascoltare. Il tema invece è quello di saper raccogliere quanto la realtà intorno a noi ci propone, come dice Papa Francesco “farci schiaffeggiare dalla realtà”. Mi viene in mente, per fare un esempio tra i tanti, il giudizio che don Giussani dette di Pierpaolo Pasolini. Due mondi di provenienza che più lontani non si può immaginare. Eppure Giussani non ebbe esitazioni ad accogliere e ad appassionarsi del pensiero di Pasolini, fino ad attribuirgli il ruolo di maestro. Occorre avere sempre un atteggiamento accogliente e non giudicante, mentre veniamo spesso identificati come aprioristicamente giudicanti, anche quando magari non lo siamo. Ma perché veniamo considerati giudicanti? Intanto perché, diciamolo, troppo spesso abbiamo un’ossessione a giudicare, perché sentiamo che se non lo facessimo non adempiremmo al nostro ruolo. C’è dentro di noi uno zelo che ci porta a difendere la trincea della verità. Pensiamo che questo sia il nostro essenziale compito e che questo significhi seguire il Vangelo. Ma non è così. Perché certo il Vangelo è la verità ma è ben diverso dall’atteggiamento farisaico, il quale comunica la Legge, mentre a noi il Vangelo chiede di comunicare l’Amore. Dirti la legge è condannarti. Non possiamo usare il Vangelo come una clava. La misericordia, l’ascolto non giudicante, l’attenzione pastorale non sono cedevolezze. Poi certo sono consapevole che c’è anche il rischio di inseguire le filosofie del mondo. Ma con queste il discrimine è molto netto: loro esaltano l’Io, noi ragioniamo solo in termini di Noi. La Chiesa non corre dietro all’Io.

Il Noi si sostanzia innanzitutto nell’impegno politico. La Chiesa italiana nei primi quarant’anni della storia repubblicana ha fatto politica. Politica con la P maiuscola ovviamente, non la politique politicienne. E l’efficacia è stata notevole, soprattutto per la funzione di collante tra spinte diverse, di mediazione culturale. Poi con la fine della prima Repubblica e la scomparsa del partito dei cattolici si disse che il ruolo dei cattolici sarebbe stato quello, in entrambi i poli, di influenzare la politica sui valori cristiani. Oggi sembrerebbe essere accaduto il contrario: è la politica che influenza i cattolici. La divisione politica precede ogni altra distinzione tra cattolici.

Intanto c’è da dire che la polarizzazione è oggi la cifra di tutta la società. E i cristiani non sono estranei alla società. La polarizzazione regna sovrana su tutti i temi, grandi e piccoli. Credo che questa sia la risposta istintiva e semplificante alla complessità del mondo in cui viviamo. Aderisci, ma non pensi. Schierandoti non hai bisogno di farti molte domande. Noi dobbiamo invece affrontare la complessità senza timore, porci domande, soprattutto quelle che riguardano il “chi” , cioè ponendo al centro la persona. Questa è la via della semplicità e non della semplificazione. L’altra cosa, che giustamente rilevate, è guai ad avvelenare con la logica politica le relazioni ecclesiali! Non è un fenomeno solo italiano; penso per esempio alla forte polarizzazione politica rappresentata nella Chiesa americana. Ma laddove la politica ha usato categorie pseudo-teologiche o spirituali per inquinare la vita ecclesiale alla fine hanno perso tutti. Dobbiamo fare molta attenzione su questo aspetto. E non solo per le strumentalizzazioni esterne quanto per le divisioni interne. Guai a cadere nelle trappole a esempio delle finte contrapposizioni tra sociale e spirituale, o alle divisioni, spesso artificiose, sui temi etici. Sui temi etici non possiamo limitarci a ripetere le lezioncine del passato, ma dobbiamo trovare nuove parole per nuove domande. Con molta franchezza: se sui temi etici il mondo va da un’altra parte vuol dire certo che non dobbiamo omologarci o dire quello che il mondo vuole sentirsi dire ma sapere dire le verità di sempre nella cultura o nelle categorie di oggi. Questa è la sfida ed è tutt’altro che cedevolezza ma responsabilità, altrimenti ripetiamo una verità diventata dura da accettare. Pensiamo al discorso sulla famiglia: non abbiamo ancora saputo fare qualcosa di meglio di quanto proposto dalla secolarizzazione. Paolo VI e Mazzolari lo dicevano già ai loro tempi: tanti sono lontani e il problema non sono loro, siamo noi! C’è in loro una domanda, implicita, di una Chiesa più evangelica, più madre e per questo esigente e coinvolgente, che non fa la matrigna e dice: «Te lo avevo detto io».

Su questo aspetto il debito di ascolto maggiore è forse nei confronti delle donne. Le donne che sono sempre state il pilastro fondante della Chiesa. E oggi invece registriamo che la categoria sociale che più tende ad allontanarsi sono le giovani donne. Anzi, registriamo frequentemente che le giovani donne sono proprio “arrabbiate” con la Chiesa.

Sì, lo confermo. E posso aggiungere che questo nasce essenzialmente dal non sentirsi ascoltate. E qui il tema da approfondire è come si ascolta. Noi preti, troppo spesso, coltivando tanti rapporti, ascoltiamo solo con le orecchie. Ricordo, quando ero parroco a Santa Maria in Trastevere, una volta una giovane donna trasteverina mi apostrofò: “A’ don Matte’, ma me stai a senti’?”. “Ma io te sento!”. “No, tu stai a pensa’ a li fatti tua”. Ascoltare non significa fare rilevazioni sociologiche a campione, ma esercitare l’empatia che è generata dalla vera passione per l’altro.

Rilevava di recente il sociologo Mauro Magatti che, a dispetto di chi celebra ogni giorno la fine della religione, le religioni sono quanto mai al centro delle vicende del mondo, soprattutto in senso negativo, nelle contrapposizioni. Il fondamentalismo islamico continua a ispirare violenza in molti paesi, risorge in Europa un sentimento antisemita, in America, come dicevamo, la religione è tra i principali strumenti di scontro politico, o perché strumentalizzata o perché ostracizzata, e anche qui da noi il sovranismo agita impropriamente simboli e temi religiosi. La religione dunque sembra avere un suo spazio ma solo come strumento di divisione.

Beh, è quello che dicevamo anche prima. La polarizzazione come risposta (falsa) alla complessità. E sicuramente la polarizzazione usa le religioni perché ancora oggi possono smuovere grandi passioni. Ma la risposta ce la dà ancora una volta Papa Francesco con Fratelli tutti che non è solo una profonda e innovatrice esplicitazione teologica della fratellanza evangelica, ma è anche il manifesto di un nuovo umanesimo civile. Direi anche l’unico nell’attuale contesto mondiale. Dobbiamo essere capaci di diffondere una parola di “fratellanza necessaria” all’uomo di oggi, una parola che si dimostri migliore e più attraente dell’individualismo consumistico. Una parola che non teme di proporre la porta stretta anziché la porta larga. Perché la porta stretta? Perché quella larga conduce a una felicità effimera e ingannevole. Non dà soddisfazione definitiva, e infatti l’infelicità è oggi quanto mai diffusa. La porta stretta è quella del “noi”, è quella della consapevolezza -per citare ancora Papa Francesco – che, credenti o meno, “non ci si salva da soli”. Dobbiamo far crescere ovunque la comunione. Comunione significa lo stare insieme, l’amicizia. Dobbiamo dire con più forza che la Chiesa è una famiglia. Quelli accanto a noi a messa non sono dei soci, sono dei fratelli, parenti di una stessa famiglia. E non basta dirlo, bisogna viverlo. Il senso dei ministeri a cui siamo chiamati, laici e preti, lo trovi solo nella comunione. I nuovi ministeri istituiti, aperti anche alle donne, saranno un passaggio decisivo nella costruzione di un’architettura di comunione. Ma attenzione che siano risposte “sostenibili”, cioè dalla valenza spirituale e non solo strutturale, funzionale. Pensando all’interesse suscitato da queste nuove ministerialità, vorrei tornare su quanto dicevo all’inizio: la Chiesa italiana è viva, e ha voglia di vivere. Perché è dotata di spiritualità. E perché è immersa nel sociale.

In questa nostra chiacchierata ha citato spesso il termine conversazione spirituale. Cosa intende precisamente?

Direi semplicemente che è un parlare cominciando da se stessi (non dall’altro) presentandosi non in chiave materiale, funzionale, ma appunto spirituale. Cioè di come la mia vita è improntata da un senso. E questo vale tanto per i laici che per i preti. Conversare non è un mestiere, è un mettersi in gioco.

Un’ultima domanda su una questione che ci sta a cuore, perché viene da un’esperienza che anni fa abbiamo fatto insieme: siamo stati insegnanti di religione nei licei, tutti e tre.

Ah già, e ho un ricordo molto bello del tempo in cui ho insegnato religione. Era ancora obbligatorio ed era una sfida ogni volta, ma appassionante.

Malgrado le chiese sempre più vuote, e le pratiche sacramentali in disarmo, l’ora di religione continua a essere scelta da una grande maggioranza di studenti. Per un solo giovane che frequenta una parrocchia ci sono cinquanta giovani che fanno religione a scuola. È la vera “Chiesa in uscita”. Eppure, le diciamo con franchezza, abbiamo la percezione che la sensibilità dei vescovi italiani su questo fronte sia un po’ bassa.

Sì, è un tema che merita una riflessione seria e approfondita. Perché l’ora di religione può essere molto importante per il futuro della Chiesa in Italia. C’è bisogno dell’insegnamento della religione per capire il mondo dove siamo, le nostre radici. Ci serve un’alleanza con i laici – anche atei – che ben comprendono l’importanza della conoscenza religiosa in un sistema culturale, come quello italiano, profondamente permeato dal fatto religioso. Farlo penso sia la migliore difesa dagli estremismi. Continuo spesso a dire: come si può capire veramente Manzoni, o Dante, o la storia dell’arte, o buona parte della filosofia, senza avere una formazione culturale (non catechetica) religiosa di base? In questo discorso aggiungerei un ulteriore argomento: a scuola si fanno due ore a settimana di educazione fisica, ma non c’è neanche un’ora di educazione spirituale. Una contraddizione della più elementare antropologia. Sarebbe bello se i giovani potessero imparare a conoscere se stessi come soggetti spirituali.

 

di ANDREA MONDA
e ROBERTO CETERA

03 settembre 2022 – L’Osservatore romano

Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità “Dall’inclusione all’appartenenza”

Abbiamo il piacere di informarvi che venerdì 3 dicembre 2021 dalle 18:00 alle 19:30, presso il teatro Mitreo in Roma, si terrà l’evento Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità “Dall’inclusione all’appartenenza”.

In allegato la locandina per ulteriori dettagli sull’evento.

L’evento, sarà trasmesso in diretta sui canali Youtube e Facebook della Conferenza Episcopale Italiana, accessibile in LIS e con servizio di sottotitolazione.

Grati dell’attenzione e a disposizione per ogni evenienza, vi salutiamo cordialmente.

 

LOCANDINA

 

“Offrire antidoti di speranza e alleanze educative”

Il messaggio del Consiglio nazionale Fidae riunito a Trento: le scuole cattoliche laboratori di futuro e di cittadinanza
31 Agosto 2021

“#insiemefuturiamo perché le scuole cattoliche, per vocazione”, sono chiamate a “offrire antidoti di speranza”, si legge ancora nel Manifesto approvato oggi dalla Fidae, a conclusione del Consiglio nazionale a Trento (27-30 agosto). “Futureremo”, prosegue il documento, se “costruiremo laboratori di futuro” ascoltando “i linguaggi dei giovani, dei loro genitori, prestando attenzione a tutto ciò che può aiutare gli attori della scuola a diventare onesti e responsabili cittadini del villaggio globale”.

Ma occorrerà anche rigenerare “la qualità della cura educativa privilegiando il dialogo con le famiglie dei nostri allievi, perché all’eccellenza e all’affidabilità delle nostre proposte educative corrisponda la condivisione di tutta la comunità educante”, e creare “alleanze per un coinvolgimento di tutti in un ampio villaggio dell’educazione che cambi il mondo continuando a costruire reti a livello provinciale, regionale, nazionale affinché gli adulti, prendendo coscienza della singolarità della fase della loro vita, possano essere testimoni qualificati, delle pietre miliari che sempre risplendono nella costruzione della civiltà umana”.

Nonostante le difficoltà del tempo presente, “anche in relazione a una non sempre reale comprensione della legge della parità”, fare scuola si traduce, per gli estensori del Manifesto, in 3 P: “Patto globale (formazione per l’insegnamento dell’educazione civica; educazione al volontariato, educazione ambientale, pastorale scolastica nella scuola); progettare insieme il futuro (outdoor education; leadership condivisa, sistemi didattici innovativi, erasmus plus, avanguardia educativa); prendersi cura (inclusione, peer education, scuola come luogo di felicità)”.

Leggi anche:

https://www.agensir.it/quotidiano/2021/8/30/scuole-cattoliche-fidae-spirito-di-comunione-stile-di-cura-della-persona-orientamento-alla-trascendenza-humus-della-civilta-dellamore/

https://www.agensir.it/quotidiano/2021/8/30/scuola-kaladich-fidae-ripartiamo-dal-patto-globale-per-prenderci-cura-e-progettare-insieme-il-futuro/

Sir, 30 agosto 2021

(foto da vita trentina.it)

Quale futuro per le comunità cristiane?

Prima di entrare nell’argomento, è fondamentale fare una breve premessa di metodo.

Nell’affrontare questioni delicate come quella del futuro della Chiesa e del cristianesimo, è essenziale una sana dose di realismo. Stiamo vivendo una profondissima crisi e ciò è innegabile per uno che legga onestamente i dati.

Come si reagisce di fronte a questa scena? Da una parte (la maggioranza), tende a rimuovere il problema, dedicandosi ad altre questioni ritenute più urgenti e non accorgendosi che questa crisi potrebbe essere micidiale. Dall’altra parte, presa coscienza della gravità della situazione appena citata, si offrono soluzioni che apparentemente sembrano logiche e realistiche, ma in realtà conducono a ottenere gli stessi risultati fallimentari.

Proporre, per esempio, l’annullamento dell’obbligatorietà del celibato o l’introduzione del sacerdozio femminile non solo è pura utopia, ma sono una distrazione di massa, perché i fautori di quelle proposte sanno bene che simili scelte, oggi, sono semplicemente impossibili, a meno di voler spaccare un tessuto già abbastanza logorato.

È emblematico quello che è accaduto dopo le proposte del papa stesso, quelle sulle diaconesse e sui viri probati: il silenzio! Ripeto: proposte del papa, non di un generico teologo di una Chiesa di periferia!

Quindi: cerchiamo qualcosa di realistico, di realizzabile adesso e non tra cent’anni. Con le regole che abbiamo, con il Codice di diritto canonico che è in vigore, in silenzio e senza far tanto rumore, con l’antico metodo di cui la Chiesa è sempre stata maestra: “Ecclesia semper reformanda”. Proponendo piccoli passi e non terremoti. I rivoluzionari appena citati, sono in fondo i veri conservatori!

Ma fondamentale è avere una “visione”, una proposta completa, una lettura sintetica di tutto il quadro e agire partendo da scelte concrete che si possono fare subito e che porteranno frutti tra dieci/vent’anni. Ci vuole il coraggio della fede e una dose di resilienza (parola diventata di moda) che nei momenti drammatici abbiamo sempre dimostrato di possedere.

Cominciamo con la comunità cristiana

Fatta questa premessa, dobbiamo porci alcune domande, sempre nella “visione” che dobbiamo avere come sfondo. Prima di tutto: da dove possiamo partire per un cambiamento che sia concreto e abbia un futuro? La risposta è: dobbiamo salvare il tesoro delle nostre comunità cristiane! Poi: quali sono gli attori nel futuro e che ruolo dovrà avere il prete in questo impianto? E, da ultimo (forse il tema più spinoso): come affrontare sul piano economico questo tentativo di cambiamento?

Dobbiamo salvare le comunità cristiane, messe in forte crisi sia dal tracollo del numero dei preti sia per la grande difficoltà di trovare un ruolo e un’identità all’interno di un mondo che sta cambiando con una velocità che ci mette con le spalle al muro.

Le nostre comunità sono in profonda crisi, ma non sono morte: ci sono ancora e devono esserci nel futuro. Se mancassero, verrebbe a mancare il cuore all’interno di un paese o di un quartiere.

Ma come immaginare la comunità cristiana del futuro?

Da una pastorale di formazione e celebrazione a una pastorale di relazione e quotidianità

La parrocchia del domani dovrà essere una collettività di persone che pongono al centro la propria vita e non l’appartenenza cristiana. La vita è il vero campo dove opera il Seminatore, la vita fatta di gioie e di dolori, di scelte e di fallimenti. È la vita la vera palestra degli uomini!

Al suo interno ci sono momenti fertili, quando le persone sono più disponibili a farsi affiancare e a lasciarsi aiutare per entrare (magari senza accorgersi) nel cuore più profondo della vita stessa, fino ad arrivare all’incontro con Dio.

La nascita, la famiglia, la malattia, la morte, il fallimento… sono gli ambiti dove la comunità cristiana dev’essere più che mai protagonista. Non per usare esclusivamente la carta del sacramento, come per secoli si è fatto, con messaggi teologici e dottrinali che la gente d’oggi sta semplicemente rifiutando, o ascoltando in modo distratto. Noi crediamo di essere maestri nel dolore, solo perché in molte parrocchie l’unica cosa che tiene ancora sono i funerali!

Il futuro della comunità cristiana dovrà essere giocato usando le relazioni, le relazioni d’amore.

Parliamo di una relazione umana semplice, schietta, sincera, empatica, quotidiana, senza pregiudizi, consapevole. Non una relazione protetta dal ruolo, ma libera e senza ombra di timore; senza i narcisismi storici degli uomini di Chiesa; con protagonisti capaci di ascolto autentico (e non solo predicato!) e sempre pronti al dialogo. Una relazione dove non ci sia l’ossessione di dover parlare di Dio e dei suoi comandamenti, perché c’è la consapevolezza piena che Dio abita già le relazioni di amore e, al massimo, è necessario evidenziare questo e aiutare a cogliere l’eco della sua presenza e della sua misteriosa energia con-creatrice senza doverlo nominare.

Abbiamo bisogno di persone capaci di entrare nelle tematiche esistenziali, senza bisogno di fare l’anticamera sui testi catechistici o liturgici. Preparate alla prossimità e alla condivisione usando una vicinanza reale condita, quando serve, con la perla del silenzio. Pronte ad usare l’arma della preghiera, dell’implorare Qualcuno affinché ci trattenga al suo fianco.

La gente ha bisogno di uscire dal triste individualismo del nostro tempo e, anche se non si riconosce in un credo particolare, apre la porta a un rappresentante della comunità che “non ha né oro né argento, ma quello che ha è pronto a donarlo: la sua prossimità!”.

Per immaginare il futuro delle parrocchie, basterebbe pensarlo senza il diluvio di riunioni com’è attualmente. Per scoprire il segreto della Trinità, non sono sufficienti le riunioni. Per entrare nell’iniziazione cristiana, bisogna smetterla con disquisizioni inutili e dannose. Appuntamenti che non solo sono superflui, ma capaci persino di allontanare i fedeli dalle parrocchie.

Sento in giro di molte persone che, pur di evitare il calvario degli incontri presacramentali, sono disposti a non battezzare i propri figli o a non sposarsi in chiesa optando al massimo per il civile. Quando saremo disposti a cambiare il calendario delle nostre comunità? Quando saremo pronti chiudere con questa triste proposta del catechismo? Quando saremo predisposti per nuovi percorsi con i nostri bambini e ragazzi per aiutarli a crescere in una vera comunità magari utilizzando il semplice oratorio?

Meno Case di dottrina e più Centri Comunitari!

Il ragazzino che siamo riusciti a trattenere in parrocchia fino al sacramento con il ricatto degli incontri catechistici il giorno dopo dirà: “non mi vedrete mai più!”. Lo stesso ragazzino inserito in un programma fatto di giochi, cultura, esperienze forti, momenti rilassanti, arriva lo stesso al sacramento; ma poi, magari, potrà continuare a sentirsi parte grazie ai legami che sono nati.

Organizzare incontri per preparare il battesimo alla sera, dopo il lavoro, magari dopo aver dovuto assumere per alcune ore una baby sitter: crediamo proprio che sia l’occasione giusta per far passare dei messaggi evangelici? Quando la gente, in maggioranza, partecipa solo perché è obbligatorio? Che non sia il caso di aprire i nostri spazi parrocchiali alle famiglie con bambini e permettere loro di inventarsi momenti di comunione e quindi di autosostegno?

E come la mettiamo con la formazione? Bisognerà prevedere qualche appuntamento! Ma non ci sono le celebrazioni eucaristiche domenicali? “Vieni per un periodo alla messa, magari ci fermiamo un attimo dopo, sarà sufficiente quello”.

I sacramenti vanno dati a tutti coloro che ne fanno richiesta, tutti! Ma la comunità è capace di accogliere al proprio interno tutte le persone, tutte, perché ha un solo desiderio: permettere loro di accedere ad un cuore, il cuore di Dio?

Quando insegnavo a scuola, c’era un collega che ragionava in questa maniera e si proponeva con offerte didattiche che erano rivoluzionarie. Noi colleghi guardavamo, chi con sospetto, chi con criticità, chi con fiducia.

La sua proposta era questa: “lasciatemi lavorare con i ragazzi a modo mio per quattro mesi!”. In questo tempo ha organizzato spettacoli teatrali e lavori di gruppo con un’unica finalità: “fare squadra”.

Ogni tanto il preside osava chiedergli: “Ma…. e il programma?”. Lui rispondeva: “Abbia pazienza e fiducia, vedrà!”. Intanto i suoi ragazzi lavoravano con entusiasmo ed erano diventati una piccola repubblica all’interno della scuola, suscitando critiche, sospetti e interrogazioni.

A gennaio questo progetto si concluse con alcune rappresentazioni che suscitarono molto interesse. Davanti avevamo un gruppo di venticinque ragazzi unito, motivato, desideroso di partecipare alla vita scolastica. Quel professore era riuscito nello scopo: aveva creato una vera comunione.

Così nei mesi successivi presero in mano il programma. Quel gruppo aveva una marcia in più e tutti (tutti!) arrivarono agli esami fornendo dei risultati nettamente superiori rispetto a tutto il resto della scuola.

L’angoscia della Chiesa è sempre stato “il programma”! Un immenso impianto formativo e dottrinale, dal bambino all’anziano. Certo, un tempo aveva il suo significato, ma il dubbio ci viene quando siamo costretti a constatare che la base dei cristiani praticanti si sta sempre più assottigliando, anno dopo anno, non trovando una risposta alle proprie esigenze esistenziali e fortemente toccata dagli scandali sia per la corruzione sia per motivi sessuali.

La parrocchia del futuro quindi non dovrà essere esposta al proselitismo:

evangelizzazione, catechismo, e tanta formazione. Dovrà essere semplicemente una realtà di vita, dove il Vangelo verrà vissuto nella quotidianità.

Dobbiamo utilizzare tutte le nostre forze e la fantasia che, per fortuna, non manca per rilanciare le nostre comunità parrocchiali. Lasciare che la crisi attuale proceda, fino a lasciarle morire, sarebbe un peccato gravissimo.

Come sarà possibile ripristinare il cuore? Un cuore silenzioso e insieme palpitante, fatto di luci e di porte aperte tutto il giorno. Un cuore che non ha bisogno di piani pastorali o di riunioni su riunioni. Una canonica aperta e sempre accessibile, una chiesa aperta tutto il giorno, una piazza aperta.

Protagonisti sono tutti, tutti coloro che sentono la necessità di stare insieme, di condividere e di incontrarsi. In modo speciale saranno protagonisti i giovani, proprio coloro che in questi anni si sono allontanati di più, trovando tempo perso tutto quello che era etichettato come “cristiano”.

Spazio per i genitori dei bambini e dei ragazzi, che sentono sulla loro pelle come ai loro figli oggi non vengono proposte le cose più importanti: le relazioni in amicizia, il gusto di creare senza farsi fagocitare dai social, la magia della musica e del gioco per imparare a “fare squadra”.

Le nostre periferie stanno morendo e per la rinascita mancano proprio i protagonisti principali: le comunità cristiane! Gli spazi ci sono, gli ambienti ci sono. Sono stati costruiti con il sacrificio di parroci coraggiosi, ma adesso sono là, quasi tutti abbandonati. Tutti sanno che, quando c’è una piazza libera, subito entrano in gioco i manovali del male: i trafficanti della droga e del vizio.

La gente, ignara di queste dinamiche nascoste, se la prende con lo spacciatore di turno, spesso immigrato e di colore e quindi trattato anche in modo razzista. La stessa gente (i cosiddetti benpensanti) chiede solo che ci sia la messa. Per loro però la chiesa deve rimanere aperta giusto il tempo della celebrazione, per poi chiuderla e tapparsi in casa, sfiduciati e arrabbiati.

Gli anziani poi! Coloro che sognano solo di gustarsi la pensione, frutto di enormi sacrifici. Costretti a stare in casa, quando la loro memoria corre ai tempi andati, quando si poteva giocare a carte e correre per una partita a bocce o gustarsi una panchina per chiacchierare.

Queste sono cose improponibili oggi? Lasciatemi gridare il mio “no”! Dobbiamo mirare a questo e le comunità cristiane sono oggi gli unici soggetti che hanno nel proprio dna queste proposte umane e culturali.

C’è attorno a noi un clima di rassegnazione e di morte che fa paura.

Immagino l’irritazione di qualche lettore più affezionato allo schema liturgico-formativo, ma io non riesco a vedere un’alternativa. Ci sarebbe una proposta possibile, quella della devozione tradizionalista. Ci sarebbe spazio e non mancherebbero i soldi, ma porterebbe la Chiesa a diventare un’altra cosa, magari una setta. Non la prendo neppure in considerazione.

Concludendo: la gente per secoli è venuta in chiesa perché c’era il precetto e la minaccia del peccato. Oggi il precetto è stato buttato via.

Come faremo a riportare in chiesa i nostri fedeli? Ricostruendo dal basso le nostre comunità e arrivando alla celebrazione come al momento più alto della comunità stessa.

 

August 1, 2021

di: Gigi Maistrello

http://www.settimananews.it/pastorale/quale-futuro-le-comunita-cristiane/

Santa Sede – Informazione vaticana: i nodi di Francesco. Cronaca da un mese difficile

Il mese di giugno e gli inizi di luglio sono stati caratterizzati da un’agenda fittissima di notizie sul fronte vaticano – escludendo la questione del DDL Zan (cf. in questo numero a p. 409) e della salute del papa –. Meritano di essere fissate nero su bianco perché sintetizzano alcuni degli snodi cruciali del pontificato di Francesco e delle Chiese locali nel seguire il percorso tracciato dal papa venuto «dalla fine del mondo».

Modifica al diritto penale canonico

Il 1o giugno il papa emana la costituzione apostolica Pascite gregem Dei (cf. Regno-doc. 13,2021,385e in questo numero a p. 416) con cui viene riformato il Libro VI del Codice di diritto canonico, che si occupa del diritto (canonico) penale. Sono almeno tre i temi caldi su cui l’innovazione ha una ricaduta: sulla «tentata ordinazione di donne» (can. 1379); sulla punizione del delitto di pedofilia (can. 1398, che, tra l’altro, passa da essere classificato da delitto «contro obblighi speciali» dei chierici a delitto «contro la vita, la dignità e la libertà dell’uomo»); sulla specificazione dei «delitti in materia economica», specialmente quelli compiuti da chierici.

Partiamo da quest’ultimo ambito: un primo link va al caso del card. Becciu, destituito il 24 settembre dell’anno scorso e rinviato (3 luglio) a giudizio (la prima udienza dovrebbe tenersi il 27), assieme ad altre 9 persone, dal promotore di giustizia vaticano Gian Piero Milano, per i seguenti capi d’accusa: truffa, peculato, abuso d’ufficio, appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio, corruzione, estorsione, pubblicazione di documenti coperti dal segreto, falso materiale di atto pubblico, falso in scrittura privata.

Un secondo link va al Rapporto di Moneyval – organo di controllo del Consiglio d’Europa che certifica il rispetto degli standard internazionali nella lotta contro il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo – che il 9 giugno riconosce alla «giurisdizione vaticana (…) cinque giudizi di efficacia “sostanziale” e sei di efficacia “moderata”; in nessun caso è stato espresso un giudizio di efficacia “bassa”». Anche se occorre «migliorare l’analisi dei rischi conseguenti a potenziali abusi finanziari da parte del personale interno al Vaticano (i cosiddetti insiders)».

Un terzo link va infine alla notizia che l’8 del mese viene battuta dall’ANSA su una revisione contabile che per la prima volta il vicariato di Roma sta affrontando da aprile, affidata al revisore generale vaticano A. Cassinis Righini.

La protesta di Marx e la questione pedofilia

Il 4 giugno si dimette il card. R. Marx: la notizia è così dirompente (il primo caso di vescovo che si dimetta in questa modalità, a memoria di vaticanista) che occupa buona parte dell’informazione sul Vaticano, anche se non è facile capirne il perché: dai testi della lettera di Marx, dall’intervista al presidente della Conferenza episcopale tedesca, mons. G. Bätzing, e infine dalla lettera che il papa gli scrive il 10 rifiutando le dimissioni (Regno-att.12, 2021), si può ricostruire per sommi capi una connessione.

Il card. Marx, da sempre molto attento alla questione delle violenze sui minori, è tra i primi a parlare della necessità di una re-azione a livello sistemico nella Chiesa;1 la violenza sui minori e le sue implicazioni per la Chiesa sono una delle voci del Cammino sinodale tedesco, il quale tuttavia ha messo in evidenza le divisioni nell’episcopato, una fra tutte quella con l’arcivescovo di Colonia, card. R.M. Woelki che viene accusato – dal 26 maggio è in corso una visita apostolica – di gestire le accuse di violenze in modo troppo procedurale e garantista per l’istituzione ecclesiastica, a danno delle vittime (cf. Regno-att. 8,2021,219).

Risposte indirette alla vicenda arrivano l’8 giugno dal presidente emerito del Pontificio consiglio per i testi legislativi card. J. Herranz che – sulle pagine dell’Osservatore romano, https://bit.ly/3r0ugwE –, propone una «sommessa» contestazione dell’aggettivo «sistemico» presente nella lettera di Marx e il 10 dal card. W. Kasper piuttosto critico verso il Cammino sinodale tedesco (https://bit.ly/3e14anY) senza tuttavia mai nominare l’arcivescovo di Monaco.

Che la questione pedofilia e più in generale delle violenze sui minori non si possa rubricare come una tra le faccende da disbrigare lo testimoniano alcuni altri recenti fatti del mese.

Innanzitutto i ritrovamenti in Canada di alcune fosse comuni con i resti di centinaia di bambini accanto a scuole per nativi gestite dalla Chiesa cattolica per conto del governo (tra la fine dell’Ottocento e gli anni Novanta del Novecento), e la richiesta dei nativi sopravvissuti di poter incontrare il papa (cosa che avverrà nel prossimo dicembre).

La prosecuzione del processo in Vaticano per un’accusa di violenza che si sarebbe perpetrata nel Preseminario S. Pio X (https://bit.ly/3jZrer4).

L’annuncio – secondo una fonte locale (https://bit.ly/3ApoPpc) improvviso – della visita ad limina a ottobre dei vescovi polacchi, dopo che ben 7 di loro (4 emeriti e 3 in carica) sono stati sanzionati per le loro coperture di casi di pedofilia (cf. Regno-att. 14,2020,393 e in questo numero a p. 429);2 a cui ha fatto eco quello del deferimento a Roma del caso di 3 vescovi argentini denunciati per lo stesso motivo presso la Congregazione per la dottrina della fede (https://bit.ly/3htPFLS).

Novità in curia ma la riforma aspetta

Il 7 giugno viene annunciato che il vescovo di Mondovì sarà il «visitatore apostolico» della Congregazione per il clero: e questa è la terza congregazione di curia che, poco dopo il pensionamento del prefetto, ha in corso un’indagine.

La prima è stata la Rota romana agli inizi dell’anno; la seconda la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti: dopo la fuoriuscita in ragione dei limiti d’età del card. Sarah (20 febbraio; cf. anche Regno-att. 6,2021,146), in marzo mons. C. Maniago, vescovo di Castellaneta, è stato incaricato del compito; la nomina a prefetto dell’ex segretario della Congregazione e in precedenza presidente della Commissione per l’inglese nella liturgia (ICEL), mons. Arthur Roche, arriva il 27 maggio.

La terza – quella, appunto, del clero –, dopo il pensionamento del card. B. Stella (79 anni) immediatamente precede di poco l’arrivo del nuovo prefetto, nominato l’11 giugno, nella persona dell’outsider mons. Lazzaro You Heung-sik, finora vescovo di Daejeon (Corea del Sud).

In realtà nei giorni successivi (il 25) viene reso noto che andrà sotto la lente di un «visitatore» anche il Dicastero per lo sviluppo umano, nella persona del card. B. Cupich, arcivescovo di Chicago.

Preludio della tanto attesa riforma della curia? Secondo il card. Ó. Rodríguez Maradiaga (https://bit.ly/3qYwQDy), membro del Consiglio dei cardinali, sembrerebbe di no, perché la tempistica del testo che sancisce la riforma sarebbe stata ulteriormente spostata a fine 2021 – ha dichiarato a Religión digital il 10 dello stesso mese –.

Le novità curiali si sono arricchite infine dall’annuncio di una nomina decisamente originale quanto a incarico: il 16, infatti, il papa nomina «assistente ecclesiastico del Dicastero per la comunicazione ed editorialista de L’Osservatore romano il rev.do Luigi Maria Epicoco, del clero dell’arcidiocesi de L’Aquila» (corsivi nostri).

Non è tanto la relativamente giovane età (40 anni) del sacerdote – molto noto nell’infosfera e nell’editoria ecclesiale – a destare stupore, quanto il fatto che Francesco abbia sentito necessario «assistere spiritualmente» l’unico dicastero che attualmente ha al suo vertice un laico, Paolo Ruffini, e dare direttamente un incarico nel suo giornale: che sia conseguenza del rimprovero non poi tanto velato manifestato dal pontefice dopo aver visitato il dicastero stesso lo scorso 24 maggio?

La sterzata democratica sui movimenti

Rispetto all’approccio cauto di Francesco nei confronti di associazioni e movimenti sorti dopo il vento conciliare (cf. Regno-att. 6,2021,148; 8,2021,216; 10,2021,285) con questo provvedimento esprime tutta la sua preoccupazione verso un prevalere malsano di fondatori e personalità carismatiche. Oltre al caso Bose, il rischio in effetti di nicchie di abusi di potere e in alcuni casi di violenze si è rivelato, alla prova dei fatti, alto.

Così si può comprendere la mens del decreto del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita Le associazioni di fedeli, pubblicato l’11, che «disciplina l’esercizio del governo nelle associazioni internazionali di fedeli, private e pubbliche, e negli altri enti con personalità giuridica soggetti alla vigilanza diretta del medesimo Dicastero» (Regno-doc. 13,2021,403).

Il punto centrale è (art. 1) la regolamentazione dei «mandati nell’organo centrale di governo a livello internazionale», che «possono avere la durata massima di 5 anni ciascuno», e il fatto che (art. 2) «la stessa persona può ricoprire un incarico nell’organo centrale di governo a livello internazionale per un periodo massimo di 10 anni consecutivi», anche se «i fondatori potranno essere dispensati dalle [suddette] norme» (art. 5). Il tutto, appunto, giustificato dal «fine di promuovere un sano ricambio e di prevenire appropriazioni che non hanno mancato di procurare violazioni e abusi».

Uno dei primi a rispondere è stato don Julian Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e liberazione, che si è detto pronto a lasciare l’incarico entro i 3 mesi previsti dal decreto (https://bit.ly/3ANja2z). Chiara Amirante, Kiko Arguello, Salvatore Martinez, Andrea Riccardi e molti altri (secondo un noto canonista sarebbero 109 gli organismi interessati; https://bit.ly/36o9qOz)… sono avvisati.

 

Maria Elisabetta Gandolfi

IlRegno

 

1 Cf. in questo numero a p. 461; la diocesi di Monaco ha dato sostegno al primo convegno in Gregoriana nel 2012 (cf. Regno-att. 4,2012,75) cui parteciparono, tra gli altri, esponenti dei diversi dicasteri vaticani ed è anche la principale finanziatrice del Centro per la prevenzione fondato a Monaco nello stesso anno e poi confluito in Gregoriana.

2 Da segnalare inoltre che il 25 giugno viene resa nota l’esistenza di una commissione vaticana guidata dal card. A. Bagnasco per indagare sulle accuse di copertura contro il card. Stanisław Dziwisz. Mentre il 28 giugno una conferenza stampa dei vescovi presenta un’indagine realizzata sugli abusi e violenze sessuali sui minori nella Chiesa dall’Istituto di statistica della Chiesa cattolica polacca avvenuti dal 1958 al 2020.

Avviare un Sinodo italiano

Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dall’Ufficio catechistico nazionale della Conferenza episcopale italiana

«Dopo cinque anni, la Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare». È l’invito che papa Francesco ha rivolto alla Chiesa italiana il 30 gennaio, incontrando l’Ufficio catechistico nazionale della Conferenza episcopale italiana.
In precedenza il papa aveva lanciato il suggerimento al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, nel 2015, immaginandolo come processo di approfondimento della Evangelii gaudium«per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni». E più recentemente il 20 maggio 2019, quando Francesco è tornato sull’argomento aprendo l’Assemblea della CEI, parlando di «probabile Sinodo per la Chiesa italiana».

Cari fratelli e sorelle,

vi do il benvenuto e ringrazio il card. Bassetti per le sue cortesi parole. Ha ripreso le forze, grazie! Saluto il segretario generale, mons. Russo, e tutti voi, che sostenete l’impegno della Chiesa italiana nell’ambito della catechesi. Sono contento di condividere con voi il ricordo del 60° anniversario della nascita dell’Ufficio catechistico nazionale. Istituito ancora prima della configurazione della Conferenza episcopale, esso è stato strumento indispensabile per il rinnovamento catechetico dopo il concilio Vaticano II. Questa ricorrenza è un’occasione preziosa per fare memoria, rendere grazie dei doni ricevuti e rinnovare lo spirito dell’annuncio. A questo scopo, vorrei condividere tre punti che spero possano aiutarvi nei lavori dei prossimi anni.

Catechesi e kerygma

Il primo: catechesi e kerygma. La catechesi è l’eco della parola di Dio. Nella trasmissione della fede la Scrittura – come ricorda il Documento di base – è «il Libro; non un sussidio, fosse pure il primo» (CEI, Il rinnovamento della catechesi, n. 107; ECEI 1/2687). La catechesi è dunque l’onda lunga della parola di Dio per trasmettere nella vita la gioia del Vangelo. Grazie alla narrazione della catechesi, la sacra Scrittura diventa «l’ambiente» in cui sentirsi parte della medesima storia di salvezza, incontrando i primi testimoni della fede. La catechesi è prendere per mano e accompagnare in questa storia. Suscita un cammino, in cui ciascuno trova un ritmo proprio, perché la vita cristiana non appiattisce né omologa, ma valorizza l’unicità di ogni figlio di Dio. La catechesi è anche un percorso mistagogico, che avanza in costante dialogo con la liturgia, ambito in cui risplendono simboli che, senza imporsi, parlano alla vita e la segnano con l’impronta della grazia.

Il cuore del mistero è il kerygma, e il kerygma è una persona: Gesù Cristo. La catechesi è uno spazio privilegiato per favorire l’incontro personale con lui. Perciò va intessuta di relazioni personali. Non c’è vera catechesi senza la testimonianza di uomini e donne in carne e ossa. Chi di noi non ricorda almeno uno dei suoi catechisti? Io lo ricordo: ricordo la suora che mi ha preparato alla prima comunione e mi ha fatto tanto bene. I primi protagonisti della catechesi sono loro, messaggeri del Vangelo, spesso laici, che si mettono in gioco con generosità per condividere la bellezza di aver incontrato Gesù. «Chi è il catechista? È colui che custodisce e alimenta la memoria di Dio; la custodisce in sé stesso – è un “memorioso” della storia della salvezza – e la sa risvegliare negli altri. È un cristiano che mette questa memoria al servizio dell’annuncio; non per farsi vedere, non per parlare di sé, ma per parlare di Dio, del suo amore, della sua fedeltà» (Omelia per la giornata dei catechisti nell’Anno della fede, 29.9.2013).

Per fare questo, è bene ricordare «alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa» – tu sei amato, tu sei amata, questo è il primo, questa è la porta –, «che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà» – come faceva Gesù –, «che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, e un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio» – e quali sono queste disposizioni che ogni catechista deve avere? –: «Vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna» (esort. ap. Evangelii gaudium, n. 165; EV 29/2271). Gesù aveva questo. È l’intera geografia dell’umanità che il kerygma, bussola infallibile della fede, aiuta a esplorare.

E su questo punto – il catechista – riprendo una cosa che va detta anche ai genitori, ai nonni: la fede va trasmessa «in dialetto». Un catechista che non sa spiegare nel «dialetto» dei giovani, dei bambini, di coloro che… Ma con il dialetto non mi riferisco a quello linguistico, di cui l’Italia è tanto ricca, no, al dialetto della vicinanza, al dialetto che possa capire, al dialetto dell’intimità. A me tocca tanto quel passo dei Maccabei, dei sette fratelli (2Mac 7). Per due o tre volte si dice che la mamma li sosteneva parlando loro in dialetto («nella lingua dei padri»). È importante: la vera fede va trasmessa in dialetto. I catechisti devono imparare a trasmetterla in dialetto, cioè quella lingua che viene dal cuore, che è nata, che è proprio la più familiare, la più vicina a tutti. Se non c’è il dialetto, la fede non è tramessa totalmente e bene.

Catechesi e futuro

Il secondo punto: catechesi e futuro. L’anno scorso ricorreva il 50° anniversario del documento Il rinnovamento della catechesi, con cui la Conferenza episcopale italiana recepiva le indicazioni del Concilio. Al riguardo, faccio mie le parole di san Paolo VI, rivolte alla prima Assemblea generale della CEI dopo il Vaticano II: «Dobbiamo guardare al Concilio con riconoscenza a Dio e con fiducia per l’avvenire della Chiesa; esso sarà il grande catechismo dei tempi nuovi» (23.6.1966). E tornando sul tema, in occasione del I Congresso catechistico internazionale, egli aggiungeva: «È un compito che incessantemente rinasce e incessantemente si rinnova per la catechesi l’intendere questi problemi che salgono dal cuore dell’uomo, per ricondurli alla loro sorgente nascosta: il dono dell’amore che crea e che salva» (25.9.1971). Pertanto la catechesi ispirata dal Concilio è continuamente in ascolto del cuore dell’uomo, sempre con l’orecchio teso, sempre attenta a rinnovarsi.

Questo è magistero: il Concilio è magistero della Chiesa. O tu stai con la Chiesa e pertanto segui il Concilio, e se tu non segui il Concilio o tu l’interpreti a modo tuo, come vuoi tu, tu non stai con la Chiesa. Dobbiamo in questo punto essere esigenti, severi. Il Concilio non va negoziato, per avere più di questi… No, il Concilio è così. E questo problema che noi stiamo vivendo, della selettività rispetto al Concilio, si è ripetuto lungo la storia con altri Concili. A me fa pensare tanto un gruppo di vescovi che, dopo il Vaticano I, sono andati via, un gruppo di laici, dei gruppi, per continuare la «vera dottrina» che non era quella del Vaticano I: «Noi siamo i cattolici veri». Oggi ordinano donne. L’atteggiamento più severo, per custodire la fede senza il magistero della Chiesa, ti porta alla rovina. Per favore, nessuna concessione a coloro che cercano di presentare una catechesi che non sia concorde al magistero della Chiesa.

Come nel dopo Concilio la Chiesa italiana è stata pronta e capace nell’accogliere i segni e la sensibilità dei tempi, così anche oggi è chiamata a offrire una catechesi rinnovata, che ispiri ogni ambito della pastorale: carità, liturgia, famiglia, cultura, vita sociale, economia… Dalla radice della parola di Dio, attraverso il tronco della sapienza pastorale, fioriscono approcci fruttuosi ai vari aspetti della vita. La catechesi è così un’avventura straordinaria: come «avanguardia della Chiesa» ha il compito di leggere i segni dei tempi e di accogliere le sfide presenti e future. Non dobbiamo aver paura di parlare il linguaggio delle donne e degli uomini di oggi. Di parlare il linguaggio fuori dalla Chiesa, sì, di questo dobbiamo avere paura. Non dobbiamo avere paura di parlare il linguaggio della gente. Non dobbiamo aver paura di ascoltarne le domande, quali che siano, le questioni irrisolte, ascoltare le fragilità, le incertezze: di questo, non abbiamo paura. Non dobbiamo aver paura di elaborare strumenti nuovi: negli anni Settanta il Catechismo della Chiesa italiana fu originale e apprezzato; anche i tempi attuali richiedono intelligenza e coraggio per elaborare strumenti aggiornati, che trasmettano all’uomo d’oggi la ricchezza e la gioia del kerygma, e la ricchezza e la gioia dell’appartenenza alla Chiesa.

Catechesi e comunità

Terzo punto: catechesi e comunità. In questo anno contrassegnato dall’isolamento e dal senso di solitudine causati dalla pandemia, più volte si è riflettuto sul senso di appartenenza che sta alla base di una comunità. Il virus ha scavato nel tessuto vivo dei nostri territori, soprattutto esistenziali, alimentando timori, sospetti, sfiducia e incertezza. Ha messo in scacco prassi e abitudini consolidate e così ci provoca a ripensare il nostro essere comunità. Abbiamo capito, infatti, che non possiamo fare da soli e che l’unica via per uscire meglio dalle crisi è uscirne insieme – nessuno si salva da solo, uscirne insieme –, riabbracciando con più convinzione la comunità in cui viviamo. Perché la comunità non è un agglomerato di singoli, ma la famiglia in cui integrarsi, il luogo dove prendersi cura gli uni degli altri, i giovani degli anziani e gli anziani dei giovani, noi di oggi di chi verrà domani. Solo ritrovando il senso di comunità, ciascuno potrà trovare in pienezza la propria dignità.

La catechesi e l’annuncio non possono che porre al centro questa dimensione comunitaria. Non è il momento per strategie elitarie. La grande comunità: qual è la grande comunità? Il santo popolo fedele di Dio. Non si può andare avanti fuori del santo popolo fedele di Dio, il quale – come dice il Concilio – è infallibile in credendo. Sempre con il santo popolo di Dio. Invece, cercare appartenenze elitarie ti allontana dal popolo di Dio, forse con formule sofisticate, ma tu perdi quell’appartenenza alla Chiesa che è il santo popolo fedele di Dio.

Questo è il tempo per essere artigiani di comunità aperte che sanno valorizzare i talenti di ciascuno. È il tempo di comunità missionarie, libere e disinteressate, che non cerchino rilevanza e tornaconti, ma percorrano i sentieri della gente del nostro tempo, chinandosi su chi è al margine. È il tempo di comunità che guardino negli occhi i giovani delusi, che accolgano i forestieri e diano speranza agli sfiduciati. È il tempo di comunità che dialoghino senza paura con chi ha idee diverse. È il tempo di comunità che, come il buon Samaritano, sappiano farsi prossime a chi è ferito dalla vita, per fasciarne le piaghe con compassione. Non dimenticatevi questa parola: compassione. Quante volte, nel Vangelo, di Gesù si dice: «Ed ebbe compassione», «ne ebbe compassione».

Come ho detto al Convegno ecclesiale di Firenze, desidero una Chiesa «sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. (…) Una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza». Quanto riferivo allora all’umanesimo cristiano vale anche per la catechesi: essa «afferma radicalmente la dignità di ogni persona come figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria, l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura» (Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa italiana, Firenze, 10.11.2015).

Ho menzionato il Convegno di Firenze. Dopo cinque anni, la Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare.

Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per quanto fate. Vi invito a continuare a pregare e a pensare con creatività a una catechesi centrata sul kerygma, che guardi al futuro delle nostre comunità, perché siano sempre più radicate nel Vangelo, comunità fraterne e inclusive. Vi benedico, vi accompagno. E voi, per favore, pregate per me, ne ho bisogno. Grazie!

 

Francesco

Documenti, 5/2021, 01/03/2021, pag. 139

Webinar: Accompagnare l’annuncio della fede in famiglia

Nella sezione “trasformazioni pastorali” del documento Ripartiamo insieme (2020) vengono date cinque indicazioni che richiedono un deciso cambio di mentalità. La seconda tra queste interessa direttamente la famiglia: «Abbiamo compreso di dover assumere la catechesi nelle famiglie» (p. 7). A partire da quest’opzione, nell’incontro si prende in esame il compito della famiglia nell’educazione alla fede dei figli. A questa riflessione si accompagna un interrogativo impegnativo: qual è il ruolo dei catechisti nel sostenere e accompagnare questo compito primario attribuito alle famiglie?

 

video del webinar

MATERIALI

Accompagnare l’annuncio della fede in famiglia

Accompagnare l’annuncio …

Lavoro di gruppo

 

La vita cristiana dei catechisti – Incontro di formazione

Il Webinar tenuto dal prof. Ubaldo Montisci si inserisce nel ciclo formativo rivolto ai catechisti di numerose parrocchie salesiane del Centro e Nord  Italia.

Il tema dell’incontro, il terzo della serie, è La vita cristiana dei catechisti. Trovate allegati la conferenza, il PowerPoint utilizzato, la scheda di lavoro, il video del Webinar.

IL VIDEO

La vita cristiana del catechista doc

La vita cristiana del catechista ppt

Quaresima – Pasqua 2021. Sussidio liturgico-pastorale

Questo sussidio liturgico-pastorale ci aiuti a vivere intensamente questi tempi, consapevoli come scrive il papa che «Vivere una Quaresima con speranza vuol dire sentire di essere, in Gesù Cristo, testimoni del tempo nuovo, in cui Dio “fa nuove tutte le cose” (cfr. Ap 21,1-6).

Presentazione

Il tempo che stiamo attraversando è tinto ancora d’incertezza, di stanchezza e di paura. «Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi». Così papa Francesco descriveva i sentimenti dell’intera umanità nel cuore della Quaresima dello scorso anno (Sagrato della Basilica di San Pietro, 27 marzo 2020). Ma se la situazione sanitaria sembra non darci tregua, l’impegno di tanti fratelli e sorelle e la loro testimonianza di carità aprono il cuore alla speranza. Le parole e i gesti profumati di amore ci ricordano che la morte non è l’ultima parola, che la speranza non può morire; essi annunciano che la Vita vince la morte! È la forza e la bellezza dell’annuncio pasquale!

Nel messaggio per la Quaresima di quest’ anno il papa ha scritto: «Nell’attuale contesto di preoccupazione in cui viviamo e in cui tutto sembra fragile e incerto, parlare di speranza potrebbe sembrare una provocazione. Il tempo di Quaresima è fatto per sperare, per tornare a rivolgere lo sguardo alla pazienza di Dio, che continua a prendersi cura della sua Creazione, mentre noi l’abbiamo spesso maltrattata (cfr. Enc. Laudato si’, 32-33.43-44). È speranza nella riconciliazione, alla quale ci esorta con passione San Paolo: “Lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5,20)».

Accogliamo allora questo tempo dell’anno liturgico lasciandoci illuminare, sin dall’inizio, dalla luce della Pasqua alla quale l’itinerario penitenziale della Quaresima conduce. Il cuore di ciascuno, da subito, fa proprie le parole che la liturgia pone sulla bocca di tutti nel canto della sequenza pasquale immaginandole già sulle labbra di Maria di Magdala: «Cristo, mia speranza, è risorto!». È il grido di gioia che squarcia l’oscurità della notte e annuncia l’alba di un nuovo giorno. «Maria di Magdala, si recò al sepolcro di buon mattino, quando era ancora buio» (Gv 20,1). Mentre l’esperienza del buio, dell’oscurità, del peccato e della morte tendono ad avvolgere la nostra vita, la Quaresima è il «tempo favorevole» per prenderne coscienza ma soprattutto per lasciarci afferrare da Cristo, il Crocifisso Risorto che ci prende per mano, ci strappa al peccato e alla morte e ci riconsegna alla Vita. Mistero di misericordia e di luce: evento fondante della nostra fede dove affondano le radici della speranza cristiana.

Alla Pasqua si arriva attraverso la croce ma proprio la croce diventa la vera via alla Vita, non solo perché ci narra di un Dio che fa con noi un’alleanza d’amore, ma perché proprio tramite la croce Dio è entrato nella morte per svegliarci da essa. Le tenebre vengono meno, non riescono a trattenere la potenza della luce. E anche quando ci si trova immersi nel peccato, tutto il mistero della Pasqua ci fa percepire una forza che dissipa la nostra notte, la riveste di speranza e la inonda di una luce che lava ogni colpa.

Questo sussidio liturgico-pastorale ci aiuti a vivere intensamente questi tempi, consapevoli come scrive il papa che «Vivere una Quaresima con speranza vuol dire sentire di essere, in Gesù Cristo, testimoni del tempo nuovo, in cui Dio “fa nuove tutte le cose” (cfr. Ap 21,1-6). Significa ricevere la speranza di Cristo che dà la sua vita sulla croce e che Dio risuscita il terzo giorno, “pronti sempre a rispondere a chiunque [ci] domandi ragione della speranza che è in [noi]” (1Pt 3,15)».

 

✠ Stefano Russo

Segretario Generale
della Conferenza Episcopale Italiana

 

Download:

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA QUARESIMA 2021

“Ecco, noi saliamo a Gerusalemme…” (Mt 20,18).
Quaresima: tempo per rinnovare fede, speranza e carità.

 

Cari fratelli e sorelle,

annunciando ai suoi discepoli la sua passione, morte e risurrezione, a compimento della volontà del Padre, Gesù svela loro il senso profondo della sua missione e li chiama ad associarsi ad essa, per la salvezza del mondo.

Nel percorrere il cammino quaresimale, che ci conduce verso le celebrazioni pasquali, ricordiamo Colui che «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8). In questo tempo di conversione rinnoviamo la nostra fede, attingiamo l’“acqua viva” della speranza e riceviamo a cuore aperto l’amore di Dio che ci trasforma in fratelli e sorelle in Cristo. Nella notte di Pasqua rinnoveremo le promesse del nostro Battesimo, per rinascere uomini e donne nuovi, grazie all’opera dello Spirito Santo. Ma già l’itinerario della Quaresima, come l’intero cammino cristiano, sta tutto sotto la luce della Risurrezione, che anima i sentimenti, gli atteggiamenti e le scelte di chi vuole seguire Cristo.

Il digiuno, la preghiera e l’elemosina, come vengono presentati da Gesù nella sua predicazione (cfr Mt 6,1-18), sono le condizioni e l’espressione della nostra conversione. La via della povertà e della privazione (il digiuno), lo sguardo e i gesti d’amore per l’uomo ferito (l’elemosina) e il dialogo filiale con il Padre (la preghiera) ci permettono di incarnare una fede sincera, una speranza viva e una carità operosa.

  1. La fede ci chiama ad accogliere la Verità e a diventarne testimoni, davanti a Dio e davanti a tutti i nostri fratelli e sorelle.

In questo tempo di Quaresima, accogliere e vivere la Verità manifestatasi in Cristo significa prima di tutto lasciarci raggiungere dalla Parola di Dio, che ci viene trasmessa, di generazione in generazione, dalla Chiesa. Questa Verità non è una costruzione dell’intelletto, riservata a poche menti elette, superiori o distinte, ma è un messaggio che riceviamo e possiamo comprendere grazie all’intelligenza del cuore, aperto alla grandezza di Dio che ci ama prima che noi stessi ne prendiamo coscienza. Questa Verità è Cristo stesso, che assumendo fino in fondo la nostra umanità si è fatto Via – esigente ma aperta a tutti – che conduce alla pienezza della Vita.

Il digiuno vissuto come esperienza di privazione porta quanti lo vivono in semplicità di cuore a riscoprire il dono di Dio e a comprendere la nostra realtà di creature a sua immagine e somiglianza, che in Lui trovano compimento. Facendo esperienza di una povertà accettata, chi digiuna si fa povero con i poveri e “accumula” la ricchezza dell’amore ricevuto e condiviso. Così inteso e praticato, il digiuno aiuta ad amare Dio e il prossimo in quanto, come insegna San Tommaso d’Aquino, l’amore è un movimento che pone l’attenzione sull’altro considerandolo come un’unica cosa con sé stessi (cfr Enc. Fratelli tutti, 93).

La Quaresima è un tempo per credere, ovvero per ricevere Dio nella nostra vita e consentirgli di “prendere dimora” presso di noi (cfr Gv 14,23). Digiunare vuol dire liberare la nostra esistenza da quanto la ingombra, anche dalla saturazione di informazioni – vere o false – e prodotti di consumo, per aprire le porte del nostro cuore a Colui che viene a noi povero di tutto, ma «pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14): il Figlio del Dio Salvatore.

  1. La speranza come “acqua viva” che ci consente di continuare il nostro cammino

La samaritana, alla quale Gesù chiede da bere presso il pozzo, non comprende quando Lui le dice che potrebbe offrirle un’“acqua viva” (Gv 4,10). All’inizio lei pensa naturalmente all’acqua materiale, Gesù invece intende lo Spirito Santo, quello che Lui darà in abbondanza nel Mistero pasquale e che infonde in noi la speranza che non delude. Già nell’annunciare la sua passione e morte Gesù annuncia la speranza, quando dice: «e il terzo giorno risorgerà» (Mt 20,19). Gesù ci parla del futuro spalancato dalla misericordia del Padre. Sperare con Lui e grazie a Lui vuol dire credere che la storia non si chiude sui nostri errori, sulle nostre violenze e ingiustizie e sul peccato che crocifigge l’Amore. Significa attingere dal suo Cuore aperto il perdono del Padre.

Nell’attuale contesto di preoccupazione in cui viviamo e in cui tutto sembra fragile e incerto, parlare di speranza potrebbe sembrare una provocazione. Il tempo di Quaresima è fatto per sperare, per tornare a rivolgere lo sguardo alla pazienza di Dio, che continua a prendersi cura della sua Creazione, mentre noi l’abbiamo spesso maltrattata (cfr Enc. Laudato si’, 32-33.43-44). È speranza nella riconciliazione, alla quale ci esorta con passione San Paolo: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20). Ricevendo il perdono, nel Sacramento che è al cuore del nostro processo di conversione, diventiamo a nostra volta diffusori del perdono: avendolo noi stessi ricevuto, possiamo offrirlo attraverso la capacità di vivere un dialogo premuroso e adottando un comportamento che conforta chi è ferito. Il perdono di Dio, anche attraverso le nostre parole e i nostri gesti, permette di vivere una Pasqua di fraternità.

Nella Quaresima, stiamo più attenti a «dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano, invece di parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano» (Enc. Fratelli tutti [FT], 223). A volte, per dare speranza, basta essere «una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza» (ibid., 224).

Nel raccoglimento e nella preghiera silenziosa, la speranza ci viene donata come ispirazione e luce interiore, che illumina sfide e scelte della nostra missione: ecco perché è fondamentale raccogliersi per pregare (cfr Mt 6,6) e incontrare, nel segreto, il Padre della tenerezza.

Vivere una Quaresima con speranza vuol dire sentire di essere, in Gesù Cristo, testimoni del tempo nuovo, in cui Dio “fa nuove tutte le cose” (cfr Ap 21,1-6). Significa ricevere la speranza di Cristo che dà la sua vita sulla croce e che Dio risuscita il terzo giorno, «pronti sempre a rispondere a chiunque [ci] domandi ragione della speranza che è in [noi]» (1Pt 3,15).

  1. La carità, vissuta sulle orme di Cristo, nell’attenzione e nella compassione verso ciascuno, è la più alta espressione della nostra fede e della nostra speranza.

La carità si rallegra nel veder crescere l’altro. Ecco perché soffre quando l’altro si trova nell’angoscia: solo, malato, senzatetto, disprezzato, nel bisogno… La carità è lo slancio del cuore che ci fa uscire da noi stessi e che genera il vincolo della condivisione e della comunione.

«A partire dall’amore sociale è possibile progredire verso una civiltà dell’amore alla quale tutti possiamo sentirci chiamati. La carità, col suo dinamismo universale, può costruire un mondo nuovo, perché non è un sentimento sterile, bensì il modo migliore di raggiungere strade efficaci di sviluppo per tutti» (FT, 183).

La carità è dono che dà senso alla nostra vita e grazie al quale consideriamo chi versa nella privazione quale membro della nostra stessa famiglia, amico, fratello. Il poco, se condiviso con amore, non finisce mai, ma si trasforma in riserva di vita e di felicità. Così avvenne per la farina e l’olio della vedova di Sarepta, che offre la focaccia al profeta Elia (cfr 1 Re 17,7-16); e per i pani che Gesù benedice, spezza e dà ai discepoli da distribuire alla folla (cfr Mc 6,30-44). Così avviene per la nostra elemosina, piccola o grande che sia, offerta con gioia e semplicità.

Vivere una Quaresima di carità vuol dire prendersi cura di chi si trova in condizioni di sofferenza, abbandono o angoscia a causa della pandemia di Covid-19. Nel contesto di grande incertezza sul domani, ricordandoci della parola rivolta da Dio al suo Servo: «Non temere, perché ti ho riscattato» (Is 43,1), offriamo con la nostra carità una parola di fiducia, e facciamo sentire all’altro che Dio lo ama come un figlio.

«Solo con uno sguardo il cui orizzonte sia trasformato dalla carità, che lo porta a cogliere la dignità dell’altro, i poveri sono riconosciuti e apprezzati nella loro immensa dignità, rispettati nel loro stile proprio e nella loro cultura, e pertanto veramente integrati nella società» (FT, 187).

Cari fratelli e sorelle, ogni tappa della vita è un tempo per credere, sperare e amare. Questo appello a vivere la Quaresima come percorso di conversione, preghiera e condivisione dei nostri beni, ci aiuti a rivisitare, nella nostra memoria comunitaria e personale, la fede che viene da Cristo vivo, la speranza animata dal soffio dello Spirito e l’amore la cui fonte inesauribile è il cuore misericordioso del Padre.

Maria, Madre del Salvatore, fedele ai piedi della croce e nel cuore della Chiesa, ci sostenga con la sua premurosa presenza, e la benedizione del Risorto ci accompagni nel cammino verso la luce pasquale.

Roma, San Giovanni in Laterano, 11 novembre 2020, memoria di San Martino di Tours

Francesco