Le università cattoliche nel dibattito pubblico in difesa dei valori non negoziabili

“Educare alla vita buona del Vangelo: il contributo delle Università” Cardinale Angelo Bagnasco Arcivescovo di Genova Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Un cordiale e rispettoso saluto alle Autorità presenti, ai Docenti, agli studenti e a quanti sono benevolmente intervenuti a questo momento di riflessione sul tema educativo che appassiona tutti.
Si tratta della vita buona delle giovani generazioni, cioè della loro felicità, della riuscita della loro vita; ma si tratta anche del bene comune, cioè del futuro della nostra società e, più ampiamente del mondo.
Quanto sia necessaria un’umanità matura, capace di portare la vita nella sua complessità e nelle sue sfide, è sotto gli occhi di tutti.
Per questo, mentre esprimo sincero apprezzamento per questa iniziativa, ringrazio per l’invito a partecipare presentando gli Orientamenti Pastorali dei Vescovi Italiani per il decennio: “Educare alla vita buona del Vangelo”.
Naturalmente, come è stato precisato nel titolo, l’attenzione particolare sarà verso l’Università con le peculiarità sue proprie e quindi con la sua specifica missione.
E’ noto che l’educazione ha come protagonisti tutti, adulti e giovani, e come destinatari tutti, adulti e giovani! Nessuno, infatti, può sentirsi arrivato e quindi non più bisognoso di crescere e di imparare; sarebbe, questo atteggiamento, il segno più evidente della grave incompiutezza educativa.
Ciò nonostante, è indubbio che chi è più avanti negli anni ha maggiore responsabilità verso le giovani generazioni, e quindi deve avere qualcosa da dire e da testimoniare, senza presunzioni da una parte e senza giovanilismi dall’altra…peraltro totalmente invisi ai giovani e patetici.
Per questo motivo, l’attenzione di oggi sarà rivolta in modo speciale verso il mondo dei ragazzi e dei giovani, sperando che quanto diremo possa comunque essere utile anche per noi più adulti.
Non è pleonastico ricordare che l’atteggiamento di fondo che anima la Chiesa verso il mondo è la “simpatia”: si potrebbe leggere il mistero dell’incarnazione come il sovrabbondare della simpatia di Dio verso l’umanità ferita dal peccato e dalla morte.
E’ un specie di profonda e ontologica “simpatia” che spinge il Verbo Eterno a scendere sulle strade dell’uomo e, come sulla via di Emmaus, porsi al suo fianco, misurare con lui il passo, provocarlo alla confidenza dell’anima, illuminarlo con la sua parola, sanarlo con il sacrificio della sua vita, affidarlo al “sacramento grande” della Chiesa.
E’ dunque la passione per Cristo che spinge i credenti alla passione per l’umanità: sta qui il principio fondativo del nostro servire il mondo.
Quando questo radicamento si affievolisce, si stemperano la motivazione e l’entusiasmo della vita personale e della missione di essere sale e luce nella storia.
Prevale allora il peso della fatica quotidiana, della ripetizione dei doveri, delle inevitabili difficoltà, delle salutari delusioni.
Per questo, il Santo Padre Benedetto XVI non si stanca – fin dall’inizio del suo ministero petrino – di esortarci a non distrarre lo sguardo dal volto di Cristo: è dal suo sguardo che possiamo attingere quello sguardo di simpatia e di amore per il mondo e che è l’anima di ogni servizio.
1.
La sfida educativa L’educazione è stata in ogni tempo un compito delicato e difficile: oggi però assume caratteristiche più ardue tanto che il Santo Padre parla “di una grande emergenza educativa”.
Tra le diverse ragioni, quella di fondo la riscontriamo nelle parole del Papa quando avverte che “anima dell’educazione , come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile.
Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di diventare anche noi, come gli antichi pagani, ‘uomini senza speranza e senza Dio in questo mondo’, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12).
Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita” (Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21.1.2008).
La sfiducia nella vita  è una conseguenza che genera a sua volta altre conseguenze, ma – ci chiediamo – quale può essere il terreno di coltura di questa gramigna che avvelena la vita e la oscura nel suo futuro? Dal punto di vista del credente, è una fede languida, snervata, privata della sua linfa originaria e vitale, cioè il “cuore a cuore” con Cristo, il fidarsi di Lui senza riserve, l’appartenenza cordiale alla Chiesa.
Senza questa luce, o con una luce fioca perché non alimentata e rinvigorita ogni giorno, tutto pian piano si spegne, e le suggestioni del mondo – pensare come se Dio non ci fosse – insensibilmente invadono e sommergono.
Ma la crisi dell’educazione può dipendere non solo da uno snervamento della fede, ma anche da una crisi della ragione.
Se  guardiamo ai movimenti culturali che sembrano dominare la piazza, infatti, dobbiamo riconoscere che “un ospite inquietante” si aggira in Europa: è il nichilismo.
Esso penetra i sentimenti, confonde i pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca l’anima, rende le passioni tristi ed esangui.
E se ci chiediamo che cosa significhi nichilismo, Nietzsche ci risponde: “Che i valori supremi perdono valore” (Frammenti postumi, 1887-1888, in Opere, 1971, vol.
III, 2, fr.
9, pag.
12): “Vidi una grande tristezza invadere gli uomini.
I  migliori si stancarono del loro lavoro.
Una dottrina apparve, una fede le si affiancò: tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto fu! (…) Che cosa è accaduto quaggiù la notte scorsa dalla luna malvagia? Tutto il nostro lavoro è stato vano, il nostro vino è divenuto veleno (…) Aridi siamo divenuti noi tutti (…) Tutte le fonti sono esauste, anche il mare si è ritirato” (Così parlò Zarathustra, in Opere 1968, vol.
III, pag.
175).
E’ un opprimente senso del tramonto.
In questo deserto valoriale l’uomo si trova disorientato, e lo smarrimento investe il suo mondo interiore, la costruzione di ciò che egli è in se stesso, del suo universo fatto di idee, sensazioni, sentimenti, slanci, emozioni e pulsioni…un mondo da ordinare perché da caos diventi universo, armonia, bellezza.
Ma senza un criterio unificante, senza un centro, un “unum” verso il quale guardare, sarà possibile costruire quell’ordine vivo e dinamico senza il quale si vive senza capire niente di sé, affidandosi al richiamo più forte? Lo smarrimento investe anche il mondo dei rapporti esterni con gli altri e le cose, con gli avvenimenti, la storia, il vivere e il morire.
E’ la domanda di significato che irrompe ancor più acuta in mezzo al nichilismo che vorrebbe renderla ridicola agli occhi dei giovani, una “domanda oziosa” come affermavano Comte, Marx e altri Maestri del sospetto.
In questa terra, ferita da uno spaesamento che genera paura e angoscia, ha buon gioco quella fragilità di fondo che sembra segnare il tessuto interiore del mondo giovanile, una fragilità che, non superata da punti fermi e veri di tipo ideale ed etico, viene ad essere luogo di scorribande emotive e sempre più veloci per la legge della sensibilità.
Su questa esposizione senza difese, si concentra il fuoco incrociato degli interessi più diversi, economici-commerciali, ideologici.
Il risultato interiore è una emotività che, rispetto a tempi passati, è molto più sollecitata e incontrollata, a cui corrisponde uno spazio di riflessione molto più modesto, fino a cristallizzare la non-distinzione tra intelligenza e impressionabilità.
E’ comprensibile allora che l’estuario di questo fiume in piena senza argini protettivi, possa sfociare più o meno nello stordimento, nel disinteresse generico, nella eccedenza, nel cinismo comportamentale.
In sintesi, in una tristezza facilmente risentita.
Profetiche e lucide le parole di J.
Maritain nel 1959: “E’ il male metafisico che (…) si fa sentire nelle profondità dello spirito e che tocca più impietosamente i giovani, perché non sono ancora abituati a mentire a se stessi.
Voglio dire il vuoto, il nulla completo di ogni valore assoluto e di ogni fede nella verità nella quale la gioventù è posta dall’intellighenzia al potere e da una educazione scolastica e universitaria che in generale ( e malgrado molte eccezioni individuali) tradisce allegramente la sua missione essenziale.
La gioventù contemporanea è stata sistematicamente privata di ogni ragione di vita.
E questo è un crimine spirituale!” (J.Maritain, Pour une philosophie de l’education, 1959).
I giovani, come afferma Maritain, attendono altro: il loro cuore non invoca questo male di vivere, al contrario guarda e aspira altrove con la nativa speranza che l’avventura della vita sia promettente e piena di sole, ricca di significati, degna di essere vissuta lasciando qualcosa di meglio e di grande.
In questa ansia positiva troviamo la “punta rovente” della coscienza universale, cioè del creato che, in un certo senso, affida il suo anelito di compimento alla responsabilità umana.
Di fronte al cosmo, alla sua bellezza e maestà, al suo ordine luminoso, l’uomo da sempre si è posto una domanda seppure con parole differenti: interrogativo che il Santo Padre ha ripreso nel viaggio apostolico nel Regno Unito: “A livello spirituale tutti noi, in modi diversi, siamo personalmente impegnati in un viaggio che offre una risposta importante alla questione più importante di tutte, quella riguardante il significato ultimo dell’esistenza umana.
(…) All’interno dei loro ambiti di competenza, le scienze umane e naturali ci forniscono una comprensione inestimabile di aspetti della nostra esistenza ed approfondiscono la nostra comprensione del mondo in cui opera l’universo fisico, il quale può essere utilizzato per portare grande beneficio alla famiglia umana.
E tuttavia queste discipline non danno risposta, e non possono darla, alla domanda fondamentale, perché operano ad un livello totalmente diverso.
Non possono soddisfare i desideri più profondi del cuore umano, né spiegarci pienamente la nostra origine ed il nostro destino, per quale motivo e per quale scopo noi esistiamo, né possono darci una risposta esaustiva alla domanda: ‘Per quale motivo esiste qualcosa, piuttosto che il niente?’” (Benedetto XVI, Viaggio Ap.
Nel regno Unito, Incontro con i Rappresentanti di altre Religioni, 17.9.2010).
L’uomo, dunque, è domanda e nostalgia: domanda di senso sulla realtà e su se stesso; nostalgia di una risposta che sia il compimento al suo sentirsi incompiuto, al suo riconoscersi un paradosso posto sulla misteriosa linea di confine tra il finito e l’infinito, il divino e l’umano.
2.
L’educazione appartiene alla missione della Chiesa Dall’ orizzonte appena accennato nasce la necessità di sempre e la sfida di oggi: l’educazione come crocevia sensibile delle problematiche che agitano questa inquieta stagione di inizio millennio e che interpellano in modo particolare la comunità cristiana: “Nel settore educativo – affermava Benedetto XVI – la Chiesa ha molto da fare e da dare per quanto riguarda la formazione.
In Italia parliamo del problema dell’emergenza educativa.
E’ un problema comune a tutto l’occidente: qui la Chiesa deve di nuovo attualizzare, concretizzare, aprire per il futuro la sua grande eredità” (intervista a Benedetto XVI durante il viaggio aereo da Roma a Praga, 26.9.2009).
Come non ricordare qui le parole di Platone? “Lasceremo forse che i fanciulli ascoltino facilmente i primi miti che capitano, inventati dai primi venuti, e permetteremo forse che i ragazzi accolgano nelle loro anime opinioni per più opposte a quelle che riterremo essi debbano avere, una volta divenuti maturi? Certamente no” (Repubblica, 1 II, c.
17, p.
376e); “Perciò bisogna fare ogni sforzo perché le prime cose che essi odono siano miti composti quanto meglio possibile per spingere alla virtù” (ib.
p.
377b).
Se educare – possiamo dire – è aprire alla vita, accettare di incontrarla e di porsi in dialogo con essa, ciò significa lasciarsi provocare, imparare a conoscere se stesso, riconoscere limiti e talenti, tematizzare criteri e principi, imparare a distinguere il bene dal male, porsi degli obiettivi, accettare la gradualità e la fatica, sviluppare la fortezza,…in una parola porsi sulla via della paideia coniugando reale e ideale, intelligenza e cuore, conoscenza e ascesi che, nella esperienza della grazia, sono pilastri dell’educazione.
Il riferimento, come sempre, è Gesù Cristo: “Parliamo a voi come a condiscepoli alla stessa scuola del Signore – scrive Sant’Agostino -.
Abbiamo infatti un unico Maestro, nel quale tutti siamo una cosa sola (…) Sotto questo Maestro, la cui cattedra è il cielo – è per mezzo delle Scritture che dobbiamo essere formati – fate dunque attenzione a quelle poche cose che vi dirò”  Sant’Agostino, Discorso 270, 1: cit.
CEI Orientamenti Pastorali, n.
1).
Come emerge nel secondo capitolo degli Orientamenti, Dio educa il suo popolo secondo una pedagogia adatta alle diverse situazioni.
Sarà Gesù, il Verbo di Dio, che porterà a compimento quest’opera con i suoi discepoli.
Ne sceglie dodici e ne fa degli Apostoli.
Erano uomini adulti, avvezzi ad una esistenza di sacrificio.
La vita li interpellava rude ogni giorno ed essi rispondevano alle sue chiamate: il lavoro, la famiglia, gli amici, la fede ebraica, la società di appartenenza, il villaggio…Il divino Maestro li sceglie e li educa per una nuova vita.
Come? Basta scorrere i Vangeli e vediamo che la scuola è fatta di parole e silenzi, di gesti quotidiani e di miracoli, di rimproveri e di tenerezza, di esigenza e di pazienza, di fatica e di preghiera, di compagnia e di solitudine.
Sempre di amore e di fiducia verso quei poveri uomini, semplici e quasi tutti incolti, che si sono trovati all’improvviso dentro un’avventura più grande di loro.
Le parabole, i grandi discorsi sulla montagna o in riva al mare, i miracoli, la gloria di Gerusalemme e l’abiezione dolorosa del Calvario, l’intimità misteriosa del cenacolo, l’alba della risurrezione e il distacco fisico dell’ ascensione al cielo, la Pentecoste…tutto era grazia di salvezza per il mondo e, per loro, anche cattedra che li educava ad una nuova vita.
Gesù è dunque il Maestro perfetto, ma anche il modello pieno e affascinante da guardare per educare ed educarci, la vera unità di misura  dell’umanesimo.
Il Vangelo, infatti, proprio perché Parola di salvezza, contiene tutto l’umano: proprio per questo lo sguardo rivolto su Cristo non è restrizione di prospettive, ma apertura nella verità, ed è per questa ragione che tutti possono guardare a Lui come a modello e metodo: “Come ha affermato il Concilio Vaticano II, Gesù Cristo, rivelandoci il mistero del Padre e del suo amore, ha rivelato anche l’uomo a se stesso, rendendogli nota la sua altissima vocazione che è essenzialmente chiamata alla santità, ossia alla perfezione dell’amore” (CEI Orientamenti Pastorali, n.
23).
Ma Cristo è anche sorgente di forza e di grazia, perché ciò che in Lui vediamo e a cui Lui ci chiama possa in noi, non senza di noi, diventare felice realtà: Egli è via, verità e vita.
“L’esistenza cristiana non è frutto di uno sforzo volontaristico, ma è un cammino attraverso il quale il Maestro interiore apre la mente e il cuore alla comprensione del mistero di Dio e dell’uomo” (ib.
n.
22).
Accenno appena che l’educazione richiede un grembo e questo è il grembo della Chiesa Madre e Maestra.
Gli Orientamenti lo sottolineano in modo incisivo al numero 21.
Mi piace solo citare le parole di Sant’Agostino riportate felicemente nel testo: “Oh Chiesa cattolica, oh madre dei cristiani nel senso più vero (…) tu educhi ed ammaestri tutti: i fanciulli con tenerezza infantile, i giovani con forza, i vecchi con serenità, ciascuno secondo l’età, secondo le sue capacità non solo corporee ma psichiche.
Chi debba essere educato, ammonito o condannato tu lo insegni a tutti con solerzia, mostrando che non si deve dare tutto a tutti, ma a tutti amore e a nessuno ingiustizia” (cit.
ib.
n.21).
Sull’esempio del Signore Gesù e nella tradizione della Chiesa, ricordiamo che l’opera educativa “esige un rapporto personale di fedeltà tra soggetti attivi, che sono protagonisti della relazione educativa” (ib.
n.
26) anche in forza del fatto che il lavoro educativo s’innesta nell’atto generativo e nell’esperienza di essere figli: non si finisce mai di essere figli, per questo possiamo essere padri ed educatori.
Mantenendo la verità dei ruoli, e le responsabilità che derivano dalla vita e dagli anni, l’educatore si pone in gioco nell’atto educativo, si colloca dentro a questo processo e ci sta con gioia accettando la fatica: la luce infatti – secondo alcune belle immagini di Romano Guardini – si accende solo con la luce, la vita con la vita.
Possiamo aggiungere che la libertà si accende solo con la libertà: se l’educatore non è per primo un uomo luminoso, vivo e interiormente libero, non potrà accendere nulla e nessuno, non potrà generare la persona.
Per questo motivo ogni genitore di fronte al figlio, così come ogni educatore di fronte al giovane, non deve chiedersi “cosa posso fare per lui?”, ma “chi sono io?”.
Il docente deve essere un maestro.
Egli non trasmette il sapere come se fosse un oggetto d’uso e consumo, ma stabilisce anzitutto una relazione sapienziale che, anche quando non può giungere all’incontro personale per il numero elevato degli studenti, si fa parola di vita ancora prima che trasmissione di conoscenze.
Egli istruisce nel significato originario del termine, offre cioè un apporto sostanziale alla strutturazione della personalità; educa, secondo l’antica immagine socratica, aiutando a scoprire e attivare le capacità e i doni di ciascuno; forma, secondo la comprensione umanistica, che non restringe questo termine alla pur necessaria acquisizione di competenze professionali, ma le inquadra in una costruzione solida e in una correlazione trasparente di significati di vita.
3.
Educare in Università Al numero 49 degli Orientamenti, i Vescovi parlano del ruolo dell’Università come luogo particolare di educazione: “L’Università svolge un ruolo determinante per la formazione delle nuove generazioni, garantendo un elevato livello culturale.
Una preparazione adeguata, a livello universitario, assicura competenze atte non solo a entrare nel mondo del lavoro, finalizzate alle professioni, ma anche utili a orientarsi nella complessità culturale odierna”.
Puntuali le parole di Benedetto XVI: “Che cos’è l’università? Quale è il suo compito? Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo.
Egli vuole sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda.
Vuole la verità” (Benedetto XVI, Allocuzione per l’incontro con l?università degli studi di Roma “La Sapienza”, 17.1.2008).
Tenendo conto che il compito educativo chiama in causa diversi soggetti e chiede una urgente capacità di reti virtuose all’interno del labirinto sociale e culturale, vorrei ora presentare una specie di “declinazione educativa” per cercare di rispondere alla completezza del titolo: “il contributo delle Università”.
1) Educare alle domande.
Per creare interesse, movimento, ricerca e proporre delle risposte, è necessario che vi siano le domande.
Le domande di fondo sono quelle di sempre perché legate all’uomo; le ho accennate sopra e sono riprese nella storia di tutti i tempi, basta pensare alle coinvolgenti pagine di Giobbe, ella Sapienza, del Qoelet, dei Proverbi, dei Salmi; riandare ai tragici greci, a tanti autori latini, a Sant’Agostino, ai poeti e scrittori della letteratura e della filosofia…Sono le eterne domande di senso che possono essere coperte dal frastuono ma mai soffocate.
Esse non sono legate al grado di civiltà, progresso e cultura, ad epoche storiche definite, bensì marchiano a fuoco il cuore dell’uomo.
L’uomo, questo mistero! Egli, quando è se stesso, è immediatamente oltre sé, come ricordava Pascal.
Domande che il Concilio Vaticano II e il Magistero dei Papi riprendono e sintetizzano: “Un semplice sguardo alla storia antica mostra con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgono nello stesso tempo le domande di fondo: chi sono io? Da dove vengo e dove vado? Perché la presenza del male? Cosa ci sarà dopo questa vita?” (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n.1).
Tutte si riconducono al fatto che l’uomo è domanda a se stesso, un enigma confusamente percepito.
Tutto questo esiste nell’anima, non è indotto, si tratta di farlo emergere là dove i rumori, le evasioni, le illusioni, i modelli accattivanti sono riusciti a mettere la sordina, a gettare polvere, o forse meglio, a rendere l’uomo sordo alle voci dell’essere.
Bisogna non dare per scontato, su nessuna cattedra, che le domande di fondo siano chiare nel cuore dei giovani ed abbiano udienza.
Provocarle, ravvivarle, richiamarle, è imprescindibile compito di ogni Università: potremmo dire, che la sua prima missione è quella di porre le questioni prime, esistenziali.
Non si tratta di suscitare dubbi, ma di dare voce alla verità che è in noi.
2) Educare alla verità La ricerca della verità chiede verità.
Ma oggi questa è oscurata: da cosa? Non parlo della ragione considerata debole e che richiamerò nel punto successivo; intendo indicare l’oscuramento che proviene dalla banalità e dalla volgarità imperante.
La banalità, il vuoto dell’anima e della vita, è figlia della cultura dell’utile.
La volgarità e la violenza ne sono le figlie.
L’utilità non è malvagia in se stessa, lo diventa quando si pone come valore primo e assoluto: allora non solo la verità è perdente, ma anche l’utilità è sconfitta perché, fuori dal rapporto con la verità, si nega e si elimina da sé.
Il senso dell’utile, presente nell’uomo come il senso del vero, è più immediato e appariscente; quindi risulta avere buon gioco nel disputarsi l’attenzione e l’interesse del soggetto, viene ad avere più peso.
Per questo è necessario coltivare nei giovani il senso e il gusto della verità.
Essa, ad una sensibilità non allenata, appare di primo acchito leggera, quasi inconsistente, imprendibile e poco interessante.
Essa nasce dalla presa sul reale: in un clima dove tutto sembra virtuale e fabulatorio, mitico e appariscente, è troppo facile che il giovane perda la presa sulla realtà, sulle cose come sono in se stesse, sulla vita com’è non come si vorrebbe che fosse.
E’ fatale che ci si rinchiuda in una bolla incantata o mostruosa.
Il senso della verità richiede la consuetudine con le domande alte, con la capacità al lavoro della ricerca, alla fatica; ma esige anche una tensione morale, la disponibilità cioè a lasciarsi giudicare dalla verità.
Essa giudica non per schiacciare ma per liberare la vita dagli inganni e dalle schiavitù.
Se il soggetto non è disposto a questo cammino interiore, sarà difficile che riconosca la verità delle cose, dei valori, dei significati, perché riconoscere richiede docilità e cambiamento.
E’ quindi necessaria una continua azione di bonifica intellettuale ed etica rispetto ai molti “idola” che sono luoghi comuni di pensare e di agire: si tratta di quella vita inautentica di heideggeriana memoria, che nasce e si nutre del “si” impersonale e spersonalizzante: “si dice”e “si fa”.
3) Educare alla ragione Esiste un’ulteriore sfida nei confronti della verità: è quella di una ragione svilita e svigorita della forza di raggiungere la verità oggettiva del reale.
La cosiddetta ragione debole, per la quale tutto diventa necessariamente relativo sul piano cognitivo, impedisce ogni vera educazione.
Se il soggetto, infatti, vive avvolto dalla nebbia dello scetticismo teoretico, quali criteri, quali obiettivi, potranno essere indicati dalla pedagogia? Quale forza potranno avere le ragioni di una ragione incapace? Ma anche come sarà possibile non cadere nel cinismo etico? Sappiamo che il soggetto ha un ruolo inevitabile nel circolo ermeneutico della conoscenza, ma sappiamo anche che la dialettica soggetto-oggetto sta nell’orizzonte del realismo, cioè di una realtà data che ci precede e che non costruiamo noi, ma di cui noi stessi siamo parte.
L’esperienza universale di ieri e di oggi, il senso comune che ha ispirato la filosofia perenne e che guida la vita, testimonia non solo il desiderio della ricerca, ma altresì la fiducia originaria dell’uomo nelle proprie capacità conoscitive.
Il pensiero critico, che fa parte degli obiettivi propri dell’Università, come potrà essere raggiunto se critica il pensiero nella sua stessa radice, rendendolo un pensiero invalido? Inoltre, come insiste il Santo Padre Benedetto XVI, è necessario superare l’orizzonte angusto della ragione strumentale consegnata alle categorie della sola ricerca empirica, che conduce a conoscere il “come” le cose funzionano, al fine dominarle e piegarle al proprio servizio.
Occorre allargare gli spazi della ragione e ricuperare la dimensione contemplativa che si interroga e indaga sul “perché” dell’essere e sul senso della totalità.
Tra l’altro, è solo all’interno di questo orizzonte che l’uomo può trovare il luogo della sintesi di se stesso e del suo esistere.
Infine, non è sufficiente riaffermare la fiducia nella ragione nella sua interezza – strumentale e contemplativa –, è anche indispensabile imparare a ragionare, vale a dire acquisire i meccanismi propri del retto raziocinio: questo, per giungere alla meta della verità, ha bisogno non solo di poter camminare ma anche di saper camminare correttamente.
Il recupero della logica non va inteso come rigidità metodologica e mortificazione della spontaneità e del genio, ma semplicemente come alveo di ciò che ordinariamente è il faticoso cammino di ricerca e di argomentazione.
4) Educare all’umano Il Novecento appena concluso ha lasciato in eredità, insieme grandi luci, una domanda inquietante: chi è l’uomo, chi è la persona? La controversia sull’umano non solo non sembra per nulla conclusa, ma addirittura più attuale, grave e complessa.
E’ la questione antropologica che il mondo occidentale sta affrontando, trovandosi di fronte ad acquisizioni tecnico-scientifiche impensate, che pongono l’uomo in condizione di intervenire e manipolare se stesso e la natura in misura sconcertante e con esiti imprevedibili.
Se il retto agire nasce dal retto pensare, vediamo quanto sia urgente partire da una teoresi vera per poter arrivare, attraverso il filtro della libertà responsabile dei singoli, ad una prassi buona per tutti.
Se alla radice della cultura si impianta una visione distorta o monca dell’uomo, le conseguenze saranno nefaste per il singolo e per la società intera.
Oggi, è sotto gli occhi di tutti, si confrontano e spesso si scontrano due opposte concezioni antropologiche.
Se l’uomo è un individuo chiuso in se stesso, autoreferenziale, legge a se stesso, occupato all’affermazione di sé, la visione della vita e della società sarà chiusa e individualista, tesa a far valere in prima istanza i propri bisogni o desideri, ritenuti come sacrosanti diritti.
La percezione della libertà individuale verrà talmente assolutizzata da farne il primo dei valori a cui commisurare e sottomettere ogni altro valore: essenziale sarà che la libertà sia liberata da tutto ciò che possa essere o apparire come un vincolo, fosse anche la propria vita.
La stessa rete delle relazioni verrà percepita come una penosa necessità da limitare il più possibile, fino al parossismo nichilista e autodistruttivo: “Io sono libero – esclamava J.P.
Sartre- non mi resta più nessuna ragione per vivere” (Sartre, La nausea).
In questa prospettiva antropologica l’individuo, alla ricerca di se stesso fuori da ogni vincolo, si allontana sempre più dagli altri ma anche dalla vita, e si fa prigioniero della sua solitudine.
Radicalmente diversa è la concezione dell’uomo che trova le sue radici nel mistero di Dio: il Creatore non è solitudine ma Trinità di Persone nell’unico Dio, e l’uomo porta questa incancellabile impronta che segna anche la direzione di marcia, l’imperativo etico, la sua vocazione e il suo destino.
Per questa ragione la persona, che è “individuo in relazione”, si realizza solo uscendo da sé nella dimensione del dono, e la libertà è sempre sì personale ma anche libertà in relazione con valori che le danno contenuto, e quindi la rendono capace di rispondere di se stessa; in relazione anche con il contesto vivo del mondo fatto di persone, di situazioni e di cose.
Ma innanzitutto la libertà, meglio ancora la persona, è in stretto e filiale rapporto con Dio, che in Cristo è diventato il grande “sì” alla vita, all’intelligenza, all’amore, al mondo (cfr Benedetto XVI, Discorso al Convegno Ecclesiale di Verona, 2006).
Nella visione cristiana è questa la ragione ultima, il principio euristico dell’antropologia che sta all’origine dell’umanesimo plenario e della società che ne è ispirata.
Una difficoltà che il Papa mette in rilievo nella missione educativa oggi sta in un falso concetto di autonomia, per cui “l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere al suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo.
In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che essa diventa se stessa solo dall’altro, l’ ‘io’ diventa se stesso solo dal ‘tu’ e dal ‘voi’, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica.
E solo l’incontro con il ‘tu’ e con il ‘noi’ apre l’ ‘io’ a se stesso.
Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma la rinuncia all’educazione” (Benedetto XVI, Discorso alla 61° Assemblea Generale della CEI, 27.5.2010).
Occorre aiutare a comprendere e a ricordare, non solo ai ragazzi e ai giovani ma anche agli adulti, che gli altri non sono soltanto un limite alla libertà, ma la condizione affinché ognuno possa vivere libero e felice.
5) Educare alla fede pensata Nell’ambito delle Università e Istituti accademici che fanno riferimento alla Chiesa Cattolica, non è possibile non fare almeno un cenno alla educazione ad una fede pensata, capace di dare ragione della propria speranza.
Nello scorso decennio i Vescovi avevano parlato, negli Orientamenti Pastorali, di “analfabetismo religioso”, e credo che quella preoccupazione sia ancora motivata.
Si impone dunque una formazione cristiana decisamente più sostanziosa e organica.
Il primo luogo della formazione è la comunità cristiana, le parrocchie e le aggregazioni ecclesiali: l’appello è per tutti un impegno maggiore, una dedizione che, pur tenendo conto della gradualità e delle situazioni di ciascuno, proponga itinerari di fede dove l’incontro con il Signore e le verità della fede siano abbracciati con crescente consapevolezza e cordialità, siano sostenuti e accompagnati da una forte vita di preghiera personale e liturgica, e corroborati dalla comunità cristiana.
Ma oltre a questa educazione di base, è opportuno che i luoghi della scientificità accademica siano meta di frequentazione organica da parte di coloro che sono possibilitati per circostanze e propensione, nell’orizzonte di una fede più consapevole e di una evangelizzazione che non si può rimandare.
Mi permetto di insistere su una particolare attenzione nell’ambito della docenza e dell’ approfondimento della fede e delle sue verità: è la questione di Dio.
Il Santo Padre è ritornato in diverse occasioni a rilevare che questa è la questione centrale per un occidente che appare sempre più smemorato delle sue origini e che sembra coltivare una crescente pretesa di costruire la città degli uomini senza Dio.
Diventa tanto più necessario che i credenti siano più consapevoli della novità cristiana nel vivere la storia per essere sale e luce per il nostro tempo, ma anche perché la coscienza del cristiano sia meglio avvertita su come la fede illumina e ispira in modo unico e originale tutti gli ambiti del suo vivere.
6) Per concludere In conclusione, mi permetto di segnalare una duplice considerazione che spero possa arricchire l’angolazione – quella universitaria – con la quale abbiamo affrontato, seppure parzialmente, il documento degli Orientamenti Pastorali.
Innanzitutto auspico che venga sempre più aiutata la coscienza critica dell’ora presente.
La cultura occidentale – ma in modo particolare l’Europa – mi pare sia giunta ad una linea di confine.
Non è qui possibile tentare delle analisi sulle origini e sulle cause più o meno lontane di questa parabola, semplicemente osserviamo che la linea demarca l’umano e ciò che è solo apparentemente umano.
Se questa lettura è corretta, come a me  sembra, se ne intuisce la gravità.
Mi pare che il Santo Padre ricordi proprio questa situazione quando, nell’Enciclica Caritas in  veritate, afferma che “la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica” (n.
75) e precisa che “quando una società si avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo.
Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (n.
28).
La questione dei cosiddetti “valori non negoziabili”, con tutto ciò che ne consegue, demarca questa linea di confine, questo crinale oltre il quale l’uomo perde se stesso e la società diventa disumana.
Non essere pienamente consapevoli di questa scommessa ed non starci con le ragioni della ragione confermata e illuminata dalla fede, significherebbe un grave peccato di omissione verso Dio e verso l’uomo.
In secondo luogo, in connessione con questa sfida sull’umano, è auspicabile che tutti gli Istituti accademici, che afferiscono alla Chiesa Cattolica, entrino maggiormente nei circuiti del dibattito pubblico per offrire alla riflessione collettiva, ad ogni livello, i migliori contributi – argomentati e incisivi – sulle grandi categorie dell’alfabeto umano, come la persona, l’anima, la vita, l’amore, la famiglia, la libertà, la morte…E’ necessario far comprendere che è in atto una decisiva scommessa che vede protagonisti due culture, quella della vita e quella della morte, culture che entrambe rivendicano per sé la vita.
La nota espressione – cultura della vita e cultura della morte – non è una forma letteraria usata dal Magistero per la sua forza suggestiva, ma descrive lucidamente la realtà che viviamo: si tratta del futuro dell’uomo.
Dimensionare o silenziare, non prendere in mano con decisione e grande impegno la questione, sarebbe mancare all’appuntamento a cui il Signore ci chiama.
Se la cultura è la forma della vita, allora tutto ciò che la vita presenta di vero, di bene e di bello, ma anche di problematico e di oscuro, deve prendere la forma della riflessione culturale per diventare giudizio critico e propositivo a vantaggio di tutti.
Vi ringrazio per la pazienza del vostro ascolto e per quello che fate come Università Salesiana: la luce di San Giovanni Bosco continui a guidarvi nella sua passione per il mondo della gioventù.
In voi, cari Amici, desidero salutare e onorare tutte le Università ecclesiastiche e civili, formulando l’augurio che la passione educativa che tutti ispira si intensifichi e alimenti rapporti rispettosi e virtuosi per il vero bene dei giovani.
Roma, Università Pontificia Salesiana 24.2.2011 8

Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2011

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE “Con Cristo siete sepolti nel Battesimo, con lui siete anche risorti” (cfr Col 2,12) Cari fratelli e sorelle, la Quaresima, che ci conduce alla celebrazione della Santa Pasqua, è per la Chiesa un tempo liturgico assai prezioso e importante, in vista del quale sono lieto di rivolgere una parola specifica perché sia vissuto con il dovuto impegno.
Mentre guarda all’incontro definitivo con il suo Sposo nella Pasqua eterna, la Comunità ecclesiale, assidua nella preghiera e nella carità operosa, intensifica il suo cammino di purificazione nello spirito, per attingere con maggiore abbondanza al Mistero della redenzione la vita nuova in Cristo Signore (cfr Prefazio I di Quaresima).
1.
Questa stessa vita ci è già stata trasmessa nel giorno del nostro Battesimo, quando, “divenuti partecipi della morte e risurrezione del Cristo”, è iniziata per noi “l’avventura gioiosa ed esaltante del discepolo” (Omelia nella Festa del Battesimo del Signore, 10 gennaio 2010).
San Paolo, nelle sue Lettere, insiste ripetutamente sulla singolare comunione con il Figlio di Dio realizzata in questo lavacro.
Il fatto che nella maggioranza dei casi il Battesimo si riceva da bambini mette in evidenza che si tratta di un dono di Dio: nessuno merita la vita eterna con le proprie forze.
La misericordia di Dio, che cancella il peccato e permette di vivere nella propria esistenza “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5), viene comunicata all’uomo gratuitamente.
L’Apostolo delle genti, nella Lettera ai Filippesi, esprime il senso della trasformazione che si attua con la partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo, indicandone la meta: che “io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11).
Il Battesimo, quindi, non è un rito del passato, ma l’incontro con Cristo che informa tutta l’esistenza del battezzato, gli dona la vita divina e lo chiama ad una conversione sincera, avviata e sostenuta dalla Grazia, che lo porti a raggiungere la statura adulta del Cristo.
Un nesso particolare lega il Battesimo alla Quaresima come momento favorevole per sperimentare la Grazia che salva.
I Padri del Concilio Vaticano II hanno richiamato tutti i Pastori della Chiesa ad utilizzare “più abbondantemente gli elementi battesimali propri della liturgia quaresimale” (Cost.
Sacrosanctum Concilium, 109).
Da sempre, infatti, la Chiesa associa la Veglia Pasquale alla celebrazione del Battesimo: in questo Sacramento si realizza quel grande mistero per cui l’uomo muore al peccato, è fatto partecipe della vita nuova in Cristo Risorto e riceve lo stesso Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti (cfr Rm 8,11).
Questo dono gratuito deve essere sempre ravvivato in ciascuno di noi e la Quaresima ci offre un percorso analogo al catecumenato, che per i cristiani della Chiesa antica, come pure per i catecumeni d’oggi, è una scuola insostituibile di fede e di vita cristiana: davvero essi vivono il Battesimo come un atto decisivo per tutta la loro esistenza.
2.
Per intraprendere seriamente il cammino verso la Pasqua e prepararci a celebrare la Risurrezione del Signore – la festa più gioiosa e solenne di tutto l’Anno liturgico – che cosa può esserci di più adatto che lasciarci condurre dalla Parola di Dio? Per questo la Chiesa, nei testi evangelici delle domeniche di Quaresima, ci guida ad un incontro particolarmente intenso con il Signore, facendoci ripercorrere le tappe del cammino dell’iniziazione cristiana: per i catecumeni, nella prospettiva di ricevere il Sacramento della rinascita, per chi è battezzato, in vista di nuovi e decisivi passi nella sequela di Cristo e nel dono più pieno a Lui.
La prima domenica dell’itinerario quaresimale evidenzia la nostra condizione dell’uomo su questa terra.
Il combattimento vittorioso contro le tentazioni, che dà inizio alla missione di Gesù, è un invito a prendere consapevolezza della propria fragilità per accogliere la Grazia che libera dal peccato e infonde nuova forza in Cristo, via, verità e vita (cfr Ordo Initiationis Christianae Adultorum, n.
25).
E’ un deciso richiamo a ricordare come la fede cristiana implichi, sull’esempio di Gesù e in unione con Lui, una lotta “contro i dominatori di questo mondo tenebroso” (Ef 6,12), nel quale il diavolo è all’opera e non si stanca, neppure oggi, di tentare l’uomo che vuole avvicinarsi al Signore: Cristo ne esce vittorioso, per aprire anche il nostro cuore alla speranza e guidarci a vincere le seduzioni del male.
Il Vangelo della Trasfigurazione del Signore pone davanti ai nostri occhi la gloria di Cristo, che anticipa la risurrezione e che annuncia la divinizzazione dell’uomo.
La comunità cristiana prende coscienza di essere condotta, come gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, “in disparte, su un alto monte” (Mt 17,1), per accogliere nuovamente in Cristo, quali figli nel Figlio, il dono della Grazia di Dio: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento.
Ascoltatelo” (v.
5).
E’ l’invito a prendere le distanze dal rumore del quotidiano per immergersi nella presenza di Dio: Egli vuole trasmetterci, ogni giorno, una Parola che penetra nelle profondità del nostro spirito, dove discerne il bene e il male (cfr Eb 4,12) e rafforza la volontà di seguire il Signore.
La domanda di Gesù alla Samaritana: “Dammi da bere” (Gv 4,7), che viene proposta nella liturgia della terza domenica, esprime la passione di Dio per ogni uomo e vuole suscitare nel nostro cuore il desiderio del dono dell’ “acqua che zampilla per la vita eterna” (v.
14): è il dono dello Spirito Santo, che fa dei cristiani “veri adoratori” in grado di pregare il Padre “in spirito e verità” (v.
23).
Solo quest’acqua può estinguere la nostra sete di bene, di verità e di bellezza! Solo quest’acqua, donataci dal Figlio, irriga i deserti dell’anima inquieta e insoddisfatta, “finché non riposa in Dio”, secondo le celebri parole di sant’Agostino.
La “domenica del cieco nato” presenta Cristo come luce del mondo.
Il Vangelo interpella ciascuno di noi: “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”.
“Credo, Signore!” (Gv 9,35.38), afferma con gioia il cieco nato, facendosi voce di ogni credente.
Il miracolo della guarigione è il segno che Cristo, insieme alla vista, vuole aprire il nostro sguardo interiore, perché la nostra fede diventi sempre più profonda e possiamo riconoscere in Lui l’unico nostro Salvatore.
Egli illumina tutte le oscurità della vita e porta l’uomo a vivere da “figlio della luce”.
Quando, nella quinta domenica, ci viene proclamata la risurrezione di Lazzaro, siamo messi di fronte al mistero ultimo della nostra esistenza: “Io sono la risurrezione e la vita… Credi questo?” (Gv 11,25-26).
Per la comunità cristiana è il momento di riporre con sincerità, insieme a Marta, tutta la speranza in Gesù di Nazareth: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo” (v.
27).
La comunione con Cristo in questa vita ci prepara a superare il confine della morte, per vivere senza fine in Lui.
La fede nella risurrezione dei morti e la speranza della vita eterna aprono il nostro sguardo al senso ultimo della nostra esistenza: Dio ha creato l’uomo per la risurrezione e per la vita, e questa verità dona la dimensione autentica e definitiva alla storia degli uomini, alla loro esistenza personale e al loro vivere sociale, alla cultura, alla politica, all’economia.
Privo della luce della fede l’universo intero finisce rinchiuso dentro un sepolcro senza futuro, senza speranza.
Il percorso quaresimale trova il suo compimento nel Triduo Pasquale, particolarmente nella Grande Veglia nella Notte Santa: rinnovando le promesse battesimali, riaffermiamo che Cristo è il Signore della nostra vita, quella vita che Dio ci ha comunicato quando siamo rinati “dall’acqua e dallo Spirito Santo”, e riconfermiamo il nostro fermo impegno di corrispondere all’azione della Grazia per essere suoi discepoli.
3.
Il nostro immergerci nella morte e risurrezione di Cristo attraverso il Sacramento del Battesimo, ci spinge ogni giorno a liberare il nostro cuore dal peso delle cose materiali, da un legame egoistico con la “terra”, che ci impoverisce e ci impedisce di essere disponibili e aperti a Dio e al prossimo.
In Cristo, Dio si è rivelato come Amore (cfr 1Gv 4,7-10).
La Croce di Cristo, la “parola della Croce” manifesta la potenza salvifica di Dio (cfr 1Cor 1,18), che si dona per rialzare l’uomo e portargli la salvezza: amore nella sua forma più radicale (cfr Enc.
Deus caritas est, 12).
Attraverso le pratiche tradizionali del digiuno, dell’elemosina e della preghiera, espressioni dell’impegno di conversione, la Quaresima educa a vivere in modo sempre più radicale l’amore di Cristo.
Il digiuno, che può avere diverse motivazioni, acquista per il cristiano un significato profondamente religioso: rendendo più povera la nostra mensa impariamo a superare l’egoismo per vivere nella logica del dono e dell’amore; sopportando la privazione di qualche cosa – e non solo di superfluo – impariamo a distogliere lo sguardo dal nostro “io”, per scoprire Qualcuno accanto a noi e riconoscere Dio nei volti di tanti nostri fratelli.
Per il cristiano il digiuno non ha nulla di intimistico, ma apre maggiormente a Dio e alle necessità degli uomini, e fa sì che l’amore per Dio sia anche amore per il prossimo (cfr Mc 12,31).
Nel nostro cammino ci troviamo di fronte anche alla tentazione dell’avere, dell’avidità di denaro, che insidia il primato di Dio nella nostra vita.
La bramosia del possesso provoca violenza, prevaricazione e morte; per questo la Chiesa, specialmente nel tempo quaresimale, richiama alla pratica dell’elemosina, alla capacità, cioè, di condivisione.
L’idolatria dei beni, invece, non solo allontana dall’altro, ma spoglia l’uomo, lo rende infelice, lo inganna, lo illude senza realizzare ciò che promette, perché colloca le cose materiali al posto di Dio, unica fonte della vita.
Come comprendere la bontà paterna di Dio se il cuore è pieno di sé e dei propri progetti, con i quali ci si illude di potersi assicurare il futuro? La tentazione è quella di pensare, come il ricco della parabola: “Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni…”.
Conosciamo il giudizio del Signore: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita…” (Lc 12,19-20).
La pratica dell’elemosina è un richiamo al primato di Dio e all’attenzione verso l’altro, per riscoprire il nostro Padre buono e ricevere la sua misericordia.
In tutto il periodo quaresimale, la Chiesa ci offre con particolare abbondanza la Parola di Dio.
Meditandola ed interiorizzandola per viverla quotidianamente, impariamo una forma preziosa e insostituibile di preghiera, perché l’ascolto attento di Dio, che continua a parlare al nostro cuore, alimenta il cammino di fede che abbiamo iniziato nel giorno del Battesimo.
La preghiera ci permette anche di acquisire una nuova concezione del tempo: senza la prospettiva dell’eternità e della trascendenza, infatti, esso scandisce semplicemente i nostri passi verso un orizzonte che non ha futuro.
Nella preghiera troviamo, invece, tempo per Dio, per conoscere che “le sue parole non passeranno” (cfr Mc 13,31), per entrare in quell’intima comunione con Lui “che nessuno potrà toglierci” (cfr Gv 16,22) e che ci apre alla speranza che non delude, alla vita eterna.
In sintesi, l’itinerario quaresimale, nel quale siamo invitati a contemplare il Mistero della Croce, è “farsi conformi alla morte di Cristo” (Fil 3,10), per attuare una conversione profonda della nostra vita: lasciarci trasformare dall’azione dello Spirito Santo, come san Paolo sulla via di Damasco; orientare con decisione la nostra esistenza secondo la volontà di Dio; liberarci dal nostro egoismo, superando l’istinto di dominio sugli altri e aprendoci alla carità di Cristo.
Il periodo quaresimale è momento favorevole per riconoscere la nostra debolezza, accogliere, con una sincera revisione di vita, la Grazia rinnovatrice del Sacramento della Penitenza e camminare con decisione verso Cristo.
Cari fratelli e sorelle, mediante l’incontro personale col nostro Redentore e attraverso il digiuno, l’elemosina e la preghiera, il cammino di conversione verso la Pasqua ci conduce a riscoprire il nostro Battesimo.
Rinnoviamo in questa Quaresima l’accoglienza della Grazia che Dio ci ha donato in quel momento, perché illumini e guidi tutte le nostre azioni.
Quanto il Sacramento significa e realizza, siamo chiamati a viverlo ogni giorno in una sequela di Cristo sempre più generosa e autentica.
In questo nostro itinerario, ci affidiamo alla Vergine Maria, che ha generato il Verbo di Dio nella fede e nella carne, per immergerci come Lei nella morte e risurrezione del suo Figlio Gesù ed avere la vita eterna.
Dal Vaticano, 4 novembre 2010 BENEDICTUS PP XVI

San Giovanni della Croce

L’amore di Cristo non è un peso per l’uomo, ma “gli dà quasi ali”.
Lo ha detto il Papa parlando di san Giovanni della Croce all’udienza generale di mercoledì 16 febbraio, nell’Aula Paolo VI.
Cari fratelli e sorelle, due settimane fa ho presentato la figura della grande mistica spagnola Teresa di Gesù.
Oggi vorrei parlare di un altro importante Santo di quelle terre, amico spirituale di santa Teresa, riformatore, insieme a lei, della famiglia religiosa carmelitana: san Giovanni della Croce, proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Pio XI, nel 1926, e soprannominato nella tradizione Doctor mysticus, “Dottore mistico”.
Giovanni della Croce nacque nel 1542 nel piccolo villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nella Vecchia Castiglia, da Gonzalo de Yepes e Catalina Alvarez.
La famiglia era poverissima, perché il padre, di nobile origine toledana, era stato cacciato di casa e diseredato per aver sposato Catalina, un’umile tessitrice di seta.
Orfano di padre in tenera età, Giovanni, a nove anni, si trasferì, con la madre e il fratello Francisco, a Medina del Campo, vicino a Valladolid, centro commerciale e culturale.
Qui frequentò il Colegio de los Doctrinos, svolgendo anche alcuni umili lavori per le suore della chiesa-convento della Maddalena.
Successivamente, date le sue qualità umane e i suoi risultati negli studi, venne ammesso prima come infermiere nell’Ospedale della Concezione, poi nel Collegio dei Gesuiti, appena fondato a Medina del Campo: qui Giovanni entrò diciottenne e studiò per tre anni scienze umane, retorica e lingue classiche.
Alla fine della formazione, egli aveva ben chiara la propria vocazione: la vita religiosa e, tra i tanti ordini presenti a Medina, si sentì chiamato al Carmelo.
 Nell’estate del 1563 iniziò il noviziato presso i Carmelitani della città, assumendo il nome religioso di Mattia.
L’anno seguente venne destinato alla prestigiosa Università di Salamanca, dove studiò per un triennio arti e filosofia.
Nel 1567 fu ordinato sacerdote e ritornò a Medina del Campo per celebrare la sua Prima Messa circondato dall’affetto dei famigliari.
Proprio qui avvenne il primo incontro tra Giovanni e Teresa di Gesù.
L’incontro fu decisivo per entrambi: Teresa gli espose il suo piano di riforma del Carmelo anche nel ramo maschile dell’Ordine e propose a Giovanni di aderirvi “per maggior gloria di Dio”; il giovane sacerdote fu affascinato dalle idee di Teresa, tanto da diventare un grande sostenitore del progetto.
I due lavorarono insieme alcuni mesi, condividendo ideali e proposte per inaugurare al più presto possibile la prima casa di Carmelitani Scalzi: l’apertura avvenne il 28 dicembre 1568 a Duruelo, luogo solitario della provincia di Avila.
Con Giovanni formavano questa prima comunità maschile riformata altri tre compagni.
Nel rinnovare la loro professione religiosa secondo la Regola primitiva, i quattro adottarono un nuovo nome: Giovanni si chiamò allora “della Croce”, come sarà poi universalmente conosciuto.
Alla fine del 1572, su richiesta di santa Teresa, divenne confessore e vicario del monastero dell’Incarnazione di Avila, dove la Santa era priora.
Furono anni di stretta collaborazione e amicizia spirituale, che arricchì entrambi.
A quel periodo risalgono anche le più importanti opere teresiane e i primi scritti di Giovanni.
L’adesione alla riforma carmelitana non fu facile e costò a Giovanni anche gravi sofferenze.
L’episodio più traumatico fu, nel 1577, il suo rapimento e la sua incarcerazione nel convento dei Carmelitani dell’Antica Osservanza di Toledo, a seguito di una ingiusta accusa.
Il Santo rimase imprigionato per mesi, sottoposto a privazioni e costrizioni fisiche e morali.
Qui compose, insieme ad altre poesie, il celebre Cantico spirituale.
Finalmente, nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1578, riuscì a fuggire in modo avventuroso, riparandosi nel monastero delle Carmelitane Scalze della città.
Santa Teresa e i compagni riformati celebrarono con immensa gioia la sua liberazione e, dopo un breve tempo di recupero delle forze, Giovanni fu destinato in Andalusia, dove trascorse dieci anni in vari conventi, specialmente a Granada.
Assunse incarichi sempre più importanti nell’Ordine, fino a diventare Vicario Provinciale, e completò la stesura dei suoi trattati spirituali.
Tornò poi nella sua terra natale, come membro del governo generale della famiglia religiosa teresiana, che godeva ormai di piena autonomia giuridica.
Abitò nel Carmelo di Segovia, svolgendo l’ufficio di superiore di quella comunità.
Nel 1591 fu sollevato da ogni responsabilità e destinato alla nuova Provincia religiosa del Messico.
Mentre si preparava per il lungo viaggio con altri dieci compagni, si ritirò in un convento solitario vicino a Jaén, dove si ammalò gravemente.
Giovanni affrontò con esemplare serenità e pazienza enormi sofferenze.
Morì nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, mentre i confratelli recitavano l’Ufficio mattutino.
Si congedò da essi dicendo: “Oggi vado a cantare l’Ufficio in cielo”.
I suoi resti mortali furono traslati a Segovia.
Venne beatificato da Clemente X nel 1675 e canonizzato da Benedetto XIII nel 1726.
Giovanni è considerato uno dei più importanti poeti lirici della letteratura spagnola.
Le opere maggiori sono quattro: Ascesa al Monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale e Fiamma d’amor viva.
Nel Cantico spirituale, san Giovanni presenta il cammino di purificazione dell’anima, e cioè il progressivo possesso gioioso di Dio, finché l’anima perviene a sentire che ama Dio con lo stesso amore con cui è amata da Lui.
La Fiamma d’amor viva prosegue in questa prospettiva, descrivendo più in dettaglio lo stato di unione trasformante con Dio.
Il paragone utilizzato da Giovanni è sempre quello del fuoco: come il fuoco quanto più arde e consuma il legno, tanto più si fa incandescente fino a diventare fiamma, così lo Spirito Santo, che durante la notte oscura purifica e “pulisce” l’anima, col tempo la illumina e la scalda come se fosse una fiamma.
La vita dell’anima è una continua festa dello Spirito Santo, che lascia intravedere la gloria dell’unione con Dio nell’eternità.
L’Ascesa al Monte Carmelo presenta l’itinerario spirituale dal punto di vista della purificazione progressiva dell’anima, necessaria per scalare la vetta della perfezione cristiana, simboleggiata dalla cima del Monte Carmelo.
Tale purificazione è proposta come un cammino che l’uomo intraprende, collaborando con l’azione divina, per liberare l’anima da ogni attaccamento o affetto contrario alla volontà di Dio.
La purificazione, che per giungere all’unione d’amore con Dio dev’essere totale, inizia da quella della vita dei sensi e prosegue con quella che si ottiene per mezzo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, che purificano l’intenzione, la memoria e la volontà.
La Notte oscura descrive l’aspetto “passivo”, ossia l’intervento di Dio in questo processo di “purificazione” dell’anima.
Lo sforzo umano, infatti, è incapace da solo di arrivare fino alle radici profonde delle inclinazioni e delle abitudini cattive della persona: le può solo frenare, ma non sradicarle completamente.
Per farlo, è necessaria l’azione speciale di Dio che purifica radicalmente lo spirito e lo dispone all’unione d’amore con Lui.
San Giovanni definisce “passiva” tale purificazione, proprio perché, pur accettata dall’anima, è realizzata dall’azione misteriosa dello Spirito Santo che, come fiamma di fuoco, consuma ogni impurità.
In questo stato, l’anima è sottoposta ad ogni genere di prove, come se si trovasse in una notte oscura.
 Queste indicazioni sulle opere principali del Santo ci aiutano ad avvicinarci ai punti salienti della sua vasta e profonda dottrina mistica, il cui scopo è descrivere un cammino sicuro per giungere alla santità, lo stato di perfezione cui Dio chiama tutti noi.
Secondo Giovanni della Croce, tutto quello che esiste, creato da Dio, è buono.
Attraverso le creature, noi possiamo pervenire alla scoperta di Colui che in esse ha lasciato una traccia di sé.
La fede, comunque, è l’unica fonte donata all’uomo per conoscere Dio così come Egli è in se stesso, come Dio Uno e Trino.
Tutto quello che Dio voleva comunicare all’uomo, lo ha detto in Gesù Cristo, la sua Parola fatta carne.
Gesù Cristo è l’unica e definitiva via al Padre (cfr Gv 14, 6).
Qualsiasi cosa creata è nulla in confronto a Dio e nulla vale al di fuori di Lui: di conseguenza, per giungere all’amore perfetto di Dio, ogni altro amore deve conformarsi in Cristo all’amore divino.
Da qui deriva l’insistenza di san Giovanni della Croce sulla necessità della purificazione e dello svuotamento interiore per trasformarsi in Dio, che è la meta unica della perfezione.
Questa “purificazione” non consiste nella semplice mancanza fisica delle cose o del loro uso; quello che rende l’anima pura e libera, invece, è eliminare ogni dipendenza disordinata dalle cose.
Tutto va collocato in Dio come centro e fine della vita.
Il lungo e faticoso processo di purificazione esige certo lo sforzo personale, ma il vero protagonista è Dio: tutto quello che l’uomo può fare è “disporsi”, essere aperto all’azione divina e non porle ostacoli.
Vivendo le virtù teologali, l’uomo si eleva e dà valore al proprio impegno.
Il ritmo di crescita della fede, della speranza e della carità va di pari passo con l’opera di purificazione e con la progressiva unione con Dio fino a trasformarsi in Lui.
Quando si giunge a questa meta, l’anima si immerge nella stessa vita trinitaria, così che san Giovanni afferma che essa giunge ad amare Dio con il medesimo amore con cui Egli la ama, perché la ama nello Spirito Santo.
Ecco perché il Dottore Mistico sostiene che non esiste vera unione d’amore con Dio se non culmina nell’unione trinitaria.
In questo stato supremo l’anima santa conosce tutto in Dio e non deve più passare attraverso le creature per arrivare a Lui.
L’anima si sente ormai inondata dall’amore divino e si rallegra completamente in esso.
Cari fratelli e sorelle, alla fine rimane la questione: questo santo con la sua alta mistica, con questo arduo cammino verso la cima della perfezione ha da dire qualcosa anche a noi, al cristiano normale che vive nelle circostanze di questa vita di oggi, o è un esempio, un modello solo per poche anime elette che possono realmente intraprendere questa via della purificazione, dell’ascesa mistica? Per trovare la risposta dobbiamo innanzitutto tenere presente che la vita di san Giovanni della Croce non è stata un “volare sulle nuvole mistiche”, ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta, sia da riformatore dell’ordine, dove incontrò tante opposizioni, sia da superiore provinciale, sia nel carcere dei suoi confratelli, dove era esposto a insulti incredibili e a maltrattamenti fisici.
È stata una vita dura, ma proprio nei mesi passati in carcere egli ha scritto una delle sue opere più belle.
E così possiamo capire che il cammino con Cristo, l’andare con Cristo, “la Via”, non è un peso aggiunto al già sufficientemente duro fardello della nostra vita, non è qualcosa che renderebbe ancora più pesante questo fardello, ma è una cosa del tutto diversa, è una luce, una forza, che ci aiuta a portare questo fardello.
Se un uomo reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé questa grande luce; questa è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù.
Questo lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno.
E la santità non è un’opera nostra, molto difficile, ma è proprio questa “apertura”: aprire le finestre della nostra anima perché la luce di Dio possa entrare, non dimenticare Dio perché proprio nell’apertura alla sua luce si trova forza, si trova la gioia dei redenti.
Preghiamo il Signore perché ci aiuti a trovare questa santità, lasciarsi amare da Dio, che è la vocazione di noi tutti e la vera redenzione.
Grazie.
Bendetto XVI (©L’Osservatore Romano – 17 febbraio 2011)

Libertà religiosa, via per la pace.

«I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede»: con questa affermazione il messaggio pontificio Libertà religiosa, via per la pace per la XLIV Giornata mondiale della pace, reso noto pochi giorni prima di Natale (16 dicembre), ha subito attirato l’attenzione dei media.
Nel 25° anniversario dell’Incontro interreligioso di pre ghiera per la pace di Assisi (ottobre 1986), il riferimento è, infatti, non solo a quelle situazioni nelle quali si coltiva «una visione riduttiva della persona umana», ge nerando così «una società ingiusta», ma si allarga a tutte quelle «forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini ».
In tema di libertà religiosa, la Santa Sede e lo stesso Benedetto XVI sono recentemente intervenuti anche a proposito della situazione in Cina: cf.
Regno-att.
22,2010,737 e riquadro a p.
6.
Regno-doc.
n.1, 2011, p.1 Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf Visualizza il testo dell’articolo

I cristiani e il risveglio arabo

Le rivolte arabe hanno sorpreso tutti.
Le proteste nascono da dure condizioni di vita ma anche dall’umiliazione di regimi corrotti.
È una rivolta in buona parte di giovani: il 61% degli egiziani, il 58% dei libici e il 74% degli yemeniti hanno meno di trent’anni.
I giovani non si sono rassegnati all’intimidazione che ha trattenuto i loro padri per anni.
Gente alfabetizzata e globalizzata reagisce in modo nuovo: si sente soggetto, non solo oggetto della storia.
Il sistema autoritario non riesce a bloccare chi ha vissuto una rivoluzione mentale.
Si sollevano società civili e classi medie umiliate con la coscienza di non essere più isolate, ma parte di una comunità globale con nuovi mezzi per comunicare.
«Siamo tutti egiziani» — si leggeva su un cartello in piazza Tahrir, mentre fraternizzavano musulmani e cristiani.
Eppure papa Shenouda, capo di vari milioni di copti (sempre critico verso le vessazioni del governo), ha sostenuto Mubarak: ha chiesto ai suoi giovani di non scendere in piazza.
Le minoranze cristiane hanno paura.
Gli autocrati sembrano garantirle di fronte alla marea musulmana.
Ma trapelano sospetti che il ministro dell’Interno di Mubarak abbia avuto connivenze nell’attentato alla chiesa copta di Alessandria.
Allora si capisce meglio la furente reazione egiziana alle proteste italiane e alle parole di Benedetto XVI per la strage.
A piazza Tahrir un giovane cristiano brandiva un cartello: «Sono copto e sto qui malgrado papa Shenouda».
Un piccolo episodio ignorato riguarda la sinagoga vicino piazza Tahrir, sempre protetta da blindati.
Con la rivolta, i militari sono spariti e i dimostranti, divenuti padroni della zona, hanno rispettato il tempio.
Sintomo di un sentire maturo? Certo preoccupano le dichiarazioni di alcuni religiosi contro Israele ed è inquietante l’arrivo di due navi iraniane nel Mediterraneo via Suez.
Il futuro politico delle rivolte arabe non è chiaro.
Un ingegnere libico ha detto all’inviato de La Stampa: «Vuol sapere come finirà? Non lo so proprio, so soltanto che non ci fermeremo».
La politica e le analisi europee sono state a lungo bloccate dall’alternativa secca tra autocrati e pericolo islamico.
Di fronte agli ultimi eventi ci si è troppo limitati alla legittima, ma riduttiva domanda se ne guadagnasse l’islamismo.
Ma, per esportare la democrazia in Iraq contro un sanguinario dittatore, si è combattuta una guerra.
Poca simpatia è spirata da noi verso il «vento di libertà» di piazza Tahrir.
Si tratta di un nuovo ’68, di un ’89 o che altro? Per il «vento della libertà», laddove è vittorioso, comincia ora un delicato viaggio verso la democrazia attraverso le istituzioni e la politica.
L’entusiasmo per la libertà riuscirà a fondare un senso della cittadinanza che superi il fondamentalismo delle identità? In ogni caso mi pare dovuta un’apertura di credito da parte di chi crede nei valori democratici e nella libertà.
La paura è un cattivo consigliere.
Ha bloccato la politica occidentale verso gli arabi con il timore dell’Urss e poi del fondamentalismo.
Certo si capiscono gli interessi economici (come in Libia).
Ma c’è un limite, già da tempo oltrepassato da Gheddafi.
E mille morti pesano.
La radicalizzazione repressiva poi fa il gioco degli estremisti.
Il ministro Frattini, reduce dall’Egitto, ha indicato una prospettiva nuova al convegno tra cristiani e  musulmani sulle ragioni della convivenza, tenutosi mercoledì a Sant’Egidio: «Bisogna passare dalla partnership della convenienza a quella della convivenza» — ha detto.
La convivenza è riconoscimento del pluralismo.
Un simile riconoscimento da parte  musulmana è solida garanzia alle minoranze cristiane, del cui valore l’Europa comincia ad accorgersi.
Dopo tanta retorica mediterranea, oggi le due rive sono più vicine e il mondo arabo meno lontano da noi.
Il futuro è nelle mani di tutti, arabi ed europei, in un mondo più globale.
in “Corriere della Sera” del 25 febbraio 2011

Evangeliario secondo il rito romano

CONFERENZA EPISCOPALE PIEMONTESE, Evangeliario secondo il rito romano, EMP, Padova 2010, ISBN: 8825025106, pp.340, Euro 140 Nel volume sono riportati tutti i brani dei vangeli letti nelle domeniche, nelle solennità e quelli per le messe rituali.
Le pericopi sono disposte secondo l’ordine canonico dei vangeli e per ognuna di esse è indicata la celebrazione in cui viene letta.
Quattro Vangeli da baciare e ascoltare di Gianfranco Ravasi in “Il Sole 24 Ore” del 16 gennaio 2011 II diacono ha incensato prima e cantato poi il testo evangelico della solennità; richiude il volume, lo eleva e lo porta processionalmente verso il papa che presiede la celebrazione.
Il pontefice accoglie e bacia questo libro dalla legatura d’argento tempestata di gemme e con esso benedice l’assemblea che ha ascoltato in piedi.
Molti ricordano questa scena visibile nelle trasmissioni televisive dei riti papali: il gesto, che può essere ripetuto anche nelle altre liturgie locali solenni, esprime la venerazione per la Parola sacra, proclamata a voce e cristallizzata nella pagina scritta.
Già nell’ebraismo la Torah era ed è nel cuore stesso della sinagoga.
Infatti, una copia manoscritta della «Legge», i primi cinque libri della Bibbia (Pentateuco), usata per la pubblica lettura, è custodita nell”aron haqodesh, l’«arca santa» del luogo di culto.
Si tratta di un rotolo di pergamena sul quale un sofer, uno scriba, ha trascritto a mano l’intero testo ebraico di quei libri, con inchiostro nero brillante così da far sfolgorare ogni lettera e parola, e – secondo un’antica tradizione – con calamo vegetale o animale, perché ogni penna metallica avrebbe evocato la materia con cui si approntano le armi, negando così la missione di pace della Parola.
Anche il cristianesimo ebbe i suoi “lezionari”, ossia i testi liturgici che contenevano i brani biblici (le “pericopi”) proclamate nella celebrazione eucaristica.
Al loro interno si distinguevano gli “evangeliari” che contenevano solo i quattro Vangeli: uno studioso tedesco, Theodor Klauser, nel suo Das römische «Capitulare Evangeliorum» (Münster 1935), ne ha classificati un migliaio di latini, attestati tra il 645 e il 750.
All’interno, poi, degli evangeliari è da identificare una categoria più specifica sorta in epoca successiva, l’«evangelistario»: proprio perché nella liturgia si leggono, di volta in volta, a brani e non integralmente i quattro Vangeli, si pensò di preparare volumi nei quali fossero raccolti solo quelle “pericopi” distribuite nella sequenza delle varie domeniche e feste.
Questi «evangelistari», dall’evidente finalità pratica, acquistarono uno splendore particolare perché le loro pagine furono costellate di miniature, di capilettera in oro o argento, e furono raccolte in legature o teche impreziosite da smalti, avori e gemme.
Negli anni 80 si decise di elaborare – nello spirito del fervore liturgico post- conciliare – un «evangeliario» per le Chiese d’Italia che «avesse l’ambizione di competere per decoro e bellezza con gli splendidi esemplari trasmessi dall’antichità».
Apparve, così, nel 1987, per i tipi dei Fratelli Accetta, editori palermitani, Haec sunt Verba sancta.
Evangeliario delle Chiese d’Italia, un prodotto pregevole, ma certo non all’altezza di quegli «splendidi esemplari» del passato coi quali si voleva gareggiare.
Un nuovo Evangeliario secondo il rito romano, voluto dalla Conferenza Episcopale del Piemonte e della Valle d’Aosta, è ora disponibile per tutte le comunità ecclesiali italiane: in esso si nota il tentativo di fondere i due generi dell’«evangeliario» e dell’«evangelistario».
Infatti, da un lato, si hanno i testi integrali dei quattro Vangeli; d’altro lato, però, essi sono suddivisi secondo i vari brani che la liturgia propone nella sua articolazione annuale (anzi, triennale).
All’opera si può assegnare la definizione di «nobile semplicità» che il Concilio Vaticano II proponeva per lo stile liturgico sia per il candore della legatura, sia per il nitore tipografico, sia per la sobrietà delle immagini, riproduzioni di sculture in marmo di Trani, eseguite nel 2001da Novello Finotti per la facciata della Basilica di S.
Giustina a Padova.
Certo, si potrebbe pensare anche a un dialogo più intenso e serrato con l’arte contemporanea, auspicabile dopo gli anni del divorzio che si è consumato nel secolo scorso.
Qualcosa del genere fu tentato con coraggio dalla Conferenza Episcopale Italiana col suo recente Lezionario domenicale e festivo in tre volumi: l’idea era felice e suggestiva, anche se l’attuazione fu guidata con poco rigore e il risultato fu eterogeneo e diseguale.
Su questa scia si muove ora anche la Chiesa di Milano che sta allestendo un suo «evangeliario», illustrato da artisti contemporanei di alta qualità, considerato come il suggello della recente riforma del lezionario del rito ambrosiano (una riforma oggetto di discussioni e critiche varie da parte di alcuni esperti).
Significativo è, comunque, lo sforzo di riannodare il confronto con l’arte dei nostri tempi, propugnato da Paolo VI già nel 1964 in un memorabile discorso tenuto agli artisti nella Cappella Sistina, evento e appello reiterato il 21 novembre 2009 da Benedetto XVI nello stesso luogo mirabile, sulla scia anche della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II del 1999.
Si tratta di un incontro necessario e benefico sia per la liturgia sia per l’arte che nella storia sempre s’incrociarono, generando capolavori straordinari in una continua evoluzione: si pensi solo ai trapassi tra paleocristiano, romanico, gotico, rinascimentale, barocco, neoclassico o alla rivoluzione della polifonia rispetto alla “monodia” del gregoriano…
Ora, purtroppo, da un lato in ambito ecclesiale si ricorre spesso soltanto al ricalco di moduli, stili e generi di epoche precedenti o si adotta il puro e semplice artigianato o, peggio, ci si adatta alla bruttezza dei nuovi quartieri urbani e dell’edilizia aggressiva, innalzando edifici sacri simili, come diceva sarcasticamente padre David M.Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli.
D’altro lato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure e quel “grande codice” che era la Bibbia.
Ha abbandonato, come pericolosa, ogni proposta di messaggio, si è consacrata a esercizi stilistici sofisticati o provocatori e fin blasfemi, si è rinchiusa nel cerchio dell’autoreferenzialità, si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato spesso artificioso ed eccessivo.
Le parole di Benedetto XVI possono essere di stimolo ad ambedue gli ambiti: «Non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare coi credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita.
La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi, li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la meta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente».

Camillo Ruini: «La stabilità è un bene Opportuno il contributo di chiunque possa darlo»

L’intervista Sul citofono della casa che guarda il Vaticano non è scritto «cardinale» o «eminenza» , ma solo il cognome: Ruini.
Anche ora che non è più il capo dei vescovi italiani e il vicario del Papa, la sua autorevolezza e il suo prestigio tra i cattolici — e non solo— sono intatti.
Cardinal Ruini, lei ha organizzato un convegno sui 150 anni dell’Unità d’Italia.
Come mai l’unificazione, che si fece contro la Chiesa, oggi è difesa dalla Chiesa stessa? «Lo abbiamo fatto spontaneamente, ci pareva importante dare il nostro contributo.
Ma fin dall’ 800 nella realtà cattolica e anche in ambienti ecclesiastici si guardava con simpatia e coinvolgimento all’Unità.
A dividere la Chiesa dalla nuova Italia era la questione romana, l’indipendenza dal potere politico.
Poi, in particolare nella seconda metà del ’ 900, il contributo dei cattolici alla storia unitaria è stato grande.
Quando ho cercato di approfondire il tema dei 150 anni, avevo in mente la lettera ai vescovi italiani del 6 gennaio 1994, in cui Giovanni Paolo II insiste sulla missione dell’Italia in Europa in un modo che ci appare sorprendente.
Oggi è difficile trovare un italiano che si esprima in questi termini sull’Italia» .
Lei pensa che oggi l’unità nazionale sia in pericolo? «Un pericolo immediato non lo vedo.
Vedo piuttosto una tendenza alla divaricazione tra il Centro Nord e il Sud.
Bisogna cercare di invertire questa tendenza, governarla e superarla; altrimenti a lungo termine può diventare pericolosa» .
Sta emergendo un separatismo anche meridionale? «Non direi un separatismo ma una profonda insoddisfazione, che non è una novità.
Già molti anni fa — almeno dall’ 86, quando arrivai alla Cei come segretario— notavo nella cultura meridionale una lettura dell’unificazione come un danno per il Sud.
Forse adesso è venuta più fuori, ma non nasce ora» .
L’espansione della Lega la preoccupa? «Non credo sia da collegarsi a una volontà separatista, ma più che altro a una rivendicazione delle autonomie locali e in genere di concretezza.
Il federalismo corrisponde alla ricchezza plurale della nostra società, perché l’Italia è il Paese delle cento città.
E può aiutare a responsabilizzare le classi dirigenti locali.
Certo bisogna che sia un federalismo solidale, bilanciato da un’autorità centrale abbastanza forte sul piano non solo della legislazione ma del governo concreto» .
Oggi siamo alla fine di un ciclo politico, o è importante la stabilità sino alla fine della legislatura? «Guardate, della fine dei cicli è meglio parlare quando si sono conclusi e un nuovo ciclo è nato.
Parlarne prima è piuttosto avventuroso.
Non è facile prevedere queste cose» .
Sarebbe auspicabile che i centristi cattolici contribuissero alla stabilità? «La stabilità è certamente un bene per il Paese.
Quindi è opportuno che ogni forza che può farlocontribuisca.
I modi possono essere tanti.
Certo la stabilità non è l’unico bene: accanto a essa c’è la capacità di fare riforme.
Entrambe, stabilità e riformabilità, rimandano allo stesso problema: una guida che possa essere stabile ma anche in grado di prendere decisioni.
Viviamo un periodo di velocissimi mutamenti in tutto il mondo.
Ogni paese, ogni persona è costretta ad adeguarsi in tempi rapidi.
Questo è forse il più grande problema del nostro tempo: nel Vaticano II, con la Gaudium et spes, si dice che la caratteristica del tempo presente è il mutamento.
Era vero nel ’ 65; lo è molto di più nel 2011.
E questo richiede una certa agilità.
È vero fino a un certo punto che il nostro Paese sia poco stabile.
È più vero che è lento nel prendere decisioni» .
Sta dicendo che occorrono riforme per dare più poteri ai governi? «Il problema della debolezza istituzionale dell’esecutivo c’è fin dall’inizio, dal ’ 48.
Anche al tempo di De Gasperi ricordo che ci fu una serie di suoi governi.
Da molti anni questa mia personale valutazione mi ha portato a consigliare, a chi veniva a parlare con me, di trovare la maniera per rafforzare l’esecutivo: sempre nel rispetto della distinzione dei poteri dello Stato» .
Il bipolarismo è un valore o una gabbia che può essere scardinata? «Credo che il bipolarismo, come tutte le forme politiche, abbia pregi e svantaggi.
La Chiesa non ha competenza a intervenire su una o l’altra forma; io posso dire una parola a titolo personale, non di più.
Il bipolarismo è un tentativo di adattare all’Italia, e alla molteplicità dei suoi soggetti politici, uno schema che consenta l’alternanza e una certa governabilità.
Un modo di adeguare il bipartitismo a una realtà complessa come la nostra» .
Nel 2008 lei era considerato favorevole a un accordo tra i cattolici e il Pdl, che non ci fu.
Oggi lo ritiene ancora possibile? «È improprio parlare di un accordo tra i cattolici e il Pdl: molti cattolici sono nel Pdl o lo sostengono, altri lo avversano o comunque non lo amano.
L’accordo a cui vi riferite è nel novero delle cose possibili.
Ciò che può contribuire alla stabilità politica è opportuno.
Ma non tocca a me dare indicazioni operative che non mi competono» .
Ma in chiave storica, secondo lei, dalla Chiesa è venuto un appoggio al berlusconismo? Se sì, dura tuttora? Perché la Chiesa sembra diffidare tanto del centrosinistra? «Queste due categorie, berlusconismo e antiberlusconismo, non servono a molto, per comprendere le dinamiche ecclesiali.
Non è mai stato un problema per noi, né in un senso né nell’altro.
Se vogliamo decifrare la linea della Chiesa nel lungo periodo, è abbastanza semplice: basta approfondire le parole di Giovanni Paolo II a Palermo, nel novembre ’ 95.
Il Papa disse che l’unità dei cattolici non era più intorno a un partito ma a contenuti essenziali e vincolanti; mentre per il resto ci poteva essere un pluralismo anche tra i cattolici.
Questa è sempre stata la linea su cui ci siamo mossi» .
Questi valori essenziali sono stati fatti propri più dalla destra che dalla sinistra? «Ognuno di voi può osservarlo nella realtà empirica.
Non sono cose che si giudicano a priori» .
Infatti le stiamo guardando a posteriori.
«Ma se si chiede alla Chiesa di dare lei stessa questo giudizio, ricadremmo nello schema precedente, quello dell’unità politico-partitica dei cattolici.
Noi non diamo indicazioni di voto.
E credo che questo sia apprezzato dall’opinione pubblica: la gente preferisce che noi indichiamo alcuni obiettivi ed essere poi lei a giudicare della congruenza delle forze politiche con ciò che diciamo.
E naturalmente, anche tra la gente, non tutti tengono conto delle nostre indicazioni» .
Nel referendum sulla fecondazione assistita ne hanno tenuto conto.
«Lì era diverso.
Lì non c’erano in gioco i partiti, si andava direttamente sui contenuti.
Il referendum ci consentiva quindi più libertà di intervento.
C’era da fare una scelta.
Noi l’abbiamo fatta.
Fortunatamente non è stata una scelta isolata» .
Ma non siete stati troppo accondiscendenti con Berlusconi? «Nella Chiesa, come sapete, ci sono vari atteggiamenti.
Personalmente non amo dare giudizi pubblici sui comportamenti privati delle singole persone, specialmente quando questi giudiziverrebbero subito letti e interpretati in chiave di lotta politica.
È chiaro comunque che ciascuno di noi deve cercare di dare una testimonianza positiva, tanto più importante quanto maggiore è la sua notorietà» .
Lei non ha mai avuto l’impressione che i politici facessero propri a parole i valori della Chiesa in modo strumentale? «Giudicare le intenzioni è molto difficile.
Che i leader pensino anche a un ritorno in termini politici non è strano, forse è anche normale.
D’altra parte sono scelte che hanno anche dei costi.
Non è che uno appoggiando la Chiesa ci guadagni di sicuro.
Quello che la Chiesa dice, infatti, è spesso controcorrente».
Che impressione le hanno fatto le immagini degli scontri del 14 dicembre a Roma? Vede il rischio di una stagione violenta? «Bisogna distinguere protesta e violenza.
Quando la protesta non è violenta, i giovani vanno ascoltati.
Più che il rifiuto della riforma universitaria, credo che queste proteste esprimano una preoccupazione di fondo: oggi le aspettative per i giovani non sono crescenti, ma purtroppo decrescenti.
E questo problema va fronteggiato in due modi.
È necessario fare riforme che diano maggiore spazio ai giovani, perché la società italiana penalizza i giovani, a cominciare dai bambini.
E bisogna che tutti— anche le famiglie, che tendono a essere molto protettive — accettino che nel mondo globalizzato i risultati anche personali si ottengono oggi con fatica maggiore di ieri.
La competizione geopolitica è diventata molto più dura e questo è un fatto irreversibile che riguarda tutto l’Occidente.
Bisogna dunque educare i ragazzi, fin da piccoli, ad affrontare le difficoltà, e non volerli proteggere da tutto.
Quanto alla violenza, è qualcosa che purtroppo si ripete dal ’ 68.
La mia personale allergia risale agli anni 70, quando mi occupavo di studenti a Reggio Emilia: ricordo la fatica di conquistare la possibilità di espressione che da tempo veniva rifiutata.
Per imporre il pensiero unico era facile che si arrivasse a forme di intimidazione» .
Il Papa ha paragonato il nostro tempo al crollo dell’Impero romano…
«Chi ha seguito gli scritti del teologo e del cardinale Ratzinger, e poi di Benedetto XVI, sa che da tempo ha questa preoccupazione: vengono meno i fondamenti morali, culturali e antropologici su cui si fonda la nostra civiltà.
L’imperare del consumismo e del relativismo.
L’eliminazione della specificità irriducibile dell’uomo rispetto agli altri viventi.
E in particolare l’odio dell’Europa verso se stessa, l’odio del proprio passato e delle radici cristiane.
Lo stesso cristianesimo, oltre a essere oggetto di odio, sembra talvolta odiare se stesso e rinnegare la propria rilevanza storica e perfino salvifica.
Ricordo quanto fu contestata dall’interno della Chiesa la dichiarazione Dominus Iesus, che nel 2000 affermava un punto base del Nuovo Testamento: Gesù Cristo è l’unico Salvatore!» .
Quali sentimenti le ha suscitato il libro-intervista del Papa? «Sono stato colpito dalla sua disarmante sincerità, dal suo esporsi sui temi più difficili, e dalla lucidità con cui li affronta.
La linea è sempre quella.
Da una parte Benedetto XVI denuncia la gravità dei problemi nella società e anche dentro la Chiesa.
Dall’altra non indulge mai a una lettura pessimistica, alla fine c’è sempre una grande fiducia: dovuta alla fede in Dio ma anche alla fiducia nell’uomo, quando l’uomo può esprimersi nella sua piena dimensione, come soggetto libero, intelligente e responsabile» .
Lei come passerà la notte di Natale? Per chi pregherà e per chi invita a pregare? «Come ogni anno, andrò alla messa di mezzanotte del Papa in San Pietro.
Pregherò per la Chiesa, per la pace nel mondo, per il mio Paese, per tutti coloro che soffrono e per i tanti che mi chiedono di pregare per loro.
Ma il Natale richiama specialmente Betlemme, le origini umili e indifese del cristianesimo, la povertà e debolezza del Bambino che nasce per noi.
Questi inizi devono essere una caratteristica permanente.
Non possono essere relegati al passato.
Natale ci serve per ritrovare l’origine e vedere il presente in quella chiave: il Natale non è una bella favola per i bambini ma una realtà, più reale delle cose che tocchiamo con mano ogni giorno» in “Corriere della Sera” del 24 dicembre 2010

Natale alla ricerca di una morale comune

Caro direttore, la realtà testarda che si impone anche se non sempre vorremmo accettarla, l´attualità incalzante che lascia emergere preoccupanti tensioni, che ci ributta continuamente addosso le conseguenze pesanti dell´attuale crisi economica e politica, ci costringono alla fine a stare di fronte a una domanda cruciale: è ancora possibile una “morale comune” (common morality) nella nostra società plurale? Si può ancora parlare di una “percezione morale” (moral insight) per sua natura universale e propria di ogni uomo in quanto uomo? È ancora valida l´affermazione cara a Lewis che esiste «un´attitudine di rispetto e di gratitudine per ciò che ci è stato donato», attitudine propria di ogni uomo nei confronti di quell´eredità di saggezza pratica che tutte le tradizioni, le culture e le religioni hanno assicurato, in tutte le parti del globo, alla grande catena delle generazioni? Su questi temi Benedetto XVI, nel recente discorso di auguri alla Curia, ha usato parole provocanti parlando dell´ethos  contemporaneo per il quale «… non esisterebbero né il male in sé, né il bene in  sé.
Esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”.
Niente sarebbe in se stesso bene o male.
Tutto dipenderebbe dalle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male.
La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere».
«Contro di esse – ha aggiunto Benedetto XVI – Giovanni Paolo II nella sua enciclica Veritatis splendor del 1993 indicò con forza profetica nella grande tradizione razionale dell´ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell ´agire morale».
Importanti correnti del pensiero morale concordano nell´affermare che per cogliere l´autentica natura della morale si debba partire dalla esperienza elementare del bene che ogni uomo vive.
Se si guarda alla genesi di questa esperienza morale, ci si rende conto che essa si radica in un desiderio di compimento di sé che prende forma dalla promessa suscitata dalle inclinazioni e dagli affetti originari.
A partire dalle relazioni primarie di riconoscimento reciproco con la mamma e il papà, il bambino, mediante la parola, acquista coscienza pratica di se stesso e diventa capace di apertura e comunione con gli altri.
A questo proposito il dialogo tra Gesù e il giovane ricco raccontato dal Vangelo è particolarmente significativo anche a una pura lettura razionale perché vi possiamo trovare conferma della triplice scansione dell´esperienza morale elementare: desiderio-riconoscimento-comunione.
Il giovane ricco si avvicina a esù e chiede: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?».
Accogliendo la domanda, Gesù gli risponde: «Dà ai poveri».
Lo invita cioè a riscoprire la decisività del nesso tra il bene e la relazione.
Il desiderio di compimento che anima il giovane ricco si realizza, dunque, in questo riconoscimento che apre a una vita comune, condivisa: è questa la forma originaria dell´esperienza del bene e la verità antropologica della moralità.
Se i comandamenti sono la via al bene, il principio della moralità è il bene stesso.
Ed è nella relazione che questo si rivela primariamente.
Del bene si deve fare esperienza perché il desiderio di bene trovi la via della piena attuazione.
A conferma di questo, nell´episodio evangelico, Gesù rilancia ancora e indica un´altra più impegnativa relazione: «Una volta che hai dato tutto vieni e seguimi».
In questa proposta è contenuta una “pretesa” singolare: l´uomo apprende ad attuare il bene nella relazione con l´origine personale del bene e comprende quali sono le cose buone da fare continuando a intrattenere relazioni buone.
L´esperienza elementare del bene e della moralità consiste dunque nel beneficio primario della relazione.
Non si origina da un´idea del bene che sia contenuta nel cosmo o nel bios, né si deduce dalla natura razionale dell´uomo.
Per la costruzione di una moralità comune sembra emergere dunque come modello di riferimento su cui lavorare insieme quello che afferma, da una parte, che la moralità non inizia con il comandamento, ma dall´interno di una ricca e complessa esperienza elementare del bene come articolata unità di desiderio, promessa, parola, riconoscimento e comunione; dall´altra, che alla fine compete alla ragione discernere il senso di questa esperienza morale, comune a tutti gli uomini, per definire i beni umani fondamentali e quindi per sancire il loro universale significato morale.
Fattori questi decisivi in una società plurale come la nostra.
patriarca di Venezia in “la Repubblica” del 23 dicembre 2010

“Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato”

Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della Pace 2010

 

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio di Benedetto XVI per la 43ª Giornata Mondiale della Pace, che si celebrerà il 1° gennaio 2010 sul tema: “Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato”.


Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato

1. IN OCCASIONE DELL’INIZIO DEL NUOVO ANNO, desidero rivolgere i più fervidi auguri di pace a tutte le comunità cristiane, ai responsabili delle Nazioni, agli uomini e alle donne di buona volontà del mondo intero. Per questa XLIII Giornata Mondiale della Pace ho scelto il tema: Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. Il rispetto del creato riveste grande rilevanza, anche perché « la creazione è l’inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio»1 e la sua salvaguardia diventa oggi essenziale per la pacifica convivenza dell’umanità. Se, infatti, a causa della crudeltà dell’uomo sull’uomo, numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull’autentico sviluppo umano integrale – guerre, conflitti internazionali e regionali, atti terroristici e violazioni dei diritti umani –, non meno preoccupanti sono le minacce originate dalla noncuranza – se non addirittura dall’abuso – nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito. Per tale motivo è indispensabile che l’umanità rinnovi e rafforzi « quell’alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino».2

2. Nell’ Enciclica Caritas in veritate ho posto in evidenza che lo sviluppo umano integrale è strettamente collegato ai doveri derivanti dal rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a tutti, il cui uso comporta una comune responsabilità verso l’umanità intera, in special modo verso i poveri e le generazioni future. Ho notato, inoltre, che quando la natura e, in primo luogo, l’essere umano vengono considerati semplicemente frutto del caso o del determinismo evolutivo, rischia di attenuarsi nelle coscienze la consapevolezza della responsabilità.3 Ritenere, invece, il creato come dono di Dio all’umanità ci aiuta a comprendere la vocazione e il valore dell’uomo. Con il Salmista, pieni di stupore, possiamo infatti proclamare: « Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? » (Sal 8,4-5). Contemplare la bellezza del creato è stimolo a riconoscere l’amore del Creatore, quell’Amore che « move il sole e l’altre stelle».4

3. Vent’anni or sono, il Papa Giovanni Paolo II, dedicando il Messaggio della Giornata Mondiale della Pace al tema Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato, richiamava l’attenzione sulla relazione che noi, in quanto creature di Dio, abbiamo con l’universo che ci circonda. « Si avverte ai nostri giorni – scriveva – la crescente consapevolezza che la pace mondiale sia minacciata… anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura ». E aggiungeva che la coscienza ecologica « non deve essere mortificata, ma anzi favorita, in modo che si sviluppi e maturi, trovando adeguata espressione in programmi ed iniziative concrete».5 Già altri miei Predecessori avevano fatto riferimento alla relazione esistente tra l’uomo e l’ambiente. Ad esempio, nel 1971, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, Paolo VI ebbe a sottolineare che « attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, (l’uomo) rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione ». Ed aggiunse che in tal caso « non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale; ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile: problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana”.6

4. Pur evitando di entrare nel merito di specifiche soluzioni tecniche, la Chiesa, « esperta in umanità », si premura di richiamare con forza l’attenzione sulla relazione tra il Creatore, l’essere umano e il creato. Nel 1990, Giovanni Paolo II parlava di « crisi ecologica » e, rilevando come questa avesse un carattere prevalentemente etico, indicava l’« urgente necessità morale di una nuova solidarietà».7 Questo appello si fa ancora più pressante oggi, di fronte alle crescenti manifestazioni di una crisi che sarebbe irresponsabile non prendere in seria considerazione. Come rimanere indifferenti di fronte alle problematiche che derivano da fenomeni quali i cambiamenti climatici, la desertificazione, il degrado e la perdita di produttività di vaste aree agricole, l’inquinamento dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della biodiversità, l’aumento di eventi naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali e tropicali? Come trascurare il crescente fenomeno dei cosiddetti « profughi ambientali »: persone che, a causa del degrado dell’ambiente in cui vivono, lo devono lasciare – spesso insieme ai loro beni – per affrontare i pericoli e le incognite di uno spostamento forzato? Come non reagire di fronte ai conflitti già in atto e a quelli potenziali legati all’accesso alle risorse naturali? Sono tutte questioni che hanno un profondo impatto sull’esercizio dei diritti umani, come ad esempio il diritto alla vita, all’alimentazione, alla salute, allo sviluppo.

5. Va, tuttavia, considerato che la crisi ecologica non può essere valutata separatamente dalle questioni ad essa collegate, essendo fortemente connessa al concetto stesso di sviluppo e alla visione dell’uomo e delle sue relazioni con i suoi simili e con il creato. Saggio è, pertanto, operare una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, nonché riflettere sul senso dell’economia e dei suoi fini, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige lo stato di salute ecologica del pianeta; lo richiede anche e soprattutto la crisi culturale e morale dell’uomo, i cui sintomi sono da tempo evidenti in ogni parte del mondo.8 L’umanità ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale; ha bisogno di riscoprire quei valori che costituiscono il solido fondamento su cui costruire un futuro migliore per tutti. Le situazioni di crisi, che attualmente sta attraversando – siano esse di carattere economico, alimentare, ambientale o sociale –, sono, in fondo, anche crisi morali collegate tra di loro. Esse obbligano a riprogettare il comune cammino degli uomini. Obbligano, in particolare, a un modo di vivere improntato alla sobrietà e alla solidarietà, con nuove regole e forme di impegno, puntando con fiducia e coraggio sulle esperienze positive compiute e rigettando con decisione quelle negative. Solo così l’attuale crisi diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità.

6. Non è forse vero che all’origine di quella che, in senso cosmico, chiamiamo « natura », vi è « un disegno di amore e di verità »? Il mondo « non è il prodotto di una qualsivoglia necessità, di un destino cieco o del caso… Il mondo trae origine dalla libera volontà di Dio, il quale ha voluto far partecipare le creature al suo essere, alla sua saggezza e alla sua bontà».9 Il Libro della Genesi, nelle sue pagine iniziali, ci riporta al progetto sapiente del cosmo, frutto del pensiero di Dio, al cui vertice si collocano l’uomo e la donna, creati ad immagine e somiglianza del Creatore per « riempire la terra » e « dominarla » come « amministratori » di Dio stesso (cfr Gen 1,28). L’armonia tra il Creatore, l’umanità e il creato, che la Sacra Scrittura descrive, è stata infranta dal peccato di Adamo ed Eva, dell’uomo e della donna, che hanno bramato occupare il posto di Dio, rifiutando di riconoscersi come sue creature. La conseguenza è che si è distorto anche il compito di « dominare » la terra, di « coltivarla e custodirla » e tra loro e il resto della creazione è nato un conflitto (cfr Gen 3,17-19). L’essere umano si è lasciato dominare dall’egoismo, perdendo il senso del mandato di Dio, e nella relazione con il creato si è comportato come sfruttatore, volendo esercitare su di esso un dominio assoluto. Ma il vero significato del comando iniziale di Dio, ben evidenziato nel Libro della Genesi, non consisteva in un semplice conferimento di autorità, bensì piuttosto in una chiamata alla responsabilità. Del resto, la saggezza degli antichi riconosceva che la natura è a nostra disposizione non come « un mucchio di rifiuti sparsi a caso»,10 mentre la Rivelazione biblica ci ha fatto comprendere che la natura è dono del Creatore, il quale ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo possa trarne gli orientamenti doverosi per « custodirla e coltivarla » (cfr Gen 2,15).11 Tutto ciò che esiste appartiene a Dio, che lo ha affidato agli uomini, ma non perché ne dispongano arbitrariamente. E quando l’uomo, invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio, a Dio si sostituisce, finisce col provocare la ribellione della natura, « piuttosto tiranneggiata che governata da lui».12 L’uomo, quindi, ha il dovere di esercitare un governo responsabile della creazione, custodendola e coltivandola.13

7. Purtroppo, si deve constatare che una moltitudine di persone, in diversi Paesi e regioni del pianeta, sperimenta crescenti difficoltà a causa della negligenza o del rifiuto, da parte di tanti, di esercitare un governo responsabile sull’ambiente. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ricordato che « Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli».14 L’eredità del creato appartiene, pertanto, all’intera umanità. Invece, l’attuale ritmo di sfruttamento mette seriamente in pericolo la disponibilità di alcune risorse naturali non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future.15 Non è difficile allora costatare che il degrado ambientale è spesso il risultato della mancanza di progetti politici lungimiranti o del perseguimento di miopi interessi economici, che si trasformano, purtroppo, in una seria minaccia per il creato. Per contrastare tale fenomeno, sulla base del fatto che « ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale »,16 è anche necessario che l’attività economica rispetti maggiormente l’ambiente. Quando ci si avvale delle risorse naturali, occorre preoccuparsi della loro salvaguardia, prevedendone anche i costi – in termini ambientali e sociali –, da valutare come una voce essenziale degli stessi costi dell’attività economica. Compete alla comunità internazionale e ai governi nazionali dare i giusti segnali per contrastare in modo efficace quelle modalità d’utilizzo dell’ambiente che risultino ad esso dannose. Per proteggere l’ambiente, per tutelare le risorse e il clima occorre, da una parte, agire nel rispetto di norme ben definite anche dal punto di vista giuridico ed economico, e, dall’altra, tenere conto della solidarietà dovuta a quanti abitano le regioni più povere della terra e alle future generazioni.

8. Sembra infatti urgente la conquista di una leale solidarietà inter-generazionale. I costi derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni non possono essere a carico delle generazioni future: « Eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo degli obblighi verso tutti e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi ad ingrandire la cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, ch’è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere. Si tratta di una responsabilità che le generazioni presenti hanno nei confronti di quelle future, una responsabilità che appartiene anche ai singoli Stati e alla Comunità internazionale».17 L’uso delle risorse naturali dovrebbe essere tale che i vantaggi immediati non comportino conseguenze negative per gli esseri viventi, umani e non umani, presenti e a venire; che la tutela della proprietà privata non ostacoli la destinazione universale dei beni;18 che l’intervento dell’uomo non comprometta la fecondità della terra, per il bene di oggi e per il bene di domani. Oltre ad una leale solidarietà inter-generazionale, va ribadita l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà intra-generazionale, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e quelli altamente industrializzati: « la comunità internazionale ha il compito imprescindibile di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro».19 La crisi ecologica mostra l’urgenza di una solidarietà che si proietti nello spazio e nel tempo. È infatti importante riconoscere, fra le cause dell’attuale crisi ecologica, la responsabilità storica dei Paesi industrializzati. I Paesi meno sviluppati e, in particolare, quelli emergenti, non sono tuttavia esonerati dalla propria responsabilità rispetto al creato, perché il dovere di adottare gradualmente misure e politiche ambientali efficaci appartiene a tutti. Ciò potrebbe realizzarsi più facilmente se vi fossero calcoli meno interessati nell’assistenza, nel trasferimento delle conoscenze e delle tecnologie più pulite.

9. È indubbio che uno dei principali nodi da affrontare, da parte della comunità internazionale, è quello delle risorse energetiche, individuando strategie condivise e sostenibili per soddisfare i bisogni di energia della presente generazione e di quelle future. A tale scopo, è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti improntati alla sobrietà, diminuendo il proprio fabbisogno di energia e migliorando le condizioni del suo utilizzo. Al tempo stesso, occorre promuovere la ricerca e l’applicazione di energie di minore impatto ambientale e la « ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi».20 La crisi ecologica, dunque, offre una storica opportunità per elaborare una risposta collettiva volta a convertire il modello di sviluppo globale in una direzione più rispettosa nei confronti del creato e di uno sviluppo umano integrale, ispirato ai valori propri della carità nella verità. Auspico, pertanto, l’adozione di un modello di sviluppo fondato sulla centralità dell’essere umano, sulla promozione e condivisione del bene comune, sulla responsabilità, sulla consapevolezza del necessario cambiamento degli stili di vita e sulla prudenza, virtù che indica gli atti da compiere oggi, in previsione di ciò che può accadere domani.21

10. Per guidare l’umanità verso una gestione complessivamente sostenibile dell’ambiente e delle risorse del pianeta, l’uomo è chiamato a impiegare la sua intelligenza nel campo della ricerca scientifica e tecnologica e nell’applicazione delle scoperte che da questa derivano. La « nuova solidarietà », che Giovanni Paolo II propose nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1990,2 2 e la « solidarietà globale », che io stesso ho richiamato nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2009,23 risultano essere atteggiamenti essenziali per orientare l’impegno di tutela del creato, attraverso un sistema di gestione delle risorse della terra meglio coordinato a livello internazionale, soprattutto nel momento in cui va emergendo, in maniera sempre più evidente, la forte interrelazione che esiste tra la lotta al degrado ambientale e la promozione dello sviluppo umano integrale. Si tratta di una dinamica imprescindibile, in quanto « lo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità».24 Tante sono oggi le opportunità scientifiche e i potenziali percorsi innovativi, grazie ai quali è possibile fornire soluzioni soddisfacenti ed armoniose alla relazione tra l’uomo e l’ambiente. Ad esempio, occorre incoraggiare le ricerche volte ad individuare le modalità più efficaci per sfruttare la grande potenzialità dell’energia solare. Altrettanta attenzione va poi rivolta alla questione ormai planetaria dell’acqua ed al sistema idrogeologico globale, il cui ciclo riveste una primaria importanza per la vita sulla terra e la cui stabilità rischia di essere fortemente minacciata dai cambiamenti climatici. Vanno altresì esplorate appropriate strategie di sviluppo rurale incentrate sui piccoli coltivatori e sulle loro famiglie, come pure occorre approntare idonee politiche per la gestione delle foreste, per lo smaltimento dei rifiuti, per la valorizzazione delle sinergie esistenti tra il contrasto ai cambiamenti climatici e la lotta alla povertà. Occorrono politiche nazionali ambiziose, completate da un necessario impegno internazionale che apporterà importanti benefici soprattutto nel medio e lungo termine. È necessario, insomma, uscire dalla logica del mero consumo per promuovere forme di produzione agricola e industriale rispettose dell’ordine della creazione e soddisfacenti per i bisogni primari di tutti. La questione ecologica non va affrontata solo per le agghiaccianti prospettive che il degrado ambientale profila all’orizzonte; a motivarla deve essere soprattutto la ricerca di un’autentica solidarietà a dimensione mondiale, ispirata dai valori della carità, della giustizia e del bene comune. D’altronde, come ho già avuto modo di ricordare, « la tecnica non è mai solo tecnica. Essa manifesta l’uomo e le sue aspirazioni allo sviluppo; esprime la tensione dell’animo umano al graduale superamento di certi condizionamenti materiali. La tecnica, pertanto, si inserisce nel mandato di «coltivare e custodire la terra» (cfr Gen 2,15), che Dio ha affidato all’uomo, e va orientata a rafforzare quell’alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio».25

11. Appare sempre più chiaramente che il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi, gli stili di vita e i modelli di consumo e di produzione attualmente dominanti, spesso insostenibili dal punto di vista sociale, ambientale e finanche economico. Si rende ormai indispensabile un effettivo cambiamento di mentalità che induca tutti ad adottare nuovi stili di vita « nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti».26 Sempre più si deve educare a costruire la pace a partire dalle scelte di ampio raggio a livello personale, familiare, comunitario e politico. Tutti siamo responsabili della protezione e della cura del creato. Tale responsabilità non conosce frontiere. Secondo il principio di sussidiarietà, è importante che ciascuno si impegni al livello che gli corrisponde, operando affinché venga superata la prevalenza degli interessi particolari. Un ruolo di sensibilizzazione e di formazione spetta in particolare ai vari soggetti della società civile e alle Organizzazioni non-governative, che si prodigano con determinazione e generosità per la diffusione di una responsabilità ecologica, che dovrebbe essere sempre più ancorata al rispetto dell’ « ecologia umana ». Occorre, inoltre, richiamare la responsabilità dei media in tale ambito, proponendo modelli positivi a cui ispirarsi. Occuparsi dell’ambiente richiede, cioè, una visione larga e globale del mondo; uno sforzo comune e responsabile per passare da una logica centrata sull’egoistico interesse nazionalistico ad una visione che abbracci sempre le necessità di tutti i popoli. Non si può rimanere indifferenti a ciò che accade intorno a noi, perché il deterioramento di qualsiasi parte del pianeta ricadrebbe su tutti. Le relazioni tra persone, gruppi sociali e Stati, come quelle tra uomo e ambiente, sono chiamate ad assumere lo stile del rispetto e della « carità nella verità ». In tale ampio contesto, è quanto mai auspicabile che trovino efficacia e corrispondenza gli sforzi della comunità internazionale volti ad ottenere un progressivo disarmo ed un mondo privo di armi nucleari, la cui sola presenza minaccia la vita del pianeta e il processo di sviluppo integrale dell’umanità presente e di quella futura.

12. La Chiesa ha una responsabilità per il creato e sente di doverla esercitare, anche in ambito pubblico, per difendere la terra, l’acqua e l’aria, doni di Dio Creatore per tutti, e, anzitutto, per proteggere l’uomo contro il pericolo della distruzione di se stesso. Il degrado della natura è, infatti, strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana, per cui « quando l’«ecologia umana» è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio”.27 Non si può domandare ai giovani di rispettare l’ambiente, se non vengono aiutati in famiglia e nella società a rispettare se stessi: il libro della natura è unico, sia sul versante dell’ambiente come su quello dell’etica personale, familiare e sociale.28 I doveri verso l’ambiente derivano da quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri. Volentieri, pertanto, incoraggio l’educazione ad una responsabilità ecologica, che, come ho indicato nell’Enciclica Caritas in veritate, salvaguardi un’autentica « ecologia umana » e, quindi, affermi con rinnovata convinzione l’inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione, la dignità della persona e l’insostituibile missione della famiglia, nella quale si educa all’amore per il prossimo e al rispetto della natura.29 Occorre salvaguardare il patrimonio umano della società. Questo patrimonio di valori ha la sua origine ed è iscritto nella legge morale naturale, che è fondamento del rispetto della persona umana e del creato.

13. Non va infine dimenticato il fatto, altamente indicativo, che tanti trovano tranquillità e pace, si sentono rinnovati e rinvigoriti quando sono a stretto contatto con la bellezza e l’armonia della natura. Vi è pertanto una sorta di reciprocità: nel prenderci cura del creato, noi constatiamo che Dio, tramite il creato, si prende cura di noi. D’altra parte, una corretta concezione del rapporto dell’uomo con l’ambiente non porta ad assolutizzare la natura né a ritenerla più importante della stessa persona. Se il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi ad una concezione dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza ontologica e assiologica tra la persona umana e gli altri esseri viventi. In tal modo, si viene di fatto ad eliminare l’identità e il ruolo superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della « dignità » di tutti gli esseri viventi. Si dà adito, così, ad un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo. La Chiesa invita, invece, ad impostare la questione in modo equilibrato, nel rispetto della « grammatica » che il Creatore ha inscritto nella sua opera, affidando all’uomo il ruolo di custode e amministratore responsabile del creato, ruolo di cui non deve certo abusare, ma da cui non può nemmeno abdicare. Infatti, anche la posizione contraria di assolutizzazione della tecnica e del potere umano, finisce per essere un grave attentato non solo alla natura, ma anche alla stessa dignità umana.30

14. Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. La ricerca della pace da parte di tutti gli uomini di buona volontà sarà senz’altro facilitata dal comune riconoscimento del rapporto inscindibile che esiste tra Dio, gli esseri umani e l’intero creato. Illuminati dalla divina Rivelazione e seguendo la Tradizione della Chiesa, i cristiani offrono il proprio apporto. Essi considerano il cosmo e le sue meraviglie alla luce dell’opera creatrice del Padre e redentrice di Cristo, che, con la sua morte e risurrezione, ha riconciliato con Dio « sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli » (Col 1,20). Il Cristo, crocifisso e risorto, ha fatto dono all’umanità del suo Spirito santificatore, che guida il cammino della storia, in attesa del giorno in cui, con il ritorno glorioso del Signore, verranno inaugurati « nuovi cieli e una terra nuova » (2 Pt 3,13), in cui abiteranno per sempre la giustizia e la pace. Proteggere l’ambiente naturale per costruire un mondo di pace è, pertanto, dovere di ogni persona. Ecco una sfida urgente da affrontare con rinnovato e corale impegno; ecco una provvidenziale opportunità per consegnare alle nuove generazioni la prospettiva di un futuro migliore per tutti. Ne siano consapevoli i responsabili delle nazioni e quanti, ad ogni livello, hanno a cuore le sorti dell’umanità: la salvaguardia del creato e la realizzazione della pace sono realtà tra loro intimamente connesse! Per questo, invito tutti i credenti ad elevare la loro fervida preghiera a Dio, onnipotente Creatore e Padre misericordioso, affinché nel cuore di ogni uomo e di ogni donna risuoni, sia accolto e vissuto il pressante appello: Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2009

BENEDICTUS PP. XVI

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1 Catechismo della Chiesa Cattolica, 198.

2 BENEDETTO XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 7.

3 Cfr n. 48.

4 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Paradiso, XXXIII, 145.

5 Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 1.

6 Lett. ap. Octogesima adveniens, 21.

7 Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 10.

8 Cfr BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 32.

9 Catechismo della Chiesa Cattolica, 295.

10 ERACLITO DI EFESO (535 a.C. ca – 475 a.C. ca), Frammento 22B124, in H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Berlin 19526.

11 Cfr BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 48.

12 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 37.

13 Cfr BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 50.

14 Cost. Past. Gaudium et spes, 69.

15 Cfr GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 34.

16 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 37.

17 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 467; cfr PAOLO VI, Lett. enc. Populorum progressio, 17.

18 Cfr GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 30-31.43.

19 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 49.

20 Ibid.

21 Cfr SAN TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II-II, q. 49,5.

22 Cfr n. 9.

23 Cfr n. 8.

24 PAOLO VI, Lett. enc. Populorum progressio, 43.

25 Lett. enc. Caritas in veritate, 69.

26 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 36.

27 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 51.

28 Cfr ibid., 15.51.

29 Cfr ibid., 28.51.61: GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 38.39.

30 Cfr BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 70.

 

 

CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 15 dicembre 2009 –