Solo la bellezza ci salverà

 

Il prossimo mese di luglio Benedetto XVI incontrerà di nuovo degli artisti, meno di due anni dopo il precedente incontro nella Cappella Sistina (vedi foto).

Che l’arte, assieme ai santi e più ancora della ragione, sia “la più grande apologia della fede cristiana” è una tesi che Benedetto XVI ha sostenuto più volte.

Per lui la bellezza è “la via più attraente ed affascinante per giungere ad incontrare ed amare Dio”.

Ma questa tesi non ha affatto vita facile oggi, cioè almeno da quando, un paio di secoli fa, “si è spezzato il filo dell’arte sacra”: come ha titolato lo storico dell’arte Timothy Verdon un suo saggio su “L’Osservatore Romano” del 28 marzo 2008.

Enrico Maria Radaelli, filosofo dell’estetica, nel suo ultimo libro pone una domanda paradossale:

“Che cosa imparerebbero i milioni di fedeli che visitano la Cappella Sistina se le sue nobili pareti e la sua celebre volta, invece che da Michelangelo, fossero state dipinte da un Haring, un Warhol, un Bacon, un Viola, un Picasso?”.

Il nuovo saggio di Radaelli ha per titolo: “La bellezza che ci salva”. E il sottotitolo è tutto un programma: “La forza di ‘Imago’, il secondo Nome dell’Unigenito di Dio, che, con ‘Logos’, può dar vita a una nuova civiltà, fondata sulla bellezza”.

Sono trecento pagine di alta metafisica e di teologia, avvalorate da una prefazione del filosofo del “senso comune” Antonio Livi, sacerdote dell’Opus Dei e professore alla Pontificia Università Lateranense.

Ma sono pagine anche di critica sferzante alla deriva che ha travolto un fecondo rapporto durato secoli tra arte e fede cristiana. Senza risparmiare le alte gerarchie della Chiesa, che Radaelli accusa di aver abdicato al loro ruolo magisteriale, di faro della fede e quindi anche dell’arte cristiana.

Per invertire la rotta, Radaelli scrive che non basta qualche sporadico incontro tra il papa e gli artisti. A suo giudizio è necessario convocare nella Chiesa “un dibattito universale, non meramente artistico, ma teologico, liturgico, ecclesiologico, filosofico, un simposio pluriennale e multidisciplinare, il cui nome potrebbe essere il semplice ma chiaro ‘Stati generali della bellezza’”.

Radaelli fa i nomi di coloro che da lui interpellati, in Vaticano e fuori, hanno aderito all’idea: il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cultura; il cardinale Mauro Piacenza, prefetto della congregazione per il clero; il cardinale Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo ed ex segretario della congregazione per il culto divino; l’abate Michael John Zielinski, vicepresidente della pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa; Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani; Valentino Miserachs Grau, preside del pontificio istituto di musica sacra; Timothy Verdon, presidente dell’ufficio per la catechesi nell’arte dell’arcidiocesi di Firenze; Roberto de Mattei, storico, vicepresidente del Centro Nazionale delle Ricerche; Nicola Bux,  consultore della congregazione per il culto divino e dell’ufficio delle celebrazioni liturgiche pontificie; Ignacio Andereggen, membro della pontificia accademia di san Tommaso d’Aquino.

Con piglio polemico, Radaelli osserva che “ci vuole più coraggio” a organizzare questi “Stati generali della bellezza” che un Cortile dei Gentili. Perché – spiega – dialogare fuori del tempio col mondo profano sarà anche giusto e meritorio, ma prima ancora le gerarchie della Chiesa dovrebbero provvedere a far sì che la cattedrale della dottrina non vada in rovina, “piena com’è di inconsci ma non meno veri luterani, ariani, gnostici, pelagiani”.

Ma non è detto che nel Cortile dei Gentili la questione messa a fuoco da Radaelli sia taciuta. Nel primo di questi incontri di dialogo voluti da Benedetto XVI e attuati dal cardinale Ravasi, tenuto a Parigi nel marzo del 2011, c’è stato un oratore che l’ha proposta all’attenzione di tutti in forma bruciante.

Questo oratore è Jean Clair, storico dell’arte di fama mondiale, membro dell’Accademia di Francia e conservatore generale del patrimonio artistico francese.

Inoltre, il 2 giugno, festa dell’Ascensione di Gesù al Cielo, su “L’Osservatore Romano” il teologo Inos Biffi ha sviluppato il tema della “bellezza della verità di Dio” con accenti consonanti a quelli del saggio di Radaelli: altro segnale di attenzione autorevole alla questione.

Ecco qui di seguito alcuni passaggi degli interventi di Jean Clair e di Inos Biffi.

__________


CULTO DELL’AVANGUARDIA E CULTURA DI MORTE

di Jean Clair

Parigi, Cortile dei Gentili, 25 marzo 2011

[…] Ci sono nella storia della Chiesa episodi singolari come, nel XII e XIII secolo, la stupefacente moda dei Goliardi, chierici itineranti che scrivevano poesie erotiche e canzoni da taverna parecchio oscene, e che si dedicavano a fare parodie burlesche di messe e sacramenti della Chiesa. Ma i goliardi agivano così per criticare una Chiesa di cui denunciavano gli errori. Nulla di tutto ciò, oggi, negli artisti d’avanguardia, che non hanno rapporti con la Chiesa, e neanche voglia di burlarsene. Il movimento dei goliardi era legato a un’epoca di grande religiosità e di grande misticismo, non a una manifestazione di indifferenza.

Potrebbero essere solo le singolari deviazioni di qualche bello spirito, se la proliferazione di queste incursioni estetiche nelle chiese di Francia, e la comunanza della loro natura, esibizionista e spesso coprolalica, non inducesse a interrogarci sulla relazione che il cattolicesimo intrattiene oggi con la nozione di Bellezza.

Mi limiterò a pochi esempi:

– In una piccola chiesa della Vandea nel 2001, accanto alla cassa di un santo guaritore per il quale si viene da lontano in pellegrinaggio, si installa un’altra cassa colma di antibiotici.

– Più recentemente, nel battistero di una grande chiesa a Parigi si installa un’immensa macchina che fa colare liquido plastificante, lo sperma di Dio, su enormi certificati di battesimo, venduti sul posto a 1500 euro l’uno.

– A Gap, il vescovo presenta un’opera di un artista d’avanguardia, Peter Fryer, che rappresenta Cristo nudo con le braccia distese, legato su una sedia elettrica, come una Deposizione dalla Croce.

– Nel 2009, in una piccola chiesa di Finistère, una spogliarellista, Corinne Duval, nell’ambito di un happening di danza contemporanea, sovvenzionata dal ministero della cultura, termina danzando nuda sull’altare. […]

Quel che vedo rinascere e svilupparsi in questi culti libertini così simili a quelli che praticano certe sette gnostiche del secondo secolo mi sembra effettivamente una nuova gnosi, secondo la quale la creatura è innocente, il mondo è malvagio e il cosmo imperfetto.

Non sono un teologo, ma come storico delle forme sono colpito, in queste opere culturali dette “d’avanguardia” che oggi pretendono di far entrare nelle chiese la gioia della sofferenza e del male – mentre un tempo il culto tradizionale le combatteva con la sua liturgia –, dalla presenza ossessiva degli umori del corpo, privilegiando lo sperma, il sangue, il sudore, o il marciume, il pus nella frequente evocazione dell’aids. Naturalmente anche l’urina che – a proposito del “Piss Christ” dell’artista Andres Serrano, “imprescindibile star del mondo dell’arte e del mercato” secondo M. Brownstone – viene proclamata “portatrice di luce” in un’omelia del sacerdote, Robert Pousseur, allora incaricato di iniziare il clero francese ai misteri dell’arte contemporanea. […]

La Chiesa si è lasciata affascinare dalle avanguardie fino al punto di presumere che l’immondo e gli abomini offerti alla vista dai suoi artisti siano le migliori porte d’accesso alla verità del Vangelo. Nel frattempo sono state segnate diverse tappe che non oso definire come una deriva.

Negli anni ’70, la Chiesa non voleva conoscere dell’arte contemporanea altro che l’astrazione. Dopo le vetrate di Bazaine a Saint Séverin ci furono le vetrate di Jean Pierre Reynaud all’Abbazia di Noirlac, poi quelle commissionate a Morellet e a Viallat per Nevers, e di Soulages per l’abbazia di Conques, Il volto non esisteva più, il corpo non esisteva più, il crocifisso stesso fu allora sostituito da due pezzi di legno o di ferro saldati. Le lotte sanguinose dell’iconoclasmo sembravano non essere mai accadute. L’iconoclastia ormai era un fatto normale. […]

Quante sono, nei musei di Stato, le opere che riguardano l’iconografia cattolica? 60 per cento? 70 per cento? Dalle crocifissioni alle deposizioni nel sepolcro, dalle circoncisioni ai martiri, dalle natività ai San Francesco d’Assisi… Contrariamente agli ortodossi che si inginocchiano e pregano davanti alle icone, anche quando esse si trovano ancora nei musei, è raro, nella Grande Galleria del Louvre, vedere un fedele fermarsi e pregare davanti a un Cristo in croce o davanti a una Madonna. Bisogna rimpiangerlo? A volte lo penso. La Chiesa dovrebbe domandare la restituzione dei suoi beni? Mi capita di pensare anche questo. Ma la Chiesa non ha più alcun potere, contrariamente ai Vanuatu o agli Indiani Haida della Colombia Britannica, che hanno ottenuto la restituzione degli strumenti della loro fede, maschere e totem… La Chiesa si vergognerebbe di essere stata all’origine dei più prodigiosi tesori visivi che si siano mai avuti? Non potendo riaverli indietro, non potrebbe almeno prendere coscienza dell’obbligo che non li si può lasciare senza spiegazione davanti a milioni di visitatori dei musei? […]

La religione cattolica mi è apparsa per molto tempo come la più rispettosa del senso, la più attenta alle forme e ai profumi del mondo. È in essa che si incontra anche la più profonda e la più avvincente e sorprendente tenerezza. Il cattolicesimo mi sembra innanzitutto una religione non del distacco, né della conquista, né di un Dio geloso, ma una religione della tenerezza.

Non ne conosco altra che per esempio abbia a tal punto esaltato la maternità. […] Quale religione ha dipinto tante volte, da Giotto a Maurice Denis, il bambino in tutte le posizioni dell’infanzia, gesti, sguardi, passioni di bambino, con le sue golosità e curiosità, quando è in piedi sulle ginocchia della madre? Come la Chiesa attuale ha potuto voltare le spalle a una tale ricchezza? […]

Nell’opera d’arte nata dal cristianesimo c’è anche altro, rispetto alla felicità visiva e alla pietà. C’è anche un approccio euristico del mondo. […] L’artista è al servizio di Dio, non degli uomini, e se dipinge la creazione, conosce le meraviglie del creato, custodisce nel suo spirito il fatto che queste creature non sono Dio, ma la testimonianza della bontà di Dio, e che sono lode e canto di allegrezza. Mi domando dove questa allegria si possa ancora sentire, quella che si sentiva in Bach o in Haendel, in queste manifestazioni culturali, così povere e così offensive per l’orecchio e per l’occhio, alle quali ormai le chiese aprono il loro culto.

Qui senza dubbio è stata e rimane oggi la grandezza della Chiesa: essa è nata dalla contemplazione e dall’adorazione di un bambino che nasce, e si fortifica con la visione di un uomo che risuscita. Tra questi due momenti, la Natività e la Pasqua, non ha smesso di lottare contro la “cultura della morte”, come dice così giustamente.

Questo coraggio, questa ostinazione rendono ancor più incomprensibile la sua tentazione di difendere opere che, ai miei occhi, alle “porte della mia carne”, sanno soltanto di morte e di disperazione.

Un Dio senza la presenza del Bello è più incomprensibile di un Bello senza la presenza di un Dio.

(Traduzione di Flora Crescini ed Enrica Zaira Merlo, a cura del Centro Culturale di Milano).

__________


QUANDO SI RESPIRA IL SOFFIO DELLA BELLEZZA

di Inos Biffi

Da “L’Osservatore Romano” del 2 giugno 2011


[…] La teologia per definizione “dice Dio”. E questo “dire” la verità di Dio ha una sua bellezza. […] Ne era persuaso sant’Agostino che parlava di “splendore della verità”, e al quale faceva ripetuta eco Tommaso d’Aquino, […] attribuendo la prerogativa di essere “splendore e bellezza” al Verbo, che nel mistero della sua trasfigurazione e della sua ascensione l’ha effusa e riversata nella sua stessa umanità gloriosa, termine inesausto della contemplazione dei beati. […]

Si dice che i dogmi sono veri. Bisogna continuare, e dire che i dogmi sono belli. […] Occorre proseguire e osservare che la bellezza del mistero non è solo quella che traspare dal discorso teologico, come estetica intellettuale, tramite l’”ordinamento architettonico delle idee”, ma anche […] quella che si effonde dalle “cattedrali di pietra”, ossia nell’estetica della visibilità e, aggiungiamo, della poesia, della musica.

Si trovano allora attratte dalla divina bellezza la “sensibilità”, l’emotività, l’immaginario e l’estaticità che, sotto l’impulso attraente del mistero, a loro volta lo manifestano e lo espandono.

Richiamiamo gli inni di Ambrogio o di Manzoni, o le Laudi di Jacopone da Todi, ma soprattutto la “Divina commedia” di Dante, che non è un corso di teologia dogmatica, eppure equivale alla più alta, e si direbbe inarrivabile, versione poetica della fede e dei suoi dogmi: è il “bello” cristiano, portato ai vertici sublimi della poesia.

Con questo il dogma non è solo dichiarato e “affermato” come bello, e ad apparire tale non è solo la verità esposta e commentata, ma è diventato bello nel modo originale della poesia.

In questa linea dell’estetica, potremmo anche richiamare quanto il mistero sia stato e sia ancora reso “incantevole” dalla musica sacra, liturgica e non liturgica, che inizia al mistero stesso, proponendolo e facendolo gustare nella forma del canto e della melodia. I repertori musicali della Chiesa, un immenso patrimonio di messe, di oratori, di mottetti, sono a loro volta cattedrali musicali. […]

È quello che è sempre avvenuto nella tradizione cristiana, che ha guardato al mistero con “illuminati gli occhi del cuore” (Ef 1, 18). […] E proprio per l’esercizio della verità e della bellezza della fede è sorta la cultura cristiana, frutto più che di amabile e ossequioso dialogo, di sorprendente e inedita creatività. […]

 


Una proposta per i cinquant’anni del Vaticano II

LA VIA SOPRANNATURALE PER RIPORTARE PACE TRA PRIMA E DOPO IL CONCILIO

di Enrico Maria Radaelli

La discussione che si sta svolgendo sul sito internet di Sandro Magister tra scuole di diverse e opposte posizioni riguardo a riconoscere nel Concilio ecumenico Vaticano II continuità o discontinuità con la Tradizione, oltre che chiamarmi in causa direttamente fin dalle prime battute, tocca da vicino alcune pagine preliminari del mio recente libro “La bellezza che ci salva”.

Il fatto di gran lunga più significativo del saggio è la comprovata identificazione delle “origini della bellezza” con quelle quattro qualità sostanziali – vero, uno, buono, bello – che san Tommaso d’Aquino dice essere i nomi dell’Unigenito di Dio: identificazione che dovrebbe chiarire una volta per tutte il fondamentale e non più eludibile legame che un concetto ha con la sua espressione, vale a dire il linguaggio con la dottrina che lo utilizza.

Mi pare doveroso intervenire e fare così alcuni chiarimenti per chi vuole ricostruire quella “Città della bellezza” che è la Chiesa e riprendere così l’unica strada (questa è la tesi del mio saggio) che può portarci alla felicità eterna, che ci può cioè salvare.

Completerò il mio intervento con il suggerimento della richiesta che meriterebbe essere fatta al Santo Padre affinché, ricordando con monsignor Brunero Gherardini  che nel 2015 cadrà il cinquantesimo anniversario del Concilio (cfr. “Divinitas”, 2011, 2, p. 188), la Chiesa tutta approfitti di tale straordinario evento per ripristinare la pienezza di quel “munus docendi”, di quel magistero, sospeso cinquant’anni fa.

Riguardo al tema in discussione, la questione è stata ben riassunta dal teologo domenicano Giovanni Cavalcoli: “Il nodo del dibattito è qui. Siamo infatti tutti d’accordo che le dottrine già definite [dal magistero dogmatico della Chiesa pregressa] presenti nei testi conciliari sono infallibili. Ciò che è in discussione è se sono infallibili anche gli sviluppi dottrinali, le novità del Concilio”.

Il domenicano si avvede infatti che la necessità è di “rispondere affermativamente a questo quesito, perché altrimenti che ne sarebbe della continuità, almeno così come la intende il papa?”. E non potendo fare, come ovvio, le affermazioni che pur vorrebbe fare, padre Cavalcoli le gira nelle domande opposte, cui qui darò la risposta che avrebbero se si seguisse la logica “aletica”, veritativa, insegnataci dalla filosofia.


Prima domanda: È ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso?

Caro padre Cavalcoli, lei per la verità avrebbe tanto voluto dire: “Non è ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso”. Invece la risposta è: sì, lo sviluppo può essere falso, perché una premessa vera non porta necessariamente a una conclusione vera, ma può portare pure a una o più conclusioni false, tant’è che in tutti i Concili del mondo – persino nei dogmatici – si confrontarono le più contrastanti posizioni proprio a motivo di tale possibilità. Per avere lo sperato sviluppo di continuità delle verità rivelate per grazia non basta essere teologi, vescovi, cardinali o papi, ma è necessario richiedere l’assistenza speciale, divina, data dallo Spirito Santo solo a quei Concili che, dichiarati alla loro apertura solennemente e indiscutibilmente a carattere dogmatico, tale divina assistenza se la sono garantita formalmente. In tali soprannaturali casi avviene che lo sviluppo dato alla dottrina soprannaturale risulterà garantito come veritiero tanto quanto sono già state divinamente garantite come veritiere le sue premesse.

Ciò non è avvenuto all’ultimo Concilio, dichiarato formalmente a carattere squisitamente pastorale almeno tre volte: alla sua apertura, che è quel che conta, poi all’apertura della seconda sessione e per ultimo in chiusura; sicché in tale assemblea da premesse vere si è potuti giungere a volte anche a conclusioni almeno opinabili (a conclusioni che, canonicamente parlando, rientrano nel III grado di costrizione magisteriale, quello che, trattando di temi a carattere morale, pastorale o giuridico, richiede unicamente “religioso ossequio”) se non “addirittura errate”, come riconosce anche padre Cavalcoli contraddicendo la sua tesi portante, “e comunque non infallibili”, e che dunque “possono essere anche mutate”, sicché, anche se disgraziatamente non vincolano formalmente, ma “solo” moralmente il pastore che le insegna anche nei casi siano di incerta fattura, provvidenzialmente non sono affatto vincolanti obbligatoriamente l’obbedienza del fedele.

D’altronde, se a gradi diversi di magistero non si fanno corrispondere gradi diversi di assenso del fedele non si capisce cosa ci stiano a fare i gradi diversi di magistero. I gradi diversi di magistero sono dovuti ai gradi diversi di prossimità di conoscenza che essi hanno con la realtà prima, con la realtà divina rivelata cui si riferiscono, ed è ovvio che le dottrine rivelate direttamente da Dio pretendono un ossequio totalmente obbligante (I grado), tali come le dottrine loro connesse se presentate attraverso definizioni dogmatiche o atti definitivi (II grado). Sia le prime che le seconde si distinguono da quelle altre dottrine che, non potendo appartenere al primo gruppo, potranno essere annoverate al secondo solo allorquando si sarà appurata con argomenti plurimi, prudenti, chiari e irrefutabili la loro connessione intima, diretta ed evidente con esso nel rispetto più pieno del principio di Vincenzo di Lérins (“quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est”), garantendo così al fedele di trovarsi anch’esse dinanzi alla conoscenza più prossima di Dio. Tutto ciò, come si può capire, si può ottenere soltanto nell’esercizio più consapevole, voluto e implorato dalla e sulla Chiesa del “munus”, del magistero dogmatico.

La differenza tra le dottrine di I e II grado e quelle di III è data dal carattere certamente soprannaturale delle prime, che invece nel terzo gruppo non è garantito: forse c’è, ma forse anche non c’è. Quel che va colto è che il “munus” dogmatico è: 1) un dono divino, dunque 2) un dono da richiedere espressamente e 3) un dono la cui non richiesta non offre poi alcuna garanzia di assoluta verità, mancanza di garanzia che sgancia il magistero da ogni obbligo di esattezza e i fedeli da ogni obbligo di obbedienza, pur richiedendo loro religioso ossequio. Nel III grado potrebbero trovarsi indicazioni e congetture di ceppo naturalistico, e il vaglio per verificare se, depuratele da tali eventuali anche microbiche infestazioni, è possibile un loro innalzamento al grado soprannaturale può compiersi solo ponendole a confronto col fuoco dogmatico: la paglia brucerà, ma il ferro divino, se c’è, risplenderà certo in tutto il suo fulgore.

È ciò che è successo alle dottrine dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione, oggi dogmi, articoli cioè di fede appartenenti oggi di diritto al secondo gruppo. Fino rispettivamente al 1854 e al 1950 esse appartennero al gruppo delle dottrine opinabili, al terzo, alle quali si doveva nient’altro che “religioso ossequio”, pari pari a quelle dottrine novelle che, più avanti elencate qui in breve e sommario inventario, si affastelleranno nel più recente insegnamento della Chiesa dal 1962. Ma nel 1854 e nel 1950 il fuoco del dogma le circondò della sua divina e peculiare marchiatura, le avvampò, le vagliò, le impresse e infine in eterno le sigillò quali “ab initio” già erano nella loro più intima realtà: verità certissime e universalmente comprovate, dunque di diritto appartenenti al ceppo soprannaturale (il secondo) anche se fino allora non formalmente riconosciute sotto tale splendida veste. Felice riconoscimento, e qui si vuol appunto sottolineare che fu riconoscimento degli astanti, del papa in primo luogo, non affatto trasformazione del soggetto: come quando i critici d’arte, dopo averla esaminata sotto ogni punto di vista e indizio utili ad avvalorarla o smentirla – certificati di provenienza, di passaggi di proprietà, prove di pigmentazione, di velatura, pentimenti, radiografie e riflettografie – riconoscono in un quadro d’autore la sua più indiscutibile e palmare autenticità.

Quelle due dottrine si rivelarono entrambe di fattura divina, e della più pregiata. Se qualcuna dunque di quelle più recenti è della stessa altissima mano lo si riscontrerà pacificamente col più splendido dei mezzi.


Seconda domanda: Può il nuovo campo dogmatico essere in contraddizione con l’antico?

Ovviamente no, non può in alcun modo. Infatti dopo il Vaticano II non abbiamo alcun “nuovo campo dogmatico”, come si esprime padre Cavalcoli, anche se molti vogliono far passare per tale le novità conciliari e postconciliari, pur essendo il Vaticano II un semplice se pur solenne e straordinario “campo pastorale”. Nessuno dei documenti richiamati da dom Basile Valuet alla sua nota 5 dichiara un’autorevolezza del Concilio maggiore di quella da cui esso fu investito fin dall’inizio: nient’altro che una solenne e universale, cioè ecumenica, adunanza “pastorale” intenzionata a dare al mondo alcune indicazioni solo pastorali, rifiutandosi dichiaratamente e ostentatamente di definire dogmaticamente o di colpire d’anatema alcunché.

Tutti i maggiorenti neomodernisti o semplicemente novatori che dir si voglia i quali (come sottolinea il professor Roberto de Mattei nel suo “Il concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”) furono attivi nella Chiesa fin dai tempi di Pio XII – teologi, vescovi e cardinali della “théologie nouvelle” come Bea, Câmara, Carlo Colombo, Congar, De Lubac, Döpfner, Frings col suo perito, Ratzinger; König col suo, Küng; Garrone col suo, Daniélou; Lercaro, Maximos IV, Montini, Suenens, e, quasi gruppo a sé, i tre maggiorenti della cosiddetta scuola di Bologna: Dossetti, Alberigo e oggi Melloni – nello svolgimento del Vaticano II e dopo hanno cavalcato con ogni sorta di espedienti la rottura con le detestate dottrine pregresse sullo stesso presupposto, equivocando cioè sull’indubbia solennità della straordinaria adunanza; per cui si ha che tutti costoro compirono di fatto rottura e discontinuità proclamando a parole saldezza e continuità. Che vi sia poi da parte loro e poi universalmente oggi desiderio di rottura con la Tradizione è riscontrabile almeno: 1) dal più distruttivo scempio perpetrato sulle magnificenze degli altari antichi; 2) dall’egualmente universale odierno rifiuto di tutti i vescovi del mondo tranne pochissimi a dare il minimo spazio al rito tridentino o gregoriano della messa, in stolida e ostentata disobbedienza alle direttive del motu proprio “Summorum Pontificum”. “Lex orandi, lex credendi”: se tutto ciò non è rigetto della Tradizione, cos’è allora?

Malgrado ciò, e la gravità di tutto ciò, non si può però ancora parlare in alcun modo di rottura: la Chiesa è “tutti i giorni” sotto la divina garanzia data da Cristo nei giuramenti di Matteo 16, 18 (“Portæ inferi non prævalebunt”) e di Matteo 28, 20 (“Ego vobiscum sum omnibus diebus”) e ciò la mette metafisicamente al riparo da ogni timore in tal senso, anche se il pericolo è sempre alle porte e spesso i tentativi in atto. Ma chi sostiene un’avvenuta rottura – come fanno alcuni dei maggiorenti anzidetti, ma anche i sedevacantisti – cade nel naturalismo.

Però non si può parlare neanche di saldezza, cioè di continuità con la Tradizione, perché è sotto gli occhi di tutti che le più varie dottrine uscite dal e dopo il Concilio – ecclesiologia; panecumenismo; rapporto con le altre religioni; medesimezza del Dio adorato da cristiani, ebrei e islamici; correzione della “dottrina della sostituzione” della Sinagoga con la Chiesa in “dottrina delle due salvezze parallele”; unicità delle fonti della Rivelazione; libertà religiosa; antropologia antropocentrica invece che teocentrica; iconoclastia; o quella da cui è nato il “Novus Ordo Missæ” in luogo del rito gregoriano (oggi raccattato a fianco del primo, ma subordinatamente) – sono tutte dottrine che una per una non reggerebbero alla prova del fuoco del dogma, se si avesse il coraggio di provare a dogmatizzarle: fuoco che consiste nel dar loro sostanza teologica con richiesta precisa di assistenza dello Spirito Santo, come avvenne a suo tempo con il “corpus theologicum” posto a base dell’Immacolata Concezione o dell’Assunzione di Maria.

Tali fragili dottrine sono vive unicamente per il fatto che non vi è nessuna barriera dogmatica alzata per non permettere il loro concepimento e uso. Però poi si impone una loro fasulla continuità col dogma per pretendere verso di esse l’assenso di fede necessario all’unità e alla continuità (cfr. le pp. 70ss, 205 e 284 del sopraddetto mio libro “La bellezza che ci salva”), restando così tutte in pericoloso e “fragile borderline tra continuità e discontinuità” (p. 49), ma sempre al di qua del limite dogmatico, che infatti, se applicato, determinerebbe la loro fine. Anche l’affermazione di continuità tra tali dottrine e la Tradizione pecca a mio avviso di naturalismo.

Terza domanda: Se noi neghiamo l’infallibilità degli sviluppi dottrinali del Concilio che partono da precedenti dottrine di fede o prossime alla fede, non indeboliamo la forza della tesi continuista?

Certo che la indebolite, caro padre Cavalcoli, anzi: la annientate. E date forza alla tesi opposta, come è giusto che sia, che continuità non c’è.

Niente rottura, ma anche niente continuità. E allora cosa? La via d’uscita la suggerisce Romano Amerio (1905-1997) con quella che l’autore di “Iota unum” definisce “la legge della conservazione storica della Chiesa”, ripresa a p. 41 del mio saggio, per la quale “la Chiesa non va perduta nel caso non ‘pareggiasse’ la verità, ma nel caso ‘perdesse’ la verità”. E quando la Chiesa non pareggia la verità? Quando i suoi insegnamenti la dimenticano, o la confondono, la intorbidano, la mischiano, come avvenuto (non è la prima volta e non sarà l’ultima) dal Concilio a oggi. E quando perderebbe la verità? (Al condizionale: si è visto che non può in alcun modo perderla). Solo se la colpisse d’anatema, o se viceversa dogmatizzasse una dottrina falsa, cose che potrebbe fare il papa e solo il papa, se (nella metafisicamente impossibile ipotesi che) le sue labbra dogmatizzanti e anatematizzanti non fossero soprannaturalmente legate dai due sopraddetti giuramenti di Nostro Signore. Insisterei su questo punto, che mi pare decisivo.

Qui si avanzano delle ipotesi, ma – come dico nel mio libro (p. 55) – “lasciando alla competenza dei pastori ogni verifica della cosa e ogni successiva conseguenza, per esempio del se e del chi eventualmente, e in che misura, sia incorso od ora incorra” negli atti configurati. Nelle primissime pagine evidenzio in specie come non si possono alzare gli argini al fiume di una bellezza salvatrice se non sgombrando la mente da ogni equivoco, errore o malinteso: la bellezza si accompagna unicamente alla verità (p. 23), e tornare a far del bello nell’arte, almeno nell’arte sacra, non si riesce se non lavorando nel vero dell’insegnamento e dell’atto liturgico.

Quello che a mio avviso si sta perpetrando nella Chiesa da cinquant’anni è un ricercato amalgama tra continuità e rottura. È lo studiato governo delle idee e delle intenzioni spurie nel quale si è cambiata la Chiesa senza cambiarla, sotto la copertura (da monsignor Gherardini nitidamente illustrata anche nei suoi libri più recenti) di un magistero volutamente sospeso – a partire dal discorso d’apertura del Concilio “Gaudet mater ecclesia” – in una tutta innaturale e tutta inventata sua forma, detta, con ricercata imprecisione teologica, “pastorale”. Si è svuotata la Chiesa delle dottrine poco o nulla adatte all’ecumenismo e perciò invise ai maggiorenti visti sopra e la si è riempita delle idee ecumeniche di quegli stessi, e ciò si è fatto senza toccarne in alcun modo la veste metafisica, per natura sua dogmatica (cfr. p. 62), per natura sua cioè soprannaturale, ma lavorando unicamente su quel campo del suo magistero che inferisce unicamente sulla sua “conservazione storica”.

In altre parole: non c’è rottura formale, né peraltro formale continuità, unicamente perché i papi degli ultimi cinquant’anni si rifiutano di ratificare nella forma dogmatica di II livello le dottrine di III che sotto il loro governo stanno devastando e svuotando la Chiesa (cfr. p. 285). Ciò vuol dire che in tal modo la Chiesa non pareggia più la verità, ma neanche la perde, perché i papi, persino in occasione di un Concilio, si sono formalmente rifiutati sia di dogmatizzare le nuove dottrine sia di colpire d’anatema le pur disistimate (o corrette o raggirate) dottrine pregresse.

Come si vede, si potrebbe anche ritenere che tale incresciosissima situazione andrebbe a configurare un peccato del magistero, e grave, sia contro la fede, sia contro la carità (p. 54): non sembra infatti che si possa disobbedire al comando del Signore di insegnare alle genti (cfr. Matteo 28, 19-20) con tutta la pienezza del dono di conoscenza elargitoci, senza con ciò “deviare dalla rettitudine che l’atto – cioè ‘l’‘insegnamento educativo alla retta dottrina’ – deve avere” (Summa Theologiae I, 25, 3, ad 2). Peccato contro la fede perché la si mette in pericolo, e infatti la Chiesa negli ultimi cinquant’anni, svuotata di dottrine vere, si è svuotata di fedeli, di religiosi e di preti, diventando l’ombra di se stessa (p. 76). Peccato contro la carità perché si toglie ai fedeli la bellezza dell’insegnamento magisteriale e visivo di cui solo la verità risplende, come illustro in tutto il secondo capitolo del mio libro. Il peccato sarebbe d’omissione: sarebbe il peccato di “omissione della dogmaticità propria alla Chiesa” (pp. 60ss), con cui la Chiesa volutamente non suggellerebbe sopranaturalmente e così non garantirebbe le indicazioni sulla vita che ci dà.

Questo stato di peccato in cui verserebbe la santa Chiesa (si intende sempre: di alcuni uomini della santa Chiesa, ovvero la Chiesa nella sua componente storica), se riscontrato, andrebbe levato e penitenzialmente al più presto anche lavato, giacché, come il cardinale José Rosalio Castillo Lara scriveva al cardinale Joseph Ratzinger nel 1988, il suo attuale ostinato e colpevole mantenimento “favorirebbe la deprecabile tendenza […] a un equivoco governo cosiddetto ‘pastorale’, che in fondo pastorale non è, perché porta a trascurare il dovuto esercizio dell’autorità con danno al bene comune dei fedeli” (pp. 67s).

Per restituire alla Chiesa la parità con la verità, come le fu restituita ogni volta che si trovò in simili drammatiche traversie, altra via non c’è che tornare alla pienezza del suo “munus docendi”, facendo passare al vaglio del dogma a 360 gradi tutte le false dottrine di cui oggi è intrisa, e riprendere come “habitus” del suo insegnamento più ordinario e pastorale (nel senso rigoroso del termine: “trasferimento della divina Parola nelle diocesi e nelle parrocchie di tutto il mondo”) l’atteggiamento dogmatico che l’ha sopranaturalmente condotta fin qui nei secoli.

Ripristinando la pienezza magisteriale sospesa si restituirebbe alla Chiesa storica l’essenza metafisica virtualmente sottrattale, e con ciò si farebbe tornare sulla terra la sua bellezza divina in tutta la sua più riconosciuta e assaporata fragranza.

Per concludere, una proposta

Ci vuole audacia. E ci vuole Tradizione. In vista della scadenza del 2015, cinquantesimo anniversario del Concilio della discordia, bisognerebbe poter promuovere una forte e larga richiesta al Trono più alto della Chiesa affinché, nella sua benignità, non perdendo l’occasione davvero speciale di tale eccezionale ricorrenza, consideri che vi è un unico atto che può riportare pace tra l’insegnamento e la dottrina elargiti dalla Chiesa prima e dopo la fatale assemblea, e quest’unico, eroico, umilissimo atto è quello di accostare al soprannaturale fuoco del dogma le dottrine sopra accennate invise ai fedeli di parte tradizionista, e le contrarie: ciò che deve bruciare brucerà, ciò che deve risplendere risplenderà. Da qui al 2015 abbiamo davanti tre anni abbondanti. Bisogna utilizzarli al meglio. Le preghiere e le intelligenze debbono essere portate alla pressione massima: fuoco al calor bianco. Senza tensione non si ottiene niente, come a Laodicea.

Questo atto che qui si propone di compiere, l’unico che potrebbe tornare a riunire in un’unica cera, come dev’essere, quelle due potenti anime che palpitano nella santa Chiesa e nello stesso essere, riconoscibili l’una negli uomini “fedeli specialmente a ciò che la Chiesa è”, l’altra negli uomini il cui spirito è più teso al suo domani, è l’atto che, mettendo fine con bella decisione a una cinquantennale situazione piuttosto anticaritativa e alquanto insincera, riassume in un governo soprannaturale i santi concetti di Tradizione e audacia. Per ricostruire la Chiesa e tornare a fare bellezza, il Vaticano II va letto nella griglia della Tradizione con l’audacia infuocata del dogma.

Dunque tutti i tradizionisti della Chiesa, a ogni ordine e grado come a ogni particolare taglio ideologico appartengano, sappiano raccogliersi in un’unica sollecitazione, in un unico progetto: giungere al 2015 con il più vasto, consigliato e ben delineato invito affinché tale ricorrenza sia per il Trono più alto l’occasione più propria per ripristinare il divino “munus docendi” nella sua pienezza.

__________

Il libro di Enrico Maria Radaelli “La bellezza che ci salva” (prefazione di Antonio Livi, 2011, pp. 336, euro 35,00) può essere richiesto direttamente all’autore (enricomaria.radaelli@tin.it) o alla Libreria Hoepli di Milano (www.hoepli.it).

__________

POST SCRIPTUM 1 / LA REPLICA DI FRANCESCO ARZILLO


L’appello del professor Enrico Maria Radaelli, accorato e sofferto, suscita simpatia ma anche qualche perplessità sia di contenuto sia di metodo.

Partirei dalla coda, ossia dai tempi. Radaelli pone l’anno 2015 quale orizzonte temporale di riferimento per un pronunciamento di carattere dogmatico sulle questioni pendenti. Tuttavia egli richiama quale esempio la proclamazione dogmatica dell’Immacolata, per la quale la Chiesa ha invece atteso non pochi secoli. Gli storici del dogma conoscono le resistenze dei domenicani, che solamente nell’Ottocento furono definitivamente superate: il plurisecolare lavoro teologico e spirituale favorì in tal modo una proclamazione quasi unanimemente condivisa nella Chiesa.

È da ammirare questo modo di procedere, che fa della Chiesa cattolica – per dirla paradossalmente – l’opposto di quella monarchia autoritaria che non pochi tra i non cattolici immaginano. Una cosa è infatti il potere del Magistero supremo, un’altra cosa è la questione del modo e dei tempi del suo esercizio, che sono soggetti a ovvi canoni prudenziali.

C’è quindi da chiedersi: se ci sono voluti secoli per una proclamazione dogmatica in un contesto caratterizzato ancora da una certa omogeneità di linguaggio e di formazione teologica, come si può pensare che le odierne dispute possano risolversi con atti dogmatici nel giro di pochi anni, in un contesto di radicale pluralismo culturale ed epistemologico? La definizione dogmatica presuppone infatti, di regola, una preparazione niente affatto semplice.

La linea di Benedetto XVI appare diversa: seminare – come nel caso del ripristino del rito antico – e attendere che la semina porti frutto a suo tempo.

Un secondo punto. Si potrebbe di certo – dopo attenta indagine – riconoscere che alcune delle nuove dottrine conciliari e postconciliari siano collocate nel II livello, come sostiene il padre Giovanni Cavalcoli. Ma anche se ciò non fosse, la cosa non dovrebbe turbare più di tanto il fedele cattolico, anche se teologo. È bene ribadire che lo Spirito Santo non assiste i pastori solamente nel momento della definizione (di I o di II livello, per esprimersi secondo la nota scala di durezza richiamata dal professor Radaelli). Lo Spirito li assiste sempre, anche nei pronunciamenti di III livello, ai quali, come Radaelli stesso riconosce, è dovuto un “religioso ossequio dell’intelletto e della volontà” (art. 752 del codice canonico).

La necessità di questo assenso anche interno è il punto più trascurato, oggi, sia dai neomodernisti sia dai tradizionalisti. Il fatto che si tratti di pronunciamenti non irreformabili non significa che i fedeli non debbano seguirli come espressione della via più sicura. Ciò non esclude la possibilità che le persone competenti sollevino qualche dubbio nelle forme e nei modi propri, tali da non turbare l’ordinato svolgimento della vita ecclesiale. Ma ciò non può di certo comportare l’instaurarsi di magisteri paralleli, neppure sul fronte tradizionalista: effetto che sarebbe paradossale, dopo le giuste polemiche contro il consolidato magistero parallelo dei teologi progressisti sui mass-media.

Un terzo punto, infine. Il bel dibattito in corso su www.chiesa e sul blog Settimo Cielo dimostra che è possibile approfondire la portata dell’ermeneutica della continuità solamente entrando nel merito dei singoli problemi. La discussione sulla libertà religiosa lo ha rivelato assai chiaramente. È evidentemente fruttuoso lo sforzo volto a capire e a individuare esattamente il nocciolo che attiene all’essenza della dottrina sotto la mutevolezza degli accidenti storici: fermo restando, ovviamente, che questo nocciolo ci deve essere e deve essere mantenuto fermo, per evitare il rischio di cadere nel relativismo.

Questo esame delle dottrine “al microscopio”, ma anche “al telescopio” della profondità storica, riserverebbe piacevoli sorprese, nel senso auspicato dall’ermeneutica della continuità. Esso potrebbe mostrare che lo Spirito Santo non ha abbandonato la Chiesa cinquant’anni fa. E che non è certo venuta meno la promessa del Signore:  “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 16-20).

Roma, 16 giugno 2011

__________


POST SCRIPTUM 2 / LA REPLICA DI GIOVANNI CAVALCOLI

Caro professor Radaelli,

ho letto con molto interesse le sue considerazioni e le sue proposte circa l’autorevolezza delle dottrine nuove del Concilio Vaticano II, che lei pone, con dom Basile Valuet, al III grado, mentre io, almeno per alcune, la porrei al II.

Il III grado contiene sia dottrine “de fide et moribus” che disposizioni pastorali. Qui il Magistero, trattando materia di fede o prossima alla fede, non intende definire che quanto insegna è di fede, per cui non definisce se si tratta di dottrine definitive o infallibili oppure no. La dottrina della fede è di per sé è infallibile perché assolutamente e perennemente vera, ma qui la Chiesa, pur trattando di materia di fede o prossima alla fede, non chiede, come Lei ben riconosce, un vero assenso di fede, ma un semplice “ossequio religioso della volontà” per il fatto che qui la materia trattata non appare con certezza essere di fede. Questo ovviamente non vuol dire che possa essere sbagliata.

Viceversa, al II grado la Chiesa richiede un vero e proprio atto di fede, benchè non si tratti ancora della fede divina e teologale con la quale aderiamo alle dottrine del I grado, che sono i veri e propri dogmi definiti. La fede richiesta al II grado si chiama “fede ecclesiastica” o anche semplicemente “cattolica” ed è quella fede che abbiamo nell’infallibilità del Magistero della Chiesa in quanto assistito dallo Spirito Santo.

Qui aderiamo con la fede, perchè qui appare con chiarezza, magari per mezzo di opportune dimostrazioni, che si tratta di materia di fede e, se si tratta di dottrine nuove, è possibile mostrarle come chiarificazione, esplicitazione o deduzione di o da precedenti dottrine definite o dati rivelati. È questo il caso delle dottrine nuove del Concilio, se non tutte, almeno di alcune, le principali, come per esempio la definizione della liturgia, della rivelazione, della Tradizione o della Chiesa.

Quanto alla “pastoralità” del Concilio, è vero, è stato un Concilio pastorale, ma non solo pastorale, bensì anche dottrinale e addirittura dogmatico: basterebbe citare il titolo di due suoi documenti, chiamati appunto “Costituzioni dogmatiche”. Questo i papi del postconcilio lo hanno detto più volte, anche se hanno detto con altrettanta chiarezza che il Concilio non ha definito dichiaratamente o esplicitamente nuovi dogmi, quindi è indubbio che la sua dottrina non si pone al I grado.

È importante questa distinzione tra il dottrinale e il pastorale, perché, quando un Concilio presenta un insegnamento dottrinale, attinente benchè indirettamente alla Rivelazione, non può sbagliare. Anche se si tratta di dottrine nuove, non può tradire o smentire la Tradizione. Viceversa, le direttive o disposizioni di carattere pastorale o lo stesso stile pastorale di un Concilio non sono mai infallibili, a meno che non si tratti di contenuti di fede concernenti l’essenza dell’azione pastorale, ed anzi sono normalmente mutevoli e rivedibili, possono essere meno opportune o addirittura sbagliate, per cui devono essere abrogate. Questa può essere la “paglia” del III grado, ma non certo eventuali pronunciamenti dottrinali! Questi, accostati al “fuoco” del dogma, splendono di maggiore bellezza!

Anche certe disposizioni pastorali del Concilio potrebbero essere “paglia”. Ed anzi, secondo me e non solo secondo me, lo sono state e lo sono per il fatto che, messe alla prova dei fatti, dopo quarant’anni, richiedono di essere riviste o corrette per i cattivi risultati che hanno dato. Mi riferisco per esempio a quanto anche lei dice: l’eccessiva indulgenza del Magistero nei confronti degli errori o l’eccessivo ottimismo nei confronti del mondo moderno, nonché l’eccessiva esaltazione dei valori umani e la debole esaltazione dei valori cristiani, soprattutto cattolici.

Ciò ha consentito la penetrazione dappertutto, anche nella gerarchia, di queste tendenze, ulteriormente esasperate da una ben concertata macchina pubblicitaria internazionale organizzata dal centro-Europa (per esempio la rivista “Concilium”). I vescovi, come osservò a suo tempo padre Cornelio Fabro, ne restarono intimiditi, sicchè oggi è assai difficile liberarsi da questa situazione, perché chi dovrebbe intervenire è egli stesso connivente con l’errore.

Altro errore pastorale del Concilio è stato quello di indebolire il potere del papa rafforzando eccessivamente quello dei vescovi, col risultato che si è verificata quella “breviatio manus” del papa, della quale parlava Amerio: il pontefice è rimasto isolato nello stesso episcopato. Ovviamente, grazie all’assistenza dello Spirito santo, egli conserva ed applica il suo ruolo di maestro della fede e nemico dell’errore; ma purtroppo spesso gli interventi della Santa Sede in questo campo – che non mancano affatto – hanno scarsa per non dire scarsissima eco nell’episcopato e fra i teologi, quando a volte non si hanno addirittura delle opposizioni, ora subdole, ora sfrontate.

Su questa materia occorre recuperare un certo stile precedente il Concilio, che portava buoni risultati, ovviamente senza cadere in certi eccessi di severità e di autoritarismo del passato. I papi del postconcilio sono papi crocifissi, abbandonati come Cristo dai suoi. Altro che “trionfalismo”! È uso dei prepotenti fare le vittime.

Sono d’accordo con lei nel sostenere o meglio nel constatare con Amerio che dall’immediato periodo postconciliare a tutt’oggi il Magistero dice sì la verità – e come non potrebbe? – ma non la dice tutta. Tace alcune verità per un eccessivo timore dei non-cattolici e di non apparire abbastanza moderno. Le preoccupazioni ecumeniche, e peraltro di ecumenismo troppo pacifista e accondiscendente, sembrano prevalere sul dovere di evangelizzare e di correggere chi sbaglia, invitandolo all’unità “cum Petro e sub Petro”.

Occorre allora recuperare verità dimenticate, delle quali dò solo qualche esempio, sapendo bene, con lei, di sfondare una porta aperta: il valore realistico della verità, il valore intellettuale-concettuale della conoscenza di fede, il valore sacrificale, espiativo e soddisfattorio della redenzione, la natura e le conseguenze del peccato originale, la congiunzione della giustizia e della misericordia divine, gli attributi divini dell’impassibilità e dell’immutabilità, la distinzione fra natura e grazia, la predestinazione, l’esistenza di dannati nell’inferno, la possibilità di perdere la grazia col peccato mortale, l’esistenza dei miracoli e delle profezie, il dovere di lavorare per la conversione dei non-cattolici al cattolicesimo.

Vorrei dirle, però, caro professore, che non deve credere che dottrine conciliari come quelle della prospettiva universale della salvezza, del dialogo con la modernità, dell’ecumenismo, della libertà religiosa o delle verità contenute nelle altre religioni contrastino con le precedenti verità, anche se si tratta di dimostrare la continuità. Si tratta solo di una migliore conoscenza o di aspetti nuovi di quelle medesime verità che vengono insegnate in quelle dottrine.

Un popolo e una fede da riconoscere


Il Papa incontra i rom in Vaticano, alla vigilia della Pentecoste.

 

È un incontro storico. Mentre oggi cresce anche nell’opinione pubblica la marginalizzazione sociale di questo popolo, ancora non riconosciuto tra le minoranze linguistiche in diversi Paesi europei compreso il nostro, il Papa apre le braccia a una rappresentanza di almeno 1.400 persone rom, ma anche sinti, caminanti e di altre tradizioni, provenienti da dieci regioni e da una cinquantina di città italiane. I rom vengono da Roma e Milano, Cosenza, Torino, Firenze, Messina, Reggio Calabria, Pescara, Avezzano che sono alcune delle città da cui sono emerse – in questi ultimi mesi – storie di discriminazione, di sgomberi, di violenze e purtroppo anche di tragiche morti innocenti, ma anche storie belle di prossimità, di percorsi educativi e sociali straordinari, che vedono spesso protagoniste tra i rom altre famiglie italiane, parrocchie, insegnanti e associazioni. Il cosiddetto popolo ‘nomade’ – una galassia di popoli e un mondo di mondi diversi – in Italia è composto da circa 170mila persone, almeno la metà delle quali bambini e ragazzi. Spesso si sottovaluta il fatto che più o meno il 70% di loro è italiano, un buon gruppo è europeo (soprattutto originario della Romania) e solo una minoranza è di provenienza extracomunitaria. Meno del 20% vive nei campi, la stragrande maggioranza vive nei condomini, nelle case rurali, in paesi e in città. In prevalenza sono di fede cristiana (il 70%), soprattutto cattolici, presenti in 100 città italiane, seguito da oltre 180 operatori pastorali, molti dei quali provenienti dalle stesse famiglie rom e sinti. Ci sono anche comunità di evangelici e ortodossi.


Si tratta di un’esperienza cristiana che alcune volte sa anche interpretare in maniera originale la liturgia, la festa, la vita familiare, il ricordo dei defunti, la devozione mariana. Le migrazioni più recenti dalla Bosnia, Romania, Serbia, Macedonia e dai Paesi dell’est in genere, ha portato alla formazione di comunità musulmane. Non sempre si conosce e riconosce questo popolo complesso e la sua storia, la sua tradizione di fede aperta anche al dialogo ecumenico e interreligioso. È importante cogliere questa ricchezza di esperienza religiosa, perché alla marginalizzazione sociale dei rom non si accompagni anche un’impensabile marginalità sul piano ecclesiale. La figura del beato Zefirino, il rom spagnolo massacrato e ucciso durante la guerra civile solo perché osò difendere un prete e la propria fede semplice e popolare. Il suo rosario – a 150 anni dalla sua nascita e a 75 anni dal suo martirio – ci ricorda l’importanza e il valore di tutti nella Chiesa, anche le persone più semplici e ‘differenti’. A Pentecoste, con il dono dello Spirito, che aiuta a parlarsi, a conoscersi, a capirsi il Papa invita a riconoscere il popolo rom come Chiesa. Ci chiede di guardare a queste persone – uomini e donne – che oggi faticano più di altre a ‘entrare’ dentro la città, e ad accompagnare il loro cammino con la fantasia dell’amore, della carità. A Pentecoste, il Papa chiede a noi un ‘supplemento d’anima’, perché evitiamo l’omologazione che politica, cultura, mezzi di comunicazione talora rischiano di insinuare nella lettura di storie e mondi differenti e altri.

A Pentecoste, Benedetto XVI ha scelto di invitare a riconoscere l’altro come la persona da cui ripartire in questo cammino di nuova evangelizzazione, che fugge da ogni forma di chiusura, di distanza, di separazione, di esclusione. L’incontro del Papa con i rom ci ricorda che non si può pensare di costruire Chiesa e città senza di loro. Tutti siamo responsabili di tutti. Nessuno escluso.

 

* Direttore generale Migrantes.


in “Avvenire” dell’11 giugno 2011

Il Concilio Ecumenico Vaticano II: contrasti nella storia del concilio

Dopo il Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha fatto l’esperienza, nei paesi occidentali, di un profondo declino relativamente alla frequenza alla messa, alla decimazione degli ordini religiosi e alle vocazioni presbiterali, e di una seria crisi dell’autorità della Chiesa istituzionale, in seguito alla reazione alla Humanae Vitae.


Alcuni diedero la colpa di questo all’evidente rapporto del concilio con la modernità, che prima del concilio era stata chiaramente condannata. Un piccolo numero di questo gruppo alla fine promosse uno scisma, guidato dal defunto arcivescovo Lefebvre. Altri ritennero il collasso inevitabile, date le profonde correnti secolarizzatrici nelle culture occidentali. Altri ancora attribuirono il declino ad una mancata applicazione degli insegnamenti del concilio e all’azione dilatoria di “conservatori centralizzanti” che hanno bloccato la Chiesa ad una roccia premoderna, senza più credibilità né responsabilità.


Questo è solo un campione delle posizioni assunte sull’argomento, ma rende ampiamente evidente il fatto che l’interpretazione del Concilio Vaticano II (1963-1965) è ancora profondamente contestata.
I dibattiti sui lavori del concilio sono stati spesso dipinti come dibattiti tra “conservatori” e “liberal”, termini in un certo senso superati con cui sono stati definiti anche gruppi di studiosi impegnati nell’interpretazione del concilio. Agostino Marchetto, giustamente, deplora queste etichette, ma il suo libro può certamente essere letto come una seria critica “conservatrice”, storica e metodologica, di circa 20 anni di cultura “liberal” sul concilio.


Quando il cardinal Ruini presentò il libro dell’arcivescovo Marchetto ad un pranzo ufficiale a Roma, paragonò, come fa Marchetto, la recente storia del concilio scritta da vari autori ed edita da Giuseppe Alberigo, alla famosa storia del Concilio di Trento scritta da Paolo Sarpi. Nessuno disse che Sarpi era stato inserito nell’Indice dei Libri Proibiti – ma lo sapevano.

L’accusa fatta alla Scuola di Bologna, di cui Alberigo era un leader intellettuale, è che gli studiosi coinvolti nello studio della storia hanno letto i documenti e gli eventi vaticani del concilio con un atteggiamento di sistematica prevenzione.


La prevenzioni fondamentali erano: il fatto di non fidarsi soprattutto sui 62 volumi che presentano il modo di procedere dell’ambiente del concilio, e sui documenti stessi del concilio; il fatto di essere decisamente anti-curia; il fatto di sottolineare la novità e la differenza piuttosto che la continuità; il fatto di sminuire l’importanza dei documenti finali di tipo autoritario a favore del fatto di vedere il concilio come “evento” (ci sono diversi significati dati a questo termine, ma fondamentalmente sposta l’attenzione lontano dall’interpretazione testuale dei documenti conciliari, preferendo concentrarsi su diari privati, e teorie letterarie, storiche e sociologiche); il fatto di vedere una profonda separazione tra papa Giovanni XXIII, che aveva una visione positiva, e papa Paolo VI, che sempre più si allontanava dalla visione di papa Giovanni man mano che il concilio procedeva sotto la sua guida. A causa di queste prevenzioni, dichiara Marchetto, questa storia smisurata oscura gli insegnamenti del concilio.


Il libro di Marchetto è importante in quanto sviluppa la critica che papa Benedetto fa a varie interpretazioni del concilio. La maggior parte delle 723 pagine sono occupate nel passare in rassegna sotto vari titoli tematici le pubblicazione tra il 1992 e il 2003 che si occupano del concilio, della sua preparazione, delle sessioni effettive, delle storie alternative del concilio, dell’autorità episcopale e papale (trattate in uno dei precedenti libri di  Marchetto, uno dei suoi temi preferiti), una recensione di diari e fonti alternative e, alla fine, tre saggi che riassumono l’argomento base del libro.
Secondo Marchetto, che cosa costituisce una corretta interpretazione? Innanzitutto, l’accettazione della continuità della dottrina: riforma e cambiamento avvengono solo all’interno di quella continuità dottrinale. Marchetto cita spesso Newman, ma non sviluppa nei dettagli la visione di Newman rispetto allo sviluppo dottrinale. Né c’è discussione su ciò che costituisce una dottrina riformabile o una dottrina irriformabile, su quello che sono opinioni teologiche probabili o certe, talvolta viste come dottrine. In secondo luogo, la lettura dei testi del concilio e dei documenti ufficiali del modo di procedere nell’ambiente del concilio, così come dei commenti ufficiali ai testi, oltre ai documenti ufficiali emanati, come le lettere di papa Paolo durante il concilio. Questi sono i “fatti” che dovrebbero formare la base per la nostra comprensione del concilio, non gli eventi prima, durante e dopo, come costruiti da altre fonti.


Marchetto ha ragione nell’ammonire che abbiamo appena cominciato ad interpretare il concilio, d ato che i 62 volumi editi da Vincenzo Carbone sono stati conclusi solo recentemente. Ma questo ammonimento dovrebbe ugualmente essere applicato alla lettura di Marchetto dei documenti e del c ontesto del concilio, il che richiederebbe maggiore argomentazione di quella che egli talvolta presenta. Parla spesso di giudizi non equilibrati e di espressioni eccessive, presumendo che il lettore condivida questo modo di vedere. Anche se, per essere giusti, recensendo più libri, come scrive spesso Marchetto, si deve spesso rimanere entro limitazioni.


Alla fine, Marchetto indica alcuni segnali positivi di letture alternative rispetto alla tradizione dominante che ha criticato in alcuni punti. Indica Leo Scheffczyk, Annibale Zamberi, Vincenzo Carbone, il lavoro dell’Istituto Paolo VI di Brescia, J.-M. R. Tillard, Massimo Faggioli, Giovanni Turbanti e, in parte, Hermann J. Pottmeyer. Si potrebbero aggiungere i bei saggi editi da Matthew Levering e Matthew Lamb per l’ambito di lingua inglese.


È un libro importante in un dibattito che è appena iniziato. Il futuro della Chiesa cattolica sarà nutrito dal concilio solo se esso sarà correttamente interpretato.



in “The Tablet” del 9 giugno 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

La Francia e i frutti del Concilio


Sono diversi anni che la “ricezione” del Concilio è oggetto di dibattito tra i cattolici. Dopo 40 anni e una nuova generazione di storici, è venuto il momento di uno sguardo spassionato su quegli anni fecondi. Alla pubblicazione di “La crise catholique, 1965-1978” di Denis Pelletier (2002) hanno fatto seguito due convegni, i cui atti, recentemente pubblicati, rivelano l’ampiezza del cambiamento conosciuto dalla Chiesa cattolica in Francia. Vi scopriamo i dibattiti che, sulla scia del Vaticano II, hanno contribuito a costruire la Chiesa attuale.


Un nouvel âge de la théologie? 1965-1980 si pone l’obiettivo di decriptare le evoluzioni del pensiero religioso. In effetti, la generazione dei teologi post-conciliari si apre ampiamente agli apporti delle scienze sociali, delle esperienze militanti… Anche dei laici vi partecipano.
Questa disciplina sembra esplodere di fronte alla moltiplicazione delle proposte, perché il mondo cattolico accetta (temporaneamente) questo pluralismo. Il dialogo con il marxismo, a cui Témoignage chrétien ha partecipato, vive di diversi contributi, come la ricerca di un pensiero compatibile con gli impegni di sinistra. Gli autori non ignorano le resistenze al cambiamento, che trionferanno nella normalizzazione avvenuta dopo il 1980, ad opera di un certo Joseph Ratzinger.


L’église de France après Vatican II (1965-1975) si inscrive come complemento dell’opera precedente, sforzandosi di offrire un panorama ampio e rigoroso delle trasformazioni che hanno riguardato la Chiesa francese. Difficile per coloro che hanno vissuto quel periodo affrontarlo in maniera spassionata. Le testimonianze (abbastanza concordi) permettono di risentire il vigore dei dibattiti dell’epoca, appena attenuato.


Gli ambiti osservati sono insoliti ma si dimostrano pertinenti. Ad esempio la nascita della conferenza episcopale che era un’assoluta novità. Come i contributi relativi alla formazione dei preti, di cui si mostrano sia le sperimentazioni che le resistenze. Nel suo intervento sulla “tentazione gauchiste nella Chiesa francese”, François Grèzes-Rueff difende l’idea che i cristiani furono i “cofondatori” del gauchisme francese, e che la loro presenza avrebbe evitato la deriva verso una violenza politica (come in Italia o in Germania).

 



I contributi più originali trattano delle trasformazioni liturgiche, cioè le più visibili per i fedeli. La lettura parallela di queste due opere rivela la capacità di innovazione che è stata necessaria ai protagonisti dell’epoca. Capacità che oggi sembra spegnersi.

 

Un nouvel âge de la théologie ? 1965-1980, Karthala (2009)

L’Église de France après Vatican II, Parole et Silence (2011)

(traduzione: www.finesettimana.org)

 

in “www.temoignagechretien.fr” del 14 giugno 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Assemblea CEI, il Comunicato finale

“La comunione nello Spirito Santo è la condizione del giusto discernimento”.

Queste parole, pronunciate dal Card. Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i Vescovi, nell’omelia della Concelebrazione eucaristica in San Pietro, individuano con efficacia i tratti caratterizzanti la 63ª Assemblea Generale della CEI (Roma, 23-27 maggio 2011).
in San Pietro

A essa hanno preso parte 231 membri e 18 Vescovi emeriti, a cui si sono aggiunti 22 rappresentanti di Conferenze Episcopali europee, i delegati dei religiosi, delle religiose, degli Istituti secolari, della Commissione Presbiterale Italiana e della Consulta Nazionale delle aggregazioni laicali, nonché alcuni esperti, in ragione degli argomenti trattati.
Uno spirito di comunione ha contraddistinto anzitutto la prolusione del Presidente, il Card. Angelo Bagnasco, che ha riletto, a partire dalla recente beatificazione, la figura e il magistero di Giovanni Paolo II, riproponendo la forza rigenerante dell’originalità cristiana, anche in un clima culturale segnato dal dilagare del secolarismo e del relativismo. Con fermezza, esprimendo “dolore e incondizionata solidarietà” alle vittime e alle loro famiglie, ha ribadito il dovere di affrontare l’infame piaga degli abusi sessuali perpetrati da sacerdoti; la preoccupazione per la crisi della vita pubblica e per l’individualismo indiscriminato che porta a ignorare le urgenze sociali; il bisogno di tutelare la persona in ogni momento della vita e la famiglia, come nucleo primario della società; la necessità di qualificare la scuola e di una politica del lavoro che abbia a cuore il futuro dei giovani. L’anelito alla comunione ha indotto a varcare i confini del nostro Paese, per soffermarsi sullo situazione del Medio Oriente e del Nordafrica, con particolare attenzione alla Libia, chiedendo un “cessate il fuoco” che apra la strada alla diplomazia e a un diverso coinvolgimento dell’Unione europea.

 

nella Basilica di S. Maria Maggiore

La comunione si è manifestata visibilmente nella celebrazione mariana del 26 maggio nella Basilica di S. Maria Maggiore, nella quale i Vescovi, riuniti in preghiera intorno al Santo Padre, hanno rinnovato l’affidamento dell’Italia alla Vergine Madre, nell’anno in cui ricorre il centocinquantesimo anniversario dell’unità politica.
L’Assemblea Generale ha esercitato il suo discernimento in particolare riflettendo sulle modalità secondo cui articolare nel decennio corrente gli Orientamenti pastorali Educare alla vita buona del Vangelo, approvati nel 2010. In quest’opera i Vescovi sono stati guidati da due relazioni magistrali, l’una volta ad approfondire cosa significhi introdurre e accompagnare all’incontro con Cristo nella comunità ecclesiale, e l’altra imperniata sulla sfida che il secolarismo pone all’universalità cristiana. Continuando l’opera iniziata nella precedente Assemblea Generale, tenuta ad Assisi nel novembre scorso, i Vescovi hanno esaminato e approvato la seconda parte dei materiali della terza edizione italiana del Messale Romano.
Fra gli adempimenti di natura amministrativa, spicca l’approvazione della ripartizione e dell’assegnazione delle somme derivanti dall’otto per mille.
A integrazione dei lavori, sono state svolte comunicazioni e date informazioni su alcune esperienze ecclesiali di rilevanza nazionale e sui prossimi eventi che coinvolgeranno le Chiese in Italia.

 

 

 

Comunicato finale – 27 maggio 2011.doc

La Settimana Sociale sul passo dei giovani

concluso il forum nazionale dei giovani  che si è svolto a Milano il 21 e 22 maggio con la partecipazione di più di 90 giovani provenienti da tutte le regioni d’Italia e da molte aggregazioni laicali nazionali.

 

Non dobbiamo lasciarci strumentalizzare come semplici portatori di acqua verso mulini che spesso macinano grano inquinato; dobbiamo essere portatori di vino, di quell’acqua trasformata da Gesù a Cana, il buon vino del Vangelo; dobbiamo essere capaci di assumerci nuove responsabilità sociopolitiche, cominciando dai livelli più bassi, nei comuni, nei municipi, nelle istituzioni, nelle piccole associazioni.

 

Così il vescovo Mons. Miglio ha introdotto il Forum nazionale dei giovani dopo le Settimane Sociali di Reggio Calabria che si è svolto a Milano il 21 e 22 maggio; al Forum hanno partecipato più di 90 giovani provenienti da tutte le regioni d’Italia e da molte aggregazioni laicali di livello nazionale.

 

Edoardo Patriarca, Segretario del Comitato scientifico per le Settimane sociali della CEI, ha concluso i lavori nelle conclusioni, ha presentando l’Italia come un paese da “stappare”; in Italia ci sono troppi “tappi”, ben sigillati.; ha quindi chiesto ai giovani presenti di impegnarsi per levare il tappo alla bottiglia “Italia” affinchè possano uscire un po’ di “bollicine”, di entusiasmo, di brio, di novità. Patriarca ha incoraggiato i giovani a non lasciarsi intimorire qualora fosse necessario dire parole o fare gesti scomodi.

 

La scelta di Milano va a completare il percorso attraverso l’Italia che ha toccato precedentemente Roma e Reggio Calabria. Al Forum sono intervenuti sei adulti esperti, alcuni provenienti da associazioni ecclesiali, che hanno animato i lavori delle aree tematiche medico-sanitaria, imprenditoriale-commerciale, giudirico-legislativa, culturale-massmediale, artistico-urbanistica, educativa-formativa; un modo concreto di realizzare quell’incontro intergenerazionale auspicato dagli Orientamenti pastorali “educare alla vita buona del Vangelo”. Il Forum si inserisce in un impegno che il Servizio nazionale per la pastorale giovanile sta portando avanti per la conoscenza presso i giovani della Dottrina sociale della chiesa. Il Santo padre Benedetto XVI, il card Bagnasco ed altri vescovi italiano ripetutamente hanno chiesto ai giovani un rinnovato impegno nel servizio al bene comune, auspicando la nascita di “una nuova generazione di politici italiani”.

 

Il cammino, dice don Nicolò Anselmi, continuerà certamente negli anni a venire, già a partire dal 2012; molte diocesi e associazioni si stanno già muovendo; i giovani si stanno riavvicinando alla politica, desiderano prendere in mano il proprio futuro; siamo fiduciosi che il mondo adulto li aiuterà a crescere anche in questo ambito e, a tempo opportuno lascerà loro spazio. L’Italia ha bisogno della freschezza e della passione dei giovani, soprattutto della loro capacità di costruire comunione, rete, senza prevenzioni ideologiche.

 

Nei prossimi giorni sarà possibile trovare il materiale del Forum su www.chiesacattolica.it/giovani in cui c’è un link al Sito delle Settimane Sociali.

L’Assemblea generale dei Vescovi

 

la prolusione del Cardinale Presidente, Angelo Bagnasco, all’Assemblea generale dei vescovi italiani

 

 

“In un tempo facilmente catturabile dall’apparenza e dall’effimero, si è assistito all’esaltazione di un autentico uomo di Dio, la cui santità è stata riconosciuta col dovuto rigore dall’autorità della Chiesa, la quale ha così intercettato un consenso sorprendente, più ampio dei confini cattolici”.

 

Il primo pensiero del Cardinale Presidente è stato per Giovanni Paolo II; alla luce della sua testimonianza ha riletto, tra l’altro, la stessa responsabilità che è affidata ad ogni Vescovo: “Egli ha accettato il pontificato ma non ha chiesto di scendere dalla croce… Giovanni Paolo II ha cesellato la propria vita secondo la forma pasquale, e dimostrando a tutti che cosa può diventare l’esistenza di una persona quando si lascia afferrare da Cristo”. Ha quindi evidenziato “il legame spirituale intenso e amico che correva, benefico per la Chiesa intera, tra Giovanni Paolo II e colui che − nel disegno della Provvidenza – sarebbe stato il suo successore”; un legame che è più della semplice continuità: “C’è una perdurante ammirazione spirituale che diventa stupefacente lezione di stile, di umiltà e di candore, dalla quale noi sentiamo di dover imparare”.

 

Tra i motivi di gratitudine a Benedetto XVI, il Cardinale ha posto anche “la «lettera circolare», inviata ad ogni Vescovo dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, in vista della preparazione di necessarie «linee guida» per i casi di abusi sessuali perpetrati da chierici ai danni di minori”. Tali abusi costituiscono, secondo il Presidente, “un’infame emergenza non ancora superata, la quale causa danni incalcolabili a giovani vite e alle loro famiglie, cui non cessiamo di presentare il nostro dolore e la nostra incondizionata solidarietà”. Tra le iniziative messe in campo dalla Chiesa ha annunciato che “da oltre un anno, su mandato della Presidenza CEI, è al lavoro un gruppo interdisciplinare di esperti proprio con l’obiettivo di “tradurre” per il nostro Paese le indicazioni provenienti dalla Congregazione”.

 

Tra gli altri temi affrontati nella Prolusione, la Giornata Mondiale della Gioventù che si svolgerà a Madrid, dal 16 al 21 agosto (“La formula ha dato tono a tutta la pastorale, inducendola ad uscire allo scoperto, andare incontro alle persone, adottare i loro linguaggi, per far comprendere a tutti, specialmente ai giovani, che Cristo c’entra con la vita, con tutti i suoi ambiti”) e il Congresso Eucaristico Nazionale, in programma ad Ancona dal 3 all’11 settembre (“il suo tema, «Signore, da chi andremo?», vuol rigenerare il nostro sguardo grazie all’energia del Risorto”).

 

Sulla situazione nazionale il Presidente dei Vescovi italiani ha sottolineato che “l’Italia non è solo certa vita pubblica” e che “se, nonostante tutto, il Paese regge è perché ci sono arcate, magari non immediatamente percepibili, che lo tengono in piedi”. Sono “arcate” gettate sopra “un individualismo indiscriminato” che sta determinando “in alcuni ambienti, che forse si ritengono per altri versi i più emancipati ed evoluti, la tendenza ad una chiusura ermetica rispetto all’istanza sociale”. Dopo aver ricordato che “dalla crisi oggettiva in cui si trova, il Paese non si salva con le esibizioni di corto respiro, né con le slabbrature dei ruoli o delle funzioni, né col paternalismo variamente vestito, ma solo con un soprassalto diffuso di responsabilità che privilegi il raccordo tra i soggetti diversi e il dialogo costruttivo”, ha risposto indirettamente ad una critica diffusa: “Se non parliamo ad ogni piè sospinto, non è perché siamo assenti, anzi, ma perché le cose che contano spesso sono già state dette… Crediamo che vi siano tante forze positive all’opera, che non vanno schiacciate su letture universalmente negative o pessimistiche”.

 

Il Card. Bagnasco ha dedicato l’ultima parte della Prolusione ad alcune urgenze: la legge sul fine vita (“Ci si augura cordialmente che il provvedimento − al di là dei tatticismi che finirebbero per dare un’impressione errata di strumentalità − non si imbatta in ulteriori ostacoli, ottenendo piuttosto il consenso più largo da parte del Parlamento”), la famiglia (“sull’analisi delle carenze e delle debolezze che riguardano l’assetto dell’istituto familiare ci sia ormai nel Paese una larga convergenza. Ciò che serve, ed è quanto mai urgente, è passare alla parte propositiva, agli interventi strutturali efficaci per dare dignità e robustezza a questa esperienza decisiva per la tenuta del Paese e il suo futuro. Nulla è davvero garantito se a perdere è la famiglia”), l’occupazione (“Il lavoro che manca, o è precario in maniera eccedente ogni ragionevole parametro, è motivo di angoscia”). L’analisi non ha concesso spazio ad alcun catastrofismo: “nell’animo degli italiani non sta venendo meno la voglia di migliorarsi, di crescere, di impegnarsi. La maggioranza non si è staccata dalla vita concreta, ha resistito al canto delle sirene che continuano a veicolare modelli di vita facile, di successo effimero, di mondi virtuali, del tutto e subito”).

 

In conclusione, lo sguardo del Cardinale Presidente si è soffermato su alcuni contesti nazionali di crisi: la Siria, il Libano, l’Egitto e, in particolare, la Libia. In merito a quest’ultima ha osservato: “la non chiarezza emersa al momento dell’ingaggio, ha continuato a pesare sullo sviluppo temporale e strategico delle operazioni che avrebbero dovuto avere la forma dell’ingerenza umanitaria, e hanno ugualmente causato gravissime perdite umane, anche tra i civili. Difficile oggi non convenire che nel concreto non esistono interventi armati “puliti”. È, questo, allora un motivo in più per intensificare gli sforzi che portino ad un cessate il fuoco, e quindi a sveltire la strada della diplomazia”.

 

 

Prolusione.doc

 

 

articoli correlati:

 

“All’assemblea generale dei vescovi, il presidente della Cei, Angelo Bagnasco propone alla vita pubblica una serie di accorati «vorremmo», chiede alla politica un soprassalto di responsabilità, lancia l’allarme-disoccupazione giovanile e critica le strategie sull’immigrazione («soldi per i missili e non per i profughi»)… Perciò rilancia l’appello papale per una nuova generazione di politici cattolici e indica i temi chiave: biotestamento, scuola, famiglia… Con l’auspicio che la legge sul fine vita… non trovi ulteriori ostacoli” [ndr…….]

 

“«da oltre un anno, su mandato della presidenza Cei, è al lavoro un gruppo interdisciplinare di esperti proprio con l’obiettivo di “tradurre” per il nostro Paese le indicazioni provenienti dalla Congregazione della Dottrina della Fede». Un obiettivo che… «oggi viene autorevolmente richiesto a tutte le Conferenze episcopali del mondo»… anche con la necessità di raccogliere dati e informazioni a livello nazionale. Fino all’anno scorso i vescovi italiani non avevano ritenuto di procedere in tal senso”

 

 

Due messe per un’unica Chiesa

 

 

Un solo rito romano in due forme, antica e moderna.

È la medicina di Benedetto XVI per sanare un disordine liturgico arrivato “al limite del sopportabile”.

Per chi non si fida, è uscito un nuovo documento con le istruzioni

 

Per capire il perché della liberalizzazione della messa in rito romano antico, decisa da Benedetto XVI col motu proprio “Summorum Pontificum” del 2007 e confermata con l’istruzione “Universæ Ecclesiæ” diffusa oggi, la guida più sicura continua a essere la lettera ai vescovi con cui papa Joseph Ratzinger accompagnò quel motu proprio:

> “Cari fratelli nell’episcopato…”

In essa, Benedetto XVI descriveva la situazione “al limite del sopportabile” che intendeva sanare. Se non solo i lefebvriani – la cui volontà di rottura era “però più in profondità” – ma anche molte persone fedeli al Concilio Vaticano II “desideravano ritrovare la forma, a loro cara, della sacra liturgia”, cioè tornare all’antico messale, il motivo era il seguente, a giudizio del papa:

“In molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”.

La convinzione di Benedetto XVI è invece che “le due forme dell’uso del rito romano possono arricchirsi a vicenda”. Il rito antico potrà essere integrato da nuove feste e nuovi testi. Mentre “nella celebrazione della messa secondo il messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso”.

Il che è proprio ciò che avviene, sotto gli occhi di tutti, ogni volta che papa Ratzinger celebra la messa: col rito “moderno” ma con uno stile fedele alle ricchezze della tradizione.

Nell’istruzione “Universæ Ecclesiæ” diffusa oggi con la data del 30 aprile 2011, festa di san Pio V, è citato quest’altro passaggio della lettera di Benedetto XVI del 2007:

“Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del ‘Missale Romanum’. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”.

E viceversa – ribadisce l’istruzione al n. 19 – i fedeli che celebrano la messa in rito antico “non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della santa messa o dei sacramenti celebrati nella forma ordinaria”.

Ecco dunque il link all’istruzione diffusa il 13 maggio 2011 sull’applicazione del motu proprio “Summorum Pontificum” del 2007.

> Universæ Ecclesiæ

Mentre questa è la nota di sintesi curata dal direttore della sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi:

> “L’Istruzione sull’applicazione del motu proprio…”

Sia l’istruzione che la nota sono state diffuse nelle principali lingue. Così come si trova tradotta in più lingue, nel sito del Vaticano, anche la lettera di Benedetto XVI ai vescovi del 2007.

Curiosamente, però, il motu proprio “Summorum Pontificum” continua ad essere presente nel sito della Santa Sede soltanto in due lingue, e tra le meno conosciute: la latina e l’ungherese:

> Summorum Pontificum

Intanto, il prossimo 15 maggio, IV domenica di Pasqua, sarà celebrata nella basilica papale di San Pietro in Vaticano, all’Altare della Cattedra, per la prima volta, una messa solenne in rito antico.

Il celebrante sarà il cardinale Antonio Cañizares Llovera, prefetto della congregazione per il culto divino.

Dirigerà il coro, con musiche di Giovanni Pierluigi da Palestrina, il cardinale Domenico Bartolucci, già maestro perpetuo della Cappella Musicale Sistina.

La messa concluderà un convegno sul motu proprio “Summorum Pontificum”, tra i cui relatori figurano lo stesso cardinale Cañizares, il vescovo Athanasius Schneider e monsignor Guido Pozzo, segretario della pontificia commissione “Ecclesia Dei” che ha emesso l’istruzione “Universæ Ecclesiæ”.

Il programma del convegno:

> “Una speranza per tutta la Chiesa”

__________

Notizie, analisi documenti sulla Chiesa cattolica a cura di Sandro Magister

 

 

Vogliamo di seguito dare una sintetica documentazione sul dibattito in atto:


“Per poter assorbire la… contestazione [dei lefebvriani], il Vaticano ha moltiplicato le concessioni… Ma il risultato finora visibile è di averli incoraggiati a ulteriori appetiti… Sembra che la Chiesa di Ratzinger accetti di farsi liquida, se non babelica. In nome del principio dell’accoglienza ammette che gruppuscoli di cattolici arcaici con preti di loro gusto, anzi, che preti nomadi di passaggio si presentino occasionalmente in una parrocchia per far messe in latino. Le norme prescrivono ora che vengano accontentati… non si ricordava un simile grado di contestazione dell’autorità dei vescovi”
“Torna la messa in latino, per i fedeli che d’ora in poi la chiederanno. I vescovi dovranno mostrare «generosa accoglienza» nel concederla a chi la pretenderà… Ma i fedeli tradizionalisti che vogliono seguire la messa in latino… «non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa messa o dei sacramenti celebrati con il rito del Concilio Vaticano II». E devono inoltre «riconoscere il Romano Pontefice come pastore supremo della Chiesa universale»”
“«Generosa accoglienza» verso quanti chiedono il messale precedente alla riforma liturgica, spiega il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, per garantire «la legittimità e l’effettività dell’uso del messale antico e lo spirito di comunione ecclesiale: la finalità papale di riconciliazione non va ostacolata o frustrata, ma favorita e raggiunta»” (ndr.: si continua a non tener conto delle gravi obiezioni alla reintroduzione dell’antico rito, sul rapporto tra lex credenti e lex orandi, sul fatto che la liturgia rinnovata è espressione della nuova consapevolezza di sé della chiesa espressa nel concilio, che in particolare la celebrazione liturgica è una celebrazione della comunità, la maggiore attenzione all’importanza della proclamzione e ascolto della Parola…)
“L’«istruzione… insiste… sulla finalità di riconciliazione» del Papa, ha spiegato padre Federico Lombardi: e infatti da una parte invita alla «generosa accoglienza» dei fedeli che chiedessero la forma extraordinaria, cioè la vecchia messa; dall’altra avverte che questi fedeli «non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria»”
Universae, anzi Controversae Ecclesiae. Maggiori incertezze dopo la infelice Istruzione Universae Ecclesiae della Commissione “Ecclesia Dei” “Anche l’ultimo anello della catena – la Istruzione Universae Ecclesiae – risulta schiacciato da un problema strutturalmente insolubile: come si fa a “istruire” intorno ad una contraddizione patente? Più si istruisce e meno si capisce” ” Se all’improvviso – … – un rito “non più vigente”, superato dalla versione riformata dello stesso, torna magicamente in vigore e pretende di valere in parallelo rispetto a quello che lo aveva intenzionalmente emendato, rinnovato e superato, tutto subisce una sorta di deformazione irrimediabile”
“La continuità dell’affezione nei confronti di una forma rituale venerabile e sacra, che innumerevoli generazioni hanno abitato come espressione dell’immutabile tradizione apostolica, è dunque autorevolmente riconosciuta, in base a princìpi sempre condivisi e mai revocati in dubbio, come espressione legittima di una vera sensibilità cattolica.
“Ma come fai a non considerare che le affermazioni della Istruzione contribuiscano ad aprire il varco proprio alla “indifferenza” verso la Riforma liturgica, verso la chiesa comunione, verso la articolazione ministeriale della liturgia e della Chiesa, verso il canto come patrimonio comune, verso la partecipazione attiva, verso la iniziazione cristiana degli adulti, verso la corresponsabilità laicale nella offerta…” “A me pare, francamente, che se si deve lamentare una carenza grave in tutta questa vicenda è proprio una mancanza di stile. Precisamente di quello cattolico.”

 

Interessante editoriale del settimanale cattolico inglese”il clericalismo è ancora molto in voga e rappresenta una chiave di lettura per analizzare le motivazioni culturali che hanno dato origine allo scandalo degli abusi sessuali dei preti all’interno della Chiesa stessa.” ” al clericalismo era stato inferto un duro colpo dall’enfasi con cui il Concilio aveva parlato di sacerdozio comune dei fedeli come conseguenza del comune sacramento del battesimo. Ma è del tutto evidente oggi una reazione clericale tra quanti stanno percorrendo il cammino di formazione al sacerdozio o tra quelli di recente ordinazione” “Il Vaticano continua ad aggiungere munizioni nelle mani della lobby pro-Tridentino all’interno della Chiesa, come è accaduto anche con l’ultima istruzione, Universae Ecclesiae”

 

 

 

 

Da Giordano Bruno alla Shoah quei «mea culpa» a sorpresa

 

 

Papa audace in tante direzioni — dalla lotta al comunismo alla predicazione del Vangelo «fino ai confini della terra» — in nessuna Wojtyla fu sorprendente quanto nel «mea culpa» che culminò nella «Giornata del perdono» del 12 marzo 2000.

Nei confronti di quell’eredità Benedetto XVI si pone come prudente continuatore: in due occasioni ha fatto sua la richiesta di perdono per la Shoah formulata dal predecessore e in un’altra ha formulato un proprio «mea culpa» per il peccato della pedofilia del clero.

«Confessione delle colpe e richiesta di perdono» era intitolata la speciale liturgia che si celebrò in San Pietro la prima domenica di Quaresima dell’anno 2000. Sette rappresentanti della Curia romana leggevano altrettanti «invitatori», ai quali rispondeva il Papa con sette «orazioni», riguardanti i «peccati in generale», le «colpe nel servizio della verità», i «peccati» che hanno diviso la Chiesa, le «colpe nei confronti di Israele», le «colpe commesse con comportamenti contro l’amore, la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle culture e delle religioni», i «peccati che hanno ferito la dignità della donna e l’unità del genere umano», i «peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona». Ecco la seconda confessione di peccato, riguardante «le colpe nel  servizio della verità», che fu letta dal cardinale Ratzinger: «Preghiamo perché ciascuno di noi, riconoscendo che anche uomini di Chiesa, in nome della fede e della morale, hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici nel pur doveroso impegno di difesa della verità, sappia imitare il Signore Gesù, mite e umile di cuore». Così suonò la quarta delle sette «confessioni», riguardante la persecuzione degli ebrei: «Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il
tuo nome fosse portato alle genti; noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli e, chiedendo perdono a Dio, vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza». A conclusione di quella liturgia penitenziale, Giovanni Paolo pronunciò cinque «mai più» che suonano come una delle utopie evangeliche più forti che siano state affermate nella nostra epoca disincantata: «Mai più contraddizioni alla carità nel servizio della verità, mai più gesti contro la comunione della Chiesa, mai più offese verso qualsiasi popolo, mai più ricorsi alla violenza, mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi». Dal riesame del caso Galileo (impostato nel novembre del 1969) all’ultimo pronunciamento autocritico, riguardante i tribunali dell’Inquisizione (arrivato il 15 giugno 2004, con la lettera di accompagnamento della pubblicazione degli atti del simposio storico sull’Inquisizione dell’ottobre del 1998) sono oltre un centinaio le circostanze in cui Giovanni Paolo ha riconosciuto «errori» e «colpe» del passato e del presente, o ha invitato i cattolici ad applicarsi a questo «esame». Ai temi già detti vanno aggiunti— tra i principali— la tratta dei neri, il maltrattamento degli indios, la strage degli Ugonotti, il saccheggio di Costantinopoli da parte dei «crociati» nel 1204, il rogo di Giordano Bruno nell’anno 1600. Più volte Benedetto in questi sei anni si è richiamato all’atto penitenziale del  predecessore e in due occasioni (il 12 febbraio del 2009 e il 17 gennaio 2010, durante la visita alla sinagoga di Roma) ha fatto sua e ripetuto alla lettera la richiesta di perdono riguardante gli ebrei. L’ 11 giugno 2010 abbiamo invece avuto una richiesta di perdono formulata in proprio dal Papa teologo e proposta a nome della Chiesa per una colpa dei suoi «figli»: lo ha fatto per un «peccato» di oggi—gli abusi sessuali del clero— e non della storia, come invece tante volte aveva fatto Papa Wojtyla ma come lui ha accompagnato il «mea culpa» con l’impegno a fare in modo che quel misfatto non si verifichi «mai più» . Appare dunque chiaro come in questa pedagogia della penitenza e della purificazione Papa Ratzinger segua le orme del predecessore e nello stesso tempo se ne distingua”.

 

in “Corriere della Sera” del 1 maggio 2011

Essere cristiani nell’Italia unita

 

 

Rivolta al passato dal ciglio del presente, avida di comprendere il perché del proprio tempo e delle cose umane nelle res gestae d’altri, anche la storia dell’esperienza cristiana, delle istituzioni e delle dottrine che ne emanano, è tenuta tesa da due forze contrapposte.

Anch’essa, come ogni altra storia, ha sentito la sirena che voleva farla diventare giudice d’un tribunale tutto moderno che le consegnerebbe l’uomo, imputato del mancato bene e del male procurato, e che — proprio come accadeva a Dio nella teodicea, secondo Odo Marquard non potrebbe che assolverlo davanti
all’abilità con cui egli sa appellarsi alla nequizia dei tempi, alla superficialità del suo intelletto, alla fragilità della «natura». D’altro canto la storia della vita cristiana ha dovuto anche misurarsi con la richiesta di fungere da garante di una ideologia delle origini, di un mitico passato a volte primitivo a volte concentrato in una più vicina stagione, al quale pretende di tornare sia chi invoca uno scatto riformatore sia chi impugna l’identità fra sé e un passato chiamato in causa per giustificare assetti di potere. Nella sua declinazione disciplinare tutta moderna di cui Reinhart Koselleck ha sviscerato le origini, la comprensione storico-critica di ciò che accade nel tempo a causa e all’interno dell’esperienza cristiana s’è collocata in molteplici modi nel paesaggio culturale europeo. Per capire storicamente ciò che i cristiani sono effettivamente stati, generazione dopo generazione, dentro una durata o uno spazio politico, con gli strumenti e i limiti propri di questo sapere critico, i sistemi di ricerca d’Occidente hanno prodotto modelli tra loro più distanti di quanto non siano i risultati di conoscenza ai quali hanno poi saputo giungere. La vicenda delle facoltà teologiche tedesche, delle divinity americane, della ricerca sul fatto religioso di stampo francese è ben diversa da quella italiana: espulsa la teologia dalla università, la ricerca è tornata attraverso la storia religiosa: e a questa è stato chiesto, nel secondo dopoguerra, di fornire le genealogie del «partito cristiano al potere», secondo la formula Baget Bozzo. È stata la storia del «movimento cattolico» — una chiave che trent’anni fa ha dato il meglio di sé e che altri hanno tentato di superare. Mentre si raccontava un’Italia volta a volta neutra, o sacra o religiosa, il lavoro di scavo ha formato una leva di studiosi (che per qualche decennio ha popolato il mondo universitario nazionale), accedendo ad una realtà più limpida e più profonda. Nell’Italia diventata Stato non orbitavano due mondi — uno di cittadini
da un lato e uno di cristiani dall’altro — condannati a narrarsi per contrapposizioni o per sintonie irreali. Esistevano più semplicemente dei soggetti capaci di legarsi e di sciogliersi, portatori d’una formazione spirituale attivata o anche solo residua, di un’educabilità alla Scrittura o ai sacramenti, osservanti o autoemancipati rispetto a discipline morali e dottrinali. Insomma: cristiani. Cristiani delle «Chiese di Dio che sono in Italia», si dovrebbe dire mutuando quella decisiva espressione di Paolo (1 Cor. 1,2) da cui discende la tradizione che vede nei fedeli d’una città la parrocchia orante in attesa della propria patria, secondo la formula dell’epistola a Diogneto così cara a grandi patrologi come Michele Pellegrino e Giuseppe Lazzati. Ma la consapevolezza ecclesiologica d’essere una «Chiesa di Dio che è in», gli italiani che confessano la loro fede in Gesù Cristo, non l’hanno ancora avuta, se non per qualche sprazzo legato alle grandi figure dei vescovi santi, a qualche testimone capace di coagulare attorno a sé una stagione spirituale, a storie comunitarie durate abbastanza per segnare una vita, a qualche momento alto della pratica sinodale. Spaventati
dalle prove del tempo o esaltati dalle mediazioni politiche, i cristiani si sono sentiti l’armatura che protegge il Papa o la spina protestante rimasta conficcata nel Paese che l’Inquisizione avrebbe voluto «liberare» dalla riforma. E, dunque, cristiani d’Italia di cui studiare le grande linee e le minoranze, le tensioni e le eredità, cogliere la complessità, i miti e le autocomprensioni che hanno segnato la storia che conosciamo. Quando questa si sarà distanziata, ci si potrà  domandare di nuovo — come faceva Giuseppe Donati nel 1929 — se sia stato il clericalismo di secoli «a rendere gli italiani quali furono e quali, purtroppo, sono sempre» o se viceversa non siano stati gli italiani a rendere il clericalismo qual è. Forse si vedrà con maggiore chiarezza se l’assioma dossettiano dei primi anni Cinquanta (per cui l’incapacità della Chiesa di sovraordinarsi alle svolte epocali della civiltà la rende responsabile dei mali che da quei mutamenti si producono) si possa applicare ad altri momenti della storia italiana. Per ora, di quelle letture e di quelle speranze che hanno mosso la storia che possiamo studiare è necessario tentare un inventario che le protegga dalle semplificazioni.

 

in “Corriere della Sera” del 5 maggio 2011