L’Africa, grande speranza della Chiesa

18-20 novembre: viaggio del Papa in Benin. Per la seconda volta nel suo pontificato, Benedetto XVI si reca in Africa.

 

Segno dell’importanza che il papa, che viaggia poco, accorda a “quell’immenso polmone spirituale” rappresentato, ai suoi occhi, dall’Africa. Il continente, in cui la metà della popolazione ha meno di 25 anni, costituisce per Benedetto XVI  la grande speranza della Chiesa”.

Qual è l’obiettivo di questo viaggio?

È un viaggio lampo che chiude una sequenza aperta nel marzo 2009 in Camerun. La prima visita di Benedetto XVI sul  continente era stata contraddistinta dalle dichiarazioni sul preservativo, la cui distribuzione, aveva detto, “aumenta il  problema” dell’aids. Ma Benedetto XVI aveva anche consegnato ai vescovi un documento di lavoro preparatorio al  sinodo dedicato a “La Chiesa cattolica in Africa” nell’ottobre dello stesso anno.
Quel documento, che analizzava senza compiacimenti la situazione della Chiesa nel continente africano e si soffermava  a lungo sui mali di cui soffre l’Africa – povertà, corruzione, instabilità politica, tensioni religiose ed etniche, tribalismo  – è servito in questi due anni da ruolino di marcia per i vescovi.
Durante una messa a Cotonou in Benin, il 20 novembre, Benedetto XVI consegnerà loro l’“esortazione apostolica”  post-sinodale, che costituisce la conclusione di quei lavori e dei percorsi individuati per migliorare il ruolo della  Chiesa cattolica nelle società africane e per promuovervi, come desidera il Vaticano, “la riconciliazione, la giustizia e la  pace”.

Quali sono i paesi in cui vengono vissute vere tensioni interreligiose?

Somalia, Rwanda, Liberia, Congo… Sono paesi    devastati da guerre micidiali, quattro tragedie. Ma sono anche esempi che mostrano che “se in Africa ci sono violenze e  guerre, queste non si confondono nella maggior parte dei casi con guerre di religione”, afferma Christian Coulon,   professore emerito alla facoltà di Scienze Politiche dell’università di Bordeaux e specialista per l’Africa. I motivi di  questo sono molti. A parte poche eccezioni (Sudan, Mauritania, Comore e Jibuti), gli Stati africani si dichiarano in grande maggioranza laici. Del resto, “a differenza di quanto è avvenuto nel resto del mondo, il cristianesimo e l’islam in  Africa sono stati reinterpretati secondo gli idiomi e i precetti della cultura africana – che – li hanno pervasi di uno  spirito di tolleranza”, spiega Akintude Akinade, professore di teologia all’università di Georgetown (USA).
Perché allora tante violenze religiose in Nigeria e in Sudan, con milioni di morti nell’ultimo mezzo secolo? L’analisi dei  conflitti riguarda una realtà molto più complessa e non si riassume in scontri tra cristiani e musulmani. Per il caso della  igeria, Christian Coulon preferisce mettere in primo piano “la cultura della violenza che si è instaurata con  l’esplosione urbana, con la guerra del Biafra, con la corruzione della classe dirigente, in particolare con la mancanza di  regole politiche.
Cultura nutrita da una segmentazione territoriale che ha portato alla creazione di 36 stati federati, che cercano ognuno  i stabilire le proprie frontiere e di affermare la propria identità, in un contesto in cui prevale la pluralità  religiosa ed etnica, anche se certi gruppi esercitano una certa egemonia”.
“Le cause sono etniche e politiche, non hanno nulla a che vedere con la religione”, è l’analisi di Sulaiman Nyang,  specialiste dell’Africa e dell’islam all’università Howard, a Washington. Quanto al Sudan, non è un caso se la seconda  guerra civile (1983-2005) tra il Nord musulmano e il Sud cristiano ed animista sia esplosa poco tempo dopo la  scoperta di petrolio in quella parte meridionale del paese. Anche qui “le poste in gioco sembrano essere non tanto  religiose quanto politiche e territoriali”, osserva Christian Coulon.
Da quest’analisi non si può però giungere alla conclusione della neutralità del fattore religioso nei conflitti africani,  tanto più che tale fattore si inserisce in un contesto di sconvolgimenti sociali, economici e politici del continente.  Christian Coulon ricorda ad esempio che “il rinnovamento religioso in Africa e la comparsa di nuovi movimenti  religiosi (musulmani, cristiani profetici, o altri) portano delle mobilitazioni che, in certe situazioni, sono anche  suscettibili di creare rivalità e conflitti tra comunità.

Qual è lo sguardo della Chiesa sull’Africa?

I vescovi africani e il Vaticano non esitano a denunciare l’insieme dei mali di cui soffre il continente. Vi vedono in parte  elle cause interne legate alla cattiva governance e alla corruzione dei poteri costituiti, ma chiamano in causa  anche chiaramente “l’Occidente” per un certo numero di derive.
Nel loro documento del 2009, i vescovi africani denunciavano “le forze internazionali che fomentano guerre per  smerciare le loro armi” e accusavano l’Occidente di “sostenere poteri che non rispettano i diritti umani” o di “rapinare  le risorse naturali” del continente. Il papa stesso aveva denunciato il mondo occidentale che, nonostante la fine del  “colonialismo politico”, “continua ad esportare rifiuti tossici spirituali” sul continente. Agli occhi del papa, l’Africa è globalmente minacciata da due rischi importanti, “il materialismo e il fondamentalismo religioso”, allusione alle Chiese  vangelical e all’islam. La gerarchia cattolica si preoccupa anche di una “perdita dell’identità culturale africana  che porta al lassismo morale, alla corruzione e al materialismo”.

Qual è la situazione della Chiesa cattolica in Africa?

La Chiesa cattolica gode di una certa autorità nei paesi in cui opera stabilmente da lunga data. Presente nella gestione  degli ospedali e delle scuole, costituisce talvolta una delle rare istituzioni stabili e perenni in paesi attraversati da crisi  ricorrenti.
Anche se non frequenti, le prese di posizione di certi vescovi che criticano apertamente i poteri costituiti migliorano  l’immagine della Chiesa. In altri casi, il fatto che membri del clero si compromettano con i potentati locali mina in parte  a credibilità della Chiesa.
Per quanto riguarda l’aspetto religioso, la chiesa cattolica deve confrontarsi con le pratiche legate a credenze  ancestrali ancora molto vive: pratiche occulte, libagioni, culto degli avi, sacrifici offerti agli idoli e agli dei, stregoneria. L’istituzione denuncia quelle tradizioni, talvolta praticate perfino da membri del clero, come “incompatibili con il messaggio evangelico”.
Il clero africano gode di una giovinezza e di una vitalità che a volte i paesi europei gli invidiano. Ma il comportamento  dei suoi rappresentanti suscita delle critiche. Alcuni di loro gestiscono attività commerciali parallelamente al loro  ministero o non sfuggono alla corruzione diffusa. Rese fragili da una cattiva gestione, certe diocesi sono in fallimento.  Roma rimprovera loro anche di non rispettare sempre il celibato.
Preso dalla sua dottrina, il Vaticano sviluppa a volte analisi lontane dalla realtà dei paesi africani, in particolare in  materia di controllo delle nascite, di morale sessuale o di lotta contro l’aids. Inoltre, la denuncia ricorrente di  “edonismo” e di “materialismo”, che, secondo il Vaticano, riguarda anche l’Africa, può apparire lontana per  popolazioni che vivono al limite della povertà.

Quali sono le sfide con cui la Chiesa deve confrontarsi?

Come in altre regioni del mondo, la Chiesa cattolica in Africa si deve confrontare con la concorrenza di ciò che i  vescovi chiamano “la proliferazione cancerosa delle sette di tutti i tipi”, in altre parole le Chiese protestanti  evangelical, in pieno sviluppo. La lettura letterale della Bibbia o le promesse di guarigione e di ricchezza vantate dagli  evangelical riguardano gruppi di popolazione che la Chiesa cattolica non riesce necessariamente più a convincere.  Aggiunto alla sopravvivenza delle credenze tradizionali, questo fenomeno è una fonte potenziale di indebolimento  della Chiesa, per la quale il continente rimane comunque una potenziale terra di evangelizzazione.
Spesso presente in paesi a maggioranza musulmana, la Chiesa cattolica denuncia anche regolarmente il proselitismo  musulmano, la difficoltà per i credenti di esercitare la loro libertà di coscienza e di convertirsi al cristianesimo, oltre al  fondamentalismo, portatore “di intolleranza e di violenza”.
I religiosi africani si sforzano di lottare contro “il pensiero unico occidentale, che ha influenze nocive” sulla famiglia e  sulla morale sessuale. Infine, di fronte all’emigrazione, i vescovi auspicano di “suscitare negli africani subsahariani un  sussulto per una rinascita dell’uomo nero” e invitano i loro governanti a prendere in mano i destini dei loro popoli.

in “Le Monde – Géo & Politique” del 13 novembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

La crisi economica: una riflessione sulle cause e le soluzioni

 

Crescere nella crisi.

Commissione famiglia e società della Conferenza dei vescovi di Francia

 


Tutte le analisi sull’attuale crisi economica indicano la necessità di «cambiare i nostri comportamenti e i nostri stili di vita. Tuttavia, sembra che a una simile lucidità non si accompagni una reale disponibilità al cambiamento. Anche quando pareva che vi fosse un consenso sulla necessità di un cambiamento di rotta, come nel caso della riforma del sistema pensionistico, sui termini delle modifiche da operare vi era poi un disaccordo tale che la sua realizzazione appariva frutto di una costrizione imposta piuttosto che un compromesso accettato in vista di un bene comune». Sembrano parole indirizzate al contesto italiano quel le a firma della Commissione famiglia e società dell’episcopato francese rese note lo scorso febbraio nel documento Crescere nella crisi. Esso, infatti, si rivolge a quel «malessere più generale » costituito dalla mancanza di «fiducia negli altri e nella collettività nazionale », che, assieme alla lucidità rispetto a un futuro incerto, generano «una grande angoscia, della quale la prossima generazione rischia di essere la prima vittima». Sullo stesso tema e con tonalità simili sono anche intervenuti i vescovi irlandesi (cf. in questo numero a p. 474).

J.-C. Descubes, Commissione famiglia e società Conferenza dei vescovi di Francia

 

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Dalla crisi alla speranza.

Consiglio giustizia e pace della Conferenza vescovi cattolici irlandesi


«Solidale con tutti coloro che soffro no a causa della crisi economica», il Consiglio per la giustizia e la pace della Conferenza episcopale irlandese ha pre sentato il 21 febbraio scorso una di chiarazione aggiungen do «la sua voce a tutte quelle che si levano per domandare un cambiamento positivo nella nostra società». L’attuale momento «di notevole inquietudine politico- finanziaria» vie ne analizzato – alla luce dell’en ci clica Caritas in veritate – con un’attenzione particolare ai «costi umani» di una crisi i cui effetti «sorprendenti e spaventosi» sono disoccupazione, insicurezza, «crollo del – la fiducia nelle istituzioni» e disperazione. Di fronte al fallimento di un modello economico e culturale, consapevoli che non si uscirà dalla crisi senza promuovere una «cultura della speranza», i membri del Consiglio offrono un’alternativa ispirata ai valori evangelici e alla dottrina sociale cristiana nella quale, tenendo conto «delle variabili presenti in ogni equazione politica: efficienza economica, libertà individuale, tutela dell’ambiente e giustizia sociale», an che «il principio di gratuità e la logica del dono» trovano spazio tra i criteri che possono e devono regolare l’attività economica.

Consiglio per la giustizia e la pace – Conferenza vescovi cattolici irlandesi

 

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Da consultare

Nota: “Per una riforma del sistema finanziario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale” (24 ottobre 2011)

 

 

Un nuovo modello di leaderschip

Ettore Gotti Tedeschi

Gli errori di interpretazione e la sottovalutazione dell’attuale crisi economica sono stati gravi e perdurano. Sono state male interpretate le sue vere origini, cioè il crollo della natalità, e le conseguenze che hanno portato all’aumento delle tasse sul pil per assorbire i costi dell’invecchiamento della popolazione. E sono stati sottovalutati gli effetti delle decisioni prese per compensare questi fenomeni, soprattutto con la delocalizzazione produttiva e con i consumi a debito.
Non sono stati poi presi nella giusta considerazione l’urgenza di intervenire e i criteri da seguire per sgonfiare il debito prodotto. Non è stato quindi previsto il crollo di fiducia che ha condotto al ridimensionamento dei valori delle Borse e alla crisi del debito.
A questo punto le soluzioni non sono più tante. Per ridurre il debito totale – pubblico, delle banche, delle imprese, delle famiglie – e riportarlo ai livelli precedenti alla crisi, cioè a circa il 40 per cento in meno, è immaginabile, ma non raccomandabile, cancellarne una parte con una specie di concordato preventivo in base al quale i creditori vengano pagati al 60 per cento. È pensabile, ma si tratta di un’ipotesi senza prospettive, inventare qualche nuova bolla per compensare il debito con una crescita di valori mobiliari o immobiliari. È valutabile – ma speriamo sia solo una tentazione – una tassazione della ricchezza delle famiglie, sacrificando però una risorsa necessaria allo sviluppo e producendo allo stesso tempo un’ingiustizia. Si può anche ricercare una via di sviluppo rapido, grazie a una crescita di competitività, che nella crisi globale non è però facile generare. Non ci sono capitali da investire, le banche sono deboli, il problema demografico penalizza la domanda e gli investimenti. In questo contesto, inoltre, i consumi a debito non sono nemmeno immaginabili.
I Paesi occidentali sono costosi e per renderli economici in tempo breve si dovrebbe intervenire sul costo del lavoro. Interventi di stampo protezionistico per sostenere le imprese non competitive produrrebbero però svantaggi per i consumatori e ridurrebbero i consumi già in declino. Si potrebbe svalutare la moneta unica, ma questa iniziativa condurrebbe all’aumento dei prezzi di beni importati.
Qualcuno, per sgonfiare il debito, pensa anche all’inflazione. Ma l’inflazione non si accende se la crescita economica è pari a zero, se i salari sono fermi, se incombe l’ombra della disoccupazione e se diminuiscono persino i prezzi delle materie prime.
Si potrà affermare che la spirale inflazionistica non si avvia finché non c’è sfiducia nella propria moneta. La questione è che oggi non ci si può fidare di nessuna valuta: tutte, compresi euro e dollaro, sono deboli. L’inflazione non parte anche perché la liquidità non circola, ma soprattutto perché quella creata dalle banche centrali ha sostituito quella prodotta dai sistemi bancari per sostenere la crescita a debito.
Il primo problema oggi non è quindi l’inflazione ma la deflazione. I mercati stanno infatti privilegiando la liquidità. Questo perché in regime deflazionistico il valore della moneta cresce, mentre durante l’inflazione decresce. Far progredire l’economia oggi senza aumentare il debito pubblico significa correlare i tassi di interesse al pil. Nei Paesi con un debito pubblico superiore al 100 per cento del pil, è evidente che, per ottenere una crescita dell’1 per cento senza fare aumentare il debito, bisogna avere tassi non superiori all’1 per cento, penalizzando in questo modo i risparmi.
La soluzione è in mano ai Governi e alle banche centrali che devono realizzare un’azione strategica coordinata di reindustrializzazione, rafforzamento degli istituti di credito e sostegno dell’occupazione. Questo richiederà tempo, un tempo di austerità nel quale ricostituire i fondamentali della crescita economica. Ma soprattutto i Governi devono ridare fiducia ai cittadini e ai mercati attraverso una governance adatta ai tempi, che, oltre a garantire adeguatezza tecnica, sia anche un modello di leadership. Cioè uno strumento per raggiungere l’obiettivo del bene comune.

(©L’Osservatore Romano 4 novembre 2011)

 

 

La vera crescita? Meno finanza e più produzione

Paolo Sorbi

Avvenire 3 novembre 2011

La continuità e la profondità dell’attuale crisi sistemica internazionale ha sorpreso in buona parte la comunità dei ricercatori. Grandi quantità di dollari e di euro sono state introdotte nei circuiti finanziari dagli stati del G20, ma sino ad ora non c’è nessuna credibilità di uscire a breve termine dalla crisi internazionale dell’economia/mondo. Si è, comunque, preso atto della fine di un lungo ciclo dello stesso sviluppo capitalistico globale.

 

 

 

I meccanismi liberistici senza regole non funzionano. Si è iniziata una riflessione sui temi della produzione e dell’economia riecheggiando tematiche “interventiste” degli stati nazionali pensando di ricopiare alcuni modelli keynesiani degli anni Trenta. Ma la natura della crisi globale non è assimilabile a quella della prima grande crisi del 1929. Gli attuali processi di stagnazione internazionale non sono l’assemblaggio delle singole crisi dei sistemi nazionali. Inoltre l’attuale crisi generale (non solo economica, ma anche culturale ed antropologica) inizia a bloccare le forti crescite economiche classiche che avevano visto per protagonisti gli stati ed i grandi territori del Brasile, della Russia, dell’India e della Cina. Contemporaneamente, negli ultimi due anni, dati Fao, il numero di coloro che sono affamati non solo non è diminuito, ma è accresciuto: addirittura del 25%.

Dai grattacieli di Manhattan, ai deserti dell’Africa centrale è tutto il ciclo della globalizzazione “soft” – cioè quella prima ed iniziale fase di globalizzazione della finanza e delle tecnologie che aspiravano ad una crescita senza contraddizioni – ad aver ceduto. Sono i “cicli lunghi”, studiati dall’economista, Kondratieff, delle conflittualità sociali e popolari, ad aver indotto ristrutturazioni ed innovazioni di portata internazionale. Gli esiti economici, all’inizio del terzo millennio, sono stati grandi mutamenti “hard” per il volto feroce che hanno assunto verso centinaia di milioni di nuovi poveri. Un altro “volano” che ritengo decisivo, è determinato dalle dinamiche-sociodemografiche su scala globale.

È stato il crollo della natalità in Usa, Europa e Giappone, ad essere uno dei vettori dell’attuale crisi internazionale di stagnazione dello sviluppo. Sono le ricerche del maggior economista-demografo contemporaneo Alfred Sauvy, a dimostrare che nell’Occidente della crescita zero, la mancanza di innovazioni è correlata al “grande inverno” dell’invecchiamento delle popolazioni. Quelle ricerche dimostrano che tra popolazione giovane, sviluppo economico ed innovazioni istituzionali c’è una forte correlazione. Colpisce la decelerazione economica, ancora poco studiata, della Cina. Cresciuta in anni di boom economico straordinario in modo impressionante, in recenti surveys della società “Oxford Economic” emergono dati preoccupanti di un deleveraging, vale a dire di una rapida ed improvvisa decrescita che potrebbe raggiungere uno stop netto verso il 2014.

Gli investimenti in Cina si fermano, perché crescono contemporaneamente i tassi bancari ed il costo del lavoro per l’estesa diffusione di lotte operaie e popolari. La catena delle forniture in Asia colpisce il motore profondo della crescita economica ininterrotta e si aprono problemi di recessione e disoccupazione anche in quei territori. L’estensione rapidissima di lotte sociali è emersa anche in tutta la realtà del colosso brasiliano. Conflittualità sempre più apportatrici di fiducia tra fasce sociali estremamente povere di quelle aree che, per la prima volta nella loro storia, si autoidentificano come lavoratori portatori di rivendicazioni e saperi culturali solidali. Quello che sta accadendo, durante questi recenti anni di crisi internazionale, non a sufficienza monitorato dalla ricerca sociale, è un grande mutamento di ciclo economico.

La globalizzazione reale ha voluto dire un processo di costruzione e di decentramento produttivo in una sorte di corrente tecnologica “nord-sud” del mondo. Ora invece quella corrente si rovescia verso una tendenza “sud-nord”. Nell’attuale crisi, innumerevoli realtà imprenditoriali multinazionali, sia americane che europee, cominciano a comprendere che non conviene più l’outsourcing produttivo in molte aree dei cosiddetti paesi in sviluppo.

Un recente studio del “McKinsey Quarterly”, fine del 2010, evidenzia che in Cina i salari sono cresciuti del 15% all’anno, dal 2000 al 2009. Nei prossimi anni di rallentamento, anche in Cina, i salari cresceranno, comunque, tra il 20 ed il 30% in più. Gli utili stanno diminuendo, perché i costi della produzione stanno rapidamente aumentando.

Ad esempio, Barack Obama, all’inizio di quest’anno, nel suo discorso sullo stato dell’Unione ha enfatizzato l’importanza del “rientro in patria” degli ordini manifatturieri e tecnologici. In Inghilterra la crescita delle piccole e medie imprese dei segmenti della meccanica e del tessile, dopo oltre tre decenni di declino, ha subito una rapida ripresa riportando quei segmenti produttivi, all’inizio degli anni Novanta. Insomma l’Occidente finanziarizzato ha in buona parte perduto i criteri dell’economia reale che non può essere un semplice mondo di servizi e consumi.

“Ritorno della produzione” in Occidente vuol dire, secondo recenti ricerche di team di sociologi industriali, tra cui Francesco Garibaldo, che bisogna mettere mano ad una riorganizzazione sul territorio anche del sindacato e dei suoi modelli di partecipazione e democrazia. È ovvio che le nuove produzioni saranno sempre di più finalizzate ai mutamenti ecosistemici, decisivi per aprire concretamente nuove strade di crescita, ma anche per aprire nuove strade a modelli sociali differenti ed, in parte, anche oltre le logiche del puro profitto capitalistico.

Non è il ritorno meccanico ad una tradizionale forza-lavoro industriale, ma è certamente una crescita di lavori collegata a queste nuovi materiali e nuove produzioni, a dinamiche di mobilità sostenibili, a dinamiche di manutenzione del territorio, a dinamiche anche di grandi opere, ma di certe opere, orientate alla conversione strutturale ed ecosistemica delle vecchie strutture capitalistiche che non possono produrre “nuova crescita”.



ATRI CONTRIBUTI


«Pochi giorni fa – ricorda il parroco – il Vaticano ha pubblicato una nota in cui chiede l’istituzione di un’autorità mondiale che regoli il mercato finanziario e monetario». Da qui le campane, piccolo segno per un proposito enorme: superare l’idea assoluta di libero mercato, che alla fine si riduce al «libera volpe in libero pollaio»
“Deve tornare alle profezie di allora [degli anni 60], il cattolicesimo, se vuole rispondere al collasso generato da quella che nel 1991 papa Wojtyla chiamò l’«idolatria del mercato»… Recependo Benedetto XVI, il documento vaticano rivendica il primato di spiritualità, etica e politica su economia e finanza… Intervenendo sul Financial Times, l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams ha definito l’idea di un governo mondiale «alquanto utopistica», ma ha elogiato la concretezza della ricetta vaticana, contrapposta alla vaga protesta degli indignati di St Paul’s Cathedral”
“Pensare una riforma finanziaria senza fare opera di verità… significa votare al fallimento ogni tentativo. Affinché emerga un’economia “giusta e responsabile”, la Chiesa del Var ritiene che ogni attività economica debba avere come norma l’adeguatezza tra ciò che viene fatto e ciò che è dovuto. È doveroso rimettere l’uomo al centro dell’economia attraverso la definizione di un quadro etico”
“Le monastère au travail: le Royaume de Dieu au défi de l’économie”, un libro della sociologa Isabelle Jonveaux. “I monaci mostrano che un modello fondato su valori diversi da quelli del mondo – rispetto della persona, carità, aiuto reciproco, rifiuto del rendimento ad ogni costo – può avere successo… Ci propongono l’idea di un’economia della sobrietà: produrre in funzione dei bisogni e non di più. E se si riceve di più, si dona”
“Ma che mondo è questo nostro nel quale la concentrazione della ricchezza è tale per cui i bonus della Goldman Sachs, anno domini 2009, sono pari al reddito di 224 milioni delle persone più povere del pianeta? Globalizzare produzione e commerci, attorno al dogma della libera circolazione dei capitali, e deregolare le società occidentali, in nome del massimo lucro di manager e azionisti, ha prodotto il sonno del diritto. E come il sonno della ragione di Goya, anche questo genera un mostro: l’eccesso di disuguaglianza”
“All’interno delle categorie prevalenti nel modello di sviluppo ancora oggi dominante non c’è soluzione. Per uscire da questo circolo vizioso occorre cambiare prospettiva… Un prezioso contributo viene da Michael Porter, guru del pensiero manageriale internazionale, il quale opportunamente ha cominciato a parlare di «valore condiviso»”
“L’etica protestante del lavoro ha contribuito a far crescere le economie del nord Europa più di quelle dei paesi del sud del continente e gli effetti in questi mesi di crisi del debito sono evidenti a tutti…”
“l’arcivercovo di Canterbury Rowan Williams scomunica «gli idoli dell’alta finanza», ciechi e sordi… [e] chiama la Chiesa anglicana alla mobilitazione. Uno: occorre che gli istituti separino le loro attività commerciali «dalle transazioni speculative»… Due: si ricapitalizzino le banche con denaro pubblico a patto che le banche stesse «siano obbligate» a intervenire per rinvigorire l’economia reale… Tre, così come il Vaticano, anche la Chiesa anglicana… raccomanda l’adozione della «Tobin tax»”
“Gli indignati di Londra non ce l’hanno fatta ad abbattere il capitalismo, ma sono riusciti almeno a provocare un certo parapiglia nella Chiesa d’Inghilterra. Accampati da due settimane sul sagrato della cattedrale Saint-Paul, nel cuore della City, le poche centinaia di manifestanti hanno vinto un’importante battaglia nei confronti dei dignitari religiosi: questi ultimi hanno rinunciato in extremis a lanciare una procedura di espulsione, autorizzando de facto la stabilizzazione dell’accampamento”
Testo completo dell’articolo dell’Arcivescovo di Canterbury, Dr Rowan Williams, pubblicato sul quotidiano The Financial Times. “La Chiesa d’Inghilterra e la Chiesa Universale sono autenticamente interessate all’etica del mondo finanziario e al problema di sapere se le nostre pratiche finanziarie sono a servizio di coloro che hanno bisogno di essere serviti – o se sono semplicemente diventate idoli che chiedono per se stesse un servizio acritico”
“non è possibile uno sviluppo complessivo dell’umanità senza… interventi precisi e razionali che garantiscano equità nell’accesso alle risorse… è insensato lavorare su progetti neo-malthusiani di controllo e limitazione delle nascite… Investire in politiche sociali, senza più territori determinati e chiusi, significa trasferire inevitabilmente a livello planetario l’applicazione di certe prerogative etiche un tempo affidate agli Stati nazionali… impossibile non guardare alla famiglia come soggetto sociale privilegiato…”

 


“Occupare Wall Street”

Il Vaticano sulle barricate

Alla vigilia del G-20 la Santa Sede invoca un’autorità politica universale che governi l’economia. Per cominciare, chiede che sia introdotta una tassa sulle transazioni finanziarie

 

A sentire padre Thomas J. Reese, professore alla Georgetown University di Washington e già direttore del settimanale dei gesuiti di New York, “America”, il documento rilasciato oggi dalla Santa Sede “è non solo più a sinistra di Obama: è più a sinistra anche dei democratici liberal ed è più vicino alle vedute del movimento ‘Occupare Wall Street’ che di qualsiasi membro del congresso americano”.

In effetti, il documento diffuso lunedì 24 ottobre dal pontificio consiglio della giustizia e della pace invoca niente meno che l’avvento di un “mondo nuovo” che dovrebbe avere il suo cardine in una autorità politica universale.

L’idea non è inedita. Era già stata evocata nell’enciclica “Pacem in terris” di Giovanni XXIII, del 1963, ed è stata rilanciata da Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate” del 2009, al paragrafo 67.

La “Caritas in veritate”, però, diceva molto altro e molto di più e l’auspicio di un governo mondiale della politica e dell’economia non ne era sicuramente il centro.

Qui invece, l’intero documento ruota attorno a questa idea, richiamata fin dal titolo:

> “Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”

Quanto di utopico e quanto di realistico ci sia, nell’invocazione di tale governo supremo del mondo, è fatto intravedere dal generale disordine che le cronache dell’attuale crisi economica e finanziaria ci descrivono ogni giorno.

All’ambito del realistico e del praticabile appartiene però uno specifico elemento di innovazione auspicato dal documento: la tassazione delle transazioni finanziarie, altrimenti detta “Tobin tax”.

Il documento dedica ad essa poche righe. E si sa che la proposta è contrastata da forti e argomentate obiezioni. Come pure si sa che la sostengono economisti famosi, quali Joseph Stiglitz e Jeffrey Sachs.

Ma nel presentare il documento alla stampa, la Santa Sede ha deciso di schierarsi con grande risolutezza a favore della “Tobin tax”. Non solo chiedendo di “riflettervi”, come si legge nel documento, ma rispondendo punto per punto alle obiezioni e mostrandone la praticabilità e l’utilità già nell’immediato.

Questa apologia della “Tobin tax” è stata affidata all’economista Leonardo Becchetti, professore all’Università di Roma “Tor Vergata”. Ed egli ha svolto il suo compito con precisione e con ricchezza di dati:

> “L’aspetto positivo delle crisi…”

Sul tavolo dei capi di governo del G-20, che si riuniranno a Cannes, in Francia, il 3 e 4 novembre prossimi, ci sarà dunque questa netta presa di posizione della Santa Sede a favore dell’introduzione della “Tobin tax”, il cui gettito “potrebbe contribuire alla costituzione di una riserva mondiale per sostenere le economie del paesi colpiti dalle crisi”.

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POST SCRIPTUM – Per una critica del documento da parte di un grande economista, vedi in “Settimo cielo”:

> Il professor Forte boccia il temino targato Bertone

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I cinquantanni del Concilio Vaticano II

 

La controversia sull’interpretazione del Concilio Vaticano II e sui cambiamenti nel magistero della Chiesa ha registrato in queste settimane nuovi sviluppi, anche ad alto livello.

Il primo è il “Preambolo dottrinale” che la congregazione per la dottrina della fede ha consegnato lo scorso 14 settembre ai lefebvriani della scismatica Fraternità Sacerdotale San Pio X, come base per una rappacificazione.

Il testo del “Preambolo” è segreto. Ma è stato descritto così nel comunicato ufficiale che ha accompagnato la sua consegna:

“Tale Preambolo enuncia alcuni principi dottrinali e criteri di interpretazione della dottrina cattolica, necessari per garantire la fedeltà al magistero della Chiesa e il ‘sentire cum Ecclesia’, lasciando nel medesimo tempo alla legittima discussione lo studio e la spiegazione teologica di singole espressioni o formulazioni presenti nei documenti del Concilio Vaticano II e del magistero successivo”.

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Un secondo sviluppo è l’intervento del cardinale Georges Cottier (nella foto) nella discussione in corso da alcuni mesi su www.chiesa e su “Settimo cielo”.

Cottier, 89 anni, svizzero, appartenente all’ordine dei domenicani, è teologo emerito della casa pontificia. Ha pubblicato il suo intervento sull’ultimo numero della rivista internazionale “30 Giorni”.

In esso, egli replica alla tesi sostenuta in www.chiesa dallo storico Enrico Morini, secondo cui con il Concilio Vaticano II la Chiesa ha voluto riallacciarsi alla tradizione del primo millennio.

Il cardinale Cottier mette in guardia dal pensare che il secondo millennio sia stato per la Chiesa un periodo di decadenza e di allontanamento dal Vangelo.

Nello stesso tempo, però, riconosce che il Vaticano II ha fatto bene a ridare forza alla visione di Chiesa che fu particolarmente viva nel primo millennio: non come soggetto a sé stante, ma come riflesso della luce di Cristo. E tratteggia le conseguenze concrete che derivano da tale corretta visione.

Il testo del cardinale Cottier è riprodotto integralmente in questa pagina, più sotto.

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Un terzo sviluppo della discussione riguarda una tesi del Vaticano II particolarmente contestata dai tradizionalisti: quella della libertà religiosa.

In effetti, c’è un’indubbia rottura tra le affermazioni in proposito del Vaticano II e le precedenti condanne del liberalismo fatte dai papi dell’Ottocento.

Ma “dietro quelle condanne c’era in realtà uno specifico liberalismo, quello statalista continentale, con le sue pretese di sovranità monista e assoluta che veniva avvertito come limitativo dell’indipendenza necessaria alla missione della Chiesa”.

Mentre invece “la riconciliazione pratica, portata a compimento dal Vaticano II, avviene attraverso il pluralismo di un altro modello liberale, quello anglosassone, che relativizza radicalmente le pretese dello Stato fino a farne non il monopolista del bene comune, ma una limitata realtà di pubblici uffici al servizio della comunità. Allo scontro tra due esclusivismi seguiva l’incontro nel segno del pluralismo”.

Le citazioni ora riportate sono tratte da un saggio che il professor Stefano Ceccanti, docente di diritto pubblico all’Università di Roma “La Sapienza” e senatore del Partito democratico, si appresta a pubblicare sulla rivista “Quaderni Costituzionali”:

> Benedetto XVI a Westminster Hall e al Bundestag: l’elogio del costituzionalismo

Nel saggio, Ceccanti analizza i due importanti discorsi pronunciati da Benedetto XVI lo scorso 22 settembre al Bundestag di Berlino e il 17 settembre del 2010 a Westminster Hall, per mostrare come entrambi i discorsi “sono in stretta continuità con quella riconciliazione operata dal Concilio”.

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Un quarto sviluppo è l’uscita in Italia di questo libro:

Pietro Cantoni, “Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e l’anticonciliarismo”, Sugarco Edizioni, Milano, 2011.

Il libro passa in rassegna i testi più controversi del Concilio Vaticano II, per mostrare che anche in essi tutto è leggibile e spiegabile alla luce della tradizione e della grande teologia della Chiesa, san Tommaso incluso.

L’autore, il sacerdote Pietro Cantoni – dopo aver passato alcuni anni giovanili in Svizzera nella comunità lefebvriana di Ecône ed esserne uscito – si formò a Roma alla scuola di uno dei maggiori maestri della teologia tomista, monsignor Brunero Gherardini.

Ma proprio contro il suo maestro si appuntano le critiche di questo suo libro. È Gherardini uno degli “anticonciliari” più presi di mira.

In effetti, monsignor Gherardini, nei suoi ultimi volumi, ha avanzato serie riserve sulla fedeltà alla Tradizione di alcune affermazioni del Concilio Vaticano II: nella costituzione dogmatica “Dei Verbum” circa le fonti della fede, nel decreto “Unitatis redintegratio” circa l’ecumenismo, nella dichiarazione “Dignitatis humanae” circa la libertà religiosa.

“La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il previo controllo della segreteria di Stato vaticana, nel recensire in settembre un suo libro ha riconosciuto all’anziano e autorevole teologo un “sincero attaccamento alla Chiesa”.

Ma questo non impedisce a Gherardini di appuntare le sue critiche graffianti sullo stesso Benedetto XVI, colpevole, a suo dire, di una esaltazione del Concilio che “tarpa le ali dell’analisi critica” e “impedisce di guardare al Vaticano II con occhio più penetrante e meno abbacinato”.

Da due anni Gherardini aspetta invano dal papa ciò che gli ha chiesto in una “supplica” pubblica: sottoporre a riesame i documenti del Concilio e chiarire in forma definitoria e definitiva “se, in che senso e fino a che punto” il Vaticano II fosse o no in continuità con il precedente magistero della Chiesa.

Nel marzo del 2012 ha annunciato l’uscita di un suo nuovo libro sul Concilio Vaticano II, che si prevede ancor più critico dei precedenti.

Quanto al libro di Pietro Cantoni, un suo commento ad opera di Francesco Arzillo è più sotto in questa pagina, dopo l’articolo del cardinale Cottier.

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Un’altra novità è il premio Acqui Storia che sarà assegnato il prossimo 22 ottobre a Roberto de Mattei per il volume “Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”, edito da Lindau e di cui www.chiesa ha riferito a suo tempo.

Il premio Acqui è uno dei più prestigiosi, nel campo degli studi storici. La giuria che ha deciso di conferirlo a de Mattei è composta da studiosi di vario orientamento, cattolici e non cattolici.

Il loro presidente, però, il professor Guido Pescosolido dell’Università di Roma “La Sapienza”, si è dimesso dalla carica proprio per dissociarsi da questa decisione.

A giudizio del professor Pescosolido, il libro di de Mattei sarebbe viziato da uno spirito militante anticonciliare, incompatibile con i canoni della storiografia scientifica.

A sostegno del professor Pescosolido si è schierata con un comunicato la SISSCO, Società per lo Studio della Storia Contemporanea, presieduta dal professor Agostino Giovagnoli, esponente di spicco della comunità di Sant’Egidio, e con nel direttivo un altro esponente della stessa comunità, il professor Adriano Roccucci.

E sul “Corriere della Sera” il professor Alberto Melloni – coautore di un’altra famosa storia del Vaticano II anch’essa sicuramente “militante” ma su sponda progressista, quella prodotta dalla “scuola di Bologna” di don Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo e tradotta in più lingue – ha addirittura svilanneggiato de Mattei. Pur riconoscendogli di aver arricchito la ricostruzione della storia del Concilio con documenti inediti, ha equiparato il suo libro a “tanto opuscolame anticonciliare” immeritevole di considerazione.

Al confronto, la pacatezza con cui il professor de Mattei ha sopportato simili affronti è stata per tutti una lezione di stile.

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Infine, sempre nella linea interpretativa di monsignor Gherardini e del professor de Mattei, è uscito il 7 ottobre in Italia un altro libro che individua già nel Concilio Vaticano II i guasti venuti alla luce nel dopoconcilio:

Alessandro Gnocchi, Mario Palmaro, “La Bella addormentata. Perché col Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà”, Vallecchi, Firenze, 2011.

I due autori non sono né storici né teologi, ma sostengono la loro tesi con competenza e con efficacia comunicativa, per una platea di lettori più vasta di quella raggiunta dagli specialisti.

Su sponda opposta rispetto a quella tradizionalista, anche il teologo Carlo Molari ha ampliato l’attenzione alla disputa, in una serie di articoli sulla rivista “La Rocca” della Pro Civitate Christiana di Assisi, nei quali ha ripreso e discusso gli interventi apparsi su www.chiesa e su “Settimo cielo”.

Anche grazie a loro, è quindi prevedibile che la controversia sul Vaticano II si allarghi a un maggior pubblico. Proprio alla vigilia dei cinquant’anni dall’apertura della grande assise, nel 2012.

Per l’occasione, dal 3 al 6 ottobre dell’anno prossimo il Pontificio Comitato di Scienze Storiche ha in cantiere un convegno di studio su come i vescovi che parteciparono al Concilio lo descrissero nel loro diari e archivi personali.

E l’11 ottobre 2012, giorno anniversario dell’apertura del Concilio ma anche ventesimo compleanno del Catechismo della Chiesa cattolica, inizierà uno speciale “anno della fede”, che terminerà il 24 novembre dell’anno successivo, solennità di Cristo Re dell’Universo. Benedetto XVI ne ha dato l’annuncio il 16 ottobre, nell’omelia della messa da lui celebrata nella basilica di San Pietro con migliaia di annunciatori pronti ad operare per la “nuova evangelizzazione”, e l’ha indetto con questo motu proprio:

> “Porta fidei”

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QUELLA PERCEZIONE DELLA CHIESA COME “LUCE RIFLESSA” CHE UNISCE I PADRI DEL PRIMO MILLENNIO E IL CONCILIO VATICANO II

di Georges Cottier

Nell’ormai prossimo 2012 cadranno i cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. A mezzo secolo di distanza, quello che è stato un avvenimento maggiore della vita della Chiesa continua a suscitare dibattiti – che probabilmente si intensificheranno nei prossimi mesi – su quale sia l’interpretazione più adeguata di quella assemblea conciliare.

Le dispute di carattere ermeneutico, certo importanti, rischiano però di diventare controversie per addetti ai lavori. Mentre può interessare a tutti, soprattutto nel momento presente, riscoprire quale sia stata la sorgente ispiratrice che ha animato il Concilio Vaticano II.

La risposta più comune riconosce che quell’evento era mosso dal desiderio di rinnovare la vita interiore della Chiesa e adattare anche la sua disciplina alle nuove esigenze per riproporre con nuovo vigore la sua missione nel mondo attuale, attenta nella fede ai “segni dei tempi”. Ma per andare più alla radice, occorre cogliere quale era il volto più intimo della Chiesa che il Concilio si proponeva di riconoscere e ripresentare al mondo, nel suo intento di aggiornamento.

Il titolo e le prime righe della costituzione dogmatica conciliare “Lumen gentium”, dedicata alla Chiesa, sono in questo senso illuminanti nella loro chiarezza e semplicità: “Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo che risplende sul volto della Chiesa”. Nell’incipit del suo documento più importante, l’ultimo Concilio riconosce che il punto sorgivo della Chiesa non è la Chiesa stessa, ma la presenza viva di Cristo che edifica personalmente la Chiesa. La luce che è Cristo si riflette come in uno specchio nella Chiesa.

La coscienza di questo dato elementare (la Chiesa è il riflesso nel mondo della presenza e dell’agire di Cristo) illumina tutto ciò che l’ultimo Concilio ha detto sulla Chiesa. Il teologo belga Gérard Philips, che della costituzione “Lumen gentium” fu il principale redattore, mise in evidenza proprio questo dato all’inizio del suo monumentale commento al testo conciliare.

Secondo lui, “la costituzione sulla Chiesa adotta sin dall’inizio la prospettiva cristocentrica, prospettiva che si affermerà istantaneamente nel corso di tutta l’esposizione. La Chiesa ne è profondamente convinta: la luce delle genti si irradia non da essa, ma dal suo divino Fondatore: pure, la Chiesa sa bene che, riflettendosi sul suo volto, questo irradiamento raggiunge l’umanità intera”. Una prospettiva di sguardo ripresa fin nelle ultime righe dello stesso commento, nelle quali Philips ripeteva che “non sta a noi profetare sul futuro della Chiesa, sui suoi insuccessi e sviluppi. Il futuro di questa Chiesa, di cui Dio ha voluto fare il riflesso di Cristo, Luce dei Popoli, sta nelle Sue mani”.

La percezione della Chiesa come riflesso della luce di Cristo accomuna il Concilio Vaticano II ai Padri della Chiesa, che fin dai primi secoli ricorrevano all’immagine del “mysterium lunae”, il mistero della luna, per suggerire quale fosse la natura della Chiesa e l’agire che le conviene. Come la luna, “la Chiesa splende non di luce propria, ma di quella di Cristo” (“fulget Ecclesia non suo sed Christi lumine”), dice sant’Ambrogio. Mentre per Cirillo d’Alessandria “la Chiesa è circonfusa dalla luce divina di Cristo, che è l’unica luce nel regno delle anime. C’è dunque una sola luce: in quest’unica luce splende tuttavia anche la Chiesa, che non è però Cristo stesso”.

In questo senso, merita attenzione la valutazione offerta di recente dallo storico Enrico Morini in un intervento ospitato sul sito www.chiesa.espressonline.it curato da Sandro Magister.

Secondo Morini – che è professore di storia del cristianesimo e delle Chiese presso l’Università di Bologna – il Concilio Vaticano II si è posto “nella prospettiva della più assoluta continuità con la tradizione del primo millennio, secondo una periodizzazione non puramente matematica ma essenziale, essendo il primo millennio di storia della Chiesa quello della Chiesa dei sette Concili, ancora indivisa […]. Promuovendo il rinnovamento della Chiesa il Concilio non ha inteso introdurre qualcosa di nuovo – come rispettivamente desiderano e temono progressisti e conservatori – ma ritornare a ciò che si era perduto”.

L’osservazione può creare equivoci, se viene confusa con il mito storiografico che vede la vicenda storica della Chiesa come una progressiva decadenza e un allontanamento crescente da Cristo e dal Vangelo. Né si possono accreditare contrapposizioni artificiose per le quali lo sviluppo dogmatico del secondo millennio non sarebbe conforme alla Tradizione condivisa durante il primo millennio dalla Chiesa indivisa. Come ha evidenziato il cardinale Charles Journet, rifacendosi anche al beato John Henry Newman e al suo saggio sullo sviluppo del dogma, il “depositum” che abbiamo ricevuto non è un deposito morto, ma un deposito vivente. E tutto ciò che è vivente si mantiene in vita sviluppandosi.

Allo stesso tempo, va colta come un dato oggettivo la corrispondenza tra la percezione della Chiesa espressa nella “Lumen gentium” e quella già condivisa nei primi secoli del cristianesimo. La Chiesa non viene cioè presupposta come un soggetto a sé stante, prestabilito. La Chiesa rimane al dato che la sua presenza nel mondo fiorisce e permane come riconoscimento della presenza e dell’azione di Cristo.

A volte, anche nella nostra più recente attualità ecclesiale, questa percezione del punto sorgivo della Chiesa sembra per molti cristiani offuscarsi, e sembra avvenire una sorta di rovesciamento: da riflesso della presenza di Cristo (che con il dono del Suo Spirito edifica la Chiesa) si passa a percepire la Chiesa come una realtà materialmente e idealmente impegnata ad attestare e realizzare da sé la propria presenza nella storia.

Da questo secondo modello di percezione della natura della Chiesa, che non è conforme alla fede, discendono conseguenze concrete.

Se, come si deve, la Chiesa si percepisce nel mondo come riflesso della presenza di Cristo, l’annuncio del Vangelo non può che avvenire nel dialogo e nella libertà, rinunciando a ogni mezzo di coercizione sia materiale che spirituale. È la strada indicata da Paolo VI nella sua prima enciclica “Ecclesiam suam”, pubblicata nel 1964, che esprime perfettamente lo sguardo sulla Chiesa proprio del Concilio.

Anche lo sguardo che il Concilio ha rivolto sulle divisioni tra i cristiani e poi sui credenti delle altre religioni, rifletteva la stessa percezione della Chiesa. Così anche la richiesta di perdono per le colpe dei cristiani, che ha stupito e fatto discutere in seno al corpo ecclesiale quando fu presentata da Giovanni Paolo II, è perfettamente consonante con la coscienza di Chiesa fin qui descritta. La Chiesa chiede perdono non per seguire logiche di onorabilità mondana, ma perché riconosce che i peccati dei suoi figli offuscano la luce di Cristo che essa è chiamata a lasciar riflettere sul suo volto. Tutti i suoi figli sono peccatori chiamati per l’azione della grazia alla santità. Una santificazione che è sempre dono della misericordia di Dio, il quale desidera che nessun peccatore – per quanto orribile sia il suo peccato – venga ghermito dal maligno nella via della perdizione. Così si comprende la formula del cardinal Journet: la Chiesa è senza peccato, ma non senza peccatori.

Il riferimento alla vera natura della Chiesa come riflesso della luce di Cristo ha anche immediate implicazioni pastorali. Purtroppo, nell’attuale contesto, si registra la tendenza di vescovi a esercitare il proprio magistero attraverso pronunciamenti per via mediatica, in cui spesso si forniscono prescrizioni, istruzioni e indicazioni su cosa devono o non devono fare i cristiani. Come se la presenza dei cristiani nel mondo fosse il prodotto di strategie e prescrizioni e non sorgesse dalla fede, cioè dal riconoscimento della presenza di Cristo e del suo messaggio.

Forse, nel mondo attuale, sarebbe più semplice e confortante per tutti poter ascoltare pastori che parlano a tutti senza dare per presupposta la fede. Come ha riconosciuto Benedetto XVI durante la sua omelia a Lisbona il 12 maggio 2010: “Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, e ciò, purtroppo, è sempre meno realista”.

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UN BUON LIBRO E DUE CATECHISMI DA CONFRONTARE

di Francesco Arzillo

L’uscita del libro di Pietro Cantoni “Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e l’anticonciliarismo” è un evento che merita di essere segnalato con favore. Si tratta, infatti, di un esempio di rigoroso esercizio di un’ermeneutica continuistica: ottima medicina per la malattia rappresentata dalla polarizzazione in atto nell’opinione pubblica ecclesiale, quale risulta soprattutto dai dibattiti mediatici alimentati da minoranze “impegnate” ma assai poco presenti nella vita dei cattolici parrocchiali medi, ossia della larga maggioranza dei fedeli.

Il lettore non teologo viene guidato da Cantoni nella lettura di alcuni dei più celebri tra i passi controversi dei testi del Concilio, per scoprire infine che in essi non vi è nulla che non sia leggibile e spiegabile alla luce della Tradizione e della grande teologia della Chiesa, san Tommaso incluso.

Dispiace rilevare che questo atteggiamento possa essere  interpretato – da alcuni – come una sorta di aprioristica difesa del Vaticano II, la quale pregiudicherebbe il giusto impegno contro le esasperazioni e i guasti di una  parte della teologia e delle prassi postconciliari.

Ma poi, come  potrebbe un cattolico non difendere un Concilio ecumenico? Su quale fonte teologica  o magisteriale potrebbe appoggiarsi un simile atteggiamento? Potrebbe un cattolico selezionare gli insegnamenti dei pastori scegliendo fior da fiore in ragione della propria sensibilità e delle proprie tendenze culturali o religiose?

La grande portata del Concilio Vaticano II attende ancora di essere esplorata a fondo nella sua ricchezza pluriforme, che pone certo dei problemi interpretativi, ma suscita anche speranze e stimoli verso una sempre migliore comprensione del mistero della fede cristiana.

Ma qual è il ruolo del semplice fedele in tutto questo? Certamente non si può pretendere che egli si iscriva a uno dei partiti teologico-liturgico-ecclesiali presenti sulla piazza, condividendone le idiosincrasie e i presupposti spesso unilaterali e aprioristici.

Né si può ragionevolmente auspicare che il semplice fedele sia condotto, ad esempio, a sottostimare la Messa di Paolo VI rispetto alla Messa di san Pio V o viceversa; o a sottostimare santa Edith Stein rispetto a santa Teresa d’Avila o viceversa. Ciò significherebbe privare la Chiesa della dimensione distesa nei secoli della cattolicità e assecondare la concezione cripto-apocalittica della “rottura” che si sarebbe verificata nell’età moderna (quali che siano la datazione e la lettura, positiva o negativa, che si vogliano dare di tale rottura).

Soprattutto il mondo tradizionalista pare non rendersi conto del fatto che l’adesione – anche se nella forma del contrasto – alla concezione della modernità come rottura rappresenta una evidente forma di subordinazione ideologica all’avversario, del quale si  finisce con l’accettare il presupposto di partenza.

Viene voglia di suggerire, in proposito, un esercizio anche più semplice di quello riservato ai teologi. Suggeriamo di leggere, ad esempio, almeno qualche parte del Catechismo di san Pio X in parallelo con il “Compendio” di Benedetto XVI.

Una simile lettura porta a scoperte entusiasmanti. Fa veder bene non solo come tra i due catechismi non c’è contraddizione alcuna, ma come i rispettivi dati si illuminino a vicenda in un arricchimento circolare ma non autoreferenziale, perché orientato al  referente ultimo, che è il Mistero Santo nella sua oggettiva e trascendente realtà.

Questo non significa, ovviamente, non vedere i problemi – anche gravi – del tempo presente, tra i quali anche il problema delle carenze epistemologiche e contenutistiche delle teologie più diffuse (argomento, questo, che sarà oggetto di un’approfondita indagine in un libro del filosofo don Antonio Livi, di prossima pubblicazione).

Significa però vedere tali problemi nella giusta luce, ossia, in ultima analisi, vederli nello Spirito che anima la Chiesa madre e maestra e che non  ha smesso di sostenerla anche nell’epoca contemporanea: lo Spirito di Gesù Cristo, il quale è con noi “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).

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La rivista che ha pubblicato l’intervento del cardinale Cottier:

> 30 Giorni

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Un commento di Brunero Gherardini alle critiche di Pietro Cantoni:

> Risposta a don Cantoni: fra teologia e amarezza

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Un’intervista a Gnocchi e Palmaro sul loro nuovo libro:

> Concilio Vaticano II: il mito di un “superdogma” da cui uscire

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Il discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 che ha acceso la discussione sull’ermeneutica del Concilio:

> “Signori cardinali…”

“Anno della Fede”

 

ottobre 2012 – novembre 2012 sarà l'”Anno della Fede”

 

Limpide e semplici, come sempre, le parole di Benedetto XVI durante l’omelia della Messa di oggi, celebrata insieme ai partecipanti al convegno sulla Nuova Evangelizzazione:
“La missione della Chiesa, come quella di Cristo, è essenzialmente parlare di Dio, fare memoria della sua sovranità, richiamare a tutti, specialmente ai cristiani che hanno smarrito la propria identità, il diritto di Dio su ciò che gli appartiene, cioè la nostra vita.
Proprio per dare rinnovato impulso alla missione di tutta la Chiesa di condurre gli uomini fuori dal deserto in cui spesso si trovano verso il luogo della vita, l’amicizia con Cristo che ci dona la vita in pienezza, vorrei annunciare in questa Celebrazione eucaristica che ho deciso di indire un “Anno della Fede”, che avrò modo di illustrare con un’apposita Lettera apostolica. Esso inizierà l’11 ottobre 2012, nel 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, e terminerà il 24 novembre 2013, Solennità di Cristo Re dell’Universo. Sarà un momento di grazia e di impegno per una sempre più piena conversione a Dio, per rafforzare la nostra fede in Lui e per annunciarLo con gioia all’uomo del nostro tempo.

 

La Chiesa non è una associazione religiosa o culturale, nè un’associzione di volontariato, e nemmeno una fornitrice di servizi preziosi per la società, come i richiami alla morale. No! La Chiesa è il Popolo di Dio, Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito Santo: inviata da Dio a proseguire l’opera inaugurata dall’Incarnazione, Morte e Risurrezione del Signore Gesù. L’annuncio della Fede in Cristo è il primo e l’ultimo dei pensieri e delle preoccupazioni della Chiesa. Semplice e cristallino: C’è un solo Dio e Gesù Cristo, suo Figlio, è il suo Profeta. “Andate e ditelo a tutti”. Il Papa si è accorto da tempo, come era chiaro dai discorsi tenuti in Germania, che l’emergenza per la Chiesa non è l’emergenza morale dei fedeli, il distacco dalla Tradizione e la ricerca di spiritualità alternative, e nemmeno la pedofilia del Clero: sono tutti sintomi di una malattia più profonda e radicale. La mancanza di Fede, l’eliminazione dell’orizzonte ultimo di Dio in Cristo, questo è il colpo mortale alla Chiesa. Questo fa crollare ogni altra struttura, perchè è il fondamento perenne e insostituibile.
Benedetto XVI sta facendo il suo lavoro. Nei momenti di emergenza lo Spirito Santo attiva il Papa perché faccia l’unica cosa che Cristo gli ha domandato: “Tu…conferma nella fede i tuoi fratelli” (cf Lc 22,32).
Quella del Papa è una “chiamata alle armi”, non per una crociata contro l’Islam o un nemico esterno alla Cristianità, ma per combattere il virus che ha destrutturato la vita di fede di milioni di credenti.
Ciò che il Santo Padre sta dicendo è che il dramma della nostra epoca, per parafrasare Evangelii Nuntiandi di Paolo VI, non è la frattura o il distacco tra fede e vita, è proprio il distacco o l’eliminazione della fede stessa.
Una fede a cui serve non solo l’anima, che è il credere e aderire interiormente a Dio, ma anche un “corpo culturale”, e questa è la religione: senza espressione esterna, pubblica e comunitaria, la fede non può essere comunicata da uomo a uomo e da una generazione all’altra e, in definitiva, perde rilevanza e capacità di guidare le scelte, i comportamenti e le azioni degli uomini. Non è più il tempo di una “fede nascosta”, che non vuol dire cadere nella “fede spettacolo”. Il Papa chiama al “mostrare”, senza timore e con orgoglio, la propria fede in Cristo, creduta e vissuta, conosciuta e sperimentata. L’invisibile di Dio può e deve rendersi ancora e sempre visibile e operante in questo mondo attraverso la Chiesa. L’annuncio è la pietra fondamentale: la fede non può nascere se non c’è l’ascolto e l’ascolto non può darsi senza qualcuno che parli. Non di sé stesso, solo di Gesù.

Testo preso da: Benedetto XVI indice l’anno della Fede. Una scossa alla missione della Chiesa http://www.cantualeantonianum.com/2011/10/benedetto-xvi-indice-lanno-della-fede.html#ixzz1bEppQZEn
http://www.cantualeantonianum.com

 

ARTICOLI E COMMENTI

Benedetto XVI: un anno alla riscoperta della fede (Cardinale)
Mons. Bruno Forte sull’Anno della Fede indetto da Benedetto XVI: chi si estrania dalla storia non è un vero cristiano (Radio Vaticana)

L’anno della fede secondo Papa Ratzinger (Lucetta Scaraffia)

Motu proprio del Papa: c’è l’esigenza di riscoprire la fede (Chirri)

La lettera apostolica di Benedetto XVI. Noi come Lidia, apriamo la nostra casa alla fede (Sequeri)

Il Papa indice l’Anno della Fede (Rome Reports)

Benedetto XVI è troppo cattolico? (Jean-Marie Guénois)

Nel motu proprio Benedetto XVI rafforza la necessità della riscoperta della fede collegandola alle celebrazioni per l’anniversario del Concilio (Magistrelli)

La porta della fede è sempre aperta: pubblicato il Motu proprio che indice l’ Anno della Fede (Angela Ambrogetti)

Domenica mattina la Messa nella Basilica Vaticana. Benedetto XVI ha annunciato un Anno della fede «per dare rinnovato impulso alla missione della Chiesa» (O.R.)

Motu proprio “Porta fidei”, il Papa: tutti i vescovi si uniscano a me per celebrare l’Anno della Fede. La Chiesa non deve temere la scienza. La fede resta aperta, ma gli uomini di oggi pensano ad altro. Non diventare pigri nella fede, riscoprire il Vaticano II (Izzo)

Motu proprio sull’Anno della Fede, il Papa: serve testimonianza pubblica. Riscoprire il Catechismo. Alla Lettera Apostolica seguirà una nota della CDF (Izzo)

Benedetto XVI rilancia l’evangelizzazione (Guénois)

Nuova Evangelizzazione, la Santa Messa e l’Angelus nei servizi di Rome Reports

Anno della fede. Un cammino che dura tutta la vita (Vian)

Il Papa annuncia l’anno della fede (Gaeta)

L’Anno della Fede e il martirio di p. Fausto Tentorio. Il commento di Bernardo Cervellera

Il Papa: «Nessuno diventi pigro nella fede» (Vatican Insider)

Il Papa annuncia l’anno della fede (Gaeta)

L’Anno della Fede e il martirio di p. Fausto Tentorio. Il commento di Bernardo Cervellera

Il Papa: «Nessuno diventi pigro nella fede» (Vatican Insider)

Il Papa abbraccia Suor Veronica Berzosa, fondatrice di Iesu Communio (Rome Reports)

L’Anno della fede (Aurelio Molé)

Pubblicata la Lettera apostolica di Benedetto XVI per l’indizione dell’Anno della fede: credere in Gesù è la via per giungere alla salvezza (Radio Vaticana)

Il Papa indice l’Anno della Fede (Asca)

Attraversare la porta. Dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013 l’Anno della Fede (Sir)

Il credo, la Verità e la ragionevolezza. Quell’Araldo e l’annuncio dei primi Cristiani (Messori)

Il Papa annuncia l’Anno della Fede (Vecchi)

Il Papa: dall’11 ottobre 2012 comincerà l’«Anno della fede» (Ugolotti)

Un “Anno della Fede” per proporre agli uomini del nostro tempo “uno sguardo complessivo sul mondo e sul tempo, uno sguardo veramente libero, pacifico” (Izzo)

L’Anno della Fede partirà l’11 ottobre 2012. 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II

Santa Messa ed Angelus: servizio di Lucio Brunelli

Un anno della fede per rievangelizzare il mondo (Angela Ambrogetti)

Presentato il nuovo sito “www.aleteia.org”, on line dal 19 ottobre, aperto a tutti i cercatori della verità (R.V.)

La via della verità. Le parole alla messa per i “nuovi evangelizzatori” e all’Angelus (Sir)

Anno della fede 2012-2013 (Galeazzi)

Suor Veronica, la fondatrice di Jesu Communio, stringe il Papa in un lungo abbraccio (Vidal)

Il Papa: Anno della Fede per affermarne la centralità a 50 anni dal Concilio. Dare a Cesare ma anche a Dio. Cristo è stato ridotto a semplice personaggio storico (Izzo)

“Il 2012 sarà l’Anno della Fede” (Vatican Insider)

Benedetto XVI indice l’anno della Fede. Una scossa alla missione della Chiesa (Cantuale Antonianum)

Papa Ratzinger vuole dare una scrollata ad un certo torpore. La Chiesa si rimette in marcia (Giansoldati)

Missionari generosi e audaci per i nostri tempi: così il Papa all’Angelus (Radio Vaticana)

Il Papa: Ritengo che, trascorso mezzo secolo dall’apertura del Concilio, sia opportuno richiamare la bellezza e la centralità della fede

Criminali a Roma, Santa Sede: “Ferma condanna”. “Offesa la sensibilità dei credenti”

Il Papa annuncia “l’Anno della Fede”. Benedetto XVI: gli uomini di oggi hanno bisogno di Dio e di pace. La certezza della fede non è dato soggettivo ma fatto concreto (Izzo)

Il Papa: 2012 anno della fede (Tg1)

Il Papa indice un “Anno della Fede” per la Nuova Evangelizzazione e la missione ad gentes (AsiaNews)

Il Papa: paesi di antica tradizione cristiana che sembrano diventati indifferenti, se non addirittura ostili alla parola di Dio

Individuati sette ambiti per la nuova evangelizzazione. Lanciato il sito “Aleteia” (Izzo)

Parola sempre viva. I “nuovi evangelizzatori” con il Papa (Sir)

Il Papa ai nuovi evangelizzatori: “Comunicate a tutti la gioia della fede” (Andrea Gagliarducci)

Il Papa: gli uomini di oggi spesso confusi, preferiscono l’effimero alla fede. Mi rallegra vedere tanti mobilitati per la rievangelizzazione (Izzo)

Il Papa e la Nuova Evangelizzazione: La Parola di Dio continua a crescere e a diffondersi (AsiaNews)

Il Papa ai nuovi evangelizzatori: i cristiani siano segni di speranza, testimoni della vera felicità che porta Cristo (Radio Vaticana)

Il Papa: “Mobilitazione straordinaria per la nuova evangelizzazione” (Rolandi)

Aperto in Vaticano il primo incontro internazionale dei responsabili della nuova evangelizzazione (Biccini)

 

Rapporto Caritas 2011: cresce la povertà giovanile

 

 

Nell’ambito della Giornata mondiale di lotta alla povertà presso l’università Gregoriana di via della Pilotta a Roma, è stato presentato, l’ultimo rapporto della Caritas intitolato “Poveri di diritti”.

 

Il testo, pubblicato per i tipi della casa editrice Il Mulino, è suddiviso in due parti: i diritti dei poveri previsti dalla Costituzione e a livello internazionale; il ruolo svolto dalla Chiesa nel contrasto della povertà economica.

Alcuni numeri sono stati già resi noti  nei giorni scorsi e dipingono uno scenario a tinte fosche sull’aumento delle situazioni di indigenza nel nostro Paese.

Dal rapporto emerge come la legislazione non privilegia l’incontro tra diritti e doveri, non valorizza le capacità dei singoli, non coinvolge e promuove la partecipazione dei poveri.

8,3 milioni di cittadini, pari al 13,8% della popolazione italiana vivono in condizioni di indigenza. Sono  le famiglie numerose e monogenitoriali i nuclei più colpiti, specialmente se sono al Sud.

In cinque anni, dice il rapporto, la percentuale di giovani con meno di 35 anni è aumentata di quasi il 60% e di questi oltre il 75% non studia e non lavora. E la deprivazione economica trascina con sé altre conseguenze: negazione del diritto al lavoro, alla famiglia, all’abitazione, ma anche alla giustizia, all’educazione, alla salute.

Viene presentato il quadro comparativo delle regioni, con parametri di spesa e risposta. Durante la presentazione del testo, sarà ritagliato uno spazio per le proposte operative per far fruttare gli investimenti e ridare speranze alle persone in difficoltà.

Introduce la presentazione padre François-Xavier Dumortier, rettore della Pontificia Università Gregoriana. Intervengono Mons. Mariano Crociata, segretario generale della C. E. I.; Tiziano Vecchiato, direttore della Fonda­zio­ne -«Emanuela Zan­can­onlus»; Walter Nanni, capo Ufficio Studi e Forma­zio­ne­ di Caritas Italiana; mons. Giuseppe Pasini, presidente della Fondazione “Emanuela Zancan onlus». Concluderà lincontro mons. Vittorio Nozza, direttore di Caritas Italiana.

Coordina don Ivan Maffeis, vicedirettore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni so­cia­­li della Conferenza Episcopale Italiana.


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tuttoscuola.com

 

 

Nell’onda lunga della crisi economica, cambia il volto della povertà: precarietà e lavoro nero in aumento; le difficoltà dei giovani; le “nuove” povertà degli stranieri; la povertà e la qualità della vita nelle aree montane; la difficile presa in carico istituzionale; le risposte ecclesiali di contrasto e nuovi progetti anti-crisi economica. Sono alcuni dei temi che emergono dal Rapporto 2011 su povertà ed esclusione sociale in Italia, curato da Fondazione Zancan e Caritas Italiana, presentato lunedì 17 ottobre.

“Poveri di diritti” è il titolo del Rapporto 2011 su povertà ed esclusione sociale in Italia, curato da Fondazione Zancan e Caritas Italiana. Viene presentato lunedì 17 ottobre, alle 11, a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana (P.za della Pilotta, 4). Dopo il saluto del Rettore, p. François-Xavier Dumortier sj, intervengono S.E. Mons. Mariano Crociata, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana; mons. Giuseppe Pasini, Presidente della Fondazione Emanuela Zancan onlus; mons. Vittorio Nozza, Direttore di Caritas Italiana; Tiziano Vecchiato, Direttore della Fondazione Zancan e Walter Nanni, Capo Ufficio Studi e Formazione di Caritas Italiana. Coordina don Ivan Maffeis, vicedirettore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della CEI.

file attached Intervento di Mons. Crociata alla presentazione del Rapporto

La Chiesa che non tace


Domenico Mogavero con Giacomo Galeazzi, La Chiesa che non tace, BUR-Saggi, pp. 206, € 14.

Ci sono libri che hanno la fortuna, o la virtù, di essere segnali di un passaggio d’epoca. Insieme, sintomi della malattia e medicine per curarla, proprio nell’accezione etimologica della parola «crisi». La lunga intervista di Giacomo Galeazzi al vescovo siciliano Domenico Mogavero, edita dalla Rizzoli nella collana «Bur-saggi» ne è un buon esempio. Perché è la testimonianza di come il disagio della Chiesa italiana nell’era del post-ruinismo non sia più relegato tra quei preti del dissenso, ai margini dell’ortodossia confessionale e della disobbedienza ecclesiastica, ma pervada ormai i vertici dell’episcopato e, persino, gli antichi e fedeli collaboratori dell’ex carismatico capo dei vescovi del nostro Paese.
Domenico Mogavero, infatti, è stato per circa 15 anni il «numero tre» della Chiesa italiana, affiancando Camillo Ruini come sottosegretario alla Cei. Un’esperienza che l’attuale vescovo di Mazara  del Vallo non rinnega affatto, ma che, al confronto con la realtà dei problemi di una diocesi di frontiera, viene profondamente ripensata e trasformata dal protagonista del libro con accenti di apprezzabile sincerità e di grande apertura, anche autocritica. Così, stimolato dalle domande tutt’altro che compiacenti di Galeazzi, anzi talvolta consapevolmente provocatorie, il presule siciliano si fa portabandiera di «una Chiesa che non tace», come s’intitola significativamente l’intervista-confessione.
La lettura del testo, alla vigilia dell’importante raduno dei cattolici a Todi fissato per lunedì prossimo, autorizza a pensare come il passaggio del testimone tra Ruini e Bagnasco a capo della Conferenza episcopale italiana annunci un vero e proprio «rompete le righe» in quella specie di militarizzazione dell’episcopato che aveva consentito al cardinale emiliano di guidare con mano fermissima la condotta della Chiesa. Al prezzo, però, di spegnere le voci più innovative e anticonformiste o, perlomeno, di indurle a troppe prudenze diplomatiche.
Indicativa è l’ammissione di Mogavero sul motivo di questo suo spostamento da posizioni «centriste», come le definisce lui stesso, a visioni assimilabili a quelle progressiste, per usare un lessico  mutuato dalla politica: il contatto con la realtà dell’immigrazione maghrebina nella sua diocesi. Un fenomeno che ha fatto di quel territorio un avamposto di pacificazione nel Mediterraneo, un  luogo di cerniera tra cristianesimo e islam, un esempio di come sia possibile la sperimentazione di una convivenza non solo senza grossi traumi, ma capace di produrre un vero arricchimento  reciproco, culturale, sociale e, perché no, anche religioso.
La parabola personale del vescovo di Mazara, perciò, può suggerire anche dove e come potrebbe cominciare il rinnovamento della Chiesa nell’era Bagnasco. Non più dal centralismo illuminato di un cardinale di grande carisma e intelligenza come Camillo Ruini, ma dall’apertura della comunità cattolica a quelle «voci dal fondo» che, dalla concreta esperienza pastorale, riescono più  facilmente a percepire una sensibilità nuova, quella di un mondo che cammina più in fretta della testa degli uomini.

 

Per una Chiesa che non taccia
di Luigi La Spina
in “La Stampa” del 15 ottobre 2011

Cristiani del mondo arabo, una minoranza preoccupata

Iraq, Siria. Dall’invasione americana dell’Iraq nel 2003, il paese si è letteralmente svuotato dei suoi cristiani, diventati bersagli di gruppi islamisti e totalmente marginalizzati dai nuovi organismi al potere. Con la morte nel cuore, sapendo di non tornare più, hanno lasciato il loro paese con la speranza di trovare rifugio in Occidente, negli Stati Uniti, in Canada o in Europa, almeno i più fortunati. Ma molti aspettano ancora in Siria, ad Aleppo o nelle periferie di Damasco, dove spesso sono aiutati dalle Chiese locali.
I cristiani siriani sono stati i primi testimoni di questo esilio. Temono di essere a loro volta vittime di una islamizzazione del paese. “I cristiani hanno paura, riconosce l’intellettuale di Damasco Faruk Mardam-Bey in esilio a Parigi, perché assimilano il discorso del regime secondo il quale la contestazione è unicamente islamista.” Il che è falso, molti cristiani hanno partecipato alle manifestazioni fino a che il regime non ha minacciato rappresaglie contro le loro famiglie.
È vero che sono stati a lungo “protetti” dal regime di Hafez Al Assad e di suo figlio Bachar, ma così i cristiani ne sono anche ostaggi. “La sensazione di fragilità dei cristiani, prosegue Faruk Mardam- Bey, viene dal fatto che all’indipendenza della Siria, nell’aprile 1946, erano il 15%, mentre oggi sono solo il 6%.” Nei sistemi politici autoritari, i loro diritti e la loro esistenza si basano sul buon volere del dittatore.
In Iraq come in Siria il regime in difficoltà non esita a far pagare questa “fedeltà” alle minoranze che “protegge”. Lo statuto dei cristiani nel mondo arabo oggi non differisce da quello di dhimmi, che veniva loro riservato nell’impero ottomano dove un trattato di resa (dhimma) determinava i diritti e i doveri dei non-musulmani. La situazione è diversa in Libano, dove la Costituzione garantisce ai cristiani una rappresentanza nelle istituzioni politiche, indipendentemente dalla loro importanza numerica.
“Il regime siriano oggi tenta di provocare una guerra civile tra comunità. È un vero miracolo che questo tentativo non sia ancora riuscito”, spiega Samar Yazbek, scrittrice siriana in esilio a  Parigi da luglio. Lei appartiene alla minoranza alawita. “La ribellione fa molta attenzione a non lasciarsi trascinare, a non cadere nella trappola tesa dal potere. I comitati di coordinamento,  prosegue, cercano di fare in modo che gli slogan vadano in questo senso: Tutti uniti, né cristiani, né alawiti, tutti siriani.” Afferma che le direzioni dei diversi comitati di coordinamento della  ribellione pubblicano dei comunicati per rassicurare le comunità.
Le dichiarazioni del nuovo patriarca maronita e libanese, Mons. Béchara Raï, a Parigi, hanno scioccato molti siriani. “Vorrei che si desse maggiore possibilità a Bachar Al-Assad”, aveva confidato in un’intervista a La Croix il 9 settembre 2011. Il patriarca aveva incitato a guardarsi “dal leggere la realtà orientale con una visione occidentale. Assad ha dato avvio ad una serie di riforme, aggiungeva, e bisogna dare maggiore possibilità al dialogo interno per evitare la violenza e la guerra. Non si tratta per noi di sostenere il regime. Quello che temiamo, è la transizione…”
Sicuramente, l’avvenire è incerto, in Siria come ovunque, per tutti i cristiani del mondo arabo. Come lo è in Siria per coloro – sunniti, alawiti o cristiani – che lottano contro la brutalità di un  regime disposto a tutto per restare al potere, anche a commettere le peggiori atrocità. E che rifiuta tutti gli inviti al dialogo.
Michel Kilo è un cristiano oppositore di lunga data del regime siriano. Imprigionato più volte sia dal padre che dal figlio Assad, ha pubblicato un articolo il 12 agosto sul quotidiano libanese As- Safir, in cui ha invitato le Chiese della Siria a prendere coscienza di quella che lui considera una “deriva”: i cristiani che hanno l’impressione di non avere altra scelta per sottrarsi  all’islamizzazione del mondo arabo che ottenere la protezione dei dittatori, non hanno anch’essi la loro parola da dire nella democratizzazione del mondo arabo?


in “La Croix” del 3 ottobre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

 

ALTRI CONTRIBUTI

 

“”Quasi 100 000 copti hanno lasciato l’Egitto dal mese di marzo 2011” Naguib Gébraïl, presidente dell’Unione egiziana dei diritti umani… attribuisce queste partenze obbligate al timore per le azioni e le minacce dei salafiti…La disoccupazione, principale causa di emigrazione, colpisce anche i musulmani… In molte chiese, i predicatori esortano i loro fedeli a non lasciare il paese: “Dobbiamo ricostruire l’Egitto con i musulmani moderati. È un dovere nazionale.”
“Del Zanna ci conduce così nel cuore dei problemi attuali: se speriamo in un Medio Oriente pacifico, pluralista e democratico, dobbiamo evitare soluzioni traumatiche e conflitti senza fine, favorendo la convivenza tra le diverse componenti della società civile mediorientale. “
“L’ Egitto non è un Paese per cristiani. O almeno rischia di non esserlo più visto il potere sempre più forte delle correnti salafite salite alla ribalta dopo l’uscita di scena di Mubarak, in febbraio. Secondo l’Unione egiziana delle organizzazioni per i diritti umani, l’aumento delle tensioni religiose ha portato oltre 100 mila cristiani a lasciare il Paese. Una fuga-esodo che potrebbe portare a modificare gli equilibri demografici interni e la stabilità economica.”

 

 

 

La questione morale e il primato della fede


il Comunicato finale del Consiglio Permanente della CEI

 

La questione etica, con i suoi risvolti culturali, il progressivo impoverimento economico delle famiglie, le iniziative con cui la Chiesa sostiene il bene comune, l’impegno per i valori dell’umanizzazione – per cui l’etica della vita è fondamento dell’etica sociale – e la partecipazione attiva dei cattolici alla vita pubblica, la proposta dell’esperienza di fede. Così Mons. Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, venerdì 30 settembre ha presentato ai giornalisti il Comunicato finale del Consiglio Permanente.

 

Comunicato finale.doc

 

 

Altri contributi

 

“Il segretario generale della Cei, Mariano Crociata, definisce il raggio d’azione della Chiesa: «Non fondiamo partiti. Non facciamo né disfiamo governi. Indichiamo l’esigenza di un iter politico nuovo»… In quest’alveo si colloca l’azione di «risveglio» promossa, a partire da quel «giacimento culturale e di valori del mondo cattolico, che è nel tessuto sociale e supera i confini di appartenenza e quelli religiosi». È qui, sottolinea la Cei, che bisogna investire. Ma il lavoro tocca ai laici… Bagnasco aprirà a Todi il convegno del 17 ottobre…”