“unità dei cristiani, dono e impegno”

Nell’Angelus Benedetto XVI ricorda l’importanza della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Per camminare insieme occorre l’impegno quotidiano di tutti: «Un dono di Dio che, però, per usare un’espressione che ripeteva spesso il Beato Papa Giovanni Paolo II, diventa anche impegno».

Benedetto XVI, nel corso dell’Angelus di questa domenica che cade a metà della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, richiama i pellegrini giunti in piazza San Pietro a unirsi alla parole di Gesù alla vigilia della sua passione: «Che siano una sola cosa perché il mondo creda».

Con un occhio alle tensioni internazionali e in particolare del Medio Oriente, il Papa ha voluto ricordare che «l’unità che viene da Dio esige il nostro quotidiano impegno di aprirci gli uni agli altri nella carità».

Per la Settimana di quest’anno, cominciata il 18 e che terminerà il 25 gennaio, è stato scelto il tema Tutti saremo trasformati dalla vittoria di Gesù Cristo nostro Signore. I sussidi sono stati preparati da un gruppo polacco. «La Polonia«, ha sottolineato Benedetto XVI, «ha conosciuto una lunga storia di lotte coraggiose contro varie avversità e ha ripetutamente dato prova di grande determinazione, animata dalla fede. Per questo le parole che formano il tema sopra ricordato, hanno una risonanza e una incisività particolari in Polonia. Nel corso dei secoli, i cristiani polacchi hanno spontaneamente intuito una dimensione spirituale nel loro desiderio di libertà ed hanno compreso che la vera vittoria può giungere solo se accompagnata da una profonda trasformazione interiore».

Al termine dell’Angelus il Pontefice ha dato appuntamento al prossimo mercoledì, nella basilica di San Paolo fuori le Mura per la solenne celebrazione dei vespri che conclude la settimana. Con Benedetto XVI saranno presenti anche i rappresentanti delle altre Chiese e Comunità cristiane.

da: Famiglia cristiana  n.4  22 Gennaio 2012

Per leggere in forma integrale l’ Angelus del Papa

video

“una grande sfida per la sete spirituale dei nostri tempi”

«Come possiamo dare una testimonianza convincente se siamo divisi?»   È nell’ottica della nuova evangelizzazione che il Papa ha introdotto questa mattina, mercoledì 18 gennaio, durante l’udienza generale, la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, durante la quale — da oggi sino a mercoledì 25 — si pregherà in tutte le chiese per il dono del raggiungimento della piena comunione.

Una grande sfida per la nuova evangelizzazione, ha detto il Pontefice, perché essa sarà «più fruttuosa se tutti i cristiani annunciano insieme la verità del Vangelo di Gesù Cristo e danno una risposta comune alla sete spirituale dei nostri tempi».

Benedetto XVI si è poi soffermato brevemente sullo stato attuale del cammino verso l’unità di tutti i cristiani.

Un traguardo per raggiungere il quale, ha detto, è necessario pregare per ottenere prima di tutto una conversione interiore «sia comune che personale». Non si tratta dunque di cercare atteggiamenti formali di cordialità o di cooperazione. Al contrario, è assolutamente necessario «rafforzare la nostra fede in Dio», in quel Dio che «si è fatto uno di noi», e cogliere «tutti gli elementi di unità che Dio ha conservato per noi».

Da queste considerazioni il Papa ha fatto discendere la natura del dono divino dell’unità dei cristiani.

Dunque non un accessorio, ma il centro dell’opera stessa di Cristo. Per questo essa è parte integrante della responsabilità di ogni battezzato, chiamato a stare insieme e a lavorare insieme «per la vittoria, in Cristo, su tutto ciò che è peccato, male, ingiustizia, violazione della dignità dell’uomo».

Certo, come ha realisticamente riconosciuto Benedetto XVI, il cammino da compiere è ancora lungo; le divisioni tra i cristiani permangono, anche se «per quanto riguarda le verità fondamentali della fede, ci unisce molto più di quanto ci divide». Proprio in virtù di queste considerazioni è necessario rinvigorire la preghiera. Soprattutto in vista della nuova evangelizzazione, che potrà essere «più fruttuosa» se tutti annunciano insieme il Vangelo.

18-01-2012 da: L’Osservatore Romano

Il Papa: ora più equità e sviluppo per i giovani

 

 

 

 

È la crisi economico-finanziaria globale che nasce in Occidente e che scatena i suoi effetti devastanti sui paesi in via di sviluppo a segnare il tradizionale discorso di augurio di inizio anno tenuto ieri da Papa Benedetto XVI al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede.

Sono l’incertezza per il futuro dei giovani e la loro protesta sviluppatasi soprattutto nel Nord Africa e in Medio Oriente. È l’esigenza di un mondo più giusto e sicuro e soprattutto di uno sviluppo che abbia al centro l’uomo e le sue esigenze.

È la domanda di nuove regole e soprattutto di una «maggiore etica» che guidi i comportamenti individuali e sociali nell’economia globale.

È di questo che parla Papa Ratzinger ai 179 rappresentanti dei paesi accreditati presso la Santa Sede, da ultimo la Malesia, ricevuti ieri mattina in udienza nella Sala Regia. La tradizionale cerimonia è stata l’occasione per fare un bilancio dell’anno trascorso.

Malgrado tutto invita ad avere speranza nel futuro, Papa Ratzinger. Ce n’è bisogno. Il quadro è drammatico. Ne è ben consapevole il pontefice.

«Il momento attuale – osserva – è segnato purtroppo da un profondo malessere e le diverse crisi, economiche, politiche e sociali, ne sono una drammatica espressione».

Sottolinea come «gli sviluppi gravi e preoccupanti della crisi economica e finanziaria mondiale» iniziata nei Paesi industrializzati stiano lasciando «disorientati e frustrati soprattutto i giovani».

etica e giovani

Invoca un cambiamento profondo dei comportamenti individuali e sociali, degli individui e degli

Stati. Perché la crisi può essere affrontata come un’occasione per «riflettere sull’esistenza umana e

sull’importanza della sua dimensione etica».

Indica quale debba essere l’obiettivo di questo cambiamento: «Non soltanto cercare di arginare le perdite individuali o delle economie nazionali, ma darci nuove regole che assicurino a tutti la possibilità di vivere dignitosamente e di sviluppare le

proprie capacità a beneficio dell’intera comunità».

 

È sui giovani che insiste il pontefice. Sono stati loro i protagonisti della «primavera araba». Ricorda

il loro giustificato «malessere». Vittime della povertà e della disoccupazione, in assenza di

«prospettive certe» hanno lanciato – osserva – «quello che è diventato un vasto movimento di

rivendicazione di riforme e di partecipazione più attiva alla vita politica e sociale».

Su di un punto il pontefice insiste: il «rispetto della persona» che deve essere «al centro delle istituzioni e delle leggi». Per questo invoca «nuove regole che assicurino a tutti la possibilità di vivere dignitosamente

e di sviluppare le proprie capacità a beneficio dell’intera comunità».

 

i punti di crisi

È un appello al cambiamento radicale che per Ratzinger deve trovare le sue fondamenta nell’educazione offerta alle giovani generazioni. Torna così sui contenuti del suo messaggio per la Giornata mondiale della pace.

Rivendica il ruolo centrale della famiglia tradizionale, quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Così arriva a definire «lesive della famiglia» e

«minacciose della dignità umana e del futuro stesso dell’umanità» le leggi che finirebbero per

intaccarla. La sua è una condanna implicita, ma nettissima, verso quelle leggi che equiparano alla

famiglia le coppie di fatto. Esplicita è, invece, quella mossa alle «misure legislative che non solo

permettono, ma talvolta favoriscono l’aborto».

 

È la difesa dei valori non negoziabili: vita, famiglia,

educazione, libertà religiosa.

Nel suo discorso Benedetto XVI elenca anche gli scenari della crisi internazionale. Dalla drammatica situazione in Siria, per la quale auspica «una rapida fine degli spargimenti di sangue e

l’inizio di un dialogo fruttuoso tra gli attori politici, favorito dalla presenza di osservatori indipendenti», al difficile rapporto tra israeliani e palestinesi in Terra Santa, la situazione in Nigeria, dove la comunità cristiana da Natale è oggetto di violenze e persecuzioni da parte dei

fondamentalisti islamici.

Il Papa ha voluto ricordare il ministro pachistano Shahbaz Bhatti, «la cui infaticabile lotta per idiritti delle minoranze si è conclusa con una morte tragica». Non un caso isolato, ha aggiunto,

denunciando come i cristiani siano ancora «privati dei diritti fondamentali e messi ai margini della vita pubblica; in altri subiscono attacchi violenti. Talvolta, sono costretti ad abbandonare Paesi che

essi hanno contribuito a edificare. Torna a ribadire lo «spirito di Assisi» e invita i governi a percorrere «un cammino di giustizia, di pace e di riconciliazione, in cui i membri di tutte le etnie e

di tutte le religioni siano rispettati»

di Roberto Monteforte

in “l’Unità” del 10 gennaio 2012

 

Ebrei e cattolici insieme per l’unico «sì» alla vita

dialogo tra due fedi

 

 

Giornata del dialogo tra le due fedi

17 gennaio 2012

 

La domanda del Signore a Caino, «Dov’è Abele, tuo fratello?», è come un grido di dolore con cui Dio chiede conto della prima morte violenta nella storia della salvezza. Con il delitto che viene narrato all’inizio del Pentateuco, la Bibbia mostra come il «sì» alla vita e la condanna dell’omicidio siano principi irrinunciabili. Concetti che, dopo il diluvio, il Signore ribadisce quando stabilisce un’alleanza con l’umanità rappresentata da Noè e dalla sua discendenza: «Del sangue versato, ossia della vostra vita, io domanderò».

Ed ecco che il Vivente interverrà, poi, per salvare Isacco legato sul monte Moriah, Giuseppe venduto dai fratelli o il popolo ebraico schiavo in Egitto.

Finché, con il passaggio del Mar Rosso, il patto sul Sinai sancisce in modo definitivo il diritto alla vita.

Lo fa nella prescrizione Non uccidere, sesta Parola del Decalogo (il quinto comandamento secondo la tradizione cattolica) che quest’anno è al centro della Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo fra cattolici ed ebrei.

 

L’appuntamento che è giunto alla sua 23ª edizione viene celebrato oggi in Italia. «Le due esperienze religiose – spiega il vescovo di Pistoia, Mansueto Bianchi, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo della Cei – sono poste sulla frontiera della vita, della sua origine e del suo significato.

Questo è peraltro un tema caldo nel rapporto con la cultura contemporanea, soprattutto in Occidente. Perciò credo che ebraismo e cattolicesimo siano chiamati ad annunciare con forza la sacralità della vita come dono di Dio».

La Giornata si celebra dal 1990 alla vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. «In un mondo dove i contatti sono sempre più stretti – spiega il presidente dell’Assemblea dei Rabbini – è importante la conoscenza reciproca che rappresenta l’unico strumento per sconfiggere l’ignoranza e quindi i pregiudizi».

E Bianchi chiosa: «Dopo tanti silenzi o tanti gridi che hanno attraversato i secoli, questa iniziativa dona la possibilità di un colloquio che dispone ad ascoltare le ragioni dell’altro e le meraviglie che il Signore opera nella storia di ciascuno. Il dialogo è insieme la gioia e lo stupore dell’incontro, la constatazione della differenza, la speranza di poter procedere insieme verso la direzione che Dio ci indica».

 

messaggio integrale per la giornata del dialogo tra le due fedi

Giacomo Gambassi e Mauro Bianchini

 

“Educare i giovani alla giustizia e alla pace”

 

45.ma Giornata mondiale della pace.

 

«Di fronte alle ombre che oggi oscurano l’orizzonte del mondo, assumersi la responsabilità di educare i giovani alla conoscenza della verità, ai valori fondamentali dell’esistenza, alle virtù intellettuali, teologali e morali, significa guardare al futuro con speranza». Parole del Papa nell’omelia della Messa per la solennità di Maria SS. Madre di Dio, 45.ma Giornata mondiale della pace. Citazione del presidente Napolitano e auguri all’Italia nell’Angelus.

Omelia della S.Messa del I Gennaio
Angelus del I Gennaio
Omelia per il Te Deum di ringraziamento di fine anno

Paola Bignardi sul messaggio del Papa (da Radio inBlu)

Messaggio per la celebrazione della XLV Giornata Mondiale della

 

“Libertà religiosa, via per la pace”.

 

Pubblichiamo  il testo del Messaggio del Santo Padre per la 44a Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2011, sul tema: “Libertà religiosa, via per la pace”.


 

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
BENEDETTO XVI
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
XLIV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1° GENNAIO 2011

 

LIBERTÀ RELIGIOSA, VIA PER LA PACE

1. All’inizio di un Nuovo Anno il mio augurio vuole giungere a tutti e a ciascuno; è un augurio di serenità e di prosperità, ma è soprattutto un augurio di pace. Anche l’anno che chiude le porte è stato segnato, purtroppo, dalla persecuzione, dalla discriminazione, da terribili atti di violenza e di intolleranza religiosa.

Il mio pensiero si rivolge in particolare alla cara terra dell’Iraq, che nel suo cammino verso l’auspicata stabilità e riconciliazione continua ad essere scenario di violenze e attentati. Vengono alla memoria le recenti sofferenze della comunità cristiana, e, in modo speciale, il vile attacco contro la Cattedrale siro-cattolica “Nostra Signora del Perpetuo Soccorso” a Baghdad, dove, il 31 ottobre scorso, sono stati uccisi due sacerdoti e più di cinquanta fedeli, mentre erano riuniti per la celebrazione della Santa Messa. Ad esso hanno fatto seguito, nei giorni successivi, altri attacchi, anche a case private, suscitando paura nella comunità cristiana ed il desiderio, da parte di molti dei suoi membri, di emigrare alla ricerca di migliori condizioni di vita. A loro manifesto la mia vicinanza e quella di tutta la Chiesa, sentimento che ha visto una concreta espressione nella recente Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi. Da tale Assise è giunto un incoraggiamento alle comunità cattoliche in Iraq e in tutto il Medio Oriente a vivere la comunione e a continuare ad offrire una coraggiosa testimonianza di fede in quelle terre.

Ringrazio vivamente i Governi che si adoperano per alleviare le sofferenze di questi fratelli in umanità e invito i Cattolici a pregare per i loro fratelli nella fede che soffrono violenze e intolleranze e ad essere solidali con loro. In tale contesto, ho sentito particolarmente viva l’opportunità di condividere con tutti voi alcune riflessioni sulla libertà religiosa, via per la pace. Infatti, risulta doloroso constatare che in alcune regioni del mondo non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale. In altre regioni vi sono forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i credenti e i simboli religiosi. I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Tanti subiscono quotidianamente offese e vivono spesso nella paura a causa della loro ricerca della verità, della loro fede in Gesù Cristo e del loro sincero appello perché sia riconosciuta la libertà religiosa. Tutto ciò non può essere accettato, perché costituisce un’offesa a Dio e alla dignità umana; inoltre, è una minaccia alla sicurezza e alla pace e impedisce la realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale.[1]

Nella libertà religiosa, infatti, trova espressione la specificità della persona umana, che per essa può ordinare la propria vita personale e sociale a Dio, alla cui luce si comprendono pienamente l’identità, il senso e il fine della persona. Negare o limitare in maniera arbitraria tale libertà significa coltivare una visione riduttiva della persona umana; oscurare il ruolo pubblico della religione significa generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona umana; ciò significa rendere impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura di tutta la famiglia umana.

Esorto, dunque, gli uomini e le donne di buona volontà a rinnovare l’impegno per la costruzione di un mondo dove tutti siano liberi di professare la propria religione o la propria fede, e di vivere il proprio amore per Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente (cfr Mt 22,37). Questo è il sentimento che ispira e guida il Messaggio per la XLIV Giornata Mondiale della Pace, dedicato al tema: Libertà religiosa, via per la pace.

Sacro diritto alla vita e ad una vita spirituale

2. Il diritto alla libertà religiosa è radicato nella stessa dignità della persona umana,[2] la cui natura trascendente non deve essere ignorata o trascurata. Dio ha creato l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,27). Per questo ogni persona è titolare del sacro diritto ad una vita integra anche dal punto di vista spirituale. Senza il riconoscimento del proprio essere spirituale, senza l’apertura al trascendente, la persona umana si ripiega su se stessa, non riesce a trovare risposte agli interrogativi del suo cuore circa il senso della vita e a conquistare valori e principi etici duraturi, e non riesce nemmeno a sperimentare un’autentica libertà e a sviluppare una società giusta.[3]

La Sacra Scrittura, in sintonia con la nostra stessa esperienza, rivela il valore profondo della dignità umana: “Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sal 8, 4-7).

Dinanzi alla sublime realtà della natura umana, possiamo sperimentare lo stesso stupore espresso dal salmista. Essa si manifesta come apertura al Mistero, come capacità di interrogarsi a fondo su se stessi e sull’origine dell’universo, come intima risonanza dell’Amore supremo di Dio, principio e fine di tutte le cose, di ogni persona e dei popoli.[4] La dignità trascendente della persona è un valore essenziale della sapienza giudaico-cristiana, ma, grazie alla ragione, può essere riconosciuta da tutti. Questa dignità, intesa come capacità di trascendere la propria materialità e di ricercare la verità, va riconosciuta come un bene universale, indispensabile per la costruzione di una società orientata alla realizzazione e alla pienezza dell’uomo. Il rispetto di elementi essenziali della dignità dell’uomo, quali il diritto alla vita e il diritto alla libertà religiosa, è una condizione della legittimità morale di ogni norma sociale e giuridica.

Libertà religiosa e rispetto reciproco

3. La libertà religiosa è all’origine della libertà morale. In effetti, l’apertura alla verità e al bene, l’apertura a Dio, radicata nella natura umana, conferisce piena dignità a ciascun uomo ed è garante del pieno rispetto reciproco tra le persone. Pertanto, la libertà religiosa va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità.

Esiste un legame inscindibile tra libertà e rispetto; infatti, “nell’esercitare i propri diritti i singoli esseri umani e i gruppi sociali, in virtù della legge morale, sono tenuti ad avere riguardo tanto ai diritti altrui, quanto ai propri doveri verso gli altri e verso il bene comune”.[5]

Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani. Si comprende quindi la necessità di riconoscere una duplice dimensione nell’unità della persona umana: quella religiosa e quella sociale. Al riguardo, è inconcepibile che i credenti “debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti”.[6]

La famiglia, scuola di libertà e di pace

4. Se la libertà religiosa è via per la pace, l’educazione religiosa è strada privilegiata per abilitare le nuove generazioni a riconoscere nell’altro il proprio fratello e la propria sorella, con i quali camminare insieme e collaborare perché tutti si sentano membra vive di una stessa famiglia umana, dalla quale nessuno deve essere escluso.

La famiglia fondata sul matrimonio, espressione di unione intima e di complementarietà tra un uomo e una donna, si inserisce in questo contesto come la prima scuola di formazione e di crescita sociale, culturale, morale e spirituale dei figli, che dovrebbero sempre trovare nel padre e nella madre i primi testimoni di una vita orientata alla ricerca della verità e all’amore di Dio. Gli stessi genitori dovrebbero essere sempre liberi di trasmettere senza costrizioni e con responsabilità il proprio patrimonio di fede, di valori e di cultura ai figli. La famiglia, prima cellula della società umana, rimane l’ambito primario di formazione per relazioni armoniose a tutti i livelli di convivenza umana, nazionale e internazionale. Questa è la strada da percorrere sapientemente per la costruzione di un tessuto sociale solido e solidale, per preparare i giovani ad assumere le proprie responsabilità nella vita, in una società libera, in uno spirito di comprensione e di pace.

Un patrimonio comune

5. Si potrebbe dire che, tra i diritti e le libertà fondamentali radicati nella dignità della persona, la libertà religiosa gode di uno statuto speciale. Quando la libertà religiosa è riconosciuta, la dignità della persona umana è rispettata nella sua radice, e si rafforzano l’ethos e le istituzioni dei popoli. Viceversa, quando la libertà religiosa è negata, quando si tenta di impedire di professare la propria religione o la propria fede e di vivere conformemente ad esse, si offende la dignità umana e, insieme, si minacciano la giustizia e la pace, le quali si fondano su quel retto ordine sociale costruito alla luce del Sommo Vero e Sommo Bene.

La libertà religiosa è, in questo senso, anche un’acquisizione di civiltà politica e giuridica. Essa è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. Non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna. In questo ambito, l’ordinamento internazionale risulta emblematico ed è un riferimento essenziale per gli Stati, in quanto non consente alcuna deroga alla libertà religiosa, salvo la legittima esigenza dell’ordine pubblico informato a giustizia.[7] L’ordinamento internazionale riconosce così ai diritti di natura religiosa lo stesso status del diritto alla vita e alla libertà personale, a riprova della loro appartenenza al nucleo essenziale dei diritti dell’uomo, a quei diritti universali e naturali che la legge umana non può mai negare.

La libertà religiosa non è patrimonio esclusivo dei credenti, ma dell’intera famiglia dei popoli della terra. È elemento imprescindibile di uno Stato di diritto; non la si può negare senza intaccare nel contempo tutti i diritti e le libertà fondamentali, essendone sintesi e vertice. Essa è “la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani”.[8] Mentre favorisce l’esercizio delle facoltà più specificamente umane, crea le premesse necessarie per la realizzazione di uno sviluppo integrale, che riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione.[9]

La dimensione pubblica della religione

6. La libertà religiosa, come ogni libertà, pur muovendo dalla sfera personale, si realizza nella relazione con gli altri. Una libertà senza relazione non è libertà compiuta. Anche la libertà religiosa non si esaurisce nella sola dimensione individuale, ma si attua nella propria comunità e nella società, coerentemente con l’essere relazionale della persona e con la natura pubblica della religione.

La relazionalità è una componente decisiva della libertà religiosa, che spinge le comunità dei credenti a praticare la solidarietà per il bene comune. In questa dimensione comunitaria ciascuna persona resta unica e irripetibile e, al tempo stesso, si completa e si realizza pienamente.

E’ innegabile il contributo che le comunità religiose apportano alla società. Sono numerose le istituzioni caritative e culturali che attestano il ruolo costruttivo dei credenti per la vita sociale. Più importante ancora è il contributo etico della religione nell’ambito politico. Esso non dovrebbe essere marginalizzato o vietato, ma compreso come valido apporto alla promozione del bene comune. In questa prospettiva bisogna menzionare la dimensione religiosa della cultura, tessuta attraverso i secoli grazie ai contributi sociali e soprattutto etici della religione. Tale dimensione non costituisce in nessun modo una discriminazione di coloro che non ne condividono la credenza, ma rafforza, piuttosto, la coesione sociale, l’integrazione e la solidarietà.

Libertà religiosa, forza di libertà e di civiltà:
i pericoli della sua strumentalizzazione

7. La strumentalizzazione della libertà religiosa per mascherare interessi occulti, come ad esempio il sovvertimento dell’ordine costituito, l’accaparramento di risorse o il mantenimento del potere da parte di un gruppo, può provocare danni ingentissimi alle società. Il fanatismo, il fondamentalismo, le pratiche contrarie alla dignità umana, non possono essere mai giustificati e lo possono essere ancora di meno se compiuti in nome della religione. La professione di una religione non può essere strumentalizzata, né imposta con la forza. Bisogna, allora, che gli Stati e le varie comunità umane non dimentichino mai che la libertà religiosa è condizione per la ricerca della verità e la verità non si impone con la violenza ma con “la forza della verità stessa”.[10] In questo senso, la religione è una forza positiva e propulsiva per la costruzione della società civile e politica.

Come negare il contributo delle grandi religioni del mondo allo sviluppo della civiltà? La sincera ricerca di Dio ha portato ad un maggiore rispetto della dignità dell’uomo. Le comunità cristiane, con il loro patrimonio di valori e principi, hanno fortemente contribuito alla presa di coscienza delle persone e dei popoli circa la propria identità e dignità, nonché alla conquista di istituzioni democratiche e all’affermazione dei diritti dell’uomo e dei suoi corrispettivi doveri.

Anche oggi i cristiani, in una società sempre più globalizzata, sono chiamati, non solo con un responsabile impegno civile, economico e politico, ma anche con la testimonianza della propria carità e fede, ad offrire un contributo prezioso al faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo umano integrale e per il retto ordinamento delle realtà umane. L’esclusione della religione dalla vita pubblica sottrae a questa uno spazio vitale che apre alla trascendenza. Senza quest’esperienza primaria risulta arduo orientare le società verso principi etici universali e diventa difficile stabilire ordinamenti nazionali e internazionali in cui i diritti e le libertà fondamentali possano essere pienamente riconosciuti e realizzati, come si propongono gli obiettivi – purtroppo ancora disattesi o contraddetti – della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948.

Una questione di giustizia e di civiltà:
il fondamentalismo e l’ostilità contro i credenti pregiudicano
la laicità positiva degli Stati

8. La stessa determinazione con la quale sono condannate tutte le forme di fanatismo e di fondamentalismo religioso, deve animare anche l’opposizione a tutte le forme di ostilità contro la religione, che limitano il ruolo pubblico dei credenti nella vita civile e politica.

Non si può dimenticare che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari ed estreme di rifiuto del legittimo pluralismo e del principio di laicità. Entrambe, infatti, assolutizzano una visione riduttiva e parziale della persona umana, favorendo, nel primo caso, forme di integralismo religioso e, nel secondo, di razionalismo. La società che vuole imporre o, al contrario, negare la religione con la violenza, è ingiusta nei confronti della persona e di Dio, ma anche di se stessa. Dio chiama a sé l’umanità con un disegno di amore che, mentre coinvolge tutta la persona nella sua dimensione naturale e spirituale, richiede di corrispondervi in termini di libertà e di responsabilità, con tutto il cuore e con tutto il proprio essere, individuale e comunitario. Anche la società, dunque, in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere ed organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza. Proprio per questo, le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto. Esse devono commisurarsi – attraverso l’opera democratica di cittadini coscienti della propria alta vocazione – all’essere della persona, per poterlo assecondare nella sua dimensione religiosa. Non essendo questa una creazione dello Stato, non può esserne manipolata, dovendo piuttosto riceverne riconoscimento e rispetto.

L’ordinamento giuridico a tutti i livelli, nazionale e internazionale, quando consente o tollera il fanatismo religioso o antireligioso, viene meno alla sua stessa missione, che consiste nel tutelare e nel promuovere la giustizia e il diritto di ciascuno. Tali realtà non possono essere poste in balia dell’arbitrio del legislatore o della maggioranza, perché, come insegnava già Cicerone, la giustizia consiste in qualcosa di più di un mero atto produttivo della legge e della sua applicazione. Essa implica il riconoscere a ciascuno la sua dignità,[11] la quale, senza libertà religiosa, garantita e vissuta nella sua essenza, risulta mutilata e offesa, esposta al rischio di cadere nel predominio degli idoli, di beni relativi trasformati in assoluti. Tutto ciò espone la società al rischio di totalitarismi politici e ideologici, che enfatizzano il potere pubblico, mentre sono mortificate o coartate, quasi fossero concorrenziali, le libertà di coscienza, di pensiero e di religione.

Dialogo tra istituzioni civili e religiose

9. Il patrimonio di principi e di valori espressi da una religiosità autentica è una ricchezza per i popoli e i loro ethos. Esso parla direttamente alla coscienza e alla ragione degli uomini e delle donne, rammenta l’imperativo della conversione morale, motiva a coltivare la pratica delle virtù e ad avvicinarsi l’un l’altro con amore, nel segno della fraternità, come membri della grande famiglia umana.[12]

Nel rispetto della laicità positiva delle istituzioni statali, la dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta. A tal fine è fondamentale un sano dialogo tra le istituzioni civili e quelle religiose per lo sviluppo integrale della persona umana e dell’armonia della società.

Vivere nell’amore e nella verità

10. Nel mondo globalizzato, caratterizzato da società sempre più multi-etniche e multi-confessionali, le grandi religioni possono costituire un importante fattore di unità e di pace per la famiglia umana. Sulla base delle proprie convinzioni religiose e della ricerca razionale del bene comune, i loro seguaci sono chiamati a vivere con responsabilità il proprio impegno in un contesto di libertà religiosa. Nelle svariate culture religiose, mentre dev’essere rigettato tutto quello che è contro la dignità dell’uomo e della donna, occorre invece fare tesoro di ciò che risulta positivo per la convivenza civile.

Lo spazio pubblico, che la comunità internazionale rende disponibile per le religioni e per la loro proposta di “vita buona”, favorisce l’emergere di una misura condivisibile di verità e di bene, come anche un consenso morale, fondamentali per una convivenza giusta e pacifica. I leader delle grandi religioni, per il loro ruolo, la loro influenza e la loro autorità nelle proprie comunità, sono i primi ad essere chiamati al rispetto reciproco e al dialogo.

I cristiani, da parte loro, sono sollecitati dalla stessa fede in Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, a vivere come fratelli che si incontrano nella Chiesa e collaborano all’edificazione di un mondo dove le persone e i popoli “non agiranno più iniquamente né saccheggeranno […], perché la conoscenza del Signore riempirà la terracome le acque ricoprono il mare” (Is 11, 9).

Dialogo come ricerca in comune

11. Per la Chiesa il dialogo tra i seguaci di diverse religioni costituisce uno strumento importante per collaborare con tutte le comunità religiose al bene comune. La Chiesa stessa nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle varie religioni. “Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”.[13]

Quella indicata non è la strada del relativismo, o del sincretismo religioso. La Chiesa, infatti, “annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è «via, verità e vita» (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose”.[14] Ciò non esclude tuttavia il dialogo e la ricerca comune della verità in diversi ambiti vitali, poiché, come recita un’espressione usata spesso da san Tommaso d’Aquino, “ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo”.[15]

Nel 2011 ricorre il 25° anniversario della Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata ad Assisi nel 1986 dal Venerabile Giovanni Paolo II. In quell’occasione i leader delle grandi religioni del mondo hanno testimoniato come la religione sia un fattore di unione e di pace, e non di divisione e di conflitto. Il ricordo di quell’esperienza è un motivo di speranza per un futuro in cui tutti i credenti si sentano e si rendano autenticamente operatori di giustizia e di pace.

Verità morale nella politica e nella diplomazia

12. La politica e la diplomazia dovrebbero guardare al patrimonio morale e spirituale offerto dalle grandi religioni del mondo per riconoscere e affermare verità, principi e valori universali che non possono essere negati senza negare con essi la dignità della persona umana. Ma che cosa significa, in termini pratici, promuovere la verità morale nel mondo della politica e della diplomazia? Vuol dire agire in maniera responsabile sulla base della conoscenza oggettiva e integrale dei fatti; vuol dire destrutturare ideologie politiche che finiscono per soppiantare la verità e la dignità umana e intendono promuovere pseudo-valori con il pretesto della pace, dello sviluppo e dei diritti umani; vuol dire favorire un impegno costante per fondare la legge positiva sui principi della legge naturale.[16] Tutto ciò è necessario e coerente con il rispetto della dignità e del valore della persona umana, sancito dai Popoli della terra nella Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del 1945, che presenta valori e principi morali universali di riferimento per le norme, le istituzioni, i sistemi di convivenza a livello nazionale e internazionale.

Oltre l’odio e il pregiudizio

13. Nonostante gli insegnamenti della storia e l’impegno degli Stati, delle Organizzazioni internazionali a livello mondiale e locale, delle Organizzazioni non governative e di tutti gli uomini e le donne di buona volontà che ogni giorno si spendono per la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, nel mondo ancora oggi si registrano persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e di intolleranza basati sulla religione. In particolare, in Asia e in Africa le principali vittime sono i membri delle minoranze religiose, ai quali viene impedito di professare liberamente la propria religione o di cambiarla, attraverso l’intimidazione e la violazione dei diritti, delle libertà fondamentali e dei beni essenziali, giungendo fino alla privazione della libertà personale o della stessa vita.

Vi sono poi – come ho già affermato – forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei Paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini. Esse fomentano spesso l’odio e il pregiudizio e non sono coerenti con una visione serena ed equilibrata del pluralismo e della laicità delle istituzioni, senza contare che le nuove generazioni rischiano di non entrare in contatto con il prezioso patrimonio spirituale dei loro Paesi.

La difesa della religione passa attraverso la difesa dei diritti e delle libertà delle comunità religiose. I leader delle grandi religioni del mondo e i responsabili delle Nazioni rinnovino, allora, l’impegno per la promozione e la tutela della libertà religiosa, in particolare per la difesa delle minoranze religiose, le quali non costituiscono una minaccia contro l’identità della maggioranza, ma sono al contrario un’opportunità per il dialogo e per il reciproco arricchimento culturale. La loro difesa rappresenta la maniera ideale per consolidare lo spirito di benevolenza, di apertura e di reciprocità con cui tutelare i diritti e le libertà fondamentali in tutte le aree e le regioni del mondo.

Libertà religiosa nel mondo

14. Mi rivolgo, infine, alle comunità cristiane che soffrono persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e intolleranza, in particolare in Asia, in Africa, nel Medio Oriente e specialmente nella Terra Santa, luogo prescelto e benedetto da Dio. Mentre rinnovo ad esse il mio affetto paterno e assicuro la mia preghiera, chiedo a tutti i responsabili di agire prontamente per porre fine ad ogni sopruso contro i cristiani, che abitano in quelle regioni. Possano i discepoli di Cristo, dinanzi alle presenti avversità, non perdersi d’animo, perché la testimonianza del Vangelo è e sarà sempre segno di contraddizione.

Meditiamo nel nostro cuore le parole del Signore Gesù: “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati […]. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati […]. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,4-12). Rinnoviamo allora “l’impegno da noi assunto all’indulgenza e al perdono, che invochiamo nel Pater noster da Dio, per aver noi stessi posta la condizione e la misura della desiderata misericordia. Infatti, preghiamo così: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12)”.[17] La violenza non si supera con la violenza. Il nostro grido di dolore sia sempre accompagnato dalla fede, dalla speranza e dalla testimonianza dell’amore di Dio. Esprimo anche il mio auspicio affinché in Occidente, specie in Europa, cessino l’ostilità e i pregiudizi contro i cristiani per il fatto che essi intendono orientare la propria vita in modo coerente ai valori e ai principi espressi nel Vangelo. L’Europa, piuttosto, sappia riconciliarsi con le proprie radici cristiane, che sono fondamentali per comprendere il ruolo che ha avuto, che ha e che intende avere nella storia; saprà, così, sperimentare giustizia, concordia e pace, coltivando un sincero dialogo con tutti i popoli.

Libertà religiosa, via per la pace

15. Il mondo ha bisogno di Dio. Ha bisogno di valori etici e spirituali, universali e condivisi, e la religione può offrire un contributo prezioso nella loro ricerca, per la costruzione di un ordine sociale giusto e pacifico, a livello nazionale e internazionale.

La pace è un dono di Dio e al tempo stesso un progetto da realizzare, mai totalmente compiuto. Una società riconciliata con Dio è più vicina alla pace, che non è semplice assenza di guerra, non è mero frutto del predominio militare o economico, né tantomeno di astuzie ingannatrici o di abili manipolazioni. La pace invece è risultato di un processo di purificazione ed elevazione culturale, morale e spirituale di ogni persona e popolo, nel quale la dignità umana è pienamente rispettata. Invito tutti coloro che desiderano farsi operatori di pace, e soprattutto i giovani, a mettersi in ascolto della propria voce interiore, per trovare in Dio il riferimento stabile per la conquista di un’autentica libertà, la forza inesauribile per orientare il mondo con uno spirito nuovo, capace di non ripetere gli errori del passato. Come insegna il Servo di Dio Paolo VI, alla cui saggezza e lungimiranza si deve l’istituzione della Giornata Mondiale della Pace: “Occorre innanzi tutto dare alla Pace altre armi, che non quelle destinate ad uccidere e a sterminare l’umanità. Occorrono sopra tutto le armi morali, che danno forza e prestigio al diritto internazionale; quelle, per prime, dell’osservanza dei patti”.[18] La libertà religiosa è un’autentica arma della pace, con una missione storica e profetica. Essa infatti valorizza e mette a frutto le più profonde qualità e potenzialità della persona umana, capaci di cambiare e rendere migliore il mondo. Essa consente di nutrire la speranza verso un futuro di giustizia e di pace, anche dinanzi alle gravi ingiustizie e alle miserie materiali e morali. Che tutti gli uomini e le società ad ogni livello ed in ogni angolo della Terra possano presto sperimentare la libertà religiosa, via per la pace!

Dal Vaticano, 8 dicembre 2010

 

BENEDICTUS PP XVI

 


 

[1] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 29.55-57.
[2] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 2.
[3] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 78.
[4]Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 1.
[5] Id., Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 7.
[7] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 2
[9] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 11.
[10] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 1.
[11] Cfr Cicerone, De inventione, II, 160.
[12] Cfr Benedetto XVI, Discorso ai Rappresentanti di altre Religioni del Regno Unito (17 settembre 2010): L’Osservatore Romano (18 settembre 2010), p. 12.
[13] Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 2.
[14] Ibidem.
[15] Super evangelium Joannis, I, 3.
[18] Ibid., p. 668.

Fratelli d’Egitto. Ma i copti sono sempre più soli

Le elezioni politiche in Egitto si stanno svolgendo in più tornate successive e dureranno molti mesi. Ma è bastato il primo test elettorale al Cairo, ad Alessandria e in alcune altre città per seminare allarme.

I Fratelli Musulmani, col Partito della libertà e della giustizia, hanno ottenuto il 36 per cento dei voti. Il Blocco egiziano, che raggruppa le formazioni più sensibili alle richieste di libertà di piazza Tahrir, il 15 per cento. Ma la vera sorpresa è stato il 25 per cento di voti andato al Partito della Luce, Hizb an Nour, fondato dieci mesi fa dai salafiti, ossia dagli islamisti più radicali.

Nelle cancellerie dell’Occidente si è subito temuta una saldatura tra i Fratelli Musulmani e i salafiti, che sommati totalizzerebbero i due terzi dei seggi del futuro parlamento egiziano.

Ma un simile sbocco è tutt’altro che probabile. Per i Fratelli Musulmani i salafiti non sono affatto un possibile alleato, ma l’avversario più pericoloso ed ostile.

Padre Rafic Greiche, portavoce della minuscola Chiesa cattolica egiziana, prevede piuttosto che il Partito della libertà e della giustizia si allei con il blocco dei movimenti democratici. Una previsione che per lui è anche un auspicio: “per fermare leggi illiberali e pericolose per la minoranza cristiana”.

Il programma politico dei Fratelli Musulmani è lungo 45 pagine ed è quanto di più inaccettabile ci sia per gli integralisti salafiti. Così lo riassume Daniele Raineri in un reportage dal Cairo per “il Foglio”: “Adesione piena e senza ambiguità ai principi democratici della rappresentanza politica e del rinnovo periodico del potere con elezioni, piena dignità davanti alla legge di tutti gli egiziani, nessuna discriminazione per sesso, religione o razza, quindi non contro le donne o contro la minoranza cristiana. Due priorità: la sicurezza e l’economia”.

In una Fratellanza che nei suoi 83 anni di vita ha sempre alternato estremismo a moderazione e a dissimulazione, questo improvviso e conclamato innamoramento per la democrazia desta sospetti.

Ma è anche incontestabile che se c’è un modello al quale oggi i Fratelli Musulmani egiziani guardano, questo non è l’islamismo fondamentalista e retrogrado dei wahhabiti dell’Arabia Saudita, ma quello pragmatico della Turchia di Recep Tayyip Erdogan.

La recente visita del primo ministro turco in Egitto ha registrato un’accoglienza trionfale. In lui i Fratelli Musulmani vedono non solo un grande leader sunnita capace di conciliare islamismo e modernità, ma anche colui che ha restituito diritto di cittadinanza all’islam popolare, in una Turchia non più ostaggio dei generali.

In un Egitto dove tutte le cariche religiose, da al-Azhar all’ultima delle moschee, sono state fin qui di nomina del governo e sotto la tutela dell’esercito, l’apologia della laicità fatta da Erdogan durante la sua visita è stata interpretata da molti come un messaggio liberatorio, a favore di una religione finalmente affrancata dal controllo del Principe.

I Fratelli Musulmani si presentano anche con un volto amico per i copti, che con oltre dieci milioni di fedeli costituiscono la più grande minoranza cristiana in un paese arabo. Ne hanno messi alcuni nelle liste elettorali. Ed è copto il vicepresidente del Partito della libertà e della giustizia.

Ma fino a che punto è credibile – in particolare per i cristiani – questa metamorfosi del Fratelli Musulmani?

L’eccidio del 9 ottobre 2011 nel quartiere Maspero del Cairo, con 22 copti uccisi dai blindati dell’esercito, è stato per i cristiani d’Egitto un trauma senza precedenti, più sconvolgente di quelli provocati dagli innumerevoli atti di violenza e di vessazione subiti ad opera dei musulmani.

Quel baluardo di protezione ultima che, nella visione dei copti, era stato fin lì l’esercito, si era rivoltato loro contro, con l’opinione pubblica anch’essa schierata contro di loro.

Ed è passato un mese prima che il grande imam della moschea di al-Azhar, Ahmad Muhammad al-Tayyeb, convocasse dei leader musulmani e cristiani nella “Casa delle famiglia egiziana” ed emettesse un comunicato che definisce “martiri” gli uccisi e invoca “provvedimenti pratici necessari per rafforzare il dettato costituzionale del principio di cittadinanza per tutti gli egiziani”.

Il grande imam al-Tayyeb è uno dei firmatari della lettera amichevole inviata a Benedetto XVI da 138 saggi musulmani dopo la lezione di Ratisbona. Ma è anche colui che ha rotto le relazioni col Vaticano prendendo a pretesto la preghiera del papa per i cristiani uccisi nell’attentato dello scorso Capodanno in una chiesa copta di Alessandria d’Egitto e per tutte le vittime della violenza interreligiosa.

Al-Tayyeb ha anche rifiutato di prendere parte all’incontro di Assisi dello scorso 27 ottobre. Prima di essere grande imam della prima moschea del Cairo, è stato gran mufti e rettore dell’università di al-Azhar, la più importante del mondo musulmano sunnita. Ogni volta per nomina del presidente Mubarak, dal quale, dopo la sua caduta, ha preso marcatamente le distanze.

Sta di fatto che il rapporto tra musulmani e copti, in Egitto, si è molto deteriorato da un secolo a questa parte.

Nell’analisi che segue, Tewfik Aclimandos, docente di storia contemporanea del mondo arabo al Collège de France, tratteggia l’evoluzione di questo rapporto, giunto in questi ultimi anni al suo punto più critico.

L’analisi è uscita sull’ultimo numero di “Oasis”, la newsletter in cinque lingue, tra cui l’arabo, diretta da Maria Laura Conte e promossa dall’omonima fondazione internazionale con sede a Venezia, a sua volta nata da un’idea del cardinale Angelo Scola, quand’era patriarca della città.

__________

COPTI E MUSULMANI D’EGITTO: COME SI È ARRIVATI ALL’EMERGENZA DI OGGI

di Tewfik Aclimandos

[…] L’emancipazione copta è un processo messo in atto dalla dinastia di Mehemet Ali, soprattutto con l’abrogazione del testatico nel 1855 voluta da Said, culminata nell’unione sacrée dell’insurrezione anti-britannica del 1919. Laure Guirguis ha mostrato nella sua tesi l’originaria ambivalenza della concordia e della fraternizzazione tra comunità nell’ambito del grande partito nazionalista Wafd (1919). Il discorso del Wafd sulla laicità e sulla secolarizzazione è molto più islamico di quanto generalmente si creda. La monarchia egiziana e la costituzione del 1923 non smantellano le strutture dello Stato confessionale e non rimettono in discussione neppure per un istante l’esistenza di più statuti personali. Modernizzano le strutture e i dispositivi, li adattano, per quanto possibile, all’imperativo di uguaglianza e all’idea regolatrice di cittadinanza.

Ma, nei fatti, questa unione sacrée o questa simbiosi si basa su istituzioni, organizzazioni dello spazio, modi di fare, pratiche quotidiane che organizzano e facilitano la coesistenza. I quartieri “indigeni” dove abitano copti e musulmani e che possono essere contrapposti ai quartieri “europei” o “occidentalizzati” delle classi superiori e delle comunità europee sono bastioni del nazionalismo. Si vive uno accanto all’altro, si parla, ci si rende visita. Un sistema educativo statale che progressivamente prende il sopravvento su quello tradizionale controllato dagli ulema è accessibile agli egiziani delle classi medie emergenti, indipendentemente dalla loro confessione. I liceali manifestano insieme, fanno sport insieme, studiano insieme. Si conoscono.

Ma dopo il 1945 ciò che rendeva possibile questa unione verrà eroso. Non mi soffermerò qui sulla nascita della questione identitaria: l’Egitto è ancora un paese musulmano, con tutto ciò che questo implica? La domanda è stata posta, diffusa, espressa e valorizzata dalla confraternita dei Fratelli Musulmani. Ricordo però ciò che è meno evidente: uno dei fatti sociali principali degli ultimi cento anni è stato la liberazione della donna, la quale ha avuto accesso all’istruzione, al mercato del lavoro e ha scelto il proprio marito. La comparsa della donna nello spazio pubblico sarà una delle cause, se non la principale, della creazione delle strutture comunitarie. In effetti, essa ha reso possibili i matrimoni tra persone di religioni differenti.

Considerati gli statuti personali e la legislazione, ogni matrimonio “misto” è però una conquista per la comunità musulmana e una perdita per le comunità non musulmane: se lo sposo è musulmano, lo saranno anche i figli, e un non musulmano per sposare una musulmana dovrà convertirsi all’islam. Stando così le cose, verranno lentamente attivate pratiche sociali volte a proibire la donna copta allo sguardo musulmano (per esempio, il capo di famiglia copto porterà i suoi figli da un medico copto) e a organizzare la promiscuità uomo-donna in uno spazio comunitario (le chiese creano dei club annessi al luogo di culto).

Per altri versi il principale deficit dei successori del presidente Nasser è stata l’indifferenza di fronte al terribile declino del sistema educativo egiziano, quando la scuola era il fattore e lo spazio d’integrazione per eccellenza. La degradazione e l’estensione dello spazio urbano rimettono in discussione gli stili di vita quotidiani e il vivere insieme, che erano lo zoccolo duro dell’unità nazionale. Infine, all’interno della comunità copta, gli equilibri interni tra grandi proprietari e clero si sono rotti a vantaggio di quest’ultimo a causa dei colpi inflitti ai primi dalle riforme nasseriane.

Forse queste evoluzioni erano difficili da contrastare. Ma le scelte politiche del presidente Sadat le aggraveranno al punto che esse si riveleranno irrimediabili. Il successore di Nasser, che vuole riconquistare il Sinai (occupato nel 1967) e mettere fine al partenariato con l’ingombrante padrino sovietico, ha bisogno dell’Arabia Saudita all’esterno e degli islamisti all’interno. Per distruggere le roccaforti di sinistra all’università cavalcando l’ondata di religiosità e di “ritorno a Dio” che ha fatto seguito alla disfatta del 1967, favorirà la nascita di un movimento islamista plurale, di discorsi islamisti radicali, alimentando troppo spesso uno o più odiosi discorsi anti-cristiani. Gli islamisti più estremisti non si accontentano di “suonarle alla sinistra”: le loro estorsioni a danno dei copti – da un racket presentato come ripristino della jizya agli omicidi, passando per l’incendio delle chiese – sono sempre più numerose. E soprattutto lo Stato, su indicazione dei vertici, guarda altrove.

La ferita è profonda e non sarà mai rimarginata. Queste pratiche rianimano la solidissima tradizione vittimistica e il culto del martirio dei copti, i quali percepiscono l’ambiente come unanimemente ostile e preferiscono il ripiegamento su se stessi. Diversi osservatori sono molto critici verso la gestione delle relazioni con lo Stato da parte di papa Shenuda III e ritengono che egli sia arrivato troppo spesso al “braccio di ferro”, che abbia fatto tutto il possibile per opporsi a Sadat, che si sia preoccupato soprattutto di consolidare il dominio del clero sulla comunità e che abbia favorito, all’interno di essa, la diffusione di ideologie antipatiche quanto i discorsi anti-cristiani dell’altra sponda. Non sono sicuro che questi analisti abbiano ragione su tutti i punti. Ricordo solamente che non è chiaro se papa Shenuda abbia avuto tutta la libertà che gli viene attribuita. Si tende a credere che egli sia all’origine di tutti gli “errori” della sua comunità o delle sue rivendicazioni, comprese le più irrealistiche, ma questo non è provato. Segnaliamo, al contrario, che il suo atteggiamento ostile verso Israele gli sarebbe valso un sostegno molto solido nella comunità intellettuale egiziana, musulmani e copti indistintamente, e che sarebbero stati numerosi i membri musulmani di questa comunità che avrebbero provato simpatia e manifestato il loro sostegno alle principali rivendicazioni copte.

Nonostante il proliferare, all’interno di ciascuna comunità, di discorsi odiosi che consolidano sgradevoli “immagini dell’altro”, nonostante l’attuazione quotidiana di pratiche di costruzione di spazi comunitari, nonostante il moltiplicarsi delle discriminazioni quotidiane ad opera di tutti, agenti dell’apparato di Stato e copti inclusi, nonostante infine la relativa frequenza di incidenti violenti, che sono talvolta veri e propri pogrom, la “questione confessionale” resta tabù fino al 2004 quando diventa improvvisamente uno dei temi principali del dibattito pubblico.

L’emergere della questione e le sue molteplici sfaccettature sono state studiate molto bene da Laure Guirguis. Non mi interessa qui studiare le prese di posizione assunte dagli uni e dagli altri, ma ricordare che la gerarchia copta non ha sempre dato prova di saggezza o giudizio. Oltre a qualche sconcertante eccesso verbale di alcune personalità (l’amba Bishoi, numero due della Chiesa, per esempio) che in virtù delle loro funzioni avrebbero dovuto essere prudenti, la sua gestione degli incidenti relativi alle conversioni reali o presunte all’islam delle mogli di alcuni preti desiderose di lasciare i loro mariti, è stata disastrosa. Tra l’altro queste mogli non si sono più viste, ciò che rende credibili le tesi e le voci che facevano pensare a un loro sequestro. Infine, la gerarchia copta ha spesso dato l’impressione di essere arrogante e di sfruttare la fragilità di un regime ansioso di piacere a Washington e di preparare la trasmissione ereditaria del potere. Dire questo naturalmente non significa affermare che gli attori statuali o religiosi musulmani siano stati molto più brillanti e la saggezza e l’umanità degli ultimi due grandi imam di al-Azhar sono l’importante eccezione che conferma la regola.

Ora c’è una situazione di emergenza. La principale evoluzione degli ultimi dodici anni è la “democratizzazione” degli incidenti interconfessionali. Questi non sono più appannaggio di qualche islamista fanatico che sente il bisogno di rifarsi sui copti. Oppongono ormai persone che abitano nello stesso quartiere. In qualsiasi lite fra vicini si rischia di perdere il controllo della situazione ed è un miracolo che ciò non accada più spesso.

Gli incidenti principali hanno due tipi di cause. A) la questione della costruzione delle chiese, un dossier che ormai non dà tregua all’apparato statale. Allo stato attuale è praticamente impossibile ottenere un’autorizzazione per la costruzione di chiese. I copti costruiscono perciò chiese illegali […] e spesso, queste chiese illegali o decretate tali sono incendiate da una popolazione infastidita dalla loro presenza, con una intolleranza, sia detto en passant, che cinquant’anni fa sarebbe stata inimmaginabile. B) le storie d’amore tra persone di confessione diversa, soprattutto se si traducono nella partenza della giovane, che lascia il domicilio famigliare. Nessuna delle due comunità sembra disposta a riconoscere il diritto degli individui alla felicità; e quella copta è maggiormente giustificabile poiché perde membri a ogni matrimonio misto.

Questo quadro, molto fosco, spiega il vero e proprio panico che si è impadronito della comunità copta. Essa sapeva che l’assolutismo di Mubarak, malgrado i suoi difetti, costituiva una protezione e apportava una dose apprezzata di liberalismo. Mubarak poteva fare concessioni agli oscurantisti, ma non era uno di loro. Certamente non ha riservato al problema l’attenzione che meritava ma, fino a prova contraria, non l’ha consapevolmente aggravato. Questo panico sarà acuito, in un primo tempo, dall’eccidio del 9 ottobre 2011 nel quartiere Maspero del Cairo (nell’inconscio copto l’esercito era il baluardo del legame nazionale, il rappresentante dello Stato-nazione egiziano, il protettore ultimo). Il protettore è diventato nel giro di poche ore il carnefice e questo lascerà tracce profonde. In alcune città di provincia le famiglie che hanno i mezzi per farlo cercano di emigrare e, dallo scorso gennaio, oltre 93.000 copti hanno abbandonato il territorio. Resta da capire se è una situazione temporanea a meno.

Il quadro è già abbastanza cupo e non è il caso di dipingerlo a tinte ancora più fosche. È bene notare che la comunità intellettuale, l’intelligentsia, è molto sensibile al problema e sono molto numerosi i suoi membri che hanno spesso preso le difese dei copti, sapendo trovare le parole giuste e sbagliando di rado. Ancora più rassicurante è il fatto che se i copti, in generale, hanno avuto il sostegno dei musulmani che non avevano alcun problema con la nozione di uguaglianza dei cittadini, ricevono sempre più l’appoggio di quanti, molto numerosi, pur non accettando questa nozione di uguaglianza e non amando veramente i cristiani, sono indignati dai maltrattamenti inflitti ai copti e condannano con fermezza e veemenza le uccisioni, gli incendi dei luoghi di culto e dicono a voce alta che l’Islam “non è questo” e che non vogliono più che si verifichino fatti simili.

Resta ancora molto da fare – tra le altre, un aggiornamento copto – e non dovremmo minimizzare i pericoli: abbiamo visto come alcune centinaia di militanti siano riusciti, l’11 settembre 2001, a devastare il rapporto tra l’islam e l’Occidente per almeno un decennio. Detto questo, non bisogna neppure sottovalutare le energie e la vitalità dell’umanesimo musulmano, il primo a essere minacciato dall’estremismo.

__________

Il testo integrale dell’analisi di Tewfik Aclimandos, in “Oasis”:
> Copti e musulmani d’Egitto: come si è arrivati all’emergenza di oggi

__________

Il comunicato del grande imam di al-Azhar, Ahmad Muhammad al-Tayyeb, a commento dell’eccidio di copti compiuto dall’esercito il 9 ottobre 2011 nel quartiere Maspero del Cairo:
> Uno shock per la coscienza dell’Egitto

________

Sulla Turchia di Erdogan come modello per i Fratelli Musulmani d’Egitto, in un’analisi di Tewfik Aclimandos per “Oasis”:
> Come Erdogan affascina gli egiziani

__________

Sugli orientamenti dell’opinione pubblica egiziana, in un’inchiesta del Pew Forum on Religion & Public Life di Washington:

> Il “democratico” Egitto manda a morte gli apostati

Le tasse non sono un optional

Intervista al Card. Bagnasco

 

Il cardinale Angelo Bagnasco, 69 anni a gennaio, presidente dei vescovi italiani, è nella casa d’accoglienza vicina alle mura vaticane, che lo ospita quando si trova a Roma. Un bambino arabo di tre anni scorrazza nei corridoi. Le suore preparano il presepe. Un religioso sudamericano lavora al computer.

Eminenza, come valuta la svolta politica italiana e la nascita del governo Monti?
«Non spetta alla Chiesa formulare una valutazione politica. La crisi globale ha portato a galla alcuni elementi di inadeguatezza del sistema-Paese, che venivano da lontano e hanno contribuito a modificare il quadro politico, già segnato da non poche inquietudini. Questo governo, che a cominciare dal presidente Monti è composto da personalità della cultura e del mondo sociale ed economico, ha una finalità assolutamente prioritaria. L’auspicio è che possa realizzare quel risanamento dei conti pubblici senza del quale l’Italia rischia tutto, e grazie al quale tutto diventa possibile; e, nello stesso tempo, imprimere una spinta decisiva allo sviluppo».

Si è parlato molto dello «spirito di Todi», di un nuovo impegno dei cattolici. Il nuovo governo ne è un frutto?
«Todi è stato un momento di una presa di coscienza più generale, che ha rimarcato il contributo necessario dei cattolici alla vita sociale e politica. È significativo che ampi settori della pubblica opinione abbiano richiesto l’apporto di chi fa del “bene comune” l’asse di una buona politica, al di là di polarità che finiscono per esacerbare gli animi e suscitare contrapposizioni inutili. Da tempo Benedetto XVI ha richiamato all’impegno i cattolici italiani, sostenendo che la fede evita il disimpegno specialmente nei momenti di crisi e non accetta di essere ridotta alla pura sfera privata, senza incidere sulla costruzione della città in cui sono in gioco valori non solo economici ma più profondamente umani».

I sacrifici imposti da Monti erano necessari? O finiranno per estendere ancora di più le fasce di povertà e per aggravare le difficoltà del ceto medio?
«Una società non può vivere a lungo al di sopra delle proprie forze. A meno di introdurre forzature che però non resistono alla prova dei fatti. Non solo l’Italia, ma una certa mentalità che si è diffusa a macchia d’olio ovunque ha insistito nel “comprare oggi e pagare domani”. Si è così ribaltato un costume radicato tra la nostra gente, che faceva del risparmio, della misura e della concretezza uno stile di vita. A ciò si aggiunga la diffusa tentazione di caricare sulla generazione successiva i costi di un risanamento pure intravisto come necessario. La responsabilità tra generazioni impone di predisporre le cose perché i giovani che verranno dopo di noi trovino un mondo più vivibile. Oggi ciò che lasciamo in dote è meno di quanto abbiamo ricevuto; tenendo conto che la coesione umana e la giustizia sociale sono parte irrinunciabile di questo patrimonio».

Il Papa ha insistito molto sulla «sobrietà». C’è qualcosa che la Chiesa può fare, per partecipare anch’essa ai sacrifici?
«La sobrietà non è il frutto di una scelta imposta dall’esterno. Corrisponde a una visione dell’esistenza che privilegia i beni relazionali rispetto a quelli materiali. La Chiesa partecipa ai sacrifici della gente condividendone la vita quotidiana attraverso il reticolato più capillare che esista, quello delle parrocchie. Perfino nei centri più piccoli e sperduti il campanile rimane un riferimento di spiritualità e solidarietà. Per non parlare delle metropoli dove la presenza della comunità cristiana è l’avamposto a contatto con le mille forme della povertà vecchia e nuova. Anche a me, quando cammino nei vicoli della mia città, tra i carrugi di Genova, capita d’essere fermato da anziani malfermi, immigrati, drogati che mi stringono la mano e mi dicono: “Volevo soltanto ringraziarla”. Se la Chiesa cessasse d’improvviso la sua testimonianza di fede e di carità, tutta la società sarebbe decisamente più povera».

Come funziona oggi precisamente il sistema delle esenzioni dall’Ici? C’è qualcosa che la Chiesa è disposta a cambiare?
«La Chiesa paga l’Ici! Occorre dirlo, visto che si parte sempre dall’assunto contrario. Eventuali casi di elusione relativi a singoli enti, se provati, devono essere accertati e sanzionati con rigore: nessuna copertura è dovuta a chi si sottrae al dovere di contribuire al benessere dei cittadini attraverso il pagamento delle imposte. Le tasse non sono un optional. Detto questo, l’esenzione dall’Ici per talune categorie di enti e di attività non è un privilegio. È il riconoscimento del valore sociale dell’attività che viene esentata e – cosa non secondaria – non riguarda solo la Chiesa ma anche altre confessioni religiose e una miriade di realtà non profit. Si tratta di chiedersi – ma qui credo che il consenso sia più vasto di quel che si creda – se il mondo della solidarietà debba essere tassato al pari di quello del business. A chi fa concorrenza una mensa per i poveri piuttosto che un campetto di calcio dell’oratorio? In ogni caso, ripeto: siamo disposti a valutare la chiarezza delle formule normative vigenti, con riferimento a tutto il mondo dei soggetti e delle attività non profit oggetto dell’attuale esenzione».

Si è parlato, e lo ha fatto anche lei, di «disinformazione». Ma perché fa presa? Sta forse calando nella gente la consapevolezza di ciò che fa la Chiesa in campo sociale?
«Il momento è obiettivamente duro, in particolare per alcuni. In questo clima di esasperazione attaccare la Chiesa perché non pagherebbe l’Ici è un po’ come sparare sulla Croce Rossa. E la Chiesa è un bersaglio facile; perché non ha nulla da nascondere. In realtà, già da anni avevo lanciato l’allarme dell’aumento dei pacchi-viveri da parte delle Caritas diocesane, quando un po’ dappertutto si asseriva che la crisi non avrebbe riguardato il nostro Paese. Al contrario chi opera in campo sociale e assistenziale se n’era accorto, per la pressione sulle parrocchie di persone insospettabili e di ceti sociali un tempo garantiti. La gente che trova aiuto e spesso generi di prima necessità lo sa bene. Ma non basta evidentemente a cambiare l’agenda dell’informazione diffusa. Mi chiedo se sia solo questione di ignoranza. O anche di malafede».

Non pensa che la Chiesa abbia sbagliato qualcosa?
«Penso che dovremmo superare quel pudore che impedisce di parlare di quanto si fa generosamente, spesso in silenzio e tra enormi problemi. Credo pure che la trasparenza sia la strada da privilegiare in qualsiasi attività di una realtà ecclesiale. Così si attiva meglio la consapevolezza di chi non ha pregiudizi, la corresponsabilità sociale e insieme il controllo».
Non teme che il gettito dell’8 per mille possa diminuire?
«Se c’è una campagna verità, farà bene a tutti. Certo, a forza di calunniare, qualcosa resta. Ho letto e sentito dire in tv che la Chiesa riceve un miliardo di euro e spende 350 milioni per gli stipendi; “il resto è la cresta dei vescovi”. Ora, voi sapete qual è lo stipendio di un vescovo?»

Ce lo dica lei.
«Nella Chiesa abbiamo tre fasce di retribuzione. Lo stipendio di un giovane sacerdote è di circa 800 euro. Quello di un parroco intorno a mille. Quello di un vescovo sui 1.300. Lascio a voi il raffronto con le sperequazioni di altre strutture gerarchiche. Il punto è un altro. I restanti 650 milioni sono spesi per la Caritas, per i beni culturali, per il Terzo Mondo. Una quota è riservata alle vittime di calamità nazionali e internazionali; ad esempio abbiamo speso un milione per gli alluvionati in Liguria. Ed è tutto pubblicato su Internet. Tutto trasparente».

Ora che una fase si è chiusa, forse si può fare una riflessione storica: la Chiesa italiana ha concesso un credito troppo grande, e troppo a lungo, a Berlusconi?
«La Chiesa non sposa questo o quel governo. Con ogni governo però coltiva rapporti di collaborazione all’insegna del bene comune. Confondere la necessaria collaborazione istituzionale con altre forme di vicinanza strategica è fuorviante. Altro è poi quello che singoli cattolici fanno all’interno della loro personale posizione partitica».
Nel campo opposto, a sinistra, c’è spazio per i cattolici? C’è attenzione alle loro esigenze?
«Lo spazio per i cattolici non dovrebbe trovare pregiudiziali rispetto alla questione decisiva dell’etica della vita, come per la libertà scolastica. È questo un valore, sancito dalla Costituzione che prevede l’istruzione come un diritto da garantire a tutti, senza darne l’esclusiva allo Stato. Crescere nella libertà di scelta è aiutare la crescita della democrazia nel nostro Paese, ancora attraversato da residui pregiudiziali ormai superati dalla storia e dall’Europa».

Sì, ma questo spazio per i cattolici c’è nel Pd?
«Noi enunciamo il criterio. Circa i valori irrinunciabili in linea di principio e di fatto. Se c’è lo spazio in concreto, bisogna chiederlo agli esponenti del Pd».
Il ritorno del centro può far pensare a un ritorno anche dell’unità politica dei cattolici?
«L’unità politica dei cattolici non si costruisce necessariamente tramite un partito. Anche se la storia non l’ha escluso. Domani, si vedrà. Ma l’unità si costruisce a partire da un plesso di valori che ha nella vita – dal concepimento alla conclusione naturale -, nella famiglia e nella libertà religiosa il suo riferimento necessario. L’etica della vita è il presupposto dell’etica sociale che garantisce il bene comune, fatto anche di lavoro, casa, integrazione».

Aldo Cazzullo
Gian Guido Vecchi

17 dicembre 2011 | 12:27

Lo sviluppo umano ha bisogno di cristiani

“Lo sviluppo umano ha bisogno di cristiani”: questo il titolo, modulato dal magistero di Benedetto XVI, della Giornata di riflessione sulla formazione socio-politica, promossa da Retinopera a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana, sabato 17 dicembre.
I lavori sono stati aperti dal Card. Angelo Bagnasco. Nella sua relazione, il Presidente della Cei ha esortato a tenere vivo il concetto vero di coscienza, a formarla, educandosi a scegliere sempre il bene concreto e ad esercitarla nel discernimento ecclesiale.
Rispondendo ai giornalisti, ha chiarito che “la Chiesa paga l’Ici! Eventuali casi di elusione relativi a singoli enti, se provati, devono essere accertati e sanzionati con rigore: nessuna copertura è dovuta a chi si sottrae al dovere di contribuire al benessere dei cittadini attraverso il pagamento delle imposte. Le tasse non sono un optional”.
Il Cardinale ha anche spiegato che “l’esenzione dall’Ici per talune categorie di enti e di attività non è un privilegio, ma è il riconoscimento del valore sociale dell’attività che viene esentata”; esenzione – ha ricordato – che “non riguarda solo la Chiesa ma anche altre confessioni religiose e una miriade di realtà non profit”.
Infine, ha ribadito la disponibilità della Chiesa che vive in Italia a “valutare la chiarezza delle formule normative vigenti, con riferimento a tutto il mondo dei soggetti e delle attività non profit oggetto dell’attuale esenzione”.

file attached Retinopera.doc

L’ICI e la Chiesa: il dibattito

Partiti, circoli e sindacati
Ecco dove l’Ici non si paga

Pochi lo sanno, ma numerosi soggetti senza scopo di lucro, laici e no, sono esonerati dalla imposta sugli immobili. Dalle birrerie ricreative ai ristoranti culturali. Gli esenti meno noti.

Vi è mai capitato di entrare in un locale dove si ascolta musica, si mangia e si beve birra allegramente seduti ai tavoli, si balla anche, ma prima di entrare vi hanno fatto pagare una piccola quota associativa con tanto di tesserina? Bene, quel locale, noto circolo di una nota associazione ricreativa, non paga l’Ici. Perché la legge la considera un’attività meritoria. E poco importa se fa concorrenza ai locali vicini, dato le attività ricreative sono beneficiate dalla legge istitutiva dell’Ici. Anche il bar dello storico circolo “culturale” vicino a casa, pur dispensando caffè e cappuccini a prezzi competitivi, non sa che cosa sia l’Ici. Per non parlare delle Case del Popolo, così popolari che giustamente, quando la sede è loro, l’Ici manco la devono nominare.
La lista di chi in Italia può fare a meno di versare l’ormai ex Imposta comunale sugli immobili – già, abituiamoci a chiamarla Imu – è molto lunga. E, sorpresa, non prevede solo realtà che possono essere ricondotte alla Chiesa cattolica. Anzi. Il problema è che a dirlo, oggigiorno, si rischia di essere presi per marziani. Eppure è così. Per fare un esempio, gli immobili di proprietà dei sindacati hanno l’esenzione Ici. E non conta se magari tutelano solo i loro iscritti, o se si impegnano per bloccare le riforme di cui un Paese avrebbe bisogno. La loro funzione sociale è, giustamente, riconosciuta dalla legge. Così pure i partiti politici, sì anche loro, non devono pagare l’Ici negli immobili di proprietà. Che siano di destra, di sinistra, o di centro; che siano tolleranti e aperti nei confronti delle altre culture e religioni, o che siano intolleranti esclusivamente verso la religione cattolica.

La norma è abbastanza chiara, aperta a quei soggetti che a loro modo contribuiscono a costruire benessere sociale, eppure le campagne sollevate da alcuni schieramenti hanno fatto il loro lavoro. E stanno diffondendo l’idea che l’esenzione sia un privilegio concesso solo alla Chiesa cattolica in quanto tale, mentre di Chiesa cattolica la legge non parla mai. Parla, al limite, di «fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto, e le loro pertinenze». Dunque la cosa vale anche per valdesi, comunità ebraiche, chiesa evangelica luterana… (cioè le confessioni che hanno stipulato intese con lo Stato).

E non finisce qui. Sono esenti dall’Ici tutti i fabbricati di proprietà degli Stati esteri, come quelli della sciovinista Francia, della dura e forte Germania o della ligia e austera Svizzera, e con loro ovviamente, essendo uno Stato estero (la norma è regolata dal Concordato) anche quelli della Santa Sede. Esenti, per forza di cose, pure i fabbricati di regioni, province, comuni, comunità montane, unità sanitarie locali, camere di commercio.

La sostanza, però, viene dopo. Quando si passa alle realtà non profit, cioè agli enti che non hanno per oggetto esclusivo l’esercizio di attività commerciali. Si tratta di un universo molto vasto in Italia, che comprende tante realtà di ispirazione cattolica e tante di matrice laica. Soggetti che il legislatore ha ritenuto di sostenere per l’apporto che danno alla società, ma solo quando gli immobili non sono “sul mercato” e quando vi si svolgono attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive. Insomma, l’Ici non la pagano – a prescindere dalla loro vicinanza alla Chiesa cattolica –, le mense per i poveri e i bar associativi dove si servono lambrusco e grappini, le società sportive che fanno giocare i ragazzi, gli ospedali e le strutture sanitarie gestite da enti rigorosamente non profit, gli oratori e i ritrovi dei circoli culturali. Anche quelli dove l’argomento più in voga è la Chiesa che non paga l’Ici.

Massimo Calvi

da Avvenire  del 9/12/ 2011

 

 

Altri contributi


Da Avvenire

 

La presa di posizione del presidente della Cei a margine del convegno di Retinopera a Roma. “Eventuali casi di elusione relativi a singoli enti, se provati – ha ricordato Bagnasco – devono essere accertati e sanzionati con rigore: nessuna copertura è dovuta a chi si sottrae al dovere di contribuire al benessere dei cittadini attraverso il pagamento delle imposte. Le tasse non sono un optional”.

LE STORIE: Arezzo | Cosenza
VAI AL DOSSIER
Bagnasco: cattolici in politica con sereno anticonformismo

Bagnasco: l’Ici? Legge giusta basta confusioneIl presidente della Cei: «Se qualcuno non avesse pagato un tributo dovuto, l’abuso sia accertato e abbia fine».Monti da Bruxelles: nessuna decisione su questa materia.

Ici, ma quale zona grigia… Ecco cosa dice la legge di Patrizia Clementi
Curia di Bologna: Noi paghiamo, altro che privilegi
La parrocchia di Brugherio, l’hotel di Levanto
Hotel Waterloo, dove la tassa è pure doppia
Il «tesoro» della Chiesa di Maurizio Patriciello
Intervista a Giuseppe Dalla Torre (da Radio inBlu)

LA VERGOGNA DELL’ICI di Marco Tarquinio
ICI, LA VERITÀ È SEMPLICE di Marco Tarquinio
COSA DICE LA LEGGE
Dall’Arci al volontariato: non colpite chi aiuta davvero

 

Dal Corriere della Sera

ECONOMIAIl responsabile per la Cooperazione e l’integrazione a Lucia Annunziata: «Inutile fare una grande battaglia. Si intervenga: se c’è stata malafede si prendano le misure necessarie»

 

Dal Sole 24 ore

 

Da Il fatto Quotidiano

[Manovra, Bagnasco: “Disponibili a discutere su Ici”]

Chiesa graziata sulle rendite catastali Mentre la pressione fiscale vola al 45%

I partiti si dividono sull’Ici al Vaticano. Ma è rivolta sul web (leggi).