Fede, cultura e scienza dentro il frullatore digitale

Il secondo modulo 2012 del “laboratorio cultura e comunicazione” del Copercom, su “Anno della fede e comunicazione”, giunge a conclusione.

Mercoledì 5 dicembre, alle 21, l’ultimo appuntamento online sul tema “Fede, cultura e scienza dentro il frullatore digitale”.

Interverrà Ernesto Diaco, vice responsabile del Servizio nazionale per il Progetto culturale della Cei.Ecco la terza riflessione-guida del Papa (Lettera apostolica Porta Fidei): “La fede, infatti, si trova ad essere sottoposta più che nel passato a una serie di interrogativi che provengono da una mutata mentalità che, particolarmente oggi, riduce l’ambito delle certezze razionali a quello delle conquiste scientifiche e tecnologiche.

La Chiesa tuttavia non ha mai avuto timore di mostrare come tra fede e autentica scienza non vi possa essere alcun conflitto perché ambedue, anche se per vie diverse, tendono alla verità”.Per seguire la diretta basterà collegarsi in tempo reale al sito www.copercom.it e cliccare sul banner del laboratorio.

Per interagire con gli ospiti in chat (con domande o commenti) occorrerà inserire, quando richiesto, username e password.Per registrarsi, è sufficiente inviare un’email a info@copercom.it.

Nei giorni successivi sarà possibile rivedere l’intera puntata attraverso il Mediacenter del sito del Copercom, nella sezione dedicata ai Laboratori.

Processi di mondializzazione opportunità per i cattolici

Globalizzare l’umano», cioè «far emergere la creaturalità di tutti e di ciascuno, che costituisce il fondamento di ciò che davvero può essere detto universale».

È la visione di mondializzazione proposta dalla dottrina sociale della Chiesa, per scongiurare una “ideologia” della globalizzazione, ovvero un «uso ideologico dei processi di globalizzazione».A ricordarla è il card. Angelo Bagnasco, Presidente della Cei, che ha aperto venerdì 30 novembre a Roma l’XI Forum del progetto culturale, sul tema “Processi di mondializzazione opportunità per i cattolici”.

Una «lettura unilaterale dei processi di globalizzazione» – ha affermato il Cardinale – «può essere pericolosa perché potrebbe giustificare una forma d’imposizione, a volte anche violenta, del globale sul locale», dando luogo a «un vero fraintendimento di ciò che l’umanità, grazie soprattutto all’elaborazione del pensiero cristiano, ha stabilito realmente universale: la dignità della persona, la salvaguardia della sua libertà, il rispetto della vita in ogni suo momento».«L’utile di una parte dell’umanità non può essere considerato il criterio per stabilire ciò che è bene di tutti», ha ammonito il Cardinale Presidente, secondo il quale «la globalizzazione dev’essere regolamentata secondo giustizia, evitando che si configuri come l’espressione d’interessi particolari imposti universalmente».

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Forum Progetto Culturale

Il sussidio digitale per l’Avvento-Natale

Un aiuto alle comunità a “sprigionare la forza viva della liturgia, suggerendo strumenti e modalità per una celebrazione sobria, autentica e profonda”.

Così S.E. Mons. Crociata presenta il sussidio per il tempo di Avvento e di Natale del nuovo Anno liturgico, che inizia domenica 2 dicembre. Come già lo scorso anno, si tratta di una versione soltanto digitale: “L’annuncio del Vangelo e la condivisione degli strumenti pastorali si servono anche delle nuove tecnologie: la forza creativa dello Spirito ci spinge a orientare i mezzi di cui disponiamo alla comunicazione e all’educazione, per una crescita autentica delle persone”.

Nell’introdurre il sussidio, il Segretario Generale spiega come “l’Anno della Fede ci inviti a riscoprire la gioia del credere: a questo mirano in particolare le catechesi per gli adulti, che recuperano i temi del Catechismo della Chiesa Cattolica, associandoli alla liturgia festiva”. Un’attenzione particolare è data alla pastorale familiare, all’intimo legame tra fede e carità, alla pratica della missionarietà.

Don Franco Magnani, direttore dell’Ufficio Liturgico Nazionale, rilegge a sua volta il percorso dell’Avvento a partire dal brano evangelico della Visitazione, quale filo che “ci consente di recuperare soprattutto la dimensione della gioia”.

Mons. Zani segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica

Il Papa ha nominato Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica il Rev.do Mons. Angelo Vincenzo Zani, finora Sotto-Segretario della medesima Congregazione per l’Educazione Cattolica, elevato in pari tempo alla sede titolare di Volturno, con dignità di Arcivescovo. Prima di ricevere l’incarico di Sotto-Segretario presso la Congregazione Mons. Zani ha diretto l’Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università dal 1995 al 2002. Il Direttore don maurizio, Roberto, Antonella e Roberta e tutti i collaboratori dell’Ufficio, assicurano a S.E. Mons. Zani la preghiera per il suo ministero episcopale. Rev.do Mons. Angelo Vincenzo Zani

Il rev.do Mons. Angelo Vincenzo Zani è nato a Pralboino (Brescia) il 24 marzo 1950, ordinato presbitero il 20 settembre 1975 e incardinato nella diocesi di Brescia.Dopo aver frequentato gli studi fino al biennio filosofico-teologico presso il seminario diocesano di Brescia, ha completato gli studi di teologia a Roma, presso la Pntificia Università S. Tommaso e la Pontificia Università Lateranense, conseguendo qui il dottorato in Teologia. Ha inoltre ottenuto la licenza in Scienze Sociali presso la Pontificia Università Gregoriana.Rientrando in diocesi, è stato vicerettore presso l’Istituto “C. Arici”. tra il 1983 e il 1995, ha insegnato “Sociologia Generale” presso l’Istituto Filosofico-Teologico dei Salesiani di Nave (Bs) e “Sociologia della religiobe” presso l’Istituto Teologico “Paolo VI” del Seminario diocesano di Brescia.Dopo aver contribuito a far nascere l?istituto Superiore di Scienze Religiose presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Bresci, vi ha insegnato “Didattica della religione” (1990-1995). Dal 1981 al 1995 ha prestato servizio presso la Curia diocesana come direttore dell’l’Ufficio Pastorale, segretario dei Consigli presbiterale e pastorale e come responsabile dell’ufficio scuola, curando in particolare l’insegnamento della religione cattolica. Contemporaneamente è stato nominato delegato ella Conferenza Episcopale Lombarda per la pastorale della scuola.Dal 1995 al 2002 è stato chiamato a dirigere l’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della Conferenza Episcopale Italiana. In questi anni è stato anche assistente ecclesiastico dell’UELCI.Dal gennaio 2002 è Sotto-Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica.

1° incontro-studio su: “Eucarestia e carità”

La diocesi di Orvieto-Todi, in collaborazione con la Pontificia università lateranense,

promuove il 16 e 17 novembre, nel Palazzo dei Congressi di Orvieto, il primo incontro di studio su “Eucaristia e carità” in preparazione all’apertura del Giubileo eucaristico concesso da Benedetto XVI per il 750° anniversario del miracolo di Bolsena e della Bolla Transiturus, con la quale papa Urbano IV nel 1264 istituì la festa del Corpus Domini.

Ad aprire l’incontro mons. Benedetto Tuzia, vescovo di Orvieto-Todi.

Tanti i relatori previsti; tra gli altri, mons. Mauro Cozzoli, docente di teologia morale alla Pontificia università lateranense (Pul), don Roberto Nardin, docente di teologia sacramentaria alla Pul, padre Corrado Maggioni, docente alla Pontificia facoltà teologica Marianum, Claudio Strinati, storico e critico d’arte, don Antonio Mastantuono, docente di teologia pastorale e catechetica alla Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale-sez. San Luigi di Napoli, padre Vittorio Viola, docente dell’Istituto teologico di Assisi, padre Alvaro Cacciotti, docente della Pontificia università Antonianum di Roma.

Nel corso del Giubileo eucaristico 2013-2014 seguiranno altri due incontri di studio sull’Eucaristia e le virtù teologali, in vista di un grande convegno internazionale di studi eucaristici che si svolgerà nel 2014.

 

Dove sono oggi i Cristiani in Europa?

Colloquio all”’Académie Catholique de France” su crisi e avvenire del continente.

Una crisi cristiana dell’Europa? L’urgenza europea”. È il tema del Colloquio annuale promosso a Parigi, dal 16 al 17 novembre, dall’“Académie Catholique de France”.

Diversi gli interventi in programma. Tra i relatori: Philippe Capelle-Dumont, presidente dell’“Académie”; Jean-Arnold de Clermont, presidente emerito della Kek (Conferenza delle Chiese europee); card. Paul Poupard, presidente emerito del Pontificio Consiglio della cultura; Andrea Riccardi, ministro italiano per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione, presidente del “College des Bernardins” per il biennio 2012-2014.

Alla vigilia dei lavori, Sarah Numico, per Sir Europa, ha posto alcune domande a Jean-Dominique Durand, docente di storia contemporanea all’Università di Lione.

Perché si parlerà di crisi?
“Il nostro intento è avviare una riflessione sull’avvenire dell’Europa, partendo dalla situazione di oggi, che è di crisi economica, finanziaria, istituzionale, ma anche cristiana. I cristiani non sono più presenti e militanti: sono stati dei motori nella storia dell’Europa, basta pensare ai padri fondatori. Poi l’entusiasmo si è perso e i cristiani non sono più impegnati come in passato e non sono più molto visibili. Certo, personalità come il presidente Van Rompuy appartengono alla tradizione cristiana, ma qual è il suo ruolo? Chi è il rappresentante dell’Europa? Nelle mani di chi precisamente verrà consegnato il premio Nobel recentemente assegnato? Dove sono oggi la tradizione e l’impegno cristiani? La crisi cristiana dell’Europa è anche crisi della mobilitazione e della fede. Quindi riflettere e capire i perché di questa situazione sarà oggetto del Colloquio”. 

Che cosa s’intende con l’espressione “dare un’anima all’Europa”?
“Questa famosa frase fu coniata da Jacques Delors. Il card. Martini la riprese parlando di ‘Europa dello spirito’. Vale a dire che l’Europa non è solo economia, moneta, diritto, ma anche nuovo slancio ideale. L’appello del 9 maggio 1950 di Robert Schuman proponeva una scelta economica, ma in realtà si trattava di un passo politico e ancora più spirituale: un passo nel segno del perdono e della solidarietà tra le nazioni. Ora questo slancio spirituale si è perso, manca la motivazione per andare oltre i problemi e creare uno spirito nuovo per l’Europa. Manca una cultura dell’essere europeo”.

Per “dare un’anima” non sono sufficienti le istituzioni, forse. Occorrono persone…
“Non si può dire nello specifico a chi spetti il compito. Ritengo però che le Chiese e i cristiani abbiano una responsabilità particolare nel dover riprendere questa idea. Mi sembra ci sia anche la necessità di unire i cristiani attorno al tema delle radici: se l’Europa rinuncia a riconoscere le proprie origini, nasce un vero problema per il suo avvenire”.

Dialogo ecumenico e dialogo interreligioso: quale ruolo hanno nella vostra riflessione queste due importanti presenze in Europa?
“Questi temi saranno oggetto di un momento specifico di riflessione al Colloquio. Una prima questione è certamente quella dell’unità dei cristiani. Occorre far maturare ulteriormente e far emergere la visione comune sui valori che fondano l’Europa e che sono cristiani. La seconda questione è legata alla presenza dell’islam, tema che fa paura agli europei perché vedono una religione nuova in Europa e questa presenza rappresenta un problema innanzitutto psicologico. I populisti e i nazionalisti usano questa paura anche per fomentare timori verso l’Europa. Il dialogo interreligioso è, perciò, una necessità assoluta per conoscerci meglio ed è una sfida importante per l’avvenire dell’Europa, perché la faremo insieme”.

Avete identificato la famiglia, la bioetica, le migrazioni e le politiche sociali e di mercato come le sfide centrali per i cristiani…
“Famiglia e bioetica sono due ambiti in cui sta avvenendo una rivoluzione antropologica. Le legislazioni sulle unioni omosessuali già adottate o in discussione in alcuni Paesi europei, come in Francia in queste settimane, c’indicano che le basi della società sono in questione e ciò rappresenta un vero e grosso problema su cui è necessaria una riflessione. Parlare di economia oggi significa cercare le strade per tornare su principi di saggezza e di responsabilità in un’Europa che è diventata una zona ‘pazza’ dal punto di vista dell’economia e soprattutto della finanza. L’immigrazione oggi implica l’islam in Europa e, quindi, accoglienza, vale a dire una grande sfida innanzitutto per i cristiani chiamati a vivere il Vangelo”.

da SIR del 13/11/12

I sogni dei giovani chiave per la pace

​Riportiamo un’intervista ad Ernesto Olivero fondatore del Servizio Missionario Giovani, il Sermig.

Il Sermig – Servizio Missionario Giovani – è nato nel 1964 da un’intuizione di Ernesto Olivero e da un sogno condiviso con molti: sconfiggere la fame con opere di giustizia e di sviluppo, vivere la solidarietà verso i più poveri e dare una speciale attenzione ai giovani cercando insieme a loro le vie della pace.

Dai “Si” di giovani, coppie di sposi e famiglie, monaci e monache è nata la Fraternità della Speranza, per essere vicini all’uomo del nostro tempo e aiutarlo a incontrare Dio.

Il Papa ha aperto l’anno della Fede in occasione del 50° del Concilio Vaticano II. Ernesto Olivero, lei è stato il fondatore del Servizio Missionario Giovani, il Sermig, realtà che si spende per la diffondere la giustizia e promuovere la pace tra i popoli, come ha influito il Concilio sulle sue scelte?

A me come a tutti, il Concilio ha offerto la possibilità di accostarsi alla sacra Scrittura. E le mie scelte sono segnate, da sempre, dall’esperienza di entrare nel Vangelo, camminare in ogni sua pagina e ritrovarvi la bellezza della normalità. Ho incominciato ad amare Gesù per la sua logica. Lui dice: amate i nemici. Sembra un paradosso, ma se fossi io il nemico vorrei essere tagliato fuori senza pietà o vorrei che mi si desse una possibilità? Gesù dice di perdonare settanta volte sette, cioè sempre. Le poche volte che uno perdona, come si sente dopo: bene o male? Il Vangelo è stato il mio Concilio, è il mio rinnovamento quotidiano. La Chiesa non è una struttura che deve aggiornarsi, ma una Presenza cui convertirsi, quella di Dio che ha il volto di Gesù.

Come accoglie l’invito di Benedetto XVI a diventare “pellegrini del deserto” per tornare a evangelizzare?

Non pensiamo di “andare a evangelizzare” con dei discorsi. Dei primi cristiani la gente diceva: guardate come si vogliono bene, come testimoniano il loro amore per Dio, come condividono i loro beni… E Paolo nel suo “testamento pastorale” – testo fondamentale di cui purtroppo non si parla mai – dice negli Atti: «Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù… Non ho desiderato né argento né oro né il vestito di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho mostrato che i deboli si devono soccorrere lavorando così, ricordando le parole del Signore Gesù, che disse “Si è più beati nel dare che nel ricevere”». L’evangelizzazione parte sempre dalla testimonianza. Si è spenta la luce, tornare ad essere cristiani 24 ore su 24 sarà la migliore evangelizzazione.

Lei è stato eletto cittadino dell’anno dall’Unione europea, che ha appena vinto il Nobel per la pace. È d’accordo con questo premio?

È stato un gesto positivo, ora occorre meritarselo con un salto di qualità decisionale condiviso e solidale. Mi piacerebbe che diventasse un’unione di popoli legati non solo da interessi economici, ma dall’interesse per la promozione di pace e sviluppo. Da un lato l’Europa deve far sì che nei suoi Paesi i diritti umani siano rispettati da tutti, anche dai nuovi ospiti; dall’altro deve contribuire a promuoverli nei Paesi nei quali non sono ancora riconosciuti. I Paesi dell’Ue negli ultimi anni hanno usato più volte le armi. Invece questo Nobel deve farci diventare cittadini del mondo, che significa sentire come proprie fatiche, sofferenze e speranze degli altri popoli e agire di conseguenza. Dovremmo ad esempio sentirci padri e madri, fratelli e sorelle di Malala, la ragazza pakistana di 14 anni massacrata dai talebani per il suo impegno a favore dell’educazione femminile.

In Italia le inchieste giudiziarie mettono in luce una diffusa corruzione, scandali, abusi e sprechi di denaro pubblico. Dov’è la radice di questa crisi della politica?

Nell’avidità che ci ha fatto diventare miopi e ci ha fatto perdere di vista il bene comune. Siamo il Paese di Francesco, Michelangelo e Giotto, Verdi, Marconi e Fermi, Ambrosoli, Falcone e Borsellino, Alex Zanardi. L’Italia detiene il 40% del patrimonio artistico mondiale e il maggior numero di siti inclusi nella lista del patrimonio mondiale dell’umanità. Dobbiamo diventare degni di queste eccellenze. Mi fa soffrire l’idea che il mio Paese sia uno dei più corrotti al mondo. Quando parlo di politica mi rattrista poter fare riferimento solo a Zaccagnini, La Pira, De Gasperi e pochi altri. Mi piacerebbe citare nomi di politici italiani contemporanei senza temere brutte sorprese. La politica deve tornare trasparente, rimettersi a servizio del bene comune. Non sono le tasse a risolvere la crisi, ma una nuova coscienza educata alla sobrietà e all’etica.

Ha proposte concrete da avanzare?

Iniziamo a tagliare la metà dei consiglieri comunali, provinciali, regionali, dei deputati e dei senatori. Eliminiamo alla radice i privilegi, cominciando dai rimborsi spropositati dei politici per proseguire con le liquidazioni faraoniche dei manager d’azienda e le sostanziose pensioni di alcune categorie percepite dopo pochi anni di attività. Chi viene eletto a un incarico istituzionale dovrebbe continuare a percepire lo stipendio di prima dall’azienda per cui lavorava (come i sindacalisti) e chi ha un’attività di tipo imprenditoriale potrebbe autofinanziare il proprio impegno. Ricoprire un incarico istituzionale è un onore, non solo un onere, un servizio e non un privilegio. Bisognerebbe anche rendere esecutiva ed efficace una “legge della restituzione” che preveda la riparazione integrale dei danni provocati alla collettività. Mi è molto caro a questo proposito l’esempio biblico di Samuele che, al momento di cedere la guida del popolo d’Israele a Saul, dice: «A chi ho portato via il bue? A chi ho portato via l’asino? Chi ho trattato con prepotenza? A chi ho fatto offesa? Da chi ho accettato un regalo per chiudere gli occhi a suo riguardo? Sono qui a restituire!». La politica deve arrivare a una coscienza talmente limpida da poter guardare i giovani negli occhi senza vergogna.

E se lei fosse giovane, avrebbe ancora voglia di rimanere in questo Paese?

Quando ero giovane, il vescovo della mia città, il Cardinale Michele Pellegrino, mi ha dato fiducia, ci ha riconosciuti come gruppo quando noi stessi non sapevamo ancora bene chi eravamo. Così è nato il Sermig. Oggi i giovani si sentono persi e cercano un futuro altrove perché in Italia nessuno più investe su di loro. Piangersi addosso non serve, né rifugiarsi nello sballo o chiudersi in casa. Le cose in Italia possono cambiare con i giovani, non senza di loro. Con ragazzi che si fanno promotori del cambiamento mettendosi in gioco nella politica nell’economia, nella cultura nell’informazione, nelle tecnologie e scienze. Il Sermig si è impegnato a metterli al centro. Perciò dico loro: facciamo del nostro meglio perché possano crescere di nuovo in mezzo a noi un Francesco, un Leonardo. Grandi cuori e grandi cervelli, se le comunità cristiane mettessero, nel formare i giovani e nel formarsi, lo stesso impegno che mette un centro sportivo nel preparare i propri atleti per le Olimpiadi, nuovi Zaccagnini, La Pira, De Gasperi non sarebbero un’eccezione.

L’ultimo rapporto della Fao indica che un essere umano su otto muore di fame. Allo stesso tempo, un terzo del cibo viene sprecato ogni anno. È una delle battaglie che lei e il Sermig affrontate da mezzo secolo. Riesci a cogliere segni di speranza?

Come si fa ad accettare che ogni giorno muoiano 100mila persone di fame? La vera causa non è la mancanza di risorse, ma la cattiva distribuzione. Su questo tema stiamo lavorando ad un grande sforzo tra produttori e consumatori di prodotti agricoli. Fa la differenza non chi si ferma al “non è giusto”, ma chi “si investe” su quel “non è giusto”. Il Sermig è nato per abbattere la fame nel mondo, è partito con il poco che sapeva fare, semplicemente mettendosi in gioco. A distanza di 48 anni sono 2.971 i progetti e gli interventi di sviluppo: milioni di persone hanno aiutano e sono state aiutate da milioni di persone. Abbiamo sperimentato che la sproporzione è il terreno della Provvidenza. Ognuno di noi è chiamato a metterci sempre tutto il suo pezzo ed è allora che Dio scatena la sua Provvidenza. Non sprecare una goccia d’acqua né un pezzo di pane, è la prima attenzione che chiediamo a tutti i giovani che passano negli Arsenali. È un cambiamento di mentalità che porta a un diverso stile di vita.

La guerra in Siria continua e minaccia di estendersi. La presenza del Sermig in Giordania vi ha consentito di conoscerle da vicino. Si può ancora parlare di pace?

Pace e dialogo hanno ancora troppo poco peso nella mente e nelle scelte dei governanti, non solo in Medio Oriente. La guerra ha eserciti pronti a combattere 24 ore su 24, ha uomini, arsenali, investimenti, tecnologie, materiali e non porta la pace. Le armi uccidono quattro volte. La prima perché sottraggono risorse all’istruzione, alla sanità, allo sviluppo. La seconda perché distolgono saperi e intelligenze che potrebbero essere impiegate a servizio della vita. La terza perché vengono usate per distruggere e uccidere. Da ultimo, perché preparano la vendetta. Credo invece nella forza dell’incontro. Per favorire il dialogo non bastano convegni nei quali ognuno espone (e spesso mantiene) il proprio punto di vista. Dobbiamo sedere attorno a un tavolo disposti a cambiare qualcuna delle nostre idee. La chiave per il dialogo è una condivisione di vita che promuove il rispetto dell’altro come persona. Dal 2003 questa scommessa per noi ha preso vita a Madaba in Giordania, dove siamo presenti con l’Arsenale dell’Incontro in un ambiente a maggioranza islamica che accoglie bambini diversamente abili e racchiude la profezia di un giorno normale in cui musulmani e cristiani, nel rispetto delle reciproche identità, lavorano insieme per il bene dei loro figli. Altra chiave per la pace sono i sogni dei giovani. Qualche tempo fa a Torino abbiamo ospitato un gruppo di ragazzi israeliani e palestinesi. Pensavano di venire a difendere le proprie posizioni, invece si sono trovati a lavorare gomito a gomito per aiutare a popolazioni colpite da calamità naturali. Chinandosi insieme su chi è in difficoltà hanno dimenticato di essere nemici e si sono ritrovati con gli stessi sogni.

Paolo Lambruschi

da Avvenire: 3/11/12


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SERMIG

Francesco, il più inascoltato dei santi italiani

Al Santo di Assisi vengono dedicati romanzi, film e documentari, ma di fatto la società ne disattende e ne offende di continuo il modello e l’esempio

di Franco Cardini

 

Non so, e senza dubbio può essere una mia personale ignoranza, chi abbia mai pronunziato per primo la peraltro fortunata formula “Francesco, il più santo degli italiani, il più italiano dei santi”. Si tratta senza dubbio di uno slogan efficace: molti lo attribuiscono a Benito Mussolini, il quale effettivamente lo fece proprio fin da quando nel 1926, in coincidenza con la celebrazione del settecentenario del Transito del Povero d’Assisi, volle conferire all’evento il carattere della celebrazione nazionale segnata da una solennità paragonabile a quanto si era fatto cinque anni prima, in coincidenza con il seicentenario della morte di Dante.

Il nesso tra Dante e Francesco, a parte il celebre canto XI del Paradiso, era evidente: si tratta dei due principali fondatori della lingua e della poesia italiane, e nel processo di costruzione dell’identità nazionale necessario al consolidamento dello stato nazionale l’idioma era valore fondamentale.

E’ tuttavia credo possibile (personalmente non ho fatto verifiche) che la celebre formula sia dovuta non già a Mussolini, bensì a Vincenzo Gioberti: nel qual caso è molto probabile che essa sia stata segnalata al Duce, che la fece propria, da Giovanni Gentile il quale del Gioberti appunto era studioso. Essa è d’altronde azzeccata nella misura in cui ci si pone il problema di quando sia nata la nazione italiana, di quando si sia potuto cominciar a parlare di italiani (e non solo di “italici”, vale a dire di abitanti della penisola).

Non c’è dubbio che una nazione si definisce primariamente attraverso l’idioma: in questo senso, il Cantico delle Creature – che è tra l’altro, con la sua lode altissima al Creatore e al Creato, un perfetto e inimitabile manifesto anticataro scritto proprio in un momento nel quale la Chiesa era impegnata nella lotta (anche armata) contro l’eresia che veniva ordinariamente chiamata “albigese” – ha il valore di un vero e proprio atto di fondazione dell’identità nazionale.

Se tutto ciò non serve a comprovare che Francesco sia davvero “il più santo degli italiani” (anche perché stabilire un Guinness dell’intensità santorale resta cosa ardua se non impossibile), vale quanto meno a verificare la validità della seconda parte di quella fortunata definizione: “il più italiano dei santi”, nel senso che nessuno tra i canonizzati dalla Chiesa ha mai fatto per la lingua e quindi per l’identità nazionale italiana quel che ha fatto Francesco in quanto scrittore e poeta.

Ma da qui a ritenere che sul serio se ne possa ricavare un modello di “santità italiana”, ce ne corre. Specie adesso, in tempi di Modernità sia pure in crisi e di consumismo sia pure in pericolo. Basta riflettere: in che cosa consiste la Modernità, quanto meno quella che Zygmunt Baumann ha definito “Modernità solida”? Nata nel ‘400 – ‘500, essa non è certo priva di radici e di una qualche continuità con la storia del mondo occidentale (ch’era a quel tempo l’Europa erede della pars Occidentis configurata dall’Editto di Teodosio e segnata dalla disciplina ecclesiale romana e dall’uso liturgico, giuridico e civile della lingua latina), ma rappresenta tuttavia una vera e propria rivoluzione che ha ridefinito l’Occidente stesso.

Si può addirittura sostenere che Modernità ed Occidente moderno e contemporaneo coincidano: che, insieme, costituiscano una indissolubile endiadi e una realtà profondamente rivoluzionaria. Credo si possa adddirittura parlare di una “rivoluzione occidentale” alla base del mondo moderno: essa è anzitutto originariamente  basata su un geniale rovesciamento di rapporti tra produzione e consumo (tra XII e XV secolo si verificò un ribaltamento di piani nell’Europa occidentale, sulla base del quale non fu più il consumo a regolare i ritmi della produzione, come si era sempre verificato e avrebbe continuato a verificarsi in qualunque altra civiltà umana, bensì questa a dover seguire il trendindefinitivamente ascendente di quello in una travolgente corsa verso l’altrettanto indefinita crescita dei profitti).

Quella “rivoluzione occidentale”, accompagnata con la decisa riscoperta dei valori filosofici antichi, consentì la nascita di un individualismo sempre più assoluto e del primato dell’economia e della dimensione del progresso (le scoperte e le invenzioni) che le tennero dietro. Le basi della “rivoluzione della Modernità” furono l’individualismo – dal quale nacquero stati assoluti prima, democrazie più tardi – e la Volontà di Potenza applicata in ogni campo, dall’economico al finanziario al politico al militare al tecnologico.

Tali le forze che indussero, e che in un certo senso addirittura obbligarono, il mondo occidentale a farsi padrone della terra e dei popoli che la abitano, avviando “economia-mondo” e “scambio asimmetrico”. Tali le forze che adesso sono entrate in crisi in quella che il Baumann ha definito “Modernità liquida”, che le contesta, mostra di non confidare più in esse ma al tempo stesso ha difficoltà a sostituirle con altri valori, con altri obiettivi.

Ebbene: se è così, il Povero di Assisi fu un santo radicalmente antimoderno, sia pur ante litteram. Quando si parla della “povertà francescana”, si dimentica spesso quel che mi sembra fra tutti gli studiosi del nostro tempo sia stato sottolineato con energia, fermezza e lucidità speciali da Giovanni Miccoli: la paupertas francescana, esattamente in linea con il “Discorso delle Beatitudini” di Gesù, è non già semplicemente egestas, non già puro e limitato rifiuto della ricchezza materiale, bensì totale e radicale rinunzia a qualunque tipo di Volontà di Potenza individuale; a partire dalla sapienza e dalla cultura, a loro volta forme fondamentali di ricchezza e di potere.

Ma appunto in ciò il modello e l’esempio di Francesco colpiscono la radix omnium malorum della Modernità, ch’è in ultima analisi il culto sfrenato e unilaterale di qualunque forma di individualismo e di Volontà di Potenza. Il “farsi pusillo” di Francesco, il proclamarsi Ultimo, il mettersi al servizio degli Ultimi, configura non solo una teologia ma soprattutto un’antropologia  in totale, assoluto e insanabile contrasto con quanto è prevalso in Occidente nell’ultimo mezzo secolo e con quanto il travolgente e prepotente revival liberal-liberistico postmoderno va proclamando da alcuni anni a questa parte.

Francesco va di moda: gli si dedicano romanzi, films, “originali” televisivi. Va di moda in una società che, di fatto, ne disattende, ne offende e ne calpesta di continuo il modello e l’esempio. La Modernità può essere anche “cristiana” e “postcristiana” nelle forme, nelle consuetudini e nell’esteriorità; può confondere la carità con l’umanitarismo e l’altruismo che ne sono  patetica e superficiale caricatura; ma è radicalmente antifrancescana in quanto è radicalmente cristiana, e non ci sono “cristianisti”, non ci sono “atei devoti” che tengano.

E’ antifrancescana, e come tale anticristiana, in quanto sostituisce sistematicamente e irremissibilmente l’Ego a Dio, in quanto predica libertà religiosa e tolleranza solo in quanto legittimazioni di un sistema civile, sociale, morale e intellettuale di vita da viversi etsi Deus non daretur. E’ antifrancescana, e come tale anticristiana, in quanto sostituisce sistematicamente il fiat voluntas Tua del Pater Noster con un blasfemo fiat voluntas mea.

In questo senso, Francesco d’Assisi può anche essere il più affascinante e il più amato dei santi: ma resta anche il più disatteso, il più tradito, il più inascoltato. Se non si capisce tutto questo, il solenne scenario di ogni 4 ottobre ad Assisi diventa un’oscena e blasfema parodia. Se lo si capisce, da qui deve cominciare la Rivoluzione.

I Santi, modelli efficaci per la nuova evangelizzazione

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 31 ottobre 2012 (ZENIT.org) –


I santi sono dei “modelli efficaci” per la Nuova Evangelizzazione. Lo afferma il Sinodo dei vescovi nella Proposizione 23 consegnata a papa Benedetto XVI.

“La santità – si legge – è una parte importante di ogni impegno evangelizzatore per colui che evangelizza e per il bene di coloro che sono evangelizzati”. Si tratta di un messaggio che è in perfetta armonia con la festa di Tutti i Santi, che la Chiesa celebra domani, 1° novembre.

I padri sinodali dedicano l’intera Proposizione 23 alla santità dei nuovi evangelizzatori. “La chiamata universale alla santità è costitutiva della Nuova Evangelizzazione, che vede nei santi dei modelli efficaci della varietà di forme in cui questa vocazione può essere realizzata”, scrivono i padri sinodali.

“Ciò che è comune nelle diverse storie della santità è la sequela di Cristo; essa si esprime in una vita di fede attiva nella carità che è una proclamazione privilegiata della Chiesa”, continuano i padri.

Il Sinodo individua nella Vergine Maria il modello di tutti i santi: “Noi riconosciamo in Maria un modello di santità che si manifesta negli atti di amore, che vanno fino al dono supremo di se stesso”.

La Proposizione 22 evoca la “conversione” e il “rinnovamento nella santità” necessario nei nuovi evangelizzatori. “Il dramma di sempre e l’intensità dello scontro tra il bene e il male, tra la fede e la paura, dovrebbero essere presentati come il fondamento essenziale, un elemento costitutivo della chiamata alla conversione a Cristo”. Questa lotta prosegue a un livello naturale e soprannaturale. “Ma quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” (Mt 7,14).

Numerosi vescovi hanno parlato del bisogno di un rinnovamento nella santità della loro propria vita, se vogliono essere degli agenti veramente efficaci della Nuova Evangelizzazione.

I padri sinodali insistono sulla necessità di questa “conversione personale e comunitaria”, e anche di una conversione “pastorale”.

[Traduzione dal francese a cura di Paul De Maeyer]

Dal Convegno CEI: “Famiglia, lavoro, festa.. tre doni”

Famiglia, lavoro, festa: realtà, anzi “doni” che devono trovare un loro equilibrio per una vita dignitosa. Il tema è stato posto all’ordine del giorno ieri, nella seconda giornata del convegno nazionale dei direttori diocesani della pastorale sociale, in corso a Bari (dal 25 al 28) per iniziativa dell’Ufficio Cei per i problemi sociali e il lavoro.

L’autunno e le radici. “Coniugare fede e vita, la Bibbia con il giornale” è l’indicazione “pastorale” data da mons. Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Bojano e presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro. L’arcivescovo ha evidenziato il bisogno di un “ritorno alla fede e all’etica”. Il nostro tempo, ha osservato mons. Bregantini, può essere paragonato alla stagione autunnale, nella quale cadono le foglie, “ma l’albero non muore se mantiene le sue radici”. L’autunno è anche il tempo della semina, “momento per essere intraprendenti e consapevoli”. In questa realtà come porre i tre “doni di Dio”: famiglia, lavoro e festa?

“La famiglia – ha risposto il presule – non può essere concepita senza gli altri due doni, che vanno visti come due grandi ali, dove lavoro è sinonimo di dignità mentre festa di gratuità, e per poter volare servono entrambi”. “Famiglia, lavoro e festa non possono essere lasciate a se stesse, richiedono un lavoro pastorale fiducioso e propositivo”, ha precisato mons. Giovanni Ricchiuti, vescovo di Acerenza e segretario della medesima Commissione Cei.

Vera Negri Zamagni, docente di storia economica all’Università di Bologna, ha ricordato come “attraverso il lavoro le persone partecipino all’attività creatrice di Dio”, annotando però che “il lavoro è un diritto molto particolare”, per il quale “non basta una legislazione”.

Nel tempo e nello spazio. Per Francesco Belletti, presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari, “famiglia e lavoro vanno considerati come due alleati, due luoghi nei quali si costruisce il concetto di adulto e, in particolare, di adulto educato alla fede”. “Quando si parla di famiglia e lavoro – ha sottolineato – imprescindibile è l’inserimento nel tempo e nello spazio”. Il tempo, perché “le società devono pensare prima di tutto per generazioni, avendo come primo obiettivo un progetto sociale ambizioso”. “Per esempio – ha precisato – alcune grandi aziende hanno proposto d’inserire un part-time per le persone prossime alla pensione, agevolando così l’assunzione dei giovani”. Ma anche considerare il tempo in relazione all’agenda quotidiana, “permettendo di armonizzare il lavoro con le esigenze della famiglia”.

Poi lo spazio, che va visto – ha rilevato il presidente del Forum – come l’insieme di “luoghi relazionali”, poiché “le persone si riconoscono nei luoghi che frequentano”. Ed è per questo che, a suo avviso, andrebbe rilanciato il concetto di “localismo”, visto però non in maniera “competitiva e conflittuale, ma finalizzato alla costruzione del bene comune”.

Famiglie sempre più povere. Andando ad analizzare, dati alla mano, il rapporto tra distribuzione del reddito e famiglie, l’economista Luigi Campiglio ha rilevato che “la riduzione del reddito familiare è oggi uno dei problemi più delicati e sensibili per la ripresa economica del Paese”. Il “reddito disponibile per le famiglie – ha illustrato Campiglio – è in diminuzione già dal 2002”; nel 2010 “il 20% delle famiglie con redditi elevati ha generato il 64% del risparmio”, mentre “la quota d’indebitamento è aumentata”. “Il fatto che la famiglia non venga considerata un centro di decisione economica per la spesa – ha precisato – è un errore gravissimo perché depotenzia ogni politica economica, che pensa ai singoli individui quando a decidere è proprio la famiglia”. D’altra parte, pure la situazione giovanile è “sofferente” già da prima della crisi, come ha notato Carlo Dell’Aringa (docente di economia politica alla Cattolica) e il rischio è “che le situazioni s’incancreniscano”, creando nei giovani “ferite che difficilmente si rimarginano”.

Il valore della maternità. Sul dato demografico si è concentrata Barbara Imperatori, docente di economia aziendale all’Università Cattolica, che ha sottolineato il basso tasso di occupazione femminile del nostro Paese. “Purtroppo in Italia ben il 76% dei top manager percepisce la maternità come un inconveniente, con un relativo aumento dei costi e una diminuzione della produttività”. Non a caso sono sempre di più le donne che abbandonano il lavoro dopo una gravidanza, mentre coloro che restano rilevano un forte grado di conflittualità interna. Sulla base di un progetto di ricerca portato avanti da Imperatori emerge però che, in realtà, la maternità può essere un’opportunità per l’azienda più che un limite, ma questo implica “una rieducazione del datore di lavoro e del sistema aziendale”. “Se le future madri si sentono supportate dai loro capi e possono contare su un dialogo trasparente e costruttivo i costi si abbassano notevolmente”.

Torna quindi, il concetto di “flessibilità”, più volte emerso nel corso di queste giornate, secondo il quale “bisogna tener conto anche delle esigenze dei lavoratori, superando i rapporti conflittuali in favore di alleanze costruttive”.

a cura di Nike Giurlani e Francesco Rossi, inviati Sir a Bari