Zaccheo, scendi subito!

Come secondo spunto di riflessione sulla figura di Gesù proponiamo nell’ambito della spiritualità l’incontro con Zaccheo: dà la misura del significato che assume per un uomo l’incontro con Gesù. 

 

 Zaccheo, scendi subito!

L’incontro: Zaccheo   (Lc. 19, 1-10) 

Certo Zaccheo non si è risparmiato…

La ‘arrampicata’ sul Sicomoro non era un gesto di grande dignità per un uomo del suo rango…  In fretta scese e lo accolse pieno di gioia.

 

Ma neppure Gesù lesina i suoi gesti.

Zaccheo è un uomo disprezzato ed inviso; quanti in Gerico sarebbero onorati e  vorrebbero Gesù in casa propria; ma egli sceglie la casa di Zaccheo; predilige la sua compagnia, pranza con lui.

Singolare e suggestiva scena di incontro…

Di cui i… benpensanti si rammaricano. Tutti mormoravano: “E’ andato ad alloggiare da un peccatore!”

La gioia di Zaccheo trabocca. La passione per i soldi è finita; irrompe la compassione e la premura per i diseredati; la volontà di risarcire con munificenza quanti ha defraudato.

Gesù l’ha privilegiato. Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto, risuona alta nella casa del pubblicano la risposta.

Forse quest’uomo viveva attanagliato dal guadagno; Gesù che appare sulla scena lo incuriosisce, forse lo muove a riflessione…

Bisogna vederlo, questo Gesù! Bando alle remore per il decoro e l’onorabilità: il sicomoro consente uno sguardo privilegiato sopra e oltre la folla, e Zaccheo vi si arrampica senza troppi indugi…

Un gesto che dice qualcosa di più della pura curiosità: quella di Zaccheo è attesa, forse indefinita, ma profonda e coinvolgente.

I gesti di Gesù, le sue parole, la sua considerazione; la scelta di dimorare nella sua casa non lo convince, lo sconvolge; gli cambia la vita.

Il denaro, il possesso, al vertice delle sue ambizioni, è sacrificato con trasporto, con una magnanimità piena di gioia.

L’incontro con Gesù cambia tutto per Zaccheo: il confronto con le cose e le persone; cambia la vita, la fa testimone di pienezza e di disponibilità: la rende felice!

 

Il significato

Zaccheo è cambiato: ha trovato la risposta; l’unica vera e appagante.

Il banchetto intende proclamarlo con la gioia prorompente, la partecipazione corale, la condivisione nell’amicizia…

La Sua presenza , i segni toccanti della Sua predilezione sono una ricompensa che non ha l’eguale. Zaccheo ha cambiato vita; ha pagato a prezzo esorbitante la sua conversione; ha incrociato l’unico con cui condividere tutto con la passione del primo o forse meglio dell’unico appuntamento, che la vita si attende.

 

La felicità di Zaccheo tace della gioia di Gesù.

Oggi la salvezza è entrata in questa casa perché anch’ egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’ uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto (9-10).

Dio, Gesù, non vanno dimenticati, né va trascurata la gioia che l’incontro sottende anche in loro: forse soprattutto in loro. Il Vangelo ne dà conferma:

– Il Padre che abbraccia il figlio scapestrato al ritorno;

– Il pastore che ritrova la pecorella;

– Gesù che accoglie la peccatrice in casa di Simone…

Dicono la gioia di Dio: cosa può attendersi Gesù di più appassionante che vedere l’esattore esoso ed inviso  distribuire i propri beni e spalancare la sua casa; che accogliere  la donna perduta e disprezzata al banchetto della festa e alla pienezza dell’incontro? 

A confronto con il mistero.

L’esperienza ermeneutica nella ricerca religiosa

Il linguaggio su Dio è segnato naturalmente dalla sensibilità  culturale del tempo. Molti sono i modi di dire Dio privilegiati nella tradizione. In ambito occidentale e cattolico è prevalso l’aspetto razionale. Specialmente il riferimento alla constatazione immediata della realtà sensibile – sensuconstat – è stato alla base di una rigorosa argomentazione – la prova – dell’esistenza di Dio.

           L’orizzonte ermeneutico, che questi interventi privilegiano, sposta l’attenzione dalla dimostrazione razionale  alla significatività esistenziale. A fondamento si questa impostazione sta un concetto di verità fortemente innovativo; tende a ripensare l’accesso stesso alla verità; a interpretarla in dimensione ermeneutica, come emergenza e manifestazione del reale.

            In ambito religioso la stessa impostazione impone un’esplorazione attenta del vissuto credente. La riflessione tende cioè ad esplorare il rapporto con Dio in tutta la provocazione esistenziale che comporta: è meno preoccupata della fondazione razionale, del resto indispensabile, mostrandosi invece più sollecitata a misurare la novità appassionante di un rapporto che affiora nell’esistenza, la celebra e ne risulta a sua volta celebrato.

1.1. Il processo interpretativo nell’esperienza[1]

–           Ho l’impressione che il mio orologio vada a rilento.

–           Attendo che il campanile batta le ore e verifico.

–           Sì, ritarda di alcuni minuti…

–           Dovrò farlo regolare!

Ho constatato un piccolo disguido; ho preso coscienza che il mio orologio non funziona regolarmente. Ho deciso di farlo controllare. Un fatto semplicissimo, un’esperienza consueta che già consente di interpretare un processo normale in atto.

I casi sono di solito più complessi e coinvolgenti, magari rivelativi di situazioni drammatiche che incombono. Ancor più frequentemente si danno atteggiamenti esistenziali, banalizzati dalla consuetudine quotidiana. Prendiamo il caso della moglie che pensa al marito in termini di sicurezza economica: è colui che dispone di una somma notevole in banca o che al 27 del mese porta la busta… Può darsi che riflettendo con calma si renda conto di averlo ridotto ad una pura funzione materiale e sappia prendere coscienza che la sua presenza è fonte di sicurezza, ragione di dialogo, di comunicazione. Può anche darsi che la moglie  arrivi finalmente a ricuperare il significato esistenziale pieno di lui come persona, scelta a compagno di vita, partecipe di un progetto magari ambizioso, che orienta l’esistenza reciproca. Questa donna va man mano scoprendo il significato autentico di una presenza che la routine rischia di semplificare eccessivamente. Può ricuperare la dimensione esistenzialmente appassionante di un rapporto umano restituito alla sua verità.

Questa ed altre possibili esemplificazioni tratte dalla consuetudine quotidiana lasciano affiorare l’impegno ad interpretare la vita concreta, le situazioni reali per quello che sottendono; orientano ad esplorare l’esperienza in tutto lo spessore che l’attraversa; consentono di avvertirne la risonanza esistenziale. Sollecitano una ricerca che tende a dare rilevanza autentica alla verità delle cose per tutto l’impatto che hanno sulla persona.

Rispetto alla riflessione tradizionale si è operato un cambiamento importante: la verità non è tanto adeguazione fra la cosa e la rappresentazione che la persona se ne fa; è piuttosto manifestazione, emergenza dello spessore che la situazione reale comporta, per tutto l’impatto che sottende all’esistenza.

L’esperienza si è rivelata portatrice di uno spessore singolare che le  ricerche, soprattutto recenti sul linguaggio, hanno consentito di sondare.

 

1.2.  La trascendenza presagita nel mistero 

La singolare pienezza e novità in cui è percepita ed esplorata l’esistenza nella riflessione recente s’affaccia sull’orizzonte alternativo; evoca una presenza nascosta e fondante; fa appello alla trascendenza.

Un appello che tuttavia non è obbligante. Ciò che forse caratterizza l’incontro della riflessione recente – specialmente esistenziale e fenomenologica – con la trascendenza è una marcata connotazione di libertà. Non nel senso che risulti arbitrario affermarla o negarla; piuttosto perché il progetto stesso esistenziale è segnato dalla libertà: su questa base interpreta e si interpreta; si orienta e decide.

L’affermazione del fondamento non è logica conclusione di un ragionamento astratto: è esistenziale consapevolezza d’una presenza presagita e riconosciuta.  L’uomo può sentirsi “gettato” nel mondo o “chiamato” all’esistenza.  La trascendenza dell’essere è percepita in tutta la sua alterità: l’orma che di sé  ha impresso nel mondo è ambivalente: lo rivela e lo nasconde. La ragione può trovarsi sconcertata dal nascondimento o sollecitata dalla rivelazione: denunciare l’assurdità e l’inconsistenza del progetto umano, dove non ne vede lo sbocco e ne misura lo scacco –  essere per la morte – ; o presagirne il senso e la pienezza dove avverte di poterlo ancorare ad una presenza ultima e appagante – esistere per l’incontro –.

La prima condizione del linguaggio religioso è l’opzione per la trascendenza, come misteriosa presenza su cui il progetto dell’uomo può dispiegarsi in una vitalità che attinge a risorse inesauribili. Un’opzione tuttavia che non è mai affermazione astratta, ma percezione vissuta: garanzia di stabilità e di approdo.

Il linguaggio religioso esplora e comprende la realtà – anche quella materiale – animata e fermentata da una trascendenza che l’attraversa e la vivifica. “La natura è piena di dei”; il “logos” anima la realtà materiale già nell’originaria riflessione occidentale.  «I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento» nella più consapevole e perentoria attestazione biblica (Sal 19).

L’uomo può sentirsi “spaesato” in questa immensa dimora che lo accoglie; ma può anche sentirsi “ospitato” in una casa fatta sulla sua misura e che tuttavia non è opera delle sue mani. Perciò l’intera realtà è invito suadente a riconoscervi una presenza misteriosa e ad invocarla.

Il linguaggio religioso instaura dunque un rapporto nuovo con il mondo: l’uomo vi abita in attesa di un incontro, per prepararlo. Secondo l’immagine suggestiva che la Bibbia ci ha tramandato, l’uomo considera l’universo come un immenso giardino che gli è stato affidato, su cui ha piena signoria, per quanto la fatica di dissodarlo e di asservirlo non riempia la sua attesa, né le sue aspirazioni.

 

2.  DIRE DIO NEL CONTESTO ATTUALE

 

2.1. Molteplicità delle manifestazioni di Dio

L’affermazione è data a partire da una doppia considerazione, che richiamiamo:

–           la realtà, creata da Dio, ne porta il segno, è costitutivamente relazionata a Lui; cosicché la ricerca può legittimamente tentare di decifrare un rapporto già in atto;

–           l’uomo è dotato di una risorsa capace di leggere in profondità le cose e svelarne la relazione  con il creatore che le costituisce.

Dunque, presupposto fondamentale è l’atto creatore; l’intervento di Dio all’origine, di cui la realtà porta il segno. 

Il presagio da cui muove la ricerca umana suppone quella traccia lasciata dal creatore sulla creatura al momento in cui l’ha costituita e continua ad alimentarne l’esistenza. Dire-Dio comporta quindi:

–           che i segni della presenza creatrice siano impressi nella bellezza e nella maestà della natura, tanto da renderla potente e suggestivo richiamo ad una maestà definitiva;

–           che la straordinaria forza evocativa di cui l’uomo dispone sia in grado di presagire e di chiamare per nome, insomma di rivelare la verità costitutiva della creazione.

La fede è depositaria di questo sguardo penetrante e rivelativo della verità delle cose: passa dai segni alla presenza; legge la verità della creazione nella misteriosa risorsa che la costituisce. 

Il volto di Dio non corrisponde al volto dell’essere, ma è vero che il volto autentico dell’essere lo testimonia, lo lascia presagire. Cosicché la realtà anche materiale può segnalarlo ad una coscienza avvertita, capace di darvi risonanza.

Il ritorno all’interiorità, la chiara presa di coscienza del presagio che le cose sottendono, diventa traccia privilegiata all’incontro con Dio. Anche se va mantenuta la differenza  fra ricerca filosofica e religiosa, in quanto l’una tende a darsi ragione e l’altra tende a vivere la pienezza dell’incontro. Anche se, e soprattutto, va salvaguardata la differenza fra essere e Dio.

La trascendenza di Dio – il suo essere totalmente altro dalla creazione – è la premessa per salvare la religione da ogni rischio di indebita identificazione di Dio con la realtà.

 

2.2. Presupposti dell’elaborazione esistenziale

–           Il problema non è la prova ma l’incontro”.

Per dire-Dio non è tanto questione di affermarne o dimostrarne l’esistenza, quanto di esplorare il rapporto sotteso, che vivifica e rende straordinario l’incontro.

La pista della razionalità rigorosa a base dell’affermazione dell’esistenza di Dio, per lunga tradizione perseguita con piena credibilità, lascia oggi margini di perplessità.

L’ambiguità sta nel termine stesso di “oggettività”. Sotteso, rischia di affiorare il sospetto di oggettività sensibile–verificabile. Il pregiudizio scientista di riportare ogni affermazione sensata alla verifica empirica o alla falsificabilità compromette radicalmente il discorso su Dio.

Assai più fidata e credibile, si è venuta impostando la ricerca esistenziale che ha saputo ancorarsi alla realtà e, di conseguenza, garantirsi la verità delle proprie conclusioni. 

–           Il pensiero e la realtà.

Il pensiero è di sua natura orientato alla realtà.[2] Che tuttavia non è affatto riducibile al dato sensibile, per quanto il dato sensibile stesso venga riconosciuto fondamentale per l’elaborazione del pensiero, nella sua prerogativa di spaziare su tutte  le dimensioni della realtà, fino ad attingere il suo fondamento.

–           L’esperienza del singolo a  perno della riflessione.

Inoltre, nell’impostazione esistenziale l’esperienza del singolo assurge a perno della riflessione. Ma l’esperienza del singolo è iscritta in una storia di cui egli fa parte, che quindi l’individuo non può presumere di analizzare “oggettivamente”, con il distacco dello spettatore. Tanto più che nella considerazione dell’esperienza la storia risulta la “mia” storia, della quale faccio parte integrante, in cui sono coinvolto.

Allora ogni ricerca cessa di essere un problema che mi è estraneo; sono costretto a considerarlo un fatto che mi tocca da vicino, che non posso mai considerare oggettivo; cammina con me, si modifica man mano che mutano i miei punti di vista. 

La realtà, che pure sono in grado di conoscere, assume uno spessore su cui il procedimento razionale anche rigoroso non ha presa: dovunque sono coinvolto, il problema si apre al mistero che fascia l’intera realtà. Di questo mi rendo conto proprio prendendo atto di me stesso.

–           Il ridimensionamento dell’aspetto razionale.

Tanto più che, dovunque sono coinvolto, l’aspetto razionale risulta ridimensionato. Infatti, oltre lo sfondo della razionalità si impone la risonanza emotiva, si staglia netta e risolutiva l’esigenza della libertà. A livello esistenziale l’ultima parola sembra rivendicata non dalla chiarezza della comprensione ma dalla imprevedibilità della decisione.

Nel caso di Dio, la ragione conserva tutta la sua forza, ma non è risolutiva. L’argomentazione è importante, ma non obbligante. L’affermazione di Dio, con il peso enorme che sottende sulla vita del singolo, si gioca su un retroterra esistenziale di uno spessore straordinario. La responsabilità di ciascuno conserva margini di libertà decisivi.

 

2.3. Un volto alla trascendenza    

Il tema della trascendenza resta da impostare in maniera esistenziale, cioè:

–           come dato connaturale e costitutivo del vivere umano,

–           insito nell’esistenza ed da questa emergente come presagio.

S’impone l’analisi di ciò che sono e dei richiami interiori da cui sono attraversato e che sono da esplorare e identificare.

Dentro questi potrò cogliere un richiamo che mi supera e che può trasfigurasi in appello e quindi in affermazione implicita di una presenza più intima a me di me stesso, cui sono sollecitato a rispondere.

Su questa pista l’affermazione di Dio assume un’altra logica.

Non è la ragione – il cosmo e l’argomentazione sul cosmo privilegiata dalle “vie” tradizionali – ma è la coscienza di quanto si vive, l’analisi dell’intuizione esistenziale che porta il richiamo di Dio e consente di affermarlo. Non il fatto di provarlo ma di “constatarlo” diventa decisivo; s’impone la correttezza dell’analisi soprattutto interiore, con i suoi apporti e i suoi limiti da evidenziare. 

Dunque non è in gioco tanto una prova dell’esistenza di Dio, ma l’orma, il presagio della sua presenza da sondare, al cuore stesso della percezione del mistero.

È all’interno dell’analisi del mistero che la sua presenza può imporsi, nella libertà di accoglierlo o di negarlo. Si tratta dunque di una “prova” piuttosto singolare: si tratta di riconoscere il mistero nel quale sono immerso; di rendermi disponibile all’analisi delle condizioni reali di possibilità che vi danno consistenza.

Se l’uomo è immerso nel mistero ha ancora senso parlare di autonomia? Ha senso parlare di libertà: di accogliere o di rifiutate il mistero e colui che lo abita?

Emerge una libertà situata ed ancorata all’essere nel mistero. E tuttavia chiamata a deciderne il riconoscimento o il rifiuto; un atto che richiede la decisione di accogliere o di rifiutare e vi conferisce il suo significato esistenziale.

Non è la ragione che cerca Dio; è l’esistenza che anela all’incontro con Dio.

Donde la saggezza nel maestro dell’apologo orientale, dove si parla di un discepolo alla ricerca di Dio che domanda: «Come posso incontrare Dio?». Il maestro tace, nonostante la comprensibile insistenza del discepolo. «Andiamo al fiume», riprende finalmente il maestro. Si tuffano e mentre nuotano uno accanto all’altro, il maestro preme vigorosamente la testa del discepolo sott’acqua, vincendone la disperata resistenza. Tornati finalmente a riva il discepolo chiede sconcertato il significato del gesto. «Cosa cercavi disperatamente sott’acqua?», chiede il maestro. «L’aria», risponde pronto il discepolo. «Bene, così dovrai cercare Dio, se vuoi incontrarlo!», suona laconica ma perentoria la risposta del maestro.

 

3. UN LINGUAGGIO PER SONDARE IL MISTERO

 

3.1. Un volto al presagio

Al cuore della ricerca sta dunque l’esistenza, espressa in una molteplicità di situazioni, consapevole dello spessore che l’attraversa. In particolare segnata dal rapporto con la trascendenza, che la riflessione dichiara oscura e che la fede privilegia. Si impone la domanda: quale linguaggio interpreta la trascendenza stessa e la esprime; come accedervi?

 

3.2. Lo spessore dell’esperienza 

Il singolo ha fame, cerca un’abitazione, desidera essere accolto… Il vissuto immediato ha uno spessore straordinario, che precede ogni riflessione: è esperito prima di essere capito e decifrato. E prima di venire decifrato ha già un senso esaustivo, nella gioia di vivere, di partecipare, di trovare soddisfazione ai bisogni più elementari e continui; tanto più se l’esperienza dischiude un rapporto di persone che si cercano e si amano.

Non è mai misurabile l’attesa e la speranza con cui due persone si aspettano e si incontrano. Com’è difficile descrivere il margine di delusione e di amarezza che segna un incontro, anche riuscito! Torna la verità di un’aspirazione interiore che la vita costantemente delude. Che può assurgere a grande allusione, a presagio di trascendenza, radice esistenziale ultima della ricerca religiosa.

Sfumature e spessore che si ribellano alla razionalizzazione disegnano uno spazio che il linguaggio tenta di interpretare; che comunque resta sempre insondabile.

La ricerca scientifica può facilmente definire il proprio ambito e identificare la propria demarcazione.[3] La chiave e il segreto della scienza, sta proprio nel definire con chiarezza un aspetto specifico da verificare, che risulti falsificabile.

La riflessione esistenziale, invece, si apre sull’intero orizzonte della vita. La sua demarcazione raccoglie e organizza aspetti molteplici, di cui la puntualizzazione razionale è solo l’iceberg; soggiacenti ci sono diramazioni e componenti illimitate e perciò indecifrabili. La ricerca scientifica può essere rigorosa; la riflessione esistenziale – che non prescinda dal vissuto – si rifiuta al rigore della razionalizzazione. L’esperienza empirica è verificabile; l’esperienza esistenziale è inverificabile.[4]

La scienza procede nell’ignoto; la filosofia, la religione, l’arte… si addentrano nel mistero. Esplorano ambiti diversi, si avvalgono di un linguaggio specifico, per lo più reciprocamente incomparabile.

Si tratta allora di mettere in atto un procedimento coerente e integrale: esplorare l’esperienza per sondarne tutti i richiami; anche quello specificamente religioso, dove emerge e si impone alla considerazione.

È un procedimento che potremmo definire “esistenziale”, senza volerlo ancorare obbligatoriamente a qualcuna delle scuole che hanno segnato recentemente questa riflessione. Il nodo della ricerca sta in un’esigenza di analisi aperta dell’esperienza, senza prevenzioni o strettoie, per raccogliere tutte le sollecitazioni che vi affiorano.

La prima sollecitazione riguarda la condizione stessa da cui la ricerca prende l’avvio. L’analisi dell’esperienza tiene conto che vi siamo coinvolti in prima persona: non può costituire una ricerca distaccata e  oggettiva.

Inoltre, a sua volta, l’esperienza comporta una gamma innumerevole di rimandi, che le conferiscono uno spessore pressoché impenetrabile. Risalendo man mano i rimandi, di cui è intessuta, ci si affaccia ad un mondo che sconfina nel mistero.

Si può dire che ne portiamo l’intuizione profonda e suggestiva ad un tempo: riportata al suo asse si concentra sulla domanda: chi sono? Precisamente questo interrogativo induce a riconoscere che la mia esistenza resta avvolta di mistero: alla sua origine e soprattutto, in forma più conturbante, nel suo destino.

 

3.3. Il rifiuto della finitudine 

La riflessione attorno a qualunque esperienza umana profonda avverte  richiami penetranti e non eludibili. E questo, a partire dalle sensazioni più consuete:

–           la salute che oggi si gode non è esente da una sottile trepidazione per il futuro immediato e lontano;

–           l’amore come disponibilità e attesa non è mai garantito del tutto: l’indifferenza o il tradimento lo insidiano;

–           le realizzazioni più ambiziose nell’ambito dell’essere come dell’avere lasciano sempre un margine inappagato.

Anche più profonda e tenace è l’insoddisfazione per la statura conseguita, per la sincerità e la trasparenza con cui si vive. Lo scarto fra la vita e la speranza, fra il desiderio e l’attuazione, fra l’attesa e la risposta sembrano dilatarsi man mano che l’esistenza avanza.

Buber l’ha rilevato con chiarezza:  l’ha soprattutto attribuito alla situazione contemporanea – alla sensibilità tipica di un’epoca storica –, in cui l’uomo risulta privo di una “casa” che gli consenta stabilità. E certo ha colto nel segno dove ha voluto sottolineare che la nostra è epoca di transizione, che vede scompaginati i riferimenti tradizionali e  sconcertate le prospettive.

E tuttavia la sua annotazione non si riduce al dato esteriore. Una casa, per quanto grande e spaziosa non è la risposta; anzi non è neppure la domanda: è solo un simbolo. Già il saggio antico ha visto bene, dove ha misurato l’irraggiungibilità di una condizione interiore finalmente placata e paga (Marco Aurelio).

Questa serenità definitiva è aspirazione che il saggio non  sa tacitare. Attraversa l’esistenza e, forse più veramente, la fermenta. Rileva quel margine di inquietudine, di insoddisfazione che si apre sulla dignità dell’uomo: mai pago, più grande di qualunque statura conseguita, proprio perché non c’è statura che esaurisca la sua misura.

Nell’apologo  così semplice e suggestivo posto a perno dell’interpretazione che Pico della Mirandola propone nel suo celebre discorso sull’uomo, resta adombrata la ragione definitiva dell’anelito inappagato.

Affidato dal Creatore alla propria completa  responsabilità non gli è stato assegnato nessun limite come invalicabile: piuttosto gli è stata data una consegna di perfezione illimitata.[5] Il Vangelo lo ribadisce con perentoria chiarezza: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).

Un compito esigente e una consegna ambiziosa: segnano l’esistenza così profondamente che l’ultimo ritocco non è mai dato; perciò ogni realizzazione  risulta parziale e insoddisfacente: lascia sempre un margine non raggiunto, eppure proposto e perciò ambito. 

La riflessione credente ne ha fatto  da sempre – non solo nel cristianesimo – il riferimento decisivo. Le parole di Agostino – «il nostro cuore è inquieto finché non si placa in Te» – hanno trasferito in linguaggio lucido e consapevole la sensazione che in termini indefiniti e vaghi  attraversa l’esperienza di tutti.

 

4. UN MISTERO DA ESPLORARE 

Il procedimento che si innesta è allora un percorso induttivo che prende sul serio l’esperienza umana e vi presagisce dimensioni molteplici; alcune delle quali si portano sul versante del mistero e della trascendenza.

Tale procedimento, affidato alla riflessione, può concludere legittimamente ad una presenza trascendente insita nell’esistenza. Il credente è colui che vi ha dato la propria adesione con un gesto gratuito e libero; che tuttavia potrebbe anche essere ripercorso con rigore e trovare piena legittimità razionale.

Per il credente c’è chi accoglie la sua invocazione: lo sa; anche se non sarà mai in grado di verificare scientificamente o di dimostrare razionalmente che il suo appello è stato recepito. Su questa consapevolezza poggia l’atteggiamento di fede: fonda un rapporto singolarissimo che legittima il dialogo religioso oltre i limiti della scienza e oltre le strettoie della filosofia.

Tutte le indagini che l’uomo fa sulla natura non s’imbatteranno mai nella constatazione di una presenza che per definizione è trascendente e quindi altra da ogni rilevamento empirico possibile.  Così, tutte le ragioni che si adducono possono solo legittimare l’affermazione della trascendenza. Caso mai, quando questa venga postulata come orizzonte alternativo, le analisi scientifiche e le considerazioni razionali potranno darvi ulteriore conferma e comprensione. Come è chiaro che precisamente l’orizzonte di fede popola la natura e investe la ragione di un riferimento altrimenti inavvertito.[6] 

 

4.1.  Quale linguaggio per sondare il mistero?

Anche in queste annotazioni, il linguaggio si è progressivamente portato su aspetti specifici.

Si è innanzitutto trasferito dal confronto con la realtà esteriore, constatata nella sensazione, all’interiorità della persona, esplorata nelle intuizioni che la segnano e non trovano legittima spiegazione nella persona stessa; donde il passaggio razionalmente richiesto di portarsi su un versante alternativo, postulato più che constatato.

Dio non risulta tanto garantito dalla dimostrazione razionale; è richiesto piuttosto dall’esplorazione esistenziale. La trascendenza è chiamata in causa perché l’esistenza non si giustifica, né è in grado di spiegare se stessa.

E tuttavia è vero che questa realtà, cui sembra indispensabile fare appello non si può constatare, non si avverte direttamente. Appare avvolta di “mistero”. E impone la domanda se sia possibile identificarla, chiamarla per nome…

Comunque è chiaro che i nomi di cui disponiamo non le si addicono.

Il linguaggio è dunque sfidato su una dimensione specifica, sulla quale falliscono i procedimenti propri dell’indagine scientifica e dell’argomentazione razionale. 

Il linguaggio religioso punta al… mistero e presume di poterne parlare  in termini che abbiano senso.

Negativamente è chiamato in causa perché gli altri linguaggi risultano spuntati; l’esistenza è assillata da spiegazioni che i vari versanti della ricerca umana non sono in grado di  soddisfare.

Più profondamente l’uomo è sollecitato da una presenza che resta avvolta di mistero; gli parla in maniera profonda e suadente, ma non lo costringe; gli si rivela in un richiamo ineludibile, proposto tuttavia alla sua vita; suscettibile di adesione e di rifiuto. L’orizzonte della ricerca religiosa si colloca così sul fronte del mistero; il suo compito  resta quello di darvi volto e nome.

Le indicazioni forse più pertinenti ci vengono dalla riflessione religiosa recente.[7] Si tratta di chiamare per nome, di conferire volto ad una presenza che si impone come mistero in cui la vita è immersa.

La dimensione religiosa sembra affiorare dove l’uomo prende coscienza di una presenza arcana con cui è in una relazione radicale e ultima. Dove tale intuizione viene decifrata e si tenta di chiamarla per nome sembra potervi conferire volto personale e appagante; rappresentare il riferimento e custodire la risposta.

L’esperienza concreta che viviamo può essere ripercorsa sull’onda del richiamo interiore, come sulla traccia delle acquisizioni culturali di cui disponiamo.

 

4.2. La traccia privilegiata

L’atto religioso analizzato nella sua più profonda istanza è aspirazione al rapporto personale: è attesa di risposta definitiva.[8] Per lo più, esso soggiace all’esperienza consueta di incontro: anzi, dove il rapporto a tu per tu viene analizzato nelle sue sottese aspirazioni lì è presagita e invocata una presenza trascendente, una capacità di interpretazione e di risposta che nessun tu finito è in grado di dare. Di più: dove l’analisi si fa radicale e interpreta l’esistenza nella sua origine e nel suo destino ogni riferimento finito denuncia la propria insufficienza.

La riflessione si porta obbligatoriamente sul versante trascendente e ultimo. L’invocazione non trova risposta che in un Tu assoluto.

Cosicché l’esplorazione del rapporto religioso non può che percorrere la pista obbligata del rapporto interpersonale. Solo nell’esplorazione del rapporto corretto con un tu – e nel caso con un Tu assoluto – la religione parla in termini singolarmente nuovi e persuasivi.

Viene così identificato l’orientamento attuale della ricerca concentrata sull’analisi del rapporto interiore con una trascendenza personale, dialogante.

Il che apre anche la riflessione al problema della rivelazione. Dove la trascendenza assume carattere personale la possibilità di una rivelazione diretta e positiva è legittimata.

Si tratterà, allora, di evidenziare quali siano i connotati di un linguaggio relazionale e interpersonale, di caratterizzarli correttamente dove il rapporto è con il Tu assoluto. Il linguaggio dovrà quindi cercare l’impostazione corretta.

Rimane inoltre fondata anche la legittimità di una ricerca che avverta nella cultura la manifestazione esplicita del richiamo religioso, che potrebbe o addirittura dovrebbe essere anche segnato di impronta personale. La presenza del dato cristiano non è solo questione che tocca il credente. È un problema che la ricerca si pone e che è suo compito esplorare, come avremo modo di rilevare nei prossimi interventi.

 


[1] Il termine esperienza è generico; lo assumiamo in tutto lo spessore che comporta e che analisi puntuali e attente, anche recentemente, hanno rilevato. Richiamo in particolare le pp. di Gadamer dedicate a Il concetto di esperienza e l’essenza dell’esperienza ermeneutica, in G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani 1995, pp. 401ss.

[2] È la rivendicazione costante anche della riflessione esistenziale; cf, ad es. uno dei suoi pensatori più accreditati, G. Marcel, Giornale metafisico, Roma, Abete, 1976, p. 248.

[3] Popper ha identificato un criterio oggi sostanzialmente accettato: «Queste considerazioni suggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema… un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza: K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Torino, Einaudi 1970, p. 22.

[4] Prini ha giustamente definito la ricerca di Marcel metodologia dell’inverificabile: P. Prini, Gabriel Marcel e la metodologia dell’inverificabile, Roma, Studium 1968; ne ha con questo identificato l’aspetto qualificante, ma ha anche indicato un aspetto qualificante della stessa riflessione filosofica.

[5] “La natura illimitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte.

     Tu non costretto da nessuna barriera, la determinerai secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà di consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi ciò che è nel mondo. Non Ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti, tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine.” G. PICO DELLA MIRANDOLA, Discorso sulla dignità dell’uomo, Brescia, La Scuola, 1987, pp. 5-7:

[6] Sulla traccia di annotazioni come queste trovo irrilevanti talune discussioni sul rapporto fede-ragione. Mi sembrano perfettamente pertinenti le riflessioni di K. Popper, Dopo la società aperta, Roma, Armando 2009, p. 117.

 

[7] Sono stati valorizzati in questa ricerca proprio quegli Autori che hanno esplorato con singolare originalità l’esperienza religiosa.

[8] Cf M. Scheler, Vom Ewigen im Menschen, Bern, Franke 1968, pp. 364ss.

Teologia dell’educazione cristiana:

pluralità di modelli e strategie

        Presentiamo un’ Opera di singolare rilevanza nel panorama della ricerca attuale. Riguarda un settore solo recentemente studiato e però di notevole rilevanza soprattutto nell’ambito dell’educazione religiosa ecclesiale. Ne proponiamo alcuni stralci interpretativi a partire dall’Opera stessa. 

 

L’autrice GIUSEPPINA BATTISTA

l’Autrice ha conseguito il dottorato in Teolo­gia, sotto la direzione del pro£ René Marlé, s.j. presso l’Institut Catholique di Parigi. Per la sua ricerca sulperiodo di Umanesimo e antiUma­nesimo ha potuto far tesoro della consulenza e suggerimenti del prof. Pietre Riché.

Da molti anni si dedica allo studio della Teo­logia orientando ricerca, studi e pubblicazioni al particolare versante dell’educazione. Lo stu­dio di vari Autori, dal tempo patristico sino ai nostri giorni, ha suscitato in lei particolare attenzione per la varietà dei testi e la plurale de­clinazione della teologia.

Con i dati raccolti dalla ricerca ormai di anni, l’Autrice ha individuato proprio nei princi­pi valoriali e di riferimento, la solida base di un’educazione pienamente umana, così da co­niugare le pretese della trascendenza con quelle reclamate dai mutamenti delle società. Da qui l’idea e la realizzazione di questo studio che propone una antologia di testi.

La sua attività di studio e di ricerca, inerente al tema dell’educazione cristiana, è stata accom­pagnata da un costante servizio educativo nella scuola statale e in varie Università Pontificie.

Attualmente, è docente incaricata per i corsi di Teologia dell’ Educazione e di Storia della cate­chesi presso l’Istituto Pastorale Redemptor ho­minis della Pontificia Università Lateranense 

Il Lavoro.

Dal titolo del lavoro appare evidente l’inten­zione di offrire una riflessione sulla teologia cristiana dell’educazione avendo presente la pluralità di modelli e di metodi registrati nella vita bimillenaria della Chiesa. Il lavoro si divide in due parti; la prima propone uno studio che rimanda alla seconda parte in cui viene offerta una antologia di testi in ordine cronologico, secondo la sequenza dei temi sviluppati nei singoli capitoli dello studio.

Con la proposta di questa antologia si Vuo­le colmare un vuoto e offrire l’utile servizio proprio di una raccolta di testi sparsi nelle edizioni, le più varie, e non sempre di facile consultazione. Con questa propria originali­tà, e partendo dal Vangelo di Gesù Cristo, il Maestro, si vogliono illustrare ideale e prassi nel campo educativo, alla luce delle fonti la­sciate da eminenti teologi ed educatori.

Il volume, con la materia trattata e con il me­todo seguito, lascia una eco e apre un cantie­re di lavoro, per la continuità della ricerca e dello studio attraverso il confronto tra le distinte letture teologiche e le varie ricadute

Il significato.

In collaborazione con le scienze dell’educazione, la teologia può analizzare i principali problemi che le culture attuali pon­gono alla fede delle comunità cristiane in campo educativo e pe­dagogico; da parte sua, la teologia dell’educazione deve studiare in profondità i processi di conversione e di crescita cristiana, per comprendere in quale modo essi possano diventare contempo­raneamente processi di autentica promozione e di maturazione umana, definendo contemporaneamente le componenti essen­ziali dell’educazione cristiana e contribuendo, in definitiva, alla comprensione e alla soluzione dei problemi educativi.

C’è dunque una trama intensa e feconda tra sviluppo umano e sviluppo cristiano: sviluppi che nel travaglio dell’epoca contemporanea si presentano piuttosto articolati, difficoltosi e contrassegnati da molte urgenze ed emergenze.

 La Collana.

La collana Vivae voces contiene opere monografiche e risultati del confronto di varie discipline su questioni cruciali per la ricerca. L’intento è raccogliere le voci più significative e rile­vanti di quelle discipline considerate vitali nel panorama cul­turale, teologico ed ecclesiale contemporaneo, nel tentativo di raggiungere un’efficace visione d’insieme su tematiche che segnano il cambiamento culturale in corso. 

Nuovi movimenti religiosi…

una sfida per la chiesa cattolica

Un fenomeno sottostimato ma in rapida espansione, un vero e proprio “boom”. Non usano mezzi termini gli studiosi per descrivere la diffusione negli ultimi anni dei “movimenti evangelicali, pentecostali e carismatici”.

È il termine “tecnico” usato nel mondo accademico per definire le “sette” o “i nuovi movimenti religiosi”. Un fenomeno trasversale a tutte le Chiese cristiane e difficilmente quantificabile, sebbene si stimi che i membri delle Chiese pentecostali nel mondo siano più di 400 milioni. A questo fenomeno è dedicata una Conferenza internazionale che ha preso avvio oggi a Roma ed è promossa dalla Conferenza episcopale tedesca. “Evangelicali, pentecostali, carismatici: nuovi movimenti religiosi, una sfida per la Chiesa cattolica”, il titolo della conferenza alla quale prendono parte rappresentanti del Vaticano, delle Conferenze episcopali e di molte diocesi, nonché studiosi del settore. A coordinare i lavori è la Conferenza episcopale tedesca che ha istituito negli anni Novanta un gruppo di ricerca per lo studio delle sette e dei nuovi movimenti religiosi. L’idea nasce da un’intuizione dell’allora presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, cardinale Walter Kasper. 

Fenomeno globale. “La scomparsa della religione a lungo attesa e data per certa non si è materializzata. Al contrario: in tutto il mondo, si osserva piuttosto un vero e proprio boom di religioni”. Si apre con questa constatazione la ricerca presentata dal professore di Munster, Karl Gabriel, che subito aggiunge: “Questo fenomeno globale di rinnovamento religioso ruota però intorno a gruppi che sono tradizionalmente indicati come ‘sette’”. La crescita della cristianità nel mondo è dunque ampiamente dovuta ai nuovi movimenti religiosi. In America Latina – fa notare lo studioso – le Chiese pentecostali sono cresciute a “un ritmo mozzafiato” per diversi anni. L’Africa del Sud è testimone di un’espansione del cristianesimo carismatico. E anche in Asia orientale, compresa la Cina, le forme carismatiche del cristianesimo sono in crescita. 

Che cosa si cela dietro questo fenomeno? La lista di fattori endogeni di crescita è lunga: concorrono sicuramente anche gli “sconvolgimenti sociali ed economici del Sud del mondo” e i nuovi movimenti offrono ai propri seguaci “identità e significato”, “rafforzano l’autostima”, “permettono alle persone di sentirsi a casa”. La ricerca commissionata dalla Conferenza episcopale tedesca e presentata a Roma ha preso in visione 4 Paesi: Costa Rica, Filippine, Ungheria e Sud Africa. Nel capitolo riservato al Costa Rica, interessante è il coinvolgimento delle donne in questo fenomeno, perché sono soprattutto loro a essere maggiormente attratte da questo tipo di proposta religiosa e le ragioni vanno anche ricercate nelle condizioni di precarietà in cui spesso si trovano a vivere. 

Il dialogo. “La realtà pentecostale e carismatica è una realtà trasversale che è entrata praticamente in tutte le tradizioni cristiane. Si parla già da un decennio di una pentecostalizzazione del cristianesimo”. Così spiega a margine del convegno mons. Juan Usma Gomez, esperto conoscitore del movimento pentecostale per il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Il fenomeno è “fonte di preoccupazione per tutti i vescovi in diversi continenti”. E il Pontificio Consiglio ha affrontato la questione perché “cosciente dell’importanza di conoscere i pentecostali e di dare una risposta concreta alla comunità cattolica locale”. Mons. Usma fa notare come dal 1972 è stato avviato il dialogo internazionale cattolico-pentecostale che ha permesso di “superare pregiudizi e idee preconcette” ma anche di “affrontare temi difficili come il proselitismo e la conversione”.

Quale il segreto di tanto successo? “Magari si potesse dare una risposta semplice”, dice mons. Usma. “Vi sono molte risposte. Alcune sono positive: riescono a dare il senso di Dio, rinnovata spiritualità, stile attraente e consono ai tempi odierni. Altre sono negative: proselitismo, inganno, promesse di beni spirituali e di prosperità materiale”. Possono influire anche “debolezza psicologica e ingenuità”. “Ad ogni modo essi riescono a offrire un’esperienza di Dio nei loro seguaci”. Una certa “demonizzazione” verso questo fenomeno, aggiunge mons. Usma, “ha impedito ai cattolici di capire la loro forza e fatto sottostimare il loro potere di fare seguaci”. Come allora affrontare la questione? “Conoscendolo e facendosi conoscere. È cioè importante conoscerli e far conoscere loro il vero volto della Chiesa cattolica e dei cattolici”.

Una sfida per le chiese

I dati sono da capogiro: secondo gli studiosi, dall’anno 2000 i carismatici e i pentecostali in tutto il mondo stanno aumentando al ritmo di circa 19 milioni ogni anno. E il Centro di ricerca “per lo Studio del cristianesimo globale” (Stati Uniti) afferma che nel 2000 i credenti carismatici/pentecostali erano già circa 582 milioni. Si prevede che entro il 2025 arriveranno a quota 800 milioni e che entro il 2050 i pentecostali potrebbero raggiungere il numero dei credenti indù nel mondo. Insomma, da movimento essenzialmente nuovo alla fine del XIX secolo, il pentecostalismo è diventato il movimento sociale o religioso con il maggior successo del ventesimo secolo. Questi i “numeri” con cui uno dei massimi esperti del fenomeno, Philip Jenkins, della “Baylor University”, ha aperto la sua relazione intervenendo oggi a Roma a una conferenza internazionale sui nuovi movimenti religiosi organizzata dalla Conferenza episcopale tedesca. Una tre giorni di dibattito e confronto alla quale hanno partecipato rappresentanti del Vaticano, membri delle Conferenze episcopali nazionali e studiosi. Scopo dell’incontro quello di delineare il fenomeno e cercare di dare orientamenti per azioni pastorali alle Chiese locali. Maria Chiara Biagioni, per il Sir, ha seguito l’incontro.

Le ragioni di un successo. La ricerca presentata da Jenkins ha cercato di capire che cosa si nasconde dietro al fenomeno del pentecostalismo il cui successo nel mondo va ricercato anche a partire dal contesto demografico mondiale: a fronte di una popolazione in rapida crescita in regioni del mondo come Africa, Asia e America Latina, l’Europa – demograficamente parlando – è in rapido declino. Questi nuovi movimenti religiosi, inoltre, fanno presa nelle aeree periferiche delle grandi metropoli, abitate soprattutto negli ultimi anni da milioni di migranti in fuga dalle zone rurali. In queste condizioni non solo di estrema povertà ma anche di “forte senso di estraneità”, questi movimenti offrono accoglienza, supporto, cura spirituale. È un fenomeno facilmente registrabile nelle favelas brasiliane e può spiegare, per esempio, il successo a San Paolo di un gruppo evangelicale dal nome “Renascer em Cristo” che riesce a riunire ogni anno ad aprile per la “Marcia per Gesù” dai 2 ai 3 milioni di persone. Non si può, dunque, approcciare questa realtà, senza tenere conto di questo aspetto fondamentale dei nuovi movimenti religiosi: quello di dare “rifugio” alle persone. Più ancora, una “famiglia”, dove “i suoi membri si aiutano vicendevolmente per superare le difficoltà della povertà”. Molto forte poi anche è il fattore “miracoli” e “guarigioni” soprattutto in contesti dove la povertà è causa di privazioni, malattie, fame, inquinamento, droga e prostituzione. “In contesti simili – nota Jenkins – è facile capire perché la gente si fa facilmente prendere dall’affermazione di essere sotto l’assedio delle forze demoniache, e che solo l’intervento divino può salvare”. 

Un fenomeno “non preso in considerazione a sufficienza”. Così il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, descrive al Sir la realtà dei nuovi movimenti religiosi, pentecostali ed evangelicali. “Questo fenomeno – dice – mostra che è in atto un grande cambiamento nel paesaggio ecumenico e che si affacciano nel dialogo nuovi partner”. E sulla possibilità di avviare un dialogo con una “galassia” così complessa, il cardinale Koch risponde: “Noi possiamo avere un dialogo solo con coloro che esprimono il desiderio di avere un dialogo”, facendo notare come “alcuni gruppi pentecostali si definiscono anti-ecumenici e anti-cattolici”. La strada del dialogo in questi contesti viaggia, comunque sia, a livello nazionale e locale. “Occorre prendere in seria considerazione questo fenomeno – ripete il cardinale -. Credo che sia questa la sfida principale e pone una domanda: che cosa facciamo? Perché la gente che appartiene alle nostre Chiese, non solo cattolica ma anche protestanti, si allontana? È una grande domanda, una grande sfida per noi”. “Le ragioni degli abbandoni sono molto differenti tra loro”. È però assolutamente necessario conoscerle e interrogarsi sulla “realtà del cristianesimo e della Chiesa cattolica in quel determinato Paese”. Quale orientamento pastorale suggeriscono questi movimenti? “In primo luogo – afferma il presidente del Pontificio Consiglio – un nuovo slancio missionario ma per essere missionari dobbiamo prima essere noi stessi convinti della nostra fede. E questa deve essere semplice, vera, buona e bella”.

 

La “Saggezza digitale” compito di riflessione per i cattolici

La rete e la carta. Due modalità di comunicazione il cui rapporto può apparire problematico e che in più di un caso vivono un conflitto. Ma nessuno può negare che il futuro della comunicazione passa attraverso un rapporto sempre più virtuoso tra la stampa e Internet. A dirlo sono le 186 testate cattoliche aderenti alla Fisc (Federazione italiana dei settimanali cattolici), riunite in convegno a Chioggia da oggi a sabato sul tema “Informazione in rete: carta stampata e web”. Presenti in circa 170 diocesi, queste testate (1 agenzia, 6 on line, 1 quotidiano, 2 bisettimanali, 128 settimanali, 18 quindicinali e 25 mensili) raggiungono gran parte del territorio nazionale e pure gli italiani all’estero, con 5 giornali loro dedicati. “Giornali di carta e Rete sono destinati a viaggiare insieme, non per combattersi, ma per richiamarsi a vicenda”, ha esordito il presidente nazionale della Fisc e direttore del “Corriere Cesenate”, Francesco Zanotti, aprendo i lavori. Mentre monsignor Vincenzo Tosello, direttore di “Nuova Scintilla” (Chioggia), ha ripercorso i cent’anni della testata, il cui anniversario viene celebrato con questo appuntamento. Infatti, il logo prescelto unisce la prima testata (“La Scintilla”) a una raffigurazione della versione attuale per tablet. 

Tra difficoltà e mutamenti. Certo, per la carta stampata non mancano le difficoltà, specie in questo periodo, motivo per cui serve “un’attenta analisi dei fenomeni in atto nel campo della rete e della multimedialità e nel contempo una lungimirante lettura dei possibili sviluppi al fine di orientare le scelte nell’ambito della stampa diocesana”, ha richiamato nella prolusione monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e presidente della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali. Il primo dei problemi è di natura economica: cala la pubblicità e “le vendite risentono della minore disponibilità di risorse economiche”. In secondo luogo, “la possibilità per ognuno di accedere all’informazione in tempo reale e gratuita su web, tv e radio”. A tal riguardo, ha sottolineato, “è cambiato il nostro modo di ricercare e apprendere informazioni”, “siamo bombardati e ‘inseguiti’ da un enorme flusso, potremmo dire un ‘torrente impetuoso’ d’informazioni, sempre a portata di mano attraverso un unico strumento: lo smartphone o il tablet”, mentre “la corsa all’acquisto tecnologico, sebbene rallentata, è l’unica ancora in continua crescita”.

La “saggezza digitale”. Conseguenza del “torrente” informativo del web è la mancanza di filtri e gerarchie tra le notizie. “Oggi domina il criterio della velocità”, ha osservato Giuliodori, interrogandosi “se non si stia sacrificando la qualità comunicativa, e quindi relazionale, sull’altare della quantità e dell’efficienza”. In altri termini non basta usare il digitale, ma bisogna conseguire una “saggezza digitale” – ovvero la “capacità di prendere decisioni più sagge in quanto potenziate dalla tecnologia”, secondo la definizione di Marc Prensky – ed è questo il “nuovo passo evolutivo del genere umano”, senza il quale “la società moderna corre il rischio di un’involuzione”. Un passo al quale i cattolici sono chiamati elaborando “strategie di marketing non soltanto commerciale, ma che potremmo definire preminentemente ad alto impatto antropologico, finalizzato a rilanciare con forza questo prezioso servizio la cui peculiarità è rappresentata dalla capacità di cogliere e comunicare i valori fondamentali”. “Chi, se non la stampa cattolica, potrà avere il compito difficile, ma assai urgente, di far comprendere l’importanza di un’etica della comunicazione?”. Questa la domanda posta dal presule ai rappresentanti delle testate cattoliche, invitandoli “a non perdere, cammin facendo, l’essenziale della nostra vocazione e missione”.

Sfida educativa. In gioco c’è “una sfida che è innanzitutto educativa”, come ricordano gli Orientamenti pastorali dei vescovi italiani per il decennio. Di fronte a uno “sviluppo esponenziale dei mezzi di comunicazione”, “dev’essere potenziato – ha sottolineato il vescovo – l’impegno a svolgere un ruolo incisivo a livello culturale e sociale”. “Così – ha aggiunto – le nostre testate vivranno e si rafforzeranno se riusciranno a promuovere e a stimolare il dialogo nelle realtà locali, poiché la loro missione è soprattutto formativa e a servizio della comunità”. “La stampa cattolica – secondo Giuliodori – deve mantenere e potenziare la capacità di essere una bussola nel mondo dell’informazione”, “avere la forza e l’audacia di rivolgersi agli utenti dei nuovi media”, offrendo “un’informazione in grado di accompagnare il lettore attraverso gli spazi di riflessione, di confronto e approfondimento”, “generando una comunicazione efficace, capace anche di sedurre, ma soltanto per accompagnare lo sguardo, l’attenzione del lettore e il suo cuore verso un ‘oltre’”. Il presidente della Commissione Cei ha infine ricordato “l’eccellente esempio del quotidiano ‘Avvenire’ e di non pochi settimanali diocesani”, evidenziando che, “di fronte al bombardamento d’informazioni e d’immagini, la nostra stampa può rappresentare il mediatore capace di valorizzare, raccogliere e, se necessario, filtrare le notizie smascherando quelle false e accompagnando nella lettura critica dei nuovi ambienti digitali, dalle potenzialità straordinarie, ma anche pieni d’insidie”.

a cura di Francesco Rossi, inviato Sir a Chioggia

La svolta digitale

Carta stampata e web non sono certo in contraddizione, anche se effettivamente spesso sono ormai in concorrenza, fino al punto che i giornali cartacei paventano una sorta di ineluttabile declino sull’onda sempre più travolgente della Rete. Di fatto, le cose non sono così drammatiche, tanto è vero che sorgono e si affermano anche nuove testate a stampa. Il che significa che – in particolare nel mondo dell’informazione – il successo, o semplicemente il gradimento, dipendono, più che dallo strumento in sé, da cosa si ha da dire e da come lo si dice o lo si vuol dire.
Riflettere su questo tema, vitale per il presente e per il futuro della loro stessa esistenza, significa per i settimanali diocesani – molti dei quali, come il nostro, vantano oltre un secolo di vita e di servizio alla gente e al territorio – dotarsi di una marcia in più per arrivare, attraverso la potente Rete globale, a molte più persone, in differenti modalità, e molto più in là rispetto ai nostri confini.
Nel nostro caso “La Scintilla”, fondata cent’anni fa, già diventata settant’anni fa “Nuova Scintilla”, è chiamata a rinnovarsi ulteriormente, questa volta non tanto nel nome della testata ma nelle modalità di approccio ai lettori, che sono sempre più anche “navigatori” della Rete, o “internauti” come vengono sinteticamente definiti: un pubblico certamente più giovane rispetto alla cerchia consueta dei nostri abbonati, un pubblico per alcuni aspetti anche più esigente e più interattivo, grazie alle molteplici possibilità di comunicazione offerte, oltre che dai siti, dai vari social network in cui noi, come già vari altri settimanali diocesani, siamo presenti e attivi.
Si tratta, concretamente, di rivedere anche il modo di pensare il giornale cartaceo in stretto collegamento con i vari interventi in Rete o, addirittura, con una vera e propria edizione on-line, che già alcuni stanno realizzando. Senza nulla togliere al valore della carta stampata – che dalla propria storia plurisecolare di servizio informativo e formativo trae motivo di giusto orgoglio e, ci auguriamo, anche linfa per sempre nuove fioriture – è fuor di dubbio che siamo stimolati a perseguire nuovi traguardi, senza bloccarsi in una sorta di deleterio arroccamento e senza fermarsi impauriti dalla gravità e dall’urgenza del compito.
Il convegno che si svolge a Chioggia da oggi al 13 aprile, sulla scia di altri recenti incontri nazionali che hanno aiutato i mass media d’ispirazione cristiana a riflettere sull’incalzante realtà del web, vuol essere appunto una sorta di presa di coscienza collettiva delle nostre 186 testate federate nella Fisc per un impegno comune che metta insieme idee, progetti ed energie, in modo da rispondere meglio alle inevitabili e avvincenti sfide dell’era digitale.
Circa vent’anni fa (nell’ottobre del 1994), proprio da Chioggia, dove si svolgeva il convegno Fisc sul tema “Informazione e mercato”, veniva lanciata la formula delle “sinergie” per affrontare le esigenze del mercato editoriale trasformato dalle nuove tecnologie e dalle impellenti esigenze di allora. Ora da Chioggia può scaturire per i nostri settimanali – ce lo auguriamo, anche per la competenza dei relatori e per la concretezza del dibattito che s’intende portare avanti – un nuovo impulso per affrontare insieme l’attuale “era digitale”. Ciò comporterà tracciare alcune linee comuni e prospettare anche progetti comuni (alcuni già sono in cantiere), attraverso la conoscenza e lo scambio delle esperienze in atto, ma anche con l’ardire verso nuovi sviluppi.
Come siamo convinti che non sono strumenti contraddittori, ma eventualmente complementari, il cartaceo e l’on-line, così sappiamo che non c’è contraddizione ma integrazione tra informazione nel territorio – nostra peculiare vocazione – e sguardo globale – nostra esigenza originaria già iscritta nel Vangelo che annunciamo. Raccontare il territorio nel web diventa più impegnativo, per esigenze tempistiche e di sintesi, ma è anche più efficace e a più ampio raggio, esposti e, in un certo senso, costretti alla verifica più immediata dei contenuti e dei metodi della comunicazione. Stampa e web hanno molto da condividere e, allo stesso tempo, molto da offrire, insieme, al vasto mondo di lettori e navigatori, anch’essi sempre più coinvolti nell’essenziale opera informativa.

 (*) direttore “Nuova Scintilla”

Stampa e web, crescere insieme

Non ci sono nuovi media che scacciano i vecchi, ma gli uni e gli altri vanno valorizzati secondo le loro specifiche caratteristiche. A riflettere su questo “doppio binario” contribuirà il convegno nazionale della Federazione italiana dei settimanali cattolici (Fisc), che prenderà il via domani a Chioggia e ha per tema “Informazione in rete: carta stampata e web”. 186 le testate rappresentate dalla Fisc, tra cui “Nuova Scintilla”, il settimanale della diocesi che ospita il convegno, che festeggia i 100 anni dalla fondazione. Alla vigilia dell’appuntamento il Sir ha incontrato Francesco Zanotti, presidente nazionale della Fisc.

Quale messaggio intende dare la Federazione con un nuovo convegno dedicato al digitale?
“Vogliamo continuare a interrogarci su questo doppio versante della convivenza tra stampa e rete e sulle sfide che il web pone alla carta stampata. Dovremmo essere ‘inquieti’, coltivare quella sana inquietudine che ci rende desti e attenti al mondo in cui viviamo. Il rischio che corriamo, oggi più che mai, è quello di ‘sederci’ nelle redazioni mentre le notizie ci piovono addosso. La rete, invece, ci chiede con ancora più forza di essere originali. Le notizie si trovano se si sta in mezzo alla gente e, in un momento di risorse scarse, ci è chiesto un supplemento d’impegno”.

D’altra parte, proprio Internet favorisce questa “pioggia” d’informazioni…
“Non dobbiamo solo selezionare nel mare magnum delle notizie che ci arrivano. Come testate della Chiesa locale abbiamo una nostra originalità, prima di tutto nel territorio in cui ci troviamo, nelle nostre comunità, nelle storie della gente: possiamo raccontare la vita di parrocchie, gruppi, famiglie numerose, difficoltà e dolori vissuti in maniera esemplare. Noi possiamo leggere la realtà anche da un altro punto di vista. E lo possiamo fare pure attraverso la rete”.

Quindi, la rete è una risorsa per i giornali del territorio?
“Sì, dobbiamo solo evitare il rischio di una velocità che ci renda schiavi. Al contrario, è nostro compito specifico invitare alla riflessione, al ragionamento serio e pacato”. 

È possibile, a tal fine, coniugare cartaceo e web?
“Direi che è doveroso. Penso che si debba lavorare insieme tra cartaceo e web: sono due modalità per raggiungere pubblici diversi, o magari anche il medesimo, ma con approcci differenti. Oggi, per stare sulla rete, dobbiamo essere veloci e sintetici, pur sempre nel rispetto della notizia e della persona. È ciò che ci domanda chi va sui nostri siti. Mentre sulla carta stampata il lettore ci chiede un approfondimento, magari un commento. Inoltre il web ci consente ancora di più di diventare ‘rete’: una rete (di giornali del territorio) nella rete (digitale)”.

Sull’utilizzo delle nuove tecnologie già da anni vengono proposte riflessioni: si pensi ai convegni della Chiesa italiana (da “Testimoni digitali” ad “Abitanti digitali”, solo per citare i più recenti), ai messaggi del Papa per la Giornata delle comunicazioni sociali, ai precedenti convegni della Fisc (“Territorio e Internet, due luoghi da abitare”, titolava l’incontro di Cesena nel 2011). Quale riscontro si trova a livello di stampa del territorio?
“Ciascuno opera con autonomia giocandosi la sua responsabilità: questo è il limite ma anche la forza della nostra Federazione. In questi appuntamenti vengono offerte delle possibilità e anche quest’ulteriore riflessione avviene perché abbiamo bisogno di confrontarci. Poi c’è da registrare anche una certa – comprensibile – cautela nei passi che si compiono. Ma ci muoviamo con fiducia e con quella speranza che fa parte della nostra esperienza quotidiana”.

A suo avviso, i media cattolici – e in particolare quelli del territorio – come stanno affrontando la crisi?
“Ognuno mette in campo la sua fantasia con iniziative locali, un’ancora maggiore presenza sul territorio, esperienze per avvicinare i gruppi e la città. C’è inoltre da rilevare che, pur in un contesto di difficoltà generalizzata, la stampa locale soffre in misura minore rispetto a quella nazionale. Sui motivi di speranza, infine, in questi ultimi tempi abbiamo visto l’inizio delle pubblicazioni di ‘A sua immagine’, del nuovo periodico dei Paolini ‘Credere’ e la riapertura del settimanale diocesano di Salerno, ‘Agire’: sono segnali che ci fanno capire come la carta stampata abbia ancora un ruolo da giocare”.

Resta aperta la questione dei fondi per l’editoria…
“È una spina nel fianco per le nostre imprese editoriali, alle quali non vengono date certezze. Prendono solo una piccola parte di questi fondi, ma sono importi comunque significativi per i nostri bilanci”. 

A Chioggia si festeggeranno i 100 anni del settimanale diocesano locale, “Nuova Scintilla”. Nell’epoca della globalizzazione qual è lo spazio che ha la comunicazione del territorio?
“Proprio il territorio è l’arma vincente. Siamo chiamati a essere attenti al locale e, contemporaneamente, al nazionale e sovranazionale, con lo sguardo rivolto pure verso l’alto per fare un’‘altra’ informazione, illuminata dall’esperienza di fede. Questo è ciò che ha spinto a dar vita alle nostre testate: uno sguardo valido oggi come allora”.

SIR del 11/04/13

Messaggio del Rettor Maggiore alla famiglia Salesiana

MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE DON PASCUAL CHAVEZ VILLANUEVA, SDB ALLA CONGREGAZIONE E A TUTTA LA FAMIGLIA SALESIANA

Carissimi fratelli, sorelle, membri tutti della Famiglia Salesiana, Amici di Don Bosco

Oggi la sede di Pietro è rimasta vuota, a motivo della rinuncia di Papa Benedetto XVI a proseguire nell’esercizio del ministero petrino, a lui affidato otto anni fa.

Noi, Famiglia di Don Bosco sparsa nel mondo, rimaniamo profondamente riconoscenti, anche per questo coraggioso atto di servizio del nostro carissimo Santo Padre, e lo accompagniamo con la nostra sincera simpatia e devozione e, come Egli stesso ci ha chiesto, con la nostra costante preghiera.

Papa Benedetto XVI, che ha manifestato tanti gesti di benevolenza e affetto verso la nostra Famiglia, è stato un vero dono di Dio alla sua Chiesa e al mondo attuale. Egli si è congedato affermando che non si è sentito solo, neppure nei momenti in cui sembrava che Dio dormisse. Vogliamo assicurare a Lui che non sarà mai solo, perché il suo splendido magistero e la sua imponente figura rimarranno nei nostri cuori. La storia farà vedere la sua grandezza umana, il suo vigore intellettuale, la sua profonda vita spirituale, il suo amore indiviso a Cristo, il suo magnifico servizio alla Chiesa e al Mondo.

La Chiesa di Dio non è orfana. Il Signore Gesù, suo Capo, e lo Spirito di Dio, suo Avvocato, la presiedono e la guidano continuamente.

Di cuore vi chiedo di unirvi a me nella preghiera ardente, insieme con Maria che condivide vita e preghiera con gli Apostoli, mentre aspettiamo con fiducia e serenità che Dio ci dia un nuovo pastore secondo il suo Cuore.

La conversione alla quale ci chiama la Parola di Dio in questo tempo quaresimale sia la migliore forma di impetrare a Dio questa grazia.

Con affetto e un ricordo nella Eucaristia.

Don Pascual Chávez V., SDB

Rettor Maggiore

 

Benedetto XVI: “la barca della chiesa il Signore non la lascia affondare”

Nella sua ultima Udienza Generale, Benedetto XVI trae un bilancio del suo pontificato su un piano spirituale

“Vedo la Chiesa viva!”. Con queste parole e ringraziando “commosso” le migliaia di fedeli presenti a piazza San Pietro per l’ultima Udienza Generale del suo pontificato, papa Benedetto XVI ha tratto un bilancio di natura essenzialmente spirituale, di questi otto anni trascorsi come successore di Pietro.

“In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita”, ha detto il Papa, ponendo fiducia nel Vangelo che “purifica e rinnova”, portando frutto ovunque i credenti lo accolgano. “Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia”, ha sottolineato il Santo Padre.

Tornando a quel 19 aprile 2005, in cui accettò di “assumere il ministro petrino”, Benedetto XVI ha espresso la “certezza della vita della Chiesa dalla Parola di Dio”, che lo ha sempre accompagnato in quasi otto anni di pontificato.

“In quel momento – ha proseguito – come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? È un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze”.

Sono seguiti otto anni in cui il Papa ha “potuto percepire quotidianamente” la presenza del Signore, in un cammino “che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili”.

Benedetto XVI ha paragonato la sua esperienza a quella del suo primo predecessore, San Pietro, che, impegnato con gli altri Apostoli sul mare della Galilea, riceve in dono dal Signore “tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante”, così come “momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire”.

La barca della Chiesa, tuttavia, “non è mia, non è nostra, ma è sua”, ha osservato il Pontefice, e “il Signore non la lascia affondare”. Per questo il Papa ha ringraziato Dio “perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore”.

Il Santo Padre ha quindi accennato all’Anno della Fede, da lui istituito, “per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano”.

Si tratta di un’occasione, ha spiegato, per “affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica”, e perché ognuno si senta “amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini”.

Sono seguiti i ringraziamenti ai rappresentanti della Chiesa che, in questi otto anni, a tutti i livelli, sono stati vicini al Santo Padre: i “Fratelli Cardinali”, i “Collaboratori” più stretti, a partire dal “Segretario di Stato”, la “Segretaria di Stato e l’intera Curia Romana, come pure tutti coloro che, nei vari settori, prestano il loro servizio alla Santa Sede: sono tanti volti che non emergono, rimangono nell’ombra, ma proprio nel silenzio, nella dedizione quotidiana, con spirito di fede e umiltà sono stati per me un sostegno sicuro e affidabile”.

Il Papa ha poi ricordato la “Chiesa di Roma, la mia Diocesi”, oltre ai “Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, le persone consacrate e l’intero Popolo di Dio”.

Parlando delle lettere ricevute nelle ultime settimane, Benedetto XVI ha detto di aver percepito “il senso di un legame familiare molto affettuoso”, toccando con mano che cosa sia la Chiesa, ovvero “non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti”. Sperimentare tal sensazione, in un momento in cui tutti parlano del “declino” della Chiesa, “è motivo di gioia”, ha aggiunto.

Tornando sulla sua recente sofferta decisione, il Papa ha affermato: “ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa”. Di qui la scelta della rinuncia, compiuta “nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo”.

Amare la Chiesa, ha aggiunto il Papa, “significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi”.

La decisione presa è stata grave, ha proseguito il Pontefice, anche perché “da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore”. E chi assume il ministero petrino “non ha più alcuna privacy”, poiché sceglie di appartenere “sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa”.

Ritirandosi, Benedetto XVI non intende “ritornare nel privato”, né “a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze”. “Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso”, ha spiegato il Papa che, in questo modo, rinuncia alla “potestà dell’officio per il governo della Chiesa”, continuando però a servirla, nella preghiera, rimanendo “nel recinto di san Pietro”.

Congedandosi e ringraziando nuovamente, Benedetto XVI ha raccomandato i fedeli di pregare per lui “e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito”.

Senza libertà non c’è vera Fede

Nec religionis est cogere religionem.  Lapidario è Tertulliano, con questo motto del suo scritto A Scapola (II, 2), nel riconoscere che nel cuore stesso della fede, ove pure impera la grazia divina, pulsa anche la libertà umana per cui «non è proprio della religione costringere alla religione». 
Un principio, purtroppo, non sempre rispettato dalle varie confessioni religiose, compreso il cristianesimo all’interno della sua storia secolare, ed è significativo che Giovanni Paolo II abbia anche di queste prevaricazioni chiesto perdono nel Giubileo del 2000. In un itinerario (che non è teologico ma di taglio culturale generale) all’interno dell’orizzonte della fede, oltre a celebrare il primato della grazia divina, non possiamo ignorare il necessario contrappunto armonico della libertà umana. Necessario perché la libertà è strutturale all’antropologia biblica e non solo alla concezione classica e moderna della persona. 

Non possiamo ora sviluppare questo tema inseguendo la trama dei testi biblici. Ci basti evocare due passi. Da un lato, la scena d’esordio delle Scritture: l’uomo e la donna sono collocati nei capitoli 2-3 della Genesi all’ombra «dell’albero della conoscenza del bene e del male», un evidente simbolo della morale nei cui confronti la creatura si trova libera se accettarne il valore oppure, strappandone il frutto, decidere in proprio ciò che è bene e male. D’altro lato, citiamo un passo emblematico della sapienza d’Israele: «Da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti, l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà. 

Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,14-17). La grazia divina, pur nella sua efficacia, scende non all’interno di un oggetto inerte ma in un essere libero che può accogliere o rifiutare quel dono, può aprire o lasciare chiusa la porta della sua anima a cui bussa il Signore che passa, per usare la celebre metafora dell’Apocalisse (3,20). Esprime bene questo intreccio delicato e fondamentale – sul quale si sono accaniti per secoli i teologi cercando di definirne l’equilibrio – padre David M. Turoldo quando scrive: «Sono certo che Dio ha scoperto me, ma non sono certo se io ho scoperto Dio. La fede è un dono, ma è allo stesso tempo una conquista». L’epifania divina ha mille forme in cui manifestarsi e non è sempre sfolgorante come sulla via di Damasco. Tuttavia non è mai così cogente da condurre a un assenso forzato e obbligato. L’adesione dev’essere personale, libera, anche faticosa.

Siamo, infatti, consapevoli che l’esercizio della libertà è tutt’altro che semplice. Essere liberi non è una pura e semplice reazione istintiva e “libertina”, né soltanto un sottrarsi a un’oppressione o a un’imposizione, ma è una scelta coerente e cosciente tra opzioni differenti per una meta da raggiungere. 

Per questo il drammaturgo tedesco Georg Büchner nella Morte di Danton (1834) affermava che la statua della libertà è sempre in fusione ed è facile scottarsi le dita. Vivere nella libertà autentica, come ricorda spesso anche san Paolo, è un atto impegnativo perché comporta un’esistenza rigorosamente cosciente, ed è sempre in agguato il rischio del ricadere in schiavitù. Come accade ai cani a cui si lancia un ramo secco e te lo riportano subito, così per molti la libertà è un elemento inutile che riportano subito nelle mani del potere. 

Questa è un’immagine di Dostoevskij e dal grande romanziere desumiamo una suggestiva riflessione sul nesso tra fede e libertà. Scriveva: «Tu non discendesti dalla croce quando ti si gridava: Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu! Perché una volta di più non volesti asservire l’uomo… Avevi bisogno di un amore libero e non di servili entusiasmi, avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio». Lo scrittore rievoca la scena del Golgota col Cristo morente sbeffeggiato dai passanti: «È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo!» (Mt 27,39-42). Come durante la sua esistenza aveva evitato gesti taumaturgici spettacolari, preoccupandosi solo di sanare le sofferenze umane, spesso in disparte dalla folla e imponendo il silenzio ai miracolati, così in quel momento estremo Gesù affida la sua rivelazione non al prodigio ma allo scandalo della croce. Egli non cerca adesioni interessate, ma invita a una fede libera e guidata dall’amore che è per eccellenza un atto di libertà.

Senza questa dimensione la fede diventa parodia, come si intuisce dalla ricostruzione che Simone de Beauvoir, la scrittrice francese compagna del filosofo Sartre, morta nel 1986, fa della sua crisi giovanile che le fece abbandonare la fede. Nelle sue Memorie di una ragazza perbene rievoca il momento in cui in collegio, ascoltando una predica del cappellano padre Martin sull’obbedienza, si era fatta in strada in lei la necessità di liberarsi dall’incubo della religione, proprio perché essa – secondo quella visione che in realtà era una deformazione dell’autentica fede – comportava la cancellazione della libertà. 

Raccontava: «Mentre l’abate parlava, una mano sciocca si era abbattuta sulla mia nuca, mi faceva chinare la testa, mi incollava la faccia al suolo, per tutta la vita mi avrebbe obbligata a trascinarmi carponi, accecata dal fango e dalla tenebra; bisognava dire addio per sempre alla verità, alla libertà, a qualsiasi gioia». Per questo è importante un annuncio corretto della fede che, senza concedere nulla a un accomodamento troppo facile, a un compromesso generico e comodo, non deformi però la vera anima della fede, introducendo un volto sfigurato di Dio, quella che Lutero chiamava la simia Dei, cioè la «scimmiottatura di Dio». 

Il credere genuino non è schiavitù ma libertà, non è imposizione ma ricerca, non è obbligo ma adesione, non è cecità ma luce, non è tristezza ma serenità, non è negazione ma scelta positiva, non è incubo minaccioso ma pace. Come affermava in un suo saggio, Vivere come se Dio esistesse, il teologo tedesco Heinz Zahrnt, «Dio abita soltanto là dove lo si lascia entrare». Questa scelta comporta – come in ogni opzione libera – un aspetto di rischio. Entra, così, in azione un lineamento ulteriore che è la fiducia. È la famosa fides qua dei teologi, ossia la fede «con la quale» si aderisce confidando in Dio e che fa accogliere la fides quae, cioè i contenuti della rivelazione divina che il credere ci manifesta. 

Abramo, che «per fede, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità e partì senza sapere dove andava» (Ebr 13,8), ne è l’esempio archetipico biblico. Mi affido ai versi di una scrittrice con la quale personalmente ebbi un dialogo intenso negli ultimi anni della sua vita, Lalla Romano, scomparsa nel 2001: «Fede non è sapere/ che l’altro esiste/ è vivere/ dentro di lui/ calore/ nelle sue vene/ sogno/ nei suoi pensieri./ Qui aggirarsi/ dormendo/ in lui destarsi» (da Giovane è il tempo del 1974). 

Come pregava un’altra poetessa, segnata però esplicitamente dalla fede, Ada Negri: «Tu mi cammini a fianco, o Signore, orma non lascia in terra il tuo passo. Non vedo te: ma sento e respiro la tua presenza in ogni filo d’erba, in ogni atomo d’aria che mi nutre». La fiducia ha il suo vaglio di autenticità nel tempo oscuro della prova, quando il volto di Dio scompare, la sua parola tace, la sua presenza si tramuta in assenza. Giobbe coinvolto in pieno nella tenebra, non cessa di credere e di aver fiducia: «Quand’anche egli mi ucciderà, non me ne lamenterò» (13,15).

La tradizione giudaica mette in scena in una parabola un ebreo sfuggito all’Inquisizione spagnola con moglie e figlio che, durante una tempesta, approda in un’isola. Lì, però, un fulmine uccide la moglie e un’onda trascina in mare il ragazzo. Solo, nudo, flagellato dalla tempesta, atterrito, errabondo su quell’isola rocciosa, leva la sua voce al cielo: «Dio d’Israele, sono finito! Proprio ora, però, non ti posso servire se non liberamente. Tu hai fatto di tutto perché io non creda più in te. Bene, te lo dico, Dio mio e dei miei padri, tu non ci riuscirai: io crederò sempre in te, ti amerò sempre, tuo malgrado!». 

Evidente è il paradosso, ma in questa ripresa del dramma di Giobbe, brillano la totale libertà e l’assoluta fiducia in Dio. Una fiducia che è esaltata anche nella tradizione musulmana con accenti altissimi (muslim significa appunto «chi ha fiducia e si abbandona a Dio»), anche se però non di rado a danno della libertà umana. Significativa è una pagina delMemoriale dei santi del grande scrittore mistico persiano del XII secolo Farid ed din ’Attar che ha per protagonista «un adoratore del fuoco», cioè uno zoroastriano, quindi un pagano agli occhi del musulmano. Farid vede che egli getta miglio sulla distesa di neve che circonda la sua abitazione e spiega che lo fa per gli uccelli del cielo, «sperando che l’Altissimo avrà misericordia di me». 

Ma Farid obiettò: «Tu sei un infedele e il grano seminato da un infedele non germoglia!». Quell’uomo replicò: «Pazienza! Se Dio non accetta la mia offerta, posso almeno sperare che veda il piccolo gesto di amore che io faccio». Mesi dopo ’Attar ripassa e ritrova l’uomo: «L’Altissimo ha fatto germogliare quei semi. Grazie, o Dio, che regali il paradiso per un pugno di grano! Il cuore di Dio si commuove sempre di fronte a un gesto d’amore!». Amore, fiducia, fede si uniscono tra loro e donano serenità. È ancora un musulmano, il poeta nazionale del Pakistan Muhammad Iqbal, morto nel 1938, a scrivere: «Ti dirò il segno del credente:/ quando a lui giunge la morte,/ sulle sue labbra sboccia un sorriso». 

Vivere la fede genera una fiducia che fa fiorire, anche nella crudezza dell’agonia, un sorriso. Concludiamo, allora, con una delle Quattordici preghiere che compose Robert L. Stevenson, il geniale autore ottocentesco inglese dell’Isola del tesoro e dello Strano caso del dottor Jekyll e del Signor Hyde, un vero canto di fiducia nel Dio che non abbandona mai le sue creature coi suoi piccoli e grandi doni: «Ti ringraziamo, Signore, per questo luogo nel quale dimoriamo, per l’amore che ci tiene insieme, per la pace che oggi ci è accordata, per la speranza con la quale aspettiamo il domani, per la salute, il lavoro, il cibo, il cielo chiaro che riempiono la nostra vita di fiducia e di serenità».

 
Gianfranco Ravasi

Benedetto XVI lascia il pontificato

Pubblichiamo le parole con cui Benedetto XVI, al termine del Concistoro ordinario pubblico tenuto lunedì mattina, 11 febbraio, nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico, ha annunciato la decisione di “rinunciare al minstero di vescovo di Roma”. 

Carissimi Fratelli,
vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.
Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.

Dal Vaticano, 10 febbraio 2013

 

BENEDETTO PP. XVI

(©L’Osservatore Romano 11-12 febbraio 2013)

 

Il futuro di Dio

 

 

È un avvenimento senza precedenti, e che di conseguenza ha subito fatto il giro del mondo, la rinuncia di Benedetto XVI al papato. Come lo stesso Pontefice ha annunciato con semplice solennità davanti a un gruppo di cardinali, dalla sera del 28 febbraio la sede episcopale di Roma sarà vacante e subito dopo verrà convocato il conclave per eleggere il successore dell’apostolo Pietro. Così è specificato nel breve testo che il Papa ha composto direttamente in latino e che ha letto in concistoro.
La decisione del Pontefice è stata presa da molti mesi, dopo il viaggio in Messico e a Cuba, e in un riserbo che nessuno ha potuto infrangere, dopo “aver ripetutamente esaminato” la propria coscienza “davanti a Dio” (conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata), a causa dell’avanzare dell’età. Benedetto XVI ha spiegato, con la chiarezza a lui propria, che le sue forze “non sono più adatte per esercitare in modo adeguato” il compito immane richiesto a chi viene eletto “per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo”.
Per questo, e soltanto per questo, il Romano Pontefice, “ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà” (bene conscius ponderis huius actus plena libertate) rinuncia al ministero di vescovo di Roma affidatogli il 19 aprile 2005. E le parole che Benedetto XVI ha scelto indicano in modo trasparente il rispetto delle condizioni previste dal diritto canonico per le dimissioni da un incarico che non ha paragoni al mondo per il peso reale e l’importanza spirituale.
È risaputo che il cardinale Ratzinger non ha in alcun modo cercato l’elezione al pontificato, una delle più rapide nella storia, e che l’ha accettata con la semplicità propria di chi davvero affida la propria vita a Dio. Per questo Benedetto XVI non si è mai sentito solo, in un rapporto autentico e quotidiano con chi amorevolmente governa la vita di ogni essere umano e nella realtà della comunione dei santi, sostenuto dall’amore e dal lavoro (amore et labore) dei collaboratori, e sorretto dalla preghiera e dalla simpatia di moltissime persone, credenti e non credenti.
In questa luce va letta anche la rinuncia al pontificato, libera e soprattutto fiduciosa nella provvidenza di Dio. Benedetto XVI sa bene che il servizio papale, “per la sua essenza spirituale”, può essere compiuto anche “soffrendo e pregando”, ma sottolinea che “nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede” per un Papa “è necessario anche il vigore, sia del corpo, sia dell’animo”, vigore che in lui va naturalmente scemando.
Nelle parole rivolte ai cardinali, prima stupiti e poi commossi, e con la sua decisione che non ha precedenti storici paragonabili, Benedetto XVI dimostra una lucidità e un’umiltà che è innanzi tutto, come ha spiegato una volta, aderenza alla realtà, alla terra (humus). Così, non sentendosi più in grado di “amministrare bene” il ministero affidatogli, ha annunciato la sua rinuncia. Con una decisione umanamente e spiritualmente esemplare, nella piena maturità di un pontificato che, fin dal suo inizio e per quasi otto anni, giorno per giorno, non ha smesso di stupire e lascerà una traccia profonda nella storia. Quella storia che il Papa legge con fiducia nel segno del futuro di Dio.

g.m.v

(©L’Osservatore Romano 11-12 febbraio 2013)

 

 

11 febbraio

 

 

Ha un senso ricordare ancora, a tanto tempo di distanza, l’evento maturato l’11 febbraio 1929 con la firma dei Patti Lateranensi?
L’interrogativo è più che legittimo, se si considera quanta acqua è passata sotto i ponti del Tevere; fuor di metafora, se si pensa come si è trasformata la società italiana dal punto di vista culturale, politico, istituzionale; in quale misura la Chiesa stessa, nella sua dimensione giuridica ed istituzionale, si è venuta trasformando, specie a seguito di quel Concilio Ecumenico Vaticano II di cui si è appena celebrato il cinquantesimo dell’inizio. Anche il contesto internazionale si presenta oggi con un volto assai diverso, si direbbe quasi irriconoscibile, rispetto a quello di allora.
A ben vedere, parlare di quei Patti non è solo un omaggio formale alla memoria di un fatto storico, ancorché di grande rilevanza, che chiuse il dramma di coscienza dei cattolici italiani e riconobbe alla Santa Sede una condizione di diritto e di fatto rispondente alle esigenze di libertà ed autonomia, che la sua missione nel mondo richiede. Parlare di quei Patti non significa solo riconoscere il contributo che, grazie ad essi, la Santa Sede e la Chiesa hanno potuto dare alla crescita dell’Italia, in particolar modo negli snodi difficili della sua storia; non significa solo prendere consapevolezza dell’apporto dato dalla Santa Sede, grazie alle garanzie assicuratele dal Trattato del Laterano, nel forgiare il nuovo volto della comunità internazionale nelle sue aspirazioni alla giustizia, alla solidarietà, alla pace, alla garanzia dei diritti della persona e dei popoli. 
Parlare oggi dei Patti Lateranensi significa prendere atto di una realtà viva e vitale, che continua ad accompagnare nel divenire della storia, verso obbiettivi che il Vaticano II ha messo chiaramente a fuoco: indipendenza ed autonomia della comunità politica e della Chiesa nel proprio campo; dedizione di entrambe, ancorché a titolo diverso, al servizio della persona umana; collaborazione nella distinzione di competenze, per rendere quel servizio sempre più efficace. Ed ancora: libertà religiosa individuale e collettiva, ma anche libertà religiosa a livello istituzionale.
Si tratta di obbiettivi condivisi dalla Repubblica italiana, nella misura in cui sono rinvenibili nelle disposizioni della sua Costituzione. 
In particolare il Concordato, revisionato nel 1984, ha il merito di definire con chiarezza l’ordine proprio della Chiesa, precisando l’indicazione di principio contenuta nell’art. 7 della Costituzione italiana. Al contempo, esso regolamenta le modalità concrete di esercizio del diritto di libertà religiosa nelle sue diverse dimensioni soggettive, che è tutelato dall’art. 19 della medesima Costituzione.
Per parte sua il Trattato, richiamato dal ricordato art. 7 della Costituzione italiana, prevede garanzie personali, reali e funzionali per la Santa Sede, al fine di permetterle il libero e pieno esercizio della sua missione universale, al riparo da qualsiasi ingerenza di stampo giurisdizionalista che possa provenire da parte di qualsivoglia potenza terrena. Questa convenzione, come si è detto altre volte, è diretta a risolvere permanentemente una questione propriamente italiana, ma che ha al tempo stesso una dimensione internazionale. Difatti in Italia è la sede del successore di Pietro, cui è affidato il governo della Chiesa universale; ma l’indipendenza della Santa Sede nell’esercizio dei suoi compiti nel mondo interessa non solo l’Italia, bensì anche gli altri Stati e la comunità internazionale.
Le soluzioni elaborate nel 1929 a tale problema hanno palesato, nel tempo, la loro validità; in particolare l’ha dimostrata la creazione della Città del Vaticano, entità statuale dal territorio minimo, quasi simbolico. Ma appare evidente che ciò è avvenuto anche perché l’Italia ha sempre manifestato una particolare sollecitudine, ed al tempo stesso un assoluto rispetto, nei confronti dello Stato vaticano. Di questo va dato atto, con animo grato, nella consapevolezza che per l’esiguità territoriale e per la condizione di enclave sua propria, la forma statuale non sarebbe in grado di assicurare piena indipendenza e sicura libertà della Santa Sede, laddove fosse circondata da indifferenza o addirittura da ostilità.
Dunque fare memoria di quell’evento non è mera retorica o solo richiamo di un fatto storico; significa constatare ancora una volta la funzionalità della soluzione convenuta, la sua rispondenza a tuttora perduranti esigenze, la sua idoneità nel continuare a guidare verso obbiettivi condivisi. Che sono poi riassumibili in quelli indicati dall’art. 1 dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, che impegna lo Stato e la Chiesa cattolica alla salvaguardia delle reciproche competenze ed alla collaborazione per la promozione dell’uomo e del bene del Paese

(©L’Osservatore Romano 11-12 febbraio 2013)

 

Nelle parole del cardinale decano Angelo Sodano la gratitudine e la vicinanza spirituale della Chiesa

Quell’annuncio inatteso
risuonato nella sala del Concistoro

 

 

Sconcerto, sorpresa, stupore, commozione alle parole di Benedetto XVI che ha comunicato la sua decisione di “rinunciare al ministero di Vescovo di Roma”. Sentimenti disegnati sui volti dei cardinali, dei presuli e dei prelati che – riuniti per il Concistoro ordinario pubblico di lunedì mattina, 11 febbraio, nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico – hanno ascoltato dalla viva voce del Papa l’inatteso annuncio. Gli sguardi di tutti si sono incrociati, un lieve brusio si è alzato nella sala e la meraviglia si è trasformata in dispiacere. Ma dopo i primi momenti di smarrimento, si è fatto strada nei presenti – tra i quali erano anche i cerimonieri pontifici, i rappresentanti delle postulazioni, i cantori della Cappella Sistina, i sediari pontifici e gli addetti tecnici – il riconoscimento unanime che il gesto compiuto dal Pontefice è un altissimo atto di umiltà. 
Una decisione cha ha colto tutti di sorpresa. E che il Pontefice – accompagnato dagli arcivescovi Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia, e Guido Pozzo, elemosiniere, dai monsignori Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, e Alfred Xuereb, della Segreteria particolare del Pontefice – ha voluto comunicare personalmente quando, terminata la celebrazione dell’Ora media e dopo l’annuncio che il 12 maggio prossimo si sarebbero tenute le tre canonizzazioni all’ordine del giorno del Concistoro, ha letto il testo latino della Declaratio scritta di suo stesso pugno. Parlando con voce ferma e serena, mentre i presenti lo ascoltavano in un silenzio quasi irreale – ha spiegato le ragioni della sua scelta, compiuta “con piena libertà” e “dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio”.
Da un momento di preghiera e di gioia l’atmosfera si è trasformata in mestizia. A farsene portavoce è stato il cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio, che ha subito preso la parola a nome di tutti i porporati. “Santità, amato e venerato successore di Pietro, come un fulmine a ciel sereno – ha detto – ha risuonato in quest’aula il suo commosso messaggio. L’abbiamo ascoltato con senso di smarrimento, quasi del tutto increduli. Nelle sue parole abbiamo notato il grande affetto che sempre ella ha portato per la santa Chiesa di Dio, per questa Chiesa che tanto ella ha amato”.
Ora, ha aggiunto, “permetta a me di dirle a nome di questo cenacolo apostolico, il collegio cardinalizio, a nome di questi suoi cari collaboratori, permetta che le dica che le siamo più che mai vicini, come lo siamo stati in questi luminosi otto anni del suo pontificato”. 
Il porporato ha assicurato a Benedetto XVI che “prima del 28 febbraio, come lei ha detto, giorno in cui desidera mettere la parola fine a questo suo servizio pontificale fatto con tanto amore, con tanta umiltà, prima del 28 febbraio, avremo modo di esprimerle meglio i nostri sentimenti. Così faranno tanti pastori e fedeli sparsi per il mondo, così faranno tanti uomini di buona volontà, insieme alle autorità di tanti Paesi”. Un riferimento poi ai prossimi impegni del Pontefice. “Ancora in questo mese avremo la gioia di sentire la sua voce di pastore, già mercoledì nella giornata delle Ceneri, poi giovedì col clero di Roma, negli Angelus di queste domeniche, nelle udienze del mercoledì. Ci saranno quindi tante occasioni ancora di sentire la sua voce paterna”. La sua missione, ha concluso, “però continuerà. Ella ha detto che ci sarà sempre vicino con la sua testimonianza e con la sua preghiera. Certo, le stelle nel cielo continuano sempre a brillare e così brillerà sempre in mezzo a noi la stella del suo pontificato. Le siamo vicini, Padre Santo, e ci benedica”.

(©L’Osservatore Romano 11-12 febbraio 2013)

 

Il mondo esprime sorpresa e rispetto 

 

 

La notizia della rinuncia di Benedetto XVI al pontificato ha fatto in poco tempo il giro del mondo, monopolizzando i siti internet dei giornali e le dirette televisive e catalizzando l’attenzione del web, come dimostra il fatto che sia subito balzata al primo posto nelle tendenze mondiali di twitter. Mentre in ogni luogo del pianeta si commenta l’avvenimento, da tutte le capitali giungono attestati di stima e di riconoscenza per l’opera del Pontefice.
Di “straordinario coraggio e straordinario senso di responsabilità” ha parlato il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano. Il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha detto che si tratta di “una notizia che emoziona e suscita il mio più grande rispetto”. Di decisione “altamente rispettabile” ha parlato il presidente francese, François Hollande. Da Londra, il primo ministro britannico, David Cameron, ha scritto in una nota di volere inviare i suoi migliori auguri al Papa dopo il suo annuncio di oggi. 
L’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, primate della Comunione anglicana, ha spiegato di aver accolto con “cuore pesante e completa comprensione” la decisione di Joseph Ratzinger di lasciare il ministero di vescovo di Roma, un ruolo – ha detto – “ricoperto con grande dignità, visione e coraggio”. Il primate della Comunione anglicana ha rigraziato Dio per la vita di Benedetto XVI “profondamente dedicata, in parole e opere, nella preghiera e nel servizio dispendioso, alla sequela di Cristo”. 
Il Patriarcato ortodosso di Mosca ha ricordato la “dinamica positiva” che Benedetto XVI ha garantito nei rapporti ecumenici e ha auspicato che tale dinamica continui anche col suo successore.
Yona Metzger, rabbino capo di Israele, ha lodato il Papa per l’impronta data al dialogo tra le religioni. Di scelta coraggiosa e da rispettare ha infine parlato Izzedin Elzir presidente dell’Unione delle comunità islamiche d’Italia.

(©L’Osservatore Romano 11-12 febbraio 2013)

“Amarsi e sposarsi nei matrimoni misti …”

Da oggi è possibile iscriversi al Convegno nazionale sui matrimoni misti dal titolo “Amarsi e sposarsi nei matrimoni misti: attenzioni pastorali e canoniche
che si svolgerà a Roma, presso la Domus Mariae, dal 21 al 23 febbraio 2013
Il Convegno è organizzato dall’Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, l’Ufficio Nazionale per i problemi giuridici e l’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia.
 
 
 
Allegati