Come insegnare ai ragazzi il desiderio di nuovi mondi

Il lavoro degli insegnanti è diventato oggi un lavoro di frontiera: supplire a famiglie inesistenti o angosciate, rompere la tendenza all’isolamento e all’adattamento inebetito di molti giovani, contrastare il mondo morto degli oggetti tecnologici e il potere seduttivo della televisione, riabilitare l’importanza della cultura relegata al rango di pura comparsa sulla scena del mondo, riattivare le dimensioni dell’ascolto e della parola che sembrano totalmente inesistenti, rianimare desideri, progetti, slanci, visioni in una generazione cresciuta attraverso modelli identificatori iperedonisti, conformistici o apaticamente pragmatici. Gli insegnanti consapevoli ce lo dicono in tutti i modi: “Non ascoltano più!”, “Non parlano più!”, “Non studiano più!”, “Non desiderano più!”. Cosa può dunque tenere ancora vivo il motore del desiderio? Non è forse questa la missione che unisce tutte le figure (a partire dai genitori) impegnate nel discorso educativo? Mestiere impossibile decretava Freud. Aggiungendo però a questa profezia pessimistica una buona notizia: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità, quelli che non si prendono per davvero come padri o insegnanti educatori. I migliori sono quelli che hanno contattato la loro insufficienza. Sono quelli che hanno preso coscienza dell’impossibilità e del danno che provocherebbe porsi come gli educatori migliori.
Proviamo ora a fare un esperimento mentale: chi sono gli insegnanti che non abbiamo mai dimenticato? Sono quelli che hanno saputo incarnare un sapere, sono quelli che ricordiamo non tanto per ciò che ci hanno insegnato ma per come ce lo hanno insegnato. Ciò che conta nella formazione di un bambino o di un giovane non è tanto il contenuto del sapere, ma la trasmissione
dell’amore per il sapere. Gli insegnanti che non abbiamo dimenticato sono quelli che ci hanno insegnato che non si può sapere senza amore per il sapere. Sono quelli che sono stati per noi uno “stile”. I bravi insegnanti sono quelli che hanno saputo fare esistere dei mondi nuovi con il loro stile. Sono quelli che non ci hanno riempito le teste con un sapere già morto, ma quelli che vi hanno fatto dei buchi. Sono quelli che hanno fatto nascere domande senza offrire risposte già fatte. Il bravo insegnante non è solo colui che sa ma colui che, per usare una bella immagine del padre sopravvissuto celebrato da Cormac McCarthy ne La strada, “sa portare il fuoco”. Portare il fuoco significa che un insegnante non è qualcuno che istruisce, che riempie le teste di contenuti, ma innanzitutto colui che sa portare e dare la parola, sa coltivare la possibilità di stare insieme, sa fare esistere la cultura come possibilità della comunità, sa valorizzare le differenze, la singolarità, animando la curiosità di ciascuno senza però inseguire alcuna immagine di “allievo ideale”, ma
esaltando piuttosto i difetti, persino i sintomi, di ciascuno dei suoi allievi, uno per uno. È, insomma, come scrisse un grande pedagogista italiano quale fu Riccardo Massa, qualcuno che “sa amare chi impara”. Tutti ne abbiamo conosciuto almeno uno. Questa è la vera prevenzione primaria che servirebbe ai nostri figli: incontrarne almeno uno così. Dobbiamo, invece che ironici, essere riconoscenti all’esercito civile di chi ha scelto di vivere nella Scuola, a coloro che hanno autenticamente e appassionatamente scelto di amare chi impara.
Mi è capitato di voler continuare ad insegnare mentre venivo interrotto in aula dagli studenti che protestavano per la Legge Gelmini. Avevano ragione, ma ho insistito nel difendere le mie ragioni.
La democrazia è fatta di queste divergenze, di questi conflitti tra prese di posizione diverse che possono convivere mantenendosi tali. Volevo proseguire nella lezione perché un’ora di lezione non è un automatismo svuotato di senso, non è routine senza desiderio come invece sembrava pensassero i miei interlocutori. Certo questo è il morbo della Scuola, è la patologia propria del discorso dell’Università che ricicla un sapere che tende anonimamente alla ripetizione annullando la sorpresa, l’imprevisto, il non ancora sentito e il non ancora conosciuto. Il vero nemico
dell’insegnante è la tendenza al riciclo e alla riproduzione di un sapere sempre uguale a se stesso. È lo spettro che sovrasta e può condizionare mortalmente questo mestiere: adagiarsi sul già fatto, sul già detto, sul già visto. Ridurre l’amore per il sapere a pura routine. A quel punto non c’è più trasmissione di una conoscenza viva ma burocrazia intellettuale, parassitismo, noia, plagio, conformismo. Un sapere di questo genere non può essere assimilato senza generare un effetto di soffocamento, una vera e propria anoressia intellettuale. Eppure la Scuola continua ad essere fatta di ore di lezione che possono essere avventure, esperienze intellettuali ed emotive profonde. Di fronte ai giovani che protestavano ho voluto continuare ad insegnare e l’ho fatto per tutti i maestri che mi hanno insegnato che un’ora di lezione può sempre aprire un mondo.
Il nostro tempo segnala una crisi senza precedenti del discorso educativo. Le famiglie appaiono come turaccioli sulle onde di una società che ha smarrito il significato virtuoso e paziente della formazione rimpiazzandolo con l’illusione di carriere prive di sacrificio, rapide e, soprattutto, economicamente gratificanti. Come può una famiglia dare senso alla rinuncia se tutto fuori dai suoi confini sospinge verso il rifiuto di ogni forma di rinuncia? Per questa ragione di fondo la Scuola viene invocata dalle famiglie come un’istituzione “paterna” che può separare i nostri figli dall’ipnosi telematica o televisiva in cui sono immersi, dal torpore di un godimento “incestuoso”, per risvegliarli al mondo. Ma anche come una istituzione capace di preservare l’importanza dei libri come oggetti irriducibili alle merci, come oggetti capaci di fare esistere nuovi mondi. Capissero almeno questo i suoi censori implacabili. Capissero che sono innanzitutto i libri – i mondi che essi ci aprono – ad ostacolare la via di quel godimento mortale che sospinge i nostri giovani verso la
dissipazione della vita (tossicomania, bulimia, anoressia, depressione, violenza, alcoolismo, ecc).
Lo sapeva bene Freud quando riteneva che solo la cultura poteva difendere la Civiltà dalla spinta alla distruzione. La Scuola contribuisce a fare esistere il mondo perché un insegnamento, in particolare quello che accompagna la crescita (la cosiddetta scuola dell’obbligo), non si misura certo dalla somma nozionistica delle informazioni che dispensa, ma dalla sua capacità di rendere disponibile la cultura come un nuovo mondo, come un altro mondo rispetto a quello di cui si nutre il legame familiare. Quando questo mondo, il nuovo mondo della cultura, non esiste o il suo accesso viene sbarrato, come faceva notare il Pasolini luterano, c’è solo cultura senza mondo, dunque cultura di morte, cultura della droga. Se tutto sospinge i nostri giovani verso l’assenza di mondo, verso il ritiro autistico, verso la coltivazione di mondi isolati (tecnologici, virtuali, sintomatici), la Scuola è ancora ciò che salvaguarda l’umano, l’incontro, le relazioni, gli scambi, le amicizie, le scoperte intellettuali. Un bravo insegnante non è forse quello che sa fare esistere nuovi mondi?

(L’autore ha scritto “Cosa resta del padre?” per Raffaello Cortina)

in “la Repubblica” del 29 aprile 2011

 

Encyclomedia

Umberto Eco è l’ideatore e direttore

della vasta opera interdisciplinare

 

 

Nella sede romana della casa editrice Laterza è stato presentato in anteprima l’atteso progetto multimediale Encyclomedia per la scuola diretto da Umberto Eco.

Insieme al professor Eco sono intervenuti Danco Singer, direttore editoriale di Encyclomedia Publishers, che ha seguito fin dall’inizio lo sviluppo di questo importante prodotto e Alessandro Laterza, amministratore delegato della casa editrice pugliese.

Encyclomedia Publishers, che ha realizzato il sistema on line e Laterza, che promuove il progetto Encyclomedia nelle scuole avvalendosi della propria rete, inaugurano così una partnership nel campo delle nuove tecnologie per la scuola.

La realtà scolastica è infatti in rapida evoluzione, e sempre più necessita di accedere alla rete con la garanzia di attingervi contenuti che siano insieme affidabili e pensati e organizzati secondo l’approccio dei ‘nativi digitali’.

Encyclomedia è una grande opera interdisciplinare multimediale ideata e diretta da Umberto Eco, pensata per lo studio e la diffusione della storia della civiltà europea dall’antichità all’inizio del Terzo Millennio, e un insieme di strumenti per costruire relazioni tra fatti e personaggi storici dall’antichità ai giorni nostri.

In Encyclomedia tutti gli aspetti del sapere – dalle arti alle scienze, dalla filosofia alla politica, dall’economia alla religione – vengono affrontati con l’ausilio di potenti strumenti digitali, intrecciando e collegando in percorsi dinamici i personaggi, le idee e gli avvenimenti che hanno formato la nostra cultura.

Le cronologie interattive, per esempio, sono vere e proprie mappe visuali nelle quali sono riportati gli eventi e i personaggi di un dato periodo storico, presentati in ordine di rilevanza rispetto ai temi o alle aree geografiche selezionate. Per costruire una cronologia è sufficiente impostare pochi parametri, oppure avvalersi del motore semantico, che mette in relazione tra loro tutti gli argomenti a cui sono ancorati i contenuti di Encyclomedia.

Lo schedario di Encyclomedia è costituito da oltre 40.000 schede che contengono brevi descrizioni di personaggi, eventi, opere o luoghi. Ogni scheda riporta anche i rimandi ad altre tipologie di contenuti, come i saggi e le cronologie a essa collegate.

I principali temi delle varie discipline sono approfonditi in 2500 saggi, scritti espressamente per Encyclomedia dai più prestigiosi studiosi ed esperti di ciascuna materia. I saggi  sono corredati da elementi multimediali come immagini, filmati, animazioni, brani musicali o letture di testi.

Nell’Atlante di Encyclomedia la rappresentazione della geografia politica è dinamicamente storicizzata. Si può infatti scegliere un anno nel passato, e vedere, ad esempio, i confini degli Stati così come erano in quella data storica.

I materiali sono organizzati in modo tale da facilitare una didattica personalizzata e l’effettuazione da parte degli studenti di ricerche che tengano conto del carattere multidimensionale e interagente degli eventi storici, letterari, artistici, filosofici, scientifici e così via.


tuttoscuola.com

Scuola: come cambia con Lim e e-book

Lavagne elettroniche e libri digitali. Il futuro è già fra i banchi e sta cambiando rapidamente le modalità di insegnamento.

 

 

È la riflessione che compare sul sito dell’Ansas, Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, principale promotrice, per conto del ministero, delle aule 2.0 e dell’innovazione digitale a scuola. In un approfondimento che compare sul sito dell’Agenzia (e ripreso dall’agenzia di stampa Dire) si affronta la seguente domanda: Lim (Lavagne interattive multimediali) ed e-book, perché portarli in classe?

Innanzitutto, si spiega nell’articolo di approfondimento, gli ambienti digitali in classe sono qualcosa di più semplice rispetto a quanto viene evocato dall’immaginario collettivo quando se ne parla. Niente realtà virtuale o scene da Second life, insomma. L’aula digitale è costituita da un insieme di strumenti digitali che vengono utilizzati, anziché in solitudine, da una comunità di persone. Ma grazie alle tecnologie la scuola si ‘dilata’, supera i propri confini e tocca il mondo portandolo fra le sue pareti. Tuttavia, perché la scuola digitale funzioni “è necessaria un’adeguata cultura dei media, ovvero un approccio che consenta al docente di appropriarsi della tecnologia, dei linguaggi multimediali, per farli propri e individuarne il valore aggiunto“.

Occorre prevedere nuovi modi d’uso – è l’auspicio dell’Ansas –, consapevoli delle potenzialità e specificità del singolo medium per non incorrere nella tentazione di utilizzare, ad esempio, la Lim come la lavagna d’ardesia sprecando tempo e vanificando l’investimento“. La Lim (lavagna interattiva multimediale), infatti, “può rappresentare oggi una svolta per l’insegnamento. Entra in classe, va al cuore del sistema di apprendimento e della pratica didattica quotidiana, rompe la configurazione tradizionale dell’ambiente“.

La classe, estesa e potenziata, può accedere a diversi aspetti della realtà esterna, estrapolarne particolari e dettagli, analizzare, scomporre, manipolare informazioni e contenuti, con il supporto di efficaci applicazioni software appositamente progettate e sviluppate. Di fronte alla tecnologia il docente e lo studente possono essere “passivi consumatori” o, a loro volta, produttori. E questa è la differenza fra un buono e un cattivo uso delle tecnologie in aula. Quanto al libro digitale, Alberto Manzi, storico maestro che negli anni del dopoguerra commosse l’Italia con il suo carisma e la dolcezza con cui insegnava agli adulti analfabeti a scrivere nel famoso programma televisivo ‘Non è mai troppo tardi’, sosteneva che “per il ragazzo il libro deve essere qualcosa di piacevole, dove si può non solo leggere, ma colorare, trasformare, fare, disfare, ampliare, ridere, inventare, riflettere. Il libro si trasforma così in qualcosa di personale, perciò vivo“.

Queste affermazioni sono oggi più che mai attuali e potranno forse trovare un alleato nella tecnologia digitale. E se, di fatto, l’e-book non nasce per il target scuola, in essa trova applicazione e naturale collocazione.


tuttoscuola.com

Le “ore alternative all’insegnamento della religione cattolica”

Le “ore alternative all’insegnamento della religione cattolica” sono un “servizio strutturale obbligatorio” che non grava sui fondi che le istituzioni scolastiche destinano al pagamento delle supplenze brevi, ma che deve essere liquidato dal Ministero dell’economia e finanze.

È quanto emerge da una  nota (la n. 26482 del 7.3.2011) della Ragioneria Generale dello Stato che è stata trasmessa nei giorni scorsi ai propri uffici territoriali.

La nota fornisce precisazioni sulla liquidazione dei compensi spettanti al personale interessato, indicando anche a quali docenti deve essere attribuito prioritariamente tale insegnamento.

In ordine, devono essere impiegati per le ore di materia alternativa i docenti a tempo indeterminato che si dichiarano disponibili ad effettuare “ore eccedenti”; successivamente, si può ricorrere ai supplenti già titolari di contratto, che possono così ottenere un completamento dell’orario di servizio oppure se ne possono nominare altri solo per la materia alternativa.

La nota precisa anche che, data l’urgenza di provvedere ai pagamenti spettanti (finora i docenti di materia alternativa non sono stati retribuiti), gli Uffici territoriali possono accettare i provvedimenti di conferimento degli incarichi anche in forma cartacea e non per via telematica.

Secondo la Cisl scuola, che riporta la notizia sul suo sito (www.cislscuola.it) “si chiarisce definitivamente e positivamente, così, una questione per la quale nei mesi scorsi ha ripetutamente sollecitato l’Amministrazione a diramare specifici ed esplicativi chiarimenti”.


tuttoscuola.com mercoledì 16 marzo 2011

 

Il parlamento italiano a favore della libertà religiosa

Sulle misure necessarie a far cessare le violenze contro i cristiani nel mondo è arrivata ieri la forte presa di posizione del Parlamento italiano.
Tanto più significativa per la quasi totale unanimità, registrata sia nell’aula della Camera (al mattino) sia quella del Senato (in serata), nell’approvare due mozioni unitarie, pressoché analoghe.
Messe per una volta da parte le fisiologiche divergenze e spaccature, e accantonate le mozioni di partito presentate in partenza, il testo di Montecitorio è passato con 504 voti a favore e nove astensioni.
Bocciata, invece, una risoluzione presentata dai radicali, che sul testo comune si sono astenuti.
A Palazzo Madama specularmente sono stati tre in tutto a non votare «sì».
Il voto «è la dimostrazione del valore che il Parlamento italiano attribuisce a un tema così delicato», ha commentato il sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica.
Il Parlamento impegna il governo «a far valere con ogni forma di legittima pressione diplomatica ed economica il diritto alla libertà religiosa, in particolare dei cristiani e di altre minoranze perseguitate, laddove risulti minacciata o compressa per legge o per prassi, sia direttamente dalle autorità di Governo, sia attraverso un tacito assenso e l’impunità dei violenti».
Poi «a promuovere in Italia, nelle scuole e in ogni ambito culturale, la sensibilità alle tematiche della libertà religiosa e della cristianofobia».
A livello diplomatico deve essere fatta valere «la necessità di un effettivo impegno degli Stati per la tolleranza e la libertà religiosa, fino al diritto sancito alla libertà di cambiare religione o credo».
Infine ad «adoperarsi affinché analogo principio sia fatto valere a livello di Unione europea e di qualsiasi altro organismo internazionale per l’assegnazione di aiuti agli Stati».
Mentre a livello di Nazioni unite si deve puntare a un effettiva messa in pratica della risoluzione sulla libertà religiosa negli Stati membri, promuovendo a tal fine «la costituzione di un organismo dedicato».
Sull’onda dell’emozione, dell’indignazione, e della riflessione suscitata dagli ultimi fatti di Egitto e Nigeria, nelle due assemblee – attraverso un dibattito alto e partecipato – è stata fatta una radiografia delle violenze contro le comunità cristiane.
Ma si è fatto anche il punto sullo stato della libertà religiosa nel mondo (dal Pakistan, alla Cina al Sud Sudan ora al voto, di cui il Senato chiede l’immediato riconoscimento) e allo stesso tempo sulla situazione culturale che si registra oggi in Europa, con troppi silenzi e omissioni sui massacri compiuti in nome della religione.
Sintetizza il vicepresidente della Camera, Rocco Buttiglione: i cristiani vengono colpiti perché «segno di una modernizzazione», perché identificati con l’Occidente e perché «noi non sentiamo affatto il diritto-dovere di difenderli».
Il finiano Roberto Menia cita Benedetto Croce e il suo «non possiamo non dirci cristiani», per affermare che «tutti noi credenti o non credenti ci sentiamo colpiti, offesi e umiliati di fronte all’immagine di Cristo imbrattato di sangue nella cattedrale di Alessandria d’Egitto».
Concordano sul fatto che finora ci sia stata troppa indifferenza anche due dei firmatari delle mozioni, Antonio Mazzocchi (Pdl) e Giuseppe Fioroni (Pd).
Tra i senatori, è Francesco Rutelli (Api) a richiamare la «debolezza della politica dell’Ue, addirittura afona rispetto a fenomeni di questa straordinaria gravità».
Mentre è Giorgio Tonini (Pd) a ricordare con forza l’allarme per le «violazioni sistematiche e ripetute» della libertà religiosa che «è storicamente la madre di tutte le libertà e un principio fondante per tutti i diritti umani».
Un richiamo al ruolo dei media è venuto dal capogruppo del Pdl Maurizio Gasparri che ha sottolineato come «serve una reazione collettiva, non solo delle istituzioni».
Il suo vice, Gaetano Quagliariello, individua due ragioni per un fenomeno che «non nasce oggi».
La prima geopolitica (fine della guerra fredda), la seconda culturale: quell’«odio di sé» dell’Occidente che porta alla tolleranza o addirittura al plauso verso «offese al cristianesimo, ai suoi simboli e alle sue tradizioni», in nome «di una malintesa idea di laicità».
Gianni Santamaria Avvenire 13 01 2011

Natale alla ricerca di una morale comune

Caro direttore, la realtà testarda che si impone anche se non sempre vorremmo accettarla, l´attualità incalzante che lascia emergere preoccupanti tensioni, che ci ributta continuamente addosso le conseguenze pesanti dell´attuale crisi economica e politica, ci costringono alla fine a stare di fronte a una domanda cruciale: è ancora possibile una “morale comune” (common morality) nella nostra società plurale? Si può ancora parlare di una “percezione morale” (moral insight) per sua natura universale e propria di ogni uomo in quanto uomo? È ancora valida l´affermazione cara a Lewis che esiste «un´attitudine di rispetto e di gratitudine per ciò che ci è stato donato», attitudine propria di ogni uomo nei confronti di quell´eredità di saggezza pratica che tutte le tradizioni, le culture e le religioni hanno assicurato, in tutte le parti del globo, alla grande catena delle generazioni? Su questi temi Benedetto XVI, nel recente discorso di auguri alla Curia, ha usato parole provocanti parlando dell´ethos  contemporaneo per il quale «… non esisterebbero né il male in sé, né il bene in  sé.
Esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”.
Niente sarebbe in se stesso bene o male.
Tutto dipenderebbe dalle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male.
La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere».
«Contro di esse – ha aggiunto Benedetto XVI – Giovanni Paolo II nella sua enciclica Veritatis splendor del 1993 indicò con forza profetica nella grande tradizione razionale dell´ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell ´agire morale».
Importanti correnti del pensiero morale concordano nell´affermare che per cogliere l´autentica natura della morale si debba partire dalla esperienza elementare del bene che ogni uomo vive.
Se si guarda alla genesi di questa esperienza morale, ci si rende conto che essa si radica in un desiderio di compimento di sé che prende forma dalla promessa suscitata dalle inclinazioni e dagli affetti originari.
A partire dalle relazioni primarie di riconoscimento reciproco con la mamma e il papà, il bambino, mediante la parola, acquista coscienza pratica di se stesso e diventa capace di apertura e comunione con gli altri.
A questo proposito il dialogo tra Gesù e il giovane ricco raccontato dal Vangelo è particolarmente significativo anche a una pura lettura razionale perché vi possiamo trovare conferma della triplice scansione dell´esperienza morale elementare: desiderio-riconoscimento-comunione.
Il giovane ricco si avvicina a esù e chiede: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?».
Accogliendo la domanda, Gesù gli risponde: «Dà ai poveri».
Lo invita cioè a riscoprire la decisività del nesso tra il bene e la relazione.
Il desiderio di compimento che anima il giovane ricco si realizza, dunque, in questo riconoscimento che apre a una vita comune, condivisa: è questa la forma originaria dell´esperienza del bene e la verità antropologica della moralità.
Se i comandamenti sono la via al bene, il principio della moralità è il bene stesso.
Ed è nella relazione che questo si rivela primariamente.
Del bene si deve fare esperienza perché il desiderio di bene trovi la via della piena attuazione.
A conferma di questo, nell´episodio evangelico, Gesù rilancia ancora e indica un´altra più impegnativa relazione: «Una volta che hai dato tutto vieni e seguimi».
In questa proposta è contenuta una “pretesa” singolare: l´uomo apprende ad attuare il bene nella relazione con l´origine personale del bene e comprende quali sono le cose buone da fare continuando a intrattenere relazioni buone.
L´esperienza elementare del bene e della moralità consiste dunque nel beneficio primario della relazione.
Non si origina da un´idea del bene che sia contenuta nel cosmo o nel bios, né si deduce dalla natura razionale dell´uomo.
Per la costruzione di una moralità comune sembra emergere dunque come modello di riferimento su cui lavorare insieme quello che afferma, da una parte, che la moralità non inizia con il comandamento, ma dall´interno di una ricca e complessa esperienza elementare del bene come articolata unità di desiderio, promessa, parola, riconoscimento e comunione; dall´altra, che alla fine compete alla ragione discernere il senso di questa esperienza morale, comune a tutti gli uomini, per definire i beni umani fondamentali e quindi per sancire il loro universale significato morale.
Fattori questi decisivi in una società plurale come la nostra.
patriarca di Venezia in “la Repubblica” del 23 dicembre 2010

Università: passa la riforma

La Camera ha approvato il disegno di legge Gelmini sulla riforma universitaria con 307 voti favorevoli , 252 contrari e 7 astenuti.
Il provvedimento ora torna al Senato per l’approvazione definitiva.
Molte sono le novità, dal reclutamento al merito, dai contratti di ricerca alle borse di studio per arrivare alla stretta contro la cosiddetta ‘parentopoli’ all’interno dell’università.
Tra i punti principali della riforma ci sono quelli che riguardano l’organizzazione del sistema universitario: entro sei mesi dall’approvazione della legge le università dovranno approvare statuti con le seguenti caratteristiche: Codice etico: ci sarà un codice etico per evitare incompatibilità e conflitti di interessi legati a parentele.
Alle università che assumeranno o gestiranno le risorse in maniera non trasparente saranno ridotti i finanziamenti del Ministero.
Rettori: limite massimo complessivo di 6 anni al mandato dei rettori, inclusi quelli già trascorsi prima della riforma.
Governance: distinzione netta di funzioni tra Senato Accademico e Consiglio d’Amministrazione, il primo organo accademico, il secondo di alta amministrazione e programmazione.
Il Senato avanzerà proposte di carattere scientifico, ma sarà il Cda ad avere la responsabilità chiara delle assunzioni e delle spese, anche delle sedi distaccate.
Il Cda avrà un massimo di tre componenti esterni.
Parentopoli: la Camera ha approvato un subemendamento della maggioranza che rende ancora più duro un emendamento proposto dall’Idv contro la ‘parentopoli’ all’interno dell’università.
In particolare, non si potranno avere parentele fino al quarto grado per partecipare ai concorsi, anche per ricercatori e assegnisti.
L’Idv aveva proposto fino al terzo grado.
Fusione atenei: gli atenei avranno la possibilità di fondersi tra loro o aggregarsi su base federativa per evitare duplicazioni e costi inutili.
Riduzione facoltà: riduzione molto forte delle facoltà che potranno essere al massimo 12 per ateneo.
Questo per evitare la moltiplicazione di facoltà inutili o non richieste dal mondo del lavoro.
tuttoscuola.com martedì 30 novembre 2010

«Neoassunti a Fort Alamo».

Assunti, finalmente.
Con quel contratto a tempo indeterminato in tasca che li salva dalla roulette delle supplenze e dall’ansia per le graduatorie.
Uno se li aspetterebbe carichi di entusiasmo, almeno fiduciosi, come minimo sereni.
E invece i nuovi insegnanti d’Italia giocano già in difesa, avvertono un senso di isolamento, addirittura di arroccamento.
Al punto che la Fondazione Giovanni Agnelli ha scelto un titolo western per lo studio che ne spiega le sensazioni: «Neoassunti a Fort Alamo».
È il terzo anno che la fondazione «interroga» gli insegnanti che hanno appena terminato il primo anno in cattedra dopo l’immissione in ruolo.
Grazie alla collaborazione con gli uffici regionali, hanno risposto in 7.700, dagli asili ai licei, il 96% in dodici regioni.
Un lavorone ma pagina dopo pagina non c’è nemmeno una risposta che indichi un miglioramento.
Rispetto ai loro colleghi entrati in ruolo negli anni precedenti, i neoassunti 2010 faticano di più a mantenere la disciplina: lo ammettono i professori delle superiori (il 53,1% contro il 32,2% di due anni fa) e anche quelli degli asili, raddoppiati in due anni e arrivati al 48,6%.
Moltiplicati per due pure gli insegnanti che non riescono a spingere i ragazzi a studiare: in due anni siamo passati alle elementari dal 20,5 al 42,4%, alle medie dal 36,2 al 53,4%.
Se poi si chiede qual è la causa di questi guai, sembra di sentire una sola voce: tre insegnanti su quattro dicono che la colpa è tutta dello scarso interesse dei ragazzi per lo studio e dell’ancor più scarso valore che le famiglie danno al successo scolastico.
Sul ruolo dei genitori il giudizio è davvero severissimo.
Quattro insegnanti su cinque dicono che è diminuita la stima e la fiducia dei genitori.
E praticamente tutti, si oscilla tra il 96% al 98% a seconda delle regioni, dicono che mamma e papà sono più interessati a proteggere i figli piuttosto che a sapere come vanno a scuola.
«Chiedono di non farli lavorare troppo – sintetizza il direttore della fondazione Agnelli, Andrea Gavosto -, di non dare troppi compiti d’estate o nel fine settimana.
Ma per il resto…».
Insomma, baby sitter e distributori di pezzi di carta più che insegnanti.
In queste condizioni non è certo facile trovare l’entusiasmo necessario.
Anche perché quelli della scuola sono neoassunti molto particolari.
Al momento del passaggio di ruolo in media hanno già lavorato nelle scuole per 10 anni.
Naturalmente da precari, un percorso non sempre formativo e una vera tortura sul piano umano.
C’è il rischio che in alcuni casi, una volta assunto e finito il calvario, l’insegnante possa tirare i remi in barca? «A volte succede» dice Laura Gianferrari, curatrice della ricerca insieme a Stefano Molina e dirigente dell’ufficio scolastico dell’Emilia Romagna.
Secondo lei, però, il vero problema è un altro: «Ormai i ragazzi apprendono seguendo le modalità del pensiero veloce usato con il computer mentre gli insegnanti hanno sempre la stessa cassetta degli attrezzi di una volta: spiegazione, interrogazione, compito in classe…».
Così i ragazzi smanettano con il cellulare sotto il banco.
E i professori si chiudono a Fort Alamo.
Lorenzo Salvia Per la consultazione Fondazione_Agnelli_-_Indagine_Neoassunti_2010_-_Anticipazione.pdf