Sulle misure necessarie a far cessare le violenze contro i cristiani nel mondo è arrivata ieri la forte presa di posizione del Parlamento italiano.
Tanto più significativa per la quasi totale unanimità, registrata sia nell’aula della Camera (al mattino) sia quella del Senato (in serata), nell’approvare due mozioni unitarie, pressoché analoghe.
Messe per una volta da parte le fisiologiche divergenze e spaccature, e accantonate le mozioni di partito presentate in partenza, il testo di Montecitorio è passato con 504 voti a favore e nove astensioni.
Bocciata, invece, una risoluzione presentata dai radicali, che sul testo comune si sono astenuti.
A Palazzo Madama specularmente sono stati tre in tutto a non votare «sì».
Il voto «è la dimostrazione del valore che il Parlamento italiano attribuisce a un tema così delicato», ha commentato il sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica.
Il Parlamento impegna il governo «a far valere con ogni forma di legittima pressione diplomatica ed economica il diritto alla libertà religiosa, in particolare dei cristiani e di altre minoranze perseguitate, laddove risulti minacciata o compressa per legge o per prassi, sia direttamente dalle autorità di Governo, sia attraverso un tacito assenso e l’impunità dei violenti».
Poi «a promuovere in Italia, nelle scuole e in ogni ambito culturale, la sensibilità alle tematiche della libertà religiosa e della cristianofobia».
A livello diplomatico deve essere fatta valere «la necessità di un effettivo impegno degli Stati per la tolleranza e la libertà religiosa, fino al diritto sancito alla libertà di cambiare religione o credo».
Infine ad «adoperarsi affinché analogo principio sia fatto valere a livello di Unione europea e di qualsiasi altro organismo internazionale per l’assegnazione di aiuti agli Stati».
Mentre a livello di Nazioni unite si deve puntare a un effettiva messa in pratica della risoluzione sulla libertà religiosa negli Stati membri, promuovendo a tal fine «la costituzione di un organismo dedicato».
Sull’onda dell’emozione, dell’indignazione, e della riflessione suscitata dagli ultimi fatti di Egitto e Nigeria, nelle due assemblee – attraverso un dibattito alto e partecipato – è stata fatta una radiografia delle violenze contro le comunità cristiane.
Ma si è fatto anche il punto sullo stato della libertà religiosa nel mondo (dal Pakistan, alla Cina al Sud Sudan ora al voto, di cui il Senato chiede l’immediato riconoscimento) e allo stesso tempo sulla situazione culturale che si registra oggi in Europa, con troppi silenzi e omissioni sui massacri compiuti in nome della religione.
Sintetizza il vicepresidente della Camera, Rocco Buttiglione: i cristiani vengono colpiti perché «segno di una modernizzazione», perché identificati con l’Occidente e perché «noi non sentiamo affatto il diritto-dovere di difenderli».
Il finiano Roberto Menia cita Benedetto Croce e il suo «non possiamo non dirci cristiani», per affermare che «tutti noi credenti o non credenti ci sentiamo colpiti, offesi e umiliati di fronte all’immagine di Cristo imbrattato di sangue nella cattedrale di Alessandria d’Egitto».
Concordano sul fatto che finora ci sia stata troppa indifferenza anche due dei firmatari delle mozioni, Antonio Mazzocchi (Pdl) e Giuseppe Fioroni (Pd).
Tra i senatori, è Francesco Rutelli (Api) a richiamare la «debolezza della politica dell’Ue, addirittura afona rispetto a fenomeni di questa straordinaria gravità».
Mentre è Giorgio Tonini (Pd) a ricordare con forza l’allarme per le «violazioni sistematiche e ripetute» della libertà religiosa che «è storicamente la madre di tutte le libertà e un principio fondante per tutti i diritti umani».
Un richiamo al ruolo dei media è venuto dal capogruppo del Pdl Maurizio Gasparri che ha sottolineato come «serve una reazione collettiva, non solo delle istituzioni».
Il suo vice, Gaetano Quagliariello, individua due ragioni per un fenomeno che «non nasce oggi».
La prima geopolitica (fine della guerra fredda), la seconda culturale: quell’«odio di sé» dell’Occidente che porta alla tolleranza o addirittura al plauso verso «offese al cristianesimo, ai suoi simboli e alle sue tradizioni», in nome «di una malintesa idea di laicità».
Gianni Santamaria Avvenire 13 01 2011
Categoria: Educazione
Natale alla ricerca di una morale comune
Caro direttore, la realtà testarda che si impone anche se non sempre vorremmo accettarla, l´attualità incalzante che lascia emergere preoccupanti tensioni, che ci ributta continuamente addosso le conseguenze pesanti dell´attuale crisi economica e politica, ci costringono alla fine a stare di fronte a una domanda cruciale: è ancora possibile una “morale comune” (common morality) nella nostra società plurale? Si può ancora parlare di una “percezione morale” (moral insight) per sua natura universale e propria di ogni uomo in quanto uomo? È ancora valida l´affermazione cara a Lewis che esiste «un´attitudine di rispetto e di gratitudine per ciò che ci è stato donato», attitudine propria di ogni uomo nei confronti di quell´eredità di saggezza pratica che tutte le tradizioni, le culture e le religioni hanno assicurato, in tutte le parti del globo, alla grande catena delle generazioni? Su questi temi Benedetto XVI, nel recente discorso di auguri alla Curia, ha usato parole provocanti parlando dell´ethos contemporaneo per il quale «… non esisterebbero né il male in sé, né il bene in sé.
Esisterebbe soltanto un “meglio di” e un “peggio di”.
Niente sarebbe in se stesso bene o male.
Tutto dipenderebbe dalle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male.
La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere».
«Contro di esse – ha aggiunto Benedetto XVI – Giovanni Paolo II nella sua enciclica Veritatis splendor del 1993 indicò con forza profetica nella grande tradizione razionale dell´ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell ´agire morale».
Importanti correnti del pensiero morale concordano nell´affermare che per cogliere l´autentica natura della morale si debba partire dalla esperienza elementare del bene che ogni uomo vive.
Se si guarda alla genesi di questa esperienza morale, ci si rende conto che essa si radica in un desiderio di compimento di sé che prende forma dalla promessa suscitata dalle inclinazioni e dagli affetti originari.
A partire dalle relazioni primarie di riconoscimento reciproco con la mamma e il papà, il bambino, mediante la parola, acquista coscienza pratica di se stesso e diventa capace di apertura e comunione con gli altri.
A questo proposito il dialogo tra Gesù e il giovane ricco raccontato dal Vangelo è particolarmente significativo anche a una pura lettura razionale perché vi possiamo trovare conferma della triplice scansione dell´esperienza morale elementare: desiderio-riconoscimento-comunione.
Il giovane ricco si avvicina a esù e chiede: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?».
Accogliendo la domanda, Gesù gli risponde: «Dà ai poveri».
Lo invita cioè a riscoprire la decisività del nesso tra il bene e la relazione.
Il desiderio di compimento che anima il giovane ricco si realizza, dunque, in questo riconoscimento che apre a una vita comune, condivisa: è questa la forma originaria dell´esperienza del bene e la verità antropologica della moralità.
Se i comandamenti sono la via al bene, il principio della moralità è il bene stesso.
Ed è nella relazione che questo si rivela primariamente.
Del bene si deve fare esperienza perché il desiderio di bene trovi la via della piena attuazione.
A conferma di questo, nell´episodio evangelico, Gesù rilancia ancora e indica un´altra più impegnativa relazione: «Una volta che hai dato tutto vieni e seguimi».
In questa proposta è contenuta una “pretesa” singolare: l´uomo apprende ad attuare il bene nella relazione con l´origine personale del bene e comprende quali sono le cose buone da fare continuando a intrattenere relazioni buone.
L´esperienza elementare del bene e della moralità consiste dunque nel beneficio primario della relazione.
Non si origina da un´idea del bene che sia contenuta nel cosmo o nel bios, né si deduce dalla natura razionale dell´uomo.
Per la costruzione di una moralità comune sembra emergere dunque come modello di riferimento su cui lavorare insieme quello che afferma, da una parte, che la moralità non inizia con il comandamento, ma dall´interno di una ricca e complessa esperienza elementare del bene come articolata unità di desiderio, promessa, parola, riconoscimento e comunione; dall´altra, che alla fine compete alla ragione discernere il senso di questa esperienza morale, comune a tutti gli uomini, per definire i beni umani fondamentali e quindi per sancire il loro universale significato morale.
Fattori questi decisivi in una società plurale come la nostra.
patriarca di Venezia in “la Repubblica” del 23 dicembre 2010
Università: passa la riforma
La Camera ha approvato il disegno di legge Gelmini sulla riforma universitaria con 307 voti favorevoli , 252 contrari e 7 astenuti.
Il provvedimento ora torna al Senato per l’approvazione definitiva.
Molte sono le novità, dal reclutamento al merito, dai contratti di ricerca alle borse di studio per arrivare alla stretta contro la cosiddetta ‘parentopoli’ all’interno dell’università.
Tra i punti principali della riforma ci sono quelli che riguardano l’organizzazione del sistema universitario: entro sei mesi dall’approvazione della legge le università dovranno approvare statuti con le seguenti caratteristiche: Codice etico: ci sarà un codice etico per evitare incompatibilità e conflitti di interessi legati a parentele.
Alle università che assumeranno o gestiranno le risorse in maniera non trasparente saranno ridotti i finanziamenti del Ministero.
Rettori: limite massimo complessivo di 6 anni al mandato dei rettori, inclusi quelli già trascorsi prima della riforma.
Governance: distinzione netta di funzioni tra Senato Accademico e Consiglio d’Amministrazione, il primo organo accademico, il secondo di alta amministrazione e programmazione.
Il Senato avanzerà proposte di carattere scientifico, ma sarà il Cda ad avere la responsabilità chiara delle assunzioni e delle spese, anche delle sedi distaccate.
Il Cda avrà un massimo di tre componenti esterni.
Parentopoli: la Camera ha approvato un subemendamento della maggioranza che rende ancora più duro un emendamento proposto dall’Idv contro la ‘parentopoli’ all’interno dell’università.
In particolare, non si potranno avere parentele fino al quarto grado per partecipare ai concorsi, anche per ricercatori e assegnisti.
L’Idv aveva proposto fino al terzo grado.
Fusione atenei: gli atenei avranno la possibilità di fondersi tra loro o aggregarsi su base federativa per evitare duplicazioni e costi inutili.
Riduzione facoltà: riduzione molto forte delle facoltà che potranno essere al massimo 12 per ateneo.
Questo per evitare la moltiplicazione di facoltà inutili o non richieste dal mondo del lavoro.
tuttoscuola.com martedì 30 novembre 2010
«Neoassunti a Fort Alamo».
Assunti, finalmente.
Con quel contratto a tempo indeterminato in tasca che li salva dalla roulette delle supplenze e dall’ansia per le graduatorie.
Uno se li aspetterebbe carichi di entusiasmo, almeno fiduciosi, come minimo sereni.
E invece i nuovi insegnanti d’Italia giocano già in difesa, avvertono un senso di isolamento, addirittura di arroccamento.
Al punto che la Fondazione Giovanni Agnelli ha scelto un titolo western per lo studio che ne spiega le sensazioni: «Neoassunti a Fort Alamo».
È il terzo anno che la fondazione «interroga» gli insegnanti che hanno appena terminato il primo anno in cattedra dopo l’immissione in ruolo.
Grazie alla collaborazione con gli uffici regionali, hanno risposto in 7.700, dagli asili ai licei, il 96% in dodici regioni.
Un lavorone ma pagina dopo pagina non c’è nemmeno una risposta che indichi un miglioramento.
Rispetto ai loro colleghi entrati in ruolo negli anni precedenti, i neoassunti 2010 faticano di più a mantenere la disciplina: lo ammettono i professori delle superiori (il 53,1% contro il 32,2% di due anni fa) e anche quelli degli asili, raddoppiati in due anni e arrivati al 48,6%.
Moltiplicati per due pure gli insegnanti che non riescono a spingere i ragazzi a studiare: in due anni siamo passati alle elementari dal 20,5 al 42,4%, alle medie dal 36,2 al 53,4%.
Se poi si chiede qual è la causa di questi guai, sembra di sentire una sola voce: tre insegnanti su quattro dicono che la colpa è tutta dello scarso interesse dei ragazzi per lo studio e dell’ancor più scarso valore che le famiglie danno al successo scolastico.
Sul ruolo dei genitori il giudizio è davvero severissimo.
Quattro insegnanti su cinque dicono che è diminuita la stima e la fiducia dei genitori.
E praticamente tutti, si oscilla tra il 96% al 98% a seconda delle regioni, dicono che mamma e papà sono più interessati a proteggere i figli piuttosto che a sapere come vanno a scuola.
«Chiedono di non farli lavorare troppo – sintetizza il direttore della fondazione Agnelli, Andrea Gavosto -, di non dare troppi compiti d’estate o nel fine settimana.
Ma per il resto…».
Insomma, baby sitter e distributori di pezzi di carta più che insegnanti.
In queste condizioni non è certo facile trovare l’entusiasmo necessario.
Anche perché quelli della scuola sono neoassunti molto particolari.
Al momento del passaggio di ruolo in media hanno già lavorato nelle scuole per 10 anni.
Naturalmente da precari, un percorso non sempre formativo e una vera tortura sul piano umano.
C’è il rischio che in alcuni casi, una volta assunto e finito il calvario, l’insegnante possa tirare i remi in barca? «A volte succede» dice Laura Gianferrari, curatrice della ricerca insieme a Stefano Molina e dirigente dell’ufficio scolastico dell’Emilia Romagna.
Secondo lei, però, il vero problema è un altro: «Ormai i ragazzi apprendono seguendo le modalità del pensiero veloce usato con il computer mentre gli insegnanti hanno sempre la stessa cassetta degli attrezzi di una volta: spiegazione, interrogazione, compito in classe…».
Così i ragazzi smanettano con il cellulare sotto il banco.
E i professori si chiudono a Fort Alamo.
Lorenzo Salvia Per la consultazione Fondazione_Agnelli_-_Indagine_Neoassunti_2010_-_Anticipazione.pdf