Il corpo è il messaggio. L’incarnazione al tempo delle cyberfilosofie

 

Il culto del corpo è l’imperativo quotidiano della nostra epoca. Solo chi si sforza di raggiungere il proprio ideale fisico può avere successo, e dunque botox, body-styling e chirurgia estetica divengono i riti che ci promettono un’eterna giovinezza.

D’altro lato, tuttavia, la dimensione corporea va contemporaneamente perdendo sempre più di significato, parallelamente allo svilupparsi delle potenzialità virtuali offerte dal cybermondo costituito da Internet, giochi di ruolo, videogiochi, nanotecnologie applicate alla medicina, che rivelano il profondo desiderio dell’uomo di superare il limite fisico e in definitiva di raggiungere l’immortalità.

Ma a ciò fa ancora resistenza il messaggio evangelico dell’incarnazione di Dio, che continua ad affrancare e a restituire dignità a ogni corpo fragile, limitato, vulnerato nella sua esistenza, e che oggi il pensiero cristiano deve riproporre in modo consapevole e attrezzato come risorsa di senso per una vita vissuta e ancorata alla realtà nell’epoca del cyber-mondo.

 

 

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Regno-att. n.20, 2011, p.707

Riprende il dibattito sul fine vita (Dossier)

 

Rinunciare alla vita: cedimento o solidarietà?
di Bruno Forte
in “Il sole 24 Ore” del 4 dicembre 2011

Non è facile la riflessione che sto per proporre. Non lo è anzitutto perché davanti al mistero della morte, di qualunque  morte, ciò che più si addice è il silenzio. E non lo è perché qualunque parola si dica di fronte a questa morte comunque  inquietante – il “suicidio assistito” di Lucio Magri, un uomo pubblico, che ha vissuto con passione la storia dell’Italia  repubblicana -, si rischia di essere pregiudizialmente giudicati, quasi che la lettura di quel gesto comporti  inevitabilmente una presa di posizione ideologica, una sorta di sentenza scontata a seconda di chi intervenga.
Ecco perché ritengo giusto affermare che quanto cercherò di esprimere è parola “seconda”, che segue al silenzio  prolungato della riflessione e della preghiera, cui il mio cuore di credente si è immediatamente aperto di fronte alla  notizia, e volutamente rifugge da ogni giudizio sul sacrario della coscienza, in cui solo ciascuno può tentare di entrare  per sé, e dove, per chi ha fede, entra unicamente il giudizio dell’amore giusto e misericordioso di Dio.
Lucio Magri, dunque, giovane democristiano negli anni 50, passato poi attraverso le diverse avventure della sinistra  italiana, fondatore con altri de Il Manifesto e protagonista di non poche battaglie politiche su posizioni di critica spesso  adicale nei confronti dei “vincenti” di turno, ha comprato un biglietto di sola andata per la Svizzera, dove, in un  centro a ciò predisposto, in base alle leggi di quel Paese, si è fatto accompagnare fino all’atto estremo del suicidio, per  cui tutto era stato accuratamente predisposto. Gli amici, che nulla avevano potuto di fronte alla depressione che aveva  invaso quel cuore, specialmente dopo la morte della persona amata, sono stati puntualmente informati una  volta compiutosi l’atto estremo, senza ritorno.
Una scelta disperata? Una rinuncia finale a ogni possibile conforto, a ogni sia pur lieve barlume di speranza? O – come qualcuno ha dichiarato – una scelta da rispettare e basta, senza tener conto della possibile ricaduta che inevitabilmente  una simile azione, specialmente in quanto compiuta da un uomo pubblico, ha potuto o potrà avere su  altri? A rispondere a questi interrogativi può forse aiutare  la vicenda stessa di Magri. Siamo nell’Italia della metà degli  anni Cinquanta e il dibattito interno al partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, si va facendo  incandescente.
Fra i giovani militanti di quella forza politica si forma una consistente minoranza di sinistra, che riconosce i suoi  leaders proprio in Lucio Magri e altri. Furono questi a dar voce alla loro insoddisfazione di fronte a quello che  ritenevano l’immobilismo sociale e politico dei capi, dando vita al mensile “Il ribelle e il conformista”. Il nome del  periodico intendeva ricordare da una parte il foglio “Il ribelle” del partigiano cattolico bresciano, ucciso dai tedeschi,  Teresio Olivelli, e dall’altra il romanzo da poco pubblicato di Alberto Moravia “Il conformista”: una sorta di sì gridato al coraggio di chi lotta e dà la vita per la causa, e di no a chi rinuncia a lottare e si arrende alla logica dominante.
L’editoriale del primo numero, uscito nel gennaio 1955, faceva comprendere il perché di quel titolo: ispirandosi a  precise «scelte culturali» e ad «atteggiamenti morali», in specie all’«eredità della resistenza e della tradizione  dossettiana», il periodico si proponeva come voce e strumento di «un’esigenza strategicamente rivoluzionaria», al cui  servizio intendeva elaborare un discorso «rigorosamente politico», tale da giudicare «le forze e la situazione» e  individuare «una meta strategica, che definisse i successivi momenti tattici». Compito del mensile voleva essere  insomma quello di compiere una «rottura, il lancio delle ipotesi, l’inizio di un dibattito, in una parola, la battaglia delle  idee». L’appello era rivolto a tutte le forze giovanili italiane e trasudava – anche nel linguaggio fra l’ispirato e il  visionario – di un atteggiamento fondamentale di speranza, di reazione alla stasi, di nuovo inizio in nome di una  migliore città futura, accogliente e giusta per tutti.
Sono passati più di cinquant’anni da quel grido di riscossa giovanile. Ora Lucio Magri non può più far sentire la sua  voce, come peraltro da tempo mi pare avesse scelto di fare. Se n’è andato volontariamente a cercare la morte in un  Paese straniero, paradossalmente proprio quello che la militanza rivoluzionaria di alcuni anni fa avrebbe definito senza  scusanti un Paese “borghese”. Il suo ultimo respiro lo ha emesso nell’ambiente ovattato di una clinica deputata  ad assistere la volontà di farla finita di alcuni (si calcola un paio di centinaia di persone all’anno), una sorta di tempio  della morte desiderata e accompagnata per chi ha decisione e mezzi per farlo. A quanti credono che la vita è dono e che  solo al Dio donatore spetta di porle fine, la scelta appare evidentemente  inaccettabile, contraria alla vocazione  più profonda impressa nel cuore umano dal suo Creatore. Al di là di ogni giudizio morale, però, non mi sembra  impropria la domanda se questa sia stata una morte da “ribelle” o da “conformista”.
Di fronte alla deriva rinunciataria e al riflusso nel privato di molta cultura post-ideologica o – come si ama dire – “post- moderna”, l’impressione è di trovarsi dinanzi più a un cedimento che a una ribellione. Senza minimamente giudicare il  cuore, oggettivamente ritengo quest’atto tutt’altro che una riscossa anticonformista. Ciò di cui c’è bisogno, in tutti, e  specialmente in chi è più provato dall’attuale crisi economica e sociale, è un atto di coraggio, uno sforzo collettivo  perché nessuno cada nel baratro: insomma, una “ribellione”, non nel segno della violenza o dell’ideologia rivelatasi asfissiante e totalitaria, ma in quello della solidarietà, del l’amore umile e concreto, di quei piccoli (e grandi) segni di  speranza, di cui tutti abbiamo bisogno per vivere, amare e dare agli altri,
specialmente ai giovani, ragioni di vita e di speranza. Riflettere su questa morte potrà aiutarci, forse, ad amare di più la  vita e a volerla migliore per tutti.

 

 

Il momento della pietas
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 1° dicembre 2011

Di fronte a un gesto estremo come quello di Lucio Magri è naturale che negli animi si accendano le passioni. E che da  queste sorgano giudizi di approvazione o disapprovazione a seconda delle provenienze culturali. Ogni coscienza  responsabile sa però che la complessa situazione del nostro mondo non ha certo bisogno di “kamikaze del pensiero” che  ripetono aprioristicamente convinzioni vecchie di secoli.
Ha bisogno piuttosto di analisi pacate e di conoscenza oggettiva perché l’etica non divenga un motivo in più di   divisione, ma realizzi la sua vera missione di far vivere in armonia gli esseri umani.
E in questa prospettiva si impone alla mente una prima inderogabile condizione: rispetto.
Aggiungo che se c’è una situazione in cui hanno senso le parole di Gesù «non giudicare» (Matteo 7,1), è proprio quella  nella quale un essere umano sceglie di porre fine alla sua vita. Sostengo in altri termini che, di contro a una tradizione  secolare che non ha esitato a condannare nel modo più crudo i suicidi, oggi il compito della teologia e della fede  responsabile è di sospendere il giudizio,
offrire dati, produrre analisi, al fine di generare pietas.
La riflessione umana presenta un dato sorprendente: mentre tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, sia  religiose sia filosofiche, condannano senza mezzi termini l’omicidio, per il suicidio le cose non sono altrettanto chiare.  Nelle religioni rimangono di gran lunga prevalenti le posizioni di condanna, com’è il caso di ebraismo, cristianesimo,  slam, e poi di induismo, buddhismo, confucianesimo. Il medesimo orientamento di condanna è maggioritario in  filosofia, come mostrano Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Heidegger. Tra i filosofi però si danno anche punti di vista  che giungono a non condannare, talora anzi a valutare positivamente, il suicidio: così gli epicurei, gli stoici, Montaigne,  Nietzsche, Jaspers. Ma l’aspetto veramente sorprendente, soprattutto per un cristiano, è il fatto che la  Bibbia non condanni mai, in nessun luogo, il suicidio. L’hanno osservato nel ‘900 i maggiori teologi contemporanei, tra  cui Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer, Hans Küng. «Il suicidio non viene mai esplicitamente vietato nella Bibbia», scrive  Barth, aggiungendo che si tratta di «un fatto veramente seccante per tutti quelli che volessero comprenderla e  servirsene in senso morale!».
Sono una decina i suicidi narrati dalla Bibbia e per nessuno vi è una condanna. Anzi un suicida, per l’esattezza Sansone,  viene perfino ricordato dal Nuovo Testamento tra i padri della fede. Non deve stupire quindi che nella Bibbia si  ritrovino parole come queste: «Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica»  (Siracide 30,17). Nel libro di Giobbe si legge di uomini che «aspettano la morte», «che la cercano più di un tesoro»,  «che gioiscono quando la trovano» (Giobbe 3,21-22), e non per condannare questi uomini, perché chi viene  condannato è piuttosto chi sostiene con arroganza e intransigenza la prospettiva contraria come i cosiddetti amici di Giobbe cioè i dogmatici Elifaz, Bildad, Zofar, Elihu.
Certo, tutti sanno che dalla Bibbia emerge soprattutto il messaggio della sensatezza e della sacralità della vita, quello  secondo cui la nostra vita è «nelle mani di Dio» (Salmo 16,5), in Dio è «la sorgente della vita» (Salmo 36,10) ed esiste  quindi una sorta di rifugio imprendibile dentro cui la nostra energia spirituale più preziosa, detta tradizionalmente  anima, non corre pericolo: «Non abbiate paura di coloro che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere  l’anima» (Matteo 10,28).
Alla luce di questi dati emerge che il compito dei cristiani oggi non è di emettere condanne qualificando negativamente  e sofferte scelte di chi si suicida. È piuttosto di vivere la fede nella dimensione spirituale dentro cui  l’anima vive al sicuro, anche quando il corpo tradisce. È da questa prospettiva spirituale che io giungo a valutare  negativamente il suicidio, e a lottare perché la fiducia verso la vita non venga mai meno, ma si possa assaporare ogni  istante l’energia vitale che ci è stata data (se da un Dio personale o dall’impersonalità del processo cosmico, a questo  riguardo è una questione secondaria).
Concludendo l’articolo sul compagno di tante battaglie, ieri Valentino Parlato scriveva della necessità di «affrontare  l’attuale, e storica, crisi della sinistra, per ridare alle donne e agli uomini la speranza di un cambiamento, di una uscita  dall’attuale stato di mortificazione degli esseri umani».
Ottimo obiettivo, ma per raggiungerlo io non conosco modo migliore di ospitare fino all’ultimo dentro di sé un  sentimento di gratitudine verso la vita in tutte le sue manifestazioni, quel medesimo sentimento che ha portato Violeta  Parra a comporre e a cantare la sua bellissima canzone Gracias a la vida.

 

 

Liberi di vivere e morire
di Paolo Flores D’Arcais
iin “il Fatto Quotidiano” del 2 dicembre 20112

Se la tua vita non appartiene a te, amico lettore, ne sarà padrone un altro essere umano, finito e fallibile non meno di  te. Ti sembra accettabile? Su questa terra infatti si agitano e scontrano solo e sempre volontà umane, una volontà  anonima e superiore che si imponga a tutti, oggettivamente o intersoggettivamente, è introvabile. Chi ciancia della  volontà di Dio è blasfemo (come può pensare di conoscere ciò che è incommensurabile con la piccolezza umana?). In  realtà attribuisce a Dio la propria volontà, lucrando sulla circostanza che nessun Dio potrà querelarlo per  diffamazione. Il Dio cattolico di Küng considera lecita l’eutanasia, il Dio altrettanto cattolico di Ratzinger l’equipara all’omicidio. Perché in realtà si tratta dell’opinione di Küng e dell’opinione di Ratzinger, umanissime entrambe e non  più autorevoli della tua. Perciò, rispetto alla tua vita, o il padrone sei tu o il padrone è un altro “homo sapiens”, eguale  a te in dignità (così Kant, e ogni democrazia anche minima), vescovo, primario ospedaliero, pater familias o altra  “autorità” che sia. Ma poiché siamo tutti eguali, deve anche valere il reciproco: se il padrone della tua vita può essere  qualcun altro, tu potrai a tua volta decidere della sua vita contro la sua volontà. Se c’è davvero qualcuno che accetterebbe si faccia avanti. Ma non ce n’è nessuno. Nella realtà esistono solo “homo sapiens” finiti, fallibili e   peccatori come te e come me, amico lettore, che pretendono di imporre alle altrui vite la loro personale volontà, ma mai accetterebbero di essere soggetti ad analoga mostruosa prevaricazione.

PERCIÒ, senza perifrasi: il suicidio assistito è un diritto? Sì. Fa tutt’uno col diritto alla vita e alla libertà, inscindibili. La  “Vita” che qualcuno vuole “sacra” è infatti la vita umana, non il “bios” in generale (ogni volta che prendiamo un  antibiotico, come dice la parola, facciamo strage di “vita”), e la vita umana è tale perché singolare e irripetibile, cioè  assolutamente MIA. Se non più mia, ma a disposizione di volontà altrui, è già degradata a cosa: “Instrumentum  vocale”, dicevano giustamente gli antichi.

Per Lucio Magri la vita era ormai solo tortura. Per Mario Monicelli la vita era ormai solo tortura. Per porvi fine, Lucio Magri ha dovuto andare in esilio e Mario Monicelli gettarsi dal quinto piano.
La legge italiana vieta infatti una fine che non aggiunga dolore al dolore già insopportabile: su chi ti aiuta incombe una  condanna fino a 12 anni di carcere. E per “assistenza” al suicidio si intende anche quella semplicemente morale! Due  casi raccapriccianti di anni recenti: un coniuge accompagna l’altro nell’ultimo viaggio (solo questo: la vicinanza) e  deve patteggiare una pena di oltre due anni, altrimenti la sentenza sarebbe stata assai più pesante. Una signora di 54  anni, affetta da paralisi progressiva, decide di andare da sola in Svizzera, proprio per non coinvolgere la figlia.
Che tuttavia le prenota il taxi per disabili che la porterà oltre frontiera. È bastato per l’incriminazione: ha dovuto patteggiare un anno e mezzo di carcere.

MA QUANDO si vuole porre fine alla tortura che ormai ha saturato la propria esistenza, si ha sempre bisogno di  assistenza: il pentobarbital sodium non si trova dal droghiere, solo un medico lo può procurare. L’alternativa è  appunto l’esilio o lo strazio estremo dell’angoscia aggiuntiva: gettarsi sotto un treno o nel vuoto o nella morte per  acqua. Le anime “virili” che si sono concessi perfino l’ironia (“se uno vuol farla finita ha mille modi, senza piagnistei di  ‘aiuto’”: i blog ne sono pieni), hanno davvero oltrepassato la soglia del vomitevole.

Altre obiezioni grondano comunque ipocrisia o illogicità. “Se vedi uno che si sta impiccando che fai, rispetti la sua  libertà o intanto lo salvi?”. Ovvio che lo salvo, poiché potrebbe essere un momento di sconforto. Ma i casi di cui  parliamo sono sempre e solo riferiti a scelte lungamente maturate, ponderate, ribadite. Lucidamente e  incrollabilmente definitive (a maggior ragione se chi vuole morire subito è un malato terminale comunque condannato   morte). Da rispettare, dunque, se a una persona si vuole bene davvero: anche se la fine della sua tortura ci procura il dolore della sua assenza per sempre.

ALTRETTANTO pretestuosa l’accusa che il medico verrebbe costretto a praticare l’eutanasia a chiunque la chieda.  Nessuno ha mai avanzato questa richiesta, ma solo il diritto – per il medico che questo aiuto vuole dare – di non  rischiare il carcere come un criminale. Spiace perciò particolarmente che Ignazio Marino, clinico e cittadino dai molti  meriti, abbia dichiarato: “Non dividiamoci tra ‘pro vita’ e ‘pro morte’, il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla  fragilità umana”.
A parte la scurrilità del “tifo da stadio”: essere “pro choice” non è essere “pro morte” ma per la libertà di ciascuno di  decidere liberamente, mentre troppi “pro vita” sono semplicemente “pro tortura”, poiché pretendono di imporla a chi  invece la vive come peggiore della morte. Tu hai tutto il diritto di dire che mai e poi mai ricorrerai al suicidio assistito,  che la sola idea ti fa orrore. Ma che diritto hai di imporre questo rifiuto a me, cui fa più orrore la tortura, visto che  siamo cittadini eguali in dignità e libertà?

 

 

Il cardinal Martini e la morte
di Armando Massarenti
in “Il Sole 24 Ore” del 4 dicembre 2011

Nell’introduzione al recente «Meridiano» dedicato a Carlo Maria Martini, Marco Garzonio ricorda la copertina che il cardinale scrisse per la Domenica del Sole 24 Ore il 21 gennaio 2007, «Io, Welby e la morte». «A un mese di distanza  dalla morte di Piergiorgio Welby, l’uomo malato di Sla cui la Chiesa non aveva concesso i funerali religiosi» ricorda  Garzonio, Martini scriveva: «Con lucidità ha chiesto la sospensione delle terapie di sostegno respiratorio, costituite  negli ultimi nove anni da una tracheotomia e da un ventilatore automatico». Il cardinale ai tempi era già affetto dal  Parkinson, ed era consapevole degli effetti progressivamente invalidanti della malattia. «Si può allora immaginare – scrive Garzonio – quanto le sue argomentazioni fossero arricchite dalla sofferenza provata sulla propria pelle oltreché  dalle ragioni della teologia, del diritto e della morale». Si incentravano in particolare sulla nozione di “accanimento  terapeutico”: «Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi  matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le  condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere trascurata la  volonta del malato, in quanto a lui compete – anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite – di  valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate».  Ecco, il punto è tutto in quel «non può essere trascurata la volontà del malato». Ancor più laicamente io direi che la  volontà del malato è decisiva. Ma la cauta espressione del cardinal Martini, presa sul serio, sarebbe già sufficiente per evitare lo scempio della nostra libertà previsto dalla legge sul testamento biologico elaborata dall’attuale Parlamento.

 

 

Il dibattito

 

Anche quest’oggi diamo spazio alle riflessioi sul suicidio “”non siamo padroni della vita! Ma padrone della vita non può essere nemmeno il caso, o la malattia, o la tecnologia, o lo stato con le sue leggi e lei stessa, chiesa, che della vita dovrebbe essere serva, non padrona!” “E’ questa presa di coscienza della complessità del problema che manca ai teologicchi di oggi, semplici megafoni amplificatori della “Voce del Padrone”! ” (ndr.: la riflessione svolta riguarda il suicidio, non il suicidio assistito, che pone dei problemi ulteriori)
“Scorretto parlare di confronto tra “pro vita” e “pro morte”. Nel mondo anglosassone si parla di “pro choice”…
“esiste, a mio avviso, una differenza profonda tra sospendere terapie che hanno il carattere della straordinarietà o sono ritenute sproporzionate dal paziente, come può essere la nutrizione artificiale oppure un intervento chirurgico, e porre volontariamente fine alla vita di un essere umano attraverso la somministrazione di un farmaco letale”
Il gesto estremo, se proprio si vuole compierlo, bisogna affrontarlo da soli, senza complicità di sorta. Pretendere di farsi assistere nel suicidio è una mostruosità logica e giuridica, prima amcora che religiosa
  • Lucio e il volo di Giancarla Codrignani in l’Unità del 2 dicembre 2011
“Lucio Magri era un uomo di fede. Laica, laicissima… la fede è pericolosa, soprattutto quando un dio viene sostituito da un’idea … di salvezza umana. Se un Papa avesse una fede così e volesse chiamare cristiano “questo” mondo, si suiciderebbe… Per chi continua, senza ali, con i piedi per terra, a fare politica, cioè alimenta per sé e per altri la speranza, il sentimento del limite umano incomincia a far male dentro….
Nalla bibbia non c’è alcun divieto al suicidio, non c’è un Dio che condanni a vivere. ” si tratta di considerare tutte le persone come dei soggetti liberi, responsabili dei propri atti… e di dar loro il desiderio di scegliere ancora la vita nono stante tutto”
“Mi è preziosa la facoltà di scegliere se vivere o morire, e però mi fa disperare e ribellare l’eventualità che una persona che amo scelga di morire… Ci sono due gruppi nei quali il suicidio infierisce: i giovani, e i carcerati… Non si sceglie di morire come per una liberazione: questo è un eufemismo. Si sceglie, o ci si rassegna, a non poter più essere liberati…”
“si deve rispettare la coscienza seria di chi non vede più un senso umano, che anche Dio vuole per la nostra vita, della propria sofferenza esistenziale”
“Esiste un diritto di morire? Si può legittimamente programmare la propria morte, facendosi aiutare da un medico? Ognuno di noi ha sicuramente il diritto di essere riconosciuto come soggetto della propria vita fino alla fine, anche in punto di morte…”
Austria “Nella sua ultima “lettera alle parrocchie” del settembre 2011 si dichiarava favorevole a “quasi tutte” le richieste dell’Appello alla disobbedienza” e a questo proposito argomentava: “I parroci della Initiative, che conosco personalmente, non sono dei rivoluzionari, ma preti appassionati.”
“Tutto può essere perdonato, salvo la sovrana decisione di sé. In tanti Paesi che si pretendono democratici questa libertà è oggi considerata una solida conquista. A quando la compiutezza di un diritto che emancipi la nostra Repubblica dai condizionamenti della Chiesa? “

 

 

 

 

Non cerchiamo film catechistici ma opere d’arte

A colloquio con l’arcivescovo Claudio Maria Celli su cinema e fede

 


Il cinema è un modo per scolpire il tempo scriveva il regista-poeta Andrej Tarkovskij in un saggio del 1988; “è l’unica forma d’arte che, proprio perché operante all’interno del concetto e dimensione di tempo, è in grado di riprodurre l’effettiva consistenza del tempo, l’essenza della realtà, fissandolo e conservandolo”, un’arte che, come gli haiku giapponesi riesce a rendere l’irripetibilità dell’istante, “geneticamente” vicina al mistero e al sacro, secondo l’autore di capolavori come Solaris, Stalker e Andrej Rublev. “Persino la constatazione della mancanza di spiritualità del tempo in cui vive – scriveva il regista russo, sempre in Scolpire il tempo – richiede all’artista la più alta e determinata elevatezza spirituale”. Se la Bellezza, con la “b” maiuscola, parla da sola della sua origine, non c’è bisogno di aggiungere “didascalie religiose” alle opere d’arte; o, per dirla con maggiore sintesi con le parole dell’arcivescovo Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, usate nel corso di un dibattito durante il convegno “Film and faith” (l’1 e il 2 dicembre alla Pontificia Università Lateranense, organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo): “Non abbiamo bisogno di film catechistici ma di film belli”. Nell’introdurre la sessione dei lavori dedicati al ruolo del critico cinematografico, monsignor Celli ha sottolineato: “Basta guardare alla produzione cinematografica recente per vedere che il sacro emerge da molti film, a volte appena sussurrato, quasi come fosse una traccia da seguire; di là dagli artifici, dagli effetti speciali, percepisco in molti film che quell’elemento spirituale non è separato dal mondo, non è astratto, ma si mescola alle piccole cose di ogni giorno, quasi nascosto, come fosse una luce sottile che le rende speciali. Così si percepisce una certa presenza di Dio in molti film, come una vibrazione appena percettibile che ogni artista suggerisce, affinché lo spettatore la individui da solo”.

Monsignor Celli, una delle malattie più gravi del mondo contemporaneo è lo sfaldamento dell’identità personale; l’arte, e in particolare il buon cinema, può aiutare a contrastare questa crescente “polverizzazione dell’io”?

Al di là del credo religioso e della cultura, la storia di ogni uomo, nei millenni, non può essere annullata, in un percorso che lega le generazioni tra loro, attraverso la tradizione e l’insegnamento. L’arte è da sempre maestra nel trasmettere l’identità di ogni popolo ed epoca. Credo dunque che il senso di appartenenza sia fondamentale per l’identità personale e sia il fulcro del nostro esistere. Il buon cinema, in quanto somma di tante arti, con il suo linguaggio suggestivo può veicolare immagini, idee e valori che riescono a far affiorare dall’intimo delle persone riflessioni fondamentali, suscitando interrogativi, dubbi, ma soprattutto spingendoci a un cammino di ricerca più profonda del nostro io. Di lì il passo è breve, c’è l’altro e c’è Dio.

Non c’è solo banalità e volgarità sul grande schermo, c’è anche una settima arte che affronta la profonda crisi esistenziale e la costante – per quanto spesso confusa e contraddittoria – ricerca di senso dell’uomo contemporaneo. Cosa fare per favorire la diffusione di quello che lei chiama “un cinema ad alto voltaggio morale”?

Credo che il cinema, proprio per il suo linguaggio, possa aiutare ogni uomo a rientrare in se stesso, pacificandolo con la propria interiorità e predisponendolo all’altro, nell’accettazione della diversità e nella condivisione della spiritualità. Quando vediamo un film, un buon film, tutto non finisce con i titoli di coda, ma inizia, perché rielaboriamo le emozioni. Dunque, facciamo appello alla grande sensibilità degli artisti che ci illuminano con le loro opere, ma allo stesso tempo credo sia fondamentale una vera e propria educazione al linguaggio dell’immagine, un percorso formativo che porti gli spettatori, sin dalla più tenera età, a un’analisi consapevole dei contenuti cinematografici, sviluppando il loro senso critico. Non bisogna demonizzare il film diseducativo, quanto piuttosto aprire spazi di dialogo, ribadendo che l’uomo, creato a immagine di Dio, ha una sua dignità che non può essere oltraggiata, ha una sua aspirazione ben più alta e soprattutto cerca la verità, quella verità che anche un film può contribuire a scoprire. I “miracoli” sono spesso celati tra le piccole cose della nostra quotidianità; non dobbiamo andare lontano, perché lo spirito ci accompagna ogni giorno anche attraverso un’immagine, una nota musicale, una parola. Tutto questo fa un buon film.

In quali opere ha recentemente riscontrato un respiro più grande e un’utilità “educativa”, se così si può chiamare?

È sempre difficile rispondere a questa domanda, perché in tanti film ci sono passaggi a volte inattesi che imprimono la mia anima. È un insieme di sensazioni per cui la spiritualità emerge da una luce, da una musica ed è lì che il film acquista una bellezza difficile da descrivere. Indubbiamente Uomini di Dio, che senza artifici riesce a narrare una storia di fede e dolore, una vera e propria passione, oppure The Tree of Life di Terrence Malick, una vera e propria parabola visiva sulla creazione, il peccato, la redenzione e l’amore. Ma la lista potrebbe essere più lunga. Cito solo questi due esempi perché, pur non essendo film “facili”, hanno conquistato il pubblico. Come vede gli spettatori hanno bisogno che si torni a “narrare” lo spirito.

“L’impatto degli strumenti della comunicazione sulla vita dell’uomo contemporaneo – ha detto Benedetto XVI – pone questioni non eludibili”; quali sono le occasioni di dialogo e riflessione che si sono rivelate più produttive e interessanti all’interno dell’attività del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali?

Il nostro dicastero ha sempre cercato di non “teorizzare” troppo sulla comunicazione, ma di agire, poiché siamo fermamente convinti che l’uomo contemporaneo vive letteralmente la sua vocazione di comunicatore e attraverso gli strumenti creati dal suo genio riesce ad ampliare le sue conoscenze e il suo raggio di azione. Per questo siamo in perenne contatto sinergico con tutte le realtà mondiali che possano aiutarci a rispondere al bisogno di vera comunicazione che il mondo ha. Congressi, incontri, formazione: tutto questo è fondamentale. Quello che però vorrei dire ai giovani che si apprestano a lavorare nel mondo della settima arte è: non tradite voi stessi, il vostro credo, le vostre aspirazioni. Siate veri, della stessa Verità del Vangelo. Ascoltate il mondo e i suoi bisogni, le sue ansie e le sue speranze. Il cuore umano anela a un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi, dove si edifichi l’unità, dove la libertà trovi il proprio significato nella verità e dove l’identità di ciascuno sia realizzata in una comunione rispettosa. Siate pronti ad accogliere questa sfida con i vostri film! Siate artisti appassionati della verità e della bellezza.

Il festival “Tertio Millennio” vuol essere una tessera di questo mosaico?

Il festival nasce da una sinergia di intenti, alla fine degli anni Novanta. L’Ente dello Spettacolo, il Pontificio Consiglio della Cultura, il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali hanno sentito che era il momento di aprire un dialogo costruttivo tra la Chiesa e il mondo del cinema, considerato un veicolo di cultura e proposta di valori. Questo poteva incoraggiare una produzione dalle grandi possibilità umanizzanti, evidenziando la dimensione spirituale che è in ogni essere umano e che il cinema in moltissimi casi ha dimostrato di saper bene esprimere.

(©L’Osservatore Romano 4 dicembre 2011)

 

Ripensare l’integrazione degli immigrati

“Il presidente ha ragione bisogna ripensare la legge o siamo destinati al declino”:

intervista ad Andrea Riccardi, a cura di Marco Ansaldo.

 

«Sì, il presidente Giorgio Napolitano ha ragione: c’è la possibilità di riprendere in mano le politiche sull’immigrazione. E dunque occorre ripensare la legge sulla cittadinanza. Perché l’integrazione è un tema centrale di quest’epoca. Lo  faremo, allora, nell’interesse del Paese, della generazione dei bambini immigrati e delle loro famiglie».
Per Andrea Riccardi è un periodo davvero intenso. Citato pubblicamente ieri dal capo dello Stato per l’importanza del nuovo ministero che gli è stato affidato, ma anche elogiato da un ministro del passato governo (Gianfranco Rotondi, il  quale ha detto che lo storico della Chiesa e fondatore della Comunità di Sant’Egidio «ha una bella storia personale»), sa  di avere dietro di sé anche l’attenzione del Vaticano e dello stesso Pontefice, che lo conosce bene e lo stima. Riccardi  allora si schernisce, e si dice ancora «scombussolato» per la chiamata del premier Mario Monti a partecipare al nuovo esecutivo in un ruolo chiave, benché senza portafoglio. E tuttavia «felice» per la nuova avventura.
Lo incontriamo mentre esce dal suo ministero, a Roma, a Largo Chigi.

Il presidente della Repubblica ha parlato di «assurdità e follia» per il fatto che i figli degli immigrati nati in Italia non siano cittadini italiani. È uno dei temi centrali del suo ministero. Che cosa ne pensa?
«Mi sembra che il capo dello Stato abbia dato – per la seconda volta nel giro di pochi giorni – un contributo al  ripensamento dell’identità italiana. Ponendo l’accento sull’importanza di sapere chi siamo e dove andiamo. Un argomento decisivo».


Perché?

«Intanto perché giunge nell’anniversario dei 150 anni dell’unità d’Italia. Proprio quest’anno i giovani hanno potuto  riscoprire le loro radici, direi con un orgoglio maturo».


E poi?

«Perché ha posto il problema dei nuovi italiani e fatto cenno alla legge che porta il suo nome, la Turco-Napolitano del  1998, che segnala un percorso per stabilizzare gli stranieri, seguendo una logica che va dal momento dell’emergenza a quello della stabilizzazione del fenomeno».

Però oggi le prospettive sono diverse.
«Sì, lo sono perché ora abbiamo un popolo di bambini che sono figli di immigrati. I nati in Italia giuridicamente  stranieri superano il mezzo milione. E i minori residenti sono quasi un milione.
Insomma, parlano l’identica lingua, vedono i medesimi paesaggi, vivono la stessa storia, sono legati al nostro mondo.  Senza di loro l’Italia sarebbe più vecchia e con minori capacità di sviluppo».


Qual è la sua intenzione allora?

«Occorre ripensare la legge sulla cittadinanza. Questo proprio perché abbiamo fiducia nella nostra identità. Che è forte  e al tempo stesso flessibile. Capace di integrare».

Un obiettivo ambizioso. Ma non vede dei rischi?
«Io piuttosto vedo convergere in questo progetto, come nelle grandi scelte della politica, l’identità nazionale con  l’interesse nazionale. E anche con l’interesse dei soggetti in questione, cioè i bambini e le loro famiglie».

In quanto fondatore di Sant’Egidio è un argomento a lei caro. Non si attirerà però delle critiche?
«Veramente, e lo dico in modo assolutamente modesto, sono anni che auspico che questo tema sia trattato in modo  ragionevole, legale, e soprattutto umano. Prima di ricevere questo incarico avevo già deciso di parlare di integrazione. Lo faccio ora a maggior ragione».

E dal punto di vista storico come lo considera?
«Credo che il tema dell’immigrazione sia importante tanto quanto la questione dei confini nell’Otto- Nocevento. E  andrebbe affrontato perciò in modo preveggente, freddo e ragionevole».

Si dice che l’Italia abbia una società invecchiata, se non addirittura sclerotizzata. Ma è davvero così?
«Beh, sul tema dell’immigrazione ci si gioca sul serio il futuro, e la possibilità di acquisire nuove energie. L’integrazione  è un passaggio importante. Gli stranieri ringiovaniscono il Paese. È una grande possibilità per il domani. E per tutti i cittadini italiani».

Napolitano ieri ha ricordato il significato della sua nomina a ministro, citando «l’integrazione nella società e nello Stato italiano». Un invito chiaro a puntare su questo aspetto?
«Io sono grato che Napolitano abbia fatto cenno al mio ministero. Anzi confesso che non sono ancora abituato a  pronunciare questa parola, sono ancora fresco di nomina. Ma credo che rappresenti un segnale per affrontare la questione in modo non partigiano».

 

Documentazione

 

Sabato 19 novembre 400 persone hanno partecipato alle prime ‘Assises nationales de la diversité culturelle’ a Parigi. La giornata, fatta di conferenze e di laboratori, organizzata da ‘Témoignage chrétien’ e ‘Salamnews’, si è conclusa con un appello per una società interculturale.

 

Biblioteche ecclesiastiche in rete

Un patrimonio a portata di clic

Il Polo delle biblioteche ecclesiastiche (PBE) nasce nel 2007 e confluisce nel marzo 2010 nel Servizio bibliotecario nazionale. In questo primo anno di attività le nuove adesioni sono state costanti fino a raggiungere il significativo numero di 100 istituti, con già una decina di nuove biblioteche che stanno completando l’iter formativo per l’inserimento.
Ad oggi sono presenti 60 biblioteche diocesane, distribuite sul territorio nazionale con una lieve prevalenza di quelle collocate nel settentrione, mentre il patrimonio complessivo di copie custodite dal Polo sfiora quota 310.000, tutte catalogate secondo criteri riconosciuti a livello internazionale.
L’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici, che tiene le fila di questo imponente lavoro, ha preparato una dettagliata comunicazione per fare il punto dei diversi fronti che vedono impegnato il PBE, dando anche notizia della convenzione firmata lo scorso 15 novembre con l’ICCU, l’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche del Ministero per i beni e le attività culturali.
L’accordo riguarda la descrizione informatizzata dei documenti manoscritti ed accrescerà la sinergia tra le biblioteche ecclesiastiche del PBE e il sistema nazionale, attraverso l’utilizzo del sistema “Manus On-Line”. Al fine di programmare al meglio le attività, è stato predisposto un breve questionario che verrà distribuito nei prossimi giorni alle biblioteche del Polo per raccogliere on line le informazioni circa le collezioni manoscritte e il loro trattamento.

http://www.chiesacattolica.it/

Di fronte alle prospettive deflazionistiche: un nuovo modello di leadership

Gli errori di interpretazione e la sottovalutazione dell’attuale crisi economica sono stati gravi e perdurano.

 

Sono state male interpretate le sue vere origini, cioè il crollo della natalità, e le conseguenze che hanno portato all’aumento delle tasse sul PIL per assorbire i costi dell’invecchiamento della popolazione. E sono stati sottovalutati gli effetti delle decisioni prese per compensare questi fenomeni, soprattutto con la delocalizzazione produttiva e con i consumi a debito.

Non sono stati poi presi nella giusta considerazione l’urgenza di intervenire e i criteri da seguire per sgonfiare il debito prodotto. Non è stato quindi previsto il crollo di fiducia che ha condotto al ridimensionamento dei valori delle Borse e alla crisi del debito.

A questo punto le soluzioni non sono più tante.

Per ridurre il debito totale – pubblico, delle banche, delle imprese, delle famiglie – e riportarlo ai livelli precedenti alla crisi, cioè a circa il 40 per cento in meno, è immaginabile, ma non raccomandabile, cancellarne una parte con una specie di concordato preventivo in base al quale i creditori vengano pagati al 60 per cento.

È pensabile, ma si tratta di un’ipotesi senza prospettive, inventare qualche nuova bolla per compensare il debito con una crescita di valori mobiliari o immobiliari.

È valutabile – ma speriamo sia solo una tentazione – una tassazione della ricchezza delle famiglie, sacrificando però una risorsa necessaria allo sviluppo e producendo allo stesso tempo un’ingiustizia.

Si può anche ricercare una via di sviluppo rapido, grazie a una crescita di competitività, che nella crisi globale non è però facile generare. Non ci sono capitali da investire, le banche sono deboli, il problema demografico penalizza la domanda e gli investimenti. In questo contesto, inoltre, i consumi a debito non sono nemmeno immaginabili.

I paesi occidentali sono costosi e per renderli economici in tempo breve si dovrebbe intervenire sul costo del lavoro. Interventi di stampo protezionistico per sostenere le imprese non competitive produrrebbero però svantaggi per i consumatori e ridurrebbero i consumi già in declino.

Si potrebbe svalutare la moneta unica, ma questa iniziativa condurrebbe all’aumento dei prezzi di beni importati.

Qualcuno, per sgonfiare il debito, pensa anche all’inflazione. Ma l’inflazione non si accende se la crescita economica è pari a zero, se i salari sono fermi, se incombe l’ombra della disoccupazione e se diminuiscono persino i prezzi delle materie prime.

Si potrà affermare che la spirale inflazionistica non si avvia finché c’è sfiducia nella propria moneta. La questione è che oggi non ci si può fidare di nessuna valuta: tutte, compresi euro e dollaro, sono deboli.

L’inflazione non parte anche perché la liquidità non circola, ma soprattutto perché quella creata dalle banche centrali ha sostituito quella prodotta dai sistemi bancari per sostenere la crescita a debito.

Il primo problema oggi non è quindi l’inflazione ma la deflazione. I mercati stanno infatti privilegiando la liquidità. Questo perché in regime deflazionistico il valore della moneta cresce, mentre durante l’inflazione decresce.

Far progredire l’economia oggi senza aumentare il debito pubblico significa correlare i tassi di interesse al PIL. Nei paesi con un debito pubblico superiore al 100 per cento del PIL, è evidente che, per ottenere una crescita dell’1 per cento senza fare aumentare il debito, bisogna avere tassi non superiori all’1 per cento, penalizzando in questo modo i risparmi.

La soluzione è in mano ai governi e alle banche centrali che devono realizzare un’azione strategica coordinata di reindustrializzazione, rafforzamento degli istituti di credito e sostegno dell’occupazione.

Questo richiederà tempo, un tempo di austerità nel quale ricostituire i fondamentali della crescita economica.

Ma soprattutto i governi devono ridare fiducia ai cittadini e ai mercati attraverso una “governance” adatta ai tempi, che, oltre a garantire adeguatezza tecnica, sia anche un modello di leadership. Cioè uno strumento per raggiungere l’obiettivo del bene comune.

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Tra i numerosi interventi di Ettore Gotti Tedeschi sul crollo della natalità come causa ultima dell’attuale crisi economica mondiale, ecco una sintesi dell’articolo da lui pubblicato l’estate scorsa su “Atlantide”, rivista della Fondazione per la sussidiarietà, dell’area di Comunione e liberazione:

> Riprendiamo a fare figli e l’economia ripartirà

Su “L’Osservatore Romano” del 27 agosto 2011 Gotti Tedeschi si è pronunciato con ancor più energia contro la tassazione dei patrimoni privati, sostenuta da politici, sindacalisti, economisti, imprenditori e uomini d’affari di diversi paesi, oltre che da numerosi esponenti cattolici:

> L’orizzonte di Noè, per una vera soluzione della crisi

Gotti Tedeschi è inoltre fermamente contrario a una tassazione delle transazioni finanziarie in un paese come l’Italia, nel quale il risparmio delle famiglie è molto elevato. A suo giudizio questo risparmio privato, invece che punito con nuove tasse, dovrebbe essere indirizzato, con garanzie da parte dello Stato, a finanziare le imprese medie e piccole che sono l’ossatura dell’economia produttiva italiana.

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Una netta stroncatura del documento del pontificio consiglio della giustizia e della pace è venuta anche da un economista laico italiano di grande autorevolezza, il professor Francesco Forte, successore all’Università di Torino sulla cattedra che fu del grande economista liberale Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia e poi presidente della repubblica dal 1948 al 1955:

> Il professor Forte boccia il temino targato Bertone

In Francia un commento critico del documento è venuto dal professor Jean-Yves Naudet, dell’Université Paul Cézanne d’Aix-Marseille III, presidente dell’Associazione degli economisti cattolici:

> Un texte qui doit inviter à la réflexion

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Il documento del 24 ottobre 2011 del pontificio consiglio della giustizia e della pace:

> “Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”

E la presentazione che ne hanno fatto il cardinale Turkson, monsignor Toso e l’economista Becchetti:

> Conferenza stampa del 24 ottobre 2011

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L’enciclica “sociale” di Benedetto XVI:

> “Caritas in veritate”

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Futuro dell’umanità

Tutti vorrebbero conoscere il futuro dell’ umanità. È più di una semplice curiosità o di un sfizio dell’ immaginazione. Si tratta di un bisogno arcano, da sempre nascosto nel profondo delle aspirazioni di ciascuno. Gli strumenti statistici e le analisi della società, tuttavia, riescono oggi, malgrado l’ invalicabilità del limite, a dirci qualcosa su come sarà probabilmente il mondo di domani. O, almeno, come potrebbe presentarsi la condizione di vita sulla Terra, se i parametri attuali rimanessero costanti. Cosa evidentemente insicura. È questo l’ argomento dell’ importante rapporto di quest’ anno del Fondo dell’ Onu per la popolazione. Il quadro che emerge sul futuro dell’ umanità appare veramente molto interessante. Intanto si conferma un dato del presente che riguarda il censimento complessivo. Dal 31 ottobre il nostro pianeta ha 7 miliardi di abitanti, un miliardo in più rispetto a 12 anni fa e 6 rispetto all’ Ottocento. Fin qui abbiamo a che fare non con le previsioni ma con una constatazione di base. L’ aumento demografico si consolida. Tanto che, se i tassi di crescita resteranno gli attuali, gli inquilini della Terra toccheranno nel 2100 la quota di 15 miliardi. Ma sappiamo anche che la tendenza attuale – come è già avvenuto prima – decrescerà nel futuro. Una prima riflessione s’ impone e riguarda la distribuzione degli incrementi che coinvolgono l’ emisfero nord in modo sensibilmente inferiore rispetto a quello centrale e meridionale. Nell’ Europa Occidentale ci sono oggi 170 abitanti per chilometro quadro. Nell’ Africa subsahariana 70. Maa nessuno viene in mente di affermare che in Europa ci sono troppe persone. Le ragioni macrodemografiche sono ovviamente complesse, coinvolgendo sia gli atteggiamenti economici che le identità culturali. In ogni caso il ritmo di aumento delle natalità, con il concorso effettivo della vita media, connesso con l’ invecchiamento occidentale, contribuirà di sicuro ad una forma di mescolamento migratorio inevitabile. Il documento delle Nazioni Unite, tuttavia, guarda soprattutto alle probabili modalità di configurazione dell’ ordine sociale dell’ avvenire. Si è registrato una costante intensificazione della mobilità, non soltanto da Paese a Paese, ma anche tra i diversi continenti. E, cosa abbastanza significativa, un processo di urbanizzazione crescente che si realizzerà in modo massiccio nei prossimi 40 anni. Qui si indica già un campo su cui attivare politiche adeguate, viste le tendenze all’ accentramento di popolazione di vasta scala nelle città. D’ altronde, il ruolo politico delle grandi metropoli sta diventando sempre più consapevolmente un perno del processo d’ integrazione democratica. Qui s’ incontrano demografia e cultura democratica. Il rapporto dà, però, in modo esplicito alcune indicazioni chiare sui giovani, cui è riconosciuto un potenziale enorme a causa del fatto che la metà della popolazione mondiale sarà composta da persone con meno di cinquant’ anni. Poiché l’ 80% proverrà da continenti in via di sviluppo, puntare su istruzione, salute e occupazione è interesse unanime. Stesso discorso anche per la condizione femminile che appare addirittura, tra le righe del resoconto, un elemento chiave per il bene comune dell’ umanità. L’ emancipazione del genere femminile, in costante accentuazione, garantirà insieme all’ acquisizione di un ruolo e di un’ identità specifica delle donne, un protagonismo fondamentale nell’ educazione delle successive generazioni. Due osservazioni di straordinaria rilevanza devono essere accompagnate a questi fatti. In primo luogo la constatazione, valida a livello globale, che non è possibile uno sviluppo complessivo dell’ umanità senza che le dinamiche spontanee siano supportate da interventi precisi e razionali che garantiscano equità nell’ accesso alle risorse. Questo primo punto è imprescindibile per scongiurare catastrofi umanitarie ed esiti negativi in termini di miseria e di impossibile sopravvivenza, specialmente nei Paesi cerniera che hanno rapidamente accesso a tassi di crescita significativi. In secondo luogo, come emerge con chiarezza nelle conclusioni del rapporto, è insensato lavorare su progetti neo-malthusiani di controllo e limitazione delle nascite perché le crisi non verranno certo dall’ aumento della popolazione, ma dalle diseguaglianze culturali, ambientali ed economiche che possono insinuarsi. Per adesso, anzi, è una costante la crescita economica legata alla crescita demografica. Investire in politiche sociali, senza più territori determinati e chiusi, significa trasferire inevitabilmente a livello planetario l’ applicazione di certe prerogative etiche un tempo affidate agli Stati nazionali. Intervenire laddove gli sprechi sono estenuanti, pianificare un controllo degli investimenti, vuol dire garantire un’ espansione dell’ umanità in un mondo vivibile tendenzialmente e senza problemi da tutti. Appare, in tal senso, impossibile non guardare alla famiglia come soggetto sociale privilegiato nel permettere educazione, salute e formazione etica civilizzatrice della prole. Si deve riconoscere, insomma, che solo nel tessuto domestico si formano le categorie etiche fondamentali e si constata la pratica dell’ equa dignità tra i sessi, nonché la fiducia nel grado di umanizzazione che s’ intende diffondere a livello intergenerazionale. Dà comunque soddisfazione, per una volta, intravedere un quadro complessivo in cui non è la crescita di umanità ma la diminuzione d’ immoralità a minacciare il futuro. Un futuro, conviene precisare, che o è umano o non esiste. E per questo può pensarsi anche nel segno dell’ ottimismo.

 

Repubblica

02 novembre 2011 

La crisi economica: una riflessione sulle cause e le soluzioni

 

Crescere nella crisi.

Commissione famiglia e società della Conferenza dei vescovi di Francia

 


Tutte le analisi sull’attuale crisi economica indicano la necessità di «cambiare i nostri comportamenti e i nostri stili di vita. Tuttavia, sembra che a una simile lucidità non si accompagni una reale disponibilità al cambiamento. Anche quando pareva che vi fosse un consenso sulla necessità di un cambiamento di rotta, come nel caso della riforma del sistema pensionistico, sui termini delle modifiche da operare vi era poi un disaccordo tale che la sua realizzazione appariva frutto di una costrizione imposta piuttosto che un compromesso accettato in vista di un bene comune». Sembrano parole indirizzate al contesto italiano quel le a firma della Commissione famiglia e società dell’episcopato francese rese note lo scorso febbraio nel documento Crescere nella crisi. Esso, infatti, si rivolge a quel «malessere più generale » costituito dalla mancanza di «fiducia negli altri e nella collettività nazionale », che, assieme alla lucidità rispetto a un futuro incerto, generano «una grande angoscia, della quale la prossima generazione rischia di essere la prima vittima». Sullo stesso tema e con tonalità simili sono anche intervenuti i vescovi irlandesi (cf. in questo numero a p. 474).

J.-C. Descubes, Commissione famiglia e società Conferenza dei vescovi di Francia

 

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Dalla crisi alla speranza.

Consiglio giustizia e pace della Conferenza vescovi cattolici irlandesi


«Solidale con tutti coloro che soffro no a causa della crisi economica», il Consiglio per la giustizia e la pace della Conferenza episcopale irlandese ha pre sentato il 21 febbraio scorso una di chiarazione aggiungen do «la sua voce a tutte quelle che si levano per domandare un cambiamento positivo nella nostra società». L’attuale momento «di notevole inquietudine politico- finanziaria» vie ne analizzato – alla luce dell’en ci clica Caritas in veritate – con un’attenzione particolare ai «costi umani» di una crisi i cui effetti «sorprendenti e spaventosi» sono disoccupazione, insicurezza, «crollo del – la fiducia nelle istituzioni» e disperazione. Di fronte al fallimento di un modello economico e culturale, consapevoli che non si uscirà dalla crisi senza promuovere una «cultura della speranza», i membri del Consiglio offrono un’alternativa ispirata ai valori evangelici e alla dottrina sociale cristiana nella quale, tenendo conto «delle variabili presenti in ogni equazione politica: efficienza economica, libertà individuale, tutela dell’ambiente e giustizia sociale», an che «il principio di gratuità e la logica del dono» trovano spazio tra i criteri che possono e devono regolare l’attività economica.

Consiglio per la giustizia e la pace – Conferenza vescovi cattolici irlandesi

 

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Da consultare

Nota: “Per una riforma del sistema finanziario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale” (24 ottobre 2011)

 

 

Un nuovo modello di leaderschip

Ettore Gotti Tedeschi

Gli errori di interpretazione e la sottovalutazione dell’attuale crisi economica sono stati gravi e perdurano. Sono state male interpretate le sue vere origini, cioè il crollo della natalità, e le conseguenze che hanno portato all’aumento delle tasse sul pil per assorbire i costi dell’invecchiamento della popolazione. E sono stati sottovalutati gli effetti delle decisioni prese per compensare questi fenomeni, soprattutto con la delocalizzazione produttiva e con i consumi a debito.
Non sono stati poi presi nella giusta considerazione l’urgenza di intervenire e i criteri da seguire per sgonfiare il debito prodotto. Non è stato quindi previsto il crollo di fiducia che ha condotto al ridimensionamento dei valori delle Borse e alla crisi del debito.
A questo punto le soluzioni non sono più tante. Per ridurre il debito totale – pubblico, delle banche, delle imprese, delle famiglie – e riportarlo ai livelli precedenti alla crisi, cioè a circa il 40 per cento in meno, è immaginabile, ma non raccomandabile, cancellarne una parte con una specie di concordato preventivo in base al quale i creditori vengano pagati al 60 per cento. È pensabile, ma si tratta di un’ipotesi senza prospettive, inventare qualche nuova bolla per compensare il debito con una crescita di valori mobiliari o immobiliari. È valutabile – ma speriamo sia solo una tentazione – una tassazione della ricchezza delle famiglie, sacrificando però una risorsa necessaria allo sviluppo e producendo allo stesso tempo un’ingiustizia. Si può anche ricercare una via di sviluppo rapido, grazie a una crescita di competitività, che nella crisi globale non è però facile generare. Non ci sono capitali da investire, le banche sono deboli, il problema demografico penalizza la domanda e gli investimenti. In questo contesto, inoltre, i consumi a debito non sono nemmeno immaginabili.
I Paesi occidentali sono costosi e per renderli economici in tempo breve si dovrebbe intervenire sul costo del lavoro. Interventi di stampo protezionistico per sostenere le imprese non competitive produrrebbero però svantaggi per i consumatori e ridurrebbero i consumi già in declino. Si potrebbe svalutare la moneta unica, ma questa iniziativa condurrebbe all’aumento dei prezzi di beni importati.
Qualcuno, per sgonfiare il debito, pensa anche all’inflazione. Ma l’inflazione non si accende se la crescita economica è pari a zero, se i salari sono fermi, se incombe l’ombra della disoccupazione e se diminuiscono persino i prezzi delle materie prime.
Si potrà affermare che la spirale inflazionistica non si avvia finché non c’è sfiducia nella propria moneta. La questione è che oggi non ci si può fidare di nessuna valuta: tutte, compresi euro e dollaro, sono deboli. L’inflazione non parte anche perché la liquidità non circola, ma soprattutto perché quella creata dalle banche centrali ha sostituito quella prodotta dai sistemi bancari per sostenere la crescita a debito.
Il primo problema oggi non è quindi l’inflazione ma la deflazione. I mercati stanno infatti privilegiando la liquidità. Questo perché in regime deflazionistico il valore della moneta cresce, mentre durante l’inflazione decresce. Far progredire l’economia oggi senza aumentare il debito pubblico significa correlare i tassi di interesse al pil. Nei Paesi con un debito pubblico superiore al 100 per cento del pil, è evidente che, per ottenere una crescita dell’1 per cento senza fare aumentare il debito, bisogna avere tassi non superiori all’1 per cento, penalizzando in questo modo i risparmi.
La soluzione è in mano ai Governi e alle banche centrali che devono realizzare un’azione strategica coordinata di reindustrializzazione, rafforzamento degli istituti di credito e sostegno dell’occupazione. Questo richiederà tempo, un tempo di austerità nel quale ricostituire i fondamentali della crescita economica. Ma soprattutto i Governi devono ridare fiducia ai cittadini e ai mercati attraverso una governance adatta ai tempi, che, oltre a garantire adeguatezza tecnica, sia anche un modello di leadership. Cioè uno strumento per raggiungere l’obiettivo del bene comune.

(©L’Osservatore Romano 4 novembre 2011)

 

 

La vera crescita? Meno finanza e più produzione

Paolo Sorbi

Avvenire 3 novembre 2011

La continuità e la profondità dell’attuale crisi sistemica internazionale ha sorpreso in buona parte la comunità dei ricercatori. Grandi quantità di dollari e di euro sono state introdotte nei circuiti finanziari dagli stati del G20, ma sino ad ora non c’è nessuna credibilità di uscire a breve termine dalla crisi internazionale dell’economia/mondo. Si è, comunque, preso atto della fine di un lungo ciclo dello stesso sviluppo capitalistico globale.

 

 

 

I meccanismi liberistici senza regole non funzionano. Si è iniziata una riflessione sui temi della produzione e dell’economia riecheggiando tematiche “interventiste” degli stati nazionali pensando di ricopiare alcuni modelli keynesiani degli anni Trenta. Ma la natura della crisi globale non è assimilabile a quella della prima grande crisi del 1929. Gli attuali processi di stagnazione internazionale non sono l’assemblaggio delle singole crisi dei sistemi nazionali. Inoltre l’attuale crisi generale (non solo economica, ma anche culturale ed antropologica) inizia a bloccare le forti crescite economiche classiche che avevano visto per protagonisti gli stati ed i grandi territori del Brasile, della Russia, dell’India e della Cina. Contemporaneamente, negli ultimi due anni, dati Fao, il numero di coloro che sono affamati non solo non è diminuito, ma è accresciuto: addirittura del 25%.

Dai grattacieli di Manhattan, ai deserti dell’Africa centrale è tutto il ciclo della globalizzazione “soft” – cioè quella prima ed iniziale fase di globalizzazione della finanza e delle tecnologie che aspiravano ad una crescita senza contraddizioni – ad aver ceduto. Sono i “cicli lunghi”, studiati dall’economista, Kondratieff, delle conflittualità sociali e popolari, ad aver indotto ristrutturazioni ed innovazioni di portata internazionale. Gli esiti economici, all’inizio del terzo millennio, sono stati grandi mutamenti “hard” per il volto feroce che hanno assunto verso centinaia di milioni di nuovi poveri. Un altro “volano” che ritengo decisivo, è determinato dalle dinamiche-sociodemografiche su scala globale.

È stato il crollo della natalità in Usa, Europa e Giappone, ad essere uno dei vettori dell’attuale crisi internazionale di stagnazione dello sviluppo. Sono le ricerche del maggior economista-demografo contemporaneo Alfred Sauvy, a dimostrare che nell’Occidente della crescita zero, la mancanza di innovazioni è correlata al “grande inverno” dell’invecchiamento delle popolazioni. Quelle ricerche dimostrano che tra popolazione giovane, sviluppo economico ed innovazioni istituzionali c’è una forte correlazione. Colpisce la decelerazione economica, ancora poco studiata, della Cina. Cresciuta in anni di boom economico straordinario in modo impressionante, in recenti surveys della società “Oxford Economic” emergono dati preoccupanti di un deleveraging, vale a dire di una rapida ed improvvisa decrescita che potrebbe raggiungere uno stop netto verso il 2014.

Gli investimenti in Cina si fermano, perché crescono contemporaneamente i tassi bancari ed il costo del lavoro per l’estesa diffusione di lotte operaie e popolari. La catena delle forniture in Asia colpisce il motore profondo della crescita economica ininterrotta e si aprono problemi di recessione e disoccupazione anche in quei territori. L’estensione rapidissima di lotte sociali è emersa anche in tutta la realtà del colosso brasiliano. Conflittualità sempre più apportatrici di fiducia tra fasce sociali estremamente povere di quelle aree che, per la prima volta nella loro storia, si autoidentificano come lavoratori portatori di rivendicazioni e saperi culturali solidali. Quello che sta accadendo, durante questi recenti anni di crisi internazionale, non a sufficienza monitorato dalla ricerca sociale, è un grande mutamento di ciclo economico.

La globalizzazione reale ha voluto dire un processo di costruzione e di decentramento produttivo in una sorte di corrente tecnologica “nord-sud” del mondo. Ora invece quella corrente si rovescia verso una tendenza “sud-nord”. Nell’attuale crisi, innumerevoli realtà imprenditoriali multinazionali, sia americane che europee, cominciano a comprendere che non conviene più l’outsourcing produttivo in molte aree dei cosiddetti paesi in sviluppo.

Un recente studio del “McKinsey Quarterly”, fine del 2010, evidenzia che in Cina i salari sono cresciuti del 15% all’anno, dal 2000 al 2009. Nei prossimi anni di rallentamento, anche in Cina, i salari cresceranno, comunque, tra il 20 ed il 30% in più. Gli utili stanno diminuendo, perché i costi della produzione stanno rapidamente aumentando.

Ad esempio, Barack Obama, all’inizio di quest’anno, nel suo discorso sullo stato dell’Unione ha enfatizzato l’importanza del “rientro in patria” degli ordini manifatturieri e tecnologici. In Inghilterra la crescita delle piccole e medie imprese dei segmenti della meccanica e del tessile, dopo oltre tre decenni di declino, ha subito una rapida ripresa riportando quei segmenti produttivi, all’inizio degli anni Novanta. Insomma l’Occidente finanziarizzato ha in buona parte perduto i criteri dell’economia reale che non può essere un semplice mondo di servizi e consumi.

“Ritorno della produzione” in Occidente vuol dire, secondo recenti ricerche di team di sociologi industriali, tra cui Francesco Garibaldo, che bisogna mettere mano ad una riorganizzazione sul territorio anche del sindacato e dei suoi modelli di partecipazione e democrazia. È ovvio che le nuove produzioni saranno sempre di più finalizzate ai mutamenti ecosistemici, decisivi per aprire concretamente nuove strade di crescita, ma anche per aprire nuove strade a modelli sociali differenti ed, in parte, anche oltre le logiche del puro profitto capitalistico.

Non è il ritorno meccanico ad una tradizionale forza-lavoro industriale, ma è certamente una crescita di lavori collegata a queste nuovi materiali e nuove produzioni, a dinamiche di mobilità sostenibili, a dinamiche di manutenzione del territorio, a dinamiche anche di grandi opere, ma di certe opere, orientate alla conversione strutturale ed ecosistemica delle vecchie strutture capitalistiche che non possono produrre “nuova crescita”.



ATRI CONTRIBUTI


«Pochi giorni fa – ricorda il parroco – il Vaticano ha pubblicato una nota in cui chiede l’istituzione di un’autorità mondiale che regoli il mercato finanziario e monetario». Da qui le campane, piccolo segno per un proposito enorme: superare l’idea assoluta di libero mercato, che alla fine si riduce al «libera volpe in libero pollaio»
“Deve tornare alle profezie di allora [degli anni 60], il cattolicesimo, se vuole rispondere al collasso generato da quella che nel 1991 papa Wojtyla chiamò l’«idolatria del mercato»… Recependo Benedetto XVI, il documento vaticano rivendica il primato di spiritualità, etica e politica su economia e finanza… Intervenendo sul Financial Times, l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams ha definito l’idea di un governo mondiale «alquanto utopistica», ma ha elogiato la concretezza della ricetta vaticana, contrapposta alla vaga protesta degli indignati di St Paul’s Cathedral”
“Pensare una riforma finanziaria senza fare opera di verità… significa votare al fallimento ogni tentativo. Affinché emerga un’economia “giusta e responsabile”, la Chiesa del Var ritiene che ogni attività economica debba avere come norma l’adeguatezza tra ciò che viene fatto e ciò che è dovuto. È doveroso rimettere l’uomo al centro dell’economia attraverso la definizione di un quadro etico”
“Le monastère au travail: le Royaume de Dieu au défi de l’économie”, un libro della sociologa Isabelle Jonveaux. “I monaci mostrano che un modello fondato su valori diversi da quelli del mondo – rispetto della persona, carità, aiuto reciproco, rifiuto del rendimento ad ogni costo – può avere successo… Ci propongono l’idea di un’economia della sobrietà: produrre in funzione dei bisogni e non di più. E se si riceve di più, si dona”
“Ma che mondo è questo nostro nel quale la concentrazione della ricchezza è tale per cui i bonus della Goldman Sachs, anno domini 2009, sono pari al reddito di 224 milioni delle persone più povere del pianeta? Globalizzare produzione e commerci, attorno al dogma della libera circolazione dei capitali, e deregolare le società occidentali, in nome del massimo lucro di manager e azionisti, ha prodotto il sonno del diritto. E come il sonno della ragione di Goya, anche questo genera un mostro: l’eccesso di disuguaglianza”
“All’interno delle categorie prevalenti nel modello di sviluppo ancora oggi dominante non c’è soluzione. Per uscire da questo circolo vizioso occorre cambiare prospettiva… Un prezioso contributo viene da Michael Porter, guru del pensiero manageriale internazionale, il quale opportunamente ha cominciato a parlare di «valore condiviso»”
“L’etica protestante del lavoro ha contribuito a far crescere le economie del nord Europa più di quelle dei paesi del sud del continente e gli effetti in questi mesi di crisi del debito sono evidenti a tutti…”
“l’arcivercovo di Canterbury Rowan Williams scomunica «gli idoli dell’alta finanza», ciechi e sordi… [e] chiama la Chiesa anglicana alla mobilitazione. Uno: occorre che gli istituti separino le loro attività commerciali «dalle transazioni speculative»… Due: si ricapitalizzino le banche con denaro pubblico a patto che le banche stesse «siano obbligate» a intervenire per rinvigorire l’economia reale… Tre, così come il Vaticano, anche la Chiesa anglicana… raccomanda l’adozione della «Tobin tax»”
“Gli indignati di Londra non ce l’hanno fatta ad abbattere il capitalismo, ma sono riusciti almeno a provocare un certo parapiglia nella Chiesa d’Inghilterra. Accampati da due settimane sul sagrato della cattedrale Saint-Paul, nel cuore della City, le poche centinaia di manifestanti hanno vinto un’importante battaglia nei confronti dei dignitari religiosi: questi ultimi hanno rinunciato in extremis a lanciare una procedura di espulsione, autorizzando de facto la stabilizzazione dell’accampamento”
Testo completo dell’articolo dell’Arcivescovo di Canterbury, Dr Rowan Williams, pubblicato sul quotidiano The Financial Times. “La Chiesa d’Inghilterra e la Chiesa Universale sono autenticamente interessate all’etica del mondo finanziario e al problema di sapere se le nostre pratiche finanziarie sono a servizio di coloro che hanno bisogno di essere serviti – o se sono semplicemente diventate idoli che chiedono per se stesse un servizio acritico”
“non è possibile uno sviluppo complessivo dell’umanità senza… interventi precisi e razionali che garantiscano equità nell’accesso alle risorse… è insensato lavorare su progetti neo-malthusiani di controllo e limitazione delle nascite… Investire in politiche sociali, senza più territori determinati e chiusi, significa trasferire inevitabilmente a livello planetario l’applicazione di certe prerogative etiche un tempo affidate agli Stati nazionali… impossibile non guardare alla famiglia come soggetto sociale privilegiato…”