Festival internazionale del cinema cattolico

“Un’occasione privilegiata per accogliere una domanda antropologica di senso che sale dal cuore di ogni uomo”.

Questa la definizione che mons. Franco Perazzolo, del Pontificio Consiglio della cultura, offre di “Mirabile dictu”, il festival internazionale del cinema cattolico la cui terza edizione (Roma, 2/5 luglio) .

Un festival, ha precisato mons. Perazzolo, che “offre la possibilità, in un momento così difficile, di una sosta per riflettere”. Nel corso del festival, indipendente e patrocinato dal Pontificio Consiglio della cultura, sarà scelto dalla giuria, presenziata dal card. Gianfranco Ravasi, il film vincitore tra i 1.124 che hanno concorso.

Obiettivo dell’iniziativa è “dare spazio a chi ha lo slancio di fare film che sviluppano storie e personaggi con valori positivi”, ha sottolineato Liana Marabini, presidente del festival. “I film cattolici – ha aggiunto – hanno vita molto dura nell’industria del cinema”: per questo “il festival si propone come un palcoscenico privilegiato”, ha detto Marabini.

La manifestazione è stata inaugurata lunedì 2 luglio col congresso internazionale “Cinema e nuova evangelizzazione”, patrocinato dal Pontificio Consiglio della cultura, che per 18 mesi toccherà, dopo Roma, dieci città in tutto il mondo.

Info: www.mirabiledictu-icff.com (Fonte: Sir)

La missione del Festival
del Cinema International Catholic Festival è indipendente, ideato e realizzato da Liana Marabini, sotto l’alto patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura, e mira a mostrare la Chiesa da una nuova prospettiva:. glamour e tradizione allo stesso tempo, mirabile dictu (meraviglioso per Relate, in latino) è un luogo privilegiato di incontro per attori, registi e cineasti, raccolte dalla preoccupazione che possono avere per la storia ei valori del Chiesa. Il Presidente del Festival, Liana Marabini, è regista, produttore ed editore. Si consacra il suo lavoro alla storia della Chiesa, ed è particolarmente preoccupato per il linguaggio religioso e della comunicazione, qualcosa che emerge nei film che produce e dei 

libri che pubblica. Premi Il premio del festival, ” Il Pesce d’Argento ” (Il pesce d’argento, in italiano), si ispira al primo simbolo cristiano.

L’evento di apertura del Festival
di quest’anno, l’evento di apertura straordinaria del Festival sarà la prima italiana di un film notevole: Una donna di nome Maria
di Robert Hossein

Giovani e Media: un incontro sui “nativi digitali”

“Le giovani generazioni sono quelle che posseggono le chiavi d’accesso più dinamiche alla società digitale. La rivoluzione nell’uso dei media da parte dei giovani ha assunto i caratteri della moltiplicazione e dell’integrazione degli strumenti di informazione e comunicazione”;

“queste trasformazioni investono i processi di apprendimento e di istruzione, e hanno importanti ripercussioni sui comportamenti che i più giovani adottano, consapevolmente o meno, nel contatto e nell’utilizzo, spesso intensivo, delle tecnologie digitali”.

Di “Nativi digitali ed emergenza educativa. L’innovazione nell’apprendimento, il cambiamento nell’istruzione” si parlerà nel corso dell’incontro in programma domai, alla Camera dei deputati (ore 9), su iniziativa del Censis.

Interverranno, tra gli altri, il ministro dell’istruzione Francesco Profumo, Tonino Cantelmi, presidente dell’associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici, il linguista Tullio De Mauro, i giornalisti Riccardo Luna e Luca De Biase.

Nel corso del convegno verrà presentata la ricerca Censis promossa dall’Assessorato alla cultura della Regione Calabria, che ha coinvolto 2.300 studenti delle scuole medie e superiori calabresi e 1.800 genitori.

da SIR 3-7-12

STUDI E RICERCHE

I media e la nuova generazione dei nativi digitali
Dalla Francia una ricerca sul rapporto tra informazione mainstream e nativi digitali

Ottobre 2010

Non credono ai politici, sono diffidenti verso i media tradizionali e mal sopportano i brand, considerati, letteralmente, i nemici da abbattere. Sono i cosiddetti i ‘nativi digitali’, ovvero giovani e giovanissimi (in media tra i 18 e i 24 anni) cresciuti a pane e tecnologia, persone che hanno sempre convissuto con il mouse accanto al cuscino e che considerano internet, videogiochi e social network parte integrante della propria vita.

Una nuova generazione, dunque, dalle cui scelte molto dipenderà del futuro del giornalismo e in particolare della carta stampata, considerato che il futuro dei giornali è largamente associato alle dinamiche di consumo dell’informazione da parte delle nuove generazioni. Come afferma Alan Mutter, infatti, il grande problema della stampa è costituito dal fatto che più del 50% dei lettori dei giornali è rappresentato da una popolazione progressivamente più anziana che, da un punto di vista demografico, corrisponde soltanto al 30% della popolazione. E a tale proposito recentemente una ricerca della società francese BVA ha offerto l’occasione per comprendere meglio quale sia il reale rapporto tra giovani e mezzi di comunicazione, come le nuove generazioni differiscono dall’audience tradizionale e quali siano i contenuti e le notizie su cui si focalizzano e le modalità attraverso le quali acquisiscono nuove conoscenze.

Lo studio si è basato su un campione di 100 ragazzi di età compresa tra i 18 e i 24 anni, ovvero quella fascia generazionale che dovrebbe coincidere appunto con i nativi digitali: ragazzi nati e cresciuti in un ambiente talmente condizionato dalla nuove tecnologie da lasciar presupporre condizionamenti tutt’altro che trascurabili sul piano dei riferimenti simbolici, culturali e,in senso più ampio, politico-sociali. Dalla ricerca, infatti, emerge come i giovani alfabetizzati a Internet abbiano rivisitato i propri modelli valoriali e culturali, lasciandosi definitivamente alle spalle vecchi schemi ideologici, categorie tradizionali così come le istituzioni di riferimento. Sistema politico e sistema dei media innanzitutto. A partire da un disconoscimento delle fonti informative generaliste fino alla messa in discussione dell’autorevolezza dei tradizionali opinion leader, questa nuova generazione digitale inizia a ragionare in termini di comunità, ovvero all’interno di quella network community caratterizzata non solo da specifici interessi e agende tematiche, ma anche da peculiari codici espressivi e linguistici.

Tra gli aspetti più criticati da parte di costoro va ricordato proprio il modello comunicativo sotteso ai media mainstream: un modello di trasmissione verticale, dall’alto verso il basso, nel quale i contenuti – testo scritto, immagini, video – sono trasmessi in modo pressoché immutato dalla fonte al destinatario, senza prevedere alcuna possibilità di feedback. Lo stesso Alan Mutter, infatti, evidenzia l’insofferenza dei giovani digitalizzati verso questo tipo di informazione – che include la stessa pubblicità tradizionale – che viene offerta loro in modo precostituito e non modificabile.

Sfruttando le potenzialità del web, l’interattività e la multimedialità innanzitutto, i media tradizionali dovrebbero invece puntare ad innovare il loro modo di fare comunicazione, coinvolgendo i giovani – nativi digitali ma non solo – e provando ad andare incontro alle loro esigenze. La tesi sostenuta da Mutter, infatti, è che i giornali dovrebbero smettere di considerare soltanto il lettore di riferimento già acquisito, ovvero quel bacino di utenti fidelizzati e affezionati ad una serie di valori e scelte editoriali stabili. E provare a sperimentare strade innovative, utili ad avvicinare il pubblico dei giovani.

Non tutti però sono d’accordo con una posizione, come appunto quella di Mutter, che considera i nativi digitali inesorabilmente distanti dalle precedenti generazioni. Bennett, Maton e Kervin, in un lavoro pubblicato nel 2008 dal British Journal of Educational Technology e titolato: The ‘digital natives’ debate: A critical review of the evidencesostengono che le differenze generazionali in fondo non siano poi così marcate. Prima di tutto perché se è vero che i ragazzi vivono immersi nella tecnologia, il loro reale utilizzo è ancora molto tradizionale (scrittura, e-mail, navigazione web). In secondo luogo perché la produzione di contenuti dal basso, user genereted, è in realtà un fenomeno ancora marginale, limitato e le differenze di skills all’interno della generazione giovanile sono le stesse esistenti tra le diverse generazioni.

Va qui evidenziato che i tre autori si spingono anche oltre, sostenendo come, alla base di queste visioni eccessivamente “avveniristiche”, vi siano gli stessi mezzi di comunicazione: riproponendo il concetto di moral panic (Cohen, 1972) Bennett, Maton e Kervin ritengono come questo fenomeno dei nativi digitali, pur restando in realtà privo di evidenze scientifiche, sia di fatto amplificato ed enfatizzato dai media e persino da parte del mondo accademico.

Il dibattito, come spesso accade in queste circostanze, è in realtà aperto e lontano dall’essere risolto. A conclusione di questa riflessione possiamo osservare che certamente i nativi digitali, sia attuali che futuri, si caratterizzeranno sempre più per un approccio alle fonti informative più rapido, immediato e orizzontale. Se poi tale atteggiamento sia destinato a tradursi in un incremento della superficialità ai danni dell’approfondimento, e in un’accentuazione delle differenze con le generazioni precedenti, molto dipenderà anche dalle risorse di partenza di ciascun soggetto. Risorse legate alla collocazione sociale dei giovani e al loro livello di istruzione innanzitutto: fattori, entrambi, destinati a riflettersi nella competenza all’uso di Internet, e cioè nella capacità di non restare vittime del caos della Rete, riuscendo, per contro, a sfruttarla per ottenere informazioni, conoscenza e relazioni sociali, utili al miglioramento della propria posizione di partenza.

UN VIDEO

I giovani e le nuove tecnologie. Un’indagine sui “nativi digitali”

Come usano Internet? A quanti anni hanno imparato a navigare? Qual è il social network più utilizzato? Preferiscono la televisione o Internet? Sono alcune delle domande dell’indagine che ha coinvolto 852 studenti delle scuole superiori del Trentino realizzata da Silvia Gherardi e Manuela Perrotta dell’Università di Trento nell’ambito del progetto “LiveMemories” coordinato dalla Fondazione Bruno Kessler e finanziato dalla Provincia autonoma di Trento. Nello spotlight di questo mese le risultanze dello studio che ha permesso di indagare abitudini e interessi dei “Native speakers” delle tecnologie digitali.


La Cemcs organizza due corsi sulla progettazione nella comunicazione sociale

La Commissione episcopale per i mezzi di comunicazione sociale (Cemcs) della Conferenza episcopale spagnola propone due corsi estivi in comunicazione sociale, organizzati in collaborazione con l‘Università Pontificia di Salamanca (Upsa).

I corsi offrono un sostegno formativo in materia di comunicazione a sacerdoti, insegnanti, catechisti e operatori pastorali affinché a loro volta formino altri.

“Identità, comunicazione e interazione nelle reti sociali” è il tema del primo corso estivo che la Cemcs ha organizzato questa settimana. Il programma del corso fornisce le conoscenze di base della comunicazione e dell’interazione in un ambiente on line. Si affrontano anche le caratteristiche principali e gli strumenti di social network, blog e microblogging. E rende più facile progettare un progetto di comunicazione sui social network.

La prossima settimana il corso estivo proposto è “Progettazione e sviluppo di progetti on line con WordPress”. Con quest’iniziativa la Cemcs spera che “si acquisiscano le basi concettuali e tecniche per elaborare progetti professionali di comunicazione on line in modo efficace”.

L’obiettivo dei due corsi è anche “arricchire la formazione degli studenti delle facoltà di comunicazione, teologia, sociologia e scienze umane”.

SIR del  3/7/12

Bertone: “Per il mondo che soffre per la mancanza di pensiero”

Il cardinale Bertone spiega perché è importante che le università cattoliche siano coinvolte nella nuova evangelizzazione.

 

Da: (ZENIT.org)

Riprendiamo la Lectio magistralis tenuta dal cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, al Collegium Maius della Pontificia Università “Giovanni Paolo II” di Cracovia, in Polonia, dove gli è stato conferito un dottorato honoris causa. Il testo integrale della Lectio è stato pubblicato sul sito de L’Osservatore Romano.

***

di Tarcisio Bertone

Permettetemi di rivolgere un cordiale saluto a tutti i presenti; ai Signori Cardinali e Vescovi, in particolare Sua Eccellenza Monsignor Józef Kowalczyk, Primate della Polonia, e Sua Eccellenza Monsignor Celestino Migliore, Nunzio Apostolico. 
Saluto con deferenza le illustri Autorità civili e militari e i membri del Corpo Diplomatico. 
La mia gratitudine va in special modo al Gran Cancelliere, Sua Eminenza Cardinale Stanislaw Dziwisz, al Rettore Magnifico Monsignore Professore Wladyslaw Zuziak e all’intero Senato Accademico di questa Pontificia Università Giovanni Paolo II. 
Sono lieto della presenza dei Rettori degli Atenei e Istituti di Studi Superiori della Polonia, e specialmente di Cracovia, dei Decani delle Facoltà Teologiche della Polonia. 
Vi ringrazio in anticipo per l’ascolto di questa mia esposizione che ha come titolo “Il ruolo delle Università Cattoliche nell’opera della Nuova Evangelizzazione”.

L’articolo continua …

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SABATO 9 GIUGNO 2012. Le Università Cattoliche e la Nuova Evangelizzazione

Comunità cristiana, associazionismo, università: luoghi dell’educazione

In vista dell’88ª Giornata per l’Università Cattolica del Sacro Cuore, fissata per il prossimo 22 aprile 2012, il Convegno nazionale “Comunità cristiana, associazionismo, università. Luoghi dell’educazione”, promosso dall’Azione Cattolica Italiana e dalla stessa Università Cattolica, è stato occasione per riflettere e approfondire importanti questioni relative all’educazione, all’interno del decennio pastorale che la Chiesa italiana ha dedicato a questo tema.

Per mettere in evidenza la centralità della comunità, la relazione introduttiva è affidata a mons. Mariano Crociata, segretario generale della Cei, di cui riportiamo il testo qui di seguito:

Comunita cristiana associazionismo universita Mons. Crociata

Al cuore del suo intervento l’intuizione che:

“È la comunità cristiana, anzitutto, a rivelarsi un vero e opportuno luogo dell’educazione. Emerge qui, sempre di più, la consapevolezza di ciò che significa un’autentica formazione dell’identità di una persona. Tale formazione non può riferirsi a un individuo isolato, chiuso in se stesso, ma può realizzarsi solamente in un contesto comunitario, caratterizzato da incontri significativi, esperienze, relazioni. Bisogna rifiutare, come insegna il Papa, quella falsa idea di autonomia per cui l’essere umano si concepisce come in “io” in sé completo. L’essere umano diventa tale solo nella relazione con il “tu”, solo all’interno dello spazio aperto dal “noi”: solo, dunque, in una dimensione comunitaria”

Il convegno ha voluto inoltre costituire una prima occasione per favorire, con rinnovato vigore, la piena collaborazione tra l’Azione Cattolica e l’Università Cattolica. Ravvivando un legame che del resto non è mai andato smarrito sin dalle origini, dato che l’Ac è stata tra i fondatori dell’Università Cattolica, attraverso l’opera iniziale di Armida Barelli e l’apporto continuo di professori e studenti di Ac che ancora oggi costituiscono un patrimonio di conoscenze ed esperienze preziose per tutti.

Come ricorda il presidente nazionale dell’Azione Cattolica e membro del consiglio di amministrazione dell’Università Cattolica, Franco Miano, «la finalità dell’Università Cattolica è in qualche modo speculare a quella dell’Azione Cattolica. In questo senso, per un’associazione di laici, qual è l’Ac, è fondamentale avere un’interlocuzione privilegiata con l’Ateneo di Padre Gemelli, in quanto luogo importantissimo e significativo dal punto di vista della cultura e della testimonianza cristiana nel nostro Paese».

È noto come l’università italiana al momento viva processi di trasformazione spesso segnati da difficoltà oggettive, anche nel reperire risorse.

Azione Cattolica e Università Cattolica possono e vogliono, per Miano, «contribuire a tessere quelle relazioni che possono favorire la dimensione della partecipazione civile, essenziale alla formazione di una classe dirigente, ma anche una presenza cristiana culturalmente apprezzata e all’altezza dei tempi, capace di entrare nei nodi vivi della questione antropologica, in termini di elaborazione a tutto campo: economico, scientifico, umanistico e, soprattutto, in termini di trasmissione dei valori alle giovani generazioni». Come ebbe a dire Benedetto XVI – aggiunge il presidente Miano – «l’Università è stata, ed è destinata ad essere per sempre, la casa dove si cerca la verità propria della persona umana» (Incontro con gli universitari, Gmg 2011, Madrid).

Programma

Locandina

Religioni, cultura e integrazione

I leader di tutte le religioni, presenti nel nostro Paese, si sono ritrovati ieri a Palazzo Chigi per trovare insieme una via italiana all’integrazione.

L’incontro è stato promosso dal ministro alla Cooperazione internazionale e all’Integrazione, Andrea Riccardi, che in collaborazione con il ministero dell’Interno, rappresentato dal ministro Annamaria Cancellieri, ha indetto una Conferenza permanente “Religioni, cultura e integrazione”.

“Ci unisce – ha detto il ministro Riccardi – la preoccupazione per un passaggio delicato della società italiana: l’integrazione”. In questo senso, “le comunità religiose e i loro responsabili posso essere mediatori per l’integrazione virtuosa nella società italiana”.

Riproponiamo qui l’intervista a Gino Battaglia realizzata dal SIR:

Quali le finalità e le novità dell’incontro di ieri?
“È stato un incontro dei responsabili delle diverse comunità religiose in Italia. Comunità che ovviamente non sono omologabili tra loro, data la disparità di questi mondi religiosi, per cui si andava dal vescovo della Chiesa ortodossa romena al presidente dell’Unione buddista italiana. E poi erano presenti alcuni rappresentanti del mondo accademico coinvolti a vario titolo in questo tipo di problematiche. La finalità dell’iniziativa, credo sia quella di esaminare alcuni grandi dossier che riguardano l’integrazione, e di affrontarli da un punto di vista anche religioso. Si è parlato, per esempio, della scuola, delle intese, dei luoghi di culto, della formazione e dell’ingresso dei ministri di culto, ecc. C’è stato poi un momento di riflessione comune in cui i diversi esponenti religiosi hanno espresso le loro problematiche e le loro attese. L’intenzione, dunque, è quella di esaminare, di volta in volta, alcuni argomenti sensibili e importanti che possono avere una rilevanza per l’integrazione di queste comunità nel nostro Paese. Non è stata stabilita un’agenda, però c’è la prospettiva di ulteriori incontri”.

Ma che cosa ci si attende dai leader religiosi?
“Mi sembra che lo sfondo sia la ricerca di un modello d’integrazione italiano. C’è la preoccupazione di arrivare a delineare una via d’integrazione italiana, considerando che quello dell’immigrazione e dell’immigrazione di cittadini di altra religione, oltre che di altra nazionalità, sia un fatto relativamente recente per il nostro Paese, che necessita di una riflessione che chiami in causa anche i responsabili religiosi di queste comunità. Mi sembra poi che l’aspetto positivo è l’aver individuato nei leader religiosi dei possibili mediatori d’integrazione. I leader religiosi possono fare qualcosa a questo livello perché hanno un pulpito e hanno un seguito e perché, in fondo, l’appartenenza religiosa è un aspetto importante dell’identità di chi è immigrato, che anzi può essere addirittura riscoperto nell’esperienza della migrazione”.

La riunione a Palazzo Chigi è coincisa con il giorno in cui a Tolosa un uomo ha sparato davanti ad una scuola ebraica ammazzando 4 persone, di cui 3 bambini. È un monito per i leader religiosi?
“L’attentato di Tolosa è stato ricordato durante la riunione. Si tratta di un gesto antireligioso perché non ci può essere nessuna religione che accetta o che ammette l’uso della violenza per dare la morte ad altri. Certo, occorrerà attendere di capire la reale matrice che sta sotto all’attentato di Tolosa. Sembra che ci sia una motivazione neonazista. Rimane comune il problema di purificare, disintossicare il clima, perché certi discorsi circolano e, alla fine, una certa predicazione del disprezzo o dell’intolleranza può anche ispirare gesti folli”.

“Guerra o pace? I luoghi sacri contesi”

Studiosi e religiosi delle tre fedi abramitiche a confronto all’Angelicum

Luoghi sacri per l’umanità


Mai violare i luoghi sacri alle altrui religioni, anche in tempo di guerra, e “tenere i luoghi santi fuori dal conflitto”. È l’appello lanciato giovedì – dopo la notizia di due moschee date alle fiamme in Terra Santa – dagli studiosi e leader religiosi ebrei, cristiani e musulmani riuniti nella Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Angelicum) per elaborare un concetto comune di spazio sacro nelle rispettive tradizioni religiose. Si tratta di esperti teologi, giuristi e sociologi provenienti da dodici diversi Paesi, fra i quali Iran, India e Israele. Nel corso dei lavori, i partecipanti alla Conferenza “Guerra o pace? I luoghi sacri contesi”, hanno sottoscritto una dichiarazione comune: “Noi – vi si legge – assicuriamo il fermo impegno a proteggere tutti gli spazi santi di tutte le religioni. Questo impegno è sia teorico che pratico. In via di principio, ogni casa nella quale Dio è chiamato in verità e sincerità è santificata dalla ricerca di Dio e deve essere rispettata da tutti. In termini pratici, ogni atto di distruzione può in breve tempo rivolgersi contro gli stessi autori e generare un infinito ciclo di rappresaglie, contrari alla gloria di Dio”. Continua la dichiarazione: “Noi chiediamo a tutte le parti di non violare i luoghi sacri degli altri, anche in tempo di guerra. Questo impegno non è solo un segno di rispetto per l’unico Dio che tutti riconosciamo ma anche una via concreta per imparare a praticare il rispetto l’uno con l’altro”. Secondo gli studiosi e leader ebrei, cristiani e musulmani, “tenere i luoghi santi fuori dal conflitto è un piccolo passo per umanizzare una difficile condizione e per ricordare che Dio è il nostro più grande valore e la nostra più grande ispirazione”. “Preghiamo – è la conclusione – che tale riconoscimento possa aprire la strada per una maggiore comprensione, una maggiore armonia e per la pace”.
Come accennato, gli studiosi e religiosi – fra essi islamici sunniti come Yasir Qadhi, sciiti, come l’ayatollah Mostafa Mohaghegh Damas, e sufi, come lo sceicco Abd al-Wahid Pallavicini, insieme con il rabbino israeliano Daniel Sperber e Robert A. Destro, della Columbus School of Law – si sono riuniti all’Angelicum per un confronto inedito, nel quale sono esaminate le radici teologiche, politiche e sociali dei conflitti che riguardano la gestione dei luoghi sacri sui quali diverse religioni allo stesso tempo vantano diritti e autorità. L’obiettivo è quello di arrivare a una definizione condivisa di “luogo sacro” in modo da verificare, su base teologica, la legittimità dell’esclusione dei fedeli di altre religioni.
Un’esigenza sentita non solo riguardo ai luoghi sacri più noti ma anche in quelli di cui spesso non si parla, come in India, per esempio. Il controllo dei luoghi sacri alle religioni – affermano gli organizzatori – costituisce “un problema a livello globale” ma “il confronto sul tema può tramutarsi al tempo stesso in una occasione per un dialogo fra religioni consapevole e aperto alla possibilità, se non di una pace, almeno di una coesistenza pacifica”.
È dunque a questo fine che esperti di tutto il mondo si sono riuniti a Roma: l’obiettivo è quello di indicare soluzioni praticabili a questioni nelle quali spesso si inseriscono convenienze politiche ed emotività. Nella conferenza, sponsorizzata dal rabbino Jack Bemporad, direttore del Centro Giovanni Paolo II per il Dialogo interreligioso presso l’Angelicum, dal professor Cole Durham, della Brigham Young University (Utah), e dal professor Marshall Breger, della Catholic University of America (Washington DC), si sono affrontati diversi temi, dal concetto di sacro al suo significato teologico per le differenti religioni, dal negoziato per risolvere i conflitti all’analisi dei successi e gli insuccessi che si registrano nel mondo. Spiega il professor Breger: “Si discute raramente di teoria e di teologia riguardo a questo argomento ma esse hanno un peso determinante nel processo verso una coesistenza realmente pacifica”.

(©L’Osservatore Romano 18 dicembre 2011)

Il corpo è il messaggio. L’incarnazione al tempo delle cyberfilosofie

 

Il culto del corpo è l’imperativo quotidiano della nostra epoca. Solo chi si sforza di raggiungere il proprio ideale fisico può avere successo, e dunque botox, body-styling e chirurgia estetica divengono i riti che ci promettono un’eterna giovinezza.

D’altro lato, tuttavia, la dimensione corporea va contemporaneamente perdendo sempre più di significato, parallelamente allo svilupparsi delle potenzialità virtuali offerte dal cybermondo costituito da Internet, giochi di ruolo, videogiochi, nanotecnologie applicate alla medicina, che rivelano il profondo desiderio dell’uomo di superare il limite fisico e in definitiva di raggiungere l’immortalità.

Ma a ciò fa ancora resistenza il messaggio evangelico dell’incarnazione di Dio, che continua ad affrancare e a restituire dignità a ogni corpo fragile, limitato, vulnerato nella sua esistenza, e che oggi il pensiero cristiano deve riproporre in modo consapevole e attrezzato come risorsa di senso per una vita vissuta e ancorata alla realtà nell’epoca del cyber-mondo.

 

 

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Regno-att. n.20, 2011, p.707

Riprende il dibattito sul fine vita (Dossier)

 

Rinunciare alla vita: cedimento o solidarietà?
di Bruno Forte
in “Il sole 24 Ore” del 4 dicembre 2011

Non è facile la riflessione che sto per proporre. Non lo è anzitutto perché davanti al mistero della morte, di qualunque  morte, ciò che più si addice è il silenzio. E non lo è perché qualunque parola si dica di fronte a questa morte comunque  inquietante – il “suicidio assistito” di Lucio Magri, un uomo pubblico, che ha vissuto con passione la storia dell’Italia  repubblicana -, si rischia di essere pregiudizialmente giudicati, quasi che la lettura di quel gesto comporti  inevitabilmente una presa di posizione ideologica, una sorta di sentenza scontata a seconda di chi intervenga.
Ecco perché ritengo giusto affermare che quanto cercherò di esprimere è parola “seconda”, che segue al silenzio  prolungato della riflessione e della preghiera, cui il mio cuore di credente si è immediatamente aperto di fronte alla  notizia, e volutamente rifugge da ogni giudizio sul sacrario della coscienza, in cui solo ciascuno può tentare di entrare  per sé, e dove, per chi ha fede, entra unicamente il giudizio dell’amore giusto e misericordioso di Dio.
Lucio Magri, dunque, giovane democristiano negli anni 50, passato poi attraverso le diverse avventure della sinistra  italiana, fondatore con altri de Il Manifesto e protagonista di non poche battaglie politiche su posizioni di critica spesso  adicale nei confronti dei “vincenti” di turno, ha comprato un biglietto di sola andata per la Svizzera, dove, in un  centro a ciò predisposto, in base alle leggi di quel Paese, si è fatto accompagnare fino all’atto estremo del suicidio, per  cui tutto era stato accuratamente predisposto. Gli amici, che nulla avevano potuto di fronte alla depressione che aveva  invaso quel cuore, specialmente dopo la morte della persona amata, sono stati puntualmente informati una  volta compiutosi l’atto estremo, senza ritorno.
Una scelta disperata? Una rinuncia finale a ogni possibile conforto, a ogni sia pur lieve barlume di speranza? O – come qualcuno ha dichiarato – una scelta da rispettare e basta, senza tener conto della possibile ricaduta che inevitabilmente  una simile azione, specialmente in quanto compiuta da un uomo pubblico, ha potuto o potrà avere su  altri? A rispondere a questi interrogativi può forse aiutare  la vicenda stessa di Magri. Siamo nell’Italia della metà degli  anni Cinquanta e il dibattito interno al partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, si va facendo  incandescente.
Fra i giovani militanti di quella forza politica si forma una consistente minoranza di sinistra, che riconosce i suoi  leaders proprio in Lucio Magri e altri. Furono questi a dar voce alla loro insoddisfazione di fronte a quello che  ritenevano l’immobilismo sociale e politico dei capi, dando vita al mensile “Il ribelle e il conformista”. Il nome del  periodico intendeva ricordare da una parte il foglio “Il ribelle” del partigiano cattolico bresciano, ucciso dai tedeschi,  Teresio Olivelli, e dall’altra il romanzo da poco pubblicato di Alberto Moravia “Il conformista”: una sorta di sì gridato al coraggio di chi lotta e dà la vita per la causa, e di no a chi rinuncia a lottare e si arrende alla logica dominante.
L’editoriale del primo numero, uscito nel gennaio 1955, faceva comprendere il perché di quel titolo: ispirandosi a  precise «scelte culturali» e ad «atteggiamenti morali», in specie all’«eredità della resistenza e della tradizione  dossettiana», il periodico si proponeva come voce e strumento di «un’esigenza strategicamente rivoluzionaria», al cui  servizio intendeva elaborare un discorso «rigorosamente politico», tale da giudicare «le forze e la situazione» e  individuare «una meta strategica, che definisse i successivi momenti tattici». Compito del mensile voleva essere  insomma quello di compiere una «rottura, il lancio delle ipotesi, l’inizio di un dibattito, in una parola, la battaglia delle  idee». L’appello era rivolto a tutte le forze giovanili italiane e trasudava – anche nel linguaggio fra l’ispirato e il  visionario – di un atteggiamento fondamentale di speranza, di reazione alla stasi, di nuovo inizio in nome di una  migliore città futura, accogliente e giusta per tutti.
Sono passati più di cinquant’anni da quel grido di riscossa giovanile. Ora Lucio Magri non può più far sentire la sua  voce, come peraltro da tempo mi pare avesse scelto di fare. Se n’è andato volontariamente a cercare la morte in un  Paese straniero, paradossalmente proprio quello che la militanza rivoluzionaria di alcuni anni fa avrebbe definito senza  scusanti un Paese “borghese”. Il suo ultimo respiro lo ha emesso nell’ambiente ovattato di una clinica deputata  ad assistere la volontà di farla finita di alcuni (si calcola un paio di centinaia di persone all’anno), una sorta di tempio  della morte desiderata e accompagnata per chi ha decisione e mezzi per farlo. A quanti credono che la vita è dono e che  solo al Dio donatore spetta di porle fine, la scelta appare evidentemente  inaccettabile, contraria alla vocazione  più profonda impressa nel cuore umano dal suo Creatore. Al di là di ogni giudizio morale, però, non mi sembra  impropria la domanda se questa sia stata una morte da “ribelle” o da “conformista”.
Di fronte alla deriva rinunciataria e al riflusso nel privato di molta cultura post-ideologica o – come si ama dire – “post- moderna”, l’impressione è di trovarsi dinanzi più a un cedimento che a una ribellione. Senza minimamente giudicare il  cuore, oggettivamente ritengo quest’atto tutt’altro che una riscossa anticonformista. Ciò di cui c’è bisogno, in tutti, e  specialmente in chi è più provato dall’attuale crisi economica e sociale, è un atto di coraggio, uno sforzo collettivo  perché nessuno cada nel baratro: insomma, una “ribellione”, non nel segno della violenza o dell’ideologia rivelatasi asfissiante e totalitaria, ma in quello della solidarietà, del l’amore umile e concreto, di quei piccoli (e grandi) segni di  speranza, di cui tutti abbiamo bisogno per vivere, amare e dare agli altri,
specialmente ai giovani, ragioni di vita e di speranza. Riflettere su questa morte potrà aiutarci, forse, ad amare di più la  vita e a volerla migliore per tutti.

 

 

Il momento della pietas
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 1° dicembre 2011

Di fronte a un gesto estremo come quello di Lucio Magri è naturale che negli animi si accendano le passioni. E che da  queste sorgano giudizi di approvazione o disapprovazione a seconda delle provenienze culturali. Ogni coscienza  responsabile sa però che la complessa situazione del nostro mondo non ha certo bisogno di “kamikaze del pensiero” che  ripetono aprioristicamente convinzioni vecchie di secoli.
Ha bisogno piuttosto di analisi pacate e di conoscenza oggettiva perché l’etica non divenga un motivo in più di   divisione, ma realizzi la sua vera missione di far vivere in armonia gli esseri umani.
E in questa prospettiva si impone alla mente una prima inderogabile condizione: rispetto.
Aggiungo che se c’è una situazione in cui hanno senso le parole di Gesù «non giudicare» (Matteo 7,1), è proprio quella  nella quale un essere umano sceglie di porre fine alla sua vita. Sostengo in altri termini che, di contro a una tradizione  secolare che non ha esitato a condannare nel modo più crudo i suicidi, oggi il compito della teologia e della fede  responsabile è di sospendere il giudizio,
offrire dati, produrre analisi, al fine di generare pietas.
La riflessione umana presenta un dato sorprendente: mentre tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, sia  religiose sia filosofiche, condannano senza mezzi termini l’omicidio, per il suicidio le cose non sono altrettanto chiare.  Nelle religioni rimangono di gran lunga prevalenti le posizioni di condanna, com’è il caso di ebraismo, cristianesimo,  slam, e poi di induismo, buddhismo, confucianesimo. Il medesimo orientamento di condanna è maggioritario in  filosofia, come mostrano Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Heidegger. Tra i filosofi però si danno anche punti di vista  che giungono a non condannare, talora anzi a valutare positivamente, il suicidio: così gli epicurei, gli stoici, Montaigne,  Nietzsche, Jaspers. Ma l’aspetto veramente sorprendente, soprattutto per un cristiano, è il fatto che la  Bibbia non condanni mai, in nessun luogo, il suicidio. L’hanno osservato nel ‘900 i maggiori teologi contemporanei, tra  cui Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer, Hans Küng. «Il suicidio non viene mai esplicitamente vietato nella Bibbia», scrive  Barth, aggiungendo che si tratta di «un fatto veramente seccante per tutti quelli che volessero comprenderla e  servirsene in senso morale!».
Sono una decina i suicidi narrati dalla Bibbia e per nessuno vi è una condanna. Anzi un suicida, per l’esattezza Sansone,  viene perfino ricordato dal Nuovo Testamento tra i padri della fede. Non deve stupire quindi che nella Bibbia si  ritrovino parole come queste: «Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica»  (Siracide 30,17). Nel libro di Giobbe si legge di uomini che «aspettano la morte», «che la cercano più di un tesoro»,  «che gioiscono quando la trovano» (Giobbe 3,21-22), e non per condannare questi uomini, perché chi viene  condannato è piuttosto chi sostiene con arroganza e intransigenza la prospettiva contraria come i cosiddetti amici di Giobbe cioè i dogmatici Elifaz, Bildad, Zofar, Elihu.
Certo, tutti sanno che dalla Bibbia emerge soprattutto il messaggio della sensatezza e della sacralità della vita, quello  secondo cui la nostra vita è «nelle mani di Dio» (Salmo 16,5), in Dio è «la sorgente della vita» (Salmo 36,10) ed esiste  quindi una sorta di rifugio imprendibile dentro cui la nostra energia spirituale più preziosa, detta tradizionalmente  anima, non corre pericolo: «Non abbiate paura di coloro che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere  l’anima» (Matteo 10,28).
Alla luce di questi dati emerge che il compito dei cristiani oggi non è di emettere condanne qualificando negativamente  e sofferte scelte di chi si suicida. È piuttosto di vivere la fede nella dimensione spirituale dentro cui  l’anima vive al sicuro, anche quando il corpo tradisce. È da questa prospettiva spirituale che io giungo a valutare  negativamente il suicidio, e a lottare perché la fiducia verso la vita non venga mai meno, ma si possa assaporare ogni  istante l’energia vitale che ci è stata data (se da un Dio personale o dall’impersonalità del processo cosmico, a questo  riguardo è una questione secondaria).
Concludendo l’articolo sul compagno di tante battaglie, ieri Valentino Parlato scriveva della necessità di «affrontare  l’attuale, e storica, crisi della sinistra, per ridare alle donne e agli uomini la speranza di un cambiamento, di una uscita  dall’attuale stato di mortificazione degli esseri umani».
Ottimo obiettivo, ma per raggiungerlo io non conosco modo migliore di ospitare fino all’ultimo dentro di sé un  sentimento di gratitudine verso la vita in tutte le sue manifestazioni, quel medesimo sentimento che ha portato Violeta  Parra a comporre e a cantare la sua bellissima canzone Gracias a la vida.

 

 

Liberi di vivere e morire
di Paolo Flores D’Arcais
iin “il Fatto Quotidiano” del 2 dicembre 20112

Se la tua vita non appartiene a te, amico lettore, ne sarà padrone un altro essere umano, finito e fallibile non meno di  te. Ti sembra accettabile? Su questa terra infatti si agitano e scontrano solo e sempre volontà umane, una volontà  anonima e superiore che si imponga a tutti, oggettivamente o intersoggettivamente, è introvabile. Chi ciancia della  volontà di Dio è blasfemo (come può pensare di conoscere ciò che è incommensurabile con la piccolezza umana?). In  realtà attribuisce a Dio la propria volontà, lucrando sulla circostanza che nessun Dio potrà querelarlo per  diffamazione. Il Dio cattolico di Küng considera lecita l’eutanasia, il Dio altrettanto cattolico di Ratzinger l’equipara all’omicidio. Perché in realtà si tratta dell’opinione di Küng e dell’opinione di Ratzinger, umanissime entrambe e non  più autorevoli della tua. Perciò, rispetto alla tua vita, o il padrone sei tu o il padrone è un altro “homo sapiens”, eguale  a te in dignità (così Kant, e ogni democrazia anche minima), vescovo, primario ospedaliero, pater familias o altra  “autorità” che sia. Ma poiché siamo tutti eguali, deve anche valere il reciproco: se il padrone della tua vita può essere  qualcun altro, tu potrai a tua volta decidere della sua vita contro la sua volontà. Se c’è davvero qualcuno che accetterebbe si faccia avanti. Ma non ce n’è nessuno. Nella realtà esistono solo “homo sapiens” finiti, fallibili e   peccatori come te e come me, amico lettore, che pretendono di imporre alle altrui vite la loro personale volontà, ma mai accetterebbero di essere soggetti ad analoga mostruosa prevaricazione.

PERCIÒ, senza perifrasi: il suicidio assistito è un diritto? Sì. Fa tutt’uno col diritto alla vita e alla libertà, inscindibili. La  “Vita” che qualcuno vuole “sacra” è infatti la vita umana, non il “bios” in generale (ogni volta che prendiamo un  antibiotico, come dice la parola, facciamo strage di “vita”), e la vita umana è tale perché singolare e irripetibile, cioè  assolutamente MIA. Se non più mia, ma a disposizione di volontà altrui, è già degradata a cosa: “Instrumentum  vocale”, dicevano giustamente gli antichi.

Per Lucio Magri la vita era ormai solo tortura. Per Mario Monicelli la vita era ormai solo tortura. Per porvi fine, Lucio Magri ha dovuto andare in esilio e Mario Monicelli gettarsi dal quinto piano.
La legge italiana vieta infatti una fine che non aggiunga dolore al dolore già insopportabile: su chi ti aiuta incombe una  condanna fino a 12 anni di carcere. E per “assistenza” al suicidio si intende anche quella semplicemente morale! Due  casi raccapriccianti di anni recenti: un coniuge accompagna l’altro nell’ultimo viaggio (solo questo: la vicinanza) e  deve patteggiare una pena di oltre due anni, altrimenti la sentenza sarebbe stata assai più pesante. Una signora di 54  anni, affetta da paralisi progressiva, decide di andare da sola in Svizzera, proprio per non coinvolgere la figlia.
Che tuttavia le prenota il taxi per disabili che la porterà oltre frontiera. È bastato per l’incriminazione: ha dovuto patteggiare un anno e mezzo di carcere.

MA QUANDO si vuole porre fine alla tortura che ormai ha saturato la propria esistenza, si ha sempre bisogno di  assistenza: il pentobarbital sodium non si trova dal droghiere, solo un medico lo può procurare. L’alternativa è  appunto l’esilio o lo strazio estremo dell’angoscia aggiuntiva: gettarsi sotto un treno o nel vuoto o nella morte per  acqua. Le anime “virili” che si sono concessi perfino l’ironia (“se uno vuol farla finita ha mille modi, senza piagnistei di  ‘aiuto’”: i blog ne sono pieni), hanno davvero oltrepassato la soglia del vomitevole.

Altre obiezioni grondano comunque ipocrisia o illogicità. “Se vedi uno che si sta impiccando che fai, rispetti la sua  libertà o intanto lo salvi?”. Ovvio che lo salvo, poiché potrebbe essere un momento di sconforto. Ma i casi di cui  parliamo sono sempre e solo riferiti a scelte lungamente maturate, ponderate, ribadite. Lucidamente e  incrollabilmente definitive (a maggior ragione se chi vuole morire subito è un malato terminale comunque condannato   morte). Da rispettare, dunque, se a una persona si vuole bene davvero: anche se la fine della sua tortura ci procura il dolore della sua assenza per sempre.

ALTRETTANTO pretestuosa l’accusa che il medico verrebbe costretto a praticare l’eutanasia a chiunque la chieda.  Nessuno ha mai avanzato questa richiesta, ma solo il diritto – per il medico che questo aiuto vuole dare – di non  rischiare il carcere come un criminale. Spiace perciò particolarmente che Ignazio Marino, clinico e cittadino dai molti  meriti, abbia dichiarato: “Non dividiamoci tra ‘pro vita’ e ‘pro morte’, il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla  fragilità umana”.
A parte la scurrilità del “tifo da stadio”: essere “pro choice” non è essere “pro morte” ma per la libertà di ciascuno di  decidere liberamente, mentre troppi “pro vita” sono semplicemente “pro tortura”, poiché pretendono di imporla a chi  invece la vive come peggiore della morte. Tu hai tutto il diritto di dire che mai e poi mai ricorrerai al suicidio assistito,  che la sola idea ti fa orrore. Ma che diritto hai di imporre questo rifiuto a me, cui fa più orrore la tortura, visto che  siamo cittadini eguali in dignità e libertà?

 

 

Il cardinal Martini e la morte
di Armando Massarenti
in “Il Sole 24 Ore” del 4 dicembre 2011

Nell’introduzione al recente «Meridiano» dedicato a Carlo Maria Martini, Marco Garzonio ricorda la copertina che il cardinale scrisse per la Domenica del Sole 24 Ore il 21 gennaio 2007, «Io, Welby e la morte». «A un mese di distanza  dalla morte di Piergiorgio Welby, l’uomo malato di Sla cui la Chiesa non aveva concesso i funerali religiosi» ricorda  Garzonio, Martini scriveva: «Con lucidità ha chiesto la sospensione delle terapie di sostegno respiratorio, costituite  negli ultimi nove anni da una tracheotomia e da un ventilatore automatico». Il cardinale ai tempi era già affetto dal  Parkinson, ed era consapevole degli effetti progressivamente invalidanti della malattia. «Si può allora immaginare – scrive Garzonio – quanto le sue argomentazioni fossero arricchite dalla sofferenza provata sulla propria pelle oltreché  dalle ragioni della teologia, del diritto e della morale». Si incentravano in particolare sulla nozione di “accanimento  terapeutico”: «Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi  matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le  condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere trascurata la  volonta del malato, in quanto a lui compete – anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite – di  valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate».  Ecco, il punto è tutto in quel «non può essere trascurata la volontà del malato». Ancor più laicamente io direi che la  volontà del malato è decisiva. Ma la cauta espressione del cardinal Martini, presa sul serio, sarebbe già sufficiente per evitare lo scempio della nostra libertà previsto dalla legge sul testamento biologico elaborata dall’attuale Parlamento.

 

 

Il dibattito

 

Anche quest’oggi diamo spazio alle riflessioi sul suicidio “”non siamo padroni della vita! Ma padrone della vita non può essere nemmeno il caso, o la malattia, o la tecnologia, o lo stato con le sue leggi e lei stessa, chiesa, che della vita dovrebbe essere serva, non padrona!” “E’ questa presa di coscienza della complessità del problema che manca ai teologicchi di oggi, semplici megafoni amplificatori della “Voce del Padrone”! ” (ndr.: la riflessione svolta riguarda il suicidio, non il suicidio assistito, che pone dei problemi ulteriori)
“Scorretto parlare di confronto tra “pro vita” e “pro morte”. Nel mondo anglosassone si parla di “pro choice”…
“esiste, a mio avviso, una differenza profonda tra sospendere terapie che hanno il carattere della straordinarietà o sono ritenute sproporzionate dal paziente, come può essere la nutrizione artificiale oppure un intervento chirurgico, e porre volontariamente fine alla vita di un essere umano attraverso la somministrazione di un farmaco letale”
Il gesto estremo, se proprio si vuole compierlo, bisogna affrontarlo da soli, senza complicità di sorta. Pretendere di farsi assistere nel suicidio è una mostruosità logica e giuridica, prima amcora che religiosa
  • Lucio e il volo di Giancarla Codrignani in l’Unità del 2 dicembre 2011
“Lucio Magri era un uomo di fede. Laica, laicissima… la fede è pericolosa, soprattutto quando un dio viene sostituito da un’idea … di salvezza umana. Se un Papa avesse una fede così e volesse chiamare cristiano “questo” mondo, si suiciderebbe… Per chi continua, senza ali, con i piedi per terra, a fare politica, cioè alimenta per sé e per altri la speranza, il sentimento del limite umano incomincia a far male dentro….
Nalla bibbia non c’è alcun divieto al suicidio, non c’è un Dio che condanni a vivere. ” si tratta di considerare tutte le persone come dei soggetti liberi, responsabili dei propri atti… e di dar loro il desiderio di scegliere ancora la vita nono stante tutto”
“Mi è preziosa la facoltà di scegliere se vivere o morire, e però mi fa disperare e ribellare l’eventualità che una persona che amo scelga di morire… Ci sono due gruppi nei quali il suicidio infierisce: i giovani, e i carcerati… Non si sceglie di morire come per una liberazione: questo è un eufemismo. Si sceglie, o ci si rassegna, a non poter più essere liberati…”
“si deve rispettare la coscienza seria di chi non vede più un senso umano, che anche Dio vuole per la nostra vita, della propria sofferenza esistenziale”
“Esiste un diritto di morire? Si può legittimamente programmare la propria morte, facendosi aiutare da un medico? Ognuno di noi ha sicuramente il diritto di essere riconosciuto come soggetto della propria vita fino alla fine, anche in punto di morte…”
Austria “Nella sua ultima “lettera alle parrocchie” del settembre 2011 si dichiarava favorevole a “quasi tutte” le richieste dell’Appello alla disobbedienza” e a questo proposito argomentava: “I parroci della Initiative, che conosco personalmente, non sono dei rivoluzionari, ma preti appassionati.”
“Tutto può essere perdonato, salvo la sovrana decisione di sé. In tanti Paesi che si pretendono democratici questa libertà è oggi considerata una solida conquista. A quando la compiutezza di un diritto che emancipi la nostra Repubblica dai condizionamenti della Chiesa? “