Ma alla fine del regno di Nerone le cose cambiarono.
Nel maggio del 66 con un banale pretesto— gli abitanti avevano rifiutato di andare in processione a salutare due coorti dell’imperatore — il procuratore romano della Giudea, Gessio Floro, scatenò le sue truppe contro il mercato superiore di Gerusalemme provocando in un solo giorno tremilaseicento morti, la maggior parte donne e bambini.
Energica fu la reazione giudaica, che portò alla costituzione di uno Stato indipendente; anche se gli abitanti di Gerusalemme restarono divisi tra coloro che volevano riprendere un percorso di pace e quelli intenzionati a insistere sul terreno delle armi.
La situazione, però, in quel momento era ancora recuperabile.
A provocare la rottura di questo equilibrio fu, nel giugno del 68, la morte di Nerone.
Quando l’imperatore fu ucciso dal liberto Epafrodito, Tito Flavio Vespasiano, un soldato assai capace (ma niente di più) che si era distinto vent’anni prima nella conquista della Britannia, colse l’occasione derivatagli dall’essere comandante in campo della guerra in Giudea per sfruttare la guerra stessa e con essa dare la scalata al potere nella capitale dell’impero sconvolta dalle divisioni per la successione tra Galba, Otone e Vitellio.
Vespasiano riuscì nel suo intento (69) grazie anche ai consigli di Giuseppe, un sacerdote gerosolimitano che, dopo aver comandato le truppe ribelli in Galilea, era stato catturato dai romani e si era messo a disposizione del futuro imperatore vaticinando per lui fin dal 67 (cioè ben prima della morte di Nerone) l’ascesa al sommo incarico.
Giuseppe avrebbe poi spiegato nei sette magnifici libri della Guerra giudaica di cui si è detto all’inizio — scritti nel 70 quando il figlio di Vespasiano, Tito, distrusse la città e il Tempio — come i suoi antichi correligionari si erano fatti sopraffare.
Nonostante le successive sollevazioni in Cirenaica e in Egitto (72) e l’ultimo tentativo di resistenza a Masada (73).
E qui si arriva alla parte più interessante del libro di Goodman, dove si approfondisce quel che rese per così dire definitiva la crisi del 70.
La Storia dell’antisemitismo scritta da Léon Poliakov a ridosso del processo di Norimberga e pubblicata poi negli Anni Cinquanta (in Italia da Sansoni) dedica un numero di pagine davvero limitato alla origine dei sentimenti di ostilità nei confronti degli ebrei che pure si registrano prima dell’età cristiana: «Non scopriamo nell’antichità pagana—scrisse Poliakov—quelle reazioni passionali collettive che in seguito renderanno la sorte degli ebrei così dura e precaria».
Riconosceva, Poliakov, che si deve fare un’eccezione per la città di Alessandria, dove esisteva una grande comunità ebraica e i conflitti tra gli ebrei e la popolazione greca erano «frequenti e acuti» così che dovettero registrare ripetute «esplosioni di collera popolare contro gli ebrei».
Ma, aggiungeva, «come regola generale l’Impero romano dell’epoca pagana non ha conosciuto l’antisemitismo di Stato».
E con questo ridimensionava del tutto le espressioni antiebraiche che troviamo in abbondanza negli scritti di Diodoro Siculo, Filostrato, Pompeo Trogo, Giovenale, Tacito, Orazio, Valerio Massimo e Seneca.
Qualche decennio dopo Peter Schäfer in Giudeofobia.
L’antisemitismo nel mondo antico (Carocci) si è soffermato—in base a un’ampia documentazione — su un’indicazione che il re greco di Siria Antioco VII ricevette dai suoi consiglieri all’epoca dell’assedio di Gerusalemme (135 a.C.) secondo cui non ci si doveva limitare a espugnare la città ma sarebbe stato opportuno «estirpare completamente la razza dei giudei ».
A partire da ciò Schäfer ha sostenuto che si può parlare di antisemitismo in pieno rigoglio «ben prima dell’avvento del cristianesimo ».
Ne è nato un dibattito dalle evidenti implicazioni.
E furono in molti a polemizzare — sia pure tra le righe — con Schäfer.
Uno per tutti lo studioso di Oxford Jasper Griffin il quale (recensendo Giudeofobia su «La Rivista dei libri», settembre 1999) riconobbe che sì, anche in età precristiana «ci furono casi in cui si proiettarono sugli ebrei fantasie di sacrifici umani e giuramenti ratificati con sangue umano» ma, aggiunse, «sono storie rare, che si narravano anche al riguardo di altri gruppi, druidi, cristiani, congiurati di Catilina e non erano dunque prerogativa esclusiva degli ebrei».
Adesso la discussione è destinata a riaprirsi per merito di un voluminoso saggio di Martin Goodman, la cui parte conclusiva prende in esame lo scontro che oppose Roma a Gerusalemme tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo dopo Cristo.
Una resa dei conti spietata che, secondo le stime contenute nella Guerra giudaica di Giuseppe Flavio, provocò oltre un milione e centomila morti.
Cifra sbalorditiva per l’epoca.
Era inevitabile, si chiede l’autore, l’urto tra romani e giudei che ebbe come esito, nel 70 d.C., quella carneficina e soprattutto la distruzione del Tempio di Gerusalemme? O quantomeno era inevitabile che quel conflitto assumesse un tratto per così dire definitivo? Assolutamente no.
Anzi, la tesi di tutta la prima parte del libro di Goodman Roma e Gerusalemme.
Lo scontro delle civiltà antiche, che Laterza sta per mandare in libreria nell’impeccabile traduzione di Michele Sampaolo, è che quei due mondi avrebbero potuto benissimo coesistere come avevano fin lì coesistito: fu la lotta per il potere a Roma che provocò la catastrofe.
In che senso? L’occupazione romana della regione si era protratta per oltre un secolo (dal 37 a.C.) senza che mai si dovessero affrontare crisi di quelle proporzioni.
Dapprima per effetto della repressione messa in atto da Erode; successivamente (dal 6 al 66 d.C.) non ci fu bisogno neanche di quella.
Categoria: Cultura
“Ma lui non si lascia tirare per la giacca”
L’intervista Andrea Riccardi (storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio), il Papa a Praga fa il «tagliando» all’Europa a vent’anni dalla caduta del Muro? «Benedetto XVI sente che la sua missione è parlare al cuore e alla ragione d’Europa.
La battaglia di Wojtyla era rivolta all’Est comunista, la sua è impedire che il vecchio continente perda il suo sapore cristiano ed esca dalla storia per irrilevanza.
Ratzinger non punta a un nuovo imperialismo, ma affida all’Europa una missione vitale di fede e umanesimo».
Il colloquio con Berlusconi alla partenza per Praga ha fatto discutere.
Franceschini lo definisce un semplice saluto (“gli incontri importanti non avvengono davanti alle telecamere”), Di Pietro una “furbata del premier”.
Qual è la sua opinione? «Il Papa non si fa strumentalizzare, né tirare da una parte o dall’altra.
Poi, certo, Ratzinger stringe la mano, ti fissa negli occhi, ma guarda lontano.
Sa parlare al mondo, e in questi colloqui tocca problemi generali.
Benedetto XVI non è l’uomo della cronaca, però non è avulso né estraneo alle persone che incontra.
Non sta sull’ultimo avvenimento ed è concentrato sulle correnti profonde della storia.
Come papa e come uomo, però, non è strumentalizzabile, non si fa coinvolgere in strategie altrui.
Non è prigioniero del momento, mira oltre la situazione contingente per spingere a quello che conta, difendere i principi non negoziabili e comunicare il Vangelo».
E’ un Papa che teme il progresso scientifico? «No.
Vuole unire la scienza e l’economia all’umanesimo e al valore dell’elemento umano che non si compra e vende sul mercato.
Il suo messaggio è un orizzonte unitario.
Per questo scrive libri su Gesù, la porta d’accesso a tutto è l’annuncio, la passione cristiana.
Sia parlando pubblicamente al mondo accademico sia conversando privatamente con un capo di governo, non lo preoccupa negoziare posizioni o fissare paletti, ma proporre la sua testimonianza.
Non è un crociato, sa di parlare a società fortemente secolarizzate.
Però è consapevole che a cercare di spingere Dio fuori dall’Europa sono stati il nazismo e il comunismo ieri e oggi la ricerca selvaggia del profitto.
Non a caso ha scelto Praga per lanciare il suo monito e non Cracovia o Budapest».
Perché? «Le contraddizioni dell’angolo più secolarizzato d’Europa consentono a Ratzinger di dimostrare quanto le questioni di fede e la dimensione spirituale incidano sulla qualità della vita.
Lui chiama alla responsabilità, alla cooperazione internazionale contro la crisi, avverte che i destini sono legati e pone istanze a nome della Chiesa.
Per questo ha voluto un incontro ecumenico a Praga: per dire che la costruzione del futuro non può riguardare solo l’economia e la politica».
E’ troppo teologo e poco pastore? «E’ un Papa teologo ma appassionato all’umano.
Dopo la caduta del Muro, anche Ratzinger come Wojtyla, si è subito preoccupato della giustizia sociale e non ha mai pensato che bastasse il mercato per garantire la democrazia, la libertà e lo sviluppo.
Non lo hanno mai sfiorato il provvidenzialismo mercatista e la cieca fiducia nell’accumulo della ricchezza che si autogoverna, come dimostrano i forti messaggi lanciati a Praga e l’enciclica sociale.
Benedetto XVI si appella all’amore, al rispetto per l’altro e guida la Chiesa sulla strada del dialogo per favorire l’intesa tra diverse culture, tradizioni e sapienze religiose».
Qual è il senso dell’incontro a Praga con le altre confessioni? «Confrontarsi con esponenti di diverse Chiese, comunità ecclesiali e religioni è già un gran segno di pace.
Serve a parlare con realismo, a guardarsi in faccia, a superare le distanze, a fronteggiare l’allontanamento di Dio dalla vita dell’uomo.
Incontrarsi non risolve miracolosamente i problemi, ma crea una prospettiva nuova per vederli.
Trent’anni fa si pensava che magicamente le secolari lacerazioni tra cristiani si sarebbero composte, adesso sappiamo che serve gradualità.
E Benedetto XVI punta su un comune sentire, rifiuta la religione come pretesto per la violenza e indica la via del vivere insieme».
in “La Stampa” del 28 settembre 2009
A Praga il papa in difesa della ricristianizzazione
Per il suo tredicesimo viaggio all’estero, papa Benedetto XVI arriva sabato 26 settembre in uno dei paesi più scristianizzati d’Europa.
La sua venuta nella Repubblica ceca coincide con il 20° anniversario della “rivoluzione di velluto” che vide il crollo del regime comunista.
Questa visita di tre giorni non avrà il carattere storico di quella che il suo predecessore Giovanni Paolo II aveva effettuato nel 1990, incontrando il presidente ceco di allora, Vaclav Havel.
Ma Benedetto XVI dovrebbe ricordare lì l’importanza delle radici cristiane e della democrazia in Europa.
La Repubblica ceca “che si trova geograficamente e storicamente nel cuore dell’Europa, dopo aver attraversato i drammi del secolo scorso, ha bisogno di ritrovare le ragioni della fede e della speranza, come tutto il continente”, ha detto Benedetto XVI domenica 20 settembre.
Questo viaggio dà anche l’occasione di ritornare sul ruolo, contrastato, delle Chiese cristiane nei processi di democratizzazione degli ex paesi dell’Est e sul loro posto attuale.
“Bisogna distinguere diverse situazioni”, avverte lo storico Krysztof Pomian.
“Le Chiese ortodosse sono sempre state delle Chiese ‘statalizzate’, tanto in Russia che in Romania o in Bulgaria.
E, se una forma di dissidenza religiosa” appare negli anni ’70, essa è portata avanti solo da individui, sconfessati dalla gerarchia”, spiega lo storico polacco.
Anche all’interno dei paesi cattolici, le situazioni variano.
Per ragioni storiche, la Chiesa è debole nella Repubblica ceca: la rivolta religiosa del XV secolo, condotta dal riformatore Jan Hus, condannato a morte, ha lasciato profonde tracce.
“Imposta dal potere imperiale germanofono, la Chiesa cattolica vi è percepita, soprattutto a partire dal risveglio nazionale, come una religione straniera”, ricorda Pomian.
“Questo substrato creerà d’altronde una certa ricettività alla corrente socialdemocratica poi al comunismo ceco dopo la prima guerra mondiale”, aggiunge.
Durante il periodo comunista, la Chiesa conoscerà forti persecuzioni e le sue possibilità d’azione saranno limitate.
Negli anni ’80, certe chiese diventeranno comunque luoghi di raccolta della dissidenza.
Durante tutto questo periodo, la Polonia cattolica resta un caso a parte.
“È rimasta una potenza che potere comunista ha cominciato col trattare con riguardo, spiega Krysztof Pomian.
Poi sono venute le persecuzioni e l’internamento nel 1953 del cardinale primate di Polonia.
Dopo la sua liberazione nel 1956, si è installata una sorta di coabitazione conflittuale.
A partire dagli anni ’70, cambiamento di politica: la Chiesa diventa un interlocutore quasi ufficiale del potere.
Ciò non le impedisce di criticarlo, in particolare attraverso delle lettere pastorali lette nelle chiese.
Nel contesto dell’epoca, la Chiesa incarna una forza liberatrice.” L’elezione del papa polacco, Giovanni Paolo II, nel 1978 accentuerà questa dimensione.
“Sostenuta da un laicato cattolico forte, si può dire che la Chiesa polacca abbia accompagnato il movimento di contestazione.
Ma sicuramente non lo ha preceduto.
Del resto ha svolto il ruolo di moderatrice e di mediatrice tra le parti in campo”, aggiunge Pomian.
Nella Germania protestante, le parrocchie accoglieranno la contestazione nella seconda metà degli anni ’80.
Ma, come sottolinea lo storico, “nel regime comunista, ogni manifestazione di credenza religiosa acquisiva un significato politico.
I pastori hanno quindi svolto un ruolo di opposizione spirituale al regime.” Vent’anni più tardi, sembra che le Chiese non abbiano profittato appieno dell’avvento della democrazia.
La Repubblica ceca, con il suo 40% di atei, ne è un esempio.
E, anche in Polonia, dove, secondo Pomian, “la Chiesa come istituzione ha beneficiato della transizione democratica oltre i suoi meriti reali e dove mantiene un’influenza politica in certe regioni, si constata un riflusso e in particolare una diminuzione del numero di seminaristi e della pratica domenicale”.
“Il rinnovamento religioso atteso dopo il 1989 non sembra essere avvenuto”, dichiara lo storico.
in “Le Monde” del 27 settembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)
‘Italiano e Religione cattolica fanno identità e integrazione’
La scuola “ha sempre di più il compito di assolvere ad una funzione di integrazione, per questo stiamo puntando su insegnamento della lingua italiana ai bambini stranieri e sull’educazione alla cittadinanza”.
Lo afferma il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, intervenendo alla presentazione del rapporto curato dal comitato per il progetto culturale della Conferenza episcopale italiana, presieduto dal cardinale Camillo Ruini.
Ma la scuola “rappresenta anche un luogo in cui si difende l’identità del Paese”, continua Gelmini, “da qui deriva la mia difesa dell’ora di religione e della presenza del crocefisso”.
E si deve “difendere l’identità perchè il rispetto dell’altro non significa un resa; su questo bisogna essere chiari, altrimenti non si garantisce l’integrazione nè si fornisce ai nostri ragazzi la possibilità di avere un patrimonio culturale che è quello del loro Paese”.
La religione ha un ruolo centrale e unico nella società e per il suo sviluppo
L’INTERVISTA Partiamo dal suo recente ingresso nella Chiesa cattolica.
Due anni fa, dopo la visita al Papa in giugno, il mondo cominciò a parlare apertamente della sua conversione al cattolicesimo.
Ci può raccontare come nacque questa decisione? Il mio viaggio spirituale è cominciato quando ho iniziato ad andare a messa con mia moglie.
Poi, quando abbiamo deciso di battezzare i nostri figli nella fede cattolica.
È un cammino che è proseguito per 25 anni, e forse anche di più.
Nel tempo, emotivamente, intellettualmente e razionalmente mi è sembrato che quella cattolica fosse la casa giusta per me.
Ma è successo durante un lungo intervallo di tempo.
Quando ho lasciato l’incarico politico, e attorno non avevo più tutto il contesto legato all’essere primo ministro, è stato qualcosa che ho voluto davvero fare.
La sua era una famiglia religiosa? In realtà non molto.
Mia madre, una protestante proveniente dall’Irlanda, andava occasionalmente in chiesa.
Mio padre, invece, era un ateo militante.
Ma, a Durham, sono andato a scuola alla Chorister School, adiacente alla cattedrale, quindi la religione è stata parte integrante della mia educazione scolastica.
La vera svolta, però, l’ho vissuta all’università, quando ho iniziato a pensare seriamente alla mia fede cristiana, a pensarvi in modo più profondo.
È stato allora che ho realizzato che era un aspetto non solo importante, ma assolutamente centrale della mia vita.
Come è noto, da sempre Cherie Booth è una cattolica praticante.
Che significato ha avuto la religione nel vostro matrimonio? La religione è stata qualcosa che ci ha fatto avvicinare.
Non ci siamo conosciuti a motivo della religione, ma è stato molto interessante scoprire che la mia futura moglie era estremamente attiva nella organizzazione studentesca cattolica e in altre organizzazioni giovanili.
Per dei giovani di 23 o 24 anni – come noi eravamo quando ci siamo conosciuti – era piuttosto inusuale scoprire di condividere questo interesse per la religione.
Durante la sua ultima visita da primo ministro, lei ha donato a Benedetto XVI tre foto di John Henry Newman.
La scelta è stata motivata dal fatto che la figura del cardinale Newman aveva avuto un ruolo nel suo cammino di conversione? Oppure vi sono state altre figure che vi hanno contribuito? In realtà no, non è stata questa la ragione.
Anche se ovviamente conoscevo la storia del cardinale Newman, e avevo letto i suoi scritti.
Le foto erano semplicemente un regalo appropriato.
Riguardo ad altre figure, ho avuto la fortuna di partecipare nel 2003 con la mia famiglia, a una messa che Giovanni Paolo II celebrò nella sua cappella privata: è un ricordo ancora molto vivido, un episodio che mi ha estremamente colpito.
Certo, molto probabilmente sarei giunto comunque alla conversione, ma indubbiamente si è trattato di una tappa importante che ha ulteriormente rafforzato la mia decisione.
Una delle cose che mi ha più attratto della Chiesa cattolica è la sua natura universale.
Se sei un cattolico, puoi andare ovunque nel mondo e partecipare alla messa in ogni Paese.
Sono stato a messa a Kigali, a Pechino, a Singapore.
Ricordo la volta in cui seguii una funzione a Tokyo: ero entrato in incognito, senza farmi notare, ma al termine della celebrazione una signora invitò i numerosi visitatori a presentarsi, alzandosi in piedi.
Lo feci: sono Tony da Londra.
È stata una bella sorpresa! (ride).
Ecco, il fatto che, ovunque tu sia nel mondo, sei in comunione con gli altri, è veramente formidabile.
È qualcosa che mi affascina.
La Chiesa universale è essa stessa un importante modello di istituzione globale. La società e la politica inglesi sono molto diverse da quelle statunitensi: in Gran Bretagna è raro parlare ad alta voce della propria fede e gli inglesi si sorprendono dinnanzi a quanti raccontano apertamente il loro credo.
Pensa che vi siano motivi culturali per questa differenza? Personalmente credo che questo sia un problema dei media, piuttosto che della gente comune.
Non ho mai fatto una gran questione attorno alla mia fede, nonostante fosse assolutamente evidente il fatto che l’avessi: per anni sono andato a messa ogni settimana, quindi non stavo certo nascondendo nulla.
E debbo dire che non ho mai avuto problemi con la gente.
Anzi, forse, è vero il contrario.
Penso però che, a causa della nostra cultura mediatica, se inizi a parlare pubblicamente di fede come leader politico, la prima reazione della gente è di sospetto, piuttosto che di interesse.
Invece, negli Stati Uniti parlarne è semplicemente dato per scontato.
È un peccato che sia così, ma questa è la realtà.
Posso però dire che per la gente comune, a differenza di quanti parlano in televisione o scrivono sui giornali, non c’è mai stato problema.
Sono sempre stato consapevole del fatto che se avessi cominciato a parlare troppo di fede, mi sarebbero state richieste tante spiegazioni.
Questo sicuramente non sarebbe successo negli Stati Uniti.
Non saprei dire se vi siano differenze culturali dietro questi diversi atteggiamenti.
Forse in America andare in chiesa fa parte della vita quotidiana molto più di quanto non avvenga oggi in Europa.
Inclusa la Gran Bretagna.
Resta comunque il fatto che io ho affrontato temi politici con le comunità religiose più di quanto mi risulta abbia mai fatto nessun altro.
Per un europeo, è impossibile non notare quanto la politica americana parli di Dio, quanto lo citi.
È vero.
A essere onesti, però, penso che ciò che preoccupa gli inglesi è il fatto che il politico possa voler prendere in prestito Dio per la campagna elettorale.
Gli americani, al contrario, non la pensano affatto così, e lo ritengono del tutto naturale.
Personalmente credo che sia importante aprirsi alla fede e che le persone si sentano libere di farlo.
Non possiamo ignorare che nei Paesi anglosassoni – ma non solo! – esiste un forte pregiudizio verso i cattolici che fanno politica.
L’idea è che il politico cattolico non sia libero e che le sue decisioni vengano prese in Vaticano.
È verissimo.
In realtà non ero esattamente cosciente di questo pregiudizio prima della conversione, e debbo dire che sono rimasto scioccato nel prenderne atto.
È interessante che una delle cene a cui partecipai subito dopo aver lasciato l’incarico di primo ministro fu l’Alfred E.
Smith Memorial Foundation Dinner a New York, una cena annuale organizzata dalla comunità cattolica (precisamente dall’omonima fondazione insieme all’arcidiocesi di New York).
Al Smith, che per quattro volte venne eletto governatore di New York battendosi per la giustizia sociale – sconfiggere la povertà e aiutare la causa del progresso – era cattolico.
È stato il primo cattolico a candidarsi alla Casa Bianca nel 1928.
Per scrivere il mio discorso, mi sono documentato sul personaggio, ed è stato sorprendente scoprire che il suo essere cattolico fu il vero tema della campagna elettorale.
La preoccupazione che emergeva dalla stampa era che, se Al Smith avesse vinto le elezioni, il Papa si sarebbe trasferito dal Vaticano alla Casa Bianca! (ride).
L’incubo era che il Paese sarebbe stato governato dalla Chiesa cattolica.
Questo spiega la celebre dottrina Kennedy secondo cui il credo religioso del presidente non dovrebbe giocare alcun ruolo nelle scelte degli elettori.
Già.
Kennedy finalmente infranse il mito.
Certo, sapevo del pregiudizio, anche perché la famiglia di mia madre era protestante e fortemente anticattolica.
Ma, pur sapendolo, non ne avevo del tutto compreso la reale portata finché non sono stato “educato” meglio.
Bede Griffiths, che si convertì nel 1931, era consapevole che la sua decisione di aderire alla Chiesa cattolica avrebbe causato sofferenza ai suoi cari, e specialmente a sua madre.
La preoccupazione di chi lo circondava era che egli avrebbe finito per perdere le sue radici.
In uno dei rari momenti di lucidità durante la malattia, la mia bisnonna, una donna per molti versi fantastica, mi disse: fai quel che vuoi, ma non sposare una cattolica.
Esattamente ciò che poi ho fatto, temo (ride).
Più in generale, crede che nelle moderne democrazie, un politico abbia il diritto di parlare in nome della sua fede – dichiarandosi, ad esempio, contro l’aborto perché viola il quinto comandamento – o abbia invece il dovere di tacere sul suo credo personale? Ho sempre sostenuto che le persone hanno il diritto di parlare.
Ho insistito molto su questo in Gran Bretagna.
Anche perché si tratta di temi che le persone sentono molto, che sono importanti per loro.
La gente la pensa diversamente su questi argomenti, e se una persona crede qualcosa che è assolutamente centrale per lui, ha il diritto di parlarne.
Tornando a lei, è mutato qualcosa dopo la conversione nella sua vita personale (ad esempio, come padre), nella sua attività politica in Gran Bretagna e, infine, nel suo nuovo ruolo sullo scenario internazionale? Come padre, c’è stata solo una continuazione.
I miei tre figli maggiori, ormai cresciuti, sono cattolici praticanti (e lo sono ancora, fortunatamente!).
Li abbiamo battezzati, hanno studiato in scuole cattoliche – anche Leo oggi studia in una scuola cattolica – e continuano a essere cattolici.
La fede è sempre stata una parte importante nella nostra vita come famiglia.
In questo senso, dunque, la mia conversione non ha cambiato le cose.
Quanto alla politica inglese, personalmente ho cercato di chiamarmene fuori da quando ho lasciato Downing Street.
Infine, circa il mio impegno internazionale, ovviamente la fede mi rende particolarmente sensibile e attento rispetto ad alcune tematiche specifiche.
Pensiamo al Medio Oriente.
Il fatto di essere lì, per un credente è emozionante e oltremodo stimolante.
Visitare i luoghi santi è stato meraviglioso: andare in posti come Gerico, la riva del Giordano dove avvenne il battesimo di Gesù, e ovviamente a Gerusalemme, dov’è il mio ufficio.
Il fatto di essere una persona di fede dà a questo impegno un significato speciale.
In Africa la mia fondazione per il dialogo fra le religioni è molto attiva: ad esempio, abbiamo un programma che vede le diverse religioni unite per sconfiggere la malaria, che ogni anno uccide nel continente un milione di persone, prevalentemente bambini.
Ci occupiamo anche del cambiamento climatico: sono convinto che il rispetto dell’ambiente per le generazioni future rientri nella nostra responsabilità di cristiani.
Insomma, sono tutti temi dominati dalla mia fede.
La Tony Blair Faith Foundation intende promuovere il rispetto e la conoscenza delle maggiori religioni – cristiana, musulmana, hindu, buddista, sikh ed ebraica – e dimostrare come la fede sia per il mondo moderno una forza potente che spinge verso il bene.
Ricordo che la presentai alla cattedrale di Westminster, dinnanzi a un uditorio cattolico.
Crede che il suo essere cattolico sia un vantaggio o uno svantaggio per la sua attività in Medio Oriente? Onestamente non l’ho mai trovato un problema.
Mai.
Anzi, penso spesso che, nel mondo moderno, il fatto di essere una persona di fede incrementi la capacità di mettersi in relazione con persone di un altro credo.
Certo, a volte è vero anche il contrario, per cui ci si trova in forte opposizione.
Ma giacché oggi fattori di secolarizzazione sottopongono la fede a un duro e aggressivo attacco, finisce che persone di fedi diverse a volte si alleino.
Nella “Caritas in veritate” il Papa scrive che “la religione Cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica” (n.
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Lei crede che il mondo di oggi abbia desiderio di ascoltare la religione, oppure voglia ignorarla? Trovo che vi sia un conflitto.
Personalmente, condivido totalmente quello che scrive il Papa nell’enciclica, un testo brillante che deve essere letto e riletto.
Ritengo che la religione abbia un ruolo centrale, unico all’interno della società e per il suo sviluppo.
Pensiamo, ad esempio, al modo in cui utilizziamo la tecnologia.
Ma è anche vero che c’è un conflitto, perché molte persone vogliono tenere la religione fuori dalla sfera pubblica.
Sostenere, come sostengo, che la religione abbia un ruolo importante, non significa ritenere che finiranno i dibattiti e le contrapposizioni.
Questi, al contrario, proseguiranno su molti temi rispetto ai quali, probabilmente, la Chiesa starà da una parte e i leader politici dall’altra.
Ma non credo sia questo il punto: il punto è che la fede ha pieno diritto di entrare in questo spazio e di parlare.
Non deve tacere.
Non è quindi solo importante che le cose si risolvano nel modo giusto, ma anche che la voce della fede non sia assente dal dibattito pubblico (pensiamo a temi come la giustizia e la solidarietà tra i popoli e le nazioni).
Sono appena tornato dalla Cina, dove ora passo molto tempo, ed è affascinante vedere il modo in cui questo Paese si sta impegnando per trovare la sua strada verso il futuro.
Non è solo un impegno sul versante del progresso economico e sociale, ma qualcosa che riguarda anche la riscoperta delle loro fedi e tradizioni.
Ho ascoltato molte relazioni in Cina: si parla moltissimo di confucianesimo, taoismo e buddismo.
E perfino la comunità cristiana oggi in Cina si sta aprendo di più.
Per molti aspetti, la Cina si trova a un grado diverso di sviluppo rispetto alle nostre società, quindi si potrebbe pensare che nel Paese prevalga la tendenza a dire: se vogliamo essere veramente avanzati, moderni e sviluppati dobbiamo mettere la religione da parte.
Invece è interessante scoprire che, sebbene vi siano persone che si augurano esattamente questo, oggi si odono anche voci del tutto opposte.
Voci che ricordano come la Cina sia una civiltà antica con forti tradizioni religiose e filosofiche le quali non si occupano solo dello Stato e dell’individuo, ma anche della sfera religiosa.
Credo che questa sia per noi una lezione davvero importante. Personalmente ritengo che la recente entrata in scena dell’islam abbia stravolto il ruolo, lo spazio che oggi diamo alla religione in politica, il modo in cui pensiamo alla loro interrelazione.
Sono assolutamente d’accordo.
Per certi versi, è il punto nodale della mia fondazione.
Anche se una persona non è credente, può comunque capire l’importanza della fede, può comprendere che la fede conta.
Abbiamo visto ciò che è accaduto nel mondo islamico: ci sono persone che sostengono che è qualcosa che non ha nulla a che fare con la religione.
È una completa assurdità.
Certo che ha a che fare con la religione.
Sempre nell’enciclica, Benedetto XVI scrive che “volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità” (n.
7).
Lei cosa ne pensa come cattolico, come ex primo ministro inglese, come protagonista attuale della politica internazionale e come probabile futuro Presidente europeo? Concordo (sorride).
Credo che un leader politico sia soggetto ad alcuni vincoli, e debba lavorare per raccogliere voti.
Perché questa è la democrazia.
Ma è proprio qui che trovo che la fede abbia un ruolo unico.
La Chiesa cattolica segue la verità di Dio, e credo che ciò su cui il Papa si impegna tanto è cercare di far comprendere che questo è un obbligo cristiano.
Certo, a volte ciò può entrare in conflitto con il mondo politico, e io l’ho sperimentato come leader politico.
Eppure è estremamente importante che vi sia l’aspetto religioso: non a caso il Papa scrive che un umanesimo senza Dio è disumano.
E credo che egli intenda con questo che le azioni umane e la ragione umana sono sempre limitate se non sono pervase dalla fede.
A volte, possono essere addirittura pericolose.
Certo, difficilmente si potrà realizzare la politica che il Papa tratteggia nell’enciclica.
La gente spesso fraintende la politica.
La politica è l’interazione tra idealismo e realismo: solitamente, non è il trionfo dell’uno sull’altro.
Quando, nel 2005, abbiamo deciso di mettere la povertà in Africa al centro del G8 a Gleneagles, questo era fortemente sostenuto dalla Chiesa cattolica e da Giovanni Paolo II.
E fu cruciale.
Si creano difficili nodi politici quando si arriva a dover decidere quanti soldi si daranno, se si deve fare di più, se si può fare di più.
Nodi che possono portare anche a forti contrapposizioni.
Ma il fatto che se ne parli, e che la posizione venga fortemente sostenuta dalla Chiesa, può effettivamente aiutare il politico a fare la scelta giusta.
Certo, non elimina il problema, ma aiuta.
Quando ho detto agli inglesi che dovevamo incrementare sostanzialmente il nostro aiuto all’Africa, mi aiutò moltissimo il fatto che la Chiesa dicesse pubblicamente che era la scelta giusta da fare, che era una cosa moralmente buona.
Certo, ciò non toglie che vi sia sempre chi critica il fatto di usare i nostri soldi per aiutare gente diversa da noi.
In effetti in Gran Bretagna avete seri nodi sociali: non deve essere stato facile.
È vero, li abbiamo.
Ma li hanno tutti.
Sì, ma è più facile vedere quelli degli altri, piuttosto che i propri! Già! (ride).
Come padre di quattro figli, cosa pensa del ruolo paterno? Come vede il futuro della paternità nel mondo di oggi? In primo luogo, penso che la paternità sia un ruolo da affrontare con responsabilità e senza arroganza.
Per quanto bravo o intelligente pensassi di essere, ho sempre trovato che essere padre fosse qualcosa di estremamente difficile.
E lo penso tuttora.
Secondo, ovviamente ritengo che anche il padre sia una figura cruciale nella famiglia, che anch’egli sia fondamentale per la crescita e la formazione del bambino.
In terzo luogo, credo che, per certi versi, si stia recuperando l’idea di famiglia.
Anche in questo campo ritengo che le comunità religiose e la Chiesa abbiano un ruolo da giocare.
Certo, le famiglie hanno i loro problemi, le famiglie si sfasciano, cosa che temo continuerà ad accadere.
Ma ho sempre pensato che le indicazioni della Chiesa in materia di famiglia fossero utili.
Sia chiaro, far funzionare un matrimonio richiede impegno.
E credo che lo richieda anche la paternità.
Ma penso davvero che, tra i grandi cambiamenti che stanno avvenendo anche sul versante sociale, sia necessario riscoprire che la paternità è una responsabilità e una necessità.
Che impressione Le fa sapere che i suoi pronipoti studieranno il suo lavoro nei loro libri di scuola? Qualcuno me lo ha fatto notare l’altro giorno, ed è stata la prima volta che ci ho pensato.
So che suona strano, ma è davvero così! Non penso mai a me stesso in questi termini.
E poi, certo, dipende molto da quello che leggeranno! (ride).
Beh, lei di cose ne ha fatte parecchie…
Sì.
Però la mia personale inclinazione è quella di concentrarmi sempre sul futuro.
Non perché io non rifletta sul passato – vi sono ovviamente molte questioni sulle quali rifletto e ritorno – ma sento di avere ancora qualcosa da dare.
Sento che ho ancora una vita davanti a me, oltre che dietro di me.
Chissà poi quali saranno i giudizi storici sulle diverse imprese in cui sono stato coinvolto, in particolare i tanti conflitti bellici come l’Iraq, l’Afghanistan, il Kosovo, Sarajevo.
Semplicemente, non avendo idea di quali giudizi verranno dati, trovo che non abbia assolutamente senso l’ossessione di pensarci.
Mi colpisce questa sua enfasi sul futuro.
Certo, Lei, che è arrivato alla guida del governo a 44 anni, oggi è ancora giovane: ha finito il suo lavoro come primo ministro avendo ancora tantissimo tempo davanti a sé.
Invece, per esempio, l’Italia ha una classe politica tradizionalmente molto più avanti con gli anni: è perciò inusuale un politico che, al termine di un decennio di governo, sia così proiettato sul suo futuro professionale.
Sì, ma ritengo che, in realtà, sia una cosa buona.
Devo dire che credo di aver imparato tantissime cose negli anni.
Il fatto di avere politici che terminano il loro incarico quando sono ancora giovani, può tornare veramente utile.
Penso a politici come Bill Clinton o Aznar: hanno davvero molta esperienza da far fruttare.
E sua moglie non scenderà in politica, come è capitato in altri Paesi? No, non credo proprio che le interessi! (ride).
Eppure abbiamo davvero bisogno delle donne in politica. È vero: abbiamo bisogno delle donne in politica.
Bisogna insistere! Del resto il suo Paese è stato a lungo guidato da una donna che, tra l’altro, è stata un esempio interessante di donna politica.
Certamente.
Credo, però, che i pregiudizi contro le donne siano in realtà molto meno diffusi di quanto generalmente si creda.
Ricordo che mio padre mi diceva sempre – era un uomo della vecchia guardia – che gli inglesi non avrebbero mai eletto una donna primo ministro.
E invece l’hanno fatto per ben tre volte! Quale era il sogno di Tony Blair quando era bambino? Le mie ambizioni? Temo proprio che fossero estremamente ordinarie e banali: volevo diventare un calciatore o una rock-star! (ride).
Non ha mai pensato che le sarebbe piaciuto diventare primo ministro? No! Sarei assolutamente inorridito se qualcuno mi avesse detto che sarei diventato un politico.
E questo fino all’età di 20 o 21 anni.
I miei primi due anni all’università sono stati più a base di feste e rock and roll che di politica.
Eppure si ricorderà della prima volta in cui ha votato? Ricordo che io quel giorno mi sono sentita importante: sentivo che il mio Paese aveva bisogno di me.
Sì che mi ricordo! Erano le elezioni del 1974, e io ero all’università.
Direi, però, che il voto che ha segnato una netta differenza nella mia vita, è stato quello al referendum sull’Europa del 1975.
Ricordo perfettamente di aver votato sì: e fu un voto estremamente consapevole.
Ero convinto che fosse una scelta importante per il futuro della Gran Bretagna.
Lo ricordo bene: è stato un momento davvero interessante.
E così, terminiamo con l’Europa.
Un involontario ponte verso il futuro.
Ancora strette di mano, e sorrisi.
Quando lo saluto, non so più se sto salutando il politico che ha abitato per un decennio al 10 di Downing Street riformulando la politica inglese, il credente che ha camminato a lungo verso la Chiesa cattolica, o lo statista di cui ancora si parlerà.
In effetti, forse non è nemmeno un gran problema: beneath all, questo è Mister Tony Blair, come lo definisce il suo assistente Matthew Doyle.
All’ultimo momento salendo le scale verso la sua stanza, ero stata presa da un brivido di terrore su come avrei dovuto chiamarlo.
Ma il problema non s’è posto.
(©L’Osservatore Romano – 14-15 settembre 2009)
Ora di religione, in arrivo il voto
Anche il giudizio dei prof di religione potrebbe essere presto trasformato in un voto vero, dall’1 al 10.
L’intenzione del governo è stata oggi confermata nella sostanza dal ministro Maristella Gelmini: “Credo che l’ora di religione debba avere la stessa dignità delle altre materie, e credo anche che l’Italia non possa non riconoscere l’importanza della religione cattolica nella nostra storia e nella nostra tradizione”.
Secondo il ministro, va “garantita agli insegnanti della religione cattolica la stessa situazione, le stesse condizioni degli altri insegnanti”.
Alla fattibilità dell’intera operazione starebbe lavorando da circa tre mesi una commissione voluta dal ministro.
Sulla composizione della stessa vige il più stretto riserbo e le riunioni si sono finora svolte in gran segreto, ma si sa che il gruppo di lavoro è presieduto dal direttore generale per gli Ordinamenti, Mario Dutto.
Il passo ulteriore è di pochi giorni fa: da viale Trastevere è partita la richiesta di parere di fattibilità al Consiglio di stato.
Se la cosa dovesse andare in porto, si riaccenderebbe la guerra tra laici e cattolici scoppiata un paio di settimane fa, quando il Tar Lazio ha estromesso dall’attribuzione dei crediti scolastici alle superiori proprio i prof di Religione.
Contro quella decisione, Gelmini prima ha annunciato un ricorso al Consiglio di stato, ma poi ha pubblicato il Regolamento sulla valutazione degli alunni che, di fatto, ha sospeso il provvedimento del tribunale amministrativo.
Attualmente, in tutti i gradi della scuola italiana (dalle elementari alle superiori), nei confronti degli alunni che hanno optato per l’ora di religione cattolica l’insegnante esprime un giudizio sintetico: sufficiente, discreto, buono, ottimo.
Niente voto, insomma.
Neppure dall’anno scorso, quando ad ottobre è stata approvata la legge 169 che ripristinava i voti in decimi al posto dei giudizi sintetici alla scuola primaria (l’ex elementare) ed alla media.
“Per l’insegnamento della religione cattolica – recita il testo unico in materia di istruzione – , in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Ma nel regolamento sulla valutazione, pubblicato il 19 agosto scorso, a proposito dei voti in decimi si legge che “la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica (…) è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche” al Concordato stato-chiesa.
A cosa porterebbe una eventuale trasformazione del giudizio in voto numerico? Darebbe alla Religione pari dignità rispetto a tutte le altre discipline.
Perché rientrerebbe nella media dei voti per l’attribuzione del credito scolastico alle superiori e contribuirebbe all’ammissione alla maturità così come agli esami di terza media.
Il provvedimento sarebbe certamente accolto positivamente dai quasi 26mila insegnanti di Religione in servizio nelle scuole italiane perché avrebbe il significato di una promozione a tutti gli effetti.
Dal punto di vista politico, invece, servirebbe a ricucire i rapporti tra governo e Vaticano dopo le tensioni nate sui respingimenti dei migranti e in seguito al caso Boffo.
da Repubblica 14 settembre 2009
Dialogo tra chiesa e governo Italiano
L’INTERVISTA Cosa vede, professor de Rita, dal suo osservatorio? Cosa sta accadendo nei rapporti tra politica e Chiesa in Italia? «Penso semplicemente, per dirla col mio amico Antonio Polito, che non sono i giornali a dettare l’agenda politica.
E per fortuna.
Soprattutto quando si tratta di giornalismo spesso militante».
Quindi, pensando al caso Boffo e alle sue dimissioni? «Quindi non è Vittorio Feltri a dettare l’agenda a Silvio Berlusconi così come non è Dino Boffo, né il suo caso, a dettarla al cardinal Bertone.
La politica ecclesiale proseguirà, così come sempre: si riparlerà di scuole cattoliche, di questioni etiche.
Si tratta di rapporti tra due poteri forti.
Andranno inevitabilmente avanti.
Magari Gianni Letta getterà molta acqua sul fuoco.
E lo stesso farà il cardinal Bertone.
Ma parliamo di contingenza.
Di immediatezza.
Il vero problema riguarderà un futuro non lontano…» Di quale problema si tratta, professor De Rita? «Lo chiamerei del ‘policentrismo parallelo’».
Urge una spiegazione per una formula che già appare molto complessa…
«La spiegazione arriva e non è complessa.
Da una parte c’è la dimensione dello Stato italiano unitario che non c’è più, così come l’abbiamo conosciuto, e non ci sarà per molto tempo: il centralismo, l’amministrazione, l’élite.
Stiamo assistendo a un progressivo policentrismo che non è solo localismo politico ma anche riscoperta di culture articolate, del dialetto, di un diverso modo di interpretare, nelle singole città, avvenimenti come l’Expò a Milano o le Olimpiadi a Torino».
E lo stesso, lei dice, starebbe avvenendo nella Chiesa? «Il mio vecchio e buon amico Francesco Cossiga si infuria quando assiste alle tante dichiarazioni di vescovi italiani.
Ma deve darsi pace.
Perché anche la Chiesa, fatalmente come lo Stato italiano, si sta avviando al policentrismo.
L’allora cardinale Ratzinger richiamò la Chiesa, prima di essere eletto Pontefice, alla sua ‘verticalità’, ricordando che le conferenze episcopali nazionali non hanno una base teologica.
In effetti non potrà mai perdere questa sua ‘verticalità’…
Ma bisognerà insieme fare i conti con la realtà che vive ora la Chiesa nel quotidiano: i parroci, i vescovi attivi nelle diocesi, le associazioni.
E i vescovi parlano, hanno opinioni diversificate, lo abbiamo visto e sentito in questi giorni.
Anche qui, con buona pace di padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, la ‘vera’ Chiesa italiana sono quei cento vescovi che intervengono e dicono la loro, ben più di un comunicato ufficiale.
Comunque basta leggere certi testi del professor Paolo Prodi per capire quanto la Chiesa, storicamente, abbia rispettato il localismo.» Quindi in prospettiva questa Chiesa policentrica dovrà dialogare con un potere italiano sempre più «locale»….
«La Chiesa non rinuncerà mai alla Curia né alle conferenze episcopali locali, altrimenti sarà impossibile governare un miliardo di cattolici.
Però si assisterà sempre di più a due concezioni della Chiesa: il centralismo e le realtà locali, spesso effervescenti e vitalissime.
È un problema che riguarda il destino stesso del cattolicesimo » In questa prospettiva come si colloca per esempio una realtà politica come la Lega di Umberto Bossi? «Tra vent’anni e in quest’ottica, una realtà come la Lega avrà più facilità a dialogare con la Chiesa, da localismo a localismo.
Nessuno negherà l’autorità teologica del Papa.
Ma se si vorrà ragionare in termini di territorio, un movimento come la Lega non avrà più bisogno di un Letta che media tra Berlusconi e la Chiesa o di un Pecchioli ‘ambasciatore’ del Pci presso la Santa Sede».
Allora le mosse di Umberto Bossi di questi giorni…
«No, no.
Insisto.
Non parlo dell’oggi.
Ma penso in prospettiva».
.in “Corriere della Sera” dell’8 settembre 2009 «Tra i vescovi idee diverse Per la Lega dialogo più facile» La frattura tra governo italiano e vertici della Santa Sede si ricomporrà presto.
Così come presto riprenderà il confronto su questioni etiche e scuole confessionali.
Parola di Giuseppe de Rita, sociologo cattolico, attento osservatore di ciò che accade nella Chiesa italiana, soprattutto nella sua base.
Il posto della Chiesa in tempi pagani
In effetti, occorre distinguere.
I rapporti con la Lega sono sempre stati conflittuali.
Basti pensare al periodo intorno alla metà degli anni Novanta, quando la Chiesa si oppose alla strategia secessionista della Lega.
Allora Bossi si scagliò contro il Papa polacco e i “vescovoni romani arruolati nell’esercito di Franceschiello, l’esercito del partito-Stato”.
In altri termini: contro la Chiesa, ritenuta (non senza ragione) il collante, forse più denso, dell’unità nazionale.
Oggi, invece, il problema è prodotto dalle critiche del mondo cattolico – le associazioni, i media, le gerarchie – contro le politiche del governo sulla sicurezza e l’immigrazione.
Cioè: il vero marchio della Lega (degli uomini spaventati).
Più ancora del federalismo.
D’altronde, il mondo cattolico, su questi temi, esprime un progetto fondato sull’accoglienza, sulla carità, sull’integrazione.
Concretamente praticato attraverso associazioni e istituzioni diffuse sul territorio.
Dalla Caritas, ai gruppi di volontariato, alle parrocchie.
Assai più della sinistra, è il mondo cattolico l’alternativa alla cultura e al linguaggio leghista.
Non solo sui temi della sicurezza e degli immigrati.
Perché il mondo cattolico è presente e attivo soprattutto dove è forte la Lega.
Cioè: nella provincia del Nord.
Dove i campanili costituiscono ancora un centro della vita sociale.
Da ciò un conflitto inevitabile.
Che è, in parte, competizione.
Anche perché la Lega si propone come una sorta di “Chiesa del Nord”.
Con i suoi riti, i suoi simboli, i suoi valori, le sue reti di appartenenza locale.
Ronde comprese.
Della tradizione cattolica accetta gli aspetti, appunto, più tradizionali e tradizionalisti.
Le “radici cristiane” rivendicate dalla Lega coincidono, in effetti, con la “religione del senso comune”.
Diverso – e meno prevedibile – è invece il contrasto diretto con il premier e il PdL.
Innescato dalla velenosa inchiesta dedicata dal “Giornale” al direttore dell'”Avvenire”.
Definito un “lapidatore che non ha le carte in regola per lapidare alcuno”.
In particolare il premier.
Immaginare Dino Boffo – prudente per natura (e incarico) – impegnato a scagliare parole dure come le “pietre” risulta (a noi, almeno) davvero difficile.
Per questo, la reazione del “Giornale” appare sproporzionata rispetto al contenuto e al tono delle critiche apparse su “Avvenire”.
Era difficile, d’altronde, che i vescovi italiani tacessero di fronte al disagio emerso in molti settori del clero e in molti esponenti del mondo cattolico.
Tanto più al tempo di Papa Ratzinger, che ha fatto del contrasto al relativismo etico un marchio e un programma.
Tuttavia, nonostante le smentite di questi giorni, ci riesce altrettanto difficile pensare che Vittorio Feltri abbia lanciato il suo attacco “senza preavviso”.
Senza, cioè, avvertire almeno il premier.
Il che suggerisce una ulteriore spiegazione della singolare (op) posizione assunta dalla Chiesa in questa fase.
Vi sarebbe stata spinta, più che per propria scelta, dallo stesso premier e dalla Lega.
Per diverse ragioni.
(a) Intimidire l’unico soggetto capace, nell’Italia d’oggi, di esercitare un effettivo controllo morale, istituzionale e sociale.
(b) Dividere la Chiesa stessa, al proprio interno; isolando gli ambienti accusati di simpatie per la “sinistra”; e ponendola in contrasto con il suo stesso popolo.
In larga parte vicino alle posizioni della Lega, in tema di sicurezza e immigrazione.
E indulgente verso i comportamenti e gli stili di vita esibiti dal premier.
(c) C’è, infine e al fondo di tutto, la crisi del modello, proposto e imposto da Ruini alla fine della prima Repubblica.
La “Chiesa extraparlamentare” (come la definisce Sandro Magister), che agisce ora come movimento, ora come gruppo di pressione.
A sostegno dei propri riferimenti di valore e di interesse.
Senza partiti cattolici né “di” cattolici.
Oggi sembra suscitare molti dubbi.
E in alcuni settori della Chiesa e del mondo cattolico emerge la nostalgia di un polo alternativo: a una destra amica ma pagana.
E a una sinistra laicista e comunque inaffidabile.
Da ciò l’idea (post-ruiniana) di un soggetto politico che metta insieme Casini, Tabacci, Pezzotta.
Rutelli e Montezemolo.
Magari Letta (Gianni).
D’altra parte, 4 cattolici praticanti su 10 non hanno un partito di riferimento.
Sono patologicamente incerti.
Anche così si spiega la reazione di Berlusconi – e l’azione di Feltri.
Volta a scoraggiare la costruzione di un nuovo partito collaterale alla Chiesa.
Mentre al premier – e alla Lega – piace di più l’idea di una Chiesa collaterale o, comunque, affiancata al PdL.
In grado – non da ultimo – di santificare un modello di vita che – come ha ammesso il premier – santo non è.
Ma, anzi, piuttosto pagano.
(31 agosto 2009) È SINGOLARE vedere la Chiesa all’opposizione.
Soprattutto oggi, che governa il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi, particolarmente attento e disponibile nei confronti delle richieste della Chiesa: sulla bioetica, sulla scuola e sull’educazione, sulla famiglia.
Mentre le incomprensioni con il precedente governo di centrosinistra erano comprensibili.
Eppure mai, nella contrastata (per quanto breve) stagione dei rapporti con il governo Prodi, si era assistito ad attacchi tanto violenti, nei confronti della Chiesa, come quelli lanciati negli ultimi giorni dal centrodestra.
Prima: le reazioni della Lega alle critiche espresse dal mondo cattolico in merito alle politiche sulla sicurezza e sull’immigrazione.
Culminate nella minaccia – apertamente evocata dal quotidiano “La Padania” – di rivedere il Concordato.
Poi l’attacco rivolto dal “Giornale” al direttore di “Avvenire”, Dino Boffo (il quale ha parlato di “killeraggio”).
Accusato di non avere titolo per esprimere giudizi “morali” sugli stili di vita del premier.
Troppi e troppo ravvicinati, troppo violenti, questi interventi per apparire casuali.
Come si spiega l’esplodere di queste tensioni? E, in particolare, cosa ha spinto all’opposizione la Chiesa, fino a ieri interlocutore affidabile del governo?