«Il crocifisso resterà nelle aule»

Il Governo italiano presenterà ricorso contro la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha disposto la rimozione del crocifisso nelle aule scolastiche.
Lo ha deciso il Consiglio dei ministri, riunito oggi a palazzo Chigi, confermando quanto riferito dal giudice Nicola Lettieri, che difende l’Italia davanti alla Corte di Strasburgo.
Lo si apprende da fonti governative secondo le quali a occuparsi della questione sarà il ministro degli Affari Esteri, Franco Frattini.
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2009)  Oggi sono state distribuite quattromila croci francescane ai ragazzi fuori da alcuni licei di Roma.
L’iniziativa è stata voluta da Aldo Di Biagio, responsabile Italiani nel mondo del Pdl, per protestare contro la sentenza della Corte europea per i Diritti dell’uomo sui crocifissi nelle aule delle scuole.
“Distribuire la croce francescana tra i giovani ha rappresentato per me un sincero invito alla riflessione – ha detto – e soprattutto un segnale di apertura al confronto ed al dialogo interreligioso che proprio questo simbolo vuole evidenziare.
Qualcosa di profondamente lontano dall’immagine quasi oppressiva e provinciale che una certa Europa ha voluto definire in questi giorni”.
La singolare protesta si è svolta davanti ad alcuni istituti del centro della Capitale, in particolare al liceo Visconti in piazza del Collegio Romano, dove era presente lo stesso Di Biagio.
“I giovani hanno apprezzato – ha commentato – molti si sono fermati a parlare con me e con i miei collaboratori per capire, chiedere e dare il pieno sostegno all’iniziativa.
Molti di loro dimostrano di comprendere che parte della cultura italiana ed europea trae origine proprio da quel pezzetto di legno, e che questa ricchezza identitaria e culturale si colloca ben oltre le posizioni e le ortodossie confessionali”.
“Questo è lo spirito dell’interrogazione presentata a Frattini e a Ronchi a firma mia e di molti colleghi del Pdl – ha spiegato poi – in cui chiediamo quali provvedimenti intendono predisporre al fine di garantire il mantenimento di un simbolo culturale e valoriale come il crocifisso nell’ambito degli spazi pubblici e quali iniziative intendono valorizzare e sostenere al fine di aprire un confronto con le istituzioni europee finalizzato al chiarimento della posizione italiana a sostegno della piena valorizzazione del simbolo come espressione dell’identità cristiana dell’Italia e dell’Europa intera”.
 “Rappresenta la laicità di Gesù” intervista a Massimo Cacciari a cura di Carlo Brambilla in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Massimo Cacciari è irritato dalle polemiche di questi giorni sui crocifissi nelle scuole.
Fosse per lui non andrebbero tolti da nessuna parte.
Al contrario «andrebbero piuttosto messi dappertutto, se qualcuno sapesse davvero cosa vuol dire il crocifisso…» «…è un segno di straordinaria accoglienza, di straordinaria donazione di sé».” Il crocifisso, il suo potere unisce destra e sinistra di Pippo Delbono in l’Unità del 6 novembre 2009 “Non sarebbe forse meglio, al posto dei crocifissi scrivere sui muri, citando altre parole del Cristo, «Ama il prossimo tuo come te stesso»?” (ndr.: è incredibile che il crocifisso non indichi più, per molti, l’amore del prossimo) Meno bugie più Vangelo di Enzo Mazzi in il manifesto del 6 novembre 2009 “Non risulta per niente vero che è consentito vedere nella croce il simbolo della prevalenza dell’amore sul potere, come sostiene un teologo alla moda come Vito Mancuso (la Repubblica di ieri 4 novembre).
Tutti i movimenti popolari rivoluzionari animati dal Vangelo che hanno visto nella croce il segno della liberazione storica e non solo della redenzione sacrificale trascendente sono stati repressi spesso nel sangue.” “«meno croce e più Vangelo» valeva anche nella scuola di Barbiana da dove don Milani aveva tolto il crocifisso” Il Concordato crocifisso di Massimo Faggioli in Europa del 6 novembre 2009 “A chi vuole argomentare la difesa del crocifisso col Concordato, non si può non richiamare un immortale aforisma di Carl Schmitt, ripubblicato nel 2005 in Un giurista davanti a se stesso: «Nel Vangelo il Cristo muore per la sua pena; oggi stipulerebbe invece un Concordato con i suoi aguzzini».
Ai teologi di corte e (per parafrasare Franz Overbeck) ai «friseur della parrucca teologica» dell’Italia berlusconiana non resta che scegliere tra il Crocifisso e il Concordato.
Il crocifisso? Non lo ricordo di Aldo Maria Valli in Europa del 6 novembre 2009 “Sinceramente non ricordo se nelle aule scolastiche che ho frequentato, tutte di scuole statali, ci fosse o meno il crocifisso.,,,” Quei cattolici in fila alle primarie di Angelo Bertani in Europa del 6 novembre 2009 “chi sono i cattolici e che cosa sta loro a cuore? (…) Quelli che difendono il crocifisso come simbolo della tradizione occidentale contro gli invasori islamici, o quelli che lo considerano l’esempio di Colui che ha dato la vita per gli altri? Anche per il Pd si pone una domanda: di quali cattolici cercare il consenso? I cattolici credenti e coerenti sono molto più numerosi di quanto si creda, anche se più umili e meno chiassosi….” Crocefisso, non tutto è diritto di Raniero La Valle in Liberazione del 5 novembre 2009 “La sentenza è ineccepibile: una volta investita del caso, la Corte non poteva che decidere così…
Ma mi dispiace che…
ci sia una gara per dire che il crocefisso andrebbe mantenuto perché avrebbe cessato di essere un simbolo religioso, e sarebbe invece “un simbolo della storia e della cultura italiane”, “dell’identità italiana”…
Questa posizione è infatti atea, ma è devota, e tende a lucrare i benefici della religione come religione civile.
E io dico la verità: se il Crocefisso diventasse la bandiera di un’identità, di un nazionalismo, di un razzismo, di una lotta religiosa…
e cessasse di essere la memoria di un Dio che si è fatto uomo…
e che “avendo amato i suoi fino alla fine” ha accettato dai suoi carnefici la sorte delle vittime, e continua a salire su tutti i patiboli innalzati dal potere, dal danaro e dalla guerra, allora io non vorrei più vedere un crocefisso in vita mia.” Il patto del crocifisso Il Vaticano «apprezza» il governo italiano di Fulvio Fania in Liberazione del 5 novembre 2009 “la gerarchia preferisce mettere in secondo piano il carattere religioso di quel simbolo, anteponendone il “valore culturale” o di identità italiana ed europea.
Un’operazione che viene duramente contestata dalle altre comunità cristiane…
«Grande spazio all’inquietudine dei cattolici – denunciano gli evangelici – nessuna attenzione invece al plauso dei protestanti» per una sentenza che è giudicata positivamente dalla moderatora valdese Maria Bonafede, dalla presidente dell’Unione battista Anna Maffei e dall’Alleanza evangelica italiana.” No, laicità non significa togliere il crocefisso, simbolo d’amore di Aurelio Mancuso in gli Altri del 5 novembre 2009 “So che mi attirerò le ire di tante e di tanti, ma trovo la polemica sul crocefisso inutile, sopra le righe e soprattutto ipocrita…
Mi permetto di rilevare che la sottrazione di quel simbolo non sarebbe oggi una vittoria della libertà sulle visioni autoritarie, ma sarebbe interpretato dai più come un protervo gesto di violenza culturale…
Strappare il crocefisso da quei muri…
significa offendere non Dio, ma l’amore che milioni di italiani hanno nei confronti di questo simbolo di genuina pietas.” Crocifisso, “Noi Siamo Chiesa”: La fede si vive nelle coscienze di Vittorio Bellavite in www.noisiamochiesa.org del 5 novembre 2009 “Non ci si rassegna al superamento di una cultura della cristianità.
L’ostilità alla sentenza della Corte di Strasburgo è la conseguenza di questo atteggiamento generale…
Il crocefisso è un simbolo religioso…
Come simbolo (improprio) dell’identità e della cultura nazionale esso viene usato strumentalmente da tutta la destra miscredente (quella degli atei devoti e di quelli che adorano il Dio Po) e da quella cristiana fondamentalista.
Il Vaticano e la CEI non riescono ad avere una posizione più equilibrata…
anzi, contribuiscono ad alimentare rivendicazioni e acide polemiche.” Le Comunità Cristiane di base: Meno croce e più Vangelo di Comunità Cristiane di base in MicroMega-online del 4 novembre 2009 “Sappiamo di essere controcorrente perché la maturazione della società, della realtà religiosa e della politica sul tema della laicità è un percorso lungo e conflittuale.
Ma non siamo affatto soli.
“Meno croce e più Vangelo” valeva nella scuola di Barbiana da dove don Milani aveva tolto il crocifisso.
Meno croce e più Vangelo valeva per un cattolico come Mario Gozzini, il senatore della legge sulla umanizzazione del carcere” La scuola del crocefisso di Lidia Ravera in l’Unità del 5 novembre 2009 “Insomma, sgombriamo il cuore e la mente dal cumulo di gravi problemi che ci attanagliano e discutiamo, alla radio, in tivù, su tutti i giornali del tema più urgente, scottante, ammaliante: bisogna staccare il crocefisso dal muro dietro la cattedra oppure no? …
Stacchiamolo e facciamola finita.
Abbiamo ben altro per la testa!” Il crocifisso, i giudici e Natalia Ginzburg di Giuseppe Fiorentino e Francesco M.
Valiante in L’Osservatore Romano del 5 novembre 2009 “la sentenza della Corte di Strasburgo, con l’intento di voler tutelare i diritti dell’uomo, finisce per mettere in discussione le radici sulle quali quegli stessi diritti si fondano, disconoscendo l’importanza del ruolo della religione – e in particolare del cristianesimo – nella costruzione dell’identità europea e nell’affermazione della centralità dell’uomo nella società.” Crocifisso braccio di ferro inutile di Gian Enrico Rusconi in La Stampa del 5 novembre 2009 “Questo conflitto investe in profondità convinzioni ed emozioni…
Va respinta con energia l’accusa che chi…
vorrebbe rimuovere dallo spazio pubblico scolastico il segno della fede cristiana è una persona intollerante…
Lo stesso vale per l’accusa di rinnegare la tradizione popolare nazionale…
Il fondo della contraddizione è toccato dai leghisti che da una parte contestano e sbeffeggiano l’identità nazionale, e dall’altro difendono il crocifisso nelle scuole come simbolo intoccabile di tale identità…
La vera novità è non eludere il problema, parlarne in modo responsabile e pacato…” Quel richiamo all’amore vale per l’intera umanità di Vito Mancuso in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Dietro la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo vi è la preoccupazione in sé legittima di tutelare la libertà, in particolare la libertà religiosa dei bambini che potrebbe venir minacciata dalla presenza di un crocifisso nelle aule scolastiche.
In realtà vi sono precisi motivi che rivelano l’infondatezza di tale preoccupazione, e mostrano al contrario che dal crocifisso scaturisce uno sprone all’esercizio della libertà in modo giusto e coraggioso.” “Rappresenta la laicità di Gesù” intervista a Massimo Cacciari a cura di Carlo Brambilla in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Massimo Cacciari è irritato dalle polemiche di questi giorni sui crocifissi nelle scuole.
Fosse per lui non andrebbero tolti da nessuna parte.
Al contrario «andrebbero piuttosto messi dappertutto, se qualcuno sapesse davvero cosa vuol dire il crocifisso…» «…è un segno di straordinaria accoglienza, di straordinaria donazione di sé».” Bertone: l’Europa lascia solo le zucche di Halloween di Orazio La Rocca in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Sulla sentenza della Corte di Strasburgo, che condanna l’Italia a togliere i crocifissi dalle scuole pubbliche, spira aria di rivolta anti europea.” La carica dei sindaci-crociati “E noi li distribuiamo in piazza” di Paolo Griseri in la Repubblica del 5 novembre 2009 “L’epicentro dello scontro è Abano Terme, dove risiede la famiglia italo-finlandese che con la sua protesta ha causato il pronunciamento di Strasburgo…
il sindaco leghista del vicino paese di Cittadella: «Suggerisco al sindaco di Abano di revocare la residenza alla famiglia italo finlandese…».
In tutto questo frastuono di minacce e spacconate a difesa dei simboli, stona l’invito di don Antonio, parroco di Abano che indica nello stile di vita e nell’esempio il fondamento del cristianesimo e sintetizza: «Protesta chi il Crocifisso non lo ha dentro».
Ma nell’Italia che sembra la Vandea, la sua è una voce che grida nel deserto.” In croce di Agostino Paravicini Bagliani in la Repubblica del 5 novembre 2009 “La croce è un simbolo conosciuto da molte civiltà, dalla Cina all’Egitto, dall’Asia all’Africa.
Perché è un simbolo dell’asse del mondo…
Se nell’arte cristiana la rappresentazione della croce occupa un posto preminente, la sua storia non fu affatto lineare…
fu a lungo simbolo di potenza e di gloria e come tale accompagnò l’affermazione storica del Cristianesimo a Roma…
diventerà anche l’elemento centrale della rappresentazione iconografica dell’opposizione…
tra la chiesa cristiana e il giudaismo…
servì anche ad accompagnare la riconquista della Spagna araba, le crociate e ben altre lotte anche di natura politica…
Il segno della croce fu però anche usato per superstizione…” «Non è una sentenza coercitiva, non c’è nessuna possibilità di coercizione che ci impedisca di tenere i crocefissi nelle aule».
In una conferenza stampa a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi torna a parlare della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sui crocifissi nelle aule scolastiche.
Il premier ha ribadito tutte le sue perplessità nei confronti di questa decisione spiegando che qualunque sia l’esito del ricorso presentato dal governo italiano «non ci sarà capacità coercitiva».
DECISIONE NON RISPETTOSA DELLA REALTA’ – Berlusconi ha poi aggiunto che la decisione della Corte dei diritti dell’uomo «Non è rispettosa della realtà: l’Europa tutta e in particolare l’Italia non può non dirsi cristiana.
Quando sono stato presidente del Consiglio Europeo – ha ricordato ancora il premier -condussi una battaglia per introdurre nella Costituzione le radici giudaico-cristiane, ma Paesi laici e laicisti come la Francia di Chirac si opposero e siccome serviva l’unanimità non riuscimmo a introdurle».
Comunque, «Se c’è una cosa su cui anche un ateo può convenire è che questa è la nostra storia.
Ci sono 8 paesi d’Europa che hanno la croce nella loro bandiera…
Cosa dovrebbero fare cambiare la loro bandiera?».
CEI – La conferenza episcopale italiana ha espresso apprezzamento per le parole del premier, che ritiene «non vincolante» la decisione della Corte di Strasburgo sul crocifisso.
«Non posso che confermare quanto finora detto dalla stragande maggioranza degli italiani, governo compreso – dice monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Amelia-Terni e responsabile della Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso -.
C’è un tale consenso contro la sentenza di Strasburgo che mostra quanto essa tenga poco conto della realtà di un Paese».
06 novembre 2009

Insegnare religione islamica a scuola

Frattini: serve un concordato con l’islam Prima l’intesa tra Stato e Islam, poi l’ora di Corano nelle scuole».
A una settimana dalla proposta con cui la fondazione «FareFuturo» ha spaccato tra «pro» e «contro» il mondo politico e la Chiesa, il ministro degli Esteri, Franco Frattini fissa le condizioni per arrivare alle lezioni di religione musulmana negli istituti pubblici.
Qual è la sua proposta per l’ora d’Islam? «L’integrazione degli immigrati richiede solidarietà e legalità, senza prescindere dalla nostra identità e storia.
Servono regole e principi per diventare un buon italiano, prima che un buon musulmano.
E’ fondamentale che si costituisca un Islam italiano prima di portare il Corano nell’istruzione pubblica, altrimenti l’ora d’Islam diventa davvero una corsia privilegiata, una scorciatoia come dice Bagnasco.
E’ funzione della scuola dare un inquadramento ai figli di immigrati nati in Italia, fare di loro buoni cittadini nel corso degli studi.
A questo punto i ragazzi hanno diritto ad approfondire le radici musulmane della loro famiglia.
Quindi è la formazione scolastica nel suo insieme ad essere un antidoto alla radicalizzazione dell’Islam.
Ma prima di dire sì al Corano in classe serve capire chi lo insegnerà».
Prevede un albo dei docenti di Corano? «Con la Chiesa l’ordinamento lo prevede già.
In base al concordato il sacerdote che insegna religione a scuola deve essere autorizzato dall’autorità ecclesiastica.
Solo così siamo garantiti che vengono rispettate le regole, cioè che agli studenti arrivino messaggi accettati dall’accordo con la Chiesa.
Per introdurre l’ora di religione islamica, abbiamo bisogno della stessa garanzia dall’Islam, perciò prima serve un accordo con la confessione islamica analogo a quello che lo Stato ha con il Vaticano.
Senza ciò non possiamo distinguere tra i predicatori di una dottrina ortodossa rigida e i fautori di un Islam dialogante, favorevole all’integrazione, all’uguaglianza di diritti e alla moderazione.
Perciò partiamo dall’educazione italiana per arrivare a quella musulmana».
In una cornice giuridica certa, l’ora d’Islam può servire all’integrazione? «In Italia la Costituzione assicura libertà di religione.
Il punto qui è la cittadinanza, Se un figlio di extracomunitari nato in Italia è maturo per essere un buon cittadino italiano, non gli si può precludere di voler approfondire la propria fede islamica.
L’educazione alla cittadinanza italiana precede quella alla religione musulmana.
L’ora d’Islam proposta da Fini, Urso e altri va accolta come un’accelerazione all’intesa con l’Islam che è ferma da vent’anni.
A Palazzo Chigi ci sta provando la commissione per i culti acattolici.
Per essere riconosciuti in Italia come portatori di un messaggio che può essere insegnato i musulmani devono sottostare ai principi generali del nostro ordinamento che, per esempio, vieta la dottrina wahaabita sulla sottomissione della donna e la possibilità per l’uomo di avere quattro mogli.
Ma le organizzazioni islamiche presenti in Italia non si riconoscono a vicenda la legittimazione a rappresentare il senso giusto, corretto della religione musulmana».
Perché con la Chiesa c’è un’intesa e con l’Islam no? «I cattolici hanno un Papa e una gerarchia che stabilisce l’esatta interpretazione della dottrina, nell’Islam ogni predicatore può stabilire quale sia l’autentico modo di applicare il Corano senza che nessuno abbia la forza gerarchica per smentirlo.
Oggi lo Stato non ha il potere di attribuire una legittimazione esclusiva per differenziare gli estremisti della moschea di viale Jenner a Milano dal riformismo europeo e tollerante dell’imam di Roma.
Non è solo un ostacolo burocratico e istituzionale ma politico.
A causa della struttura della predicazione islamica manca ancora l’intesa con lo Stato.
Quando ci sarà, sarà fissata la linea».
E nel frattempo? «Il modello da seguire è il Concordato firmato da Craxi con la Santa Sede un quarto di secolo fa.
Formare un buon musulmano è una questione religiosa, noi vogliamo arrivare alla cittadinanza.
Il governo è contrario a visioni esagerate che negano questa possibilità.
Un buon italiano può essere cristiano, ebreo o musulmano, però deve condividere i valori e i principi dell’ordinamento nazionale.
L’istruzione è la chiave per centrare questo obiettivo.
Chi nasce in Italia da genitori marocchini o filippini diventa italiano attraverso il percorso di educazione negli istituti italiani, studiando la lingua, l’educazione civica».
intervista a Franco Frattini, a cura di Giacomo Galeazzi in “La Stampa” del 26 ottobre 2009  Ad una settimana dalla proposta dell’ora di religione islamica fatta dal viceministro di An Adolfo Urso e appoggiata dal presidente della Camera Gianfranco Fini, il ministro degli Esteri Franco Frattini, in un’intervista a ”La Stampa”, rilancia, spiegando così la propria proposta: in base al concordato con la Chiesa, spiega, il sacerdote che insegna religione ”deve essere autorizzato dall’autorità ecclesiastica.
Solo così siamo garantiti che si rispettino le regole”.
Per introdurre l’ora di religione islamica, il titolare degli esteri dichiara che occorre la “garanzia dall’Islam” e “perciò prima serve un accordo con la confessione islamica analogo a quello che lo stato ha con il Vaticano”.
La proposta di Fini e Urso, per Frattini, va dunque accolta come ”un’accelerazione all’intesa con l’Islam che è ferma da vent’anni.
A palazzo Chigi ci sta provando la commissione per i culti acattolici”.
Ma non è semplice: ”Per essere riconosciuti in Italia come portatori di un messaggio che può essere insegnato – spiega il ministro – i musulmani devono sottostare ai principi generali del nostro ordinamento” che vieta, per esempio, la sottomissione della donna e la possibilità per l’uomo di avere quattro mogli.
Ma le organizzazioni islamiche in Italia ”non si riconoscono a vicenda la legittimazione a rappresentare il senso giusto” e nell’Islam ”ogni predicatore può’stabilire quale sia l’autentico modo di applicare il corano”, a differenza dei cattolici che ”hanno un papa e una gerarchia che stabilisce l’esatta interpretazione della dottrina”.
Il modello più adatto, per Frattini, sarebbe ”il concordato firmato da Craxi con la santa sede un quarto di secolo fa”, ma “a causa della struttura della predicazione islamica, manca ancora l’intesa con lo stato”.
Andrebbe inoltre osservato, a giudizio di Tuttoscuola, che i costi di un’operazione di questo genere sarebbero assai elevati, così come le difficoltà organizzative: gli studenti di religione musulmana nelle nostre scuole sono relativamente pochi (il 2,5%), ma se tutti chiedessero di avvalersi dell’ora di religione islamica…
 L’Ucoii, Unione delle Comunità islamiche in Italia, concorda con la proposta del ministro Frattini di pervenire ad una intesa tra Stato italiano ed Islam per poi considerare l’ora di religione coranica  nelle scuole italiane.
Il portavoce dell’Unione delle Comunità islamiche in Italia, Ezzedin Elzir, ha dichiarato che l’Ucoii è pronta a stipulare anche da sola un’intesa con lo Stato italiano.
“Credo che l’intesa si debba fare – osserva Elzir – con la parte della comunità che la chiede.
Noi cerchiamo con tutta le forze di avere una rappresentanza unica, ma se ciò non avviene non possiamo lasciare la nostra comunità ad aspettare”.
Il portavoce dell’Ucoii si è detto d’accordo con il ministro Frattini anche sulla necessità che la scuola insegni in primo luogo ad essere dei buoni cittadini italiani, e che vi sia un albo di insegnanti concordato con lo Stato.
Quanto alla distinzione fatta dal ministro, tra “gli estremisti della moschea di viale Jenner a Milano” e “il riformismo europeo e tollerante dell’imam di Roma” il portavoce dell’Ucooi, che è anche imam a Firenze, ha precisato che, da parte sua,  il compito è “portare un messaggio e non giudicare”.
 Per il mondo musulmano l’appartenenza religiosa viene prima dell’appartenenza nazionale.
Naturalmente, bisogna dire che vi sono più modi di praticare l’islam, si può essere più liberali e tolleranti  come può succedere in Italia.
Ma costoro sono al corrente della diversità delle norme e delle usanze del nostro  Paese, rispetto a quelle islamiche? Non credo proprio.
Difatti, non è stato ancora stilata alcuna Intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche circa il rispetto delle nostre leggi e della nostra Costituzione.
Un esempio: quante coppie musulmane si sono sposate civilmente e- di conseguenza- si impegnano a rispettare il dettato costituzionale? Benché costituiscano il secondo gruppo religioso in Italia per numero, le comunità islamiche non dispongono ancora di un accordo giuridico con lo Stato.
In assenza di tale accordo, l’esercizio dei loro diritti religiosi é di fatto limitato.
La creazione di nuove moschee e istituzioni scolastiche e l’osservanza di feste religiose e altri riti si scontrano con notevoli difficoltà.
Inoltre, la stragrande maggioranza dei musulmani che vive in Italia non ha la cittadinanza e, quindi, non partecipa alla vita politica del paese.
Così i rapporti con l’Islam da un punto di vista giuridico è operazione non agevole, data la diversità dei sistemi giuridici, tra di loro difficilmente comparabili, e perché il mondo arabo prescinde da qualsiasi riferimento al diritto romano o ai diritti confessionali come quello canonico.
Inoltre, l’Italia da sempre persegue la strada dell’interculturalità, che prevede la contaminazione delle diverse culture, tenendo come punto fermo la Costituzione.
Il  fatto che il nostro stato ha subìto negli ultimi anni un possente flusso migratorio proveniente da paesi a prevalenza islamica, tanto che la comunità musulmana è diventata la seconda comunità religiosa, dopo quella cattolica, presente nel nostro Paese, induce alcuni politici a proporre un’ ora di religione islamica a scuola di ogni ordine e grado.
Ma secondo  chi?.
La maggioranza di questa comunità si riconosce in tre associazioni islamiche: l’Associazione Musulmani Italiani (A.M.I.), la Comunità Religiosa Islamica (CO.RE.IS.) e l’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche Italiane (U.C.O.I.I.).
Ciascuna di queste ha, separatamente, presentato al Governo italiano una propria bozza d’intesa, allo scopo di ottenere il riconoscimento dell’esistenza della comunità islamica nel nostro Paese e quindi di regolare alcuni aspetti della vita che sono strettamente collegati alla religione.
Le richieste delle tre Associazioni, si concentrano particolarmente sul tema della famiglia, del lavoro e dell’istruzione.
Da tenere ben presente che i musulmani provengono da una moltitudine di paesi diversi, e quindi ciascun gruppo nazionale riproduce le divisioni esistenti in patria intersecandole con quelle degli altri gruppi.
Il panorama risulta quindi molto variegato, e nessuna istituzione islamica o federazione associativa può presentarsi per ora come rappresentante dei musulmani all’interno di uno stato, perché non è in grado di raccogliere i consensi di tutti i gruppi, e in mancanza di questo la sua rappresentatività è sempre contestabile da altri.
L’immigrazione in Italia è infatti ancora troppo recente, e la maggior parte degli immigrati è alle prese con problemi più concreti di natura economica e familiare.
D’altra parte la maggior parte dei musulmani non conosce il contesto italiano, quale rapporto intende stabilire con esso, le modalità con cui sintetizzare la propria appartenenza all’islam con l’adesione ai valori fondamentali della società italiana.
La stessa scarsa frequenza alle moschee dimostra che gli stessi organismi islamici esistenti non rappresentano la maggioranza della popolazione.
La distanza che si manifesta tra gli enti dell’associazionismo islamico e la maggioranza della popolazione musulmana residente in Italia, è un dato di fatto da considerare, nella prospettiva d’iniziative sul piano politico.
Probabilmente la via migliore da seguire non è quella di legittimare istituzionalmente organismi la cui rappresentatività reale è dubbia – magari stipulando un’intesa prematura tra lo Stato italiano e una “confessione musulmana” rappresentata da enti scarsamente rappresentativi – , ma lasciare spazio e tempo al confronto e al dibattito all’interno delle varie correnti e organismi musulmani e nel più vasto ambito della popolazione musulmana di origine immigrata, perché possa emergere gradualmente una rappresentanza reale, che esprima realisticamente le esigenze dei musulmani nel contesto italiano.
Prima di giungere a un’Intesa, di per sé difficilmente modificabile una volta stipulata, sembra indispensabile un maggiore radicamento dei musulmani in Italia, tenendo conto che il diritto comune italiano garantisce già, indipendentemente da qualsiasi Intesa, la libertà di religione, di espressione, di associazione per i musulmani come per gli altri residenti e cittadini.
Precorrere i tempi significherebbe non consentire che emergano tutti gli interlocutori musulmani con i loro tratti specifici e che neppure vengano espresse in modo compiuto le esigenze religiose sentite dalla base.
D’altra parte sarebbe come minimo imprudente non valutare i rischi di interlocutori legittimi per lo stato italiano che potrebbero favorire un’evoluzione dell’islam italiano in senso conflittuale rispetto ai valori fondamentali della società e della cultura italiana ed europea.
I nostri politici in cerca di sensazionalismo, si informassero meglio su che cosa è “islam” e si occupassero più seriamente dei veri problemi della scuola.
Di: Maria de falco Marotta

Chiesa for Africa

“Africa, alzati e cammina!”.
L’esortazione lanciata dal messaggio finale del sinodo dei vescovi africani è eloquente: il continente deve trovare in sé le risorse per cambiare.
Il documento, che fa la sintesi dei lavori svolti in Vaticano dal 4 al 25 ottobre 2009, contiene numerosi appelli.
Ai cattolici impegnati nella vita pubblica i vescovi dicono che l’Africa ha bisogno di politici santi, in grado di combattere la corruzione e di lavorare per il bene comune.
Coloro che non hanno questo orientamento si convertano o abbandonino la scena pubblica, per non danneggiare la popolazione e la credibilità della Chiesa cattolica.
Alla comunità internazionale viene chiesto di trattare l’Africa con rispetto.
Occorre cambiare le regole del gioco economico, mettere fine al dramma del debito estero, fermare lo sfruttamento delle multinazionali che distruggono le risorse naturali africane, e non nascondere dietro agli aiuti intenzioni per niente nobili.
Ai maschi cattolici è chiesto di essere uomini veri, mariti e padri responsabili, capaci di difendere la vita fin dal concepimento e di educare i figli.
“La povertà – si legge – spesso rende i genitori incapaci di prendersi buona cura dei propri figli, con conseguenze disastrose”.
Ma le parole più accorate sono per le donne cattoliche, definite “la spina dorsale della nostra Chiesa locale”.
A loro i vescovi africani si rivolgono come alla risorsa più preziosa della società.
Il loro contributo “dovrebbe essere riconosciuto e promosso, non solo in casa come moglie e madri, ma più generalmente anche nella sfera sociale”, il che vale per la Chiesa stessa, chiamata a creare “strutture concrete per assicurare la reale partecipazione delle donne a livelli appropriati”.
Alle donne la Chiesa chiede di prendere parte ai progetti di sviluppo delle Nazioni Unite, tenendo ben desto però il senso critico: “Munite di una buona informazione e della dottrina sociale della Chiesa, dovreste fare in modo che le buone idee non vengano distorte dagli spacciatori di ideologie straniere moralmente velenose che riguardano il genere e la sessualità umana”.
Ricordando poi che in molti paesi africani più del sessanta per cento della popolazione ha meno di venticinque anni, i vescovi si rivolgono alle nuove generazioni chiedendo loro di essere “strumenti di pace” all’avanguardia nel cambiare la società.
“Voi giovani adulti – si legge – siete spesso trascurati, lasciati alla deriva come bersagli per ideologie e sette di ogni tipo.
Voi siete reclutati per pratiche violente.
Esortiamo tutte le Chiese locali a considerare l’apostolato verso i giovani come un’alta priorità”.
Circa il problema aids il sinodo ribadisce che la Chiesa non ritiene possibile una soluzione attraverso la distribuzione di profilattici.
Più importante è riconoscere “il successo già ottenuto dai programmi che consigliano l’astinenza tra i non sposati e la fedeltà tra gli sposati”.
I giovani non permettano a nessuno di dire che non è possibile autocontrollarsi.
Di fronte alla situazione politica del continente, se da un lato i vescovi si congratulano con i paesi che sono riusciti a introdurre la democrazia, dall’altro esprimono desolazione per le numerose situazioni di conflitto, sempre mescolate alla corruzione e alla bramosia di potere.
Anche in questo caso la denuncia è netta: qualunque sia l’incidenza degli interessi stranieri, dietro queste situazioni c’è sempre “la vergognosa e tragica collusione dei leader locali, politici che tradiscono e svendono le loro nazioni, uomini d’affari corrotti che sono in collusione con multinazionali rapaci, commercianti e trafficanti di armi, agenti locali di organizzazioni internazionali pagati per diffondere ideologie letali alle quali essi stessi non credono”.
“Che ne è – si chiedono i vescovi – del nostro tradizionale senso di vergogna?”.
E’ tempo di cambiare.
Infine la denuncia del fanatismo religioso, che si sta diffondendo ed è causa di rovina in molte parti dell’Africa.
“Dalla cultura religiosa tradizionale gli africani hanno assorbito un profondo senso di Dio creatore”, portandolo anche nella loro conversione al cristianesimo e all’islam.
Ma troppo spesso questo fervore religioso “è male indirizzato dai fanatici o manipolato dai politici”.
Ecco perché occorre tornare a una fede genuina, ben sapendo che nel rapporto tra le religioni dialogo e collaborazione sono possibili solo se c’è rispetto reciproco.
Ai paesi islamici i vescovi ricordano che “la libertà di religione comprende anche la libertà di condividere la propria fede, di proporla, di accettare e accogliere coloro che si convertono”.
Le nazioni che per legge impediscono tale libertà privano i loro cittadini di un diritto umano fondamentale.
“Poiché i cristiani che decidono di cambiare la loro religione sono ben accolti tra le fila musulmane, ci deve essere reciprocità in questo campo.
Nel nuovo mondo che sta nascendo abbiamo bisogno di dare spazio a ogni fede perché contribuisca pienamente al bene dell’umanità”.
in “Europa” del 24 ottobre 2009

«Ora di religione islamica»

Si parla molto di Islam ad Asolo e non potrebbe essere diver­samente, visto che qui si svol­ge il workshop «Le nuove po­litiche per l’immigrazione», seconda edizione dei «Dialo­ghi asolani», laboratorio di confronto bipartisan animato dalle Fondazioni FareFuturo e ItalianiEuropei e dai rispetti­vi politici di riferimento, Gianfranco Fini e Massimo D’Alema.«Eccoci qui ad Asolo, nel covo di congiurati», scherza Lucia Annunziata, riferendo­si ai timori di un patto tra­sversale che scardini l’attuale maggioranza e rivolgendosi all’intervistato Beppe Pisanu.
«Domani ne arrivano altri due», risponde a tono l’ex mi­nistro.
Che naturalmente ne­ga complotti: «Se il dialogo non viene praticato neanche nel buio di questa crisi, c’è davvero da temere per l’avve­nire del Paese».
PER ATTIRARE NELLE SCUOLE I RAGAZZI MUSULMANI E il dialogo parte, con il segretario gene­rale di FareFuturo Urso: «Po­trebbe essere utile, per attira­re nei nostri istituti i ragazzi musulmani, prevedere un’ora di storia della religio­ne islamica».
E gli insegnan­ti? Saranno imam? «Dovreb­bero essere docenti ricono­sciuti, italiani che parlano in italiano.
Al limite anche imam, a patto che abbiano i requisiti e che siano registrati in un apposito albo.
Stiamo parlando di insegnanti reclu­tati con criteri pubblici».
Nel documento di ItalianiEuro­pei, a cura di Marcella Lucidi, sul tema ci si tiene più sul va­go, auspicando «una riflessio­ne non occasionale» e chie­dendo un insegnamento che «promuova la conoscenza del­la cultura e della religione di appartenenza dei ragazzi e delle loro famiglie».
Urso ri­lancia anche l’idea di «classi miste temperate» e dice no al velo negli uffici pubblici.
NORME SULL’IMMIGRAZIONE  Ma è soprattutto sulle nor­me per l’immigrazione che si colgono grandi punti di con­vergenza.
A leggere il paper di FareFuturo, a cura di Valen­tina Cardinali, si coglie subi­to un dissenso netto dalle po­sizione leghiste: «No a scon­tri di civiltà e no alla strumen­talizzazione delle paure».
Ma si nota anche una divergenza con Silvio Berlusconi, che ha dichiarato di essere contrario a un Paese «multietnico»: «L’Italia già da alcuni decenni è senza dubbio un paese mul­tietnico » spiega il dossier.
Fa­reFuturo cita il progetto di legge bipartisan Granata-Sa­rubbi e lancia alcune propo­ste: cittadinanza dopo cinque anni, in cambio di esame di lingua e test di cultura, dirit­to di voto amministrativo, status giuridico a 10 anni per i figli di immigrati nati in Ita­lia, meno discrezionalità del­l’atto di concessione.
Non che FareFuturo rinneghi le politiche di contrasto del go­verno, a partire dal reato di clandestinità e dai respingi­menti: «Ma sono solo una fac­cia della medaglia – spiega Ur­so – .
Servono anche integra­zione e cittadinanza e dobbia­mo allargare le maglie sui flussi».Il dossier di ItalianiEuropei concorda in alcuni punti (cit­tadinanza, diritto di voto), in altri va oltre (cittadinanza su­bito ai figli degli stranieri na­ti in Italia) e lancia il concetto di «cittadinanza sociale», chiedendo di svincolare il per­messo di soggiorno dalla du­rata del contratto di lavoro.
Non è escluso che oggi, pre­senti D’Alema e Fini, si ponga­no le basi per arrivare a un do­cumento congiunto.
Alessandro Trocino 17 ottobre 2009 L’ora di religione? Cattolica, ma an­che islamica.
L’idea è del vice­ministro Adolfo Urso, che propone l’introduzione nelle scuole pubbliche e private di una nuova materia, facoltati­va e alternativa a quella catto­lica, per evitare di lasciare i piccoli musulmani «nei ghet­ti delle madrasse e delle scuo­le islamiche integraliste».
E anche il Vaticano è favorevole «Giusto consentire ai bimbi di un’altra religione di avere questa opzione»  Massimo D’Alema commenta positivamente la proposta del vice ministro Adolfo Urso, per programmare nelle scuole l’insegnamento della religione islamica in alternativa alla religione cristiana, almeno per gli alunni di fede islamica.
«Mi sembra una idea condivisibile – ha detto D’Alema ad Asolo – non capisco perché non si debba consentire a bimbi di religione islamica, come opzione alternativa, l’insegnamento della loro religione».
APERTURA ANCHE DEL VATICANO  Anche il Vaticano ha aperto all’ipotesi di una ora di religione musulmana a scuola e, per bocca del cardinale Renato Raffaele Martino, sottolinea che, assicurando i debiti “controlli”, si tratterebbe, oltre che di un “diritto”, di un meccanismo che permetterebbe di evitare che i giovani di religione islamica finiscano nel “radicalismo”.
«Se si ammettono gli immigrati, essi vengono con la loro cultura e la loro religione e devono inculturarsi nel paese dove arrivano», spiega il presidente del Pontificio consiglio Giustizia e pace.
«A meno che non scelgano di convertirsi al cristianesimo – perché la libertà di religione è un principio sancito da Dichiarazione dei diritti dell’uomo – se scelgono di conservare la loro religione hanno diritto ad istruirsi nella loro religione», ha affermato il cardinal Martino.
LA LEGA RIBADISCE IL SUO NO  «Con la Lega Nord in questa maggioranza non potrà realizzarsi in nessun modo la proposta di Urso per l’introduzione dell’ora di religione islamica.
Non lo permetteremo mai: noi le nostre radici cristiane le difenderemo fino in fondo».
Resta questa la linea della Lega, ribadita di nuovo da Federico Bricolo, presidente della Lega Nord al Senato, che aggiunge: «Urso, uno dei leader di An, ha voluto il posto come viceministro allo Sviluppo economico e quindi pensi a lavorare nel suo ministero, che di cose da fare a sostegno dei nostri imprenditori e lavoratori ce ne sono tante e la smetta di proporre le stesse cose di D’Alema e della sinistra».
IL CARDINAL TONINI: «TROPPO PRESSAPOCHISMO»  La proposta di introdurre un’ora di religione islamica nelle scuole italiane, pure nelle sue «buone intenzioni», non trova invece d’accordo il cardinale Ersilio Tonini che afferma: «capisco le intenzioni ma dietro queste proposte c’è pressapochismo.
Ci vuole massima prudenza nell’approccio con l’Islam».
Secondo il porporato, «si tratta di un’idea impraticabile, non attualizzabile nel nostro momento storico».
Il cardinale precisa il suo disappunto: «pensare che l’Islam sia un gruppo completo, esaustivo, è un errore.
L’Islam ha mille espressioni, collegamenti, imparentamenti.
Insomma, con i valori della nostra civiltà non ha nulla a che vedere».
17 ottobre 2009

Fao: «Più di un miliardo gli affamati nel mondo»

Rischio paesi ricchi.
Anzi: persino nei Paesi ricchi registriamo un aumento degli affamati del 15,4% rispetto allo scorso anno.
È il principale risultato contenuto nell’edizione 2009 dello Stato dell’insicurezza alimentare nel mondo (Sofi 2009) che lancia oggi alla vigilia della Giornata mondiale dell’alimentazione che si celebra domani.
Che segnala un’amara sorpresa: percentualmente sono i Paesi ricchi ad aver visto il numero delle persone che hanno fame crescere di più, registrando un aumento del 15,4% e raggiungendo la quota assoluta di 15 milioni di affamati.
Il record negativo di insicurezza alimentare lo mantiene la regione Asia-Pacifico con 642 milioni di persone che hanno fame (+10,5%), seguita dall’Africa Subsahariana con 265 milioni (+11,8%), dall’America Latina con 53 milioni (+12,8%) e infine dal Nord ed est Africa con 42 milioni (+13,5%).
100 milioni di persone affamate in più.
«Rispetto allo scorso anno oltre 100 milioni di donne, uomini e bambini in più, un sesto di tutta l’umanità hanno fame nel 2009 – scrivono nell’introduzione il direttore generale della FAO Jacques Diouf e la direttrice esecutiva del PAM Josette Sheeran, che per le Nazioni Unite -.
La crisi dei prezzi delle materie prime alimentari del 2006-2008 ha portato fuori dalla portata del reddito di queste persone tutti gli alimenti di base e nonostante i ribassi alla fine del 2008 erano in media ancora del 17% più alti di due anni prima della crisi.
Questo ha costretto molte famiglie povere a scegliere tra cure sanitarie, scuola e cibo».
L’importanza dell’agricoltura.
Il messaggio lanciato al nuovo Vertice per la sicurezza alimentare vedrà i Capi di Stato e di Governo nuovamente a Roma dal 16 al 18 novembre prossimi è molto chiaro: c’è bisogno di una strategia a due tempi: un intervento d’emergenza, con voucher alimentari, aiuti e reti di sicurezza e welfare immediato, e a medio termine un vero programma di sostegno all’agricoltura contadina.
«Nei tempi di crisi passati si è sempre assistito a una riduzione degli interventi pubblici a sostegno dell’agricoltura.
Ma l’unico strumento efficace per vincere la povertà – avvertono i due responsabili delle Nazioni Unite – è assicurarsi un settore agricolo in piena salute».
Avvenire 14 ottobre 2009 Nel mondo nel 2009 siamo arrivati ad avere 1.02 miliardi di persone affamate.
È la prima volta che accade dal 1970 e, mentre nel Vertice per la sicurezza alimentare di due anni fa i capi di Stato e di Governo avevano confermato l’obiettivo assunto con la Dichiarazione del Millennio di dimezzare il numero di chi ha fame entro il 2015, oggi l’obiettivo è definitivamente archiviato. 

Il paradosso dei cattolici

L’esistenza nella galassia cattolica di “cattolici democratici” è di per sé stessa la dimostrazione di una difficoltà non risolta nel rapporto tra democrazia e cattolicesimo.
Se la difficoltà non ci fosse, l’aggettivo specificativo sarebbe superfluo.
Il fatto che vi siano cattolici che si auto-definiscono democratici significa sì che il cattolicesimo è compatibile con la democrazia, ma anche che la democrazia non è coessenziale al cattolicesimo, perché esso contempla anche l’antidemocrazia.
Se poi consideriamo che i cattolici democratici, per loro stesso riconoscimento, nel loro mondo sono oggi minoranza, la conclusione preoccupante è che, dalla maggioranza, le regole della democrazia, se sono accettate, lo sono non per adesione, ma per sopportazione o per opportunità: se e finché non si prospettino convenienze migliori.
Queste affermazioni possono sembrare temerarie, considerando il contributo cattolico alla lotta di liberazione, all’elaborazione della Costituzione e alla partecipazione alla vita democratica nei decenni che ne sono seguiti.
Ma, per l’appunto, il mondo cattolico è una galassia dove c’è di tutto e quel contributo alla democrazia, che nessuno potrebbe negare o sminuire, si accompagna al permanere di atteggiamenti d’altro genere, riserve mentali e aperte contraddizioni.
Una frattura profonda ha separato, fin dalle origini, la democrazia moderna dal mondo cattolico e questa frattura, evidentemente, non è completamente sanata.
La ricorrente accusa di “relativismo” rispetto ai “valori” è solo una denuncia aggiornata dei “deliramenti” democratici d’un tempo (enciclica Diuturnum illud del 1881).
Nel contesto di questa diffidenza antica si sviluppa la testimonianza che Rosy Bindi, una delle voci più impegnate a difendere l’identità e l’eredità dei cattolici democratici, ha reso in un libro-intervista con Giovanna Casadio (Quel che è di Cesare, Laterza, pagg.
144, € 10).
È una testimonianza di quel che la fede cristiana può portare come contributo all’ethos democratico.
Ma è anche la prova della tensione che deriva non – come talora erroneamente si dice – dall’essere cittadino e credente al tempo stesso (come se la democrazia dovesse essere necessariamente atea o agnostica), ma dall’essere al tempo stesso cittadino e membro della Chiesa cattolica, quando essa – per così dire – si pone (in misura più o meno stringente, si è sempre posta) come organizzazione dell’obbedienza nelle cose temporali.
Non sono le fedi, laiche o religiose, a creare difficoltà.
Esse, in quanto vissute nella libertà e nella responsabilità, non impediscono la democrazia, anzi l’arricchiscono.
È nella duplice appartenenza allo Stato democratico e alla Chiesa come potere disciplinare, la radice della difficoltà.
Due lealtà possono entrare in conflitto; doveri diversi possono contrapporsi.
Il cittadino, per rispettare se stesso, dovrebbe negare il credente; il credente, per non contraddire il suo vincolo confessionale, dovrebbe negare il cittadino.
Non è vero, infatti, che le due appartenenze si completino a vicenda.
Il conflitto è in agguato.
La democrazia presuppone l’apertura al dialogo fecondo, cioè non per finta, in vista di accordi e, ove occorra, di compromessi.
Esige, in una parola, atteggiamenti non dogmatici ma laici.
L’appartenenza alla Chiesa può invece creare situazioni drammatiche di aut-aut: o dentro o fuori, o obbedienza o tradimento e scomunica.
Due logiche che, quando si scontrano radicalmente, creano difficoltà e sofferenze che possono risolversi solo con la capitolazione di una delle due parti.
Anche il famoso caso, citato anche nell’Intervista, di Alcide De Gasperi che resiste al Diktat politico del Papa minacciando le dimissioni da presidente del Consiglio, ne è la riprova.
Fu Pio XII a recedere, cioè a capitolare.
Non fosse stato così, le dimissioni di De Gasperi, dal punto di vista dei suoi doveri civili sarebbero state non una dimostrazione di laicità, ma a sua volta una capitolazione di fronte a una pretesa clericale.
Tra i doveri civili, non c’è infatti quello di lasciare il proprio posto, se la Chiesa si inalbera.
La riflessione di Rosy Bindi tocca molti problemi, di teoria e di pratica politica, e li tocca in modo tale da mostrare le possibilità d’integrazione del cattolicesimo democratico nella vita politica comune, al di là dello steccato confessionale.
E mostra altresì il contributo di umanità, giustizia e solidarietà ch’esso è in grado di dare, un contributo al quale i non cattolici non possono essere indifferenti.
Ma questa riflessione non tace le difficoltà che derivano dalla posizione politica che la Chiesa Cattolica è venuta assumendo negli ultimi anni, con l’allontanamento progressivo dallo spirito del Concilio Vaticano II.
È un regresso, le cui conseguenze sono denunciate a chiare e brucianti lettere, con espliciti riferimenti alla politica della CEI del cardinal Ruini: «Purtroppo, smarrita la memoria storica e rimossi i fondamenti della Costituzione e del Concilio Vaticano II, siamo finiti dentro la contraddizione strumentale che la destra sta facendo della religione.
C’è un ritorno al passato, abbiamo bruciato un secolo di storia».
C’è solo da aggiungere due cose: che “quest’uso blasfemo della fede” non è solo della “destra” e trova spesso la calda riconoscenza della gerarchia ecclesiastica.
Gli ambienti curiali, cattolici e atei, denigrano questo genere di considerazioni come trita lamentazione sul “concilio tradito”.
Non è così.
È invece la puntuale registrazione di una strategia fatta innanzitutto di irrigidimenti disciplinari nei confronti dei fedeli, frequentemente richiamati all’ordine gerarchico perfino in occasioni elettorali, e poi di accordi di potere tra vertici della Chiesa e vertici politici, dove l’obbedienza prestata dai cattolici alla gerarchia diventa strumento di pressione, se non di ricatto, nei confronti dell’autorità civile.
Tutto questo si è visto all’opera con i “non possumus”, i “richiami impegnativi”, l’appoggio o il ritiro dell’appoggio a questa o quella formazione politica, a questo o quel governo, fino a condizionarne l’esistenza o la sopravvivenza.
Una Chiesa così potrà pure richiamarsi, davanti al popolo dei suoi credenti, alla propria funzione di traghettatrice delle loro anime nel mondo che ha da venire; ma, per l’intanto nel mondo che c’è, essa è una struttura di potere (cioè di peccato), che divide gli animi e fa della fede religiosa, usata in quei modi, una ragione di conflitto.
Rosy Bindi cita un insegnamento di Pierre Claverie, il domenicano ucciso nel 1996 in Algeria, a causa del suo impegno alla comprensione tra i popoli, un insegnamento che contiene la chiave per comprendere come una fede religiosa può integrarsi nella democrazia, cioè in una “vita buona” per tutti: «Esiste solo un’umanità plurale e quando pretendiamo di possedere la verità o di parlare in nome della verità, cadiamo nel totalitarismo e nell’esclusione.
Nessuno possiede la verità, ognuno la cerca (…) spigolando nelle altre culture, negli altri tipi di umanità, ciò che anche gli altri hanno compreso, hanno cercato nel loro cammino, verso la verità: Sono credente, credo che c’è un Dio, ma non pretendo di possedere quel Dio.
Non si possiede Dio.
Non si possiede la verità e io ho bisogno della verità degli altri».
Questo è l’atteggiamento di umiltà e, al tempo stesso, di fiducia negli esseri umani e di disponibilità al lavoro comune che costituiva l’anima del Concilio Vaticano II, di cui la Gaudium et spes è l’espressione: la libertà dei credenti in re sociali, accanto agli uomini di buona volontà, la loro responsabilità di fronte a Dio e ai propri fratelli, il divieto di invocare l’autorità della Chiesa a sostegno delle loro posizioni, divieto che, simmetricamente, non poteva non implicare l’astensione della Chiesa stessa da interventi vincolanti la coscienza dei cattolici.
La presenza cattolica nelle società umane era concepita come lievito che opera dall’interno, dipendendo dalla forza persuasiva della testimonianza che può venire dalla vita cristiana, vissuta con coerenza.
C’è un’immagine, nell’enciclica Ecclesiam suam (1964) del papa Paolo VI che esprime bene quest’idea: i centri concentrici in cui si diffonde la testimonianza cristiana, fino a raggiungere l’intera umanità.
Nell’insegnamento del Concilio, quella che, legittimamente, per i credenti è verità si trasforma, nei confronti della società nel suo complesso, in esempio, carità.
È l’unico modo per porsi in posizione amichevole.
Invece, ora assistiamo, nell’insegnamento del papa Benedetto XVI, all’insistenza sempre più marcata sulla verità unita in binomio alla ragione: la verità della Chiesa è unica verità di ragione, e la ragione è universale.
Così, la verità cattolica pretende che non solo i credenti ma anche i non credenti pieghino il ginocchio.
Quest’audace operazione teologica si trasforma in una pretesa universalistica della Chiesa.
I non credenti, per così dire, impenitenti, diventano nemici non solo della verità, ma anche della ragione.
Un innegabile capovolgimento del Concilio.
In questo contesto si spiega l’invito che il papa Benedetto XVI rivolge ai non credenti affinché essi, per quanto privi di fede, si adattino ad agire veluti si Deus daretur, come se Dio (anche per loro) esistesse.
Non sarebbe la fede a esigerlo, ma la ragione.
A questo detto papale Bindi, nelle pagine finali, esprime la sua adesione.
Questo è forse l’unico mio punto di dissenso, tra le tante cose che l’intervista ci dice e che testimoniano dell’appassionata ricerca dell’Autrice circa il modo d’essere, senza contraddizione, cristiana e cittadina, insieme.
Gli inviti al come se sono inaccettabili.
L’agire come se Dio esistesse è una provocazione nei confronti dei non credenti.
Essi dovrebbero contraddire la loro coscienza e seguire non la loro ragione, ma quella proclamata dalla Chiesa come verità.
Il rispetto reciproco non è compatibile con questo genere di inviti.
in “la Repubblica” del 6 ottobre 2009

A Barack Obama il Nobel per la pace

È Barack Obama il premio Nobel per la pace 2009.
La commissione di Oslo ha deciso di assegnare il riconoscimento al presidente degli Stati Uniti, insediatosi alla Casa Bianca da meno di un anno.
La motivazione è legata agli sforzi per il dialogo mostrati dal presidente nel corso dei primi mesi del suo mandato: «per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli».
Hanno pesato a favore della scelta gli appelli di Obama per la riduzione degli arsenali nucleari e il suo impegno per la pace globale MOTIVAZIONE).
Primo afro-americano a rivestire la carica più alta del paese, Obama ha chiesto il disarmo nucleare e sta lavorando dall’inizio del suo mandato per riavviare le trattative di pace in Medio Oriente.
Il riconoscimento di 10 milioni di corone svedesi (1,4 milioni di dollari) sarà consegnato a Oslo il 10 dicembre.
Il portavoce del presidente americano, Robert Gibbs, ha comunicato che Obama devolverà in beneficenza l’intera somma, senza però specificare a quale istituzione il denaro sarà consegnato.
DECISIONE ALL’UNANIMITA’ – La decisione è stata presa all’unanimità, ha detto il presidente della commissione norvegese per il Nobel, Thorbjoern Jagland.
La commissione ha riconosciuto gli sforzi del presidente statunitense per ridurre gli arsenali nucleari e lavorare per la pace nel mondo.
«Obama ha fatto molte cose» ha detto Jagland durante la conferenza stampa a Oslo, «ma è stato riconosciuto soprattutto il valore delle sue dichiarazioni e degli impegni che ha assunto nei confronti della riduzione degli armamenti, della ripresa del negoziati in Medio Oriente e la volontà degli Stati Uniti di lavorare con gli organismi internazionali».
Non deve invece avere pesato il fatto che Obama ha rifiutato nei giorni scorsi di incontrare un altro past-laureate per la pace, il Dalai Lama (che lo vinse nel 1989), leader del governo tibetano in esilio, per evitare di compromettere i rapporti con la Cina in vista della prossima visita ufficiale che il capo della Casa Bianca effettuerà a Pechino.
«SONO ONORATO» – La notizia è arrivata quando negli Usa era notte fonda e Obama è stato svegliato dai suoi collaboratori che gli hanno comunicato le decisioni dell’accademia norvegese del Nobel.
Il presidente si è detto «onorato» della decisione, anche «se non sono sicuro di meritarlo»: ricevo il premio «con umiltà», ha aggiunto, facendo poi sapere che andrà personalmente a Oslo per ritirare il riconoscimento.
Più tardi una breve conferenza del presidente Usa: «Sono sorpreso e profondamente commosso.
Non sono sicuro di meritare di essere al fianco delle persone straordinarie che hanno ispirato me ed il mondo intero.
Accetto questo premio come chiamata all’azione per tutte le nazioni di fronte alle sfide del ventunesimo secolo.
Un premio non per i risultati ma per gli ideali» I PRECEDENTI – Obama non è il primo inquilino (o ex inquilino) della Casa Bianca a ricevere il riconoscimento.
Nel 1906 toccò infatti a Theodor Roosevelt (e l’anno successivo sarebbe stato assegnato al primo e unico italiano a conquistare questo tipo di riconoscimento, il giornalista e scrittore pacifista brianzolo Ernesto Teodoro Moneta) e nel 2002 a Jimmy Carter.
Nel 2007 venne invece assegnato ad Al Gore, vicepresidente ai tempi di Clinton.
Altro esponente di primo piano dell’amministrazione usa insignito del premio è stato all’ex segretario di Stato Henry Kissinger nel 1973, assieme al vietnamita Le Duc Tho (quest’ultimo tuttavia, unico caso fino ad ora nella storia del premio per la pace declinò il riconoscimento per la difficile situazione che viveva allora il suo Paese).
I CASI CONTROVERSI – Attorno alle nomination per il Nobel per la pace, l’unico tra i premi in memoria dello scienziato svedese che viene assegnato a Oslo e non a Stoccolma (un retaggio di quando, ai tempi in cui visse Nobel, la Norvegia era ancora sotto la monarchia svedese), si scatenano spesso dubbi e polemiche.
Basti pensare che in passato tra i candidati a riceverlo ci fu anche Stalin (nominato due volte, nel 1945 e nel 1948, ufficialmente per l’impegno nel far finire la seconda guerra mondiale), che però non lo vinse mai.
E la candidatura l’ha mancata per poco Adolf Hitler: era stato nominato nel 1939 da un parlamentare svedese che poi però cambiò idea e ritirò la sua proposta.
E’ invece rimasta, ma senza seguito, la nomination di Benito Mussolini.
Per contro, tra coloro che non lo ottennero mai nonostante ne avesse chiaramente i requisiti, ci fu il mahatma Gandhi, che non a caso viene definito il «missing laureate»: di nomitanion ne ricevette diverse, in almeno cinque anni diversi, e probabilmente sarebbe stato anche insignito del premio.
Ma è morto assassinato nel 1948 prima che una decisione in tal senso potesse essere presa e per statuto il Nobel non può essere assegnato a persone decedute.
L’APPLAUSO DEL GOVERNO ITALIANO – La notizia dell’assegnazione del premio a Obama ha raggiunto anche il governo italiano, riunito in Consiglio dei ministri.
E lo stesso Silvio Berlusconi, nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi, ha rivelato che l’esecutivo ha tributato un applauso in onore del presidente usa.
Un presidente destinatario di tale premio, ha detto il premier, « È un investimento sul futuro, perchè è un presidente Nobel per la Pace sarà tenuto a un comportamento assolutamente ecumenico nei confronti di tutti».
Il Nobel a Obama, ha poi sottolineato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, «non è una forzatura in nessun modo, ma è solo la testimonianza che la comunità internazionale è tutta accanto a lui per incoraggiarlo ad andare avanti con più forza, proprio contro i suoi detrattori».
Al.
S.
09 ottobre 2009 Corriere della Sera Grande è stato lo stupore e la meraviglia all’annuncio che il Premio Nobel per la pace per il 2009 è stato assegnato al giovane, semplice, religioso Presidente nero degli USA, quel Barak Obama che già tanta ammirazione ha suscitato per il suo comportamento spontaneo e le sue dichiarazioni politiche che si possono così sintetizzare: disarmo e non proliferazione, promozione della pace, preservazione del pianeta e un’economia che offra opportunità a tutti..
E’ presidente degli Stati Uniti dal novembre del 2008, dopo una clamorosa vittoria contro lo sfidante repubblicano, John McCain divenendo – così- il primo presidente afroamericano nella storia degli States.
La speranza e l’idealismo unificatore sono i grandi temi che hanno richiamato grandi folle ad ogni sua apparizione pubblica, evocando paragoni con Martin Luther King e John F.
Kennedy.
L’atmosfera intensa dei comizi di Obama, che spinge qualcuno ad ascoltare a mani giunte le sue parole, non è dovuta solo alla sua indubbia abilità oratoria, ma anche al contenuto del suo messaggio.
La promessa di “cambiare” le cose a Washington è per lui solo il primo passo verso il progetto ben più audace ed ambizioso di “cambiare l’America e poi il resto del mondo”.
A porlo sulla mappa politica degli Stati Uniti e nel cuore della gente fu uno straordinario discorso alla Convention Democratica del 2004, intitolato “L’Audacia della Speranza”, dove l’idealismo di impronta kennedyana era esaltato da una oratoria alla King(per forza, è stato un buon predicatore della sua chiesa cristiana) Senza dimenticare che la speranza per un mondo migliore è una “radice” molto profonda del Vangelo e Obama(= Benedetto)la sta mettendo in pratica.
Nulla lo spaventa o lo intimorisce e non ha paura di correre incontro ai “nemici”.
Proprio come suggerisce Gesù.
La sua infanzia è stata difficile, come grande è la sua carriera.
Nato il 4 agosto 1961 a Honolulu (Hawaii) da un padre di colore (giunto negli Usa dal Kenya con una borsa di studio) e da una madre bianca (nata in Kansas e poi trasferita nelle Hawaii con i genitori) Barack Hussein Obama ha avuto una infanzia instabile: a due anni ha perso la figura del padre (andato via da casa per studiare ad Harvard), a sei anni è finito in Indonesia (col nuovo marito della madre), a dieci anni è tornato da solo nelle Hawaii per vivere con i nonni materni.
Bravissimo negli studi, entra poi alla Columbia University a New York, lavora come assistente sociale a Chicago, viene accettato alla prestigiosa Harvard Law School.
Rifiuta le offerte d’impiego delle corporation di New York per tornare a Chicago per inseguire una missione sociale e anche l’amore: qui vive infatti Michelle Robinson, la ragazza che dopo un paio di anni diventerà sua moglie e la madre delle loro due bambine, Malia e Natasha.
A Chicago svolge opera di assistenza legale per i poveri ed insegna legge.
Ma i suoi obiettivi sono più ambiziosi.
Nel 1996 viene eletto al Senato dell’Illinois.
Nel 2000 si candida al Congresso Usa come deputato ma viene battuto.
Nel 2004 ci riprova, stavolta per il Senato Usa, e vince alla grande diventando il quinto senatore nero nella storia del Congresso americano.
Nel 2007 si candida alla Casa Bianca: l’annuncio ufficiale arriva il 10 febbraio dalla stessa piazza davanti al Campidoglio di Springfield (Illinois) dove Abramo Lincoln quasi 150 anni prima aveva pronunciato uno storico discorso sulla necessità di restare uniti.
Un simbolismo perfetto.
Il 4 novembre del 2008 la trionfale vittoria che lo conduce alla Casa Bianca, da dove, in pochi mesi, rilancia il dialogo con il mondo musulmano, affronta il delicato tema dei rapporti con l’Iran, avvia una intensa campagna contro la proliferazione nucleare, solo per citare i principali temi della sua azione in ambito internazionale.
Questo nostro mondo, così difficile e complicato, con immensi problemi, eppure con lui troverà la strada verso la pacificazione e – probabilmente, sebbene sia ancora un obiettivo tanto lontano- la fratellanza.

Una scomoda croce nel deserto

Il caso della croce della riserva naturale del Mojave è arrivato alla Corte Suprema degli Stati Uniti dopo otto anni di controversie, nate quando Frank Buono, già assistente alla soprintendenza del parco, ha avanzato richiesta formale al National Park Service (Nps) – cui la Riserva fa parte – di rimuovere la croce lì impiantata sin dal 1934.
Trovandosi su un terreno appartenente al Governo degli Stati Uniti – è la tesi di Buono – la sua esistenza costituisce una violazione del principio di imparzialità del Governo rispetto alle diverse fedi, violando così la establishment clause del primo emendamento della Costituzione.
L’intera vicenda giudiziaria è emblematica e ricca di spunti di riflessione.
Nel 1934 l’associazione Veterans of Foreign War, un’organizzazione privata, decise di onorare i caduti della prima guerra mondiale impiantando una croce di legno alta otto piedi in cima a un’altura rocciosa, Sunrise Rock, su un terreno pubblico che ora fa parte appunto della riserva naturale del Mojave.
Nel corso degli anni, altri gruppi privati e singoli individui hanno sostituito la vecchia croce di legno con altre più nuove, fino a quella corrente, eretta nel 1998 da Henry Sadoz, un privato cittadino.
Nel 1999, un residente dello Utah ha chiesto all’Nps, l’organo che sovrintende alla gestione dei parchi negli Stati Uniti, il permesso di erigere uno stupa, una sorta di memoriale buddista, vicino alla croce.
L’Nps ha respinto la richiesta, affermando che la legge proibisce ai privati di installare memoriali e altri impianti permanenti su proprietà federali senza autorizzazione delle autorità pubbliche.
Rifiutando il memoriale buddista, l’Nps ha inoltre annunciato l’intenzione di rimuovere la croce da Sunrise Rock, la quale, fra l’altro, non sarebbe mai stata formalmente autorizzata.
Le dichiarazioni dell’Nps hanno da subito innescato una serie di polemiche e accesi dibattiti.
Nel dicembre del 2000 è intervenuto il Congresso degli Stati Uniti, che, attraverso un provvedimento legislativo ha di fatto vietato di rimuovere la croce, proibendo l’uso di fondi federali a tale scopo.
La controversia però non si è esaurita.
Nel marzo del 2001, l’ex assistente alla soprintendenza Buono ha adito le vie legali presso la corte distrettuale del distretto centrale della California sostenendo che l’Nps dovesse rimuovere la croce.
Nel gennaio del 2002, mentre il caso Buono giaceva ancora presso la corte distrettuale, il Congresso degli Stati Uniti è intervenuto nuovamente, dichiarando la croce memoriale nazionale e inserendola in un ristretto gruppo formato da altri 45 memoriali nazionali, tra i quali i famosi Washington Monument e il Jefferson Memorial.
Poco dopo, nel luglio 2002, la corte distrettuale ha sentenziato che la croce del Mojave costituisce una violazione dell’establishment clause e ha ordinato all’Nps di rimuoverla.
Anche in questo caso il Congresso ha deciso di intervenire, con un altro provvedimento, proibendo la rimozione e, nel 2003, approvando un’altra legge con la quale si è stabilito di cedere la proprietà di cinque acri della riserva nazionale del Mojave, attorno alla croce in questione, alla Veterans of Foreign War.
Sandoz, a sua volta, ha poi donato alla stessa riserva cinque acri confinanti di sua proprietà.
La legge a ogni buon conto ha stabilito che se usati per finalità diverse da quelle del mantenimento del memoriale, i cinque acri tornino nella proprietà del Governo.
Nel giugno del 2004, la corte d’appello del nono circuito, in un’opinione informale scritta dal giudice Alex Kozinski, confermava la sentenza della corte distrettuale, in quanto la croce viola l’establishment clause.
Il Governo non ha presentato opposizione.
Ciononostante, l’Nps ha proseguito nei passi per il trasferimento della proprietà di Sunrise Rock all’associazione dei veterani, causando la reazione di Buono, che ha chiesto alla corte distrettuale un’ingiunzione, in seguito accordata, di rimozione della croce e di proibizione al trasferimento della proprietà.
Un nuovo ricorso alla Corte d’appello si è risolto con la conferma della decisione della corte distrettuale e quindi la vicenda è approdata, nel febbraio scorso, alla Corte Suprema degli Stati Uniti.
Essendo il National Park Service sotto la giurisdizione del Dipartimento degli interni, il cui segretario è Ken Salazar, la causa è appunto fascicolata con il titolo Salazar vs Buono.
Nella sua memoria presentata alla Corte Suprema, Salazar ha puntato soprattutto su due argomentazioni.
In primo luogo ha sollevato un’eccezione di competenza della corte distrettuale a seguito della mancanza di titolo giuridico da parte di Buono, il quale, secondo la legge, deve dimostrare di avere sofferto un qualche danno, cosa ardua, essendo fra l’altro, un cattolico praticante.
Riguardo al merito della questione, invece, Salazar afferma che, non essendo più su terreno governativo, a seguito della decisione del Congresso del 2003, la croce non costituisce un endorsement del Governo rispetto al messaggio religioso e quindi non viola più l’establishment clause.
La posizione di Buono è invece la seguente: il suo diritto a rivolgersi alla corte è affermato da precedenti disposizioni della Corte Suprema che riconoscevano tale diritto a chiunque avesse avuto “un diretto e non voluto contatto con un simbolo religioso in una proprietà pubblica”.
Nel suo caso, Buono si sarebbe sentito offeso nell’imbattersi nella croce come cittadino, perché la croce testimonia la preferenza del Governo per una fede a scapito delle altre.
Inoltre, Buono contesta la possibilità da parte della Corte Suprema di esprimere sentenza riguardo al fatto che la croce violi o no l’establishment clause, perché sul punto si è già espressa la Corte d’appello nel 2004, senza che il Governo abbia fatto ricorso.
Secondo Buono, la Corte Suprema può solo giudicare se il provvedimento del Congresso del 2007, con il quale veniva trasferita la proprietà di Sunrise Rock all’associazione di veterani ponga fine o meno a tale violazione.
Chiaramente, secondo Buono la violazione persiste, perché anzitutto il Governo ha consentito a creare un memoriale nazionale prevedendo come unico simbolo la croce e non anche altri simboli religiosi.
In secondo luogo perché in realtà tale proprietà non è pienamente trasferita, in quanto condizionata proprio al mantenimento del memoriale.
Il Governo dunque rimane, per così dire, complice del messaggio religioso.
Il caso, quale ne sia l’esito, avrà, come detto, conseguenze importanti.
Se la Corte Suprema deciderà a favore di Buono, tale decisione imporrà ai Governi locali, statali e federale di rimuovere molti simboli religiosi dai memoriali disseminati nel territorio degli Stati Uniti.
Al contrario, se l’Alta corte afferma che la croce non viola l’establishment clause, molti Governi potrebbero essere autorizzati a dare preferenza a un gruppo religioso rispetto a un altro in parchi ed edifici pubblici.
Se infine la Corte Suprema decidesse che Buono non ha titoli per adire le vie legali si avrebbero conseguenze evidenti sulla possibilità dei cittadini di presentare reclami su argomenti simili.
La decisione della Corte Suprema è importante poi, come accennato, anche per un altro motivo: consentirà di osservare qual è la posizione del nuovo giudice Sonia Sotomayor sul rapporto fra Stato e religione, dopo che questa ha preso il posto di David Souter, considerato un fervente partigiano dell’assoluta indipendenza dello Stato dalle confessioni religiose.
(©L’Osservatore Romano – 8 ottobre 2009) Sono previste per oggi, 7 ottobre, le audizioni, presso la Corte Suprema degli Stati Uniti, delle parti coinvolte nel procedimento Salazar vs Buono, un caso che, partendo dalle dispute attorno a una piccola croce posta all’interno della riserva naturale del Mojave – nella contea di san Bernardino, in California – è arrivato a coinvolgere il tema della libertà religiosa negli Stati Uniti.
La decisione della Corte sarà importante anche per verificare la condotta del nuovo giudice Sonia Sotomayor sui delicati temi religiosi e sul rapporto fra Stato e religione.