Il pluralismo valorizza la diversità

Pubblichiamo questi articoli apparsi sul Corriere della Sera poiché hanno suscitato molto dibattito sulla stampa italiana e  possono costituire un interessante base per la discussione.  L’integrazione degli islamici Giovanni Sartori In tempi brevi la Ca­mera dovrà pronun­ciarsi sulla cittadi­nanza e quindi, an­che, sull’«italianizzazio­ne» di chi, bene o male, si è accasato in casa no­stra.  Il problema viene combattuto, di regola, a colpi di ingiurie, in chia­ve di «razzismo».
Io dirò, più pacatamente, che chi non gradisce lo straniero che sente estraneo è uno «xenofobo», mentre chi lo gradisce è uno «xenofi­lo ».
E che non c’è intrinse­camente niente di male in nessuna delle due rea­zioni.
Chi più avversa l’immi­grazione è da sempre la Lega; ma a suo tempo, nel 2002, anche Fini fir­mò, con Bossi, una legge molto restrittiva.
Ora, in­vece, Fini si è trasformato in un acceso sostenitore dell’italianizzazione rapi­da.
Chissà perché.
Fini è un tattico e il suo dire è «asciutto»: troppo asciut­to per chi vorrebbe capi­re.
Ma a parte questa gira­volta, il fronte è da tempo lo stesso.
Berlusconi ap­poggia Bossi (per esserne appoggiato in contrac­cambio nelle cose che lo interessano).
Invece il fronte «accogliente» è co­stituito dalla Chiesa e dal­la sinistra.
La Chiesa deve essere, si sa, misericordio­sa, mentre la xenofilia del­la sinistra è soltanto un «politicamente corretto» che finora è restato male approfondito e spiegato.
Due premesse.
Primo, che la questione non è tra bianchi, neri e gialli, non è sul colore della pelle, ma invece sulla «integra­bilità» dell’islamico.
Se­condo, che a fini pratici (il da fare ora e qui) non serve leggere il Corano ma imparare dall’espe­rienza.
La domanda è allo­ra se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C.
in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorpo­razione etico-politica (nei valori del sistema politi­co), in società non islami­che.
La risposta è sconfor­tante: no.
Il caso esemplare è l’In­dia, dove le armate di Al­lah si affacciarono agli ini­zi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominaro­no l’intero Paese.
Si avver­ta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi pa­ciosi, pacifici; e la maggio­ranza è indù, e cioè poli­teista capace di accoglie­re nel suo pantheon di di­vinità persino un Mao­metto.
Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventa­re il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesi­stenza in cagnesco finisse­ro in un mare di sangue.
Conosco, s’intende, an­che altri casi e varianti: dalla Indonesia alla Tur­chia.
Tutti casi che rivela­no un ritorno a una mag­giore islamizzazione, e non (come si sperava al­meno per la Turchia) l’av­vento di una popolazione musulmana che accetta lo Stato laico.
Veniamo all’Europa.
In­ghilterra e Francia si sono impegnate a fondo nel problema, eppure si ritro­vano con una terza gene­razione di giovani islami­ci più infervorati e incatti­viti che mai.
Il fatto sor­prende perché cinesi, giapponesi, indiani, si ac­casano senza problemi nell’Occidente pur mante­nendo le loro rispettive identità culturali e religio­se.
Ma — ecco la differen­za — l’Islam non è una re­ligione domestica; è inve­ce un invasivo monotei­smo teocratico che dopo un lungo ristagno si è ri­svegliato e si sta vieppiù infiammando.
Illudersi di integrarlo «italianizzan­dolo » è un rischio da gi­ganteschi sprovveduti, un rischio da non rischia­re.
Corriere della Sera 20 dicembre 2009 Una replica ai pensabenisti sull’Islam di Giovanni Sartori Il mio editoriale del 20 dicembre «La integrazione degli islamici» resta attuale perché la legge sulla cittadinanza resta ancora da approvare (alla Camera).
Nel frattempo altri ne hanno discusso su questo giornale.
Tra questi il professor Tito Boeri mi ha dedicato (Corriere del 23 dicembre) un attacco sgradevole nel tono e irrilevante nella sostanza.
Il che mi ha spaventato.
Se Boeri, che è professore di Economia del lavoro alla Bocconi e autorevole collaboratore di Repubblica, non è in grado di capire quel che scrivo (il suo attacco ignora totalmente il mio argomento) e dimostra di non sapere nulla del tema nel quale si spericola, figurarsi gli altri, figurarsi i politici.
Il Nostro esordisce così: «Dunque Sartori ha deciso che gli immigrati di fede islamica non sono integrabili nel nostro tessuto sociale, non devono poter diventare cittadini italiani».
In verità il mio articolo si limitava a ricordare che gli islamici non si sono mai integrati, nel corso dei secoli (un millennio e passa) in nessuna società non-islamica.
Il che era detto per sottolineare la difficoltà del problema.
Se poi a Boeri interessa sapere che cosa «ho deciso», allora gli segnalo che in argomento ho scritto molti saggi, più il volume «Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei» (Rizzoli 2002), più alcuni capitoletti del libriccino «La Democrazia in Trenta Lezioni » (Mondadori, 2008).
Ma non pretendo di affaticare la mente di un «pensabenista», di un ripetitore rituale del politicamente corretto, che perciò sa già tutto, con inutili letture.
Mi limiterò a chiosare due perle del suo intervento.
Boeri mi chiede: «Pensa Sartori che chi nasce in Italia, studia, lavora e paga le tasse per diventare italiano debba abbandonare la fede islamica?».
Ovviamente non lo penso.
Invece ho sempre scritto che le società liberal- pluralistiche non richiedono nessuna assimilazione.
Fermo restando che ogni estraneo (straniero) mantiene la sua religione e la sua identità culturale, la sua integrazione richiede soltanto che accetti i valori etico-politici di una Città fondata sulla tolleranza e sulla separazione tra religione e politica.
Se l’immigrato rifiuta quei valori, allora non è integrato; e certo non diventa tale perché viene italianizzato, e cioè in virtù di un pezzo di carta.
Al qual proposito l’esempio classico è quello delle comunità ebraiche che mantengono, nelle odierne liberaldemocrazie, la loro millenaria identità religiosa e culturale ma che, al tempo stesso, risultano perfettamente integrate nel sistema politico nel quale vivono.
Ultima perla.
Boeri sottintende che io la pensi come «quei sindaci leghisti» eccetera eccetera.
No.
A parte il colpo basso (che non lo onora), la verità è che io seguo l’interpretazione della civiltà islamica e della sua decadenza di Arnold Toynbee, il grande e insuperato autore di una monumentale storia delle civilizzazioni (vedi Democrazia 2008, pp.
78-80).
Il mio pedigree di studioso è in ordine.
È quello del mio assaltatore che non lo è.
Il Corriere ha poi pubblicato il 29 dicembre le lettere di due lettori i quali, a differenza del professor Boeri, hanno capito benissimo la natura e l’importanza del problema che avevo posto, e che chiedevano lumi a Sergio Romano.
Ai suoi «lumi» posso aggiungere il mio? Romano, che è accademicamente uno storico, fa capo alle moltissime variabili che sono in gioco, ai loro molteplici contesti, e pertanto alla straordinaria complessità del problema.
D’accordo.
Ma nelle scienze sociali lo studioso deve procedere diversamente, deve isolare la variabile a più alto potere esplicativo, che spiega più delle altre.
Nel nostro caso la variabile islamica (il suo monoteismo teocratico) risulta essere la più potente.
S’intende che questa ipotesi viene poi sottoposta a ricerche che la confermano, smentiscono e comunque misurano.
Ma soprattutto si deve intendere che questa variabile «varia», appunto, in intensità, diciamo in grado di riscaldamento.
Alla sua intensità massima produce l’uomo- bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto).
Diciamo, a caso, che a questo grado di surriscaldamento, di fanatismo religioso, arrivano uno-due musulmani su un milione.
Tanto può bastare per terrorizzare gli infedeli, e al tempo stesso per rinforzare e galvanizzare l’identità fideistica (grazie anche ai nuovi potentissimi strumenti di comunicazione di massa) di centinaia di milioni di musulmani che così ritrovano il proprio orgoglio di antica civiltà.
Ecco perché, allora, l’integrazione dell’islamico nelle società modernizzate diventa più difficile che mai.
Fermo restando, come ricordavo nel mio fondo e come ho spiegato nei miei libri, che è sempre stata difficilissima.
in Corriere della sera 5 1 2010 No al multiculturalismo ideologico di G.
Sartori A quanto pare il tema della cittadinanza agli islamici è sentito.
Il Corriere ha selezionato ieri 11 lettere, ricavate da un totale di quasi 450 accolte su 23 pagine di Internet.
Ne ignoro la distribuzione.
Ma un mio amico ha calcolato che più della metà di queste lettere sono a mio favore, e che le altre sono per lo più divagazioni ondeggianti tra il sì e il no.
Grazie a tutti, anche perché ho così modo di estendere il discorso (seppure complicandolo un po’).
Primo.
Non si deve confondere tra il multiculturalismo che esiste in alcuni Paesi, che c’è di fatto, e il multiculturalismo come ideologia, come predicazione di frammentazione e di separazione di etnie in ghetti culturali.
Per esempio la Svizzera è oggi, di fatto, un Paese multiculturale che funziona bene come tale, anche se il lieto fine ha richiesto addirittura una guerra intestina.
Invece Belgio e Canada sono oggi due Paesi bi-culturali in difficoltà, specie il primo.
Anche la felix Austria fu, sotto gli Asburgo, un grande Stato multiculturale che però si è subitamente disintegrato alla fine della prima guerra mondiale.
Comunque, i casi citati sono o sono stati multiculturali di fatto.
Il multiculturalismo ideologico di moda è invece una predicazione che distrugge il pluralismo e che va perciò combattuta.
Secondo.
Contrariamente a quanto scritto da alcuni lettori, è il pluralismo che valorizza e pregia la diversità.
Ma una diversità fondata su cross-cutting cleavages, su affiliazioni e appartenenze che si incrociano, che sono intersecanti, e non, come nel caso dell’ideologia multiculturale, da affiliazioni coincidenti che si cumulano e rinforzano l’una con l’altra.
Pertanto è sbagliato, sbagliatissimo, raccontare che ormai viviamo tutti in società multiculturali, e che questo è inevitabilmente il nostro destino.
Invece sinora viviamo quasi tutti, nell’Occidente, in società pluralistiche in grado di assorbire e di gestire al meglio l’eterogeneità culturale.
Attenzione, allora, a non attribuire al multiculturalismo pregi che sono invece del pluralismo.
Terzo.
Un’altra confusione da evitare è tra conflitti religiosi e conflitti etnici.
Questi ultimi sono purtroppo eterni e ricorrenti.
Lo sono anche, tra l’altro, all’interno del mondo musulmano.
Per esempio gli iraniani sono etnicamente persiani, non arabi; e la comune fede islamica non ha impedito, di recente, una sanguinosissima guerra tra l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran degli ayatollah.
Le religioni possono invece coesistere pacificamente ignorandosi l’una con l’altra.
Si combattono quando sono «calde», invasive, fanatizzate; non altrimenti.
Quarto.
Qual è il vero Islam? Gli intellettuali musulmani accasati in Occidente  si affannano quasi tutti a spiegare che non è quello propagandato dai fondamentalisti.
Anche io ho letto, ovviamente, il Corano, che è simile all’Antico Testamento nel suggerire tutto e il suo contrario.
Ma il fatto è che gli islamisti contrari al fondamentalismo hanno voce e peso soltanto con gli occidentali.
 Il diritto islamico viene stabilito, nei secoli, dai dottori della legge, gli ulama.
Sono loro a stabilire quali sono, o non sono, gli sviluppi conformi alla dottrina coranica; e anche in Occidente il comportamento dei fedeli è dettato, ogni venerdì, nella moschea dal discorso del Khateb che accompagna la preghiera pubblica.
La moschea, si ricordi, non è solo un luogo di culto, una chiesa nel nostro significato del termine, è anche la città-Stato dei credenti, la loro vera patria.
Quinto.
I rimedi.
Tutti si chiedono quali siano, eppure sono ovvi.
È stato il bombardamento del «politicamente corretto» che ce li ha fatti dimenticare o dichiarare superati.
A suo tempo i tedeschi accolsero milioni di turchi come «lavoratori ospiti»; noi avevamo e abbiamo i permessi di soggiorno a lunga scadenza; gli Stati Uniti concedono agli stranieri la residenza permanente.
Sono tutte formule che si possono, se e quando occorre, migliorare e «umanizzare».
Ma sono certo preferibili alla creazione del cittadino «contro-cittadino» che, una volta conseguita la massa critica necessaria, crea e vota il suo partito islamico che rivendica diritti islamici se così istruito nelle moschee.
Non dico che avverrà; ma se il fondamentalismo si consolida, potrebbe avvenire.
È un rischio che sarebbe stupido correre.
O almeno a me così sembra.
in “Corriere della Sera” del 7 gennaio 2010 I musulmani e i tempi dell’integrazione di Tito Boeri Caro Direttore, dunque Giovanni Sartori ha deciso che gli immigrati di fede islamica non sono integrabili nel nostro tessuto sociale, non devono poter diventare cittadini italiani (Corriere del 20 dicembre, ndr).
Non si tratta di un’affermazione di poco conto.
Parliamo di circa un milione e mezzo di persone che oggi vivono in Italia.
Da cosa trae Sartori questa convinzione? Da un’analisi dei processi di integrazione degli immigrati di fede islamica in Paesi a più antica immigrazione? Si direbbe di no.
Il 77 per cento dei maghrebini di seconda generazione immigrati in Francia ha sposato una persona di cittadinanza francese.
Dichiarano di sentirsi francesi tanto quanto gli altri immigrati.
In Germania un figlio di immigrato turco (al 90 per cento di religione islamica) ha la stessa probabilità di un figlio di immigrato italiano di sposarsi con una persona nata in Germania.
Si identificano di più con il Paese che li ha accolti di quanto non facciano i figli dei nostri emigrati.
Nel Regno Unito gli immigrati del Pakistan o del Bangladesh, le due più grandi comunità di fede islamica ivi presenti, si integrano allo stesso modo degli indiani, dei caraibici e dei cinesi.
Si sentono britannici e parte del Regno Unito più degli immigrati di fede cristiana, anche se mantengono la loro religione.
Si integrano economicamente e socialmente, nel lavoro, sposandosi con persone del Paese che li accoglie e parlando a casa l’inglese, indipendentemente da quanto spesso vadano in moschea, da quanto siano devoti all’Islam.
Ritengono di poter essere al tempo stesso britannici e musulmani.
Si sbagliano forse? Pensa Sartori, come quei sindaci leghisti che si battono contro la costruzione di moschee nelle loro città, che chi nasce in Italia, studia, lavora e paga le tasse da noi, per diventare italiano debba abbandonare la fede islamica? Non voglio certo negare che ci sia un problema di integrazione degli immigrati in generale e dei musulmani in particolare.
Ma trattare di questi problemi con superficialità, alimentando pregiudizi tanto diffusi quanto lontani dalla realtà non aiuta certo a risolverli.
Impedire poi ai musulmani di praticare la loro religione da noi, a differenza di quanto avviene in Paesi che da decenni ospitano grandi comunità di fede islamica, e precludere loro a priori la cittadinanza italiana, serve solo ad allungare i tempi dell’integrazione.
Corriere della sera 04 gennaio 2010 Integrazione e società di Tito Boeri Caro Direttore i terribili avvenimenti di Rosarno mostrano in modo inequivocabile quanto sia cruciale il tema dell’integrazione degli immigrati nella società italiana, su cui lei ha deciso di aprire un dibattito sul suo giornale.
Ci dicono che i flussi migratori sono non solo fonte di grandi benefici economici, ma anche di gravi tensioni sociali per le comunità che li ospitano.
Dimostrano al contempo come sia riduttivo (e intellettualmente disonesto) confinare alla dimensione religiosa il problema dell’integrazione.
La tesi sull’”impossibile integrazione degli islamici” è stata sostenuta sulle sue colonne con riferimenti storici quanto meno azzardati (non è vero che i mussulmani hanno imposto la propria fede con forza in India sotto l’impero dei Moghul, non è vero che solo la cultura islamica ha prodotto chi si fa uccidere per uccidere, basti pensare ai kamikaze o ai guerrieri Tamil), e su testi di autori, come Toynbee, scomparsi 35 anni fa, quindi impossibilitati a studiare il lungo processo di integrazione delle minoranze islamiche nelle società europee contemporanee.
Non un solo dato è stato citato a supporto di questa tesi così impegnativa.
Né sono stati presi in considerazione le statistiche che avevo fornito e che documentano che l’integrazione di minoranze mussulmane nei paesi a più antica immigrazione è difficile, ma tutt’altro che impossibile.
Il compito di uno studioso è quello di fornire informazioni sui casi tipici, sui grandi numeri (di aneddoti ed eccezioni è costellata la nostra vita quotidiana).
Approfitto allora di questo spazio per far nuovamente parlare i dati, questa volta sulla realtà dell’immigrazione nel nostro paese, alla luce della prima indagine rappresentativa degli immigrati clandestini condotta in Italia, a cura della Fondazione Rodolfo Debenedetti, nel novembre-dicembre 2009.
Primo dato: un italiano su tre non vorrebbe avere un mussulmano come vicino di casa; pochi meno di quanti non vorrebbero estremisti (di destra o sinistra) o malati di aids nella porta accanto; tre volte la percentuale di italiani che non vorrebbero ebrei come vicini di casa.
Secondo dato: gli immigrati in provenienza da paesi mussulmani parlano più spesso l’italiano, mandano i loro figli alla scuola pubblica e hanno più frequenti contatti con italiani delle altre minoranze, soprattutto dei cinesi.
Terzo dato: gli immigrati, di tutte le etnie, lavorano più degli italiani (il loro tasso di occupazione è del 15 per cento superiore al nostro) sebbene circa un quarto di loro sia presente irregolarmente nel nostro paese, non abbia permesso di soggiorno e regolare contratto di lavoro.
Il primo dato spiega molte reazioni dei lettori; fa riflettere anche sul comportamento di chi, dopo aver compiaciuto la vox populi, conta il numero di commenti favorevoli raccolti sul sito web del suo giornale.
Il secondo dato apre speranze sull’integrazione dei mussulmani nel nostro paese; soprattutto se sapremo investire, come in altri paesi, nel sistema scolastico, come strumento per trasmettere la nostra identità culturale.
Pone dubbi sulla decisione di imporre un tetto del 30 per cento agli immigrati nelle nostre scuole.
Ci sono comuni in cui l’80 per cento della popolazione è straniera: dovremmo forse impedire ai figli di questi immigrati di andare a scuola? Il terzo dato è cruciale per capire come contrastare davvero l’immigrazione clandestina, nei fatti e non con le parole.
Rafforzando i controlli sui posti di lavoro per contrastare l’impiego in nero degli immigrati si può essere molto più efficaci che introducendo nuove leggi (come quelle che istituiscono il reato di immigrazione clandestina) destinate a non essere applicate.
Non ho le rocciose certezze di alcuni suoi editorialisti che hanno risposte su tutto: dalle riforme costituzionali, al rapporto fra islam e immigrazione, al modo con cui salvare la Terra dagli effetti del cambiamento climatico.
Essendo indiscutibilmente più limitato, temo di non avere risposte a molti quesiti posti dai lettori.
Ma di una cosa sono convinto: queste risposte non possono alimentarsi sui pregiudizi né essere trovate nelle (peraltro autorevoli) pagine di libri scritti alcuni decenni fa.
Dovremo avere tutti l’umiltà di dubitare, di osservare per imparare, di farci aiutare dai dati e dai numeri.
In fondo è proprio questo che trovo interessante nel mio lavoro.
La ringrazio ancora per lo spazio che mi ha gentilmente concesso.
Corriere della sera 10 gennaio 2010 Le fermezza e l’ipocrisia Angelo Panebianco Sappiamo da tempo che l’immigrazione è il fenomeno che forse più inciderà sul futuro dell’Europa.
Conteranno sia la quantità dei flussi migratori che la qualità delle risposte europee.
In Italia sembriamo tuttora impreparati ad affrontare in modo razionale e convergente un fenomeno col quale conviviamo ormai da anni.
Ci sono almeno tre temi su cui non c’è consenso nazionale e, per conseguenza, mancano codici di comportamento e pratiche comuni fra gli operatori delle principali istituzioni.
Non c’è consenso, prima di tutto, su che cosa si debba intendere per «integrazione» degli immigrati.
A parole, tutti la auspicano ma che cosa sia resta un mistero.
Ad esempio, si può ridurla alla questione dei tempi per la concessione della cittadinanza? O ciò non significa partire dalla coda anziché dalla testa? Poiché nulla meglio delle micro-situazioni getta luce sui macro-fenomeni, si guardi a che cosa davvero intendono per «integrazione» certi operatori istituzionali.
Ciò che succede, ormai da diversi anni, in molte scuole, durante le feste natalizie (e le inevitabili polemiche si infrangono contro muri di gomma) è rivelatore.
Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni.
Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell’integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà.
E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.
C’è poi, in secondo luogo, la questione dell’immigrazione islamica.
Tipicamente (le critiche di Tito Boeri – 23 dicembre – e di altri, alle tesi di Giovanni Sartori – 20 dicembre – sulla difficoltà di integrare i musulmani, ne sono solo esempi), la posizione fino ad oggi dominante fra gli intellettuali liberal (e cioè politicamente corretti) è stata quella di negare l’esistenza del problema.
Come se in tutti i Paesi europei, quale che sia la politica verso i musulmani, non si constati sempre la stessa situazione: ci sono, da un lato, i musulmani integrati, che vivono quietamente la loro fede, e non rappresentano per noi alcun pericolo (coloro che, a destra, ne negano l’esistenza facendo di tutta l’erba un fascio sono altrettanto dannosi dei suddetti liberal) ma ci sono anche, dall’altro, i tradizionalisti militanti, rumorosi e assai numerosi, più interessati ad occupare spazi territoriali per l’islam nella versione chiusa e oscurantista che a una qualsiasi forma di integrazione.
E lascio qui deliberatamente da parte i jihadisti e i loro simpatizzanti.
Salvo osservare che i confini che separano i tradizionalisti militanti contrari all’uso della violenza e i simpatizzanti del jihadismo sono fluidi, incerti e, probabilmente, attraversati spesso nei due sensi.
Negare il problema è, francamente, da irresponsabili.
Ultima, ma non per importanza, c’è la questione dell’immigrazione clandestina, che porta con sé anche i fenomeni legati allo sfruttamento da parte della criminalità organizzata (e il caso di Rosarno ne è un esempio).
Non c’è nemmeno consenso nazionale sul fatto che i clandestini vadano respinti.
Da un lato, ci sono settori (xenofobi in senso proprio) della società che non hanno interesse a tracciare una linea netta fra clandestini e regolari essendo essi contro tutti gli immigrati.
Ma tracciare una linea netta non interessa, ovviamente, neanche ai fautori dell’accoglienza indiscriminata.
Non ci sono solo troppi prelati e parroci che parlano ambiguamente di accoglienza senza mettere mai paletti (accoglienza verso chi? alcuni? tutti? Con quali criteri? Con quali risorse?).
Ci sono anche operatori istituzionali che ci mettono del loro.
Un certo numero di magistrati, ad esempio, ha deciso che il reato di clandestinità è in odore di incostituzionalità.
Immaginiamo che la Corte costituzionale si pronunci domani con una sentenza favorevole alla tesi di quei magistrati.
Bisognerebbe allora mandare a memoria la data di quella sentenza perché sarebbe una data storica, altrettanto importante di quelle dell’unificazione d’Italia e della Liberazione.
Con una simile sentenza, la Corte stabilirebbe solennemente che ciò che abbiamo sempre creduto uno Stato non è tale, che la Repubblica italiana è una entità «non statale».
Che cosa è infatti il reato di clandestinità? Nient’altro che la rivendicazione da parte di uno Stato del suo diritto sovrano al pieno controllo del territorio e dei suoi confini, della sua prerogativa a decidere chi può starci legalmente sopra e chi no.
Se risultasse che una legge, regolarmente votata dal Parlamento, che stabilisce il reato di clandestinità, è incostituzionale, ne conseguirebbe che la Costituzione repubblicana nega allo Stato italiano il tratto fondante della statualità: la prerogativa del controllo territoriale.
Né si può controbattere citando il trattato di Schengen, che consente ai cittadini d’Europa di circolare liberamente nei Paesi europei aderenti.
Schengen, infatti, è frutto di un accordo volontario fra governi e, proprio per questo, non intacca il principio della sovranità territoriale.
La questione dell’immigrazione ricorda quella del debito pubblico.
Il debito venne accumulato durante la Prima Repubblica da una classe politica che sapeva benissimo di scaricare un peso immenso sulle spalle delle generazioni successive.
In materia di immigrazione accade la stessa cosa: esiste un folto assortimento di politici superficiali, di xenofobi, di educatori scolastici, di intellettuali liberal, di preti (troppo) accoglienti, di magistrati democratici, e di altri, intento a fabbricare guai.
Fatta salva la buona fede di alcuni, molti, probabilmente, pensano che se quei guai, come nel caso del debito, si manifestassero in tutta la loro gravità solo dopo un certo lasso di tempo, non avrebbe più senso prendersela con i responsabili.
Corriere della sera 08 gennaio 2010

Classe prima – Gennaio

Seconda fase dell’attività  L’insegnante propone agli allievi le seguenti domande, a cui rispondere per iscritto.
A) Riassumi in modo sintetico la storia del profetismo biblico.
B) Quali possono essere, in ogni tempo, i compiti specifici di un profeta della fede?   Lavoro di gruppo: abbiniamo i profeti L’insegnante divide la classe in quattro gruppi  eterogenei in relazione a capacità espressive, conoscenze e capacità/volontà di collaborazione; i portavoce saranno scelti dai componenti dei gruppi.
Ciascun gruppo riceverà una scheda preparata dall’insegnante, riguardante le caratteristiche, le vicende della vita ed i messaggi di un profeta biblico; sul “profeta cristiano moderno” ad esso abbinato, in qualche modo simile, ciascun componente del gruppo cercherà notizie a casa, da mettere a disposizione dei compagni.
Si potrebbero ipotizzare: -Elia e Padre Pio da Pietrelcina; -Isaia e Giovanni Paolo II; -Ezechiele e S.
Massimiliano Kolbe; -Amos e R .Follereau.
In classe, i gruppi dovranno ricostruire per iscritto  gli aspetti essenziali della vita dei “profeti moderni”  e trovare gli aspetti comuni ai profeti biblici abbinati.
Il portavoce di ciascun gruppo coordinerà il lavoro e leggerà alla classe il testo prodotto; seguiranno le  eventuali domande dei compagni ed i chiarimenti dell’insegnante.
Gli Obiettivi Formativi potranno essere valutati anche tenendo conto delle dinamiche di gruppo e dell’impegno di ciascun allievo nell’offrire contributi personali e contemporaneamente nel lasciare spazio agli altri, oltre che nell’aiutare chi si trovasse in difficoltà.
Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida 3) Insegnamenti universali  Quale  uomo fa realmente da guida agli altri uomini? Chi, in qualche modo, li aiuta nella ricerca del significato della vita, di ciò che è vero: alla scoperta di mete che diano valore all’esistenza ed alle risorse originali di ogni singola persona, preziose per la costruzione di un mondo migliore.
Per l’uomo religioso, il profeta è il tramite umano perché Dio possa “parlare” alle creature  trasmettendo messaggi urgenti, di vitale importanza sul rapporto con Lui, con gli altri, con la società.
Molti messaggi dei profeti biblici, basilari per il popolo ebraico, sembrano sottrarsi ad epoca, usi e costumi ed essere altrettanto validi per noi del III Millennio.
I profeti biblici – aiutarono il popolo ebraico a leggere gli avvenimenti della propria storia e della storia personale di ciascun individuo ponendosi dal punto di vista di Dio e scoprendo progressi e tradimenti nei confronti del Suo progetto, quello di un mondo nuovo basato sulla giustizia e sull’armonia dei rapporti.
Seppero così – denunciare con coraggio le ingiustizie dei governanti corrotti, difendere i poveri e gli oppressi; – lottare contro gli idoli, i “falsi dei” del politeismo che al tempo di alcuni re si riaffermarono (oggi, gli idoli permangono per esempio nella sete di potere e ricchezza…).
– I profeti aiutarono sempre meglio il popolo ebraico a conoscere Dio Padre, tenero e accogliente ma anche educatore esigente; Colui che permette anche la dura prova ed il dolore perché l’uomo impari, si tempri, maturi; – risvegliarono le coscienze per indurre a distinguere tra bene e male ed a scegliere il bene, a qualsiasi costo.
I profeti biblici furono voce di Dio attraverso la parola, ma anche attraverso l’ascolto, l’obbedienza e la coerenza delle scelte, evidentemente determinati a fare la volontà di un Dio che per loro che era tutto e per cui  erano disposti a tutto.
2) Dall’Antico al Nuovo Testamento Nel secolo VIII a.C., con Amos difensore dei poveri nel Regno del Nord e Osea che paragonò l’amore di Dio per l’uomo a quello di uno sposo per la sposa, e con il grande Isaia nel Regno di Giuda-cantore della santità e della potenza di Dio, oppositore ai giochi di potere dei re, annunciatore del Messia della casa di Davide, apparvero le prime raccolte di profezie redatte dai profeti stessi, quasi sempre con l’apporto determinante di discepoli.
Nel secolo VII, le profezie soprattutto di Geremia consolarono e ammonirono il popolo del regno di Giuda in crisi morale e politica; durante l’esilio in Babilonia, in seguito all’invasione guidata dal re Nabuccodonosor, agì Ezechiele per riportare la speranza…
Tra il quinto e terzo secolo vissero profeti che sostennero gli Ebrei alle prese con momenti di ricostruzione e nuove oppressioni straniere.
Nel Nuovo Testamento, quale ruolo ebbe il profetismo? Ai tempi di Gesù,  gli Ebrei attendevano il Messia portatore della salvezza di Dio, un Inviato la cui  venuta molti profeti avevano preannunciato; talvolta lo circondarono di attese troppo “terrene”, vedendolo come un liberatore politico o come un Messia-sacerdote comunque potente…
Eppure, i grandi profeti avevano già fornito indizi sull’impossibilità di inquadrarlo in schemi, sulla sua imprevedibilità; un profeta continuatore dell’opera di Isaia-il ” Deuteroisaia “-aveva parlato addirittura di un ” Servo di Dio ” disprezzato e sofferente, venuto per sacrificare la propria vita (Is 42, 1-7; 49, 1-9; 50, 4-9).
La comunità dei monaci Esseni di Qumran, presso il Mar Morto, attendeva il Messia, studiava le antiche profezie, conservava i testi dell’Antico Testamento; tra loro, secondo lo storico Giuseppe Flavio, vissero autentici profeti.
I Vangeli presentano come profeti Zaccaria (Lc 1, 67), Simeone (Lc 2, 25-32),  Anna (Lc 2, 36)…
Gli “Atti degli Apostoli”, narrando le vicende della Chiesa primitiva, attestano la presenza di profeti resi tali per dono dello Spirito di Dio…
Gesù aveva già richiamato l’attenzione sul pericolo dei falsi profeti; quelli autentici pensano unicamente al bene comune, consolando, rimproverando, sostenendo i fratelli nel cammino di fede centrato su Gesù Risorto, Dio e Uomo, Rivelatore e Redentore (1 Cor 14, 1-5 e 29-33).
Secondo i libri del Nuovo Testamento, lo Spirito susciterà profeti di generazione in generazione, per annunciare il Vangelo in ogni tempo.
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta i testi-guida, in seguito allo studio sulla storia e sull’evoluzione della fede degli ebrei da Abramo alla nascita di Gesù.
Può scegliere di leggere alcuni dei brani biblici presentati, inquadrandoli storicamente.
1) I profeti nella Bibbia: origini  Secondo i credenti delle grandi religioni monoteiste, ci sono sempre stati dei profeti e sempre ce ne saranno.
I grandi profeti biblici sono uomini incuranti della propria personale sicurezza, unicamente interessati ad essere strumenti di Dio per la salvezza degli uomini: pronti a rischiare la vita, a perdere casa, amici,  buon nome…
pur di diffondere messaggi urgenti e fondamentali loro affidati in tempi di allontanamento dalla fede dei governanti e del popolo, di “crisi” dell’Alleanza.
Fecero una particolare, profondissima esperienza di Dio, anche attraverso eventi soprannaturali: furono scelti per motivi misteriosi,consacrati da Lui, inviati come portavoce dei Suoi giudizi e progetti.
Eroi della fede, ebbero esistenze dure, avventurose…
talvolta solitarie, segnate da laceranti incomprensioni umane, come spesso accade a chi vola molto in alto.
Nella fase di passaggio tra l’epoca dei Giudici- condottieri, validi legislatori e guide delle tribù- e l’epoca dei Re, a partire da Saul, Davide e Salomone, l’Antico Testamento parla di profeti “estatici”, capaci di immergersi in Dio come rapiti nella Sua dimensione, posseduti dal Suo Spirito anche con l’aiuto della musica (1 Sam 10, 5-6; 2 Re 3, 15).
Con i Re comparvero i profeti loro consiglieri (per esempio, Gad e Natan per Davide- 2 Sam 7, 1-17; 1 Sam 22, 25), pronti a sostenerli nelle decisioni importanti ma anche a rimproverarli duramente qualora tradissero l’Alleanza con Dio, abbagliati dalla sete di potere .
Nacquero in seguito vere e proprie comunità di profeti: una la guidò il grande Elia (1 Re 17, 2 Re 2), che nel IX secolo a.C.
lottò contro il ritorno di culti pagani e che, secondo la Bibbia, compì prodigi in nome di Dio riportando in vita un giovane, fu nutrito da Lui nel deserto, Lo incontrò, come Mosé, sull’Oreb…
              Unità di Lavoro biblica, per l’approfondimento e l’attualizzazione Prima parte OSA di riferimento  Conoscenze – Il libro della Bibbia, documento storico-culturale e Parola di Dio   Abilità – Saper ricostruire le tappe della storia di Israele.
– Individuare il messaggio centrale di alcuni testi biblici, utilizzando informazioni storico-letterarie e seguendo metodi diversi di lettura.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere il ruolo del profetismo biblico.
– Individuare i messaggi fondamentali dei brani dell’Antico Testamento presentati.
– Saper individuare figure profetiche del nostro tempo, descrivendone le caratteristiche utili per un autentico rinnovamento sociale.    Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale:  – Sviluppo di un reale interesse inerente percorsi di riflessione sulla “verità” e sulla distinzione tra bene e male.
– Capacità di prendere in considerazione il progetto di vita cristiano come ipotesi di interpretazione della realtà sociale e individuale, sulla base di fondamentali conoscenze bibliche e dottrinali.  4) Profeti oggi  Chi possono essere i profeti del nostro tempo? “I profeti non ci lasciano tranquilli, perché sollevano la pretesa di aver sentito parlare Dio…
I profeti ci costringono a rischiare la via dell’ignoto.
In Amos leggiamo: Il leone ruggisce: chi non avrebbe paura? Il Signore Dio parla: chi non profetizzerebbe? Am 3, 8.
“I profeti sono gli araldi del Dio ardente e appassionato  e così diventano essi stessi uomini dell’entusiasmo e chiamano all’entusiasmo…” (N.
Lohfink, “I profeti ieri e oggi”, Edizioni Queriniana, pp.
94-95) I profeti, oggi, sono ancora coloro che grazie ad un rapporto straordinariamente intenso e profondo con Dio, che alimenta l’amore per i fratelli, divengono Suoi strumenti  per vivere in prima persona e proporre dei rinnovamenti all’umanità  in Suo nome: nuove scelte, nuovi comportamenti per progredire  nella costruzione di un universo riconciliato.
C’è un gran bisogno anche oggi di profeti che sconvolgano le comode esistenze dei credenti abitudinari, ricordando ai Cristiani che la fede autentica non può non comportare impegno, lotta, rischio, amore per l’altro fino al sacrificio che fa male…
non può non esigere giustizia per gli oppressi, solidarietà, denuncia del sopruso.
Quali possono essere stati i profeti del XX secolo appena concluso? Pensiamo, per esempio, a Madre Teresa di Calcutta , morta nel 1997, fondatrice delle “Missionarie della Carità“: a partire dal suo lavoro nello “slum” di Calcutta, questa suora ha presentato al mondo le esigenze dei più poveri tra i poveri, ha insegnato l’urgenza della condivisione dei beni e della vita con chi soffre, con una forza tutta particolare data dal vedere il volto di Cristo  in ogni fratello.
Pensiamo poi a uomini come Monsignor Oscar Romero, arcivescovo del Salvador, ucciso nel 1980 da un killer del regime dittatoriale militare, per aver denunciato di fronte al mondo, con grande coraggio, le violazioni dei diritti umani, i furti di terre perpetrati dai grandi proprietari terrieri a danno del popolo, la scomparsa nel nulla di molti oppositori del regime…
Contemporaneamente, egli insegnò l’importanza di una lotta non violenta, esortando a prendere le distanze dalla guerriglia armata di rivoltosi violenti quanto i soldati del regime, a cercare altre vie…
Mons.
Romero fu un profeta della non violenza attiva: si potrebbero fare molti altri esempi.
 

Un sereno e fruttuoso 2010

In occasione delle festività natalizie la redazione di RR porge a tutti i suoi lettori vivi e sentiti auguri di buone feste.
La benedizione del Signore sul nuovo anno perché possiate realizzare tutti i vostri progetti di bene.

La Chiesa in decadenza? Mai stata così fiorente

Sono molte le lettere che denunziano una decadenza della Chiesa, descritta anche in termini drammatici.
Vengono proposte cause e rimedi per questo fenomeno.
Qui considereremo il fatto della decadenza (esiste o non esiste?), alcune ragioni di questo fatto e qualcuno dei rimedi proposti.
Ma vorrei prima esporre alcune mie convinzioni.
Primo: sono dell’avviso che la storia ci mostri come la Chiesa nel suo insieme non sia mai stata così fiorente come essa è ora.
Per la prima volta ha una diffusione veramente globale, con fedeli di tutte le lingue e culture; può esibire una serie di Papi di altissimo livello, una fioritura di teologi di grande valore e spessore culturale.
Malgrado alcune inevitabili tensioni interne, la Chiesa si presenta oggi unita e compatta, come forse non lo fu mai nella sua storia.
Secondo: la Chiesa non va vista solo nel suo aspetto istituzionale, identificandola per giunta con la gerarchia, cioè con i preti, i vescovi e il Papa.
Essa è composta da tutti coloro che credono in Gesù Cristo Figlio di Dio, attendono la sua venuta definitiva, lo amano e si comportano col prossimo come con Gesù stesso.
Fanno parte o sono chiamati a far parte della Chiesa anche tutti gli altri uomini, i quali, come si esprime il Concilio Vaticano II, hanno «un solo fine ultimo, Dio, del quale la provvidenza, la testimonianza di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti» (Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, n.
1).
Terzo: una tale società esiste nella storia e quindi ha anche bisogno di una struttura visibile.
Perciò esiste nella Chiesa anche l’aspetto istituzionale, la cui configurazione però è primigenia solo in pochi punti.
Per il resto è sottoposta alla legge dell’adattamento e del cambio, con risultati più o meno felici, come appare chiaramente dalla storia della Chiesa.
Ma di tutte le istituzioni di questo mondo essa è tra quelle che sono durate più a lungo e che hanno mostrato nei secoli una capacità grande di rinnovamento e di cambio.
Basta pensare ai giorni del Concilio Vaticano II e alla carica di gioia che esso fece esplodere.
Quarto: molte delle lettere contengono osservazioni oggettive, ma che nascono dalla considerazione del nostro mondo occidentale.
Esse non tengono conto della vivacità e della gioia che si trova nelle chiese dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina.
Vengo ora ad alcune risposte alle singole lettere.
Alla prima dico che il senso profondo di Dio e di Gesù Cristo è dato congiuntamente da una sensazione del cuore e dalla corrispondenza di questo sentimento con la grande Tradizione.
Essa, come dice il Concilio Vaticano II, progredisce «sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che essi provano nelle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità» (Costituzione dogmatica Dei Verbum, n.
8).
Mi pare qui molto ben descritto quanto avviene nel cuore dei credenti.
E io ne ho conosciuti tanti così, anche in Occidente.
Alla seconda: la lettera contiene osservazioni oggettive e in parte condivisibili.
Ma v’è anche da tener presente il tanto bene che c’è nella Chiesa, il fervore di molti laici, la dedizione di molti preti.
Io ne ho conosciuti tanti e per questo posso parlare così.
Sull’ultima proposta mi esprimerò più sotto.
Per la terza lettera rimando a quanto ho detto sopra sulla Chiesa come istituzione storica, legata quindi anche ai rivolgimenti del mondo ma ancorata nella sua fede e speranza in Dio e capace di rinnovarsi continuamente.
Essa ha avuto il coraggio, negli ultimi tre secoli, di sottoporre ad analisi critica le proprie fonti.
Ha saputo perciò riconoscere e quanto nelle antiche storie sia dovuto al genere letterario e quale prezioso messaggio esse contengano.
Convengo con l’autore della quarta lettera (e di molte altre che non trovano spazio per la pubblicazione) sulla noiosità di non poche prediche domenicali.
Bisogna anche riconoscere che l’omelia è un genere difficile.
Sono anche d’accordo sul fatto che ci voglia più gioia.
Sant’Agostino diceva a questo proposito: «gaudens catechizet», cioè si faccia la catechesi con gioia.
27 dicembre 2009 Eminenza, sono credente ma mi sento disarmata da questa Chiesa che non mi fa sentire dentro la sensazione che io chiamo Dio e che mi stravolge quando sono davanti a un cielo stellato, al sorriso dei bimbi, a una donna o a un uomo.
La Chiesa deve ritrovare la purezza e l’umiltà che sento nel Vangelo e deve concentrarsi di più sul perdono invece di accanirsi nel giudizio.
Roberta Preti, Piacenza Gentile Cardinale, la Chiesa sta impoverendosi di fedeli e ancora non reagisce proponendo idee al di fuori di una bonaria e banale socialità.
Se lei vuole dire qualche cosa al mondo, sia coraggioso e proponga riforme quali l’abolizione del celibato dei preti ed un coinvolgimento più incisivo dei laici nella comunità.
Francesco Bertini Milano Eminenza, la Chiesa sta morendo.
Un’istituzione, che per sua stessa natura, è immutabile non può resistere ai mutamenti avvenuti nell’ultimo secolo e negli ultimi anni.
Il progresso scientifico, il cambiamento dei costumi e del modo di pensare in seguito alla diffusione di Internet: tutto questo ha portato ad uno sgretolamento del controllo che finora ha esercitato la Chiesa cattolica.
Come si fa a credere, oggi, che Dio abita nel Cielo, che esiste un inferno, che Gesù è salito in cielo dopo essere morto? Fra qualche centinaio di anni verremo sbeffeggiati perché credevamo alle storie raccontate nella Bibbia.
Paolo Rosa, Pavia Al centro delle mie riflessioni ci sta la Messa.
Tanti vanno e tanti ne sono delusi, tanti non vanno.
Il rito si è svuotato di quello che forse fu: ascoltare la parola di Gesù attraverso quelle del parroco.
Tanti concetti sono presenti nella vita di oggi che ci rimandano ai Vangeli, tante parole di Gesù sono piene di significati moderni, tante vite sono rappresentate nei Vangeli.
Ma io non trovo tutto questo nella messa di oggi, troppe parole astratte, troppi riferimenti banali, troppa morale e poco indirizzo concreto.
Qualche volta sembra che la debolezza dei parroci sia la debolezza della Chiesa.
Manca la passione, la sofferenza ma anche la gioia.
Roberto Rossi ,Arezzo

Natale a scuola

Torna anche quest’anno, ancora una volta, la polemica sul presepe a scuola.
Di scuole, classi e docenti che non festeggiano il Natale o non si curano di allestire il presepe in Italia ce ne sono a centinaia (o forse a migliaia), ma non arrivano quasi mai agli onori delle cronache.
L’ultimo caso riportato dai giornali e di cui si è occupato lo stesso ministro Gelmini viene da Cremona, dove in una scuola elementare, per iniziativa a quanto sembra di un maestro, la festa del Natale è stata abolita e sostituita da una generica e pacifista “festa delle luci”.
Secondo la Gelmini “non si crea integrazione e non la si aiuta eliminando la nostra storia e la nostra identità.
In particolare il Natale contiene un messaggio di fratellanza universale.
Quindi è un simbolo che non divide ma unisce”.
Commentando la decisione della scuola ha precisato che essa “non è da me condivisa e non la trovo utile, pur nel rispetto dell’autonomia di ogni singola scuola”.
“La Festa delle luci” ha sostituito da qualche anno quella di Natale.
E non solo a Cremona, ma in altre scuole italiane.
La decisione sarebbe stata assunta d’intesa con i genitori e senza mai che ci fossero rimostranze, secondo una particolare idea di ospitalità, nel presupposto che si tratterebbe di una scuola interculturale.
Per il ministro leghista delle Politiche Agricole, Luca Zaia, si tratta di “un altro harakiri culturale perpetrato da un finto educatore sulla pelle dei nostri bambini”.
Negli ambienti della curia cremonese si fa notare che “non è però azzerando la propria identità che si può onorare il dialogo interculturale e religioso.
Questo atteggiamento in termini psicologici si chiama perdita dell’autostima.
Ed è una malattia da curare”.
Se in Italia c’è chi lascia la tradizione del presepe e la festa del natale in nome dell’integrazione culturale e del rispetto degli altri, in Olanda, più o meno per le stesse ragioni, c’è chi decide di eliminare anche l’albero di natale.
È accaduto all’Aja in un istituto scolastico dove la dirigenza ha deciso di non innalzare il tradizionale albero di Natale che per consuetudine ogni anno faceva bella mostra di sé nell’androne dell’istituto.
La direzione della scuola ha motivato la decisione con il carattere internazionale dell’istituto, frequentato per circa il 40% da studenti e docenti di diverse nazionalità, perché questi non si identificherebbero “in un simbolo, prettamente cristiano, come l’albero di natale”.
Ma l’iniziativa non ha trovato d’accordo molti dei ragazzi che frequentano l’istituto che si sono mobilitati, portando l’accaduto all’attenzione dei giornali e di alcuni politici e sostenendo che “chi arriva da altri paesi per studiare in Olanda lo fa anche per entrare in contatto e sperimentare una diversa cultura”.
Dopo aver preso posizione contro, gli studenti hanno rimesso l’albero al suo posto; la direzione della scuola ha accettato la decisione degli studenti, ribaltando la precedente decisione, lasciando l’albero al suo posto anche in seguito alle numerose reazioni che si sono succedute sull’argomento.
Per alcuni politici della destra ciò che è accaduto è l’ulteriore dimostrazione di quanto i Paesi Bassi stiano vivendo un vero e proprio “dramma” a causa di una “società multiculturale”.

Svolta verde del Vaticano

Il Vaticano diventerebbe così il primo Stato a ottemperare completamente al protocollo di Kyoto, azzerando le sue emissioni di gas serra.
E ottenendo un notevole risparmio per l’acquisto di energia elettrica, di carburante o per «pagare» le multe previste da Kyoto se si sforano i tetti assegnati.
Per il momento è ancora un’idea, non sono stati sviluppati dei piani operativi, cioè non c’è ancora un progetto esecutivo, ma vista l’ottima esperienza che la Santa Sede ha fatto con la copertura a pannelli solari della Sala Nervi, quella delle udienze papali del mercoledì, che da oltre un anno fornisce una quota importante del fabbisogno della Sala e dei palazzi limitrofi, al Governatorato dello Stato della Città del Vaticano hanno pensato di estendere l’esperimento.
I pannelli fotovoltaici che ricoprono l’Aula intitolata a Paolo VI assicurano già una produzione annua di 300 megawattora pari a 25mila tonnellate di anidrite carbonica non emessa da consumi termici ed elettrici, consumi più o meno fissi, esclusi quindi dal calcolo quelli da mobilità.
Energia pulita prodotta dal generatore solare e immessa nella rete elettrica vaticana.
Il che equivale ogni anno a 80 tonnellate di petrolio non consumato grazie alla «conversione» (in Vaticano usano proprio questo nome) dei malandati pannelli di calcestruzzo e le migliaia di tegolini originali dell’Aula progettata da Pier Luigi Nervi, usurati dal tempo e anche tecnologicamente obsoleti, con 2400 moduli fotovoltaici donati al Vaticano e al Papa tedesco, dalla tedesca SolarWorld Ag e dal suo presidente Franz Asbeck.
Era il 2006.
Nel frattempo si è pensato anche ad utilizzare il «solar cooling» per climatizzare una mensa che fornisce pasti a tre, quattrocento persone al giorno.
L’impianto è in cantiere e alla fine sarà fatto di 300 metri quadrati di collettori solari a tubi sottovuoto.
E saranno altre 30 le tonnellate di petrolio annue non consumate.
Mentre i consumi energetici della villa papale di Castelgandolfo ai Castelli romani potrebbero essere sostenuti utilizzando le biomasse, cioè le linee cellulosiche e le deiezioni animali.
C’è infine il progetto di ammettere nella città pontificia solo auto elettriche.
E l’idea alimentare le strutture di San Giovanni Rotondo, centro della devozione a San Pio da Pietralcina, (la Basilica appartiene alla Santa Sede) con tecnologie fotovoltaiche.
Ma, naturalmente è il progetto di Santa Maria di Galeria, quello più importante e decisivo.
Nella «missione impatto zero».
C’è naturalmente un profilo tecnico ed economico che spinge in questo senso, per far quadrare i bilanci el piccolo Stato, ma c’è ne è un altro simbolico e spirituale: il rispetto del Creato cui tanto spesso ci hanno richiamato gli ultimi due Papi e Benedetto XVI in particolare, anche oggi.
Missione: «impatto zero».
Il Vaticano intende creare a Santa Maria Galeria, alle porte di Roma, la più grande centrale solare d’Europa.
Attraverso l’energia prodotta dai pannelli che saranno stesi su buona parte dei 300 ettari «extraterritoriali» che appartengono allo Stato della Chiesa in quella località, finora nota solo per le antenne della Radio vaticana e per una brutta storia di inquinamento elettromagnetico, con denunce e anche un tormentato processo penale.
Ebbene, Santa Maria di Galeria potrebbe diventare il segno più evidente della «opzione verde» del Vaticano.
Perchè si compenserebbero a regime (tre o al massimo cinque anni) le oltre 91 mila tonnellate di anitride carbonica (Co2) che lo Stato più piccolo al mondo rilascia annualmente.

“I nostri sono valori non negoziabili”

«L´uomo non è un semplice prodotto della natura.
E´ questa la base su cui poggiano tutte quelle tematiche che Benedetto XVI riassume, per cattolici, credenti, non credenti e uomini di buona volontà, quando parla di “valori non negoziabili”».
Valori che – ricorda il Papa – hanno come fine ultimo la difesa della vita dal concepimento fino alla fine naturale.
Di valori non negoziabili – ma non solo – si parlerà a Roma al convegno «Dio oggi.
Con Lui o senza di Lui cambia tutto», organizzato dal cardinale Camillo Ruini, presidente del Progetto Culturale Cei.
Un confronto sullo stato di “salute” della fede, anche per ribadire la strada maestra che i cattolici doc devono seguire nelle scelte sociali.
Cardinale Ruini, perché un convegno dedicato a Dio oggi? «Per due ragioni.
La prima è il nostro compito di sempre: annunciare e rendere testimonianza a Dio è infatti la missione essenziale della Chiesa.
La seconda ragione riguarda l´attuale contesto culturale, nel quale è forte la negazione di Dio, o almeno la convinzione che di Dio la ragione umana non possa sapere nulla, ed eventualmente solo la fede, come fatto soggettivo, possa aprire una strada verso Dio».
Dio discusso come un qualsiasi altro argomento culturale: non c´è il rischio di banalizzarlo? «Promuovere un confronto culturale riguardo a Dio significa cercare di adempiere al mandato contenuto nella prima lettera di Pietro: “Rendere ragione della speranza che è in noi”.
Non significa però pensare che Dio possa essere “padroneggiato” dai nostri discorsi e neppure significa dimenticare che quella di Dio non è soltanto una questione dell´intelligenza: è una questione di tutto l´uomo, che mette in gioco la nostra libertà, sensibilità, il senso e l´orientamento della nostra vita».
Con questo convegno spera di poter fermare, almeno in parte, l´attuale processo di scristianizzazione? «Non penso di poterlo fermare, ma di poter in piccola misura dare un contributo per orientare il divenire della cultura italiana in una direzione più aperta alle piene dimensioni dell´intelligenza e della libertà dell´uomo che, come dicono i teologi, è “capace di Dio”, e rimane tale anche nell´Italia e nell´Occidente di oggi».
Anche la Chiesa ha colpe per questa scristianizzazione? «Tra gli uomini e le donne che formano la Chiesa, accanto a molti santi e autentici testimoni di Dio, vi sono, e temo vi saranno sempre, anche dei testimoni meno attendibili, tra i quali penso purtroppo di rientrare anch´io.
Dio stesso, però, ci chiama tutti a una testimonianza più generosa e più coerente: questo è anzitutto un dono di Dio, per il quale personalmente prego ogni giorno».
La sentenza del Tribunale di Strasburgo che impone di togliere i crocifissi dalle scuole italiane non è in parte figlia di questo processo di scristianizzazione? «Lo è certamente, e mostra l´ambiguità di questo processo.
Infatti, pensando di tutelare al massimo la libertà del singolo, il Tribunale ha trascurato di salvaguardare la libertà di espressione di un popolo, le sue tradizioni, la sua cultura, il sentimento profondo che lo lega alla croce di Cristo».
Rilanciare Dio nella società di oggi significa anche rilanciare temi morali cattolici come la difesa della vita, la condanna dell´aborto, il no all´eutanasia, la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna che Benedetto XVI ha più volte definito “non negoziabili”? «Obiettivo dell´evento internazionale su Dio è affrontare quel grande tema che è Dio stesso, la sua esistenza, il suo vero volto, il suo significato per noi.
Di per sé, non entreremo dunque negli argomenti da lei indicati.
E´ vero però che soltanto se Dio esiste, l´uomo, ogni essere umano, può essere qualcosa di più e di diverso da un semplice prodotto della natura, può essere un fine in se stesso.
Questa è la base comune di tutti i temi che Benedetto XVI ha definito “non negoziabili”: una base che può rimanere anche soltanto implicita, perché il valore dell´uomo ha una sua immediata evidenza».
A chi è destinato il messaggio legato a Dio oggi? Politici, gente comune, uomini di Chiesa? «E´ destinato a tutti, non in particolare all´una o all´altra categoria, anche se il tipo di trattazione di un incontro di questo genere è più facilmente accessibile per chi ha una certa preparazione culturale».
Ma preti, vescovi, cardinali e papi hanno sufficiente attenzione verso Dio? «Benedetto XVI ha scritto, nella sua lettera ai vescovi del 10 marzo scorso, che per lui e per la Chiesa tutta rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l´accesso a Dio è la priorità che sta al di sopra di tutte le altre.
E´ una parola che ci interpella tutti e dalla quale mi sento personalmente interpellato nel profondo».
in “la Repubblica” del 10 dicembre 2009

Con gli artisti papa Benedetto fa da cicerone

Gli artisti dal Papa.
Mi dispiace per gli assenti di Ferdinando Camon in “La Stampa” del 24 novembre 2009 Domenica, su questo giornale, ho raccontato l’incontro del Papa con gli artisti.
Lunedì è uscita una lettera-commento di Alain Elkann: sostanzialmente la scrittura di un altro articolo.
Elkann mi rimprovera di aver avuto con l’incontro un approccio leggero.
Io ho detto che noi tutti, cattolici e non, lo aspettavamo da una vita: dire che lo aspettavamo da prima della nascita mi risultava difficile.
Elkann si sofferma sulla quantità di arte, altissima, che circondava l’evento.
E’ vero, era una cornice grandiosa.
Ma se l’incontro fosse consistito in quella musica e quella pittura, pochi di noi ci sarebbero andati.
Siamo andati per sentire il discorso.
Dopo 45 anni, un Papa parlava di arte agli artisti: l’evento stava qui.
Per me come per tutti, visto che tutti gli articoli parlano solo del discorso.
Un discorso alto e complesso, ma anche rischioso.
Non tutto mi lascia tranquillo.
Sul Giudizio Universale di Michelangelo chiedo a Elkann di comprendermi: nessun artista cattolico lo può contemplare con libera gioia, come fa Elkann, per una ragione grave, anche ai fini del tema che il Papa trattava: su quell’opera di Michelangelo la Chiesa cattolica sbagliò.
Quando Michelangelo aprì le porte e invitò il Papa e i cardinali a venire a vedere il lavoro finito, nel Papa e nei cardinali si diffuse la costernazione.
Un cardinale sussurrò: «Un inutile sfoggio di sapienza anatomica», e un altro: «Non è una sala papale, è una sala termale».
Ogni volta che vedo la Cappella Sistina questo giudizio mi affiora nel cervello, doloroso e insopprimibile.
Il rapporto della Chiesa con gli artisti, fino a Fellini, fino a Pasolini, a Testori, a Tondelli, è un problemaccio.
Sul discorso del Papa, e sui problemi arte-morale, mi sarebbe piaciuto restare un giorno di più, e parlarne tra di noi ospiti.
Se il Papa, come ha annunciato con quell’«Arrivederci», ripeterà l’incontro, ci terrei a che questo avvenisse.
Tra noi chi? Ho detto: di area cristiana.
Fin dove arriva l’area cristiana? Fin là dove la parola del Papa trova attenzione.
Lo ha detto il Papa stesso.
Fra tutti coloro che se il Papa chiama e li invita a venire, gli riconoscono autorità e vengono.
Elkann è tra i primi.
Ma i maggiori scrittori d’Israele, Yehoshua, Oz e Grossman, han rifiutato in blocco.
Hanno ritenuto che il tema o l’oratore non meritassero ascolto? Con pieno diritto, se è così.
Elkann glissa sul fatto, come se non importasse.
A me ha dato delusione e dispiacere.
Ma non facciamone una guerra di religione.
Ci è stato detto: «Arrivederci», rispondiamo: «A presto».
Una carezza del pontefice alla cultura di Lorenzo Mondo in “La Stampa” del 24 novembre 2009 La sera prima dell’udienza papale nella Cappella Sistina, Ferdinando Camon, che si trovava in vena di ombrosità teologiche, mi trascinò con un gruppo di amici a parlare di crisi della cristianità, della difficoltà che prova spesso la Chiesa a farsi comprendere dagli stessi credenti, si tratti di Trinità o di giudizio finale.
Di qui, il suggerimento di un auspicabile incontro con il Papa, seguito da un convegno di intellettuali di area cristiana, per dibattere intra moenia su certi problemi.
Era una chiacchierata nei Musei Vaticani, davanti a due tartine e un calice di vino.
Troppo poco per lasciar presumere – come ha fatto Camon in un suo articolo – la contrarietà mia e di altri a quello che sarebbe occorso l’indomani; per segnalare in particolare una avversione all’invito rivolto da Benedetto XVI (tramite monsignor Ravasi) ad agnostici e cultori di altre fedi religiose.
Non si possono davvero confondere tempi, contesti e discorsi diversi.
Per quanto mi riguarda, sono invece profondamente grato per essere stato accolto tra tante persone di talento in quella Cappella Sistina che – come ha rimarcato Alain Elkann – è «patrimonio comune dell’umanità al di sopra di qualsiasi razza o religione».
Ed ho apprezzato il discorso del Papa, limpido ed elevato, tale da mettere in imbarazzo molti suoi critici.
Benedetto XVI ha voluto esprimere, con tratti di affettuosa gentilezza, l’amicizia della Chiesa – testimoniata da una storia millenaria e dal possente Giudizio michelangiolesco – per chi si applica a creare e scandagliare la bellezza.
E questa, al di là di ogni superficiale appagamento o estetistica bellurie, deve essere intesa nella sua proiezione verticale, come finestra aperta sull’assoluto, sul mistero dell’uomo, sulla sua originaria nobiltà.
Ed era suggestiva l’analogia che, appoggiandosi ai nomi di Simone Weil, Dostoevskij, Hermann Hesse, Von Balthasar, ha saputo istituire tra l’ispirazione artistica e quella religiosa: «Una funzione essenziale della vera bellezza, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia”…”.
Come ha detto con epigrafica efficacia il regista Tornatore, si è avvertita, in quelle parole, rivolte senza esclusione a tutti i presenti, “una carezza del Papa alla cultura”».
Il bello non ha etichette né religione di Alain Elkann in “La Stampa” del 23 novembre 2009 Caro direttore, ho letto l’articolo «Noi artisti davanti al Pontefice» pubblicato da La Stampa domenica 22 novembre 2009 a firma Ferdinando Camon.
Vorrei dire all’autore che ho trovato nel racconto della cerimonia in certi punti una licenza poetica scherzosa e ironica che faceva assomigliare la solenne giornata di ieri a una sfilata di moda.
Io non mi sarei mai permesso di scrivere tali cose data la solennità e la simbologia di tale giornata viste le personalità presenti e la sacralità del luogo prescelto da Benedetto XVI: la Cappella Sistina.
Avrei scritto che ringraziavo Monsignor Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per aver organizzato con i suoi collaboratori un evento così significativo.
Voglio ringraziare il Santo Padre per aver scelto un luogo così importante, un’icona così unica per coniugare la bellezza – su cui era incentrato il discorso del Pontefice -, la religione, la spiritualità, il talento e la Chiesa, visto che nella medesima Cappella Sistina, come ha ricordato Benedetto XVI con commozione, si tengono i conclavi e proprio lì in quel luogo Lui è stato eletto al Soglio di Pietro.
Devo dire che pareva strano vedere arrivare in quella Cappella così famosa architetti, poeti, pensatori, cantanti, cantautori, registi, romanzieri che si stupivano di vedersi lì laici, cristiani, buddisti, ebrei e musulmani credenti e non credenti ma tutti in attesa del Papa.
Tutti curiosi di sapere o di provare a capire con quali criteri il Vaticano avesse scelto proprio loro per presentare il mondo dell’arte e della cultura.
Il regista Maselli parlando del Papa e del perché era venuto e del perché aveva accettato quell’invito, ha detto: «Comunque non capita ogni giorno di essere invitato da un Capo di Stato».
A un certo punto ci è stato chiesto in italiano e in inglese di spegnere i nostri cellulari, di stare in silenzio, in raccoglimento ad attendere il Padre.
Quel silenzio rispettoso dell’attesa era bello perché metteva tutti ad un livello di parità e di rispetto verso il Papa e il suo atteso discorso, poi quando è arrivato c’è stato un applauso e quando ha finito di parlare ce n’è stato un altro lunghissimo che confermava l’ampio consenso verso le parole del Pontefice ma soprattutto verso quell’iniziativa.
Nell’ultima parte dell’articolo di Camon ho letto, a dir poco con stupore, certi propositi tra l’altro accomunando nomi di persone che conosco bene e che so avere pensieri ben diversi, mi riferisco all’amico Lorenzo Mondo, biografo di Pavese e all’amico Ernesto Ferrero, biografo di Primo Levi.
C’era scritto: «Sarebbe bello che gli artisti del mondo si ritrovassero ogni 10 anni qui nella Cappella Sistina, ma due giorni, uno ad ascoltare il Papa e uno a confrontarsi tra loro».
Sarebbe meglio se fossero solo artisti cristiani (Mondo corregge di area cristiana).
Non credo che persone quali Zaha Hadid, Arnoldo Foà, Daniel Libeskind (architetto che ha realizzato il Museo dell’Olocausto di Berlino) o altri siano stati invitati lì per caso e se ricordo bene nel discorso il Papa si è rivolto a «Cari e illustri artisti, appartenenti a Paesi, culture e religione diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa Cattolica…».
Io credo di essere stato invitato in quella giornata in quanto scrittore di lingua italiana, ebreo che ha sempre lavorato per il dialogo interreligioso.
Allora quando si legge «solo artisti cristiani» mi viene un brivido «non piacevole» e mi accorgo con tutto il rispetto che abbiamo interpretato in modo assai diverso una grande giornata alla quale sono grato e orgoglioso di aver partecipato con tanti uomini e donne di talento, tutti accomunati, dovunque fossero seduti, innanzitutto uguali, assolutamente uguali, in quella Cappella Sistina che Michelangelo e altri grandi maestri come Perugino, il Ghirlandaio, il Botticelli hanno saputo elevare a capolavoro assoluto dell’arte e patrimonio comune dell’umanità al di sopra di qualsiasi razza o religione.
Ieri nella Cappella Sistina e poi nei lunghi corridoi e nei saloni di Palazzo Vaticano ho sentito che si respirava un clima di soddisfazione, di consenso.
La Chiesa aveva deciso in modo solenne dicendo: noi abbiamo bisogno di voi, di gratificare l’arte e gli artisti e questo dal Papa ai Cardinali ai Vescovi fino alle Guardie Svizzere che battevano i tacchi e facevano il saluto al poeta Conte, al poeta Rondoni, all’architetto Botta, allo scrittore Raffaele La Capria e molti altri.
L’arte in quel sabato 21 novembre in Vaticano ha ritrovato il suo posto e anche il rispetto dovuto.
Si capiva bene che tre grandi Pontefici quali Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI in un filo rosso sottile che li univa sentivano che gli artisti nella storia spirituale della Chiesa avevano un ruolo centrale.
Del resto l’ispirazione di un artista e la fede sono cose tra loro molto molto vicine.
Ma la vera lezione che ho tratto dalla giornata di ieri nella Cappella Sistina è che il bello non ha etichette perché è soltanto bello.
“Noi artisti davanti al pontefice” di Ferdinando Camon in “La stampa” del 22 novembre 2009 Dovevamo essere 250, ma siamo certamente di più, nella Cappella Sistina, invitati dal Papa.
Scrittori, registi, pittori, scultori…: artisti di tutto il mondo.
Tutti, cattolici e non, aspettavamo da una vita d’incontrarlo.
Ed ecco, l’incontro avviene.
E non su richiesta nostra, ma sua.
Una gentile email è piovuta nel nostro computer, c’informava che era «desiderio del Santo Padre incontrarci» per parlarci del nostro lavoro, di come molta arte oggi si chiude in se stessa e non si preoccupa di raggiungere un fine etico: che è ciò di cui l’umanità ha più bisogno.
Leggo l’e-mail, e mi sembra eufemistica: in realtà le cose stanno anche peggio.
La distinzione non è fra arte autoreferenziale e arte morale.
Tantissima arte oggi, specie nel campo dello spettacolo, soprattutto cinema, punta al denaro: se vuoi fare un film, dev’essere un affare.
E l’affare lo fai (anche in tv, anche nel libro, anche nel teatro…) se cedi agli istinti del pubblico, lo compiaci o lo peggiori.
Benedetto XVI vuol parlarci di questo? Vuol parlarci del bisogno dell’umanità di avere un’arte che la migliori, un’arte in cui la bellezza rimandi alla trascendenza? Grande tema.
Non sono d’accordo con gli invitati che han rifiutato: approvavo in pieno Yehoshua, Oz e Grossman, ma visto che non sono venuti, ora ho qualche riserva.
Ognuno di noi ha un vistoso «passi» penzoloni sul petto, con nome e cognome.
Sul retro è stampato un numero, che indica il nostro posto a sedere nella Cappella.
Infinite curiosità e malignità sui numeri.
Impossibile che siano casuali.
Rispondono certamente a una gerarchia.
Siamo stati valutati e pesati, chi merita la prima fila e chi l’ultima.
C’è di peggio: un buon terzo dei presenti finisce dietro la transenna, da dove non vede nemmeno il Papa.
Viviane Lamarque viene da me a lamentarsi.
Ma tutti ci domandiamo: che graduatoria è? di artisticità, di cattolicità? Nanni Moretti sta tre file davanti a me, come Carlo Lizzani, Andrea Bocelli sta davanti a tutti, la Pamela Villoresi viene due numeri dopo di me: io ho il 123.
Mondo e Parazzoli e Doninelli stanno dietro.
Tornatore è tra i primi, come i fratelli Taviani.
Qualcuno maligna: dev’essere il nostro ordine di salvezza eterna, chi si salva facile e chi fa fatica.
Ma pochi minuti dopo scopriremo quant’è vero il detto evangelico «beati gli ultimi».
Alle 11 esatte tutti i faretti si accendono, la luce raddoppia, e tutti si voltano indietro.
Il Papa avanza dalle nostre spalle.
Sorride con mitezza, ora a destra ora a sinistra, parimenti.
Si guarda bene dal concedere privilegi.
Ma improvvisamente fa un gesto inspiegabile: vede due file avanti alla mia, sul lato che dà sul corridoio centrale, il faccione da luna piena di Lino Banfi, il Papa devia con uno scatto improvviso, s’illumina e stende la mano.
Banfi s’inchina con flessuosità e gliela bacia.
A quel punto ho un sospetto: la graduatoria rispetta la mediaticità.
Il Papa sale verso il Giudizio Universale.
Un dolcissimo coro di bambini si alza dalla nostra destra, poi l’arcivescono Ravasi saluta il Papa, che dunque può parlare.
Ecco dove scatta il «beati gli ultimi»: noi delle file anteriori, i prediletti, non sentiamo niente.
Alla fine mi farò dare il testo scritto.
Il Papa ha una visione manzoniana dell’arte: l’artista che fa arte ha una forza, ma l’artista che fa arte etica ha una doppia forza.
Lui incoraggia verso questa doppia forza.
L’artista lavora sul mistero, dice, ma il mistero è il regno del divino, artistico e divino si toccano.
Nel sistema del Papa gira il concetto che le scale dei valori non possono restar separate, alla fine devono per forza toccarsi, e il valore del bene morale prevale su tutti.
E’ stretta la relazione tra arte e trascendenza, tra arte e mistero, fede e arte scavano nel mistero, dunque sono sorelle.
La bellezza salva dalla disperazione.
Definisce «ipocrita» la bellezza che assume i volti dell’oscenità, della trasgressione e della provocazione.
La vera arte, «anche quando scruta gli aspetti più sconvolgenti del male, si fa voce dell’universale attesa di redenzione».
Vorrei sapere se c’è qui la possibilità di una riabilitazione di scrittori cosiddetti immorali (Moravia, Pasolini…) in moralisti: si può orientare alla speranza descrivendo la disperazione.
E allora, la sofferenza dell’artista, poiché ogni opera richiede sofferenza (a volte fino alla morte), può diventare redenzione: è possibile che l’artista si salvi perché è un artista.
Su «Civiltà Cattolica» ci fu chi scrisse che Moravia e Pasolini sono certamente in Paradiso.
Mi pare che il Papa passi vicino a questi concetti, dal suo discorso si possano ricavare.
Finisce con dolcezza, chiude il foglio.
Da noi, seduti, lunghi applausi.
Lui per ringraziare si alza in piedi.
L’arcivescovo Ravasi ci ferma nel corridoio, dà a ciascuno una medaglia-ricordo coniata per l’occasione.
Sul retro c’è il Cristo che piomba su san Paolo, nella via di Damasco, opera di Michelangelo, nella Cappella Paolina.
Una conversione traumatica.
Avrei preferito qualcosa di diverso, e visto che tutto il discorso era d’impronta manzoniana, poteva incidere per noi il monito manzoniano: «Non profferir mai verbo – che plauda al vizio o la virtù derida».
Che vuol dire: Non mettere la tua genialità al servizio dei soldi.
O dei partiti.
Il precedente incontro di un Papa con gli artisti risale a 45 anni fa.
Troppi.
Penso (ne parlo con Lorenzo Mondo, Ernesto Ferrero, Giuseppe Parazzoli, Maurizio Cucchi): sarebbe bello che gli artisti del mondo si ritrovassero ogni dieci anni qui nella Cappella Sistina, ma due giorni, uno ad ascoltare il Papa e uno a confrontarsi tra loro.
Sarebbe meglio che fossero solo artisti cristiani (Mondo corregge: di area cristiana).
Un minimo di pre-intesa, di problemi in comune.
Treni e alberghi ce li paghiamo noi (come stavolta), i rinfreschi li offre la Martini&Rossi: al Vaticano non costa niente.
Sento l’obiezione: un sinodo cattolico-laico? Rispondo: e perché CODICE RATZINGER Sacro e profano in Vaticano di Federico Mello in “il Fatto Quotidiano” del 22 novembre 2009 Questa volta non ci sono ragazzine urlanti per i loro divi, né flash di fotografi.
E il red carpet non è a Cannes, o a Venezia, né tanto meno a Hollywood, ma a Roma, in piazza San Pietro, sotto il colonnato del Bernini.
Alle nove e mezzo, alla spicciolata, si fanno vedere i primi artisti.
Nanni Moretti e Paolo Veronesi arrivano da soli, a piedi.
Antonello Venditti parcheggia la sua Smart in piazza.
I Pooh, manco fossero i Beatles, attraversano via della Conciliazione tra gli applausi.
L’occasione è solenne.
A dieci anni dalla lettera che Giovanni Paolo II inviò agli artisti, anche Benedetto XVI ha chiamato a raccolta artisti di tutto il mondo e di tutte le fedi.
Tra di loro, 260 in tutto, gli italiani la fanno da padroni: ci sono Baglioni, Vecchioni, Venditti, Castellitto e Margaret Mazzantini; Carla Fracci, Raoul Bova, Claudio Amendola e Terence Hill; Franco Nero, Angelo Branduardi (in camicia di lino e sabot), Tornatore, e Nanni Moretti; Carla Fracci, Cocciante, Bocelli, i fratelli Taviani e Morricone.
Tra gli internazionali spiccano le archistar Zaha Hadid e Santiago Calatrava e lo scrittore iraniano Kader Abdolah, che sfoggia una sgargiante sciarpa verde “in solidarietà al mio popolo”.
I giornalisti, con un accredito stampa che necessita di un obolo di 5 euro (con tanto di ricevuta) arrivano in pullmino dentro i Musei Vaticani, a due passi dall’incredibile volta della Cappella Sistina dove gli artisti attendono il Papa.
Alle undici in punto il Pontefice entra tra gli applausi.
Scende il silenzio e parte il coro della Cappella Musicale Pontificia Sistina.
Tocca quindi a Sergio Castellitto leggere alcuni brani della lettera che Giovanni Paolo II inviò agli artisti nel 1999.
Quindi il saluto di monsignor Ravasi: “L’arte si è spesso dedicata solo all’effimero e a esercizi stilistici sempre più provocatori e autoreferenziali”.
E’ il momento del Santo Padre.
Il Papa ricorda come fu Paolo VI per primo, il 7 maggio 1964, a voler incontrare gli artisti per “riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti”.
Ma è alla “Bellezza” che Benedetto XVI dedica il suo discorso.
Bellezza “che richiama l’uomo al suo destino ultimo” anche se “troppo spesso la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia”.
Questa bellezza “mendace”, continua il Santo Padre, “si trasforma ben presto nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa”.
La sala, assorta, annuisce.
Alla fine del discorso “arrivederci” è il saluto.
Uno scroscio di applausi saluta il Pontefice che, annuncia una voce al microfono, “va a ritirarsi nelle sue stanze” .
Monsignor Ravasi consegna ai presenti una medaglia ricordo.
Ha una parola per tutti: “Ciao Don Matteo” rivolto a Terence Hill, poi abbraccia calorosamente Roberto Vecchioni.
A questa punto l’arte, deve scendere dalle altezze dell’assoluto e confrontarsi con la stampa.
I giornalisti aspettano nella straordinaria Galleria Lapidaria, che collega la Cappella Sistina ai Musei Vaticani.
Sulle pareti sono affisse incisioni di epoca romana: “Sono i manifesti murari dell’Antica Roma – ci spiega una guida – annunci di ogni tipo, a partire da quelli funebri”.
Avanzano gli artisti, gentili e disponibili.
Claudio Baglioni è con il figlio Giovanni (“Sono un vostro lettore” ci dice); Andrea Bocelli posa per i fotografi con moglie e figli.
Susanna Tamaro è braccata dalla corrispondente della Bbc: “Cosa ne pensa della censura della Chiesa, come quella della mostra in cui era esposta una rana crocifissa?”.
“Basta non andare a vedere le cose che non piacciono – risponde la Tamaro – e poi, nei paesi musulmani avrebbero permesso un’offesa del genere alla religione?”.
Risposta da riciclare, nel caso, per “Porta a Porta”.
Castellitto e Mazzantini attraversano la sala di corsa, mano nella mano.
Nanni Moretti, il più atteso – nel nuovo film interpreta lo psicologo di un Papa depresso – non si ferma con nessuno.
Paolo Sorrentino dice che è venuto “per curiosità”; mentre Raoul Bova, evidentemente emozionato, attacca a rilasciare interviste e non la smette neanche quando gli altri sono già al “gnam-gnam” come scriverebbe Dagospia.
Effettivamente Umberto Pizzi, il fotografo del sito di D’Agostino, scatterebbe capolavori sotto queste volte sacre.
Il banchetto, riservato solo agli artisti, è offerto dalla Martini, che distribuisce un comunicato: “La presenza di Martini come sponsor unico dell’incontro in Vaticano, ecc.
ecc.”; e peccato se il marchio dell’aperitivo fa tanto “mercanti del tempio” tra le mura vaticane.
Arriva anche Lino Banfi, il nonno d’Italia.
E’ quasi commosso, racconta che il Papa, entrando nella Cappella, con un cenno del capo ha salutato solo lui.
“Probabilmente si è ricordato quando due anni fa, a Valencia, dissi che se io sono ‘L’abuelo d’Italia’, il nonno d’Italia, allora lui è ‘L’abuelo del mundo’”.
Sembra quasi un’amicizia.
Forse è questo il messaggio più bello della giornata: se anche un ex attore comico interprete di memorabili pellicole scollacciate, può diventare amico del Papa, allora c’è speranza per tutti i peccatori.
Artisti e no.
La bellezza salverà il mondo di Davide Rondoni in “Il Sole-24 Ore” del 22 novembre 2009 Il Papa è entrato nella sala della Cappella Sistina rapido e sorridente.
Al seguito poche persone, uno con una borsa di pelle un poco sdrucita.
Ho pensato: forse un medico, o uno con degli attrezzi.
Ma di attrezzi strani non ha avuto bisogno il Papa per parlare a noi cinquecento artisti invitati da tutto il mondo.
È stato semplice e diretto.
Ha detto, in sintesi: l’arte è una finestra sul mistero, sulla bellezza.
Vi offro la mia amicizia, l’amicizia della Chiesa, di questo posto dove l’arte parla da millenni, perché la fede e l’arte hanno qualcosa di simile.
Ad ascoltarlo grandi artisti internazionali, come Bill Viola, famosi architetti come Mario Botta, e nomi e volti italicamente noti, da Moretti a Cocciante, da Sorrentino a Lino Banfi, da Ranieri al simpaticissimo Giacomo del trio di Aldo e Giovanni.
E poi scrittori come Tamaro, Bevilacqua, Parazzoli, Mondo, Doninelli, Elkan, poeti come Cucchi, Conte, Lamarque, Mussapi.
Tutti un po’ in gita e un po’ emozionati.
Gente di molta fede, e gente di fede così così o di nessuna.
O di altra fede.
L’occasione dell’invito, curato da Monsignor Gianfranco Ravasi, è stato dato dal decennale della importante Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II per il Giubileo.
E nel 1964 anche Paolo VI aveva fatto un incontro simile.
Un po’ smarriti e curiosi ci siamo aggirati per le sale dei Musei vaticani.
Gente che si rivedeva dopo trent’anni, o compagni di avventure frequenti.
Venerdì sera il ricevimento, dopo la visita alla parte moderna e contemporanea della collezione d’arte.
La forza del crocefisso di Sutherland.
O le due figure di Previati, Bacon, Boccioni…
E poi nella magnifica Sistina ieri l’incontro con Benedetto.
Che è andato dritto al problema.
Il problema che si chiama: la bellezza.
Che ferisce e attrae, che non ci sta a essere irrisa dal sorrisetto cinico di tanti maestri del pensiero contemporaneo che la trattano come una invenzione del passato.
Che non ci sta a essere solo una specie di esca per mettere in moto brame di possesso.
La bellezza che, insomma, non lascia in pace l’uomo, e dà tormento e visione agli artisti.
Il Papa ha detto che la Chiesa è amica di tutto questo.
Lo è stata lungo i secoli, e se pure qualcuno vorrebbe rompere questa amicizia, se pure tra clericali e gretti laicisti in molti ce la mettono tutta a far fuggire la bellezza dalle stanze del cuore e o delle stanze delle nostre città dove si pronuncia il nome di Dio, questa amicizia non si rompe.
Il Papa l’ha riaffermata.
Lo fa non in nome di una “teoria” cattolica dell’arte, ma di una storia spaventosa di bellezza e di fervore.
E grazie alla forza di pensiero, di testimonianza d’arte e di amicizia che si esprimono in tante figure del nostro tempo.
Non a caso ha citato Simon Weil, Von Balthasar e altri.
La grande scrittrice americana Flannery O’Connor quando le obiettavano che una cattolica non poteva essere una artista nel 900, rispondeva serafica e tagliente che lei proprio perché era cattolica non poteva che essere un’artista nel 900.
Come dire: chi ha un senso vivo del mistero nella vita, chi non accetta la riduzione del cuore a pompa provvisoriamente funzionante, chi conosce l’arte come “ragione in atto”, cioè ragione non ridotta a razionalismo e non bisognosa di fughe irrazionalistiche per toccare il mistero abissale del vivente, ecco, costui nel nostro tempo comprende la attualità dell’amicizia proposta nuovamente ieri da Benedetto.
La storia dell’arte senza la Chiesa semplicemente non ci sarebbe.
Ma quel che la può alimentare non è la resistenza di musei, o un dispiegamento istituzionale di mezzi.
So che al dicastero della cultura pensano di firmare un padiglione di arte vaticana alla Biennale di Venezia.
Mi pare un’azione ambigua.
Quel che alimenterà arte ferita e attratta dalla bellezza come feriva e attraeva Michelangelo sarà l’amicizia nella vita tra uomini di fede e uomini dell’arte.
Così che nella vita degli uni l’arte non sarà una faccenda estranea -come troppe volte ora accade, anche ai più alti livelli di gerarchie e di istituti formativi – e nella vita di noi artisti il volto del mistero che tutto crea anche nelle nostre stesse mani s’incarni nei giorni e nelle ore consuete, e non solo come un profilo sfuggente nella bellezza e nelle ombre.
«Fede e genio siano alleati» di Carlo Marroni in “Il Sole-24 Ore” del 22 novembre 2009 «La fede non toglie nulla al genio».
Ai 260 artisti affluiti ieri nella Cappella Sistina, Benedetto XVI ha lanciato un appello di coesione e riconciliazione, un’esortazione a marciare insieme verso la «Bellezza infinita».
L’evento, a 45 anni dall’incontro con il mondo dell’arte che volle Paolo VI, ha rimarcato l’obiettivo di riaprire il dialogo tra la Chiesa e l’arte, tema che sta a cuore al Papa teologo e musicista.
«Custodi della bellezza», grazie al loro talento, gli artisti hanno «la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano» ha detto nel discorso Benedetto XVI.
«Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza.
Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità.
E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita».
Per Raztinger «l’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo.
Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui.
Troppo spesso la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sè e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia.
Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa».
E alla fine dell’incontro saluta gli artisti con un «arrivederci».
Tra i 260 artisti che il Papa ha incontrato anche Antonello Venditti che, parlando di una «giornata memorabile», non ha nascosto un piccolo rammarico: «Mi trovavo nelle prime file e l’acustica non era delle migliori perciò ho perso le bellissime parole che ha pronunciato il Pontefice.
Tutti ci guardavamo ma nessuno ha avuto il coraggio di dire che non si sentiva».
Poi una sorpresa per gli invitati: un tour nei musei vaticani organizzato dal ministro della cultura del Vaticano, monsignor Gianfranco Ravasi, ideatore dell’evento.
«Una carezza alla cultura in un periodo in cui riceve solo schiaffi» è stato, per Giuseppe Tornatore, il discorso del papa rivolto agli esponenti del mondo della cultura: dal cinema all’architettura, passando per poesia, danza, musica, teatro e fotografia.
Tra i tanti presenti i fratelli Taviani, Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Francesca lo Schiavo e Gabriella Pescucci, Maria Luisa Spaziani, Liliana Cavani, Ugo Nespolo, Claudio Baglioni con il figlio Giovanni, Terence Hill («Don Matteo»), i Pooh nella nuova formazione a tre (applauditissimi in Piazza San Pietro), Sergio Castellitto (che ha letto un brano della lettera di Giovanni Paolo II) con la moglie Margaret Mazzantini, la soprano Daniela Dessì, Riccardo Cocciante, Antonello Venditti, Peter Greenaway, Monica Guerritore, Raul Bova (uno dei pochi con meno di 40 anni), Carla Fracci a Andrea Bocelli con i figli.
Moretti, tra l’altro, sta lavorando proprio in questi mesi ad una commedia ambientata in Vaticano, il cui titolo dovrebbe essere Habemus Papam.
 Dopo aver descritto, nelle precedenti catechesi, fatti e personaggi della teologia medievale, papa Joseph Ratzinger ha scelto di illustrare – tre giorni prima dell’incontro con gli artisti – quei capolavori di arte e di fede che sono le cattedrali romaniche e gotiche, quelle che dopo l’anno 1000 coprirono l’Europa “della bianca veste di nuove chiese”.
La prima lezione che Benedetto XVI ne ha tratto è che l’arte e la fede cristiana si chiamano l’un l’altra, “perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile”.
La seconda lezione è che la bellezza è “la via più attraente ed affascinante per giungere ad incontrare ed amare Dio”.
Sono temi ai quali Ratzinger, come teologo e pastore, è da sempre sensibilissimo.
Più sotto è riprodotta integralmente la sua riflessione di mercoledì 18 novembre.
Ma per cogliere il suo pensiero più dal vivo è utile riandare a ciò che egli disse, parlando a braccio, ai preti della diocesi di Bressanone da lui incontrati nell’estate del 2008.
Si è abituati a pensare a Benedetto XVI come al papa del “Logos”.
I suoi critici lo accusano di razionalismo.
Ma in realtà egli è convinto che “la prova di verità” del cristianesimo non si dà per sola via razionale.
Per lui “sono l’arte e i santi la più grande apologia della nostra fede”.
Ecco infatti che cosa disse a questo proposito quel 6 di agosto, festa della Trasfigurazione di Gesù, ai preti di Bressanone: “Gli argomenti portati dalla ragione sono assolutamente importanti ed irrinunciabili, ma poi da qualche parte rimane sempre il dissenso.
Invece, se guardiamo i santi, questa grande scia luminosa con la quale Iddio ha attraversato la storia, vediamo che lì veramente c’è una forza del bene che resiste ai millenni, lì c’è veramente la luce dalla luce.
“E nello stesso modo, se contempliamo le bellezze create dalla fede, ecco, sono semplicemente, direi, la prova vivente della fede.
[…] Tutte le grandi opere d’arte, le cattedrali – le cattedrali gotiche e le splendide chiese barocche – tutte sono un segno luminoso di Dio e quindi veramente una manifestazione, un’epifania di Dio.
[…] “Abbiamo appena ascoltato il suono dell’organo in tutto il suo splendore e io penso che la grande musica nata nella Chiesa sia un rendere udibile e percepibile la verità della nostra fede: dal gregoriano alla musica delle cattedrali fino a Palestrina e alla sua epoca, fino a Bach e quindi a Mozart e Bruckner e così via…
Ascoltando tutte queste opere – le Passioni di Bach, la sua Messa in si minore e le grandi composizioni spirituali della polifonia del XVI secolo, della scuola viennese, di tutta la musica, anche quella di compositori minori – improvvisamente sentiamo: è vero! Dove nascono cose del genere, c’è la Verità.
[…] “L’arte cristiana è un’arte razionale – pensiamo all’arte del gotico o alla grande musica o anche, appunto, alla nostra arte barocca – ma è espressione artistica di una ragione molto più ampia, nella quale cuore e ragione si incontrano.
Questo è il punto.
Questo, penso, è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo: cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano.
E quanto più noi stessi riusciamo a vivere nella bellezza della verità, tanto più la fede potrà tornare ad essere creativa anche nel nostro tempo e ad esprimersi in una forma artistica convincente”.
Qui di seguito, la sua catechesi di due giorni fa sulle cattedrali romaniche e gotiche: Quando l’Europa si coprì “della bianca veste di nuove chiese” di Benedetto XVI Roma, udienza generale di mercoledì 18 novembre 2009 Cari fratelli e sorelle, nelle catechesi delle scorse settimane ho presentato alcuni aspetti della teologia medievale.
Ma la fede cristiana, profondamente radicata negli uomini e nelle donne di quei secoli, non diede origine soltanto a capolavori della letteratura teologica, del pensiero e della fede.
Essa ispirò anche una delle creazioni artistiche più elevate della civiltà universale: le cattedrali, vera gloria del Medioevo cristiano.
Infatti, per circa tre secoli, a partire dal principio del secolo XI si assistette in Europa a un fervore artistico straordinario.
Un antico cronista descrive così l’entusiasmo e la laboriosità di quel tempo: “Accadde che in tutto il mondo, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si incominciasse a ricostruire le chiese, sebbene molte, per essere ancora in buone condizioni, non avessero bisogno di tale restaurazione.
Era come una gara tra un popolo e l’altro; si sarebbe creduto che il mondo, scuotendosi di dosso i vecchi cenci, volesse rivestirsi dappertutto della bianca veste di nuove chiese.
Insomma, quasi tutte le chiese cattedrali, un gran numero di chiese monastiche, e perfino oratori di villaggio, furono allora restaurati dai fedeli” (Rodolfo il Glabro, Historiarum 3, 4).
Vari fattori contribuirono a questa rinascita dell’architettura religiosa.
Anzitutto, condizioni storiche più favorevoli, come una maggiore sicurezza politica, accompagnata da un costante aumento della popolazione e dal progressivo sviluppo delle città, degli scambi e della ricchezza.
Inoltre, gli architetti individuavano soluzioni tecniche sempre più elaborate per aumentare le dimensioni degli edifici, assicurandone allo stesso tempo la saldezza e la maestosità.
Fu però principalmente grazie all’ardore e allo zelo spirituale del monachesimo in piena espansione che vennero innalzate chiese abbaziali, dove la liturgia poteva essere celebrata con dignità e solennità, e i fedeli potevano sostare in preghiera, attratti dalla venerazione delle reliquie dei santi, mèta di incessanti pellegrinaggi.
Nacquero così le chiese e le cattedrali romaniche, caratterizzate dallo sviluppo longitudinale, in lunghezza, delle navate per accogliere numerosi fedeli; chiese molto solide, con muri spessi, volte in pietra e linee semplici ed essenziali.
Una novità è rappresentata dall’introduzione delle sculture.
Essendo le chiese romaniche il luogo della preghiera monastica e del culto dei fedeli, gli scultori, più che preoccuparsi della perfezione tecnica, curarono soprattutto la finalità educativa.
Poiché bisognava suscitare nelle anime impressioni forti, sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male, e a praticare la virtù, il bene, il tema ricorrente era la rappresentazione di Cristo come giudice universale, circondato dai personaggi dell’Apocalisse.
Sono in genere i portali delle chiese romaniche a offrire questa raffigurazione, per sottolineare che Cristo è la Porta che conduce al Cielo.
I fedeli, oltrepassando la soglia dell’edificio sacro, entrano in un tempo e in uno spazio differenti da quelli della vita ordinaria.
Oltre il portale della chiesa, i credenti in Cristo, sovrano, giusto e misericordioso, nell’intenzione degli artisti potevano gustare un anticipo della beatitudine eterna nella celebrazione della liturgia e negli atti di pietà svolti all’interno dell’edificio sacro.
Nei secoli XII e XIII, a partire dal nord della Francia, si diffuse un altro tipo di architettura nella costruzione degli edifici sacri, quella gotica, con due caratteristiche nuove rispetto al romanico, e cioè lo slancio verticale e la luminosità.
Le cattedrali gotiche mostravano una sintesi di fede e di arte armoniosamente espressa attraverso il linguaggio universale e affascinante della bellezza, che ancor oggi suscita stupore.
Grazie all’introduzione delle volte a sesto acuto, che poggiavano su robusti pilastri, fu possibile innalzarne notevolmente l’altezza.
Lo slancio verso l’alto voleva invitare alla preghiera ed era esso stesso una preghiera.
La cattedrale gotica intendeva tradurre così, nelle sue linee architettoniche, l’anelito delle anime verso Dio.
Inoltre, con le nuove soluzioni tecniche adottate, i muri perimetrali potevano essere traforati e abbelliti da vetrate policrome.
In altre parole, le finestre diventavano grandi immagini luminose, molto adatte ad istruire il popolo nella fede.
In esse – scena per scena – venivano narrati la vita di un santo, una parabola, o altri eventi biblici.
Dalle vetrate dipinte una cascata di luce si riversava sui fedeli per narrare loro la storia della salvezza e coinvolgerli in questa storia.
Un altro pregio delle cattedrali gotiche è costituito dal fatto che alla loro costruzione e alla loro decorazione, in modo differente ma corale, partecipava tutta la comunità cristiana e civile; partecipavano gli umili e i potenti, gli analfabeti e i dotti, perché in questa casa comune tutti i credenti erano istruiti nella fede.
La scultura gotica ha fatto delle cattedrali una “Bibbia di pietra”, rappresentando gli episodi del Vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore.
In quei secoli, inoltre, si diffondeva sempre di più la percezione dell’umanità del Signore, e i patimenti della sua Passione venivano rappresentati in modo realistico: il Cristo sofferente, il “Christus patiens”, divenne un’immagine amata da tutti, ed atta a ispirare pietà e pentimento per i peccati.
Né mancavano i personaggi dell’Antico Testamento, la cui storia divenne in tal modo familiare ai fedeli che frequentavano le cattedrali come parte dell’unica, comune storia di salvezza.
Con i suoi volti pieni di bellezza, di dolcezza, di intelligenza, la scultura gotica del secolo XIII rivela una pietà felice e serena, che si compiace di effondere una devozione sentita e filiale verso la Madre di Dio, vista a volte come una giovane donna, sorridente e materna, e principalmente rappresentata come la sovrana del cielo e della terra, potente e misericordiosa.
I fedeli che affollavano le cattedrali gotiche amavano trovarvi anche espressioni artistiche che ricordassero i santi, modelli di vita cristiana e intercessori presso Dio.
E non mancarono le manifestazioni “laiche” dell’esistenza; ecco allora apparire, qua e là, rappresentazioni del lavoro dei campi, delle scienze e delle arti.
Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia.
Possiamo comprendere meglio il senso che veniva attribuito a una cattedrale gotica, considerando il testo dell’iscrizione incisa sul portale centrale di Saint-Denis, a Parigi: “Passante, che vuoi lodare la bellezza di queste porte, non lasciarti abbagliare né dall’oro, né dalla magnificenza, ma piuttosto dal faticoso lavoro.
Qui brilla un’opera famosa, ma voglia il cielo che quest’opera famosa che brilla faccia splendere gli spiriti, affinché con le verità luminose s’incamminino verso la vera luce, dove il Cristo è la vera porta”.
Cari fratelli e sorelle, mi piace ora sottolineare due elementi dell’arte romanica e gotica utili anche per noi.
Il primo: i capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si tiene conto dell’anima religiosa che li ha ispirati.
Un artista, che ha testimoniato sempre l’incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, ha scritto che “i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia”.
Quando la fede, in modo particolare celebrata nella liturgia, incontra l’arte, si crea una sintonia profonda, perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile.
Vorrei condividere questo nell’incontro con gli artisti del 21 novembre, rinnovando ad essi quella proposta di amicizia tra la spiritualità cristiana e l’arte, auspicata dai miei venerati predecessori, in particolare dai servi di Dio Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Il secondo elemento: la forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche ci rammentano che la “via pulchritudinis”, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio.
Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma sant’Agostino: “Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa.
Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte.
Interroga le fiere che si muovono nell’acqua, che camminano sulla terra, che volano nell’aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida.
Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere.
Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?” (Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134).
Cari fratelli e sorelle, ci aiuti il Signore a riscoprire la via della bellezza come uno degli itinerari, forse il più attraente ed affascinante, per giungere ad incontrare ed amare Dio.

Sulla parificazione degli insegnanti di religione

Oltre alla bocciatura di tutti gli emendamenti presentati dall’opposizione al decreto legge precari, si è registrata oggi anche quella dell’ordine del giorno presentato dalla senatrice radicale Donatella Poretti al Senato, che puntava a “parificare l’assunzione, l’immissione in ruolo e le competenze salariali degli insegnanti di religione cattolica alle condizioni previste per gli insegnanti delle altre materie, nonché a svincolarne l’assunzione dal pronunciamento di idoneità da parte delle curie diocesane”.
La parlamentare eletta nelle liste del Pd ha commentato causticamente il voto sfavorevole: “Tecnicamente si chiama improponibilità perché materia concordataria, politicamente si spiega come impossibilità di ridiscutere i privilegi della Chiesa.
E’ quello che è avvenuto oggi in Senato con il nostro ordine del giorno che chiedeva di parificare i diritti degli insegnanti della scuola pubblica a prescindere dalla materia insegnata, a prescindere dalla fede professata e dal gradimento del vescovo”.
Per questa ragione, secondo la Poretti, “viene da chiedersi se la scuola pubblica sia ancora territorio italiano!”.
La senatrice radicale ha spiegato le motivazioni alla base dell’ordine del giorno presentato: “La nomina dell’insegnante di religione era su segnalazione della curia e prevedeva un contratto annuale, dopo la legge 186 del 2003 è stata prevista la loro messa in ruolo.
Oggi i circa 25 mila insegnanti sono formati e indicati dall’autorità religiosa, ma retribuiti da quella statale.
Discriminati anche in contrasto a direttive europee sulla parità dell’accesso al lavoro sono coloro che non professano la religione cattolica o che non sono graditi alla curia.
Privilegiati anche per retribuzione economica gli insegnanti di religione.
Il nostro ordine del giorno chiedeva al governo di parificare i diritti e di porre fine ai privilegi.
Impossibile anche solo discutere tale ragionevole proposta”.