«Che cosa pensa dei casi di pedofilia tra sacerdoti e religiosi venuti alla luce solo in questi ultimi tempi?».
La domanda del giovane liceale era diretta e richiedeva la risposta leale che mi ero impegnato a dare a quelle diverse centinaia di ragazzi iniziando il mio dialogo con loro.
Non esitai a rispondere quello di cui sono convinto: che la pedofilia è un fenomeno mostruoso, di assoluta gravità morale, perché ferisce personalità indifese nella maniera più indegna e brutale.
Le si possono applicare senza esitazione le parole di Gesù: «Guai a colui a causa del quale avvengono scandali.
È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli» (Luca 17,1-2).
Aggiunsi, però, quanto sia necessario stare attenti a non generalizzare: alcuni casi — in percentuale pochissimi, sebbene anche uno solo basterebbe a suscitare una rivolta morale — non devono far dimenticare l’immensa maggioranza che c’è fra il clero di persone fedeli alla loro vocazione, serie e generose con Dio e con gli altri.
Una maggioranza, questa, che ho potuto conoscere in ogni parte del mondo nel mio servizio di teologo e che ora da Vescovo di una Chiesa diocesana riconosco nella fede e nella carità dei preti e dei consacrati, miei collaboratori.
Proprio in nome di questa maggioranza silenziosa è giusto che il Papa e i Vescovi insieme con lui siano inflessibili nel condannare questi scandali, nel sostenere in ogni modo le vittime, nel correggere, punire e curare i colpevoli.
Il silenzio sarebbe connivenza.
L’indulgenza complicità.
Mai, però, bisogna perdere di vista la persona umana da salvare, tanto nella vittima, quanto nel carnefice.
La Chiesa crede nella parola del Signore: «La verità vi farà liberi» (Giovanni 8,32), e perciò non solo non ha paura della verità, ma ha fiducia nella sua forza liberante e sanante.
D’altra parte, il fatto che su tanti casi di pedofilia che stanno emergendo quelli che più colpiscono i media e l’opinione pubblica siano gli episodi che coinvolgono sacerdoti e consacrati, è un segno eloquente dell’esigenza con cui giustamente si guarda alla Chiesa, del suo dovere di stare in alto, cioè nella grazia e nella fedeltà dell’amore di Dio e del prossimo.
Solo a questo prezzo, la sua parola risuonerà libera e liberante e la fiducia che tanti — credenti e non credenti — ripongono negli uomini di Chiesa non sarà tradita.
E il celibato? Alcuni nel chiasso mediatico sviluppatosi intorno allo scandalo pedofilia hanno puntato il dito contro questa legge ecclesiastica, quasi che chiedere ai sacerdoti l’impegno di rimanere celibi per tutta la vita sia una fonte inevitabile di deviazioni.
Se così fosse, non si spiegherebbe quella stragrande maggioranza di cui ho parlato: nel suo senso più vero e profondo, il celibato non è una frustrazione imposta, ma una libera risposta d’amore a una vocazione che supera certamente le capacità umane e che tuttavia è possibile vivere con fedeltà se essa viene da Dio ed è continuamente confortata dal Suo aiuto e dalla Sua presenza.
Vissuto fedelmente, nella durata dei giorni e nel sempre nuovo sì della fede al Signore vicino, il celibato è un segno meraviglioso della verità di ciò in cui crede chi crede: che, cioè, Dio non è una proiezione dei nostri desideri, un frutto del nostro bisogno di rassicurazione e di consolazione, ma il Vivente, che ti sovrasta ed insieme ti accompagna, che è infinitamente sopra di te ed insieme è dentro il tuo cuore umile, aperto a Lui.
Chi ha esperienza di preghiera sa bene di che cosa sto parlando.
Proprio così, il celibato e la verginità consacrata, vissuti con serena convinzione come una risposta alla chiamata e al dono di Dio, sono come una freccia puntata verso il cielo: ci dicono che Dio c’è, che Lui solo basta al nostro cuore inquieto, che Lui è la speranza del mondo e la patria promessa del nostro comune cammino.
Così il Signore ha dato a me e a tanti la grazia di vivere la nostra consacrazione a Lui: e questo, lungi dal farci sentire meno umani, più fragili o vuoti di amore, ci fa sentire una grandissima gioia, lo slancio di donarci e di testimoniare con la vita l’amore che viene dall’alto e che ci fa liberi, la bellezza di Dio che supera ogni bellezza e dà senso alle opere e ai giorni.
Dico queste parole con umile fierezza: umilmente, perché tutto in questa esperienza è grazia immeritata; ma con fierezza, perché nessuno va ingannato, soprattutto i giovani, e ad essi la Chiesa può e deve continuare a dire a testa alta non solo che Cristo è la verità e il bene, ma anche che Lui è il pastore bello, e la bellezza del Suo amore crocifisso e risorto è la sola che salverà il mondo.
Con buona pace di quanti vorrebbero vedere nella triste e squallida infedeltà di qualche pedofilo, ahimè presente fra le file del clero, la smentita della buona novella, che è il Vangelo dell’amore più grande, speranza per tutti.
in “Corriere della Sera” del 23 marzo 2010
Categoria: Cultura
Crocifisso in aula
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha accolto il ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza che ha sostanzialmente bocciato, il 3 novembre scorso, la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche.
Immediata la soddisfazione del ministro degli Esteri Franco Frattini: “Apprendo con vivo compiacimento la notizia dell’accoglimento, da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, della domanda di rinvio davanti alla Grande Camera del caso Lautzi, sull’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche.
E’ con soddisfazione che constato che sono stati accolti i numerosi e articolati motivi di appello che l’Italia aveva presentato alla Corte”.
Ora il caso sarà esaminato dalla Grande Camera europea.
Strasburgo, no al crocifisso in aula Il governo italiano presenta ricorso Dura reazione della Santa Sede: decisione “miope e sbagliata” La presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche è “una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni”.
E’ quanto ha stabilito oggi la Corte europea dei diritti dell’uomo su istanza presentata da una cittadina italiana.
Ma il governo italiano ha presentato ricorso e, in caso di accoglimento, il caso verrà ridiscusso nella Grande Camera.
Altrimenti la sentenza diventerà definitiva fra tre mesi.
Durissime le prime reazioni, soprattutto nel centrodestra tra i cattolici.
La Cei e il Vaticano attaccano.
Prudente Bersani.
Risarcimento per la donna che ha denunciato.
Il caso era stato sollevato da Soile Lautsi, cittadina italiana originaria della Finlandia e socia dell’Uaar (Unione atei e agnostici razionalisti).
L’Unione precisa di aver “promosso, sostenuto, curato tecnicamente l’iter giuridico, che era già passato da Tar del Veneto, Corte Costituzionale e Consiglio di Stato”.
Soile Lautsi, infatti, nel 2002 aveva chiesto all’istituto statale “Vittorino da Feltre” di Abano Terme, in provincia di Padova, frequentato dai suoi due figli, di togliere i crocifissi dalle aule.
A nulla erano valsi i suoi ricorsi davanti ai tribunali in Italia.
Ora i giudici di Strasburgo le hanno dato ragione, stabilendo inoltre che il governo italiano debba pagare alla donna un risarcimento di cinquemila euro per danni morali.
La sentenza è la prima in assoluto in materia di esposizione dei simboli religiosi nelle aule scolastiche.
La decisione della Corte europea.
I sette componenti della Corte europea hanno sentenziato che la presenza dei crocifissi nelle aule può facilmente essere interpretata dai ragazzi di ogni età come un evidente “segno religioso” e, dunque, potrebbe condizionarli.
E se questo condizionamento può essere di “incoraggiamento” per i bambini già cattolici, può invece “disturbare” quelli di altre religioni o gli atei.
Le reazioni della maggioranza.
In attesa che vengano depositate le motivazioni della sentenza, il governo italiano ha già presentato ricorso.
Per il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, “la presenza del crocifisso in classe non significa adesione al cattolicesimo, ma è un simbolo della nostra tradizione”.
Sulla stessa linea il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli e quello della Giustizia Angelino Alfano.
E’ critico il presidente della Camera Gianfranco Fini: “Mi auguro che la sentenza non venga salutata come giusta affermazione della laicità delle istituzioni, che è valore ben diverso dalla negazione, propria del laicismo più deteriore, del ruolo del Cristianesimo nella società e nella identità italiana”.
L’opposizione.
E’ cauto il neosegretario del Pd Pier Luigi Bersani: “Un’antica tradizione come il crocifisso non può essere offensiva per nessuno.
Penso che su questioni delicate come questa, qualche volta il buonsenso finisce di essere vittima del diritto”.
E l’esponente Udc Rocco Buttiglione parla di “decisione aberrante”.
Il mondo cattolico.
Netta anche la reazione della Cei, che in una nota parla di “sopravvento di una visione parziale e ideologica”.
Per l’Osservatore Romano “tra tutti i simboli quotidianamente percepiti dai giovani la sentenza colpisce quello che più rappresenta una grande tradizione, non solo religiosa, del continente europeo”.
E in serata, a nome della Santa Sede, parla padre Federico Lombardi, secondo cui la decisione rivela un’ottica “miope e sbagliata”, “accolta in Vaticano con stupore e rammarico.
Stupisce che una Corte europea intervenga pesantemente in una materia molto profondamente legata all’identità storica, culturale, spirituale del popolo italiano”.
I precedenti in Italia e Spagna.
L’ultimo round dell’annosa polemica sui crocifissi a scuola si era chiuso a febbraio, quando una sentenza della Cassazione aveva annullato una condanna per interruzione di pubblico ufficio nei confronti del giudice Luigi Tosti, “colpevole” di aver rifiutato di celebrare udienze in un’aula dove era affisso un crocifisso.
Fino al precedente che fece clamore del presidente dell’Unione musulmani d’Italia Adel Smith, protagonista di un episodio analogo e che ora commenta: “Sentenza inevitabile”.
La questione non coinvolge solo il nostro Paese.
Duri scontri tra Stato e vescovi sono avvenuti anche in Spagna nel novembre dello scorso anno, in seguito a una decisione di un giudice di Valladolid di far rimuovere tutti i simboli cattolici da una scuola.
(3 novembre 2009)
Aborto in Europa
IL RAPPORTO: Spiega il saldo demografico negativo Nell’Unione Europea ogni anno si praticano oltre 1 milione e 200mila aborti, un numero equivalente al saldo negativo tra nascite e morti.
Vale a dire che il calo demografico in atto sarebbe azzerato se si lasciassero nascere tutti i bambini concepiti.
È questo forse il dato, contenuto nel Rapporto su «L’aborto in Europa e Spagna», che più dovrebbe far riflettere i governanti dell’Unione.
In effetti le statistiche dimostrano che l’aborto è una delle cause principali dei bassi tassi di natalità in Europa, dove nel 2008 si è registrata una contrazione di nascite del 12,5% rispetto al 1982.
E di conseguenza dell’invecchiamento della popolazione, visto che oggi si contano 6.5 milioni di ultrasessantacinquenni in più rispetto ai minori di 14 anni (85 milioni contro 78.5).
Non solo, l’aborto è la principale causa di mortalità in Europa, 30 volte più degli incidenti stradali (39mila morti nel 2008).
Un’Europa a tre velocità.
Il rapporto mette a confronto le tre diverse grandezze dell’Europa.
Considerando anche i Paesi europei al di fuori della Ue, il conto totale degli aborti, riferito al 2008, è di 2.863.649, in pratica un aborto ogni 11 secondi, quasi 7.500 aborti al giorno.
In pratica ogni anno la diffusione dell’aborto provoca l’eliminazione di un numero di persone equivalente alla somma della popolazione di 4 Paesi: Estonia (1.3 milioni di abitanti), Cipro (0.8 milioni), Lussemburgo (0.5 milioni) e Malta (0.4 milioni).
Gli aborti praticati nei 27 Paesi della Ue rappresentano il 42% (1.207.646) del totale, tenendo però conto che la popolazione residente nell’Unione è circa il 68% dell’intera popolazione europea.
All’interno dell’Europa comunitaria però ci sono notevoli differenze tra il gruppo Ue-15 (il nucleo storico dell’Unione Europea, che rappresenta l’83% della popolazione) e il resto dei Paesi.
Infatti mentre nei 12 Paesi dell’allargamento il decennio tra il 1998 e il 2008 ha visto un calo drastico nel numero degli aborti (-49%, da 550.587 a 281.060), nella Ue-15 si è registrato il fenomeno contrario: un aumento di circa 70mila aborti l’anno, da 855.645 a 926.586 (+8,3%).
I record di Romania e Spagna.
In entrambi i casi risultano decisivi due Paesi: tra i 15, è la Spagna che da sola rappresenta l’87% dell’aumento registrato negli ultimi dieci anni (vedi articolo a parte), mentre nei 12 di recente adesione il caso limite è quello della Romania, dove nel 1994 si praticavano 530.191 aborti, scesi nel 2008 a 127.907.
Da sola quindi la Romania ha registrato un calo assoluto maggiore di quello di tutti i 12 Paesi messi insieme.
Mentre considerando gli ultimi 15 anni la Romania è il Paese che ha registrato il più alto numero di aborti (4.065.904, contro i 3.082.816 della Francia, i 2.988.009 del Regno Unito e 1.998.225 dell’Italia), malgrado il nettissimo calo degli ultimi anni, essa rimane il terzo Paese europeo per numero di aborti, preceduta da Regno Unito (215.975) e Francia (209.913).
L’Italia è invece quarta con 121.406.
Rispetto agli altri tre Paesi (compresi tra i 60 e i 64 milioni di abitanti), la Romania però ha una popolazione complessiva nettamente inferiore (21.5 milioni).
Una gravidanza su 5 finisce in aborto.
Nel 2008 il 18.3% delle gravidanze nella Ue-27 è stato interrotto volontariamente.
Su 6.591.836 gravidanze, infatti, solo 5.384.190 sono state completate con la nascita di un bambino.
Il problema delle adolescenti.
Un aborto su 7 (il 14.2%) nella Ue-27 è stato praticato su ragazze minori di 20 anni, per un totale di 170.932.
Numero che sale a 338.217 se si considerano anche i Paesi europei extra-comunitari.
Rimanendo nell’ambito dei 27 è chiaro che il problema è più grave per il Regno Unito, dove nel 2008 hanno abortito 46.897 adolescenti, contro le 31.779 della Francia, le 14.939 della Spagna, le 14.316 della Romania e le 13.775 della Germania.
L’obiezione di coscienza non sempre rispettata.
Soltanto in due Paesi dell’Unione (Irlanda e Malta) l’aborto è illegale, mentre in 14 è ammesso in certe circostanze e in 11 è invece libero.
Nell’ambito della Ue-15, l’obiezione di coscienza è esplicitamente riconosciuta in undici Paesi: non è prevista invece in Grecia, Svezia e Finlandia.
Generalmente è previsto anche un periodo di riflessione intorno a una settimana.
Tale periodo è obbligatorio in Belgio, Francia, Lussemburgo, Italia, Olanda, Germania, Grecia e Portogallo.
Alcune proposte.
Le politiche di prevenzione dell’aborto finora applicate in Europa hanno mostrato chiaramente di non funzionare, per questo l’Istituto di Politica Familiare (Ipf) chiede un cambiamento radicale nell’approccio al problema, che ruota attorno a un obiettivo di fondo: «La promozione di politiche che garantiscano i diritti dei bambini non nati e il diritto delle donne alla maternità, eliminando gli ostacoli che impediscono la maternità e affermando esplicitamente che l’aborto è un atto di aggressione contro le donne».
Tra le proposte concrete avanzate dall’Ipf troviamo quella di un «Aiuto diretto universale» di 1.125 euro per ogni donna incinta (125 euro per nove mesi), una linea diretta di finanziamento per le associazioni che aiutano le donne durante la gravidanza, la riduzione del 50% dell’Iva sui prodotti basilari per l’infanzia.
Ma questo radicale cambiamento di approccio avrebbe tra gli obiettivi anche quello di rispondere alla drammatica crisi demografica dell’Europa.
E l’Ipf chiede perciò la preparazione di un Libro Verde sui tassi di natalità in Europa, per analizzare la situazione, le sue cause e le soluzioni da individuare.
Riccardo Cascioli Gli appelli generici non bastano più La presentazione del Rapporto sull’aborto in Europa, elaborato dall’Istituto per le politiche familiari e presentato ieri a Bruxelles, piuttosto che assomigliare a un rigoroso resoconto statistico sulla popolazione continentale sembra un bollettino di guerra, l’impietosa fotografia di un massacro silenzioso.
Alcuni dati per capire: in Europa nel 2008 si è consumata la morte di 2,9 milioni di bambini non nati, uno ogni 11 secondi, 327 ogni ora, 7.468 al giorno.
Negli ultimi 15 anni solo nell’Europa comunitaria la cifra è di 20 milioni di bambini che non hanno visto la luce, e l’Italia, insieme alla Gran Bretagna, la Francia e la Romania fa parte del gruppo di testa di questa impressionante carneficina.
L’aborto ha così ormai perso l’immagine di una pratica eccezionale e dolorosa, compiuta per motivi gravi di salute della madre o del piccolo, per diventare in pochi decenni un metodo di controllo delle nascite, entrando nel costume sociale e nel sentire comune come una pratica “normale” che ha progressivamente condotto la coscienza collettiva a non considerarlo un “reato” contro la vita, quanto piuttosto come un “diritto” da parte della donna di autogestire la propria sessualità.
La successiva mistificante evoluzione linguistica, avviata nella Conferenza del Cairo su Popolazione e sviluppo, nel settembre 1994, che ha declinato l’aborto con il concetto di “diritto alla salute riproduttiva”, ha spalancato le porte alle legislazioni nazionali e internazionali, convinte ormai con l’ultima arrivata – la Spagna – che in pieno clima interculturale si debba favorire la convivenza di un sano pluralismo etico.
Non si avverte però l’abissale differenza che separa la semplice accettazione di idee e di comportamenti diversi con l’ammissione devastante che compromette il diritto di esistere di altre persone.
Non si tratta infatti di manifestare opinioni culturali, prive di incidenze sociali, o di scelte etiche che coinvolgono la singolarità della coscienza personale, ma di opzioni che coinvolgono altri, come bambini non fatti nascere e che invece circostanze favorevoli avevano condotto alle soglie dell’esistenza.
Certo è che gli appelli generici non bastano più.
Va al contrario avviata una rivoluzione culturale che trovi un necessario supporto con decise politiche di garanzia e di sostegno per il figlio e la madre.
Lo ha capito bene l’Istituto estensore del Rapporto che alla fine della sua analisi sul desolante sviluppo zero della demografia europea indica alcune interessanti proposte, come quella di promuovere il diritto alla vita tramite la richiesta alla politica di condizioni sociali favorevoli, volte a supportare gli aiuti alla gravidanza intesa come bene sociale.
Interessante anche l’idea di monitorare la curva demografica all’interno dei singoli Paesi della Ue al fine di sostenere politiche comunitarie che risveglino la cultura dell’accoglienza e favoriscano la percezione sociale che la vita, prima ancora della libertà, è un diritto inalienabile che non può essere soffocato.
Oltre che potenziare centri di aiuto e di ascolto, si reclamano anche politiche finanziarie che, ad esempio riducano le spese dei prodotti per la prima infanzia, e che sostengano – tramite bonus – la preparazione nei nove mesi dell’attesa di quei supporti necessari per l’arrivo del bambino.
Piccoli segni, si dirà, ma indispensabili perché alla cultura dell’individualismo autocentrato e chiuso al futuro possa sostituirsi uno sguardo più aperto al domani, che vogliamo sia ospitale e promettente per quanti – si spera tanti – verranno dopo di noi.
Paola Ricci Sindoni Con 2.863.649 aborti praticati e censiti ogni anno in Europa, di cui 1.207.646 nella sola Ue, nel Vecchio Continente l’aborto sta diventando la principale causa di morte.
Più del cancro, più dell’infarto, e in 12 giorni viene soppresso un numero di embrioni pari a quello dei morti in incidenti stradali lungo l’intero anno.
A sottolineare il peso che il fenomeno ha sulle società europee potrebbero bastare le nude cifre, che sono in aumento in numerosi Paesi, la Spagna in prima fila.
Ma dalle cifre dello studio «L’aborto in Europa e in Spagna» presentato ieri a Bruxelles dallo spagnolo Istituto di politica familiare (Ipf) si ricavano indicazioni che impressionano su vari piani: sulle tendenze in atto, sul loro impatto anche demografico per cui il numero degli aborti coincide con il deficit demografico dell’Ue, su quel che esse segnalano in termini di evoluzione complessiva nelle nostre società nei confronti di valori fondamentali.
E sulla cadenza incalzante degli aborti praticati nel nostro continente: uno ogni 11 secondi, 327 ogni ora, 7486 al giorno.
Il tema del rispetto dei valori nella società europea è stato al centro della conferenza stampa in cui, nella sede dell’Europarlamento, è stato illustrato lo studio dell’istituto spagnolo.
Aprendo la riunione Jaime Mayor Oreja, capo della delegazione spagnola nel gruppo parlamentare del Ppe, ha osservato che «la manifestazione più crudele della crisi dei valori è il diritto all’aborto».
Con questa espressione non aveva bisogno di chiarire quanto allarme abbia destato tra i Popolari il voto con cui il 10 febbraio scorso l’Europarlamento ha approvato su proposta di un socialista belga una risoluzione sulla parità di diritti tra uomini e donne in cui si legge che alle donne dovrebbe essere garantito «il controllo dei loro diritti sessuali e riproduttivi, attraverso un accesso agevole alla contraccezione e all’aborto», e che esse «devono godere di un accesso gratuito alla consultazione in tema di aborto», nel quadro di un generale impegno dei governi a «migliorare l’accesso delle donne ai servizi della salute sessuale e riproduttiva e a meglio informarle sui loro diritti e sui servizi disponibili».
Il vicepresidente del Parlamento europeo Mario Mauro ha approfondito il tema dei valori citando Benedetto XVI sui pericoli del fondamentalismo e del relativismo: e annoverando tra le sue conseguenze la diminuzione del numero dei matrimoni e delle nascite.
«Le cifre del relativismo – ha detto – sono le cifre della decadenza del nostro continente, del fallimento dei governi europei» che tra l’altro continuano a dedicare alla politica della famiglia solo una piccola parte delle spese sociali che nell’Ue assorbono un 28% del prodotto interno lordo.
«Il legame tra aiuti prestati alle famiglie e numero delle nascite è chiarissimo», ha insistito Mauro condannando le tendenze che puntano a «un nuovo concetto di famiglia, che non è famiglia», e a fare dello Stato di diritto una sorta di «supermercato dei diritti».
Il presidente dell’Ipf, Eduardo Hertfelder si è poi soffermato sulle preoccupazioni che si acuiscono per la tendenza sugli aborti nel suo Paese, la Spagna.
Franco Serra
La corruzione e le sue radici
Si accontenti chi vuole di credere che «il problema è politico» e riguardi quindi la destra e la sinistra.
Sì, questa volta a essere presi con le mani nel sacco sono stati esponenti del Pdl, ma in passato la stessa cosa è accaduta con esponenti del Pd: ma anche dando per scontato che le imputazioni a loro carico siano domani convalidate da una sentenza, davvero la corruzione italiana si riduce a quella dei politici? Davvero in questo Paese la sfera della politica è malata e il resto della società è sano? Non è così, con ogni evidenza.
Ognuno di noi sa bene che non è così, e non bisogna smettere di dirlo, anche se i soliti moralisti di professione grideranno scandalizzati che in questo modo si finirebbe per occultare «le precise responsabilità politiche».
Ma figuriamoci: cosa volete mai che si occulti, con tutta la stampa ormai scatenata dietro Monica e Francesca, dietro Bertolaso, Balducci, e compagnia bella? Proprio perché non ha alcuna natura propriamente politica ma affonda radici profondissime nel corpo sociale – cosicché nella politica essa si riversa soltanto, essendo uno degli ambiti dove più facile è la sua opera – la corruzione italiana sfugge a ogni facile terapia.
Come si è visto quando, convinti per l’appunto del suo carattere politico, abbiamo creduto che almeno per ridurne la portata bastasse mutare il sistema elettorale, o fare le privatizzazioni, o cambiare la legge sugli appalti, o finanziare i partiti in altro modo dal finanziamento diretto; o che l’esempio di «Mani pulite», di cui proprio oggi è paradossalmente il 18mo anniversario, potesse segnare una svolta.
Invece è stato tutto inutile.
La corruzione italiana appare invincibile.
Rinasce di continuo perché in realtà non muore mai, dal momento che a mantenerla viva ci pensa l’enorme serbatoio del Paese.
La verità, infatti, è che è l’Italia la causa della corruzione italiana: lo si può dire senza rischiare l’accusa di lesa maestà? Chi si ostina a credere che «il problema è politico», che tutto si riduca a destra e sinistra, lo sa che le tangenti continuano a girare vorticosamente anche nel privato: che dappertutto qui da noi, quando ci sono soldi in ballo, non si dà e non si fa niente per niente? Lo sa che i concorsi più vari (non solo le gare d’appalto!) sono sempre, in misura maggiore o minore, manipolati? Riservati agli amici e ai protetti quando non direttamente truccati in un modo o nell’altro dai concorrenti con la complicità delle commissioni, e il tutto naturalmente in barba a ogni credo politico? E che colore politico pensa che abbia l’evasione fiscale dilagante? O i tentativi a cui si dedicano incessantemente milioni di italiani di violare i regolamenti urbanistici ed edilizi in tutti i modi possibili e immaginabili (spessissimo riuscendoci grazie all’esborso di mazzette)? E a quale schieramento politico addebitare, mi chiedo, il sistematico taglieggio che da noi viene praticato da quasi tutti coloro che offrono una merce o un servizio al pubblico, come le società autostradali, quelle di assicurazione, le compagnie telefoniche, le compagnie petrolifere, quelle aeree, le banche, le quali tutte possono a loro piacere fissare tariffe esagerate, imporre contratti truffaldini, balzelli supplementari, clausole capestro, sicure dell’impunità? Sì lo so, tecnicamente forse non è corruzione.
Ma so pure che in molti altri Paesi comportamenti del genere sono severamente sanzionati anche sul piano penale.
Da noi no, sono considerati normali.
Perché? La risposta è nella nostra storia profonda, nei suoi tratti negativi che i grandi ingegni italiani hanno sempre denunciato: poca legalità, assenza di Stato, molto individualismo anarchico, troppa famiglia, e via enumerando.
Perciò l’Italia è apparsa tante volte un Paese bellissimo ma a suo modo terribile.
E lo appare ancor di più oggi, dopo aver perso anche gli ultimi pezzi delle sue fedi e dei suoi usi antichi.
Più terribile e incarognito che mai.
Più corrotto.
Spesso queste cose le capisce per prima l’arte, e in particolare il cinema, il nostro cinema, a cui tanto deve la conoscenza di ciò che è stata ed è l’Italia vera.
Quell’Italia vera che riempie, ad esempio, le immagini dell’ultimo film di Pupi Avati, Il fratello più piccolo, in arrivo proprio in questi giorni nelle sale cinematografiche.
Un ritratto spietato di che cosa è diventato questo Paese: una società dove gli unici «buoni» sembra non possano che essere dei disadattati senz’arte né parte; dove, nell’ultima scena, dal volto pur devastato e ormai annichilito di un grandissimo De Sica, ladro e canaglia ridotto all’ozio forzato su un terrazzino di periferia, non cessa tuttavia di balenare il guizzo di un’inestinguibile mascalzonaggine.
È di una lucida resa dei conti del genere che abbiamo bisogno; di guardare a fondo dentro di noi e dentro la nostra storia.
Non di credere, o di fingere di credere, che cambiare governo serva a cambiare tutto e a diventare onesti.
Ernesto Galli della Loggia Corriere della sera 17 febbraio 2010
Febbraio
Riprendiamo qui i brevi spunti di riflessione sulla spiritualità di San Paolo iniziati il mese scorso.
Dopo esserci soffermati a considerare il radicamento biblico della sua spiritualità, gli effetti della sua esperienza di incontro con Gesù Cristo, e la forza della sua spiritualità trinitaria (interrotta a Gennaio con la Persona del Padre), riprendiamo ora il filo del discorso soffermandoci sulla spiritualità che lega Paolo alle Persone di Cristo e dello Spirito Santo, per concludere considerando la spiritualità missionaria dell’Apostolo delle genti.
Dalle Lettere e dagli Atti trapela una personalità straordinaria: Paolo è un appassionato che si spende totalmente per un’ideale essenzialmente religioso.
Per lui Dio è tutto e Lo serve prima e dopo la scoperta di Cristo, e quando scopre che solo in Lui c’è la salvezza trascorre il resto della vita predicandolo con tutte le forze, anche nella malattia e nella prigionia.
Questa passione incondizionata si traduce in una vita di totale dedizione a Colui che ama.
Le sofferenze e i pericoli di morte (1Cor 4,9-13; 2Cor.
4,8ss) non possono sradicarlo dall’amore per Cristo; anzi, lo confortano perché lo avvicinano alla passione e alla croce del suo Signore.
La sua potenza spirituale si manifesta in una persona debole ma caparbia (2Cor 10,1-12,12).
La sua predicazione coincide con il kérigma, l’annuncio degli apostoli che proclamano Cristo crocifisso e risorto secondo le Scritture (1Cor 2,2; 15,3-4).
Le opere buone, compiute con la forza dello Spirito (Gal 5,22-25), non sono più quelle della legge in cui gli ebrei ponevano orgogliosamente la loro fiducia: esse sono ora accessibili a tutti coloro che credono anche se provengono dal paganesimo (Rm 4,11).
La vocazione di Paolo coinciderà con la conversione dei pagani (Gal 1,16; 2,7-9) secondo una linea universalistica che condurrà il vangelo di Cristo agli estremi confini della terra.
Novantuno immagini inedite per raccontare l’uomo e il suo mondo.
Novantuno scatti nei diversi continenti per descrivere la condizione umana nel nostro pianeta.
E scoprire che, pur con il cambiare delle latitudini, le similitudini sono superiori alle differenze.
L’uomo è uomo, dovunque si trovi, qualunque sia la sua cultura.
Gioisce e soffre allo stesso modo.
È questo il messaggio più profondo della mostra fotografica “Il nostro mondo” allestita da National Geographic Italia al Palazzo delle Esposizioni di Roma e visitabile gratuitamente fino al 2 maggio.
1.
Che cosa differenzia l’esperienza spirituale di Paolo dalla mistica religiosa? 2.
Utilizzando un motore di ricerca (ad esempio www.labibbia.org) individua tutti i passi del Nuovo Testamento in cui si fa riferimento alla “carne” e individuane il senso. 3.
Cerca e leggi nel sito internet www.annopaolino.org la catechesi di Benedetto XVI su “La concezione paolina dell’Apostolato” nell’udienza generale di mercoledì 10 settembre 2008.
Paolo e la spiritualità trinitaria: il Figlio (2Cor 11,16-33; 12,7-10) L’itinerario spirituale del credente (Paolo non usa le parole “discepolo” e “cristiano”) è la copia di quello del suo Signore.
Anzi, c’è fra loro una specie di osmosi: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.
Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.” (Gal 2,20).
È lui che dirige e orienta i primi credenti verso questa scoperta: Cristo “ha donato se stesso per i nostri peccati” (Gal 1,4), “è morto per noi” (Rm 5,8), “è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro.” (2Cor 5,15).
Conseguentemente ciascuno, e Paolo per primo, si impegna a vivere l’itinerario individuato dall’inno della Lettera ai Filippesi: dalla morte sulla croce alla gloria celeste (Fil 2,6-11).
L’Apostolo non vuole comprendere nulla che non sia la Croce di Cristo (1Cor 2,2): quella è la radice della sua spiritualità, ben più delle “visioni e rivelazioni” di cui lui stesso potrebbe pure andare fiero.
La sua esperienza spirituale, contrariamente alle mistiche religiose che non individuano la loro autenticità nella debolezza di Dio, è vissuta attraverso Cristo e i suoi fratelli.
Nel passo che segue, tratto dalla Seconda Lettera ai Corinzi (11,16-33; 12,7-10), Paolo parla della sua “follia”, se pure è tale (11,16), che consiste nel gloriarsi delle sue sofferenze.
Egli si mette a confronto con i suoi avversari che lo denigrano.
La sua vera gloria è la sua debolezza perché mette meglio in evidenza la forza di Cristo, mostrando così che la forza straordinaria dell’Apostolo non proviene da lui ma da Dio.
16 Lo dico di nuovo: nessuno mi consideri come un pazzo, o se no ritenetemi pure come un pazzo, perché possa anch’io vantarmi un poco. 17 Quello che dico, però, non lo dico secondo il Signore, ma come da stolto, nella fiducia che ho di potermi vantare.
18 Dal momento che molti si vantano da un punto di vista umano, mi vanterò anch’io.
19 Infatti voi, che pur siete saggi, sopportate facilmente gli stolti.
20 In realtà sopportate chi vi riduce in servitù, chi vi divora, chi vi sfrutta, chi è arrogante, chi vi colpisce in faccia.
21 Lo dico con vergogna; come siamo stati deboli! Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io.
22 Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! 23 Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte.
24 Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; 25 tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde.
26 Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; 27 fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità.
28 E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese.
29 Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? 30 Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza.
31 Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco.
32 A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, 33 ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani.
(…) 7 Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne (1), un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia.
8 A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me.
9 Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo.
10 Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.
__________ (1) La spina nella carne è una sofferenza non esattamente identificata; può essere una malattia o la persecuzione accanita dei suoi fratelli nella carne.
Paolo e la spiritualità trinitaria: lo Spirito Santo (Gal 5,13-25) La spiritualità dell’Apostolo Paolo è basata sullo Spirito.
Questo Spirito che viene da Dio, detto “lo Spirito del suo Figlio” (Gal 4,6), diffonde “l’amore di Dio nei nostri cuori” (Rm 5,5) e fa di noi dei “figli adottivi” (Rm 8,15).
La vita del cristiano deve diventare la manifestazione (epifanìa) dello Spirito, una manifestazione visibile per il bene di tutti (1Cor 12,7).
Nella Lettera ai Romani (soprattutto al capitolo 8), Paolo pone la vita cristiana, e dunque anche la sua, non tanto sotto il segno del Battesimo, quanto sotto l’azione dello Spirito.
È lo Spirito che muove la nostra relazione col Padre attraverso la mediazione di Cristo.
È Lui che sostiene la lotta contro la “carne” (2) (Gal 5,13-25) i cui valori più autentici vengono distorti quando sono divinizzati.
È lo Spirito che rende liberi nei confronti di tutte le potenze cosmiche e politiche, compresa la Legge.
Il valore della rivelazione di Dio a Mosè permane.
La Legge (e dunque anche tutte le altre leggi di questo mondo), cede il passo allo Spirito.
È lo Spirito che conduce la nostra vita verso il suo fine ultimo quando, da “giustificati” che siamo attraverso la croce del Signore, noi saremo pienamente salvati per vivere con Cristo.
Sotto l’azione dello Spirito, la nostra vita attuale che già dipende dal Cristo (Paolo dice “in Cristo”) sboccerà pienamente nella vita “con il Signore” (1Ts 4,17).
Nel passo che segue, tratto dalla Lettera ai Galati (5,13-25) Paolo mette in evidenza l’opposizione tra i due princìpi fondamentali della carne e dello Spirito.
Il cristiano, guidato dallo Spirito, vive spontaneamente secondo lo Spirito, sottraendosi ai desideri della carne; ma non è affatto vero che questi siano tali per il fatto che hanno sede nel “corpo”. ______ (2) La “carne” designa l’uomo nella sua condizione di debolezza, fragilità, mortalità 13 Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà.
Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri.
14 Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso.
15 Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! 16 Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; 17 la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste.
18 Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge.
19 Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, 20 idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, 21 invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio.
22 Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; 23 contro queste cose non c’è legge.
24 Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri.
25 Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.
26 Non cerchiamo la vanagloria, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri.
La spiritualità missionaria di Paolo (Rm 15,14-24) La spiritualità di Paolo è pervasa anche dalla “preoccupazione per tutte le Chiese” (2Cor 11,28).
Questa spiritualità apostolica fonda tutta la sua azione: “essere un ministro di Gesù Cristo tra i pagani, esercitando l’ufficio sacro del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo” (Rm 15,16).
Fondata essenzialmente sullo Spirito, tale spiritualità appare centrale.
Tuttavia il pensiero paolino non è stato automaticamente accolto in tutte le comunità cristiane del I secolo.
Il dinamismo spirituale dell’Apostolo, all’apparenza un po’ libertario, poteva urtare la suscettibilità di alcune di esse.
Le opposizioni indicate dall’Apostolo tra la Legge e la fede, o tra la carne e lo Spirito, davano a volte adito a interpretazioni soggette a dubbi, lassiste e anche antisemite, con gravi sofferenze per Paolo, naturalmente.
Questo non lo distolse da un impegno indefettibile nelle proprie convinzioni e dall’amorevole vicinanza alle singole comunità cristiane.
Nel passo seguente, tratto dalla Lettera ai Romani (15,14-24) Paolo ribadisce il suo intento di condurre i pagani alla fede.
L’apostolato è sentito come una liturgia in cui l’Apostolo, o meglio il Cristo per mezzo di lui, offre gli uomini a Dio.
Il suo compito è quello di porre i fondamenti, lasciando ai discepoli la continuazione dell’opera missionaria.
14 Fratelli miei, sono anch’io convinto, per quel che vi riguarda, che voi pure siete pieni di bontà, colmi di ogni conoscenza e capaci di correggervi l’un l’altro.
15 Tuttavia vi ho scritto con un po’ di audacia, in qualche parte, come per ricordarvi quello che già sapete, a causa della grazia che mi è stata concessa da parte di Dio 16 di essere un ministro di Gesù Cristo tra i pagani, esercitando l’ufficio sacro del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo.
17 Questo è in realtà il mio vanto in Gesù Cristo di fronte a Dio; 18 non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse operato per mezzo mio per condurre i pagani all’obbedienza, con parole e opere, 19 con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito.
Così da Gerusalemme e dintorni fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo.
20 Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui, 21 ma come sta scritto: «Lo vedranno coloro ai quali non era stato annunziato e coloro che non ne avevano udito parlare, comprenderanno.
(3)» 22 Per questo appunto fui impedito più volte di venire da voi.
23 Ora però, non trovando più un campo d’azione in queste regioni e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, 24 quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e di esser da voi aiutato per recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza.
_________ (3) Paolo cita qui un passo di Is 52,15
Primo biennio – Febbraio
VI unità di apprendimento: “Dio sceglie un popolo” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * Gesù, il Messia, compimento delle promesse di Dio.
* Ricostruire le principali tappe della storia della salvezza, anche attraverso figure significative.
OBIETTIVI FORMATIVI • Comprendere che Dio sceglie un popolo per realizzare il suo progetto • Conoscere la storia di alcuni personaggi dell’Antico Testamento Suggerimenti operativi • Introdurre la struttura della Bibbia, far scrivere alcune informazioni sul quaderno in modo schematico (significato della parola, come si compone, numero libri, cosa racconta, come si legge) e disegnare una Bibbia (portare una Bibbia in classe, così i bambini possono osservarla).
• Spiegare che nei prossimi incontri i bambini avranno l’opportunità di fare la conoscenza con alcuni importanti personaggi biblici, tutte figure dell’Antico Testamento.
• Chiedere ai bambini se conoscono la storia dell’Arca di Noè; provare a ricostruirla insieme con il contributo di tutti gli alunni.
Consegnare a ogni alunno un foglio da disegno e dare la consegna di rappresentare l’episodio con il materiale che si preferisce (pennarelli, pastelli a cera, matite, tempera…). • Leggere un adattamento della storia di Abramo, sottolineare come sia il PADRE della FEDE per le tre religioni (il primo ad avere fede in un solo Dio) e insegnare uno dei canti dedicati a questa figura (ad esempio: “Abramo non partire” o “Padre Abramo”).
• Raccontare la vita di Giuseppe, spiegare i vari passaggi della vicenda (usare un adattamento del testo originale) e organizzare la classe in coppie o a gruppetti.
Ognuno avrà il compito di rappresentare un momento della vita di Giuseppe con la tecnica del fumetto; al termine i lavori saranno raccolti per formare un libro da lasciare nella biblioteca di classe.
Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
alla convivenza, ed.
musicale, ed.
all’immagine Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
7: Ogni bambino ha diritto ad avere un’identità.
Art.
14: Ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.
Cattolici discutono sulla candidatura di Emma Bobino
I cattolici si fanno ingannare dalla Bonino perché si sono già ingannati sulla natura delle fede di Francesco Agnoli Tratto da Il Foglio del 26 gennaio 2010 L’inchiesta di Marianna Rizzini sui cattolici favorevoli alla Bonino, che la preferiranno a Renata Polverini alle prossime regionali del Lazio, non mi ha stupito.
E sicuramente non ha meravigliato neppure la Bonino, che sa abilmente vestire i panni di Giano bifronte.
In occasione della sua auto-candidatura a presidente della Repubblica di circa dieci anni fa, infatti, Emmatar non esita a diffondere ovunque la foto sua e di Pannella insieme a Giovanni Paolo II, con evidenti fini propagandistici.
Contemporaneamente i radicali, lei compresa, si battono per la liberalizzazione della droga, celebrano la breccia di Porta Pia, rinvigoriscono l’Associazione per lo sbattezzo e nutrono di menzogne e di accuse contro la chiesa filiazioni radicali come Anticlericale.net.
Ma in tempo di elezioni, quando occorre prendere voti, mentire non è un problema.
Il fine giustifica i mezzi, per chi ha fini molto piccoli, molto umani e a breve scadenza.
Così, per esempio, appena annunciato l’appoggio del Pd alla Bonino, per evitare polemiche in quel frangente inopportune, la radicale Maria Antonietta Coscioni ha prontamente ritirato 2.400 emendamenti alla legge sul testamento biologico.
Alla faccia della conclamata coerenza.
Vi erano infatti contenute esplicite dichiarazioni a favore dell’eutanasia, non solo nei casi estremi, come spesso si vuole far credere, ma in assoluto.
Uno degli emendamenti opportunamente ritirati, pronto forse a essere riproposto dopo le Regionali, cominciava infatti così: “Ogni persona ha diritto di porre termine alla propria esistenza” (Corriere, 13/1/2010).
Per fare un altro esempio, tratto dal passato, le associazioni di cui la Bonino fa parte ai tempi della famosa foto pubblicata da Libero, il Cisa e il M.L.D., non hanno nessuno scrupolo a spiegare a tutti, a pagina 25 di un libretto intitolato “Aborto: facciamolo da noi” (Ed.
Napoleone, 1975), che la “cifra più riduttiva sugli aborti clandestini ogni anno” in Italia è di “un milione e mezzo”.
Solo quattro pagine dopo si dice, senza nessun ritegno, che l’aborto clandestino nel nostro paese “è vissuto da tre milioni di donne” ogni anno.
Sparare cifre assurde e coscientemente gonfiate sino all’incredibile è insomma ritenuto lecito, pur di raggiungere l’obiettivo prefissato: in questo caso far passare il ricorso all’aborto come un fatto ormai normale ed acquisito.
Analogamente, nello stesso libretto, non si ha scrupolo a sostenere che il “diritto” all’aborto non ammette eccezioni; che anzi spesso abortire è un bene, “una scelta matura e responsabile”, perché serve a tutelare il nascituro da future condizioni precarie (fisiche, psicologiche o solo economiche che siano); oppure perché va a vantaggio della “famiglia preesistente, che spesso ha bisogno di essere difesa e protetta in quanto già reale e concreta”.
Tenere il bambino, al contrario, “a volte è un atto di debolezza e di egoismo”, commesso da chi non vuol capire che l’embrione e il feto, che oggi con l’ecografia tutti sappiamo essere già formati, non sarebbero altro che “contenuto dell’utero, ancora informe e grumoso”, una “ipotesi di vita”, un “ovulo fecondato” né “vitale né capace di vita” (“un ovulo fecondato non è necessariamente una vita; non lo è per il padre e non lo è nemmeno per la madre”).
Dunque, per gli autori del citato manuale per l’aborto, qualsiasi motivo è valido per ricorrere al metodo Karman, quello della pompa di bicicletta: un metodo “semplice, rapido”, “per la donna e non per il ginecologo”, con il “materiale tutto in plastica, con la punta tonda”, inventato “in una comune popolare cinese”, come “rifiuto da parte dei cinesi di utilizzare la scienza borghese così come essa è”.
Nello stesso opuscolo la chiesa viene svillaneggiata, e i cattolici nel contempo derisi o adulati.
Anche la chiesa, si sussurra maliziosamente alle donne che per motivi religiosi hanno qualche remora ad abortire, ha sempre permesso tale azione, anche all’epoca del terribile Concilio di Trento.
Per cui, care donne timorate di Dio, non vi preoccupate a ricorrere al nostro aiuto, tante “associazioni cattoliche” già lo fanno.
Abortire non è un dramma, ma un momento di crescita; non un atto di egoismo, ma di maturità; neppure un peccato, ma un gesto nel solco della più pura tradizione evangelica.
Infatti, “solo nel 1869 Pio IX per ragioni politiche (necessità di incrementare le nascite per aver maggior forza lavoro per la nascente industria) condannò nell’enciclica Rerum Novarum (di Leone XIII, ndr) l’aborto”.
Detto questo, mi chiedo se la doppiezza radicale, e in particolare quella della Bonino, sia la causa vera, profonda, del voto che molti cattolici le regaleranno.
Non lo credo: di solito si inganna solo chi è già bendisposto a farsi ingannare, o chi ha perso il contatto con la propria storia, con le ragioni della propria cultura, in questo caso della propria fede.
E’ allora a una crisi di fede e di ragione che occorre ricondurre il fenomeno.
Personalmente ho un’ipotesi: il voto cattolico alla Bonino mi sembra riconducibile allo spirito irenistico che da quarant’anni a questa parte è penetrato, come il fumo di Satana di cui parlava Paolo VI, nella Chiesa.
Quel fumo che avvolge la realtà, la verità, rendendola indistinta e confusa, e che fa sì che verità e carità, intimamente unite nel Cristo, siano state disgiunte dai suoi seguaci, non solo nei fatti, come è inevitabile, ma addirittura nella teoria.
A partire soprattutto dagli anni sessanta, dal Concilio e dal post Concilio, infatti, si è diffusa in una certa parte del mondo cattolico l’idea che verità e carità siano in antagonismo, in alternativa: aut… aut, e non più et… et.
Sono gli anni in cui si comincia a parlare quasi esclusivamente della cosiddetta “pastorale”: come annunciare Cristo, come renderlo gradito al mondo, come evitare gli errori del passato, come fare la pace con la cultura contemporanea, come farsi accettare da tutti… Come, come, come… Questo diventa il problema essenziale, se non l’unico.
L’assillo, direi, che ottenebra molte intelligenze.
La forma diviene più importante della sostanza e la sostanza viene mutata per assumere forma più accattivante.
Si chiama “aggiornamento”, ottimismo mondano e porta persino a cambiare la traduzione del canone della Messa: l’evangelico “versato per voi e per molti”, che lascia intendere la possibilità che alcuni uomini non vogliano usufruire del sangue redentore di Cristo, viene sostituito con “per voi e per tutti”, frase molto più rassicurante, che suggerisce una salvezza universale e automatica per tutti.
Così, piano piano, mentre si addolcisce il linguaggio e si smorzano le sferzate evangeliche, si dimentica che l’annuncio di Cristo non è solamente una questione di modi e di linguaggi appropriati; si omette di ammettere che talora è necessario opporsi al mondo, seguendo la via della croce, dello scandalo, del martirio, che Lui stesso, non altri, ha indicato.
Inutile dire che spostare ogni accento sulla pastoralità, sulla carità, sulle modalità opportune, sul dialogo, sull’incontro, sull’apertura, ha condotto gradualmente a oscurare il dogma, i contenuti, la sostanza.
Si è voluto rendere insipido il sale; si è annacquata la medicina perché non fosse più amara; si è preferito essere medici pietosi, che lasciano proliferare la piaga ulcerosa, piuttosto che medici coscienti e realistici.
Ma è veramente possibile scindere la carità dalla verità? Cosa è l’aqmore, senza una meta, vera, cui dirigerlo? E’ servito, al “mondo”, che nessuno più lo richiamasse, “opportune, importune”, come raccomanda san Paolo? Ha aumentato il tasso di felicità della nostra civiltà? In nome dello spirito irenistico, cioè relativista, si è smarrita in molti la distinzione fondamentale tra peccatore e peccato, e nella confusione, si è ritenuto che abbracciare il peccatore significhi nel contempo, necessariamente, ignorare il peccato; che abbracciare la donna e l’uomo che hanno abortito comporti l’accettazione dell’aborto, e la sua derubricazione ad azione neutra e indifferente; che l’evangelico “non giudicare” significhi non prendere mai posizione per la verità.
Anche, se non soprattutto, nei confronti di se stessi.
Solo così si può giustificare lo svilupparsi, a poco a poco, di una catechesi in cui non si parla quasi più delle verità di fede, dei “novissimi” (morte, giudizio, inferno, paradiso), del senso del peccato, della confessione.
In cui non si discute, neppure tra cattolici, per evitare scontri, dibattiti, frizioni, delle cose più serie e più concrete della vita di ogni giorno: la morale, il fidanzamento, il matrimonio, l’apertura ai figli.
Al punto che il sottoscritto, che nella Chiesa è cresciuto, non ricorda di aver sentito quasi mai un sacerdote o un catechista parlare dell’indissolubilità del matrimonio, del divorzio, dell’aborto e delle altre sfide imposte dalla contemporaneità.
Mentre a scuola, o con gli amici, se ne parlava spesso, senza che una voce chiara e ferma, divinamente ispirata, fosse neppure accessibile ai più.
Ovviamente, in questo abbraccio col mondo, mentre si è ritenuto di poter scindere la carità dalla necessaria intransigenza sui principi, si è finiti per mancare alla carità primaria del cristiano: quella di dire e di annunciare la verità ricevuta.
Quella di non nascondere la luce rivelata, per quanto possa dare fastidio agli occhi di chi è abituato alle tenebre, sotto il moggio.
In conseguenza di questo nuovo spirito, si è sviluppato un cattolicesimo delle “buone maniere”, della carità spicciola, divenuta filantropia.
Così, piano piano sono nate generazioni di cattolici che ritengono che il peccato più grande sia votare Pdl o Lega ( sembra, anzi, talora, che sia l’unico peccato rimasto); che la fede sia qualcosa di personale, che non incide affatto nella vita di tutti i giorni; che l’essenziale sia nascondere la propria fede in Dio, perché non sia mai che il dichiararla, anche senza nessun trionfalismo o retorica, possa suonare come “imposizione”; che la chiesa abbia sempre sbagliato allorché ha lottato per affermare qualche principio contro il mondo; che i volontari del Movimento per la vita siano fanatici residui di un passato ormai al tramonto.
Questi cattolici di nuovo conio, ben descritti da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro nei loro pungenti manuali, sono dediti ai mea culpa giornalieri sul petto dei nostri padri; alla distribuzione di cibo e di vestiario, come unica proposta agli immigrati e ai poveri del Terzo mondo, quasi Cristo fosse venuto sulla terra esclusivamente per moltiplicare i pani e i pesci e non per darci “parole di vita eterna”.
Persa ogni concretezza e quotidianità, esultano per le marce pacifiste, colorate e poco impegnative, e schifano chi prega dinnanzi alle cliniche abortiste (ma spesso anche ci prega e basta); ammirano le inutilissime sfilate radicali a favore dei bambini che muoiono di fame in Africa, ma non sanno inorridire per le migliaia di bambini che il ciclone Emmatar ha eliminato con le proprie mani e col sorriso sulla bocca.
Voteranno Bonino, magari senza grande convinzione, ma per dimostrare a se stessi di essere sufficientemente “laici”, per sentirsi moderni, aperti e dialoganti.
Come quella Maria Pia Garavaglia, senatrice cattolica del Pd, che mi ha scritto per complimentarsi, calorosamente, per la mia nomina alla direzione di un Movimento pro life, e qualche giorno dopo, con lo stesso entusiasmo, ha condannato un eventuale “rifiuto” e “chiusura” degli elettori cattolici verso la Bonino.
Poi la ha ampiamente lodata e imbrodata in un’intervista a Radio radicale, come “persona di qualità politiche e umane” e ha solennemente dichiarato: “Conosco e stimo la candidata e sono sicura che, nella sua campagna elettorale, saprà valorizzare temi e programmi che stanno a cuore agli elettori cattolici”.
Quali temi e quali programmi.
non si sa.
”UNO SCHIAFFO ALLA COMUNITÀ CRISTIANA” Sandro Magister Ad accendere la discussione è stato un intellettuale che non appartiene alla Chiesa ma è da anni vigoroso apologeta della visione di Karol Wojtyla, Joseph Ratzinger e Camillo Ruini: Giuliano Ferrara, direttore del quotidiano d’opinione “il Foglio”.
La scintilla gliel’ha offerta un articolo – durissimo contro la Bonino – uscito il 20 gennaio su “Avvenire”, il giornale della conferenza episcopale italiana.
Domenico Delle Foglie, l’autore dell’articolo, è un cattolico di primo piano, ha organizzato per mandato dei vescovi il “Family Day” di due anni fa e dirige il sito “Più voce.
Cattolici in rete”.
È stato vicedirettore di “Avvenire” e lo scorso autunno fu quasi sul punto d’essere chiamato a dirigerlo, al posto del dimissionario Dino Boffo e in continuità con lui, ruiniano a tutto tondo.
Ma prima ancora che Delle Foglie scrivesse il suo articolo, nel principale partito della sinistra italiana, il Partito Democratico, la candidatura Bonino aveva diviso i cattolici che ne fanno parte.
Due di essi, Renzo Lusetti ed Enzo Carra, avevano abbandonato il partito, giudicandolo non più abitabile.
Altri invece, come Franco Marini e Maria Pia Garavaglia, avevano salutato con favore la candidatura Bonino, addirittura raccomandandola come “capace di temi e programmi che stanno a cuore agli elettori cattolici”.
Contro questi cattolici “arrendevoli” e “illusi”, Delle Foglie ha invece scritto che la Bonino incarna almeno tre pericoli gravi.
Il primo è simbolico: uno “schiaffo alla comunità cristiana” da parte di “una testimone di militante inimicizia nei confronti della visione cristiana dell’uomo e del mondo”.
Il secondo pericolo è che, qualora vincesse, la neopresidente Bonino si metterebbe all’opera per fare del Lazio “il laboratorio di tutti gli zapaterismi”, dal nome del premier spagnolo iperlaicista.
Il terzo è la “sovrana ipocrisia” di cui la Bonino dà prova già nel corso della campagna elettorale, quando promette di operare “con e per i cattolici”, lei che ha speso tutta una vita a lottare contro la Chiesa.
Ebbene, il giorno dopo l’uscita di questo articolo su “Avvenire”, sulla prima pagina del “Foglio” Ferrara sottoscrisse in pieno quanto scritto da Delle Foglie.
Ma nello stesso tempo si scagliò contro il giornale dei vescovi perché aveva nascosto quell’articolo a pagina 11, perché l’aveva declassato a opinione personale dello scrivente, perché insomma aveva dato prova di timidezza nell’affrontare una questione che riguarda non piani urbanistici o altre faccende opinabili, ma quei principi supremi definiti dallo stesso papa “non negoziabili”.
Insomma, concludeva Ferrara alludendo a ciò che faceva la Chiesa nel 1952 e prima di quell’anno: “Meglio i Comitati Civici di una volta che il timido ‘Avvenire’ di oggi”.
VITERBO.
MA NON ERA LA CITTA DEI PAPI? A Ferrara rispose il giorno successivo il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio.
E Ferrara gli controrispose ventiquattr’ore dopo, confermando le sue critiche.
Intanto, però, “il Foglio” aveva fatto altro.
Aveva mandato una sua valente inviata, Marianna Rizzini, a esplorare le diocesi della regione Lazio, per sentire cosa pensassero i preti e i fedeli della candidata Bonino.
Il responso della prima diocesi esplorata, quella di Viterbo, fu impietoso.
Il titolo: “Chiesa di base con Emma.
Inchiesta a Viterbo.
Compatte opinioni cattoliche, in certi casi fervide, a favore della candidata abortista, divorzista, eutanasista, che definì l’embrione ‘un grumo inerte’.
Rari i distinguo, e timidi”.
In effetti, nel reportage di Marianna Rizzini da Viterbo i soli che si schieravano contro la Bonino erano i “missionari” del Movimento per la Vita, quelli che dedicano la loro vita a far nascere i bambini, non a farli abortire.
Di poco più confortante è stato il secondo reportage della serie, dalla diocesi di Frosinone.
E così un terzo, dalla città di Roma.
LA PAROLA AI VESCOVI: BAGNASCO E NEGRI A questo punto sono entrati in campo i vescovi.
Il primo, Angelo Bagnasco, è il cardinale che ha preso il posto di Ruini alla presidenza della conferenza episcopale.
Nella prolusione con cui ha aperto il 25 gennaio la sessione invernale del consiglio permanente della CEI, Bagnasco ha detto di avere questo “sogno”: “Vorrei che questa stagione contribuisse a far sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni.
Italiani e credenti che avvertono la responsabilità davanti a Dio come decisiva per l’agire politico”.
E ancora: “Vorremmo che i valori che costituiscono il fondamento della civiltà − la vita umana comunque si presenti e ovunque palpiti, la famiglia formata da un uomo e una donna e fondata sul matrimonio, la responsabilità educativa, la solidarietà verso gli altri, in particolare i più deboli, il lavoro come possibilità di realizzazione personale, la comunità come destino buono che accomuna gli uomini e li avvicina alla meta − formassero anche il presupposto razionale di ogni ulteriore impresa, e perciò fossero da questi cattolici ritenuti irrinunciabili sia nella fase della programmazione sia in quella della verifica”.
Bagnasco non ha aggiunto nulla, a proposito del caso Bonino.
Parecchio di più ha detto invece un presule che non fa parte del consiglio permanente ma non è di second’ordine: Luigi Negri, vescovo di San Marino e Montefeltro, milanese e stretto collaboratore in gioventù del fondatore di Comunione e Liberazione, don Luigi Giussani.
In un’intervista a Paolo Rodari su “il Foglio” del 26 gennaio, Negri ha detto che un limite della Chiesa italiana è di non saper sempre rendere operativo il pur chiarissimo magistero degli ultimi due papi: “Perché di fronte a una candidatura dichiaratamente contro la Chiesa una parte del mondo cattolico si mostra privo di atteggiamento critico? È la domanda che mi sono posto dopo aver letto l’inchiesta del ‘Foglio’ a Viterbo che ha evidenziato come per molti cattolici non fa difficoltà la candidatura della Bonino nel Lazio.
Se facessimo la medesima inchiesta in altre regioni, vorrei dire in tutte le regioni d’Italia, il risultato sarebbe lo stesso di Viterbo.
Perché il dato è uno e chiede d’essere guardato: stiamo crescendo generazioni assolutamente incapaci di giudizio critico sulle cose.
Leggendo l’inchiesta del ‘Foglio’ mi è venuto in mente quel versetto della Bibbia, Geremia 31, dove si dice: ‘I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati’.
Mi domando: siamo stati capaci di favorire in questi anni l’espressione di una vera cultura della fede? Oppure è cresciuta tra noi, sotto i nostri occhi, una generazione per la quale il dialogo viene prima dell’identità? A volte sembra che il dialogo che impostiamo con chi non crede altro non sia che una resa senza condizioni.
Nel nome del dialogo ci dimentichiamo chi siamo.
E dimenticandoci chi siamo sono sempre gli altri ad avere ragione, ad avere la meglio”.
Per il vescovo Negri occorre ripartire da ciò che predicano Benedetto XVI e la conferenza episcopale italiana “Sono dieci anni che i vescovi parlano di emergenza educativa.
Occorre lavorare tutti su questa emergenza perché soltanto in questo modo i cattolici di oggi e di domani potranno imparare a giudicare e difendere la propria identità.
Soltanto in questo modo i cattolici potranno capire che è arrivato il tempo di uscire dalla notte in cui tutte le vacche sono nere e tutte le identità hanno lo stesso colore.
Un tempo, insomma, in cui anche il vaglio critico dei candidati alle elezioni sarà più semplice”.
LA POLEMICA CONTINUA Lo stesso giorno, su “Avvenire” un altro cattolico in vista, Pio Cerocchi, di nuovo criticava con severità quei politici cattolici presenti nel Partito Democratico che avevano accettato passivamente la candidatura Bonino.
Anche questa volta in una pagina interna e come opinione personale.
__________ I due giornali protagonisti della disputa: > Avvenire > Il Foglio E il sito diretto da Domenico Delle Foglie, con riportati i principali interventi: > Più voce.
Cattolici in rete www.chiesa.it Più di mezzo secolo dopo quel lontano 1952 e in entrambi i casi con le elezioni amministrative alle porte, si ripresenta oggi per la diocesi del papa un pericolo identico: che il suo governo civile cada in mani nemiche.
Ma le reazioni della Chiesa appaiono oggi molto diverse da allora.
Nel 1952 il papa e le autorità vaticane, allarmatissimi, si attivarono in prima persona.
Temendo la vittoria elettorale, proprio sotto le mura vaticane, di comunisti e socialisti che all’epoca erano legatissimi all’impero di Mosca, Pio XII ordinò al partito cattolico – la Democrazia Cristiana guidata da Alcide De Gasperi, oggi in via di beatificazione – di far fronte comune con i partiti di estrema destra dentro una lista civica capeggiata dall’anziano sacerdote Luigi Sturzo – anche lui oggi incamminato agli altari – e pronta ad essere sostenuta dall’Azione Cattolica e dai suoi Comitati Civici.
De Gasperi rifiutò.
Nelle elezioni amministrative di Roma tenne ferma l’alleanza con i partiti laici di centro, la stessa con cui era al governo in Italia.
Aveva visto giusto e i numeri gli diedero ragione.
A Roma i comunisti e i socialisti furono sconfitti.
Ciò non tolse che Pio XII punì De Gasperi per la disubbidienza, rifiutando di riceverlo in udienza con la moglie e la figlia Lucia in occasione dei suoi trent’anni di matrimonio e dei voti religiosi della figlia.
LA SORPRESA EMMA BONINO Oggi il quadro politico italiano è profondamente mutato.
La DC non c’è più.
I cattolici sono diluiti in tutti i partiti.
Al governo nazionale c’è Silvio Berlusconi, che su vita, famiglia e scuola è il leader più vicino alle attese della Chiesa.
Al governo della regione Lazio e quindi della diocesi del papa c’è un’amministrazione di sinistra, lontana e sbiadita erede del defunto partito comunista.
Questa amministrazione ha subito nei mesi scorsi un duro colpo con le dimissioni del suo presidente, Giuseppe Marrazzo, travolto da avventure a luci rosse con transessuali e cocaina.
Privi di un proprio candidato alternativo, per riconquistare il governo del Lazio nelle elezioni regionali che si terranno tra due mesi i partiti di sinistra hanno accettato di appoggiare l’autocandidatura a presidente di un personaggio ad essi esterno, simbolo del radicalismo anticattolico più spinto, Emma Bonino (nella foto).
Emma Bonino è una veterana dei “diritti umani”.
Ma entro questi “diritti” – che ha difeso anche come incaricata della Commissione Europea – essa ha sempre incluso aborto, eutanasia, matrimoni omosessuali, libertà di droga, insomma l’intera panoplia di quella che Giovanni Paolo II definì “cultura della morte”.
Dagli anni Settanta circola un filmato che la ritrae, fiera, mentre pratica un aborto a una donna aiutandosi con un barattolo di latta e una pompa di bicicletta.
Ebbene, di fronte alla sfida rappresentata dalla candidatura Bonino, come reagisce la Chiesa? Sicuramente non come fece nel 1952.
Anche perché oggi è impensabile che il papa in persona detti ai cattolici una precisa “macchina” politica per fronteggiare il pericolo.
Anche nella Chiesa infatti, oltre che in campo politico, tante cose da allora sono cambiate.
La Chiesa italiana non ha più un partito cattolico di riferimento.
Si muove libera a tutto campo.
La sua battaglia è fatta di “cultura cristianamente orientata”.
E grazie a questa libertà e intraprendenza riesce a volte a essere più influente che in passato, nella sfera pubblica.
È questo il modello Ruini, dal nome del cardinale che ha guidato la conferenza episcopale per sedici anni, fino al 2007.
Se e come questo modello stia operando oggi, con il caso Bonino, è materia vivacemente discussa.
Se anche Benedetto XVI e Pio XII diventano vittime del pregiudizio
Bisognerebbe smetterla con la malafede, il partito preso e, per dirla tutta, la disinformazione, non appena si tratta di Benedetto XVI.
Fin dalla sua elezione, si è intentato un processo al suo «ultraconservatorismo», ripreso di continuo dai mass media (come se un Papa potesse essere altra cosa che «conservatore»).
Si è insistito con sottintesi, se non addirittura con battute pesanti, sul «Papa tedesco», sul «post-nazista» in sottana, su colui che la trasmissione satirica francese «Les Guignols» non esitava a soprannominare «Adolfo II».
Si sono falsificati, puramente e semplicemente, i testi: per esempio, a proposito del suo viaggio ad Auschwitz del 2006, si sostenne e — dal momento che col passar del tempo i ricordi si fanno più incerti — ancor oggi si ripete che avrebbe reso onore alla memoria dei sei milioni di morti polacchi, vittime di una semplice «banda di criminali», senza precisare che la metà di loro erano ebrei (la controverità è davvero sbalorditiva, poiché Benedetto XVI in quell’occasione parlò effettivamente dei «potenti del III Reich» che tentarono «di eliminare» il «popolo ebraico» dal «rango delle nazioni della Terra» Le Monde, 30/5/2006).
Ed ecco che, in occasione della visita del Papa alla sinagoga di Roma e dopo le sue due visite alle sinagoghe di Colonia e di New York, lo stesso coro di disinformatori ha stabilito un primato, stavo per dire che ha riportato la palma della vittoria, poiché non ha aspettato nemmeno che il Papa oltrepassasse il Tevere per annunciare, urbi et orbi, che egli non aveva saputo trovare le parole che bisognava dire, né compiuto i gesti che bisognava fare e che dunque aveva fallito nel suo intento… Allora, visto che l’evento è ancora caldo, mi si consentirà di mettere qualche puntino su qualche «i».
Benedetto XVI, quando si è raccolto in preghiera davanti alla corona di rose rosse deposta di fronte alla targa commemorativa del martirio dei 1021 ebrei romani deportati, non ha fatto che il suo dovere, ma l’ha fatto.
Benedetto XVI, quando ha reso omaggio ai «volti» degli «uomini, donne e bambini» presi in una retata nell’ambito del progetto di «sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè», ha detto un’evidenza, ma l’ha detta.
Di Benedetto XVI che riprende, parola per parola, i termini della preghiera di Giovanni Paolo II, dieci anni fa, al Muro del Pianto; di Benedetto XVI che chiede quindi «perdono» al popolo ebraico devastato dal furore di un antisemitismo per lungo tempo di essenza cattolica e nel farlo, ripeto, legge il testo di Giovanni Paolo II, bisogna smettere di ripetere, come somari, che egli è indietro-rispetto-al-suo-predecessore.
A Benedetto XVI che dichiara infine, dopo una seconda sosta davanti all’iscrizione che commemora l’attentato commesso nel 1982 dagli estremisti palestinesi, che il dialogo ebraico cattolico avviato dal Concilio Vaticano II è ormai «irrevocabile»; a Benedetto XVI che annuncia di aver l’intenzione di «approfondire» il «dibattito fra uguali» che è il dibattito con i «fratelli maggiori» che sono gli ebrei, si possono fare tutti i processi che si vuole, ma non quello di «congelare» i progressi compiuti da Giovanni XXIII.
Quanto alla vicenda molto complessa di Pio XII, ci tornerò, se necessario.
Tornerò sul caso di Rolf Hochhuth, autore del famoso «Il vicario», che nel 1963 lanciò la polemica sui «silenzi di Pio XII».
In particolare, tornerò sul fatto che questo focoso giustiziere è anche un negazionista patentato, condannato più volte come tale e la cui ultima provocazione, cinque anni fa, fu di prendere le difese, in un’intervista al settimanale di estrema destra Junge Freiheit, di colui che nega l’esistenza delle camere a gas, David Irving.
Per ora, voglio giusto ricordare, come ha appena fatto Laurent Dispot nella rivista che dirigo, La règle du jeu, che il terribile Pio XII, nel 1937, quando ancora era soltanto il cardinale Pacelli, fu il coautore con Pio XI dell’Enciclica «Con viva preoccupazione», che ancora oggi continua ad essere uno dei manifesti antinazisti più fermi e più eloquenti.
Per ora, dobbiamo per esattezza storica precisare che, prima di optare per l’azione clandestina, prima di aprire, senza dirlo, i suoi conventi agli ebrei romani braccati dai fascisti, il silenzioso Pio XII pronunciò alcune allocuzioni radiofoniche (per esempio Natale 1941 e 1942) che gli valsero, dopo la morte, l’omaggio di Golda Meir: «Durante i dieci anni del terrore nazista, mentre il nostro popolo soffriva un martirio spaventoso, la voce del Papa si levò per condannare i carnefici».
E, per ora, ci si meraviglierà soprattutto che, dell’assordante silenzio sceso nel mondo intero sulla Shoah, si faccia portare tutto il peso, o quasi, a colui che, fra i sovrani del momento: a) non aveva cannoni né aerei a disposizione; b) non risparmiò i propri sforzi per condividere, con chi disponeva di aerei e cannoni, le informazioni di cui veniva a conoscenza; c) salvò in prima persona, a Roma ma anche altrove, un grandissimo numero di coloro di cui aveva la responsabilità morale.
Ultimo ritocco al Grande Libro della bassezza contemporanea: Pio o Benedetto, si può essere Papa e capro espiatorio.
in “Corriere della Sera” del 20 gennaio 2010
“Di tutte queste cose mi siete testimoni”
I temi che di anno in anno vengono proposti per la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e i relativi sussidi sono il frutto di un processo di preparazione abbastanza lungo in collaborazione ecumenica a diversi livelli.
Nel 1972 era stata fatta un’inchiesta da parte dell’allora Segretariato per l’Unità dei Cristiani e della Commissione fede e costituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese sulla pratica della preghiera per l’unità nel mondo.
Da parte cattolica si erano consultate le commissioni ecumeniche delle conferenz e episcopali nazionali e dei sinodi delle Chiese orientali cattoliche, e, da parte del Consiglio ecumenico, le Chiese aderenti nonché i consigli nazionali di Chiese.
In base alle risposte ricevute si erano studiati i modi più adatti per promuovere meglio la divulgazione della preghiera per l’unità.
Si era allora deciso – e quella decisione è tuttora in vigore – che per dare concretezza ai testi si sarebbe chiesto ogni anno a un gruppo ecumenico locale la proposta di un tema e di una bozza per i sussidi.
Quindi un gruppo internazionale con rappresentanti della Chiesa cattolica e del Consiglio ecumenico delle Chiese avrebbe rielaborato il progetto conferendogli le caratteristiche necessarie per una divulgazione internazionale e interconfessionale.
Il testo finale si sarebbe inviato alle Chiese locali, chiedendo a esse i necessari adattamenti in relazione alle varie situazioni e alle diverse tradizioni liturgiche.
Il tema per quest’anno è stato proposto da un gruppo ecumenico scozzese.
La scelta è stata motivata dal fatto che ricorre il centenario della Conferenza missionaria tenutasi a Edimburgo nel 1910.
In quella conferenza delle Società missionarie protestanti si era posto il problema della divisione dei cristiani nel contesto della missione.
Come annunciare con efficacia che Cristo ci ha riconciliati se i cristiani si presentano divisi alle frontiere della Chiesa? A motivo di questo interrogativo, anche se non vi erano presenti né le Chiese ortodosse né la Chiesa cattolica, quella conferenza viene considerata nel contesto dell’avvio della moderna ricerca della piena comunione tra i cristiani.
Solo due anni prima, nel 1908, il padre Paul Wattson aveva proposto l’ottavario della preghiera per l’unità dei cristiani.
In sintonia con l’interrogativo della Conferenza di Edimburgo, il decreto del concilio Vaticano ii sull’ecumenismo ha affermato che la “divisione non solo contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ma anche è di scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo ad ogni creatura” (Unitatis redintegratio, 1).
Questa convinzione ha spinto il gruppo ecumenico della Scozia a proporre la testimonianza comune del kérygma cristiano come tema per la preghiera per l’unità nel 2010.
La testimonianza è annuncio vissuto. Come testo biblico di base viene proposto l’intero capitolo 24 del Vangelo di san Luca, in cui vengono riportati gli episodi delle apparizioni di Cristo risorto, ai discepoli di Emmaus (1-35), a tutti i discepoli insieme (36-48) e l’ascensione di Gesù ai cieli (50-53).
Il versetto centrale che dà il tema alla Settimana è: “Di tutte queste cose mi siete testimoni” (Luca, 24, 48).
Gesù richiede la testimonianza a tutti i discepoli che si trovano insieme.
Nell’episodio narrato, i discepoli di Emmaus, dopo aver riconosciuto il Signore risorto, tornarono a Gerusalemme e trovarono gli undici riuniti con i loro compagni.
I quali dissero: “Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone” (Luca, 24, 33-34).
Essi pure raccontarono come lo avevano incontrato e riconosciuto.
Mentre parlavano di queste cose Gesù apparve a loro tutti insieme.
I discepoli furono sbigottiti (èmphoboi) e pieni di esitante gioia (apistoùnton apò charàs).
Gesù, per provare la sua presenza fisica, mangiò del pesce.
Quindi fece loro un’anamnesi di quanto aveva predetto loro nel passato, quando era ancora con loro, quando diceva loro che bisognava che s’adempisse tutto quello che era stato scritto di lui.
“Allora aprì le loro menti perché comprendessero le Scritture” (Luca, 24, 46).
A questo scopo ricordò alcuni elementi essenziali di quanto doveva accadere e che costituirà in seguito, dopo gli eventi, il nucleo centrale dell’annuncio cristiano.
In forma solenne e in una formulazione già molto elaborata Gesù menzionò l’evento della morte e della risurrezione e la proclamazione del perdono.
Gesù disse loro: “Così sta scritto, che il Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risuscitato dai morti il terzo giorno e che in suo nome sarebbe predicata la penitenza e la remissione dei peccati a tutte le nazioni, cominciando da Gerusalemme” (Luca, 24, 46-47).
Questi sono gli eventi dei quali renderanno testimonianza i discepoli in primo luogo e i credenti in Cristo poi in ogni tempo e in ogni luogo, tra tutte le genti (èis pànta tà èthne).
Al mandato dato ai discepoli di essere testimoni, “martiri di queste cose” (màrtyres toùton), testimoni con la parola e con la vita, alcuni fino all’effusione del sangue, si assicura anche la promessa di una potente assistenza dall’alto, l’assistenza della grazia: “Ed ecco che io mando sopra di voi quello che il Padre mio ha promesso” (Luca, 24, 49).
Egli illuminerà, fortificherà, darà consistenza alla parola che così diviene testimonianza di vita.
I discepoli di Emmaus a Gerusalemme “trovarono gli undici riuniti con i loro compagni” (Luca, 24, 33).
E a essi così riuniti dà l’incarico di rendergli testimonianza “tra tutte le genti” (Luca, 24, 48).
È nell’unità che vengono inviati a proclamare quanto hanno visto e sentito.
Il gruppo ecumenico della Scozia ha pensato di rinnovare ai cristiani d’oggi lo stesso invito.
La situazione attuale è indebolita dalla divisione, ma anche in questa circostanza i cristiani sono chiamati a rendere oggi quella testimonianza comune che è loro possibile.
Essa si fonda su quella fede comune non intaccata dalla divisione e sul desiderio di superare le divergenze ancora esistenti.
Il concilio Vaticano ii ci ha ricordato i vincoli che permangono nonostante la divisione, in modo diversificato, tra le varie Chiese e comunità ecclesiali, e costituiscono la comunione parziale che ancora lega i cristiani.
La costituzione dogmatica sulla Chiesa dichiara che con gli altri cristiani “la Chiesa sa di essere per più ragioni congiunta” (Lumen gentium, 14).
Tra le “ragioni” che congiungono i cristiani la costituzione indica innanzitutto la Sacra Scrittura come norma di fede, la fede in Dio Padre onnipotente e in Cristo, Figlio di Dio e Salvatore, il comune battesimo e altri sacramenti.
La costituzione rileva: “Molti fra loro hanno anche l’episcopato, celebrano la sacra eucaristia e coltivano la devozione alla Vergine Madre di Dio.
A questo si aggiunge la comunione di preghiere e di altri benefici spirituali, anzi una certa vera unione nello Spirito Santo” (ibidem).
Le relazioni fraterne e il dialogo teologico bilaterale hanno ampliato questa base di comunione, pur permanendo importanti divergenze.
Così tra la Chiesa cattolica e gli altri cristiani v’è una vera comunione di fede, sebbene parziale.
In questo contesto, è possibile una fondata testimonianza comune? Nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi Paolo vi (1975) aveva risposto lucidamente auspicando che “si collabori con maggiore impegno con i fratelli cristiani, basandoci sul fondamento del battesimo e sul patrimonio di fede che ci è comune, per rendere sin d’ora, nella stessa opera di evangelizzazione, una più larga testimonianza comune a Cristo di fronte al mondo” (n.
77).
Si tratta di un argomento e di un’azione delicata, ma corrisponde al più autentico spirito ecumenico.
Del resto già esplicitamente il concilio Vaticano ii aveva chiesto che lo spirito ecumenico sia favorito tra i neofiti.
Il decreto Ad gentes aveva chiesto, in relazione all’evangelizzazione, la collaborazione fraterna con gli altri cristiani “esclusa ogni forma di indifferentismo e di sincretismo, sia di sconsiderata concorrenza, attraverso una comune – per quanto possibile – professione di fede in Dio e in Gesù Cristo di fronte alle genti” (n.
15).
Tale cooperazione può realizzarsi “tanto nel campo tecnico e sociale quanto in quello religioso e culturale” (ibidem).
In realtà nel centenario della Conferenza missionaria d’Edimburgo il tema della preghiera per l’unità ripropone così l’orientamento stesso della preghiera di Gesù per i suoi discepoli.
Per essi chiede al Padre “che siano uno, affinché il mondo creda” (Giovanni, 17, 21).
L’unità dei cristiani è aperta alla missione.
Il tema della Settimana viene proposto – proclamando l’intero capitolo 24 di Luca – nello schema di celebrazione liturgica, per coloro che usano fare un atto di culto comune di carattere più esteso e partecipato, per esempio tra tutte le Chiese e comunità ecclesiali presenti sul luogo, in una parrocchia, in una città, in una diocesi.
Il tema sarà proposto inoltre suddiviso in varie parti per ciascuno degli otto giorni.
Il sussidio pone la domanda: come migliorare la testimonianza dei cristiani nel nostro tempo? E suggerisce una modalità per ciascun giorno: lodando l’unico Dio che dà il dono della vita e della resurrezione (primo giorno); comprendendo come poter condividere la nostra storia di fede con gli altri (secondo giorno); riconoscendo che Dio opera continuamente nelle nostre vite (terzo giorno); rendendo grazie per la fede che abbiamo ricevuto (quarto giorno); proclamando la vittoria di Cristo su ogni sofferenza (quinto giorno); cercando di essere sempre più fedeli alla Parola di Dio (sesto giorno); crescendo nella fede, nella speranza, nell’amore (settimo giorno); offrendo ospitalità e sapendo riceverla a nostra volta (ottavo giorno).
Il sussidio esplicita la domanda: la nostra testimonianza al Vangelo di Cristo non sarebbe forse più fedele se riuscissimo, in ciascuno di questi otto aspetti, a darla insieme? I vari giorni trattano i diversi aspetti coinvolti nella tematica del testo biblico di base.
La Settimana così potrà trasformarsi in una lectio divina di approfondimento della Parola di Dio e di preghiera per la ricomposizione dell’unità dei cristiani.
(©L’Osservatore Romano – 17 gennaio 2010)
“Col Papa dialogo complicato ma non si ferma”
Il Papa in Sinagoga: omaggio a vittime Shoah di Orazio La Rocca «Un’ulteriore tappa dell’irrevocabile cammino di concordia e di amicizia tra ebrei e cattolici».
E’ il «convinto» auspicio che Benedetto XVI formula al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, in vista dell’attesa visita che farà domenica prossima alla Sinagoga di Roma, la seconda di un Papa, dopo quella fatta il 13 aprile 1986 da Giovanni Paolo II, che fu il primo pontefice della storia – dopo San Pietro – ad entrare in un tempio ebraico.
Ratzinger ne parla nel telegramma inviato, a firma del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, al rabbino capo Di Segni in risposta ai suoi auguri natalizi.
Telegramma reso noto ieri, lo stesso giorno in cui il rabbino capo di Tel Aviv, Israel Meir Lau, rilancia le riserve sulla beatificazione di Pio XII, chiedendo al Papa – in una intervista a Sky Tg24 – di non elevare agli onori degli altari Pacelli.
Il tema era esploso lo scorso dicembre in seguito alla firma di Ratzinger dei decreti sulle virtù eroiche di Pio XII e Wojtyla, suscitando le critiche di parte del mondo ebraico che accusa Pacelli di essere stato in «silenzio» verso la Shoah.
Ieri il rabbino Mair Lau ha aggiunto di «vedere con grande sospetto a stupore» il rilancio della beatificazione di Pio XII.
Ma non solo.
Sostiene pure che «Wojtyla ha vissuto la Shoah dalla parte delle vittime, mentre Ratzinger ha passato la seconda guerra mondiale dall’altra parte della barricata e questo può essere una grande differenza».
Qualche garbata riserva emerge anche dall’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, Mordechay Lewy, al mensile Pagine Ebraiche, ripreso anche dall’Osservatore Romano.
Il diplomatico, nel parlare degli antichi «traumi ebraici», ricorda che «una ferita grave e dolorosa inflitta nel passato si apre ogni qualvolta la vittima si trova di fronte ai simboli del carnefice».
Si tratta di un problema reso ancora più complicato dal fatto che, riconosce Lewy, «solo pochi rappresentanti dell’ebraismo sono realmente impegnati nell’attuale dialogo con i cattolici».
Polemiche e riserve a parte, tutto è pronto per la visita di Ratzinger che sarà accolto, alle 16,30 dal rabbino capo Di Segni e da Riccardo Pacifici, presidente degli ebrei romani, e Renzo Gattegna, presidente degli ebrei italiani.
L’incontro comincerà con un omaggio alle lapidi che ricordano la deportazione degli ebrei del ghetto di Roma del 16-10-1943 e l’attentato da parte di terroristi palestinesi del 9-10-1982, in cui morì il bambino Stefano Gay Tachè e numerosi ebrei furono feriti.
Dopo, ai piedi della scalinata della Sinagoga Di Segni pronuncerà il suo discorso di benvenuto.
L’ingresso in Sinagoga sarà accompagnato dal canto di un coro, seguito dalle prolusioni ufficiali.
Al termine, breve dialogo privato tra Papa e Rabbino capo; visita alla mostra Et ecce gaudium allestita nel museo ebraico e incontro con ebrei romani.
in “la Repubblica” del 13 gennaio 2010 Laras contro la visita del Papa in sinagoga «Non è un fatto positivo, io non ci sarò» «La visita del Papa alla sinagoga di Roma è un fatto negativo».
È una posizione dura quella espressa dal presidente dell’Assemblea rabbinica italiana Giuseppe Laras (ascoltalo in AUDIO), che domenica non parteciperà alla storica cerimonia nel Tempio maggiore di Lungotevere De’ Cenci.
Un evento, dice, che «non porterà nulla di buono, ma servirà solo ai settori più retrivi della Chiesa».
Laras spiega che durante l’attuale pontificato «il rapporto fraterno tra ebrei e cattolici è diventato sempre più debole».
In particolare il rabbino ha fatto riferimento a «infortuni sul lavoro», come la revoca della scomunica del vescovo lefebvriano Richard Williamson e il processo di beatificazione di Pio XII.
GIOVANARDI: OFFENSIVO – Parole che suonano offensive secondo il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi: «Se Laras ha deciso di stare lontano dalla visita del Santo Padre alla sinagoga deve sapere che con questo atteggiamento offende i cattolici, soprattutto quelli che hanno sempre testimoniato amicizia e solidarietà con gli ebrei e lo Stato di Israele.
Nel dialogo possono nascere incomprensioni, ma l’interruzione del dialogo e gesti di scortesia non aiutano certamente a chiarire le rispettive posizioni».
L’AMBASCIATORE LEWY – Alle parole del presidente dei rabbini fanno eco quelle dell’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, Mordechai Lewy, secondo cui «l’antigiudaismo cattolico esiste ancora»: «Sono sicuro che quando il Concilio Vaticano II ha approvato la “Nostra Aetate” (dichiarazione sui rapporti tra cattolici ed ebrei con la condanna dell’antisemitismo, ndr) non tutti erano d’accordo, come credo che non tutti lo siano ancora oggi».
Inoltre, spiega, le precisazioni del Vaticano sul timing della beatificazione di Pio XII non fermeranno le critiche.
Ma Lewy riconosce che la visita di Benedetto XVI ha una «dimensione storica» e «nonostante la differenza di opinioni possiamo mantenere un dialogo onesto e molto amichevole».
L’anno scorso la celebrazione comune della Giornata era saltata per la protesta da parte di alcuni rabbini contro l’introduzione della preghiera per la conversione degli ebrei: «È stata un’eccezione – spiega Lewy -, una breve interruzione di rapporti che però da tempo sono positivi».
CORRENTI RETRIVE – Secondo il presidente dei rabbini Laras, che ha rilasciato un’intervista al Juedische Allgemeine Zeitung, giornale della comunità ebraica tedesca, nulla di positivo può derivare dalla visita di Benedetto XVI, «né per il dialogo ebraico-cattolico, né per il mondo ebraico in genere.
L’unica che potrà trarne vantaggio sarà la Chiesa, in particolare nelle sue correnti più retrive.
Qualora si verificasse un nuovo motivo di attrito con il mondo ebraico, potrà servirsi di questo evento per ribadire ed esibire la sua sincera amicizia nei nostri confronti».
Laras ha poi attaccato la comunità ebraica romana dato che – spiega – l’ebraismo italiano non è stato coinvolto nella decisione da assumere in merito all’incontro con il Pontefice.
La scelta di non disdire la visita «è stata presa unilateralmente dalle rappresentanze della comunità ebraica di Roma e dal suo rabbino capo», Riccardo Di Segni, e l’idea di annullare la visita dopo la recente dichiarazione di Benedetto XVI su Pio XII «è stata condivisa da molti in Italia, soprattutto da parte delle famiglie dei superstiti della Shoah e da alcuni esponenti del Rabbinato italiano.
Pur condividendo l’idea di non annullare l’incontro, avrei preteso un chiarimento maggiormente significativo della Chiesa cattolica sui presunti eroismi di Pio XII, ora additati al mondo come modello da esaltare e da imitare».
DI SEGNI: VISIONI DIVERSE – A Laras ha replicato lo stesso Di Segni: «Abbiamo visioni differenti e io rispetto molto le visioni differenti, sarà il tempo a dire chi ha fatto la scelta giusta».
E sulla visita di domenica: «Quello che farà il papa francamente non lo so.
Stiamo valutando se e come affrontare gli argomenti sollevati dalla vicenda della beatificazione di Pio XII».
Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica romana, esprime massimo rispetto per la posizione di Laras, ma sottolineando che la presenza in sinagoga delle più autorevoli personalità del mondo ebraico internazionale testimoniano «l’incoraggiamento e il sostegno» alla visita di Ratzinger affinché il dialogo vada avanti.
IL PRECEDENTE NEL 1986 – L’ultima visita di un papa alla sinagoga romana risale al 1986, quando Giovanni Paolo II fu accolto nel tempio dall’allora rabbino capo di Roma Elio Toaff.
Ed è proprio Toaff a dire oggi che il cammino di dialogo e chiarificazione tra ebraismo e cristianesimo prosegue anche se ogni tanto compaiono «quelli che oramai chiamiamo errori di percorso».
L’anziano rabbino, sostituito da Di Segni nel 2001, domenica sarà presente per salutare brevemente Benedetto XVI.
Il suo giudizio sulla visita è «molto positivo»: «Ebraismo e cristianesimo continuano a dialogare e a parlarsi ormai ininterrottamente da decenni a partire dal Concilio Vaticano II.
Questo nuovo appuntamento significa che il cammino prosegue su questa strada anche se ogni tanto compaiono quelli che oramai chiamiamo errori di percorso.
Tuttavia credo che grazie alla buona volontà di tutti il dialogo proseguirà sulla strada della collaborazione e della comune comprensione».
14 gennaio 2010 «Il Papa in Sinagoga, dialogo che continua» Una visita che «ha valore in sé».
«Come segno di continuità», dice il rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, che domenica prossima riceverà Benedetto XVI, quasi 24 anni dopo la storica prima volta di Giovanni Paolo II.
A pochi giorni dal nuovo evento Di Segni ci riceve nel suo studio privato e in questa intervista ad Avvenire affronta con la consueta franchezza tutti i punti più importanti dell’agenda comune ebraicocattolica.
A cominciare dal cambiamento di clima che nel giro di 12 mesi ha ribaltato una situazione di forte tensione.
Perciò l’esponente ebraico afferma convinto: «Indietro non si torna».
Grazie al dialogo sono stati realizzati «sostanziali passi avanti ».
Rabbino, giusto un anno fa la giornata dell’amicizia tra ebrei e cattolici non fu celebrata.
Domenica prossima invece il Papa si recherà nella Sinagoga di Roma.
Che cosa ha determinato questo netto miglioramento? La sospensione della celebrazione della giornata era dovuta alle turbolenze in merito alla preghiera del venerdì santo «pro Judaeis» che toccava un nervo scoperto della sensibilità ebraica.
Se, infatti, il dialogo serve alla conversione degli ebrei, noi lo rifiutiamo per principio.
Il dialogo serve invece per conoscerci e per rispettarci, cioè per farci più forti nelle nostre fedi, conoscendo meglio l’altro.
Se invece ha altri scopi, per noi non ha senso.
Su questo erano necessari dei chiarimenti che grazie al dialogo sono arrivati e questo ha reso possibile rasserenare il clima.
E quest’anno la celebrazione assume un aspetto assolutamente eccezionale.
Qual è il significato di questa visita? La visita ha valore di per sé come gesto di continuità, poiché si colloca sulla scia di un grande gesto compiuto da Giovanni Paolo II.
Il fatto che il gesto venga ripetuto significa che non resta isolato, che questa linea è tracciata e che Benedetto XVI non ha intenzione di tornare indietro.
Perciò si crea un modo di rapportarsi ed una tradizione da seguire.
Papa Ratzinger è già alla sua terza visita in una Sinagoga, è stato al Muro del Pianto e allo Yad Vashem, ha reso omaggio alla Shoah recandosi ad Auschwitz.
E tutto questo in meno di cinque anni di pontificato.
Chi è oggi per il mondo ebraico Benedetto XVI? È un Papa che ha una forte sensibilità per il nostro mondo, ma anche un pensiero complesso.
E infatti, accanto ad aspetti di grande simpatia per la realtà ebraica ha anche dei momenti di pensiero ben fermo, di posizioni che non incontrano ovviamente il nostro favore.
Tuttavia non è certamente un Papa che interrompe il dialogo o che dice: «Bisogna tornare indietro», anzi va avanti con la sua precisa formazione.
D’altra parte se fossimo d’accordo su tutto, non ci sarebbe neppure motivo di dialogare.
Quali sono i punti più urgenti di questo dialogo? In primo luogo c’è una questione di clima sereno.
Certo, ogni tanto possono esserci incidenti e inciampi, ma quello che deve essere forte è la volontà di risolverli.
L’altro punto fondamentale è che dobbiamo chiederci: che senso ha che i nostri due mondi si confrontino? E lei che risposta dà a questa domanda? La nostra amicizia deve servire a dimostrare che si può testimoniare la propria fede in un modo non offensivo, non aggressivo e non violento nei confronti degli altri credenti e degli altri esseri umani.
Ed è un messaggio importantissimo nella fase attuale.
Vorremmo anzi che il messaggio di questa visita si allarghi e coinvolga altre comunità.
Recentemente la pubblicazione del decreto sulle virtù eroiche di Pio XII ha suscitato nuove reazioni da parte ebraica.
Qual è la sua opinione al riguardo? Ecco, questa è una questione che divide, è un problema di interpretazione storica, sul quale bisognerà tener presente che la sensibilità ebraica è completamente diversa.
Noi vorremmo che si andasse avanti con e- strema cautela e non con gesti avventati.
Il problema, infatti, dal nostro punto di vista è ben lontano dalla sua soluzione.
Che cosa intende per «estrema cautela » e quali sarebbero invece i «gesti avventati»? Estrema cautela significa che esistono tantissimi documenti ancora da studiare, mentre i gesti avventati sono quelli di chi dice: «La situazione è perfettamente chiara, abbiamo chiuso il discorso e basta».
Tutto chiarito invece sulla questione della preghiera del venerdì santo alla quale lei accennava prima? Sull’argomento direi che è stato raggiunto un armistizio ‘politico’, più che una pace vera.
Nel senso che è stato chiarito dalle più alte autorità della Chiesa che la conversione non si riferisce all’immediato, ma è trasferita alla fine dei tempi.
Non crede che dalla visita verrà anche l’ennesimo fortissimo no all’antisemitismo? Francamente penso che oggi il problema sia l’antigiudaismo, che è una cosa differente, ma non meno pericolosa.
L’antisemitismo è un odio su base razziale e la Chiesa non può essere razzista.
Ma l’ostilità antiebraica può esistere anche a prescindere dall’odio razziale ed è su quello che dobbiamo fare chiarezza, anche se devo riconoscere che sono stati fatti dei progressi sostanziali in questi ultimi anni.
in “Avvenire” del 13 gennaio 2010 intervista a Riccardo Di Segni Riccardo Di Segni (rabbino capo di Roma) dopo le polemiche per il sì di Ratzinger a Pio XII beato come sarà la visita di domenica in sinagoga? «La distinzione tra ruolo storico di Pio XII e valutazione di fede.
E’ stato il segnale che il “via libera” di Benedetto XVI alla beatificazione non era una sfida.
Resta discutibile se quella distinzione abbia una validità morale e teologica, però in quel modo il vaticano ha dimostrato disponibilità al confronto.
Ma la scelta è stata difficile, ci sono state consultazioni e riflessioni continue.
Così si mostra al mondo che con il papa Benedetto XVI il dialogo, pur restando una materia complicata, non torna indietro».
Cosa c’è nel suo discorso? «Non è ancora pronto.
Sarà incentrato sulla riflessione del significato religioso dei nostri rapporti, del rispetto reciproco, ma sto valutando se e in quale forma inserire un riferimento a Pio XII, dopo tutto quello che è successo nei giorni passati.
Domenica ogni singolo aspetto sarà delicatissimo: dall’accoglienza alle parole che verranno pronunciate.
E’ ancora tutto in gestazione e non ci sono stati contatti sui contenuti.
Sul pontificato di Pio XII la pensiamo in modo diverso, però serve incontrarsi anche se si hanno opinioni differenti».
Wojtyla ha vissuto la Shoah dalla parte delle vittime, mentre Benedetto XVI ha passato la seconda guerra mondiale «dall’altra parte della barricata».
Condivide le parole del rabbino capo di Tel Aviv, Israel Meir Lau? «Non è un attacco, bensì la constatazione di una differenza oggettiva tra Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
A parlare è un gigante dell’ebraismo mondiale, discendente di un’antica dinastia rabbinica.
I suoi genitori sono stati sterminati e lui da bambino si è salvato passando da un lager all’altro.
Israel Meir Lau è polacco ed è stato amico personale di Wojtyla, non è una persona qualsiasi e i suoi interventi hanno una grandissima rilevanza.
Ricordo bene il clima in cui avvenne la visita di Wojtyla alla Sinagoga di Roma.
I problemi e le resistenze non mancavano neanche allora, tanto più che era il primo Papa in duemila anni a entrare in una Sinagoga.
Però le differenze tra i due eventi sono enormi».
Quali? «Le differenze riguardano la persona Wojtyla rispetto alla persona Ratzinger, i tempi e il programma.
Il ruolo delle religioni su scala mondiale è cambiato totalmente.
Ora, con l’incombente scontro fra civiltà, è fondamentale ricondurre il confronto nel giusto ambito.
La visita di Wojtyla fu un grande gesto.
Quattro anni fa ho incontrato Benedetto XVI in Vaticano, gli dissi che era quasi il ventennale della visita di Wojtyla.
Un evento unico, ma che nulla impediva che fosse ripetuto».
Che cosa ha pensato durante le bufere per la grazia al vescovo negazionista Willamson, il ritorno della preghiera del Venerdì Santo per la conversione degli ebrei e Pio XII beato? «Nei primi momenti del pontificato di Ratzinger, si diffuse la convinzione che non solo non ci sarebbero stati passi indietro nel cammino del dialogo con l’ebraismo, ma che la strada segnata sarebbe continuata linearmente.
Purtroppo invece gli ostacoli e gli incidenti di percorso in questi quattro anni non sono mancati, ma bisognerebbe guardare anche alle cose essenziali.
A pochi giorni dalla visita guardiamo di più ciò che ci avvicina invece che a ciò che ci allontana e cioè la denuncia dell’antisemitismo e antigiudaismo passato e presente, la condanna del terrorismo fondamentalista, l’attenzione allo Stato d’Israele, che per tutto il popolo ebraico è un riferimento essenziale e centrale».
in “La Stampa” del 14 gennaio 2010