In una intervista televisiva trasmessa nel giorno di apertura della 46ª Settimana Sociale dei cattolici italiani, tenutasi a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre, il cardinal Bagnasco alla domanda su cosa facesse la chiesa per questo paese, ha risposto che la chiesa mette a disposizione la ricchezza di virtù, cioè di solidarietà generosità e moralità, coltivate nella fittissima rete delle parrocchie.
Un modo per dire che se in questo paese sopravvivono nuclei ancora apprezzabili di coesione sociale è anche per merito della chiesa.
Una verità semplice su cui dovrebbero riflettere quanti vogliono bene all’Italia, credenti o non credenti che siano.
Dopo il convegno di Reggio Calabria credo si possa aggiungere che nella periferia della chiesa italiana si stanno coltivando oggi talenti personali preziosi che rappresentano una speranza concreta per il futuro.
È veramente incomprensibile il silenzio informativo che ha avvolto e accompagnato l’evento calabrese.
Se fossero stati presenti anche solo la metà dei giornalisti che normalmente seguono i convegni di partiti o anche solo di corrente, avrebbero potuto registrare ciò che là si coglieva ad occhio nudo: la presenza cioè di un laicato maturo, conoscitore dei problemi politici e sociali del paese, competente nelle soluzioni proposte, vivace, lieto di prendersi la parola dopo anni di assopimento.
Il convegno ha registrato infatti un salto quando si è passati dalle relazioni introduttive degli studiosi, peraltro non banali, al lavoro nei cinque gruppi in cui si sono organizzati gli oltre 1000 delegati per discutere le tematiche indicate nel documento preparatorio: Intraprendere; Educare; Includere le nuove presenze; Slegare la mobilità sociale e Completare la transizione istituzionale.
Non si cerchino nei documenti finali soluzioni strabilianti, perché si troveranno solo indicazioni di buon senso, talmente di buon senso da sembrare talora rivoluzionarie.
Ma ciò che colpiva era la partecipazione corale di un popolo, per molti aspetti sconosciuto, che sembrava essersi preparato – senza volersi spingere a paragoni storici arditi – nella stagione della decadenza del paese, al riparo dalla decadenza medesima.
Un popolo di gente, soprattutto giovani, con il senso della propria responsabilità e la fiducia nelle proprie idee.
Anche nelle analisi più severe non c’era pessimismo, ma volontà di cambiare.
Di fronte a tale spettacolo non si poteva che dedurre che, anche negli anni in cui la gerarchia non ha mostrato grande fiducia nei suoi laici, “il Vangelo ha lavorato”.
C’è da augurarsi che tale potenzialità ora non venga arginata e contenuta, perché, dopotutto, è una risorsa di cui il paese sente veramente il bisogno.
Partendo dalla constatazione delle cause di sofferenza della nostra democrazia “senza qualità”, svuotata e inquinata da talune oligarchie prive di senso dello stato e del bene comune, riassumibili nella disinvoltura con cui si cambia oggi il senso e il valore della Carta costituzionale e, in particolare, si fanno riforme costituzionali non più per perseguire efficacemente obiettivi di bene comune, ma per cambiare equilibri e convenienze politiche, è stata indicata con chiarezza come prima esigenza quella di educare, e ri-educare, giovani e adulti al valore della legalità.
Perché la legalità sia piena non basta infatti evocare il rispetto delle leggi – è stato detto – ma occorre che la legge sia veramente finalizzata al bene comune, non foss’altro perché spesso accade che chi vanta il presunto rispetto della legge è lo stesso che prima fa le leggi a proprio uso.
Il segno della perdita di paradigmi fondamentali è purtroppo rappresentato da un nuovo senso comune che sta prendendo sempre più piede, anche tra i credenti, così sintetizzabile: «Di lui ci si può fidare, perché è stato così bravo a fare i suoi affari…», i suoi affari appunto, non quelli della comunità, anziché dire come si faceva dei grandi statisti (De Gasperi, Moro, La Malfa, Berlinguer, ed altri ancora) «di lui ci si può fidare, perché è stato così bravo a perseguire il bene comune anziché il suo proprio personale».
In tale spirito si sono affrontate le questioni centrali del dibattito politico di oggi, quali quelle della integrazione dei cittadini immigrati coniugando accoglienza e legalità, e lavorando sui cambiamenti che la mobilità ha già prodotto nel mondo del lavoro, nella famiglia, nella scuola, nella città e nella comunità cristiana; o quelle della messa in discussione della logica del capitalismo alla luce delle indicazioni precise e coraggiose della “Caritas in Veritate”, senza il timore di interloquire anche polemicamente con la relazione del prof.
Gotti-Tedeschi giudicata troppo acritica verso il mercato e la responsabilità delle banche; o quelle delle riforme istituzionali a partire dal federalismo sino a dare suggerimenti concreti per garantire la democrazia nei partiti e la riforma della legge elettorale unanimemente giudicata non degna di un paese civile.
Il tutto è stato detto con chiarezza di pensiero, sobrietà e precisioni di linguaggio, senza livore o pregiudizio politico.
In questo senso è stata una esperienza singolarmente interessante per i non molti parlamentari presenti (mancavano incomprensibilmente quelli di Pdl e Lega) che hanno vissuto la possibilità di discutere problemi complessi in uno spirito di sincerità e serenità non consueto nelle sedi politiche.
Insomma è stato un esercizio importante per tutti per capire che è possibile vivere “le cose ultime” in modo adeguato soprattutto quando si impara a vivere responsabilmente “le cose penultime”.
Il luogo in cui si studiano e si lavorano le cose penultime, è proprio la politica, ed è questo luogo che i cattolici italiani riuniti a Reggio Calabria hanno pensato di trasformare in laboratorio, in una fabbrica di speranza e di cambiamento.
L’assemblea ha raggiunto poi un momento alto di passione umana, ideale e politica, quando il prof.
Giuseppe Savagnone ha illustrato il documento della Cei sul Mezzogiorno, forse il più alto contributo, dai tempi di Vanoni e Saraceno, che sia stato scritto sull’annosa questione che affligge il nostro paese.
La standing ovation, durata diversi minuti, con cui è stato salutato il professore palermitano ha rappresentato plasticamente una esplosione di vitalità, quasi un moto liberatorio di sentimenti repressi o quanto meno a lungo contenuti, e parole che nessuno, nemmeno la chiesa può sequestrare.
È giusto perciò il titolo dell’editoriale del direttore di Avvenire di due giorni fa: «C’è un’Italia esigente.
Stateci attenti ».
Non so bene a chi fosse rivolto l’ammonimento, se solo alla politica o anche ad altri.
Resta il dato della rivelazione di una novità importante, quella di una chiesa italiana non intimidita, anzi consapevole della propria irrinunciabile responsabilità verso la società italiana.
La chiesa che, come ha detto Benedetto XVI nel suo messaggio alla Settimana Sociale, «ha opportunamente assunto la sfida educativa come prioritaria nel presente decennio, (volendo) spendersi nella formazione di coscienze cristiane mature, cioè aliene dall’egoismo, dalla cupidigia dei beni e dalla bramosia di carriera e, invece, coerenti con la fede professata, conoscitrici delle dinamiche culturali e sociali di questo tempo e capaci di assumere responsabilità pubbliche con competenza professionale e spirito di servizio».
Stateci attenti! Stiamoci attenti in “Europa” del 21 ottobre 2010
Categoria: Cultura
“La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza”
Alla vigilia del sinodo su “La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza”, che si terrà in Vaticano dal 10 al 24 ottobre, è la stessa presenza dei cattolici in quelle terre che apre problemi.
Molti degli appartenenti alle comunità indigene, eredi delle antiche cristianità lì fiorenti prima che vi arrivasse l’islam, fuggono via.
Quelli che restano vivono qua e là nel terrore, ad esempio nel nord dell’Iraq, a Mosul e dintorni, dove per difendersi tendono a fare ghetto nella piana di Ninive.
Ma altrove arrivano per motivi di lavoro molti altri cattolici, in gran numero.
Soprattutto dall’Asia e soprattutto nei paesi del Golfo.
Ad esempio, nel solo Kuwait i lavoratori immigrati sono oggi due milioni, il doppio dei cittadini kuwaitiani.
I cattolici sono 350 mila e sono in prevalenza filippini e indiani.
L’ondata di questi arrivi è così massiccia, in Arabia Saudita e nel Golfo, che a Roma stanno studiando come riscrivere i confini dei vicariati dell’area, dividendo in più parti l’immenso vicariato d’Arabia che oggi raggruppa Arabia Saudita, Oman, Yemen, Emirati Arabi, Qatar e Bahrein.
C’è infine il caso speciale dei cattolici in Israele, anche questo in piena mutazione.
* Anzitutto, entro i confini di Israele i cristiani non sono andati diminuendo, ma in cifre assolute sono aumentati anno dopo anno: da 34 mila nel 1949 a 150 mila nel 2008, ultimo dato ufficiale.
Di una loro lieve diminuzione si può parlare solo in termini percentuali – dal 3 al 2 per cento –, perché nello stesso lasso di tempo i cittadini di religione ebraica sono cresciuti da un milione a 5 milioni e mezzo, grazie alle immigrazioni dall’estero, e i musulmani da 111 mila a 1 milione 200 mila.
In Israele, i cristiani sono presenti soprattutto in Galilea, mentre a Gerusalemme se ne contano 15 mila.
L’esodo di cristiani per il quale si lancia l’allarme riguarda quindi non Israele ma piuttosto la Terra Santa, termine geograficamente estensibile, che comprende i territori palestinesi e parti dei paesi arabi circostanti, fino alla Turchia e a Cipro.
* La novità di maggior interesse, entro i confini di Israele, riguarda i cattolici di lingua ebraica.
Per la loro cura il patriarcato latino di Gerusalemme ha uno specifico vicariato, oggi affidato al gesuita David Neuhaus, ebreo israeliano convertito al cristianesimo.
Fino a pochi anni fa, in Israele, i cattolici di lingua ebraica erano poche centinaia.
Ma sono in netta crescita e contano oggi almeno sette comunità: a Gerusalemme, Jaffa, Be’er Sheva, Haifa, Tiberiade, Latrun e Nazaret.
Alla rivista italiana “Il Regno” padre Neuhaus ha spiegato che queste comunità si sono formate grazie a quattro apporti.
Il primo apporto è venuto dagli ebrei giunti in Israele con le successive ondate migratorie, tra i quali c’erano dei cattolici, nati tali o convertiti, che sono diventati parte integrante della società israeliana di lingua ebraica.
L’ultima grande ondata migratoria, dopo il 1990, è arrivata dal dissolto impero sovietico.
Il secondo apporto è dato dall’arrivo in Israele di lavoratori stranieri.
Sono oggi circa 200 mila.
Provengono dall’Africa, dall’America latina, dall’Europa orientale e più ancora dall’Asia.
Dalle Filippine ne sono giunti 40 mila, per la maggior parte donne e cattoliche.
I loro figli, nati e battezzati in Israele, vanno a scuola, imparano l’ebraico e si integrano nella società israeliana.
Il terzo apporto è costituito dai 2-3 mila maroniti libanesi trasferitisi in Israele dopo il ritiro israeliano dal sud del Libano e da profughi africani provenienti soprattutto dal Sudan meridionale, dove i cattolici sono numerosi.
I loro figli crescono anch’essi parlando l’ebraico.
Infine, vi sono i palestinesi cattolici presenti in Israele fin dalla sua fondazione, con lo statuto di cittadini ma in condizioni socialmente svantaggiate.
La loro lingua è l’arabo e sono stanziati soprattutto nei villaggi della Galilea, ma tendono a spostarsi in località economicamente più attraenti.
Padre Neuhaus porta l’esempio di Be’er Sheva, “dove sono emigrate centinaia di famiglie arabe per lavorare nei servizi intorno ai villaggi beduini, che però non vivono con i beduini perché socialmente ed economicamente di classe inferiore.
Mandano i loro figli nelle scuole di lingua ebraica e così abbiamo una nuova generazione di arabi palestinesi che parlano l’arabo solo in casa e non sanno più leggerlo né scriverlo”.
Sono tutti questi – ormai alcune migliaia e di origini le più diverse – i cattolici di lingua ebraica di cui si prende cura il vicariato.
La cura è rivolta in particolare ai giovanissimi, con catechismi per la prima volta redatti e insegnati nella lingua di Israele.
Commenta padre Neuhaus: “Operiamo con mezzi poveri.
Nel patriarcato la maggioranza cristiana palestinese è quella a cui si dedica maggiore attenzione, e così i cristiani di lingua ebraica sono in un certo senso dimenticati.
Ma siamo poveri anche in termini di persone che se ne occupino: siamo un piccolissimo gruppo con compiti troppo grandi».
* Nel 2003 la Santa Sede pose alla testa del vicariato di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica un vescovo e monaco benedettino di grande valore, Jean Baptiste Gourion, algerino di nascita, anche lui un ebreo convertito.
La nomina fu criticata aspramente dai circoli pro-palestinesi della Chiesa cattolica.
Sulla rivista dei gesuiti di New York, “America”, padre Drew Christiansen, che ne è l’attuale direttore, la definì “una manovra mirata a dividere la Chiesa in Terra Santa”.
Purtroppo il vescovo Gourion morì poco dopo, prematuramente.
E ai suoi successori non fu conferita la dignità episcopale.
Dice padre Neuhaus: “Come cattolici di lingua ebraica siamo una doppia minoranza, sia nello stato d’Israele sia nella Chiesa.
A volte abbiamo l’impressione di vivere in un piccolissimo ghetto”.
Un briciolo di speranza viene dal testo base del sinodo sul Medio Oriente che sta per cominciare in Vaticano, là dove definisce “un grande aiuto” al dialogo con l’ebraismo l’esistenza del vicariato per i cattolici di lingua ebraica.
Sandro Magister Sabato pomeriggio, fine del giorno di shabbat.
Nella chiesa di san Pietro una piccola comunità si ritrova per l’eucaristia.
Siamo a Jaffa, sobborgo nell’immediata periferia di Tel Aviv, un tempo porto e principale via d’accesso in Palestina, ora appendice della capitale.
Circa 40 cristiani celebrano la messa: i tratti del volto chiariscono la diversità di provenienze di questi fedeli.
A ritrovarsi è una delle comunità cattoliche di lingua ebraica, piccola ma importante realtà che cresce all’interno d’Israele, insieme ad altri cattolici che giungono nel paese.
Per comprendere cosa significhi comunione e testimonianza nella Chiesa del Medio Oriente che si prepara al suo primo Sinodo continentale, occorre passare anche da qui.
Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf V isualizza il testo dell’articolo Regno-att.
n.16, 2010, p.525 La terra delle religioni di Filippo di Giacomo in “l’Unità” del 13 ottobre 2010 C’era una volta il Medio Oriente.
Dagli inizi del secolo scorso, durante la decolonizzazione dai turchi e successivamente dagli occidentali, gli arabi di ogni fede religiosa avevano tracciato le linee di un modello di convivenza sociale che, a partire dagli anni Quaranta nel Libano post indipendenza, era stato applicato per la coesistenza politica.
Musulmani e cristiani partecipando attivamente alla lotta di liberazione dei loro paesi, militavano in partiti fondati sul pensiero politico di intellettuali di ambedue le religioni.
Sembra niente, ma è tanto.
Ed è anche a questo che erano riferite le parole con le quali, domenica scorsa, aprendo il Sinodo speciale dei Vescovi del Medio Oriente, Benedetto XVI ha ricordato che quella regione del mondo ha visto «sempre, dai tempi di Gesù fino ad oggi, la continuità della presenza dei cristiani».
Nel suo documento preparatorio, nel cosiddetto Instrumentum laboris, il sinodo mediorientale ha consegnato ai vescovi una tesi politicamente interessante.
La quale, riassunta (come ha fatto il gesuita Samir Khalil Samir per la rivista Mondo e Missione di ottobre) dice più o meno cosi: «In Medio Oriente, i cristiani devono spingere per una società che distingua la politica dalla religione, ma che riconosca la dimensione religiosa come fondamentale; che metta l’accento sull’istruzione, la riflessione e lo spirito critico, senza auto-distruzione né fughe nell’intellettualismo.
Una società fondata su norme, valori e ideali comuni, ispirati dalle diverse religioni».
Sono parole che riecheggiano (in parte, correggendolo) lo spirito di quel “rinascimento arabo”, la Nahda, iniziato nella seconda metà dell’Ottocento ed esauritosi con la prima guerra mondiale, quando il bisogno (allora) tutto occidentale di accesso e di partecipazione alle risorse petrolifere si è concretizzato nel patto di ferro che il sistema economico anglosassone ha stipulato con i paesi, e i regimi, nati dal panarabismo radicale.
Come dimostrano le decennali vicende della guerra irakoafgana, quel patto è ormai traballante.
E anche il panarabismo non sta affatto bene: circa due anni fa, all’undicesimo vertice dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, la massima assise mondiale dei paesi musulmani, a Dakar in Senegal, si sono presentati solo i rappresentanti di 37 paesi sui 57 aderenti.
Oggi, cercare le radici del disastro mediorientale è un esercizio rischioso.
Nel groviglio di sbagli e interessi che hanno gettato nel baratro un’intera regione dello scacchiere mondiale, l’errore di chi ha distrutto, e continua a destabilizzare, il Libano multiconfessionale è pari a quello commesso da chi aveva convinto il mondo che nell’Iraq si tramava costruendo “armi sporche” (fatto smentito, a disastro avvenuto, dalla Cia) e che Saddam Hussein era il grande protettore di al Qaida (fatto smentito, a uccisione avvenuta, dal Pentagono).
Nell’Iraq “pacificato e democraticizzato” i cristiani sono in condizioni di vita disumane: ogni settimana hanno diritto a 60-80 attentati più una congrua dose di rapimenti, minacce e uccisioni.
Non nascondiamoci dietro l’efficacia dei bombardieri nell’esportare la democrazia e la pace.
Nell’avventura senza ritorno che gli scontri degli ultimi cinquant’anni hanno innescato, progressivamente, in tutto il Medio Oriente, le uniche speranze sui diritti umani e la pace interreligiosa provengono dalle “buone volontà” presenti in tutte le società mediorientali.
E a coloro che, a prescindere dalla fede religiosa, vogliono ancora essere un nadhawi, un uomo della rinascita, i vescovi del Medio Oriente indicano il nodo fondamentale della libertà di religione e di coscienza, il tema della migrazione, declinata sia come emigrazione che come immigrazione, all’avanzata del fondamentalismo non solo musulmano, alla restrizione delle libertà, alla situazione economica.
Perché il mondo cambia anche in Medio Oriente e persino nella penisola araba.
Da due decenni circa, la patria di Maometto è in cima alla top ten dei Paesi in cui il cristianesimo sta conoscendo il massimo incremento: su 17 milioni di abitanti, in Arabia vivono 8,8 milioni di stranieri immigrati, a maggioranza di religione cristiana, un abitante ogni due cittadini sauditi.
Se poi si allarga l’analisi agli Emirati Uniti, la proporzione aumenta: gli stranieri diventano più di 13 milioni – l’ottanta per cento della popolazione – di cui quattro milioni cristiani.
Dunque quando i vescovi parlano della necessità di un sistema di diritti riconosciuti e condivisi, di bene comune, di passaggio dalla tolleranza alla giustizia e all’uguaglianza, guarderanno pure il cielo, ma restano con i piedi ben piantati a terra.
Intervista a mons. Philippe Brizard: In Medio Oriente, i cristiani in cerca di unità
Intervista a mons.
Philippe Brizard a cura di Jérôme Anciberro Che cosa ci possiamo aspettare dal Sinodo che sta per cominciare a Roma? Il titolo di questo sinodo, “Testimonianza e comunione” ci dà un’indicazione: la testimonianza passa solo se si è uniti.
Da questo punto di vista, ci sono da fare molti sforzi.
In paesi in cui l’islam ètentato dal fondamentalismo, sciita o sunnita, i cristiani possono avere la tentazione di irrigidire anch’essi le loro posizioni, sentendosi emarginati.
In realtà, non possono fare altro che assicurare il servizio di carità, cioè il servizio del bene di tutti, per tutti, sia attraverso le scuole, gli ospedali, i servizi sociali…
È già una testimonianza di fede ed è molto importante.
È un modo per loro di trasmettere alle popolazioni un po’ dell’amore di Dio.
L’idea di carità non è più tenuta in gran considerazione nei nostri paesi occidentali, ma corrisponde a qualcosa di molto concreto laggiù, nei paesi toccati da una guerra più o meno larvata, che dura da decenni e che blocca la riflessione.
I cristiani, e i cattolici in particolare, per definizione vanno oltre le separazioni nazionalistiche e dei singoli gruppi.
Già solo per questo motivo hanno molto da offrire a quelle regioni.
Chissà se il sinodo potrà prefigurare una nuova esperienza di Pentecoste? I cristiani sono in minoranza nella maggior parte dei paesi del Medio e Vicino Oriente.
E tra i cristiani, i cattolici stessi sono in minoranza.
Come concepire questa situazione di minoranza nella minoranza, quando si riflette da Roma o da Parigi? La realtà di minoranza a cui lei fa riferimento non è così semplice.
C’è un contro-esempio flagrante: i cristiani libanesi sono in maggioranza cattolici.
È così anche in Siria o in Iraq.
Certo, quello che lei dice resta vero per altri paesi.
Soprattutto in Egitto, il paese che conta il maggior numero di cristiani in Medio Oriente, circa 10 milioni.
I cattolici egiziani sono solo 250 000…
Tuttavia bisogna diffidare della tentazione di interpretare queste situazioni frettolosamente, ad esempio a partire dalla separazione tipicamente occidentale tra cattolici e protestanti.
Le Chiese orientali si inscrivono in effetti nelle tradizioni comuni che superano le frontiere di denominazione.
Tali tradizioni si esprimono nella liturgia, nel modo di pregare, di vivere la fede. Quattro di esse sono particolarmente importanti: l’aramaica, la copta, la greca e la latina.
Ne esistono altre, più minoritarie, l’armena.
Se una di queste tradizioni scomparisse, la fede non sarebbe più completa.
Un po’ come se mancasse uno dei quattro vangeli.
Per prendere l’esempio della tradizione aramaica, la si ritrova nella Chiesa maronita, in quella jacobita, caldea, siriaca del Malabar, ecc.
Le Chiese cattoliche orientali del resto provengono generalmente da Chiese ortodosse della stessa tradizione.
All’interno di una stessa tradizione, ognuno cerca di coltivare la sua particolarità.
Una delle sfide del sinodo per il Medio Oriente è precisamente sapere se le Chiese orientali cattoliche saranno capaci di superare i particolarismi.
Ci sono opposizioni teologiche di fondo tra le Chiese orientali? Fino ad una cinquantina di anni fa, ci si trattava allegramente da eretici.
Quei tempi sono superati.
Innanzitutto perché l’unione si impone, di fronte alle difficoltà comuni.
Poi, perché è stato compiuto un enorme lavoro ecumenico.
Oggi non ci sono più differenze di fede cristologica tra le diverse Chiese orientali.
Le false dispute come quella del monofisismo sono completamente superate da diversi decenni, ufficialmente dal 1973 con gli accordi tra Shenuda III, patriarca copto ortodosso di Alessandria, e papa Paolo VI.
Ho letto delle opere di Shenuda III.
Di fatto, aderisco completamente al suo modo di parlare della doppia natura di Cristo.
Ma occorre tempo affinché questo passi nelle piccole parrocchie dell’Alto Egitto.
Allora, tutto funziona bene tra le Chiese orientali? Restano certamente alcuni problemi da risolvere.
Per continuare con l’esempio egiziano: i Copti ortodossi pretendono che i cattolici vengano ribattezzati quando c’è un matrimonio misto cattolicoortodosso.
È un grosso problema.
Non dal punto di vista teorico – la cosa ad alto livello è risolta – ma dal punto di vista pratico.
I responsabili e teologi copti ortodossi sanno benissimo che ribattezzare è assurdo dal punto di vista sacramentale.
Però i responsabili delle parrocchie o i preti di base forse non lo sanno ancora o non vogliono saperlo.
Si può anche parlare dell’influenza di una certa ideologia nazionale o nazionalista che complica le relazioni tra le Chiese.
Sempre in Egitto, le autorità copte cattoliche si sentono in dovere di restare estremamente prudenti nelle loro prese di posizione pubbliche e cercano di distinguersi il meno possibile dagli altri copti, il che talvolta non è facile.
Quando il patriarca copto ortodosso proibisce ai suoi correligionari di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme e si lascia andare a dire cose spiacevoli sugli israeliani, la Chiesa copta cattolica non condivide questa linea.
Ma evita di mettere sulla pubblica piazza questo disaccordo, perché rischia di essere mostrata a dito come quella che difende posizioni venute dall’esterno, non proprio egiziane in certo qual modo.
Altro esempio: i vescovi e le istituzioni copte ortodosse che esprimono interesse per ciò che fanno i cattolici sono in un certo modo messi al bando dalla loro istituzione.
Nel delta del Nilo c’è un centro ecumenico di ritiro, Anaphora.
Questo centro è sostenuto da un vescovo copto ortodosso dell’Alto Egitto.
Ora, questo vescovo è estromesso dal Santo Sinodo.
Il monastero di San Macario, in Wadi el-Natrrun, non è visto di buon occhio da certi esponenti della gerarchia perché a volte accoglie dei cattolici che desiderano essere iniziati alla tradizione monastica copta.
Tutto questo non ha nulla a che fare con la teologia, ma con la politica e la psicologia.
Questo fenomeno si ritrova anche altrove, ad esempio in Armenia.
Un “vero” armeno è un armeno della Chiesa apostolica (non-cattolica).
In India questo lo si vede su una scala diversa: certi movimenti indù spiegano che i “veri” indiani sono necessariamente indù.
Le idee ecumeniche fanno più fatica ad imporsi in Medio Oriente che in Occidente? È difficile rispondere a questa domanda.
Si potrebbe dire, innanzitutto, che in Medio Oriente si pratica una sorta di ecumenismo popolare.
Ognuno sa bene a quale Chiesa appartiene.
E per nulla al mondo battezzerebbe i figli, si sposerebbe o si farebbe seppellire in un’altra.
Però, nel quotidiano, si mettono i figli nel collegio migliore – poco importa da quale Chiesa dipende, purché dipenda da una Chiesa.
Si va a messa o alla divina liturgia dove è più comodo.
Si pratica anche l’intercomunione, in particolare in Libano e in Siria.
Del resto, teologicamente parlando, l’intercomunione è perfettamente ammessa.
Cattolici e ortodossi hanno la stessa concezione teologica della Chiesa come corpo di Cristo.
Ciò non significa comunque che tutti si comunichino con tutti.
Non si è mai tanto Chiesa e corpo di Cristo come quando si celebra l’Eucarestia.
Ed è proprio lì che si sentono maggiormente le nostre differenze.
Spesso, quando sono invitati alla messa cattolica, gli esponenti della gerarchia ortodossa si ritirano al momento della comunione.
Ma hanno assistito a tutta la messa.
Non si pratica il sincretismo, tutto qui.
Allora si potrebbe parlare di due concezioni dell’ecumenismo: una occidentale e una orientale? Diciamo piuttosto che l’ecumenismo come lo intendiamo nel contesto occidentale non è un’ossessione in Medio Oriente.
Le persone sono talmente abituate a vivere nella diversità, le une accanto alle altre, che certe considerazioni paiono loro incongrue.
Ricordo di essere rimasto a lungo un giorno al Santo Sepolcro, a Gerusalemme.
In Occidente, è normale ridere a proposito dell’organizzazione molto particolare di questo luogo e della confusione che questo sembra generare.
Ma ho avuto un’impressione completamente diversa: quella di una straordinaria convergenza.
Perché è là che confluiscono tutte le tradizioni che confessano Gesù Cristo morto e risorto.
Immaginiamo che l’unione tra le Chiese un giorno avvenga.
Che cosa succederebbe? O si cancelleranno le tradizioni, oppure…
non cambierà niente.
La nostra idea occidentale di unità ha senza dubbio qualcosa a che vedere con un inconscio giacobino.
L’unione delle Chiese è certamente una cosa diversa.
La diversità vi ha il suo spazio.
Comunque, in Oriente, abbiamo lo stesso approccio al mistero della Chiesa, la stessa concezione del sacerdozio e dei sacramenti.
E a proposito della definizione dei ministeri…
La questione del celibato dei preti, ad esempio, non trova tutti unanimi…
C’è però un punto centrale comune: l’esistenza, in tutte le Chiese, di un ministero ordinato che si declina essenzialmente in vescovi, preti e diaconi, o anche suddiaconi, ad esempio nella Chiesa caldea.
Si dice perfino che agli inizi questa Chiesa caldea avrebbe avuto anche delle diaconesse ordinate…
Poi ci sono delle questioni disciplinari proprie a ciascuna Chiesa.
Di diritto divino c’è che Gesù ha fondato il sacerdozio dei vescovi.
Il resto è di diritto ecclesiastico.
Ciò può variare da una Chiesa all’altra, anche in seno alla Chiesa cattolica.
È il caso del celibato dei preti, obbligatorio nella Chiesa latina, ma opzionale in altre Chiese, ad esempio nella Chiesa maronita.
Ognuna di queste opzioni ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi.
Ma è lungi dall’essere centrale.
Ci sono diverse concezioni di potere nella Chiesa? Uno dei punti più importanti delle discussioni ecumeniche attuali è effettivamente il problema del modo di esercitare il primato.
In teoria tutti ammettono il primato del papa.
La divergenza, che non è lieve, riguarda il modo di concepire questo primato.
Il grande timore degli ortodossi è l’abuso di potere.
Quello che succede nelle Chiese orientali cattoliche è quindi molto importante per loro.
Il minimo intervento di Roma suscita preoccupazione.
E di fatto di tanto in tanto si pongono dei problemi di disciplina.
In questo caso, se le autorità delle Chiese cattoliche locali non si assumono le loro responsabilità, Roma si sente in dovere di intervenire.
Ora, il governo tradizionale della Chiesa in Medio Oriente è di tipo sinodale.
I vescovi di uno stessa Chiesa si riuniscono sotto la presidenza del patriarca e prendono le decisioni importanti, compresa l’elezione degli altri vescovi.
Terminato il sinodo, il patriarca esegue le decisioni.
Nella Chiesa latina, per ragioni storiche, la concezione del potere è di tipo monarchico.
Teoricamente, il potere del papa è sovrano e non conosce limiti.
C’è in questo una differenza importante.
Ad esempio: ciò che noi chiamiamo sinodo qui, noialtri latini, non è tale per i cristiani orientali.
In effetti, se i vescovi si riuniscono per discutere di un tema ed esprimere delle proposte, il papa può teoricamente fare ciò che vuole di tali proposte.
Stiamo ri-imparando, in Occidente, quello che è il governo sinodale rimesso in onore dal Vaticano II.
Ci vuole tempo…
La comunione tra Chiese conosce del resto una gradualità.
Si può comunicare perché ci si trova di fronte a difficoltà comuni, perché ci si inscrive nella stessa tradizione, perché si ha la stessa concezione del sacerdozio, le stesse scritture o la stessa fede cristologica…
La questione gerarchica non è tutto.
in “www.temoignagechretien.fr” del 7 ottobre 2010 (traduzione: www.finesettimana,org)
Il ritorno dei valori in politica
Fino a qualche tempo fa, pochi erano coloro che scomodavano l’etica parlando di politica.
Ciò non perché vi fosse insensibilità verso le grandi questioni umane, ma perché era diffuso il pensiero che la gente non avesse interesse a sentir parlare di cose noiose, astratte, impegnative.
Oltretutto a fare le prediche ci pensano già i filosofi ed altri, perciò è inutile che le facciano pure i politici.
Chi governa deve risolvere semmai la crisi dell’economia, organizzare il mercato del lavoro, salvaguardare la sicurezza dei cittadini, rilanciare le esportazioni e gli investimenti, senza avanzare inutili pretese.
Sembra un discorso sensato, apparentemente, ma è invece totalmente sbagliato.
Oggi, infatti, abbiamo scoperto che le cose non vanno quasi mai così.
La logica del consenso non autorizza mai l’estromissione dei contenuti fondamentali, vale a dire di quei valori che non dipendono dalle circostanze, dal novero fluttuante delle proposte che un politico o un partito intendono presentare agli elettori, di volta in volta.
Se, come insegnava Niccolò Machiavelli, la politica e la morale sono due cose separate, di certo non possono esserlo etica e consenso.
Per lo meno, non senza gravi difficoltà.
La gente normalmente si aspetta qualcosa in più di una competenza tecnica da un politico per votarlo.
Altrimenti rimane a casa.
Non stupisce, di conseguenza, che nei recenti avvicendamenti della nomenclatura al governo, tanto in Inghilterra quanto negli Stati Uniti abbia fatto ritorno la moda delle grandi proposte di sostanza.
Possiamo dire che si tratta di una buona norma che si sta propagando un po’ dappertutto, dopo tanti anni di dogmatica indifferenza.
Il premier britannico David Cameron, ad esempio, attualmente in carica nel Regno Unito, ha portato nuovamente al successo i Tory nel maggio scorso, proponendo proprio un’innovativa proposta organica di società.
In molti suoi discorsi si è fatto portavoce nel mondo della cosiddetta “Big Society”, ossia di un programma di solidarietà e di liberalizzazione del capitale improduttivo, elaborato teoricamente tra il 1988 ed il 1993 quando era direttore del Dipartimento di Ricerca Conservatore.
In uno dei suoi interventi ha chiarito che «si devono creare comunità che abbiano verve; quartieri che si facciano carico del proprio destino, che sentano che mettendosi insieme possono plasmare il mondo attorno a loro».
In una parola, si tratta di proporre un grande disegno etico-politico, capace di comprendere e gestire laicamente le dinamiche culturali del momento, e non solo di presentare una serie minimale di punti programmatici.
Assiduamente egli utilizza il termine “mission” per far capire il motivo ispiratore della sua politica, dando alla parola un accento persino esageratamente mistico.
Fin qui i Conservatori.
Ma anche dall’altra parte, i Laburisti, con l’elezione pochi giorni fa di Ed Miliband a nuovo leader, stanno vivendo una netta crescita di adesioni, grazie alle attese che il nuovo programma e la giovane figura promettono.
Certo, le sue idee politiche sono opposte a quelle di Cameron, almeno in linea di principio, anche se il metodo appare lo stesso.
Infatti, medesimo è anche il consenso che produce.
Secondo gli analisti, Ed Miliband ha battuto suo fratello David non tanto perché questi fosse più moderato di lui, ma perché ha trasferito al popolo inglese una spinta etica di maggiore intensità, accompagnandola efficacemente ad una seria promessa di riscossa del partito e del Paese.
È curioso che, saltando l’Atlantico, si constata un fenomeno analogo anche negli Stati Uniti.
Sorvolando sull’elezione di Barack Obama di due anni fa, che è stata caricata fin troppo da un’ondata di riscossa morale, il popolo statunitense ha salutato il ritorno in pista dei Repubblicani nelle prossime elezioni del 2 novembre con un notevole entusiasmo.
Nei contestati ma efficaci Tea Party elettorali, segnati da un riferimento costante all’ethos comunitario tradizionale, Sarah Palin, ritenuta fino a ieri una stelletta ormai al tramonto, ha esposto con successo ampie sezioni del suo manifesto politico, pubblicato integralmente su Facebook, in cui carica di colori etici perfino le cose più banali che i conservatori intendono fare per l’America di domani.
Il suo slogan «Pace attraverso la forza e orgoglio americano contro una politica centrata sul nemico» sottende, a ben vedere, una critica severa ai Democratici, ai quali è imputato l’errore di aver legittimato, per l’appunto, i nemici “etici” dell’America, dalla Corea all’Iran, fino a Cuba e al Venezuela.
La conclusione che si può ricavare da questi esempi emblematici è uno soltanto.
La politica può di certo fare a meno dei riferimenti valoriali, ma solo per un breve periodo, perché alla lunga il consenso è legato strettamente alla capacità d’inserire, nei programmi e nelle proposte che vengono offerte agli elettori, prospettive economiche, sociali e strategiche guidate da idee forti e durature sulla persona umana e sul senso del suo futuro.
L’etica, infatti, non è una vuota retorica o uno sciocco moralismo: è l’anima culturale profonda che dà combustibile di umanità alla politica, spingendo i cittadini ad impegnarsi e a partecipare attivamente per migliorare la propria esistenza e quella altrui.
Alla fine, attualmente non ha più tanta importanza se un leader sia di sinistra o di destra, se sia progressista o conservatore, ma che egli incarni con i suoi gesti, con le sue parole, con la sua capacità di governo e perfino con la sua vita, una prospettiva etica credibile e autentica, cioè non superficialmente legata solo al mantenimento del potere.
In definitiva, i cittadini vogliono sapere qual è la verità umana che viene proposta e,soprattutto, chi può attuarla concretamente nel futuro.
in “la Repubblica” dell’11 ottobre 2010
Concilio e libertà
Sta emergendo, negli osservatori esterni, un sentimento di tenerezza e compassione verso Benedetto XVI a causa della sua profonda afflizione per “il peccato penetrato nella Chiesa” ed esploso con i preti pedofili e qualche incidente di percorso dei suoi maggiori prelati.
Da ciò a un giudizio generale sullo stato della Chiesa il passo è breve, e lo ha compiuto da ultimo Pietro Citati, che però usa categorie di giudizio che dimostrano quanto poco il rinnovamento del Concilio abbia modificato il modo in cui la Chiesa viene percepita dal mondo.
Dice infatti Citati che il problema non è il peccato, perché anzi senza l’angoscia del peccato il cristianesimo nemmeno potrebbe esistere; il rischio è invece che la Chiesa cessi di essere quell’“arca” nella quale la coscienza del peccato è compensata dalla gioia della grazia.
Il rischio a suo parere è che la Chiesa cessi di essere “un’eccezione” rispetto al mondo che vive la sua avventura moderna.
La Chiesa, secondo la visione un po’ giansenista (Pascal) espressa in questo articolo, non deve affatto essere moderna, anzi deve restare un residuo dei tempi antichi, il paradosso che contraddice la ragione, qualcosa di originario e straordinario che ignora le norme della società e della politica; e di conseguenza i suoi preti non devono essere “uomini come gli altri”, quasi fossero pastori protestanti, ma anzi devono riprodurre lo spirito degli antichi eremiti, e fare della castità e del celibato un segno di elezione, il segno della distanza, della differenza, dell’eccezione rispetto “al resto della vita”; cose di cui per fortuna, nonostante tutto, sussisterebbe qualche retaggio anche oggi.
Ora la domanda è: perché il mondo insiste su questa figura di Chiesa? Questa infatti è la figura sublimata della Chiesa professata prima del Concilio, a cui non corrispondeva affatto la Chiesa reale; e proprio Citati altra volta ha dato di quella Chiesa preconciliare una descrizione impietosa.
Quello che ha fatto il Concilio non è stato certo di spegnere il paradosso o di togliere al Vangelo la sua forza di scandalo rispetto alle pratiche del mondo.
Quello che ha fatto il Concilio è stato però di rimettere la Chiesa nel mondo e di riconoscere che questo paradosso e questo scandalo non vogliono affatto essere “un’eccezione rispetto al resto della vita”, ma vogliono essere precisamente questa vita; non dunque da riservarsi alla Chiesa come a un’arca sottratta alla rovina, ma da destinarsi all’umanità tutta intera oggetto dell’elezione di Dio.
A ben vedere, al di là di tutto il riformismo ecclesiastico (ciò in cui il Concilio non è riuscito), l’aggiornamento (cioè la rivisitazione nelle forme del pensiero “moderno”) promosso da Giovanni XXIII, ha riguardato proprio la riproposizione della fede come comprensione (o “ermeneutica”) del mondo e come possibilità offerta a tutti, e dunque compatibile con la vita reale.
E la prima cosa che ha fatto il Concilio è stata precisamente di liberare l’uomo dall’idea del peccato come destino, quale era percepito dentro le categorie del peccato originale; e di fare invece della scelta tra il bene e il male un connotato della libertà, identico per l’uomo moderno come per il primo uomo, in quanto la libertà è e resta un “segno privilegiato” dell’immagine di Dio nell’uomo.
Il Concilio non fa alcun riferimento alle conseguenze devastanti che il primo peccato avrebbe avuto sull’intero genere umano, quasi attribuendo all’uomo una seconda e più inferma natura, ma dice che anche dopo la caduta Dio “non lo abbandonò”, non lo privò degli aiuti necessari alla salvezza e per conseguenza non lo scacciò da nessun giardino.
E l’incarnazione non è narrata come un’operazione di riscatto per estrarre dall’umanità una porzione di eletti o di salvati intesi come Chiesa, ma come un dono di grazia e una vocazione per gli uomini tutti.
Di conseguenza non c’è questa imparagonabilità della Chiesa col mondo, perché è proprio della totalità umana a lui unita nel Figlio, che Dio ha voluto fare il suo popolo.
E qui, se vogliamo, sta il vero fondamento della laicità, non irreligiosa, del mondo.
Questo cerco di dire in un libro che uscirà il 16 settembre, intitolato “Paradiso e libertà; l’uomo, quel Dio peccatore”.
Vi si racconta come una legge bolognese medioevale che aveva restituito ai servi la libertà fosse chiamata “Libro Paradiso”; il Paradiso è dunque il luogo dove gli uomini vengono a libertà.
Ma guai se gli uomini fossero liberi solo in Paradiso, e se il mondo della fede fosse il “totalmente altro” dal resto del mondo.
Se il Paradiso è libertà, perché lì abita Dio la cui immagine è la libertà, e se Dio è venuto in questo mondo, ogni volta che sono liberati dei prigionieri, che si chiudono le Inquisizioni, che sono sconfitti i mafiosi, che acquistano diritti gli operai, che escono le donne dalle mani di padri e padroni, e ogni volta che il mondo è amato così, si stabilisce un pezzo di paradiso in terra; e ogni volta che questo accade, si accorciano le distanze tra i due paradisi, e l’uomo, se è divino, può trovarsi a casa sua in ambedue le città.
in “Rocca” n.
15 del 1 agosto 2010
Lo spazio visto da Herschel
Galassie antichissime, lontane 10 miliardi di anni che appaiono come gocce luminose nel buio del cosmo, il primo ritratto di una culla di stelle a soli 1.000 anni luce dalla Terra, molecole di acqua e altri composti tutti indizi dell’esistenza di pianeti nella nebulosa di Orione: sono i primi risultati scientifici del più grande telescopio spaziale mai costruito, il satellite Herschel dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa).
ORIONE E I NUOVI PIANETI IN FORMAZIONE – A queste scoperte la rivista Astronomy and Astrophysics dedica una sezione speciale di 152 articoli, molti dei quali firmati anche da ricercatori italiani, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e di molte università fra cui Padova, Bologna, Milano Bicocca.
Le galassie visibili nelle immagini di Herschel come dense gocce luminose sono distanti da tre a dieci miliardi di anni e sono nate quando la formazione delle stelle era molto più diffusa di oggi nell’Universo.
L’incubatrice di stelle invece è vicinissima, soli 1.000 anni luce nella costellazione dell’Aquila.
È così ricca di polveri che finora nessun’altro telescopio a infrarossi era riuscito a osservarla.
Si distinguono 700 grumi di polveri e gas: sono embrioni di stelle, 100 dei quali già alle fasi finali della loro formazione.
Il satellite ha fotografato anche la nebulosa di Orione e qui ha identificato molecole di acqua, monossido di carbonio, formaldeide, metanolo, cianuro di idrogeno, ossido di zolfo: indizi di stelle e pianeti in formazione.
Con il contributo dei ricercatori italiani è stato anche risolto il mistero della polvere mancante nelle galassie dell’ammasso della Vergine.
In alcune zone del gigantesco ammasso della Vergine, composto da almeno 2.500 galassie distante da noi 55 milioni di anni luce, la polvere che permea lo spazio tra le stelle, l’ingrediente fondamentale per la formazione di nuovi astri, è molto carente.
<a href=”http://bs.serving-sys.com/BurstingPipe/BannerRedirect.asp?FlightID=913533&Page=&PluID=0&Pos=8507http%3A//bs.serving-sys.com/BurstingPipe/BannerRedirect.asp%3FFlightID%3D1565602%26Page%3D%26PluID%3D0%26Pos%3D8138″ target=”_blank”><img src=”http://bs.serving-sys.com/BurstingPipe/BannerSource.asp?FlightID=1565602&Page=&PluID=0&Pos=8138″ border=0 width=180 height=150></a> PERCHE NASCONO POCHE STELLE – Un fenomeno drammaticamente evidente soprattutto nelle galassie ellittiche, già note per avere un bassissimo tasso di formazione di nuove stelle.
Gli scienziati hanno dimostrato che la polvere viene sì prodotta continuamente nelle galassie ellittiche, ma non riesce a sopravvivere per più di 50 milioni di anni a causa degli urti fra i granelli di polvere e il gas caldo che permea queste galassie che disintegrerebbero nel tempo le particelle fino a farle sparire completamente.
«Il telescopio Herschel sta eseguendo perfettamente i suoi compiti – ha osservato Barbara Negri, responsabile dell’Agenzia Spaziale Italiana per l’esplorazione e osservazione dell’Universo – e gli studi sulla polvere che permea lo spazio tra le stelle forniranno una prova fondamentale nella comprensione dei meccanismi di formazione di nuove stelle».
(Fonte Ansa) Corriere della sera 17 luglio 2010
Immigrazione in Italia
Migranti, aumento degli irregolari riprende il flusso sud-nord In Italia, al 1 gennaio 2010, si stimano 5.101.000 immigrati; 544.000 sono irregolari, ossia il 10,7%.
Sono gli ultimi dati della Caritas italiana presentati a Valderice (Trapani) nella seconda giornata di lavori del Migramed Forum-2010, l’iniziativa organizzata da Caritas italiana, in cui si sottolinea in particolare che nell’ultimo anno la clandestinità ha registrato 126.000 irregolari in più.
L’aumento dei clandestini – ha spiegato Oliviero Forti, responsabile Immigrazione della Caritas – ha a che vedere in particolare con persone che erano in condizioni di regolarità e che, anche a causa della crisi economica, si è trovato in una nuova condizione nei confronti dello Stato italiano.
“Sappiamo – ha precisato Forti – che ci sono intere famiglie che a seguito di queste nuove condizioni anche per motivi economici stanno ridefinendo la propria vita e stanno magari pensando di ritornare nel loro paese”.
La Caritas ha tracciato anche l’identikit degli irregolari.
Nel 61,5% dei casi sono maschi e mediamente sono in Italia da 3 anni e mezzo.
Tra i principali paesi di provenienza c’è il Marocco (93 mila), l’Albania (70 mila), l’Ucraina (37 mila), la Cina (32 mila), la Tunisia (25 mila). Il 43,3% di essi lavora in nero ma ha un’occupazione stabile continuativa, il 33,8% è disoccupato, il 4,8% è dipendente a tempo determinato, mentre il 2,7% svolge un’attività autonoma.
Mogavero.
Nello stesso occasione mons.
Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo si espresso in toni severi: «Non possiamo assolutamente dare copertura ad atteggiamenti di rifiuto o di larvato razzismo e xenofobia che emergono qua e là anche nella comunità ecclesiale», occorre invece «accoglienza, dialogo, proposte»: un invito ad «uscire dal silenzio e dalla neutralità».
Mogavero ha precisato di parlare «a titolo personale, quindi né a nome della Cei, né a nome della Conferenza episcopale siciliana».
«I famosi e deprecati respingimenti nel Mediterraneo – ha messo in evidenza mons.
Mogavero – riguardano gli immigrati che si trovano in situazione di maggiore debolezza.
E’ facile respingere i barconi e “sparare”, in senso metaforico, agli immigrati.
Non è altrettanto facile porre un freno ed una disciplina all’80% dell’immigrazione irregolare che sfugge al controllo ufficiale».
Romeo.
Dello stesso avviso anche l’intervento mons.
Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo e presidente della Conferenza episcopale siciliana: «La politica dei respingimenti nel Mar Mediterraneo manca di dimensione umana, prima ancora che di dimensione cristiana: si scaricano su questi poveri che arrivano sui barconi tutte le politiche per contenere l’immigrazione illegale».
Secondo mons.
Romeo «né con misure di legge, né con imposizioni della polizia si possono portare le persone a riconoscere Dio nell’altro».
«Si dice che il flusso migratorio si sia fermato, ma forse non è così – ha osservato l’arcivescovo di Palermo -.
Tutte le diocesi siciliane sono da sempre impegnate nell’accoglienza degli immigrati.
Crediamo che se una società è capace di rispettare e di inculcare il rispetto umano, anche gli immigrati possono essere interessati alla nostra fede.
Ecco la grande responsabilità che abbiamo».
Dal meridione «l’emigrazione verso il nord del paese è ripresa alla grande.
Solo in Sicilia si parla di 60 mila persone che sono andate in altre città per cercare lavoro.
Sono soprattutto giovani precari».
Denuncia di Romeo.
Il vescovo ha parlato di una situazione molto grave nelle regioni meridionali, «c’è un gap difficile da colmare e la nostra classe politica è inadeguata, anche per conseguenze del passato». I nuovi emigrati.
Fra i nuovi migranti, monsignor Romeo dice che ci sono infermieri, medici, metalmeccanici che emigrano al nord perchè non trovano un posto di lavoro e hanno vissuto anni e anni di precariato.
«Noi li vediamo ogni giorno – ha precisato – vengono genitori che dicono mio figlio parte.
Nelle nostre zone non c’è avvenire.
Solo nell’area di Palermo, ad esempio ha chiuso la Fiat e l’Italtel.
Ed è ovvio che chi si è specializzato in metalmeccanica difficilmente troverà alternative.
La Fiat si arrende ma non perchè costa cara la produzione ma perchè non ci sono le infrastrutture e su questo siamo fermi da vent’anni».
Sono cinque milioni gli immigrati in Italia Sono cinque milioni, vivono in Italia in media da sette anni e hanno titoli di studio paragonabili a quelli della popolazione italiana.
È questo il ritratto degli immigrati in Italia, secondo uno studio commissionato al Censis dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali.
L’Italia, dunque, è sempre più una società multietnica.
Gli immigrati sono aumentati negli ultimi quattro anni di quasi 1,6 milioni (+47,2%), con un forte incremento sia dei residenti (+56,5%), sia dei regolari che non risultano ancora iscritti in anagrafe (+48,7%).
Gli irregolari sono invece 560.000, pari all’11,3% degli stranieri presenti sul territorio.
Dalla ricerca, condotta su un campione di circa 16.000 stranieri, il 77% degli immigrati maggiorenni svolge in Italia un’attività lavorativa regolare.
Più di due terzi sono impiegati nel settore terziario, nell’ambito dei servizi (40,7%) e del commercio (22,5%).
I mestieri più ricorrenti sono comunque quelli di addetto alla ristorazione e alle attività alberghiere (16%), di assistente domiciliare (10%, ma 19% tra le donne), di operaio generico nei servizi (9%), nell’industria (8,3%, ma 11,5% tra gli uomini) e nell’edilizia (8%, ma 15,3% tra gli uomini).
Tra le figure meno diffuse vi sono quelle più qualificate: le professioni intellettuali (2,4%), gli operai specializzati (2,2%), i medici e paramedici (1,7%), i titolari di impresa (0,5%) e i tecnici specializzati (0,2%).
Dal punto di vista della condizione lavorativa, prevalgono gli occupati a tempo indeterminato (sono il 49,2% del totale), il 24,8% ha un impiego a tempo determinato, il 9,7% svolge un lavoro autonomo o ha un’attività imprenditoriale.
La metà degli immigrati che lavorano in Italia dichiara di percepire una retribuzione netta mensile compresa tra 800 e 1.200 euro, il 28% ha un salario inferiore, compreso tra 500 e 800 euro, il 3% guadagna meno di 500 euro.
Solo il 13,3% ha una retribuzione netta mensile che va da 1.200 a 1.500 euro, e appena l’1,2% guadagna più di 2.000 euro.
L’indagine evidenzia una prevalenza dei canali informali di accesso al mercato del lavoro, tra i quali al primo posto si trova il passaparola, attraverso il quale il 73,3% dei lavoratori stranieri dichiara di aver trovato l’impiego attuale.
Seguono gli intermediari privati e le agenzie di lavoro interinale (9%), le parrocchie (6,1%) e i sindacati (2,9%).
(©L’Osservatore Romano – 18 giugno 2010)
Nessuno si indigna più se i cristiani sono perseguitati
«Cristianofobia» in un Occidente sempre più secolarizzato? «Cristianicidio» in un Islam sempre più fanatizzato? Neologismi di attualità drammatica, approssimandosi i funerali a Milano del vescovo cappuccino assassinato in Turchia.
Sono in molti a non credere nella tesi dello squilibrato, visti anche i precedenti di omicidi di cristiani, attribuiti dalle autorità locali a pazzoidi fuori controllo.
A questa sorta di noncuranza islamica, si accosta quella dell’Occidente, pronto a indignarsi e a manifestare nelle piazze per ogni buona causa, vera o presenta che sia, ma che qui sembra aver messo la sordina alle proteste.
La nostra indignazione è, semmai, per la minaccia al benessere di pesci ed uccelli nell’inquinato Golfo del Messico, più che per i credenti nel Vangelo martirizzati in Asia e in Africa.
Eppure, statistiche irrefutabili mostrano che il cristianesimo è di gran lunga la religione più perseguitata nel mondo.
A dar la caccia al battezzato non ci sono solo i soliti musulmani — o, almeno, le loro frange estremiste — ma in prima fila stanno anche gli induisti che, nel mito liberal, erano il paradigma della tolleranza nonviolenta.
Non mancano casi di violenza sanguinaria anche da parte dei «pacifici» buddisti, per non parlare delle mattanze cui volentieri si dedicano gli adepti delle vecchie e nuove religioni dell’Africa Nera.
Perché tanto odio e perché tanta rimozione da parte nostra, davanti a quello che talvolta assume il volto terribile del massacro? Il credente scorge qui significati ultramondani, sulla scorta delle parole di Gesù: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi».
La possibilità del martirio fa parte di una prospettiva che ha le sue basi nel Vangelo stesso.
Per dirla con Chesterton, il convertito: «Il nostro simbolo è la croce sul Golgota, non la villetta nei sobborghi verdi di Londra».
Ma, al di là della lettura religiosa, quali fattori storici hanno creato e alimentano l’avversione per i cristiani? Per stare al caso che oggi più inquieta, quello musulmano, spesso non si considera che non in tempi remoti, bensì alla fine della seconda guerra mondiale, non vi era nessun Paese islamico che potesse dirsi indipendente.
Tutti, senza alcuna eccezione, facevano parte di un impero coloniale europeo o erano sottoposti al suo protettorato.
Il cristianesimo era, per un Islam frustrato e ridotto all’impotenza, la religione dei «padroni»: un paradosso, tra l’altro, per casi come la Francia o il Belgio, dove la classe politica dirigente era impegnata in patria nella lotta contro la Chiesa e nelle colonie ostacolava i missionari cattolici e spingeva per la creazione di logge massoniche.
Ma un paradosso anche nell’impero britannico, dove si favoriva la Chiesa anglicana — questa «Camera dei Lords in preghiera», com’era definita — che, più che il Vangelo, annunciava virtù civili, pregiudizi, eccentricità dell’establishment politico britannico.
Ma erano distinzioni che furono cancellate nella propaganda per la decolonizzazione, dove il «tiranno europeo» era identificato tout court con il cristiano.
Nel caso del Medio Oriente, la situazione è stata molto aggravata dall’inserzione di Israele, sentita come una violenza: il grande padrino nordamericano dello stato ebraico si vanta di essere il paladino del cristianesimo biblico, vi è sorto addirittura il potente movimento dei «cristiani per il sionismo» (Bush junior ne faceva parte), per il quale il ritorno degli ebrei in Palestina va favorito, come annuncio dell’apocalisse e del ritorno glorioso di Cristo.
Così, l’avversione per Israele è diventata per le folle musulmane avversione per la fede nell’ebreo Gesù.
Anche zone superstiti di tolleranza religiosa, come l’Iraq del laico Saddam, sono state avvelenate dalla violenta aggressione dei «cristiani» americani.
Quanto a noi e alla nostra mancata mobilitazione: è indubbio che parte influente del media-system occidentale sta dalla parte di coloro che — come già i giacobini del 1793 — vorrebbero «chiudere finalmente la parentesi cristiana » .
Enjamber deux millénaires, scavalcare due millenni e ricominciare da capo, scrostandoci da dosso l’eredità funesta di quel Crocifisso che non a caso l’Unione Europea vuole togliere dai muri.
Può una Unione così — che rifiuta persino l’evidenza storica, negando le sue radici cristiane — può forse indignarsi se, nel mondo, è scomoda la situazione di una credenza per la quale si auspica che non ci sia futuro? Un certo vittimismo cristiano lascia perplessi, come pure un complottismo un po’ paranoico: è indubbio, però, che al prevedibile aumento della violenza contro i credenti nel Vangelo non si accompagnerà un aumento della solidarietà nei Paesi stessi che di quella fede furono i privilegiati.
in “Corriere della Sera” dell’11 giugno 2010
«Noi frammentati dalla tecnologia»
Editorialista del Washington Post e Premio Pulitzer, David Ignatius è uno dei più rispettati giornalisti americani.
Ma è più celebre per i suoi romanzi di spionaggio, sette dal 1985 a oggi, nei quali ha offerto uno squarcio a tinte fosche e toni avvincenti sullo spietato mondo dei servizi segreti.
Fra gli altri, Body of Lies, dal quale Ridley Scott ha tratto l’omonimo film con Leonardo DiCaprio e Russell Crowe.
Venerdì mattina nel Palazzo Ducale di Urbino, Ignatius verrà insignito del «Press Award», il premio annuale che l’Italia dedica alla grande stampa americana.
Questo è il testo integrale dell’intervista concessa al Corriere poco prima di partire per l’Italia.
Cosa significa per lei l’Urbino Press Award? «Questo premio mi dice che io scrivo per un pubblico internazionale.
E che c’è un mondo di idee, nel quale anche io ho una voce.
Ho trascorso tre anni a Parigi, come direttore dell’International Herald Tribune e ogni giorno mi rendevo conto che il mondo degli opinionisti ha punti di vista molto differenti.
A Washington questo è un po’ più difficile, uno dei problemi degli Stati Uniti è che il nostro dibattito politico, interno e internazionale, è molto auto-referenziale, spesso non vediamo o non capiamo cosa pensino le persone all’estero.
Ricevere un World Press Award rafforza la mia convinzione che ci sia una stampa mondiale, una professione che ha regole condivise da colleghi in Italia o in Israele o in Iraq, siamo parte dello stesso spazio informativo.
Lo dico perché ci sono molte ragioni per dubitarne, per temere che lo spazio informativo sia in realtà frammentato.
Ecco, andare a Urbino significa credere che, a dispetto delle prove, ci sia ancora un’informazione mondiale».
Che discorso farà? «Parlerò del modo in cui la tecnologia, che avrebbe dovuto unirci, paradossalmente ci frammenta in gruppi più piccoli.
Sono cresciuto in un tipo di giornale nel quale credevamo di scrivere per tutti a Washington, letteralmente, ricchi e poveri, bianchi e neri, repubblicani e democratici.
Ma sfortunatamente non è più così.
Sulla rete ognuno di noi può rivolgersi a siti, dove scrivono e interagiscono persone che la pensano esattamente come noi, hanno le stesse convinzioni.
A Urbino dirò che voglio ancora essere parte di un media informativo che sia contro questo approccio, parli alle persone in termini di valori condivisi, non in termini di narrative separate, di opinioni a fette.
E credo che ci sia una possibilità di farlo, perché il mondo frammentato non funziona.
Gli USA sono in testa nel dimostrarlo: Washington è paralizzata, il Congresso non è in grado di affrontare i problemi di cui la gente si preoccupa veramente».
Ma è la politica o sono i nuovi media l’origine di questa lacerazione? «Si rafforzano a vicenda.
Se risaliamo alle origini degli Stati Uniti o ancora più indietro al Rinascimento o al mondo di Urbino, c’era questo sentimento dominante del dubbio, dello scetticismo.
Ecco, questo è sotto attacco.
Siamo in un mondo dove le emozioni, la partigianeria, le dinamiche di gruppo prevalgono sugli individui.
L’origine? Non vorrei sembrare un marxista, ma forse la tecnologia gioca un ruolo decisivo».
Lei ha usato con successo il romanzo, la fiction, per dare a un pubblico più vasto e internazionale un’idea realistica dell’universo misterioso e oscuro dell’intelligence.
Ogni tanto la realtà supera la fantasia ed è la cronaca ad aprirci squarci sul mondo delle spie, rivelando errori tragici, fallimenti, analisi sbagliate.
Come sono cambiate le intelligence? Organizzazioni come la Cia o la NSA sono ancora efficaci? «Scrivo romanzi di spionaggio da 25 anni, ho scritto il primo nel 1985 e ho appena finito l’ottavo.
In questo periodo ho assistito a un progressivo deterioramento delle sottigliezze e della qualità del fattore umano.
C’è stato un tempo, parlo del mio primo viaggio a Beirut nel 1980, in cui ogni uomo politico arabo si sarebbe sentito offeso se la Cia non avesse provato a reclutarlo.
Gli USA avevano il vento in poppa.
Era un fatto che ognuno in quella parte del mondo volesse essere amico nostro.
E il mio primo racconto Agents of Innocence romanzava la storia vera di come la Cia reclutò Hassan Salameh, il capo della sicurezza di Jasser Arafat.
In altre parole, il capo dell’intelligence del nostro primo nemico terrorista lavorava in segreto per noi, la Cia lo portò perfino a Disneyland e questa è cronaca.
Fu un’operazione che durò quasi dieci anni.
Ecco, non solo la Cia oggi non saprebbe più farlo.
Ma se il Congresso lo venisse a sapere, probabilmente fermerebbe l’operazione.
E se non la fermasse, lo farebbero altri.
Parte del messaggio, che ho provato a dare con i miei romanzi, è che nel momento in cui il ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente è diventato più grande e profondo, la nostra comprensione di quella parte del mondo è diminuita anno dopo anno, non siamo più in grado di operare con efficacia al di fuori di fortezze presidiate, chiamate Green Zones.
Così ci affidiamo sempre più alla tecnologia, per uccidere i nostri avversari, gente ovviamente molto pericolosa che vuol farci del male.
Il risultato è che questa realtà appare lontana, quasi extra-terrestre e quando la sperimentiamo da vicino, a casa nostra, come accadde l’11 settembre, siamo sconvolti, non ne capiamo il senso.
Il mio ultimo racconto comincia proprio con un attacco dei droni Predator».
Lei quindi pensa che la diminuzione del fattore umano sia una delle principali ragioni dei fallimenti della CIA… «Si è ridotta la nostra capacità di convincere persone di altri Paesi a lavorare per noi.
Siamo diventati più bravi a convincere altri servizi segreti a cooperare.
Ma il problema è la nostra capacità di seduzione intellettuale a livello individuale.
Noi avevamo un personale di grande qualità, cosmopolita, poliglotta, capace di percepire le realtà dove operavano nel mondo arabo, in Asia, in Africa.
Questo non esiste più.
La Cia era un percorso ambito verso l’Occidente da molti giovani arabi di talento.
Oggi ci sono i grandi gruppi bancari, le multinazionali che possono farti avere una borsa di studio nelle università californiane.
Un volta la Cia era l’intermediario per la cultura americana».
Lei ha scritto che oggi viviamo nell’età delle operazioni scoperte e non coperte.
Cosa vuol dire? Rimpiange queste ultime, con le barbe finte sul campo? «Non del tutto.
Io voglio dire che oggi a cambiare il mondo non sono più le cose segrete ma le cose che sono pubbliche.
Forse gli strumenti del passato non servono più.
Eppure ci sono momenti in cui se la mano degli Stati Uniti fosse veramente nascosta, influenzando gli avvenimenti con discrezione e producendo esiti a noi favorevoli, dovremmo farlo.
Il problema è che quando c’abbiamo provato, spesso abbiamo fatto un casino.
Storicamente non siamo stati bravi nelle operazioni coperte.
Anche dove abbiamo avuto successo: per esempio, alla fine degli Anni Quaranta in Italia, quando investimmo un sacco di soldi per cercare di far emergere i partiti democratici e tenere i comunisti fuori dal governo.
Ci riuscimmo, ma l’eredità che ci siamo lasciati dietro in Italia è una cultura della cospirazione e del complotto, che ancora oggi avvelena il sistema.
Noi abbiamo aiutato a crearla: non solo in Italia, ma un po’ anche in Francia, per sempre nel mondo arabo.
Voglio dire che in pratica le conseguenze negative delle operazioni coperte superano gli effetti positivi immediati».
Ma hanno ancora un ruolo da svolgere le intelligence in questa fase del potere americano? «Stiamo cercando di venir fuori da un periodo di guerre di spedizione, dove abbiamo inviato truppe in Paesi lontani sull’onda dell’11 settembre e sappiamo che questo dovrà finire, che dobbiamo portare i ragazzi a casa, smettere di bombardare i civili.
Ma le domande su cosa faremo dopo rimangono: come difendere i nostri alleati, come evitare che cose terribili accadano, impedire che il mondo diventi un luogo di violenza arbitraria.
È complicato.
E chiunque pensa che le intelligence non debbano giocare un ruolo è un ingenuo.
Quale sia è però una risposta aperta.
Credo sia importante cominciare con alcuni principi morali di fondo: per esempio, ha ragione il presidente Obama quando dice che una delle regole di base di una società democratica è dire che noi non usiamo la tortura.
Anche in situazioni in cui ci potrebbero essere dei benefici».
Come si concilia questo ritorno a casa con i doveri globali di una superpotenza, della sola superpotenza democratica? «Prima di tutto non possiamo tornarcene a casa troppo rapidamente, dobbiamo farlo in modo responsabile.
Il potere americano rimarrà sicuramente pervasivo nel mondo e questo è un problema: gli USA sono così forti che è difficile per altri Paesi cooperare con noi.
Per questo dobbiamo usarlo in modo più ragionevole, essere molto più attenti nel cominciare le guerre.
Questa Amministrazione lo sta facendo.
Ed è una convinzione che si è fatta strada anche nei ranghi, nelle gerarchie militari, nei civili del Pentagono, dopo le esperienze in Afghanistan e Iraq.
Ma non significa isolazionismo, rinuncia alle responsabilità globali, siamo troppo interconnessi col resto del mondo per potercelo permettere.
Solo che ce le dobbiamo assumere sotto regole diverse.
Dobbiamo individuare i pericoli, localizzarli, agire con strategie mirate».
Ieri l’Onu ha approvato un pacchetto di nuove sanzioni contro l’Iran.
Allo stesso tempo, Teheran continua a muoversi sul piano diplomatico, lanciando ponti verso la Turchia, la Russia, perfino il Brasile.
Saranno efficaci le nuove misure? «Non credo che le nuove sanzioni avranno l’effetto di fermare il programma nucleare iraniano, eppure le considero uno sviluppo molto positivo.
Penso che il successo degli Stati Uniti nel tenere insieme il gruppo “5 più 1” è un risultato che non va sottovalutato.
È stato sensato fare concessioni alla Russia sulla difesa anti-missile e a differenza di molti credo che la costruzione di una partnership con la Cina abbia più successo di quanto in generale non si creda.
Portare Pechino nel ruolo di co-gestore responsabile della sicurezza e della prosperità globali è il compito più importante della diplomazia americana in questa fase.
I cinesi lo apprezzano e sono pronti a dare una mano.
La prova è questa risoluzione dove hanno fatto meno giochetti del solito».
Ma lei dice che non fermeranno le ambizioni nucleari dell’Iran: dovremo convivere con un Iran nucleare? «Sto dicendo che sarebbe più facile convivere con un Iran nucleare, se la comunità internazionale rimanesse unita nel condannarlo.
Ma sono convinto che non succederà, che Teheran si fermerà un passo prima della concreta costruzione di una bomba.
La mia analogia storica è che dobbiamo pensare alla Rivoluzione Iraniana come alla Rivoluzione Francese, che ebbe effetti destabilizzanti – sociali, politici, militari – sull’intera regione europea.
Ci vollero quasi 30 anni, fino alla fine del Congresso di Vienna, per riordinare l’Europa in una nuova architettura di sicurezza.
Ecco la Rivoluzione iraniana è stata lo stesso per il Medio Oriente.
E io credo che avremo bisogno di un nuovo ordine, che porti questo l’Iran post-rivoluzionario in un concerto di nazioni in quell’area del mondo, riconoscendo il suo potere ma anche gli interessi degli altri Paesi».
E avrà un ruolo l’evoluzione politica interna? «La transizione della Repubblica Islamica da causa a nazione sarà decisiva.
Ne ho parlato con dei dirigenti iraniani, che capiscono questa analogia.
Posso anche aggiungere che l’ambizione profonda dell’Amministrazione Obama sull’Iran sia proprio la creazione di una nuova architettura, che riconosca i loro legittimi interessi di sicurezza a patto di non superare precise linee di demarcazione: una di queste è non andare fino in fondo con il programma nucleare, fermarsi a un punto nel quale, un po’ come il Giappone, il mondo capisca che Teheran ha la capacità di costruire un’arma nucleare, ma non lo fa.
Vede, quando penso al Medio Oriente mi sforzo di pensare a cosa fosse l’Europa nel XIX secolo, le bombe, gli assassini politici.
O agli Stati Uniti: nulla nel Medio Oriente si avvicina al bagno di sangue della Guerra Civile americana, pure essenziale nel nostro divenire un Paese moderno».
E come si colloca Israele in questa nuova architettura? «Come ha dimostrato l’incidente della flottiglia turca, la situazione di Gaza non è più sostenibile per nessuno.
Il blocco è fallito e quando una politica fallisce bisogna pensarne un’altra.
Questa è un’opportunità per fare una cosa, che fin qui è stata molto temuta da Israele ma oggi è necessaria: internazionalizzare la crisi.
Israele ha tentato di gestire la situazione di Gaza da sola, ma ora non è più possibile.
Purtroppo la Turchia con il suo comportamento ha perso l’opportunità di fare da mediatore.
Quindi se ne apre una per gli Stati Uniti».
Ma è cambiato qualcosa di molto importante nel rapporto tra USA e Israele nei mesi scorsi… «Si, rispetto al passato, l’Amministrazione Obama ha trasmesso un messaggio che suona più o meno così: noi abbiamo anche interessi che non sono sempre identici ai vostri e voi ne dovete tener conto se volete il nostro appoggio.
Ma, ripeto, ci sono opportunità per noi.
Non abbiamo bisogno di mediatori per parlare alla Siria, all’Iran.
Dobbiamo farlo direttamente.
Fin qui nel Medio Oriente siamo stati troppo reattivi, dobbiamo invece essere più creativi, immaginifici nel cercare di influenzare gli avvenimenti».
Mi faccia un esempio… «Beh, una volta ho detto che se volessimo spaccare Hamas, un alto funzionario della Casa Bianca dovrebbe salire su un aereo e andare a incontrare segretamente Meshal o qualcun altro.
Sono sicuro che entro una settimana Hamas sarebbe lacerata al suo interno.
Una diplomazia attiva crea sempre nuovi spazi, aperture impreviste.
Quanto ai contraccolpi, in questo momento sarebbe difficile per Obama essere più impopolare di così in Israele.
Il nostro regalo a Israele rimane sempre quello di un Paese potente che appoggia con convinzione i suoi interessi.
Ma dobbiamo poter agire in modo più libero e spregiudicato, un po’ come faceva Kissinger.
Nel Medio Oriente l’abilità diplomatica è stata sempre di cavalcare due cavalli allo stesso tempo.
Ecco, noi dobbiamo farlo più spesso».
09 giugno 2010
Allo Stato converrebbe incrementare il numero delle paritarie
Nell’ambito delle iniziative legate all’apertura di un canale tematico dedicato alle scuole paritarie, Tuttoscuola ospita un forum, nel quale si apre al mondo dell’associazionismo, ponendo domande sull’istruzione non statale.
Il primo a rispondere è stato Vincenzo Silvano, presidente della Compagnia delle Opere (CdO) – Opere Educative.
D: Sul finanziamento delle scuole paritarie ci sono tuttora opinioni molto contrastanti, che vanno dal rifiuto di qualunque tipo di sostegno economico all’idea che la preclusione costituzionale (“senza oneri per lo Stato”) vada interpretata nel senso che lo Stato non può avere in nessun caso l’obbligo di finanziare le scuole non statali, anche se paritarie, ma ne può avere la facoltà, ovviamente sulla base di una legge.
Qual è la vostra posizione in proposito? R: Siamo totalmente d’accordo -anche perché questa è l’interpretazione autentica fornitaci dagli stessi “padri” della Costituzione- che lo Stato non abbia l’obbligo ma ne abbia tuttavia la facoltà.
Vorremmo, però, andare oltre il concetto di “facoltà”, introducendo quello di “convenienza”.
Allo Stato converrebbe incrementare il numero delle scuole paritarie, poiché -come è ormai stranoto- oltre a fornire in moltissimi casi una istruzione/educazione di alta qualità, garantiscono allo Stato – in virtù di una gestione economica accorta ed efficiente- un risparmio pari a circa 6 miliardi di euro l’anno! E’ dunque evidente, impostato così il problema, che ogni opposizione alla libertà di scelta educativa ha un sapore ottusamente ideologico e conseguenze negative per tutti sotto molteplici profili.
D: Gli interventi per il diritto allo studio, che sono di competenza regionale, non fanno distinzione di trattamento tra alunni di scuole statali e paritarie.
Potrebbe essere questa la strada per venire incontro alle maggiori spese dei genitori che scelgono la scuola paritaria? R: Certamente gli interventi regionali per il diritto allo studio possono e devono contribuire a favorire la libertà di scelta educativa, ma non possono essere gli unici.
Occorrono anche provvedimenti legislativi nazionali che garantiscano una base di uniformità per quanto riguarda i finanziamenti alle scuole (e/o alle famiglie) in tutto il paese, sennò si rischiano quelle difformità macroscopiche che già esistono.
Per es.
in Lombardia c’è la Dote scuola che è un importante passo in avanti in questo senso, ma in tantissime altre regioni non c’è quasi nulla, se non esigui rimborsi per chi ha un reddito ISEE al limite della sussistenza (€ 10.633 !!), indipendentemente dal fatto che i figli frequentino scuole statali o paritarie.
Le stesse leggi sul diritto allo studio, così, attribuendo le medesime provvidenze economiche a tutti, producono una grave discriminazione, dimenticando che chi sceglie la scuola paritaria paga due volte ( nelle tasse e con la retta), mentre chi sceglie la scuola statale no.
Anche in questo caso, servirebbe un approccio al problema meno dettato da valutazioni ideologiche e una informazione più chiara, mentre in realtà, ove si tenta (come in Lombardia) di sanare almeno in parte questa discriminazione, si scatenano proteste strumentali a non finire.
D: Che cosa pensa della detraibilità fiscale delle spese sostenute dai genitori che iscrivono i loro figli alle scuole paritarie? R: E’ uno strumento intelligente e facilmente realizzabile, che rientrerebbe a pieno titolo nelle politiche a sostegno della famiglia di cui tanto si parla ma su cui ancora poco si opera…
Tra l’altro, aggirerebbe anche le obiezioni di chi si oppone risolutamente al finanziamento diretto alle scuole in virtù del mal interpretato art.
33 della Costituzione.
Occorre però aggiungere due nota bene: 1) sarebbe necessario un livello di detraibilità fiscale più sostanzioso di quelli mediamente riconosciuti per altri settori, che è pari al 19%; 2) non può essere l’unico strumento per favorire la libertà di scelta educativa ma dovrebbe far parte di un mix di strumenti che tutti insieme realizzino una piena parità economica tra scuola statale e paritaria.
D: L’ipotesi più radicale è che a tutti i genitori venga dato un buono studio, corrispondente a un costo standard calcolato a livello nazionale, spendibile indifferentemente nelle scuole statali e in quelle paritarie.
Che cosa ne pensa? R: Sarebbe bello, ma pensiamo che non sia facilmente realizzabile in questo momento.
Occorre, inoltre, tenere conto delle differenze regionali e locali di distribuzione della ricchezza e del reddito, che incidono in misura diversa sulle potenzialità di spesa delle famiglie e sui costi delle scuole .
Bisognerebbe quindi prevedere anche dei correttivi in tal senso.
Per questo insistiamo sul mix di strumenti.
D: Nelle ultime settimane si è parlato spesso della costituzione di albi regionali degli insegnanti abilitati, dai quali le istituzioni scolastiche autonome, statali e paritarie, possano attingere direttamente, scegliendo, senza rigidi vincoli, i docenti migliori.
Rispetto all’obiettivo di qualificare l’offerta formativa delle scuole, quali elementi positivi o negativi ritiene che abbia la proposta? R: La nostra esperienza e la riflessione sull’esperienza stessa ci portano ad affermare che la possibilità di scelta autonoma del personale docente è una condizione imprescindibile per realizzare una vera autonomia delle istituzioni scolastiche (statali e non) ed innalzarne la qualità, poiché i docenti sono davvero un punto chiave del sistema di istruzione.
Senza questa possibilità, i dirigenti delle scuole statali si troveranno sempre con uno strumento spuntato fra le mani, un’autonomia monca…Non ci interessano tanto gli albi regionali in se stessi, quanto la possibilità di stabilizzare il corpo docente e soprattutto quella di sceglierlo (o rimuoverlo quando non è all’altezza).
Questo sarebbe, tra l’altro, un passo importantissimo anche in ordine ad una valorizzazione della categoria professionale degli insegnanti, che finalmente potrebbero proporsi per le loro effettive competenze, e non in base ad anonime e fuorvianti graduatorie.
D: Nelle settimane scorse è stata avanzata la proposta di definire graduatorie regionali che, rispetto a quelle attuali, dovrebbero introdurre nuovi requisiti finalizzati ad assicurare maggiore stabilità dei docenti.
La maggiore rigidità che conseguirebbe dalla proposta può assicurare maggiore qualità al servizio? Se sì, sarebbe opportuno che venisse estesa anche alle scuole paritarie? R: Come accennato prima, la necessità di dare una stabilità al corpo docente statale, soggetto ogni anno ad un controproducente balletto delle cattedre, è fuori di dubbio.
Però questa dovrebbe essere unita anche ad una effettiva possibilità per i dirigenti di sollevare dall’incarico chi non è adeguato: proviamo a immaginare cosa significa doversi tenere per almeno 4-5 anni un docente che non combina nulla o, peggio ancora, crea dei danni psicologici e formativi (e casi così, purtroppo, non sono rari…).
Questa è la situazione attuale di quei dirigenti statali che hanno insegnanti di ruolo inamovibili ma deleteri per l’istituzione scolastica…
Allora: stabilità per chi vale, ma senza la rigidità attuale, perché la qualità del servizio è assicurata innanzitutto dalla qualità del docente, e quando questo è davvero capace la scuola ha tutto l’interesse a tenerselo…
Quanto alle scuole paritarie, la situazione è diversa; l’autonomia di arruolamento è già effettiva e non mi pare proprio sia necessario apportare modifiche.
Come si dice: “squadra che vince non si cambia”…
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